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Annali di architettura

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Annali di architettura

Annali di architetturarivista fondata da André Chastel

Direttore Fernando Marías

Comitato di redazioneJames S. AckermanGuido BeltraminiHoward BurnsFrancesco Paolo FioreChristoph L. FrommelPierre GrosJean GuillaumeFernando MaríasSilvia MorettiChristof Thoenes

RedazioneIlaria Abbondandolo

Editing Francesco Brunelli

ImpaginazioneLaura Ribul, Studio Bosi, cdf-ittica.it

In copertina, “La excelencia sedentaria de lo clásico”. Antonio Gilabert, chiesa della Natività (1767-1777) a Turís, Valencia.Fotografia di Joaquín Bérchez, 2006

Pubblicazione annualePrezzo di un numero € 45,00

Stampato in Italia© Copyright 2016Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladiowww.cisapalladio.org

Realizzazione Marsilio Editori® s.p.a.www.marsilioeditori.it

isbn 978 88 317 2572 9Tutti i diritti riservati

27 2015Annali di architetturaRivista del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio

CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI DI ARCHITETTURA ANDREA PALLADIO

Fondazione

Soci fondatoriRegione del VenetoProvincia di VicenzaComune di VicenzaCamera di Commercio Industria Artigianato Agricoltura di VicenzaAccademia Olimpica

Soci partecipantiFondazione Giuseppe RoiFASE SpA

Soci sostenitoriRoberto CoinConfindustria Vicenza - Sezione Costruttori EdiliDaineseFiera di VicenzaGemmoImpresa Costruzioni GiuseppeMaltauroLaboratorio Morseletto Zambon Company

Sostengono progetti specialiBanca Popolare di VicenzaFondazione CariveronaInvestcorpKanders&Company

PresidenteLino Dainese

Consiglieri di amministrazioneAntonio Franzina, vicepresidenteRoberto DitriCorinna GemmoAnnalisa LombardoAntonio ZaccariaMassimo Zancan

Revisori dei contiGiorgio Baschirotto, presidenteMarialuisa CapitanioFrancesco Melendez

Consiglio scientificoHoward Burns, presidenteJames S. AckermanNicholas AdamsFranco BarbieriDonata BattilottiAmedeo BelluzziMatteo CerianaGiorgio CiucciJean-Louis CohenJoseph ConnorsCaroline ElamFrancesco Paolo FioreKurt W. ForsterChristoph L. FrommelLuisa GiordanoPierre GrosJean GuillaumeHubertus GüntherDeborah HowardElisabeth KievenDouglas LewisFernando MaríasPaola MariniGülru Necipog luArnold NesselrathAlessandro NovaWerner OechslinPier Nicola PagliaraSusanna PasqualiMario PianaFernando Rigon ForteGiandomenico RomanelliDmitry O. ShvidkovskyChristof ThoenesVitale Zanchettin

DirettoreGuido Beltramini

Segreteria amministrativa Nicoletta Dalla RivaSabrina Padrin

Segreteria culturale e collezioni Ilaria AbbondandoloElisabetta MichelatoDaniela TovoconAntonio Carradora Ambra CasconeGiulia Lombardi

Segreteria organizzativaMarco Riva

Sistemi informaticiSimone Baldissini

Gestione tecnica del palazzoSimone Picco

Sommario

9 Guido Beltramini Scamozzi 400 anni: una conversazione con Franco Barbieri

17 Werner Oechslin Scamozzi, “Vitruvio della nostra età”: il sapere dell’architetto e la “scientia” architettonica universale, “… perché lei sola abbellisse il Mondo tutto” 31 Katherine Isard Vincenzo Scamozzi in the World of Books

47 Hubertus Günther Vincenzo Scamozzi comments on the architectural treatise of Sebastiano Serlio

61 Margaret Daly Davis Vincenzo Scamozzi and the antichità di Roma: purposeful reading, systematic recording

73 Wolfgang Lippmann La conoscenza dell’Antico di Vincenzo Scamozzi. Studi e approfondimenti alla luce di nuove ricerche su alcuni testi inediti e manoscritti perduti dell’architetto vicentino

81 Deborah Howard Scamozzi’s Discorsi sopra l’Antichità di Roma (1581, sic) and their possible connection with the Barbaro family

89 Konrad Ottenheym Some obscured sources for Scamozzi’s system of the Five Orders

97 Mario Piana San Nicola da Tolentino fra trattato e cantiere

107 Massimo Bulgarelli Il “levare per consiglio nostro”. Vincenzo Scamozzi e le cupole di Santa Giustina a Padova ne L’Idea della Architettura Universale

115 Paola Placentino L’Idea della Architettura Universale e i progetti per i procuratori di San Marco de supra

121 Macarena Moralejo Ortega La nozione di idea nei testi a stampa dalla seconda metà del Cinquecento a metà Seicento: gli autori, i temi e il loro rapporto con L’Idea della Architettura Universale di Vincenzo Scamozzi

127 Fernando Marías José Riello La fortuna de Vincenzo Scamozzi en España

137 Abstracts

139 Profili

141 Notiziario del CISA Andrea Palladio

del seminario internazionale “Scamozzi e i libri” tenutosi a Vicenza lo scorso 12-13 giugno, inte-grati da contributi originali che Franco Barbie-ri, Hubertus Günther, Katherine Isard, Werner Oechslin hanno elaborato in occasione della mo-stra Nella mente di Vincenzo Scamozzi. Un intellet-tuale architetto al tramonto del Rinascimento (Pal-ladio Museum, 25 maggio - 20 novembre 2016), realizzata grazie alla collaborazione del Cana-dian Centre for Architecture e della Stiftung Bi-bliothek Werner Oechslin. Delle opere esposte in mostra rende ragione il fascicolo pubblicato in allegato a questo numero degli “Annali”.

Questo numero di “Annali di architettura” è dedicato a Vincenzo Scamozzi (1548-1616) nel quarto centenario della sua morte, in continuità con il n. 18-19 del 2006-2007 che aveva offerto ospitalità agli esiti della giornata di studio inter-nazionale sull’“Eredità europea dell’Idea della Architettura Universale” tenuta all’Istituto Uni-versitario Olandese di Storia dell’Arte di Firenze il 1° dicembre 2005.Oggi pubblichiamo gli studi più aggiornati sul tema della formazione di Vincenzo Scamozzi e del suo modo di raccogliere, organizzare e tra-smettere le conoscenze. Essi sono in parte frutto

Scamozzi e i libri

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fondazione all’interno di una stessa fabbrica, le metodiche sconnessioni murarie tra setto e set-to, i molteplici legamenti metallici di unione tra membrature verticali e orizzontali1. Troppa, per venire prontamente accettata e assimilata senza resistenza alcuna, la distanza tra una forma mentis plasmata sull’osservazione delle vestigia antiche e una prassi che puntava a perseguire il generale mantenimento dell’equilibrio non tanto median-te la ricerca della massima rigidità della fabbrica, quanto tramite una programmatica deformabilità delle sue parti. La diffidenza nei confronti di pro-cedure edilizie per molti aspetti difformi ed estra-nee al comune senso costruttivo e più in genera-le di una concezione edificatoria percepita come aliena, peraltro, non viene quasi mai apertamente dichiarata. L’attrito tra l’architetto edotto delle ra-gioni dell’operare, di carattere universale, e il pra-tico che agisce sine scientia serpeggia sotterraneo per tutto il XVI secolo, con percorsi per lo più carsici, talora appena affioranti.

Lo scontro, però, alle volte emerge con evi-denza palmare, come nel caso dell’edificazione della chiesa di San Nicolò da Tolentino (ill. 1).

La vicenda è nota2. Alla metà del 1590 Vin-cenzo Scamozzi “architetto di questa Città et amorevole di casa” fu incaricato dai Teatini

di regger et ordinar essa fabrica, et commandare a tutti li Capi Mastri di essa per operare quelle cose ch’a fedele, et intendente Architetto si convengono sin’al’ ultimo finimento di essa […] ma principal-mente come offitio suo particolare […] vedere spesse volte le palificationi, che si faranno per essa, acciò li fondamenti et poi le mure, et altre cose siano ferme et sicure per reggere tutta la fabrica3.

Con cerimonia solenne nel novembre 1591 si pose la prima pietra del nuovo edificio, ma, a seguito di una dura polemica con i committenti che lo incolpavano di aver eseguito malamente le opere di fondazione, nei primi mesi del 1595 l’architetto venne estromesso dal cantiere.

Dalla responsio vergata da Scamozzi, la scrittura difensiva destinata al collegio degli arbitri contem-plato nel contratto d’incarico4, emerge con evi-denza che gli attriti con i Teatini si erano innescati fin dalle prime fasi del cantiere. Un “primo pilla-stro fatto già quattro anni secondo i miei ordeni”, scrive Scamozzi, impostato su un buon terreno, dotato di una palificata ampia quanto l’intera area d’appoggio e di due strati incrociati di madieri, murato con materiali in prevalenza di nuova for-nitura con malta di calce e sabbia5, venne da padre

Con l’avvio dell’età moderna a Venezia perdurò a lungo il conflitto tra distinte visioni edificatorie, tra la sperimentata pratica collettivamente posse-duta dai proti e dalle maestranze locali e il sentire costruttivo dei fautori della nuova architettura, permeati di cultura antiquaria.

I formidabili ostacoli posti dal sito lagunare, e in particolare le pessime qualità di resistenza meccanica dei suoli paludosi, avevano prodotto un complesso di fabbriche dai caratteri per molti aspetti singolari. Nell’impossibilità di eliminare cedimenti differenziati tra le singole ossature mu-rarie fu giocoforza convivere con esse, obbligan-do ad applicare una serie di avvertenze ed espe-dienti peculiari tali da consentire alla fabbrica di assorbire senza danno gli inevitabili cedimenti differenziati, quali la diversificazione dei massi di

Mario Piana San Nicola da Tolentino fra trattato e cantiere

1. Venezia, chiesa di San Nicola da Tolentino.

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sulle membrature di piedritto e su alcuni volti del-le cappelle – provocate dallo sbandamento subìto dal primo maschio di fondazione del fianco della chiesa nel momento in cui si pose mano allo sca-vo per avviare la costruzione della facciata – spin-se i committenti a interrompere il rapporto con l’architetto. Dissesti che Scamozzi attribuì alla responsabilità dei committenti, i quali, in sua as-senza e contrariamente agli ordini da lui impartiti, avevano avviato lo scavo per la facciata senza pre-occuparsi di puntellare la fondazione adiacente, accumulando la terra nelle cappelle11.

A testimonianza dell’efficacia delle scelte compiute nella fabbrica dei Tolentini, nella re-sponsio, Scamozzi cita alcune sue precedenti espe-rienze professionali. Oltre alla padovana chiesa e monastero di San Gaetano (eretti però su un suolo ben diverso da quello lagunare) rammenta quanto operato nella chiesa della Celestia, con fondazioni di analoga scarpa, con medesimi ar-chi sotterranei impostati tra l’uno e l’altro pila-stro “et con buone malte di calcina e sabioni”, e in “tante altre fabriche in altri luoghi da me ordinate con molto risparmio della spesa, le qua-li tutte si sono mantenute et conservate illese”12, richiamando inoltre fondazioni da altri realizzate e dimostratesi efficaci, come quelle della Libreria Marciana, aventi la stessa inclinazione di scarpa da lui prescelta e murate con “buone malte”13. Qualche anno dopo preciserà ne L’Idea che “per consiglio nostro si sono fondate, e le fabriche delle due Piazze, et il Ponte di Rialto, e molte altre, e tutte con buonissime malte di calcina Padovana, e sabbia”14; legante, a differenza del-la normale calce aerea, capace di sviluppare una pronta presa subacquea, e dunque in grado di imprimere una marcata solidità ai corpi fondali15. In altra parte del trattato verrà ripetuta la con-danna dell’impiego della tera da savon. Posto a chiusura dei cinque capitoli de L’Idea dedicati alle fondazioni16 – e cadendo alquanto fuori contesto rispetto all’articolazione delle argomentazioni in essi contenute – il passo contenente il biasimo verso tale sostanza potrebbe costituire un’addi-zione a un testo in sé compiuto, un supplemento stilato per ribadire le convinzioni del trattatista scaturite dalla sua disavventura professionale. Scrive l’architetto:

Non si può lodare l’opinione di coloro, che usano di far le fondamente sopra le palificate delle fabri-che di qualche importanza qui in Venetia murate, molte volte di pezzami, d’ogni sorte, e con malte fatte con terra di Sapone; […] che tiene una mi-nima parte di calcina, e poi mista con un poco di altra calcina, credendo essi, che ella resista molto bene al salso dell’acqua, del che s’ingannano gran-demente […].

Lo sostiene Vincenzo Scamozzi sull’esempio di molte opere marittime dell’antichità presenti nei territori laziali, campani, pugliesi e siciliani17, precisando con puntiglio che la resistenza delle loro cementazioni non va attribuita alla “forza

Gregorio – incaricato dall’Ordine a soprintendere la fabbrica – messo in discussione quanto a forma, modalità esecutive e materiali impiegati. Di tale nucleo fondale si giudicò insufficiente l’inclina-zione impressa alla scarpa, venne criticata la for-mazione di archi sotterranei tra l’uno e l’altro pi-lastro destinati al sostentamento dei gradini e del muro di fondo delle cappelle, considerata ecces-siva l’area di palificazione, errata, soprattutto, la tecnica di murazione, che – rigettando il consueto impiego di tera da savon – era stata condotta con malta di calce e sabbia, impiegando laterizi in gran parte di nuova fornitura. Anni dopo, nel trattare la questione delle fondazioni, Vincenzo Scamoz-zi risulterà ancora più categorico, ricordando che il primo pilastro dell’edificio sacro fu “murato di buonissime pietre nuove, poste in malta retratta”6. Scelte che condussero, secondo i committenti, a una spesa eccessiva7.

Rifiutando di proseguire l’opera di fondazio-ne secondo quanto già realizzato i Padri – lamen-ta Scamozzi – imposero di

minuir le pallificate, et murar con calcine et terra di savon, asserendo di haver tolto ancho il parere et conseglio d’altri, et essere così rissolutissimi di fare, et che io dovessi haver patientia, delle quali cose li protestai in casa loro, con la presenza de mistro Giacomo Gallina all’hora muraro dell’ope-ra, ma non ostante questo hanno voluto far esse fondamente, et pillastri de ogni sorte de pezzami, et rotami; come si può vedere in tutto differenti dal primo […]. Ma dicendo il loro assistente che non volevano seguitare con quella spesa del primo pillastro affermando di haver havutto ancho il pa-rere d’altri, et però bastava a pallificare solamente sotto ad essi a diritto del peso delle mura sopra ter-ra et mettere poi per tutto maggeri incrociati per-ché […] sopra li rij et non fra terra si suole pallifi-care. Io che non havevo da littigare con essi sopra a questo et che bastava a me di proporre, ordinare e persuadere il bene havendole già mostratto con parolle et con proprij fatti, quello che si doveva fare, non ho, né potuto, né dovuto in altra maniera impedire l’elletione et propria volontà loro8.

Ovviamente diversa è la versione dei Padri che nella loro risposta sottolineano:

[…] quanto al fabricar con sabioni o terra da sapo-ne si siamo rimessi sempre a detti maestri et Sca-mozza, il quale doppo haver intesa la mala sotisfa-cione di tutta la città et il mormorar che facevano li mastri et tutti quelli dell’arte, che egli havesse fabricato sotto terra con sabione, al contrario di quello che era stato osservato ab antiquo, et tutta via si osserva in questa città, finalmente si remesse, contentandosi che si adoperasse la terra di sapone9.

Scamozzi, sia pure obtorto collo, dovette adeguar-si alla volontà dell’Ordine. L’opera di fondazione proseguì, palificando solamente in corrispon-denza dello spessore degli spiccati murari, forti-ficando il resto dell’area con un doppio strato di madieri incrociati e impiegando “pezzami et terra di savon”10. Fino a quando l’apparizione di lesioni

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quali, in Venetia tanto, si butta acqua di Brenta, la qual lambicca a basso, et viene in altre fosse sotto quelle diventando forte per vigore delle ceneri26.

Masse dure, dall’aspetto vetroso, nere all’esterno e grigiastre all’interno27, le ceneri erano prin-cipalmente composte da sostanze carboniose e carbonati di calcio e sodio. Una volta macinate venivano nella proporzione di due a uno misce-late alla calce viva e all’acqua, per intensificare la loro causticità28: nella liscivia la calce sottraeva l’acido carbonico alle ceneri, producendo carbo-nato di calcio29. Il liquido così ottenuto, separato dalla massa residuale, era pronto per essere unito all’olio d’oliva, a Venezia materia principe della produzione saponaria. La città tra basso medio-evo e prima età moderna non aveva rivali in quel campo dell’industria manifatturiera. Il suo perio-do più florido sembra collocarsi a cavallo tra XVI e XVII secolo, quando la produzione di sapone superò i tredici milioni di libbre30. Se si conside-ra che alla fine del Cinquecento si valutava che per ottenere 18.000 libbre di sapone servissero 4.500 libbre di ceneri31, si evince che la quantità di calce necessaria (un terzo delle ceneri, come si è visto) ammontasse a 1.500 libbre, pari a un dodicesimo del prodotto finale. Tredici milioni di libbre di sapone, dunque, comportavano uno scarto annuale di terra da savon stimabile in poco meno di 2.000 metri cubi annui32.

Un volume di materia così elevato doveva cre-are non pochi problemi di smaltimento, in una città dove le magistrature preposte esercitavano un’attenta vigilanza per scongiurare che, anche per le discariche abusive di materiali di scarto, i rii, i canali e le stesse plaghe lagunari subissero riduzioni di portata o impaludamenti di sorta. In buona parte tali residui furono vantaggiosamen-te riciclati nel settore delle costruzioni. Stimato un ipotetico volume medio di una quindicina di metri cubi a nuova fabbrica, la quantità di feccia prodotta a fine Cinquecento poteva soddisfare la necessità annuale di più di 130 cantieri33. Certa-mente sovrabbondanti per le necessità della pro-duzione edilizia, gli scarti dell’industria saponaria vennero utilizzati anche nelle fosse di sepoltura34 e, sia pure saltuariamente, nella formazione dei pozzi lagunari35.

La mera disponibilità della terra da savon, tut-tavia, non basta a spiegare il suo impiego nelle fondazioni delle fabbriche veneziane: per quan-to si sa, nelle altre aree peninsulari o europee, dove era fiorita la manifattura del sapone, non risulta essere mai stata utilizzata a tale scopo36. Quali sono allora i motivi che hanno indotto le maestranze locali a reputarla adatta per le opere di fondazione? Le ragioni vanno ricercate nelle specifiche condizioni del sito lagunare, e indivi-duate nella volontà di assecondare, fin dalle pri-me fasi di erezione, il progressivo assestamento della fabbrica.

È sempre Vincenzo Scamozzi a offrirci, in tal senso, alcuni indizi in una lunga annotazione ste-

della Pozzolana”, poiché altri porti peninsula-ri ed istriani della sponda adriatica, murati con malte di calce e sabbia, si sono anch’essi conser-vati per secoli e secoli18. Il passo si chiude con un’invettiva:

E all’incontro le fondamente fatte con terra di Sa-pone, e di quella maniera ch’essi sanno: con questo poco di civanzo della spesa, ne segue uno abuso dannosissimo introdotto già molto tempo da per-sone poco intendenti; e però dicano quello che vogliono, non fanno alcuna presa: intanto si dee levar del tutto, essendo di manifestissimo danno, e rovina delle fabriche di questa Città19.

Un quesito a questo punto si pone circa la natu-ra, le proprietà e le ragioni dell’uso di tale mate-ria, così drasticamente condannata dall’architet-to vicentino.

Impiegata a Venezia nella formazione dei massi fondali la tera da savon appare con una cer-ta frequenza nelle carte di fabbrica a partire dal secondo Quattrocento – è la prima testimonian-za a noi nota – con il cantiere della nuova chiesa di San Zaccaria20. Di primo acchito l’ipotesi più ovvia spingerebbe a identificarla con la terra sa-ponaria, conosciuta anche come terra da follone o argilla smectitica, che fin dall’antichità è stata utilizzata quale detergente nella fase di sgrassa-tura e infeltrimento dei panni di lana21. Supposi-zione rafforzata dal Dizionario del dialetto veneto: la “tera da garzarìa”, scrive Boerio, assimilandola alla tera da saoneri, “serve appunto per terra di purgo o saponaria all’uso di disungere i panni”22. Alcune testimonianze, però, indirizzano ad altro. È proprio Vincenzo Scamozzi, in un capitolo de L’Idea dedicato alle fondazioni, a indicare la na-tura della “terra di Sapone; cioè di quella materia terrosa, la quale è avanzata dopo fatto il Sapo-ne, che tiene una minima parte di calcina”23. Il brano appare sufficientemente chiaro: la terra da savon non può che essere una materia residuale derivante dalla produzione del sapone. Gli scritti del passato dedicati alla sua produzione, tutta-via, non accennano all’uso di qualsivoglia terra o argilla; quando essa appare è perché essa veniva abusivamente usata quale eccipiente per adulte-rare il sapone, frode a Venezia contrastata con ripetuti proclami e divieti24. Di altra sostanza, dunque, deve trattarsi.

Il sottoprodotto di gran lunga più consistente derivante dalla preparazione del sapone era co-stituito dal residuo delle ceneri alcaline, che ve-nivano unite ai grassi animali o agli oli vegetali, in particolare a quello di oliva. Ceneri di soda, ottenute dalla combustione delle salsole25, che, come ci informa Tomaso Garzoni nella Piazza universale, provenivano da

Baruti, che son le prime, cosi le Tripoline, che son le seconde, et le terze di Ponente, e massime d’A-licanti in Spagna. Hor queste ceneri s’incorporano da maestri con la calcina viva bianca in cogoli, la qual divien come fava mesciandola, et si mette in quelle fosse, che sono incontra le caldare, sopra le

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dendo essi”, il riferimento è alle maestranze lo-cali, “che ella resista molto bene al salso dell’ac-qua”)41. Dal commento si può inoltre arguire che per Vincenzo Scamozzi la terra da savon fosse onnipresente nelle fondazioni veneziane, e che il suo impiego (“per lungo uso et [a]buso”) risalis-se a tempi remoti42. Che il materiale – continua l’architetto – fosse incapace di opporre resistenza all’aggressione salina lo dimostra il degrado sof-ferto dalle “fondamente” prospicienti rii e canali, profondamente erose nelle malte di allettamento (“essendo scavato nelle commissure tutta la ma-teria”). L’argomentazione non viene ripresa nel già menzionato passo de L’Idea. Scamozzi, nello stendere l’addizione al testo a stampa dev’essersi accorto che tale osservazione era passibile di faci-le smentita: poiché la murazione dei massi fonda-li con terra da savon si doveva limitare – come si vedrà – alla loro fascia inferiore inglobata nel ter-reno, l’erosione delle “commissure” tra blocchi non poteva che riguardare gli allettamenti realiz-zati con quelle malte di “calcina e sabion” da lui strenuamente difese. Uguale sorte è toccata alle righe finali dell’annotazione stilata sul Barbaro, non risultando la considerazione relativa all’ap-parizione di efflorescenze saline sui selciati della Piazza pertinente al suo ragionamento. Respin-gendo poi il fatto che la sostanza potesse legare o interagire positivamente con la calce, come la sabbia o la pozzolana, essa viene indicata come “terra ontuosa e grassa”. Tali aggettivazioni ci se-gnalano innanzitutto la sua plasticità, certamente dovuta alla dimensione micrometrica dei clasti e alla presenza dell’acqua; un materiale pseudoco-erente, dunque, le cui caratteristiche meccaniche dovevano essere prevalentemente determinate dalla coesione fra le particelle influenzata dal suo stato di idratazione. Una consistenza che doveva essere simile a quella delle argille e che rende ra-gione del termine terra usato per definirla.

Ma è anche possibile che gli aggettivi indicas-sero la presenza di una certa quantità della feccia d’olio d’oliva che facilmente veniva gettata accu-mulandola assieme ai residui esausti delle ceneri. Se così fosse – in questo caso il condizionale è d’obbligo – si potrebbe individuare un’affinità di comportamento tra la terra da savon, quando ad-dizionata alla calce, e la cosiddetta malta (anche mastice o stucco) da fontanieri, un miscuglio di calce aerea, polveri lapidee, laterizie e, talvolta, vetro polverizzato e altre sostanze, cui si addi-zionava olio di lino, utilizzato fin dall’antichità per impermeabilizzare i giunti dei condotti d’ac-qua43. È ancora una volta Vincenzo Scamozzi che, relativamente all’area veneta, ne segnala composizione e specifico uso44, più tardi confer-mato dalla trattatistica italiana45 e d’oltralpe46. Le sostanze oleose presenti nelle malte da fonta-nieri, oltre che a imprimere loro un certo grado d’impermeabilità, rallentavano la presa del le-gante, con effetto benefico, poiché la dimensione dei cristalli di calcite è influenzata dalla veloci-

sa sulla copia da lui posseduta dei Commentari di Daniele Barbaro37 (ill. 2). La maggior parte delle postille e note sul volume risalgono al 157438; è quasi certo, però, che questa risalga a tempi più tardi e che sia stata vergata a seguito della que-relle con i Teatini: si tratta probabilmente di un primo appunto (annotato sull’edizione vitruvia-na consultata per trarre argomenti a suo favore) che dev’essere servito alla stesura del sopra citato passo finale del capitolo settimo dell’ottavo libro de L’Idea39. Ductus e inchiostro appaiono alquanto diversi dalla maggior parte delle restanti postille e note, l’insolita lunghezza del testo, i riferimen-ti alle opere portuali dell’antichità (permangono fondati dubbi sul suo primo viaggio a Roma ipo-tizzato tra il 1568 e il 1569, mentre è certo un suo prolungato soggiorno romano tra l’ottobre del 1578 e il maggio del 1580), il fatto che l’ar-chitetto abbia posto mano alle sue prime opere veneziane solo all’inizio degli anni Ottanta del Cinquecento e soprattutto il suo contenuto sono altrettanti indizi che depongono in tal senso.

L’annotazione, considerato il suo interesse, si riporta per intero40:

Quanto sia sinistra oppinione de quelli, che per lun-go uso, et buso vogliono, che nelle fondamente delle fabriche di Venetia si mescoli calcina, et terra come dicono di sapone (cioè feccia del sterco, che per far esso s’adopera) per che lungamente si conservi e sé, et la fabrica dal salso. La ragione secondo l’esperien-tia, et il discorso naturale ci fa conoscere il contra-rio, poscia che no è vero, che si conservi dal salso poi che tutte le fondamente ancor che ne’ canali, o rij morti fano rovina manifestissima essendo scava-to nelle commissure tutta la materia. In quanto alla presa essendo essa terra ontuosa et grassa per ragione non può fare attraentia ne virtù alcuna della calcina come la sabbia, la pozzolana, et altre terre. Ma all’in-contro tutto il contrario. Che queste siano migliori si vede le fabriche ne’ altri mari da noi osservate come al porto di Claudio, di Traiano, d’Anzo, di Netuno, terracina, Gaetta et Pozzolo tutti di queste materie sabbia o pozzolana, ancor che nelle onde del fluto del mare sin tanti anni conservarsi. Et di gran lunga s’inganano questi se dicono che la calcina con sabia non faccia presa nelle fondamente poi che vediamo nella piazza di san Marco, et altrove i selicciati vec-chi conservarsi le comissure fatte di calce e sabbia, et più tosto scavarsi il mattone tutto che appertamente si veda che tenghino del salso, il che si conosce al senso, quando nella primavera et nell’autuno doppo una pioggia subbito il sole asciuga et si colze [?] la superficie, allora appare il sallle o salza su [?].

Nel fornire un’ulteriore conferma circa la natura della terra da savon (“feccia del sterco” non può significare altro che il residuo del composto “che per far esso [sapone] si adopera”), la nota mira a confutare l’opinione di quanti la ritenevano ca-pace di conservarsi a lungo, reputandola in gra-do di resistere più delle normali malte di calce e sabbia all’azione disgregatrice dell’acqua salina (opinione stigmatizzata anche nel trattato: “cre-

2. Annotazione di Vincenzo Scamozzi su una pagina di guardia dei Commentari di Daniele Barbaro (Biblioteca Vaticana, Cicognara, IV, 718).

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Scamozzi) solo una modesta quantità di legante aereo o leggermente idraulico. Materiale di de-bole presa, dunque, e alquanto duttile; e in tale condizione doveva conservarsi anche a fondazio-ni concluse.

Lungi dal costituire una condizione sfavorevo-le, la plasticità della terra da savon consentiva al masso sotterraneo di assorbire parte degli assesta-menti dei terreni indotti dal progressivo aumento di carico trasmesso dall’edificio in crescita50, in ciò collaborando con le sottostanti opere preparatorie alla formazione dei massi fondali. Le palificate, gli zatteroni, o anche i semplici strati di frammenti lapidei e laterizi stesi sul fondo dello scavo, infat-ti, via via caricati perdevano la loro iniziale com-planarità, qui e là deformandosi in ragione delle variabili resistenze puntualmente opposte dai ter-reni sottostanti, riuscendo così a ridistribuire van-taggiosamente il peso della costruzione.

L’allettamento con tera da savon doveva pro-babilmente essere circoscritto alla parte inferiore del masso fondale e, nel caso di opere prospi-cienti le vie d’acqua, limitato alla fascia immersa nel terreno. Le carte di fabbrica tacciono in tal senso, salvo un paio di casi a noi noti risalenti al XVII secolo, entrambi redatti da Baldassarre Longhena, il primo inerente a una ruga di case da costruirsi a San Giorgio dei Greci, il secondo alla costruzione del convento contiguo alla chiesa della Salute. Ambedue accennano solamente alla doppia procedura di murazione delle fondazioni:

far tutte le fondamente […] lavorando parte di esse in tera da savon et parte malta con sabion51; far tut-te le fondamente sarà bisogno sotto dette muraglie et sotto le collone del cortil […] fatte parte a malta con tera da savon et parte in malta a sabion52.

Sia pure in assenza di prove o riscontri derivanti da osservazioni dirette, è ragionevole immagina-re che il primo tratto del masso murario, impo-stato sui tavolati delle palificate o degli zatteroni, venisse murato con terra da savon e che la malta di calce e sabbia venisse riservata alla costituzio-ne della fascia superiore della fondazione. Per al-tra via del resto – relativa alle cisterne veneziane – sappiamo che un’analoga sovrapposizione dei materiali cementanti veniva praticata nella co-struzione della canna dei pozzi. Una descrizione risalente al 1860, ad esempio, riferisce che questa si costruiva “con mattoni pozzali di giusta cottu-ra” uniti con “argilla euguale a quella che serve a tappezzare la vasca, ma commista con sabbia, ordinariamente nella proporzione di due ad uno”53; ugualmente la camicia, un secondo anello murario che avvolgeva la canna, veniva murata utilizzando lo stesso impasto54. La parte di canna montata “col cemento a base d’argilla” si limita-va “a soli tre quarti all’incirca dell’altezza”; oltre tale quota si procedeva murandola con “cemento ordinario di calce idraulica e sabbia fino al livel-lo del pavimento superiore”55. La testimonianza dell’uso della creta, certamente redatta in un’età tarda, ma scaturita da una tradizione ancora del

tà con la quale avviene la ricarbonatazione. Più lento è il processo e più è ragguardevole la loro grandezza media; tanto maggiore è la dimensio-ne dei cristalli quanto migliore infine risultano la tenacità e la resistenza della malta. Se nella terra da savon fosse stata presente una frazione oleo-sa, dunque, un certo prolungamento del lasso di tempo nella presa iniziale della calce (che come è noto prosegue poi, sia pure molto rallentata, per anni e anni) avrebbe in parte compensato la ri-dotta quantità del legante presente nella miscela.

Chiamando a testimone un gruppo supersti-te di opere marine del mondo antico, Scamozzi dichiara inoltre che “di gran lunga s’inganano questi se dicono che calcina con sabia non faccia presa nelle fondamente”. Affermazione fondata se riferita alle malte nelle quali concorre la poz-zolana, capace di idraulicizzare la calce, consen-tendone un’ottima presa subacquea; affermazio-ne che conserva parte della sua validità, se riferita alla calce padovana, legante di natura leggermente idraulica, ma anch’esso capace di sviluppare una frazione significativa di presa immerso in acqua. Asserzione discutibile, però, se relazionata alle malte delle fabbriche veneziane composte di sola calce aerea e sabbia. La formazione dei massi fon-dali richiedeva un complesso e oneroso sistema di opere preliminari: ture in legno impermeabilizza-te con argilla, poste a contenimento delle pareti dello scavo e a contrasto delle invasioni d’acqua, che imponevano un continuo e defatigante lavorio per conservare l’area all’asciutto. Giorno e notte gruppi di bastasi (facchini) si davano il cambio per aggottare le infiltrazioni d’acqua, con secchi, o, talora, con l’ausilio di pompe a stantuffo. Pare evidente che, per evitare il prolungamento di tale onerosa operazione, terminata l’opera nel sotto-suolo, lo scavo venisse colmato quanto prima47. Il terreno, immediatamente permeato dall’acqua salmastra, impediva allora il contatto tra la calce e l’aria, ostacolando il processo di presa. Non com-pletamente ricarbonatate, le malte conservavano una certa plasticità, che doveva essere ancora più marcata nel caso d’utilizzo della terra da savon48. Il residuo della preparazione delle liscivie causti-che, infatti, era composto da idrossido di calcio, acqua e dai componenti di quanto rimaneva delle ceneri: carbone, calcio, magnesio, allumina, sili-ce, rimasugli di terra proveniente dalle fosse di combustione, tracce di minerali vari e, infine, una ridotta frazione di idrossido di sodio, non com-pletamente estratto49. La sostanza doveva presen-tarsi come una massa plastica, dove il carbonato di calcio prevaleva largamente sulle altre com-ponenti, in buona parte sotto forma di cristalliti di neoformazione: un materiale sostanzialmente inerte, capace forse di sviluppare una debole pre-sa. Assente la sabbia – nelle normali malte l’ag-gregato ha il compito di costituire uno ‘scheletro’ che dona consistenza e tenacità alla miscela –, alla “terra ontuosa e grassa” veniva addizionata (“mi-sta con un poco di altra calcina”, come ricorda

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e rij, per ordinario sono palificate, e fatte di mura grosse, e con molte pietre lavorate: e poi tutte le altre mura ne’ fianchi di fuori, et anco per dentro dell’edificio, sono semplicemente fondate sopra legnami interi di Larice, posti al lungo, overo sfe-si, et incrociati con tavoloni, overo con due mani sole di tavoloni, che si chiamano magieri: e per-ciò la differenza del modo di fondare fa anco più, o meno calare le mura delle fabriche, e da questa inugualità se ne cagiona poi alle volte fissure molto grandi, e pericolose, o almeno sempre brutte da vedere, e con danno di romper Porte, e Finestre, e le Volte, e Terrazzi, e Seliciati; onde sconcertano tutte quelle cose, che si ritrovano in quelle parti60.

Scamozzi mostra di aver colto esattamente quan-to la tradizione locale praticava in fatto di distin-ta potenza e capacità di portata delle fondazioni, ma, convinto assertore del principio della rigidità nel costruire, rigetta in toto il pensiero che sot-tendeva a tale scelta, mirato ad attenuare i diversi cali dei setti murari e ad attutire, riducendola, l’entità dei quadri fessurativi.

Le lesioni che fatalmente percorrono le mem-brature murarie, esiti dell’inevitabile assestamen-to (di cui egli aveva piena consapevolezza, poiché nel suo trattato, in relazione alla fabbrica delle Procuratie Nuove, vanta la realizzazione di fon-dazioni che “non hanno fatto un minimo moto, o risentimento fuori dell’ordinario delle fabriche di Venetia”)61 vengono considerati “disordini” da evitare con ogni mezzo. Scrive Scamozzi:

Sogliono alcuni Capi mastri qui in Venetia tener per buon indicio, e che secondo essi le fabbriche allora vogliono far il loro tosamento, quando esse fanno alcuni peli, o fissure, nelle mura, o nelle Vol-te, overo in altri luoghi: cose che secondo noi si deono estimare, che possino, per picciole ch’elle siano, esser segni più tosto di qualche disordine, et anco in progresso di tempo dell’estrema loro rovina; perché vi è quella sentenza: in caducum parietem inclinare; e perciò si dee procedere con grandissimo giudicio, e fare tutto quello, che è possibile per oviare queste cose62.

Una posizione categorica, assolutamente va-lida – ben s’intende – in linea generale, certo influenzata dall’amarezza conseguente alla sua disavventura professionale e al totale dete-rioramento dei suoi rapporti con l’Ordine dei Teatini (la loro risposta alla difesa presentata dall’architetto suona sprezzante, a tratti perfino derisoria)63, ma nel caso specifico non legittima-ta dalla prova dell’esperienza. Un atteggiamen-to dogmatico – nonostante il suo spirito fosse indubbiamente permeato da vene di scientismo e la sua per il tempo ‘moderna’ inclinazione ad appoggiarsi al valore dell’esperimento64 – giu-stificato con il mero richiamo all’autorità dei sapienti65, incapace di fare i conti con le condi-zioni imposte dalla singolare realtà del sito la-gunare, con l’impossibilità di perseguire, come era buona norma in ogni altro ambito costrutti-vo, l’indeformabilità delle fabbriche.

tutto viva, è confermata, oltre che da un passo de L’Idea56, da altre carte risalenti al 1570, 1770, 1766, 1823 e 184457. La canna muraria dei pozzi, innalzata su un monolite lapideo posto al cen-tro della cisterna, veniva quasi sempre fabbrica-ta nel suo tratto inferiore con argilla, certo per la primaria ragione di consentire la filtrazione dell’acqua all’interno della canna (l’aggiunta di una frazione di sabbia aveva lo scopo di ridurre l’impermeabilità dell’argilla), ma comunque ca-pace di adattamento plastico.

Con l’utilizzo della terra da savon da parte del-la tradizione costruttiva locale, dunque, si veniva a costituire una sorta di cuscinetto interposto fra il terreno sottofondale costipato dalla palificata e le muraglie soprastanti (o tra lo strato di ma-cerie impastate con terra da savon preparatorio alla posa dello zatterone)58: una fascia muraria di compensazione, capace di mediare tra le diverse rigidità, assorbendo in parte quegli assestamen-ti che, se subiti da muraglie interamente mura-te con “buone malte di calcina et sabion”, e in quanto tali caratterizzate da una marcata rigidità, avrebbero comportato tensioni tali da favorire la comparsa di lesioni nelle membrature di spiccato molto più numerose e ben più gravi di quelle co-munque patite da una fabbrica dotata di un piede sotterraneo capace di assestarsi sotto carico.

Tali procedure assunte nella costituzione delle fondazioni scaturiscono da una concezione edifi-catoria che si poneva in plateale contrasto con uno degli assunti fondamentali insiti in ogni altra cultura del fabbricare fino allora apparsa, fondata beninteso sull’impiego della pietra o del matto-ne, quello della firmitas, che assieme all’utilitas e alla venustas della triade vitruviana rappresentava il fondamento principe della costruzione. Solidi-tà perseguita dall’antichità fino ai nostri giorni puntando invariabilmente sulla rigidità del ma-nufatto: “firmitatis erit habita ratio, cum fuerit fundamentorum ad solidum depressio et quaque e materia copiarum sine avaritia diligens electio”, rammenta Vitruvio59. Una firmitas, dunque, as-sicurata dalla stabilità del masso fondale della fabbrica e garantita, oltre che dalla bontà dei ma-teriali, dalle generose dimensioni di sezione delle membrature d’elevato.

Dettato vitruviano contraddetto da quanto si praticava in laguna, dove gli assestamenti dif-ferenziati tra l’una e l’altra muratura erano non solo accettati, ma perfino assecondati, dove la programmatica ricerca della massima leggerezza nel costruire si traduceva nella riduzione all’osso dello spessore delle piastre murarie.

Proprio con una tale visione costruttiva, tesa ad assecondare la deformabilità dell’edificio, si scontrano le convinzioni di Vincenzo Scamozzi. Constata il trattatista:

Sono molte fabriche qui in Venetia […] che quasi tutte hanno le loro mura da’ lati vicino alle facciate principali sfese da alto a basso, e questo avviene principalmente: perche le facciate sopra a’ canali,

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Beirut, posta nell’antica regione siriana: “nel basso medioevo e per buona parte dell’età moderna la produzione di sapone venne a lungo egemonizzata da Venezia, che fra Due e Trecento arrivò a control-lare anche le principali fonti di approv-vigionamento, […] l’olio dell’Adriatico e le ceneri di soda del Levante, imbarcate direttamente nei porti della Siria o nel grande centro di raccolta di Alessandria d’Egitto” (Moroni, Produzioni e commer-cio…, cit. [cfr. nota 24], pp.141-142).

27. “Cette plante est cultivée avec soin sur les côtes de la Méditerranée espa-gnole; on la brûle dans des cavités pro-fondes d’environ trois pieds (un mètre) et larges de quatre, qu’on pratique en plein air, sur un sol bien sec; on y entretient la combustion pendant plusieurs jours, le résidu est une masse dure, compacte, presque vitreuse, qu’on divise en gros fragments pour faciliter le transport; on enveloppe ces fragments dans des nattes, et on en forme des balles du poids de 4 à 500 livres (10 à 25 myriagrammes). Les pierres de soude, noires à l’extérieur, gri-sâtres à l’intérieur, se brisent en éclats par le choc des corps durs; les angles en sont vifs et tranchants; la cassure présente les mêmes boursoufles que la lave poreuse, dont elle se rapproche par la couler” (J.J.É. Poutet, Traité des savons, in Ency-clopédie métodique. Manufactures, arts et métiers, Paris 1828, IV, p. 11). Nei primi decenni del XIX secolo nuovi processi di produzione, che consentivano di ottenere la soda dal calcare e dall’acido solforico, condussero alla rapida scomparsa della coltivazione e dell’utilizzo manifatturiero della salsola.

28. “Avant de procéder à la lixiviation de la soude, il convient de la piler grossiè-rement; on commence donc par la casser avec une masse de fer, et ensuite on la pile sur une pierre dure, à l’aide d’une masse de fer plate. La soude étant bien concassée, on arrose la chaux avec une petite quan-tité d’eau ; elle ne tarde pas à s’échauffer, lorsqu’elle est bonne, et se délire. On la mélange alors au moyen d’une pelle, dans la proportion d’un tiers avec deux tiers de soude concassée […]. Ainsi, lorsqu’on fait un mélange de chaux vive et récemment délitée, avec de la soude pilée ou de la po-tasse, et qu’on lessive le tout avec de l’eau, l’acide carbonique de ces alcalis se porte sur la chaux et forme de la craie ou carbo-nate calcaire” (ivi, p. 41).

29. La reazione tra carbonato di soda e calce idrata è la seguente: Na2CO3 + Ca(OH)2 ¬ 2NaOH + CaCO3.

30. R.T. Rapp, Industria e decadenza econo-mica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986, p. 180.

31. In una nota anonima di fine Cinque-cento rinvenuta da “Domenico Sella in un codice del fondo Donà delle Rose, conservato nel Museo Correr di Venezia […] si calcola che a quel tempo per ot-tenere 18.000 libbre di buon sapone oc-correvano oltre 6.000 libbre d’olio, 3.000 libbre di cenere di Siria e 1.500 libbre di cenere egiziana” (Moroni, Produzioni e commercio…, cit. [cfr. nota 24], p. 140).

32. Il calcolo, inevitabilmente appros-simativo (la composizione delle ceneri

bia; le quali si sono conservate per tante centenaia di anni” (ibid.).

19. Ibid.

20. Cfr. R.J. Goy, Building Renaissance Venice: Patrons, Architects and Builders, c. 1430-1500, New Haven 2006, p. 175.

21. Si veda ad esempio quanto descritto nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alem-bert : “Le drap ainsi énoué & nettoie de ses plus grosses imperfections, est porté à la foulerie, pour les dégraisser avec l’urine ou avec une espèce de terre glaise bien épurée & détrempée dans l’eau, que l’on met avec le drap dans la pilée, où il est foulé jusqu’à ce qu’il paroisse suffisam-ment débarrassé de sa graisse” (Encyclo-pédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Paris 1777, XIX, voce Laine, p. 463).

22. “Tera da garzarìa; Terra di purgo. I Naturalisti chiamano Marga una specie di questa terra, che trovasi in filoni fra mezzo a quelli di pietre, che serve appun-to per terra di purgo o saponaria all’uso di disungere i panni. […] Tera da saone-ri, Terra saponaria, ch’è la stessa cosa di purgo” (G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia 1856, ad vocem “Tera”, p. 743). In passato (M. Piana, Accorgimen-ti costruttivi e sistemi statici dell’architettura veneziana, in Dietro i Palazzi. Tre secoli di architettura minore a Venezia, 1492-1803, catalogo della mostra [Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, 29 settembre-9 dicembre 1984], a cura di P. Pavanin e G. Gianighian, Venezia 1984) sulla base della parola del Boerio, e anche per la sua ricorrenza in qualche docu-mento relativo alla costruzione delle ci-sterne veneziane, ho impiegato il termine tera da savon quale sinonimo di argilla: alla luce delle considerazioni che verran-no di seguito esposte tale equivalenza va considerata inesistente ed errata.

23. Scamozzi, L’Idea, II, VIII, VII, p. 295.

24. Un proclama del 10 luglio 1505 vieta l’aggiunta di argilla e altri inerti mira-ti ad accrescere il peso del prodotto (A. Bassani, Il controllo della qualità del sapone nella Repubblica di Venezia, in Atti del II Convegno nazionale di storia e fondamenti della chimica. Roma, 16-19 settembre 1987, a cura di F. Calascibetta e E. Torraca, Roma 1988, p. 82), ripreso nel 1569 da una proibizione del Senato di produrre sapone “con falsification di terra o altra cosa di peso che non fosse semplice oglio” (M. Moroni, Produzioni e commercio del sa-pone nel Mediterraneo tra basso medioevo ed età moderna, in E. Di Stefano [a cura di], Produzioni e commerci nelle provincie dello Stato pontificio. Imprenditori, mercanti, reti [secoli XIV-XVI], in “Proposte e ricerche”, 38, 2013, p. 144).

25. Si tratta di piante arbustive annuali alofite (Salsola soda, Linneo 1753, cono-sciute anche col nome di Barbe di frate o Agretti) ricche di carbonato di sodio.

26. Tommaso Garzoni, La piazza universa-le di tutte le professioni del mondo…, Venetia, appresso l’herede di Gio. Battista Soma-sco, 15931 (ed. cons. 1601), De’ saponari, o lavanderie, e Bugandiere, CXXIII, p. 823. Baruti corrisponde all’attuale città di

1. Sui principali caratteri costruttivi dell’edilizia lagunare si rimanda a M. Piana, Note sulle tecniche murarie dei primi secoli dell’architettura lagunare, in L’archi-tettura gotica veneziana, atti del convegno internazionale di studio (Venezia, 27-29 novembre 1996), a cura di F. Valcanover e W. Wolters, Venezia 2000, pp. 61-70.

2. Sulla vicenda hanno scritto R. Gallo, Vincenzo Scamozzi e la chiesa di S. Nicolò da Tolentino, in “Atti dell’Istituto Vene-to di Scienze, Lettere ed Arti”, CXVII, 1958-1959, pp. 103-122; G.B. Gleria, Un cantiere veneziano tra l’affermazione e le polemiche: Vincenzo Scamozzi e il progetto per la chiesa di San Nicolò da Tolentino, in “Quaderni di Palazzo Te”, 5, luglio-di-cembre 1986, pp. 45-58; G.B. Gleria, G. Beltramini, Chiesa e convento di San Nicolò da Tolentino a Venezia, in Vincenzo Sca-mozzi 1548-1616, catalogo della mostra (Vicenza, Palazzo Barbarano, 7 settem-bre 2003-11 gennaio 2004), a cura di F. Barbieri e G. Beltramini, Venezia 2003, pp. 321-328.

3. Il contratto tra i Teatini e l’architetto risale al 7 giugno 1590 (ASVe, Convento di S. Nicolò da Tolentino, b. 20, mazzo 9, proc. 340, cc. 1r-v. Pubblicato in Gallo, Vincenzo Scamozzi …, cit. [cfr. nota 2], pp. 116-117).

4. “Et in caso che nascesse qualche dispa-rere tra detti R.di Padri et esso S.r Vin-cenzo […] per fuggir ogni littigio, et pro-ceder amichevolmente, vogliono ambe le parti che il tutto sia inapellabilmente terminato da communi amici, elleggen-donsi da loro un per parte, et in caso di discordia essi giuduci possano ellegger il terzo” (ibid.).

5. Un “primo pillastro fatto già quattro anni secondo i miei ordeni, il quale pri-ma è in buonissimo fondo, poi pallificato non solo tutto il sodo, che si vede sopra terra, ma anchora tutte le scarpe è d’a-vantaggio, con li maggieri doppij incro-ciati sopra a tutta la pallificatta, et fatto poi di bone e sode materie più nuove che vecchie, murate a corso per corso con buone malte di calcina et sabion, la qual opera ha mostrato a chi l’han vedutta a fare, et a quelli che hora la veggono la sua sodezza, fermezza, et sicurezza” (1595, 20 maggio, Responsio di Vincenzo Scamozzi prodotta per la causa arbitra-ria. Ivi, pp. 118-119).

6. Vincenzo Scamozzi, L’Idea della Archi-tettura Universale, Venezia 1615, II, VIII, IV, p. 283 [d’ora in avanti: Scamozzi, L’Idea]. Sul significato di malta retratta si rimanda a M. Piana, Bagniando le piere nei chasoni, lavorate a malta retratta, con bona calsina padovana. Note sulla murazione la-gunare in età moderna, in “Annali di archi-tettura”, 25, 2013 (2015), p. 19.

7. Nel suo memoriale Scamozzi lamenta che perfino dopo la riforma del sistema costruttivo delle fondazioni, variato per accontentare i committenti, padre Gre-gorio Da Ponte, delegato dal convento a sopraintendere alla fabbrica “mentre si lavorava in essi pilastri […] si doleva ancho con le maestranze che quelle fon-damente erano molto grosse, et di troppa spesa” (Responsio…, cit. [cfr. nota 5], p. 119).

8. Ivi, pp. 119-120.

9. Memoria dei Teatini, ivi, p. 122.

10. Tale ultima variazione è attestata dall’accordo steso il 14 agosto 1592 con il burchier Bortolomio Beltrame per la fornitura di pietre di muro, buone e suffi-cienti “per far le fondamenta della chiesa et insieme tutta la terra di savoneria per far dette fondamenta” (ASVe, Convento S. Nicolò da Tolentino, b. 2, Catastico, n° 363. Ivi, p. 109).

11. “Se mo’ è seguito qualche picciol se-gno nella muraglia di quel modo che si vede, diano la colpa ad essi medesimi […] perché se bene con qualche imperfetione erano forsi fatti essi pilastri con mancho pallificata, con pezzami et terra di savon però si sono mantenuti sempre fino che essi Padri hanno datto causa al piegar dell’ultimo pillastro, et per conseguenza a segnar li volti tra essi, vicini alla facciata dinanzi, Perché oltre che havevano fatto riempire tutte queste Capelle di terreno, con tutto che io raccordai più volte che fusse portato via, fecero ancho cavare la fondamenta, et batere la pallificata della faccia dinanzi, la qual facciata tocca del tutto l’ultimo pillastro, et così cavando-si tutto il terreno il qual le faceva piede et spalle senza sbadagliare, ne puntellare esso pillastro col terreno incontro et con le case vicine, contra l’ordine da me dato a mistro Andrea loro ultimo muraro […] nel tempo che io andai fuori della Città per altre mie fabriche” (Responsio…, cit. [cfr. nota 5], p. 120).

12. Ibid.

13. “Et se le fondamente della Libraria di S. Marco opera publica e di tanto mag-gior peso per esser pietra viva, incompa-rabille a tutte le fabriche di questa Città (per non dire delle private) non ha però maggior scarpa di questa del primo pil-lastro, ma vero è che sono fatte di buone materie, et con buone malte perché in questo consiste la sicurezza dell’opera, non resta occasione di riprendere questo principio d’operare” (ivi, p. 119).

14. Scamozzi, L’Idea, II, VIII, VII, p. 295.

15. Sulla natura e le proprietà della calce padovana si rimanda a Piana, Bagniando le piere…, cit. [cfr. nota 6], pp. 23-25.

16. Scamozzi, L’Idea, II, VIII, VII, p. 295.

17. “[…] con l’essempio delle fonda-mente, e mura del Porto di Claudio Im-peratore, e di Traiano presso ad Hostia, e di quello d’Anzo, e di Nettuno, e di Hadriano a Terracina; e seguendo pur la costa del Mar Thirreno, quello di Gaeta, di Cuma, di Bozzolo, e fino a Napoli, e Salerno; et anco quello di Messina, e di Taranto, di Brandizzo, di Manfredonia, e tanti altri in questo Mare, veduti da noi, e molto conservati nelle buone malte” (ibid.).

18. “E se alcuno dicesse, che questo dee procedere dalla forza della Pozzolana, noi potemo addurre anco gli essempi del Porto di Ancona, di Rimine, di quello di Ravenna; e dall’altra parte quello di Pola, e d’Aquileia, et alcuni altri già fondati nel Mare con buone malte di calcina, e sab-

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di luglio risulta completato lo scavo e l’infissione della palificata; entro quello successivo viene conclusa la costruzione del masso fondale; nei primi giorni di settembre si completano le cisterne per la conservazione dell’acqua, ricadenti nell’area dell’androne e della cucina; tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del-lo stesso anno si elevano i primi setti di spiccato, di fatto completati entro i primi giorni di luglio dell’anno successivo (G. Ceriani Sebregondi, Un doge e il suo ma-nifesto: il palazzo di Leonardo Donà [1536-1612] alle Fondamenta Nuove a Venezia, in “Annali di architettura”, 14, 2002, pp. 239-240).

48. Giacomo Boni, che in qualità di assistente di Forcellini aveva potuto esaminare il masso fondale dell’ala sul bacino di Palazzo Ducale, ricorda come “nei fondamenti la malta di calce bianca d’Istria, non idraulica e spenta all’atto di valersene, estraevasi molle ancora” (G. Boni, La torre di San Marco di Venezia, in “Nuova Antologia”, s. 5, v. 159, 1912, p. 20). Io stesso ho constatato la perma-nenza di un certo grado di duttilità nei corsi inferiori delle malte di allettamen-to delle fondazioni del perimetro mura-rio del refettorio d’estate del convento dei Frari a San Polo, dell’oratorio dei Crociferi a Cannaregio, delle tettoie ac-quatiche alle Gaggiandre nell’Arsenale e di alcuni setti di palazzo Grimani a San-ta Maria Formosa.

49. Vedi nota 32.

50. La considerazione vale, ovviamente, anche dalle malte di sabbia e calce aerea (in misura certamente minore se padova-na), se presto sottratte all’azione dell’aria.

51. 1658, 13 luglio. “Far tutte le fonda-mente farà bisogno per tal opera pro-fonde sotto tera quanto li sarà ordinatto, larghe almeno di sotto piedi numero quatro et di sopra piedi numero uno et mezo fatte a scarpa mettendoli nel fon-di li suoi ponti di larese una mano per longho e l’altra mano per treso in croce schantati, sarà acomodatti et segatti da detti operari et più cavarsi tutte le sue fondamente, tenindosi secho l’aque a tutte spese di quelli operari leverà tal partito, lavorando parte di esse in tera da savon et parte malta con sabion” (Archi-vio dell’Istituto ellenico di studi bizanti-ni e postbizantini, Capitolato d’appalto della Scuola di San Giorgio dei Greci per far di diverse case, su progetto di Bal-dassarre Longhena, reg. 55, cc. 101-102. Pubblicato in G. Cristinelli, Baldassarre Longhena architetto del ’600 a Venezia, Venezia 1978, p. 169).

52. Genova, Archivio Padri Somaschi, Venezia Salute, 1001 [copia], Contratto redatto da Baldassarre Longhena relativo alle opere necessarie per la costruzione del collegio della Salute, 1670, febbra-io. Pubblicato in F. Repishti, Collegio di Santa Maria della Salute poi Seminario Patriarcale, in S. Langè, M. Piana (a cura di), Santa Maria della Salute a Venezia, Milano 2006, pp. 153.

53. 1860, 11 agosto. Descrizione dell’in-gegnere Giuseppe Bianco, pubblicata in Boldrin (a cura di), I pozzi…, cit. [cfr. nota 34], p. 26.

terra da savon è rammentato nella Risposta dei Teatini all’architetto, che lo accusava-no di aver “fabricato sotto terra con sa-bione, al contrario di quello che era stato osservato ab antiquo” (cfr. nota 9).

43. “Ceterum a fonte duci fictilibus tubis utilissimum est crassitudine binum digi-torum, commissuris pyxidatis ita, ut su-perior intret, calce viva ex oleo levigatis” (Plinio, Naturalis historia, XXXI, 57).

44. “I condotti di mura si possono fare con la pasta del terrazzo fatto di ghia-retta pesta, e coppo pesto con scaglia di marmo, et incorporato con calce bianca, e con oglio di Lino” (Scamozzi, L’Idea, I, III, XXVII, p. 341); “I cannoni di pietra, e di terra cotta, oltre a gl’incastri loro, si possono congiungnere con stucco fatto di fior di calce, e marmo pesto stempe-rato con oglio di Lino, agiugnendole anco vetro spolverizzato, fa una presa molto notabile: overo anco la calce viva stemperata con oglio, e bombace, o lanna minutissima, e ben sparsa per dentro, e con l’uno, e con l’altro intressar bene, le congiunture si possono anco congiugne-re con pegola radolcita con cera nuova, et anco un poco di trementina, e polvere di vetro, e messa ben calda; perche queste cose resistono molto all’humido” (ibid.).

45. “Si prende della calce non troppo fre-sca, né troppo sfiorata, e potrà essere di dieci giorni fino a tre mesi, ottimamente setacciata, e ancora del tartaro di botte parimenti fino, e setacciato: la quantità del tartaro sia alla quantità di calce, come 1 : 8, il tutto si mescoli ed impasti con olio di noce, ed in mancanza di questo con olio di lino. Una tal pasta, o colla serve per saldare legature, canne e condotti re-sistendo fortemente all’umido” (G. Masi, Teoria e Pratica di Architettura civile, Roma 1778, II, VI, p. 95). In tal caso alla calce e all’olio non si addizionavano polveri lapi-dee, bensì il cremor tartaro (C4H5KO6), un sale di potassio dell’acido tartarico tratto dai depositi che si formavano sulle pareti interne delle botti vinarie.

46. “En quelques endroits de l’Italie, on fait usage d’un mastic qui m’a paru ex-cellent, et qui acuiert avec le temps beau-coup de dureté: il est composé de fleur de chaux et de marbre pilé, broyé avec de l’huile de lin; on y ajoute quelquefois du verre pulvérisé” (A.C. Quatremère de Quincy, Encyclopédie méthodique. Architec-ture, Paris 1801, II, p. 44) ; “En Italie, on fabrique des conduites avec un mortier fait comme la terrazza de Venise, com-posé de chaux blanche, de petits cailloux et de tuileaux pilés avec des éclats de marbre, le tout bien broyé avec de l’huile de lin; cette pâte ou ciment sert à l’inté-rieur du tuyau” (ivi, p. 45). L’esposizione dei due passi fa presumere che siano stati tratti da Jean-Baptiste Rondelet, estenso-re delle voci tecniche, da L’Idea scamoz-ziana.

47. La dove esiste documentazione pun-tuale, concluse le opere di fondazione ri-sulta immediato l’avvio della costruzione fuori terra, che di necessità è preceduta dalla chiusura dello scavo. Solo a titolo d’esempio si segnala la cadenza tem-porale di palazzo Donà dalle Rose sulle Fondamenta Nuove. Il cantiere prende avvio nel gennaio del 1610; entro il mese

coprendo per due piedi li sepolti cada-veri, onde dispendiare in un altro solo piede di Calce viva, assicurandosi così la loro consumazione. Introdottasi poi in questi ultimi anni la novità ne’ Murato-ri di usarne di questa nelle fondamenta delle fabbriche, ne nacque che li Sapo-neri ricavano una certa utilità. Deludono di questa specialmente nelle grandiosi attuali circostanze. Rappresenta inoltre che il ricorso più volte il Corpo de Sapo-neri, perché atteso questo discapito fosse stabilito un prezzo dal Tribunale, egli ri-spose che non potendo alterare il metodo in un articolo economico si rivolgesse al Governo. [...] Il Governo ordina che la terra de’ Savoneri sia come dinanzi, usata pei cimiteri” (Governo XXIV, 7; pubblica-to in G. Boldrin [a cura di], I pozzi di Ve-nezia. 1015-1906, Venezia 1910, IV, doc. 713, pp. 285-286). Altre testimonianze relative all’impiego della terra da savon nelle sepolture sono contenute in N.E. Vanzan Marchini (a cura di), Le leggi di sanità nella Repubblica di Venezia, Vicen-za-Treviso 1995, I, pp. 408; 2003, IV, pp. 61 e 216.

35. L’ordinanza del Governo Veneto ci-tata nella nota precedente viene così po-stillata dal curatore del volume: “Questa terra de’ Savoneri, che veniva usata abusi-vamente nella costruzione dei pozzi, altro non era che gli avanzi della Cenere da Sa-poni; ai giorni nostri questa cenere viene surrogata da altri prodotti” (Boldrin [a cura di], I pozzi di Venezia…, cit. [cfr. nota 34], p. 286).

36. Ferrara, Ancona, Gallipoli, Salerno, Napoli, Gaeta, Firenze, Savona, Livor-no e Genova in Italia, Ragusa, Alicante e Marsiglia sulle coste europee del Medi-terraneo – solo per citarne alcuni – sono stati altrettanti centri di produzione di sapone.

37. La copia dei Commentari è conservata nella Biblioteca Vaticana (Cicognara, IV, 718); l’annotazione relativa alla terra da savon è posta su una pagina di guardia. In merito si veda B. Mitrovic, V. Senes, Vincenzo Scamozzi’s Annotations to Danie-le Barbaro’s Commentary on Vitruvius’ De Architectura, in “Annali di architettura”, 14, 2002, pp. 195-213.

38. “Fine sia alla fatica fatta, da me Vi[n]cenzo scamozzi, Vicentino, nel leggere Vitruvio, comentato da mons.e daniel Barbaro […] co[n] l’Havere notato tutte le cose notabili […] come nell’apostille in margine […] e questo pincipiai li 4 aprile 1574 sino al di d’oggi li 2 lugio 1574” (ivi, pp. 211-212).

39. Scamozzi, L’Idea, II, VIII, VII, p. 295.

40. Le trascrizioni, offerte nel saggio ora citato, e precedentemente in Gleria, Un cantiere…, cit. [cfr. nota 2], p. 56, nota 37, tra loro differiscono alquanto e ap-paiono – si ritiene – a tratti imprecise; qui se ne propone una nuova lettura. Il testo è preceduto da altra nota, stesa in tempi precedenti: “Vicenzo Scamozzi (/) Cesare Cesariano al tempo del sansovino comentò Vitruvio. Vasari 824”.

41. Scamozzi, L’Idea, II, VIII, VII, p. 295.

42. La conferma dell’uso remoto della

doveva variare alquanto, così come la quantità d’acqua impiegata nella liscivia, ecc.), ma in ogni caso utile per cogliere un ordine di grandezza è il seguente: 13.000.000 di libbre di sapone (una libbra veneta corrisponde a circa 0,477 kg) sono pari a 6.201.000 kg. Un sesto di tale cifra, equivalente alla quantità delle ceneri ne-cessarie per produrlo, è pari a 1.033.500 kg. L’analisi della cenere di Spagna offer-ta nel citato Traité des savons (p. 11) in-dicata in parti sul totale (acido carbonico 960, carbone 862, calcio 542, magnesio 127, allumina 131, silice 250, carbonato di sodio anidro 1229, solfato di sodio 70, acqua 1452, terra 20), in base al peso ato-mico delle sostanze consente di calcolare una densità media di 1,66 equivalente a una densità di 1.660 kg/m3. 1.033.500 kg corrispondono dunque a circa 620 m3 di ceneri, che, private del carbonato e del solfato di sodio (pari a circa il 48% circa del loro peso) si riducono a circa 323 m3 di residuo. Un dodicesimo di 6.201.000 kg di sapone, equivalente alla quantità di calce viva che veniva unita alle ceneri, è pari a 516.750 kg. Poiché la densità della calce viva è di circa 1.500 kg/m3, risultano circa 345 m3 di calce viva, che, una volta spenta, considerando un aumento medio di 2,5 volte, raggiunge un volume di poco inferiore agli 860 m3. Sommando i metri cubi di residuo delle ceneri a quelli della calce idrata, il volume complessivo di ter-ra da savon risulta di circa 1.183 m3.

33. La quantità di 15 m3 medi per fab-brica è del tutto ipotetica, ma non trop-po lontana dal vero se si considera, ad esempio, che il volume di terra da savon condotto da quattro burchielle a San Se-bastiano per essere impiegato nelle fon-dazioni della nuova chiesa (pur ignoran-do la capacità di carico delle imbarcazioni utilizzate) doveva corrispondere ad alme-no una trentina di metri cubi (“Spexa facta nela giesia che intendemo fare […]. Adì ultimo zenaro 1506 [1507 m.c.]. Io fra Archangelo de Lupis prior di s. Sebastian contai a li fachini per borchiele 4 de terra da savon”. Pubblicato in E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, Venezia 1834, IV, p. 134). Il ricorso a tale materiale era stato pochi mesi prima espressamente previsto nella convenzione “cerca la fa-brica de la nra giesia et monesterio” stesa il 27 marzo 1506 tra “Mestro Francesco da Castiglion Cremonese” e i frati di San Sebastiano: “li muri de la giesia siano fondati sul bon terreno a sufficientia de la fabrica […] dagandoli noi prede calzina sabion e terra de savon et aqua” (ibid.). Se, come ragionevolmente pare, l’impie-go della terra da savon si limitava al solo tratto inferiore dei maschi di fondazio-ne (vedi infra), con quindici metri cubi di tale materiale, aumentati a venti con l’aggiunta di ¼ di volume di calce spenta (assumendo un rapporto di 1 a 3 tra malta e blocchi laterizi o lapidei e ipotizzando per tale fascia di fondazione dimensioni di altezza, base e sommità pari a 100, 90 e 70 centimetri) per ogni fabbrica si sa-rebbero potuti realizzare un centinaio di metri lineari di fondazione.

34. 1801, 24 febbraio: “Fu sempre inve-terato costume che la così detta terra de’ Savoneri sopravanzante dai lavori delle loro fabbriche era riserbata all’occorren-za del R. Tribunale Supremo di Sanità per impiegarla nei quattro Pubblici Cimiteri

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verità: non essendo alcuno con chi egli habbia contatto che non si aggravi et dogli di lui, sì come da diversi principa-lissimi gentil’huomeni siamo stati infor-mati” (Memoria dei Teatini, pubblicata in Gallo, Vincenzo Scamozzi… cit. [cfr. nota 2], pp. 121-122).

64. È lo stesso Vincenzo Scamozzi ad attestare la sua disposizione all’esperi-mento, quando ad esempio, nell’argo-mentare sulla resistenza per forma degli organismi cupolati, scrive che la “forza, et ugualità della Volta a Cupola la potia-mo conoscere anco con l’esperienza delle cose naturali, e specialmente dal vuovo; il quale per sua natura havendo uno scorzo così sottile, e debole, nientedimeno non è forza humana, che lo possi rompere […]; perché stringendolo per il capo, e punta, che dimostrano i Volti di mezo cerchio, o apuntati, et i suoi lati quelli scemi, o manco, che di mezo cerchio; […] e noi habbiamo fatto prova, che tre vuova fer-mate in piedi su una tavola, con un poco di cera da ambi i capi, hanno sostenuto il peso d’un mortaio di metallo di più di 150 libre di peso” (Scamozzi, L’Idea, II, VIII, XIV, p. 320).

65. La sentenza “In caducum parietem inclinare” è tratta dagli Adagia di Era-smo (Erasmo da Rotterdam, Adagiorum chiliades, Basilea 1536, ed. mod. a cura di E. Lelli, Milano 2013, p. 1.364); in altro passo si afferma che “tutte le fondamen-te de gli edifici debbono essere molto gagliarde, e forti: perché col parere de’ Savij, e secondo Averroè; noi le parago-namo, come il cuore ne gli animali” (Sca-mozzi, L’Idea, II, VIII, IV, p. 283).

fino al terreno compatto e di ciascun ma-teriale si farà una scelta accurata, senza risparmio di mezzi, della quantità dovu-ta” (Vitruvius, De Architectura, edizione a cura di P. Gros, Torino 1997, I, 3, 2).

60. Scamozzi, L’Idea, II, VIII, VII, p. 295.

61. Ivi, II, VIII, VI, p. 290. Il corsivo è nostro.

62. Ivi, II, VIII, VII, p. 295.

63. “Strana et insolita maniera di tratta-re, è quella che usa contro di noi poveri e mal abbattuti P.ri Theatini, ms. Vicenzo Scamozza Architetto et al presente no-stro avversario. Il quale non solo preten-de di voler continuare nella fabrica della nostra chiesa contro ogni termine di raggione e giusticia; […] ma si compia-ce anco, et va procurando di scoprir agli huomeni quegli errori che ogni altro si sforzerebbe di coprire […]; si fa lecito di dire che ciò sia proceduto per colpa et ordine nostro; come che egli fusse obbligato a cometter errori così impor-tanti et contrarij alla sua professione per sodisfar altrui, et per ciò fusse degno di scusa come cerca anco di scusarsi dell’a-pertura delle capelle, causata per non haverle pallificate; con l’esempio della fabrica della chiesa della Celestia fattura sua, et stimata da lui per l’ottava meravi-glia del mondo, se ben da tutti li altri per in mostro dell’Architettura, et un corpo senza capo, non dissimile da quell’altro che mascherato egli va procurando di far credere per vero; ciò è che in 25 anni non li sij mai accaduto litigio nella sua professione, cose in tutto contrarie alla

quest’ultimo progetto sembrerebbe pre-scrivere un montaggio senza cemento dei tratti inferiori della canna e della ca-micia, ma il prosieguo del testo fa capire che in realtà “a secco” significa murato con creta, e poi esternamente intona-cato con lo stesso materiale: “saranno smaltiti, si questi pozzali che caminetti, con della creta stemperata, mischiata a poca sabbia nella proporzione di par-ti 9 di creta con una di sabbia. Questo smaltimento si farà ancora esternamente per intonacatura” (ibid.); 1844, 3 mag-gio, “Capitolato per appaltare a prezzi unitarii, i lavori di radicale riparazione dei suaccennati pozzi pubblici esistenti in questa città di Venezia”: “in rinnova-zione della canna sì in parte che in tutto, dovrà essere costrutta con pozzali posti in creta e con rivestimenti, detti camicie, a pietre curve. La parte superiore però della canna sarà in ottima cementatura” (ivi, IV, doc. 713, pp. 285-286).

58. Il contratto del febbraio 1670 rela-tivo al collegio della Salute, citato alla nota 52, ad esempio, specifica che i due strati incrociati del tavolato d’imposta dovevano venire adagiati “sul buon fon-di spianatto a livello et metterli sotto la sua scalgia di pietra viva et malta in terre da savon”. In altre parole viene precisato che, una volta raggiunto con lo scavo un terreno sufficientemente solido, il fondo doveva essere spianato e predisposto ad accogliere lo zatterone mediante la ste-sura di uno strato di frammenti lapidei misto a terra da savon.

59. “Il principio della solidità sarà rispet-tato quando le fondamenta affonderanno

54. Ivi, p. 27.

55. Ibid.

56. “Su questa lastra si principia la trom-ba, o canna della Cisterna di pietre nuove ben cotte, e pulite, e messe in creta ben lavorata” (Scamozzi, L’Idea, I, III, XXIX, p. 348).

57. 1570: in un conto relativo a una casa alle Zattere risulta “fatto il suo pozzo da novo con le sue banche di creda, e spon-ze sua canna in malta de creda” (ASVe, Provveditori di Comun, b. 51. Pubblicato in Boldrin (a cura di), I pozzi…, cit. [cfr. nota 34], IV, p. 87); 1770, 10 settembre: “Polizza di spesa e fattura fatte […] nella Corte Cestera in Contrà di S. Zuanne Novo nella Calle delle Rasse […] fat-to la canna da nuovo in Crea” (Museo Civico Correr, Fondo Giovanni Dolcetti, Manoscritti, b. 13, n. 159. Ivi, III, p. 88); 1766, 14 luglio, “Polizza d’incanto per la costruzione di un pozzo”: “doverà […] far la canna de pozzoli nuovi in diametro de piedi tre con sua camisa tutta di creta, in altezza dal fondo al livello del salizo di piedi otto in nove […]. Doverà far piedi due di canna in malta” (ivi, III, pp. 77-78); 1823, 13 agosto, “si procederà al lavoro della canna che si costruirà a secco con dei pozzali Trevigiani […] attorno ai quali si farà un rivestimento di così detti caminetti […] detto comu-nemente la camicia” (“Costruzione del pozzo in campo Ss. Giov. e Paolo, ste-sa dagli ingegneri Giuseppe Salvadori e Luigi Roggia, con Gian Domenico Stellon, deliberatario del lavoro”. Ivi, IV, doc. 1536, p. 698). Di primo acchito