la riscoperta del territorio e della comunità locale

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La riscoperta del territorio e della comunità locale: retoriche e conflitti di Gianni Belloni “Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella trasformazione che è la vita stessa della città. Quanta cura, per escogitare la collocazione esatta d’un ponte e di una fontana, per dare a una strada di montagna la curva più economica che al tempo stesso la più pura (...). Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di passato, 1

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La riscoperta del territorio e della comunità locale: retoriche e conflitti

di Gianni Belloni

“Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato

per sempre;contribuire inoltre a quella trasformazione che è la vita stessa della

città.Quanta cura, per escogitare la collocazione esatta d’un ponte e di una

fontana, per dare a una strada di montagna la curva più economica che al tempo

stesso la più pura (...).Ho ricostruito molto:

e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di passato,

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coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire;

significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti.”1

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano,

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Territorio e sviluppo locale..... Più che gli scenari, drammaticamente realistici, di

una Apocalisse - e quindi, in definitiva, dello svelamento dei caratteri distruttivi dell’attuale sistema capitalistico - è da temere l’effetto l’annuncio di questa prospettiva ottiene nell’opinione pubblica: una impaurita rinuncia al cambiamento rispetto ad una corsa alla catastrofe ampiamente annunciata si alterna alla fiducia, un po’ infantile, nelle capacità della tecnica di trarci fuori dai guai in cui ci ha cacciati. Entrambe gli atteggiamenti non fanno che promuovere annichilimento sociale. Nel frattempo gli effetti disastrosi della crescita sul piano sociale - impoverimento e segregazione, ambientale - diminuzione della biodiversità, inquinamento, cambiamenti climatici -, economico - crisi di produttività da dumping ambientale e sociale - e territoriale - degrado, congestione, abbrutimento del paesaggio - divengono sempre più evidenti.

Le trasformazioni materiali non si limitano al mutare della materia, ma vanno compresi e valutati nelle loro ricadute più ampie che riguardano anche il modo in cui una società insediata comprende e immagina sé stessa e il luogo in cui abita. “Lobotomia della mente locale” chiama Franco La Cecla la crescente ignoranza delle relazioni tra insediamento umano e ambiente, relazioni che hanno generato la storia dei luoghi e la loro identità, unica, riconoscibile, irripetibile. Il risultato della distruzione della memoria e della biografia dei luoghi è il proliferare di siti indifferenti, ridotti a supporto di funzioni. E’ sintomatico, a questo proposito, quanto sostenuto dall’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che, subito dopo il terremoto che distrusse S. Giuliano nel 2002, dichiarò candidamente che se fosse dipeso da lui avrebbe risolto il problema degli sfollati in quattro e quattr’otto, costruendo lì una nuova Milanodue. Come ha affermato un amministratore locale: “Viviamo in montagna ma non ci rendiamo conto di essere montanari. La montagna è oggi vissuta dai suoi abitanti

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come qualsiasi altro territorio, dimenticando di essere montanari, e quindi dei problemi, rischi ed opportunità di vivere in montagna” 2. In queste parole leggiamo la ricaduta di quello che Giorgio Ruffolo scriveva a proposito della globalizzazione: “segna un punto estremo dell’alienazione capitalistica, dello sradicamento del sistema da ogni principio di senso e di consenso”. Nell’incipit di un bel libro d’inchiesta di Paolo Rumiz, uscito un decennio orsono, l’autore chiede - ci troviamo nell’area della pedemontana veneta - a diverse persone dove si trovasse un fiume che scorreva lì vicino (Rumiz, 1997). L’ ”artigianale” sondaggio proposto ha avuto un esito univoco: nessuna delle persone interpellate ha saputo indicare il percorso del fiume. Da questo episodio l’autore trae la conclusione che proprio l’occultamento dei fiumi, e il loro oscuramento rispetto alle conoscenze territoriali delle persone, rappresenta un indicatore affidabile dello spaesamento degli abitanti.

Emerge, in tutto questo, la sensazione che la società sia “fuori squadra” - assecondando così la fortunata espressione coniata da Arnaldo Bagnasco (Bagnasco, 2003) -, che sia venuto a mancare un principio ordinatore in grado di fornire norme, regolazione, senso e progetto condiviso.

E’ in questo contesto che il ritorno del “locale” - fenomeno ambivalente e complesso - lungi dall’essere liquidato come forma folclorica, o semplice esito di ansie e paure ha a che fare con la ricerca, della comunità e degli individui, di orientarsi nel mondo, e quindi di elaborare delle mappe mentali alle quali attenersi. Come ci fa notare Alberto Magnaghi “’fare mente locale’ o ‘definire sistemi di riferimento’ sono espressioni particolarmente efficaci per capire in quali direzioni possa muoversi una nuova rivalutazione del prospettiva del ‘locale’”.

Queste consapevolezze hanno prodotto una crescente riconsiderazione da parte di molte regioni, municipi, e, in 2 citato in Maurizio Merlo, L’economia agro-silvo-pastorale della montagna triveneta: tra abbandono e valorizzazione dei beni e servizi ambientali, in Oddone Longo, Franco Viola (a cura di) La montagna veneta. Fra rilancio territoriale e nuova identità economica, Franco Angeli, Milano, 2005

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parte, dell’Unione Europea, del “territorio” - inteso come insieme di fattori ambientali, sociali, culturali locali, di pratiche, saperi, economie ecc...che definiscono l’identità di un luogo - e dei suoi giacimenti patrimoniali quale potenziale fattore di coesione economica e sociale e di produzioni di relazioni globali solidali e non gerarchiche. Il territorio assurge, così, a fattore primario di resistenza agli effetti distruttivi e omologanti della competizione globale e di innovazione dei modelli di sviluppo (o di “oltre lo sviluppo”), di fronte alla crisi strategica del modello precedente (Magnaghi, Marson, 2005). La sfida è quella di passare dal riconoscimento delle identità di resistenza alla promozione di “identità progettuali” in cui gli attori sono in grado di definire la loro posizione e ruolo nel territorio trasformandolo al contempo. Il territorio diverrebbe così elemento costitutivo di economie e società locali che hanno il loro punto di forza nella ricchezza dell’ambiente sociale (Bertoncin, Pase, 2005). Uno stare insieme che acquista senso dal comprendere il significato: ragioni, opportunità, vantaggi e vincoli del condividere un luogo.

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Le acque nascoste Sono più di 1300 le aziende del Veneto che hanno la

parola Piave nel loro logo commerciale, annotava Renzo Franzin in uno dei tanti appassionati e lucidi articoli dedicati alle acque del Veneto3. Il fiume è divenuto un vincente e conosciuto marchio commerciale, utile a competere sul mercato globale e nello stesso tempo, nel suo concreto esistere, si avvia alla consunzione per abbandono e avvelenamento. Questa contraddizione mi è sembrata potente, tanto più che la Piave ha rappresentato, nel suo essere fiume, per la storia del Veneto e delle sue culture, un elemento formidabile4. L’uso/abuso del logo “Piave” dimostrerebbe in qualche modo che vi è la possibilità di operare contemporaneamente in maniera “deterritorializzata”, svincolati da responsabilità e conoscenze rispetto al luogo e nello stesso tempo coltivarne le retoriche ed usarne l’evocatività. Il territorio è ridotto ad oggetto: senza memoria, senza storia, senza identità, senza sembianza propria. D’altronde la trasformazione dei luoghi in merce è ciò che rende possibile l’emersione delle loro specificità all’interno del mercato globale. Questa esaltazione del logo “Piave” avviene, infatti, contestualmente alla sparizione dalla vista degli abitanti, e non solo in senso metaforico, della Piave come patrimonio biologico, ambientale e culturale. Il fiume è uscito dalla percezione esistenziale di migliaia di persone per divenire quasi esclusivamente un fattore di rischio idraulico da eliminare proprio nel momento in cui il logo “Piave” viene considerato vincente nella competizione economica e nel marketing. D’altronde Giorgio Richter ci ricorda come la globalizzazione delle merci ha bisogno di maneggiare oggetti “nulli”, è più facile globalizzare forme concepite e 3 Questa suggestione proviene dalla lettura di un libro che è in realtà un piccolo “scrigno di tesori”: la selezionata raccolta dei racconti, articoli e documenti scritti da quell’uomo saggio che è stato Renzo Franzin. Renzo Franzin, Il respiro delle acque, Portogruaro, Nuova dimensione, 2006 4 vedi Francesco Vallerani, Acque a nordest. Da paesaggio moderno a tempo libero, Cierre edizioni, Verona, 2004

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controllate centralmente - cibi standardizzati, lavori senza qualità, messaggi omologanti - che non forme ricche di contenuto5.

Le acque della Piave sono state un alimento decisivo dello sviluppo sotto forma di materia prima dell’energia idroelettrica ed oggi “il fiume è vuoto e senza forza, sbarrato da decine di dighe, incanalato e deviato, non risponde più neppure alle logiche, pur aspre della natura. I rischi idraulico e idrogeologico si sono aggravati per l’effetto perverso della riduzione di potenza del fiume, le sue acque residue condensano veleni e squilibri ormai visibili ad occhio nudo”6).

Lungo le rive della Piave e dei suoi affluenti si è snodata una cultura, una economia ed infine un paesaggio: questo fiume ha rappresentato uno snodo fondamentale di comunicazione tra l’arco alpino, e quindi tutto il nord Europa, e la Laguna di Venezia, e dunque tutta l’area mediterranea. Renzo Franzin cita per operare suggestive descrizioni di questa civiltà d’acque - che aveva come capitale Belluno e che, attraversando l’alta pianura trevigiana, scendeva verso la laguna segnando in modo indelebile il Veneto orientale - antichi manoscritti e illustra con gusto sapiente cartografie secolari. Mi permetto solamente di ricordare quel bel romanzo storico di Sebastiano Vassalli, ambientato a scavalco tra il 700 e l’800, in cui i legami, i traffici (e i conflitti) tra Venezia e le valli alpine appaiono sono mediate dal fiume navigato quotidianamente da grandi quantità di persone e merci 7.

L’occultamento delle acque - la loro trasformazione in oggetto dell’ingegneria idraulica - è stato una parte fondamentale del processo di industrializzazione, e questo è noto. Le manomissioni operate nel novecento, le grandiose bonifiche hanno impresso alla pianura “gli esiti geometrici di un pensiero razionale che introduce visibilmente i criteri di sicurezza, ordine e produttività nella nuova geografia poderale” (Franzin, 2006). L’acqua 5 Giorgio Richter, la globalizzazione e il nulla6 Renzo Franzin, 20067 Sebastiano Vassali, Mattio e Mattia,Torino, Einaudi, .......

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in questo nuovo paesaggio è imprigionata nei canali che ritagliano ortogonalmente le proprietà e regimentata dalle idrovore. A questo si è aggiunta l’elettrificazione con la costruzione di dighe, invasi e sbarramenti artificiali che hanno cambiato irrimediabilmente il volto del bacino della Piave.

L’aspetto meno evidente è che questo processo ha inciso, oltre che nei paesaggi e nei territori, nella cultura, nelle memorie e nella nostra autopercezione identitaria e storica. Se è stato possibile operare così profondamente nei territori è perché contestualmente è andata in crisi una cultura e una consuetudine: l’acqua, così come la natura, già nelle raffigurazioni ottocentesche, entra a far parte di un immaginario trasognato, un arcadia nostalgica che si proietta in un orizzonte atemporale e atopico 8.

La banalizzazione del territorio, l’estromissione dell’elemento anfibio e liminare del paesaggio veneto ha, forse, corrisposto alla banalizzazione identitaria che è stata operata nella nostra regione: la vulgata sull’identità veneta. Questa, quando non si è nutrita di sincere coloriture razziste ed escludenti, è stata spesso caratterizzata da una ricerca affannosa di supposti caratteri univoci e caratterizzanti - laboriosità, religiosità, senso del dovere, concretezza - di un Veneto che si vorrebbe sia stato, un tempo, uniformemente e pacificamente contadino9. Questa rassicurante, ideologica e banalizzante raffigurazione esclude, di fatto, diverse culture e religiosità - la persistenza pagana e magica opposta ai dogmi della chiesa, le culture legate ai beni comuni opposte alla privatizzazioni dei signori veneziani - diverse geografie - le periferie urbane ed industriali, le aree perilagunari, la montagna - e diverse economie - la pesca, la caccia, i mulini, l’agricoltura palustre - che proprio dalle aree anfibie e dai fiumi traevano ricchezza.

8 Osti, 19989 si veda tra gli altri Cesare de Michelis (a cura di) Identità veneta, Venezia, Marsilio, 2004 ed Ulderico Bernardi, Veneti, Treviso, Canova Edizioni, 2005

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Questa semplificazione culturale, proiettata nel tempo, non è altro che la trasposizione della semplificazione territoriale della modernità caratterizzata dall’occultamento del Veneto poliforme, anfibio, contraddittorio e non pacificato, ricco di bio e sociodiversità10. Compiuto il progetto della modernità, neutralizzati i luoghi resi servibili e uniformi alla produzione meccanizzata ci si è inventati l’altro da sé, il mondo rurale, in cui proiettare i valori del buon tempo antico, “da recuperare” ovviamente, con le sagre della proloco, le camice a quadrettoni e il “vin bon”: la “razza Piave”, in definitiva11. Alberto Magnaghi sostiene che “l’autoriconoscimento e la crescita dell’identità locale, la sua capacità di ripensarsi sono dunque la matrice dello sviluppo sostenibile”, e se questo autoriconoscimento non avviene, grazie all’abbaglio provocato da mitopoietiche di quart’ordine, anche lo sviluppo sostenibile non può verificarsi12.

Quest’opera di banalizzazione culturale, prima che territoriale, è stato un pre-requisito indispensabile perché si sia potuto ridurre un fiume, con il suo portato di memorie, identità territoriali condivise, a divenire null’altro che un logo commerciale.

10 Breda, 200211 una storia tutta da raccontare è quella del cambiamento della denominazione delle vie e delle piazze dei paesi. Nadia Breda ci racconta come a San Vendemmiano nel 1961 la giunta comunale abbia modificato il nome di molte vie del paese perché “vecchie e brutte”. In realtà quelle denominazioni – Buse, Croda, Fontanazze, Groppa, Storta, Menare..- erano segnali “profondi” del territorio 12 Magnaghi, 2000

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...tra retoriche e conflitti “Il discorso sullo sviluppo locale faceva da grande

paravento al “grande trasloco” (dei contadini nelle città e dei ricchi cittadini nelle case di campagna ndr) e la sua attuazione puntava a far passare con dolcezza questa grande distruzione, mettendo balsamo sulle ferite riutilizzando quanto meglio possibile le macerie...” (Latouche, 2005). Anche chi non arrivi ad abbracciare le tesi di Serge Latouche sul carattere mistificatorio della nozione di “sviluppo locale”, occorre comunque osservare come, spesso, all’interno di programmi denominati integrati e complessi, la visione del territorio spesso rimane banale: la natura territoriale della politiche appare in molti casi sostanzialmente trascurata, anche perché non è mai del tutto esplicitato il significato complesso e polisemico del concetto di territorio13. Malgrado la nozione di territorio si è affermata nella retorica, nella pubblicistica e nella letteratura, nelle pratiche, spesso, si continua a trattare il territorio in maniera ampiamente riduttiva14.

Alcuni studiosi dello sviluppo locale mettono in guardia dal confondere sviluppo locale e marketing territoriale. Lo fa con efficacia Carlo Trigilia suggerendo come nel caso del marketing territoriale “l’attrazione di risorse esterne è spesso un fine in sé”, mentre in quello dello sviluppo locale “essa diventa piuttosto un mezzo”15. Avvertono i più accorti supporter di questa visione come il locale sia una modalità di concepire il territorio al di là della sua scala. I diversi territori non dovrebbero più venir considerati come semplice supporto su cui applicare “pacchetti” standardizzati di interventi, di tipo infrastrutturale e/o industriale, prescindendo dai problemi e dalle opportunità specifiche di trasformazione. Essi, nell’accezione “locale”, possono essere considerati come tanti ambiti specifici, con qualità peculiari, analizzati in 13 ………………14 Governa, 200615 Trigilia, 2005

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forme sempre appropriate. La nozione di “sviluppo locale”, in questa prospettiva, acquista il significato di particolare approccio ai problemi dello sviluppo: riferimento ad un ambito specifico, con specifiche tecniche di intervento e obiettivi appropriati.

Ci sembra che non si siano tratte, esplicitamente, le conseguenze dovute di questa impostazione. non basta che lo sviluppo sia situato perché il processo di “apprendimento collettivo” abbia effettivamente luogo. Se ogni progetto di sviluppo locale ha effettivamente bisogno di un quadro di riferimento territoriale pertinente (una valle, una città, un quartiere...), ed è quindi “situato”, debbono comunque verificarsi delle condizioni basate sulla specificità dei saperi locali e sulla coesione dei sistemi territoriali. Il pericolo, quando parliamo di riscoperta del territorio e dello sviluppo locale, è quello di operare a nostra volta delle banalizzazioni e delle semplificazioni operando con gli elementi evidenti a nostra disposizione senza interrogarsi sufficientemente su questi elementi (culture, geografie, rappresentazioni, memorie), rinunciando a selezionare priorità, ad indagare persistenze e memorie lunghe, immaginari, inconsce rappresentazioni16.

Queste considerazioni ci spingono ad una diversa lettura delle dinamiche “nordestine”: il modello di sviluppo, come quello del Nordest, basato sui localismi economici è in crisi per mancanza di radicalità: dalla costante dipendenza da condizioni esterne non influenzabili sommata all’accettazione acritica del modello socio-culturale globale. I localismi economici subiscono una crisi profonda nel momento in cui i processi di modernizzazione che li percorrono mettono a repentaglio quel complesso insieme di risorse locali che ne avevano suscitato lo sviluppo. Qui nel Veneto il fenomeno è evidente: la velocità della crescita ha portato ad una erosione dei caratteri - codici di comportamento condivisi, 16 Pensiamo alle lettura, offertaci da Eugenio Turri, di come la distruzione del paesaggio veneto, incentrato sulle ville nobiliari come elementi ordinatori,sia in parte dovuto alla voglia di riscatto del contadino veneto nei confronti degli aristocratici delle ville che ha voluto concretamente e metaforicamente “seppellirle” (Turri, 2000)

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relazioni fiduciarie, coesione sociale - di quella cultura che ha fornito le basi alla crescita stessa: la crescita ha eroso, più velocemente di quanto non tenti di ricreare, il capitale sociale che utilizza (Donolo, 2003).

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Ricostruire complessità e conoscenzaPer tornare ad una cultura dei luoghi, avverte Vito

Teti parlando della Calabria, “ci sarebbe bisogno di “persuasione”, ma invece prospera, continua a prosperare, la “retorica”. “Prospettano piccole inadeguate fantasiose iniziative, percorsi colorati, itinerari interessanti, che non hanno alcuna possibilità di affrontare in maniera complessiva e unitaria i problemi”17. L’approccio allo sviluppo locale è un processo di cambiamento e “cambiare punto di vista, accedere a un nuovo modo di fare, riconoscere relativo un proprio valore, misurarsi col mondo, accettare un limite, ristrutturare una certezza, sono tutti processi che richiedono di uscire almeno in parte da un campo di conoscenze e di rassicurazioni per entrare in un altro, che dall’inizio non rassicura ma inquieta”18.

L’interpretazione del cambiamento socioeconomico in termini di sviluppo locale ha messo al centro della scena il territorio e più precisamente i luoghi del vissuto, ma il cambiamento del modo di considerare il territorio richiede un cambiamento di tipo teorico. “Ogni volta che sotto le spinte di forze storiche o grazie alla liberazione di nuove energie, entrano nell’orizzonte della complessiva coscienza dell’uomo nuovi territori e nuovi mari – mutano anche gli spazi di esistenza storica. Allora sorgono nuove misure e nuovi criteri dell’attività storico-politica, nuove scienze , nuovi ordini, una nuova vita di popoli nuovi e rinati. L’ampliamento può essere così profondo e sorprendente da cambiare non soltanto le dimensioni e le misure, non solo l’orizzonte esterno degli uomini, ma muta anche la struttura del concetto stesso di spazio. Allora si può parlare di rivoluzione spaziale.” (Schimt). La globalizzazione è un fenomeno assai più profondo capace di coinvolgere e mutare le coordinate

17 Teti, 200418 Morelli, 2005

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essenziali delle mentalità. (nuove contraddizione locali-globali)

Il principio del locale comporta un diverso approccio epistemologico togliendo valore a ogni teoria che vada molto più al di là dell’enunciazione dei suoi limiti: il modello assume un significato solo locale, contingente, sparisce la prospettiva del dominio del soggetto universale della conoscenza, fondato sulla sua capacità di “prevedere” i comportamenti degli oggetti naturali. Lo sviluppo locale si concepisce come verità parziale, come processo valido solo rispetto ad un contesto. Per questo, quando si parla di sviluppo locale, risalta l’elemento del confronto e della scelta rispetto a diverse plausibili possibilità. In questo contesto, ad esempio, un leader non è colui che riesce a tradurre in pratica verità immutabili ma colui che “dà una cornice al flusso degli stimoli, che dà una specie di mappa all’ambiente nel quale si trova ad operare. E’ quasi come un autore, non di testi, anche se può scrivere testi, ma di conversazioni, discorsi attraverso i quali egli può argomentare a favore della plausibilità di certi scenari, di certe possibilità” (Gargani, 2005). La capacità, in questo scenario, non è tanto quella di rendere operative delle pianificazioni - “gestire delle razionalità di ruolo” come bene ha illustrato Enzo Rullani (Rullani, 2005) - ma di dare senso a processi.

Questo cambiamento di approccio nei confronti dello spazio ha delle rilevanti influenze sul pensiero politico visto che è attraverso le rappresentazione spaziali che le teorie politiche formano i propri concetti, dispongono gli attori, ne organizzano le azioni, e disegnano i fini della politica in termini di collaborazione e di conflitto, di ordine e di disordine, di inclusione e di esclusione, di confini e di libertà, di sedentarietà e di nomadismo, di marginalità e di centralità e la sovranità, così come si è configurata nel Moderno, non può non essere il comando universale che vale nello spazio particolare, che essa stessa ha reso liscio e ordinato (Galli, 2001).

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“La caratteristica dello Stato è l’accentramento - anche simbolico – del comando e dell’amministrazione sul territorio, che è pensato come omogeneo, tutto ugualmente esposto alla potenza ordinativa del sovrano e della sua legge….Accentramento come sussunzione disciplinante di sfere politiche e d esistenziali , di mondi vitali in un unico spazio politico; e risulta quindi sul piano storico l’equivalente di ciò che sul piano teorico è l’indifferenza della politica moderna alla qualificazione spaziale della tradizione (Galli).

Proponendo modelli di azione locale come alternativi alle logiche di potenza e di flussi, ci suggerisce Aldo Bonomi (Bonomi, 2002), si mette in crisi quel modo lineare di pensare e abitare secondo il quale ogni individuo, partendo dai propri interessi a da logiche di razionalità funzionali allo scopo, si associa, configge e domanda inclusione per conquistare visibilità e ruolo nel mercato e nello Stato. Tendiamo a dimenticare che “trattare una persona come un oggetto o un sistema puramente meccanico non è meno bensì più immaginario che pretendere di vederla come un gufo” (Cornelius Castoriadis)

La produzione di territorio, la sua conoscenza, i processi di governo e trasformazione, necessitano di un ripensamento sul significato generale della categoria “territorio” e sulla sua specificità. Un progetto o un intervento di sviluppo presenta la necessità di una comprensione globale e profonda della natura del territorio, che faccia emergere identità, confini, valori, risorse. La ricomposizione di un rapporto fra economia, società e territorio passa attraverso il recupero della capacità di comprendere in modo profondo il “senso” di un territorio inteso come la somma di un lavoro complesso attraverso cui nel tempo gli uomini riescono ad “abitare” uno spazio e un suolo. Secondo Heidegger “solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire”, solo se nelle trasformazioni o nell’attività di riproduzione sociale un

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luogo viene percepito come “dono” attraverso il quale noi stabiliamo un rapporto, come qualcosa che si possiede in-comune, riusciamo a ritrovare una sintonia.

Se si accetta il carattere radicalmente locale della teoria, lo sviluppo - inteso come concetto globalista e teleologico - è da contrapporre allo sviluppo locale. Occorre recuperare il senso dello sviluppo transitivo (sviluppo di...): cioè lo sviluppo di qualcosa di peculiare che assume importanza di per sé e non sviluppo fine a se stesso (intransitivo e metafisico). Si può quindi “sostituire il termine sviluppo con “realizzazione”, “rinascita”, “rafforzamento”, “ricostituzione”, “ridefinizione” e così via, termini che non avendo uno statuto disciplinare consolidato hanno solo un significato immediato, non trascendente, e lasciando respiro al termine “locale” consentono di affermare con esattezza l’esigenza della conservazione della complessità, delle differenze” (Giusti, 1990). Detto questo, è possibile riorientare lo sguardo e costruire rappresentazioni interpretative non in base a criteri funzionalisti ma complessi in grado di dar conto della storia, degli immaginari, dei conflitti, dei desideri degli abitanti: in altre parole dando vita ad un processo di conoscenza e approdare ad una visione di territorio come patrimonio comune?

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Sviluppo locale come processo di apprendimento collettivoScrive Enrico Camanni, in un bel libro sulle Alpi, che

la ristrettezza della visione del cittadino nei confronti della montagna - colma di immagini stereotipate (la casa in stile finto tirolese, l’artigianato finto tipico, il folclore posticcio) e priva di curiosità, di ricerca di contatti nuovi e di interessi culturali - ha impoverito anche l’autorappresentazione dei valligiani in un intreccio vizioso e perverso: “Sembra che entrambi facciano a gara nel fornire le risposte più semplici e scontate per non turbare un equilibrio di opposti che si regge sugli stereotipi e sulla carenza di comunicazione” (Camanni, 2002). Eppure questo “intreccio vizioso e perverso” risulta, dal punto di vista del PIL, vincente: ogni anno sessanta milioni di turisti soggiornano nelle Alpi per un fatturato di 23 mld di euro il 5% del fatturato turistico mondiale. Evidentemente servono strumenti meno grossolani per intravedere la crisi delle comunità locali, altre sensibilità per cogliere lo smarrimento, la crisi di senso, l’accresciuto sentimento di marginalità che pervade le vallate alpine. Come suggerisce Arjun Appudarai “le popolazioni spaesate, deterritorializzate e in movimento che costituisco gli etnorami moderni sono impegnate nella costruzione delle località, in quanto struttura di sentimento, dovendo spesso far fronte all’erosione, alla dispersione, e all’implosione dei vicinati come forme sociali coerenti” e “la località è una dimensione della vita sociale, in quanto bene articolato in particolari vicinati, non può essere uno standard trascendente da cui particolari società devierebbero o si distaccherebbero: la località sorge invece sempre dalle pratiche dei soggetti locali in specifici vicinati, e la possibilità che diventi una struttura di sentimento è quindi sempre variabile e indeterminata” (Appudarai, 2001).

E’ necessario quindi un livello di metariflessione che può intervenire solamente in seguito ad esperienze di

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trasformazione e di crisi. Il rapporto tra territorio e processi di sviluppo locale non va inteso esclusivamente come proiezione spaziale di dinamiche socio-economiche o di rapporto con i supporti fisici, ma come rapporto di un insieme complesso di elementi, le cui specificità sono espresse fondamentalmente però dallo sviluppo di interazioni sociali e sistemi di comunicazione cooperazione e scambio immersi in concreti ambiti di identificazione culturale. Tirando in ballo Dematteis diremmo: “La terra diventa territorio quando è tramite di comunicazioni, quando è mezzo e oggetto di lavoro, di produzioni, di scambio, di cooperazione”.

E’ necessario aggiungere un diverso punto di vista nell’analisi e nella costruzione dei processi di sviluppo rispetto alle visioni prevalenti, di stampo economicistico o politologico, rivolte perlopiù allo studio della destinazione delle risorse finanziarie impiegate, alla “cantierabilità” degli interventi, al ruolo dei soggetti coinvolti, alla qualità del partenariato.

Non è fuori di luogo anzi dire che i processi di sviluppo territoriale, quando essi sono efficaci e non solo formali, coincidono con i processi di apprendimento messi in atto dai singoli individui, dalle organizzazioni e dalla società locale nel suo complesso quando lavora intorno a obiettivi di sostenibilità. Bisogna però essere consapevoli che dire questo significa proporre un’ottica particolare ed inusuale nell’interpretare, impostare, gestire e valutare i processi di sviluppo locale. Un’ottica che esclude sia l’idea che i processi vadano avanti da sé, sia i facili schematismi metodologici e le ingegnerizzazioni dei processi, sia, ancora, le interpretazioni ideologiche. Un’ottica che richiede tra l’altro una ridefinizione dei ruoli ricoperti dai vari attori sociali: è molto diverso - per poter raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile - essere amministratori, tecnici, operatori economici, ecc. … che si pensano come soggetti

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che apprendono, che apprendono con altri e grazie ad altri, che aiutano altri ad imparare, oppure che si pensano come portatori di interessi, di progetti e di saperi da presentare (a volte imporre) agli altri e, al limite e per necessità, da contrattare e mediare con altri su un piano tutto pragmatico.

Lo sviluppo locale può essere definito come un processo d’apprendimento collettivo attraverso il quale la comunità impara a conoscere e analizzare la propria situazione, a definire prospettive di miglioramento delle condizioni locali di vita, ad organizzare e gestire il cambiamento sociale, economico, culturale, ambientale (Caldarini).

Il problema è che questo aspetto strategico dei processi di sviluppo locale - l’apprendimento collettivo, e quindi, in definitiva, della capacità degli abitanti di definirsi come tali e di porsi il problema di imparare ad abitare il territorio - è spesso ignorato, o prese in considerazione solo retoricamente, all’interno delle procedure e dei programmi istituzionali19. Le procedure istituzionalizzano le pratiche, predeterminandone il senso, canalizzando e restringendo il campo di produzione e apprendimento del senso. La procedura rende l’agire prevedibile, lo trasforma in comportamento, e cioè in uniformità: così l’agire perde la possibilità di rivelare l’identità dell’agente. La disponibilità ad apprendere è invece una scelta dell’attore: alla quale l’attore rinuncia quando si sottopone ad una procedura, il cui senso è univocamente quello predeterminato, normalmente da esperti, in corrispondenza con l’obiettivo con cui la procedura è resa funzionale. L’istituzionalizzazione della pratica (di formazione del consenso) equivale alla professionalizzazione della pratica e - se la procedura è efficiente, se “funziona” - l’effetto è quello di un trasferimento di pratiche (di produzione di senso, di

19 Faccio riferimento allo studio di Carlo Donolo sulla nuova generazione di politiche pubbliche in cui rintraccia due tipi di politiche quella deliberativa, in cui si rintracciano effettivamente processi di apprendimento collettivo, e quella negoziale che si riduce, in definitiva, ad una regolazione di interessi costituiti. (Donolo, 2005)

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possibilità di apprendimento) dall’ambito non professionale a quello professionale. L’effetto è quello di depoliticizzare le politiche, cioè di renderle prevedibili (Crosta, 1998).

L’apprendimento collettivo segue tempi e modalità parzialmente estranei alla progettazione di manufatti o procedure. Si tratta di un esito non pre-determinabile nei tempi e nelle modalità Trattandosi di innovazione sociale (e non di innovazione tecnologica) la strategia è indiretta ed impensabile predeterminarla. L’innovazione si configura come un sotto-prodotto, non può essere voluta e comporta la capacità di attivare contesti di senso. Occorre tenere presente che sono possibili esiti “non intenzionali” generati dall’interazione dei soggetti.

Quali elementi allora aiutano questo processo d’apprendimento?

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....partecipazione: dall’incapacità alla capacità… “A Chelsea la popolazione si rese conto di non essere

“quei tontoloni di Chelsea”, incapaci di far funzionare alcunché. Scoprì di avere persone dotate di buone intenzioni, una forte fibra morale e grande intelligenza; che c’erano dei chelesiani capaci di scrivere uno statuto cittadino in grado di garantire cento anni di governo equo e fiscalmente responsabile. Ma forse ancora più importante fu il contributo di migliaia di cittadini; non era necessario appartenere ad una elité per costruire qualcosa di valido” (Podziba, 2006). Queste sono tra le annotazioni conclusive del racconto, propostaci da una protagonista, degli avvenimenti storia recente della cittadina di Chelsea (Massachutes) sconvolta dalla corruzione e dal malgoverno per anni e poi rinata a nuova vita anche grazie alla definizione partecipata dello Statuto comunale e quindi alla scoperta di essere in grado di definire collettivamente le regole della propria convivenza.

Il problema dell’essere inermi nelle società più avanzate non sta solo nell’incapacità di restaurare e mantenere legame sociale e legame con i luoghi, ma nel prendere la parola, definirsi all’interno del processo sociale e tentare di modificarlo. La crisi è legata alla crescente impossibilità di costruire futuro da parte di individui scossi dalla perturbabilità delle esperienze, dall’impossibilità di un quadro unitario di lettura, dall’esasperarsi della vulnerabilità. In questo contesto sociale e culturale diviene più difficoltoso per i soggetti costruirsi una biografia coerente, così come diviene più arduo consolidare relazioni sociali stabili (Sennet, 1999). La partecipazione può essere vista come esercizio all’appartenenza che si basa su un dato storico/geografico, l’abitare in comune un luogo, su su fino alla comune presenza nel mondo. Essa è la sufficiente ma cogente motivazione dell’opera di coinvolgimento in una reciprocità generale che obbliga appunto chi più ha (a cominciare dal sapere) a più dare in modo da mettere in

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grado tutti di avere per scambiare, se si vuole, alla pari, realizzando la giustizia come impegno alla creazione di eguaglianza, mediante la partecipazione attiva alla costruzione di un soggetto collettivo la cui attività, cioè la politica, dipende interamente dalla reciprocità dinamica di tutti i soggetti individuali. La partecipazione dunque come attività e non come consulenza all’attività dei politici di professione. Questa versione della partecipazione presume una relativa capacità dei singoli soggetti, al limite addirittura di coloro che appaiono totalmente incapaci. E’ l’ esercizio concreto dell’autogestione che crea la condizione dello sviluppo e addirittura della scoperta attiva, per alcuni, della capacità più o meno nascosta. Così ‘la città fa liberi’. La forma di questa attività non è quella economica, ma quella pedagogica, diciamo della coeducazione (Pietro Toesca).

La partecipazione quindi non va concepita come esercizio procedurale per la localizzazione di impianti non desiderabili ma ha a che fare compiutamente con la qualità e il senso dello sviluppo. Amartya Sen ha analizzato questi nessi: se lo sviluppo è visto come un processo di espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani, “la partecipazione politica e il dissenso sono parti costitutive dello sviluppo” (Sen, 2000).

Il prerequisito funzionale alla promozione della partecipazione è il rifiuto della gerarchia, concettuale e pratica, che vede l’economia comandare sulla società, e gli indicatori e i parametri economici estendersi ed occupare ambiti sistemici estranei e impropri. L’economia infatti ha compiuto l’operazione politica di disciplinamento sociale più costrittivo e conservativo che si possa immaginare in un regime democratico a favore della perpetuazione dello stato di cose esistenti: “ridurre la materia vivente a fatto economico è stata un’operazione politica e culturale che ha bloccato qualsiasi progetto di cambiamento. Se io mi rappresento sempre allo stesso modo impedisco a me stesso di diventare altro” (Barcellona, 2004). L’economia

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ha sostituito la apolitica nel dare senso agli spazi, travalicando i confini e gli spazi vitali, dando vita alla geoeconomia in cui lo Stato è una variabile.

D’altronde la limitazione della dittatura dell’economico è anche il prerequisito per poter davvero pensare alla propagazione riflessiva di cui parla Enzo Rullani, e cioè il “garantire un grande spazio ad attività di riflessione critica, in modo da valutare continuamente gli esiti raggiunti, assumerne le responsabilità, ri-definire i fini e, in definitiva, re-inventare la relazione mezzi-fini in modo da rigenerare la forza della propagazione (dell’economia della conoscenza), man man che essa va avanti …(Rullani, 2005). Come ha scritto Cornelius Castoriadis “la crisi del mondo occidentale consiste nel fatto che ha smesso di mettersi in discussione”.

La definizione della natura del declino italiano fornita da Carlo Galli (Galli, 2006) ci aiuta a situare e dare maggior concretezza a questi ragionamenti sulla necessità di sviluppare arene pubbliche nello sviluppo locale: “il declino è descrivibile come un “blocco comunicativo”, come un grave malfunzionamento delle istituzioni democratiche che paralizza la società, schiacciata tra stratificazioni verticali (la divisione tra abbienti e non abbienti) sempre più rigide e separazioni orizzontali (geografiche, ma anche corporative) sempre più marcate. E’ da questa sordità reciproca delle parti in cui si sta separando la società - lungo linee di faglia complesse e contorte -, è dalla interruzione di canali di comunicazione politica istituzionale, è dal mancato incontro (anche conflittuale) degli interessi e delle forme di vita contrapposte, che derivano non solo l’atrofia della pubblica moralità, la pratica della legge del più forte, l’obsolescenza della legalità come forma normale dei rapporti della vita associata, il decadere dell’idea stessa che questa possa e debba esibire un senso collettivo complesso e articolato, che debba formare una cittadinanza liberamente determinata da tutti i soggetti coinvolti (…)”. Il declino sta precisamente in questa

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condizione: non va inteso come «un unitario e coerente precipitare del paese verso un'imminente catastrofe, quanto piuttosto come una sua sconnessione a-sistematica». Che non si arresta affidandosi all'automobilitazione delle risorse sociali, né lasciando mano libera ai poteri forti, ma solo ricostruendo una sfera pubblica in cui le istanze «sconnesse» possano di nuovo entrare in comunicazione e in conflitto, e la politica possa di nuovo esercitare l'arte della scelta e della decisione.

Dunque «è deficit di democrazia il vero nome del declino», ed è di un di più di politica e di democrazia (prima che di cantieri e di Pil) che c’è bisogno per tentare di uscirne.

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Della oggettività delle rappresentazioni territorialiUn curioso fenomeno accompagna il

depauperamento delle risorse naturali della nostra regione: gli stessi responsabili della crescita incontrollata che ha devastato i nostri territori sembrano i più accaniti promotori della retorica mediatica per cui il Veneto avrebbe “saturato il territorio”, corredando queste affermazioni con allarmanti dati quantitativi20. I dati quantitativi sono certo allarmanti - anche se non in senso assoluto, la superficie urbanizzata è pur sempre al di sotto del 15% della superficie totale regionale - ma non possono trasmettere l’entità e la complessità del fenomeno. In realtà, come hanno osservato i geografi Vallerani e Varotto, “la percezione negativa di questi fenomeni è assai più forte di quanto i dati statistico - quantitativi non lascino supporre” infatti “è alla scala esistenziale che i processi appaiono già ora difficilmente sostenibili, perché vivere perennemente in un cantiere produce precarietà, non - senso, spaesamento definitivo” (Vallerani, Varotto, 2005).

Questo per dire come le rappresentazioni quantitative siano da una parte altamente manipolabili, conservando i numeri un carattere divinatorio ampiamente abusato nella società dell’informazione inflazionata, e dall’altra superficiali in quanto nascondono dimensioni qualitative decisive. Ogni rappresentazione della realtà è una selezione di elementi mirati ad evidenziare ciò che intendiamo rappresentare21. Da questo punto di vista le mappe “mentono” - “la mappa non è il territorio” secondo la fortunata, e abusata, definizione di Gregory Bateson -, nella carta topografica convenzionale la rappresentazione del territorio è assoggettata ai principi della geometria descrittiva che risponde a una rappresentazione quantitativa e funzionale dello spazio: il territorio dei luoghi è ridotto a spazio

20 Regione Veneto, Piano Regionale di Sviluppo, Venezia, 2005 21

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isotropo, euclideo, supporto inanimato di funzioni e opere. Ovvero il cartografo ucciderebbe effettivamente il territorio, distruggerebbe la nostra immaginazione, ci incatenerebbe ai suoi piccoli simboli sulla carta “così che non rivedremo mai più il paesaggio” (Bateson, 1976). L’informazione, cioè, non potrà mai essere riconvertita negli oggetti reali a cui si riferisce: perché quel che noi codifichiamo è il sistema di rapporti veicolato dalle informazioni, convertendolo in relazioni tra eventi e processi mentali. Tra la “parola”, risultante da questi processi, e la “cosa” che viene rappresentata si avrà uno scarto di cui è indispensabile essere consapevoli. La rappresentazione di questo mondo è ricondotta ad una descrizione quantitativa, astratta dei caratteri estrinseci dei luoghi (dimensioni, funzioni, posizione), mentre scompare ogni carattere intrinseco, capace di connotare l’identità, il carattere, il tipo. Le “mappe tecniche” sono “rappresentazioni del paesaggio locale “inesistente”; annullano nella omologazione unica della misura, della geometria, della denotazione funzionale, la possibilità di discernere i caratteri distintivi, qualitativi, dei luoghi” (Ferraresi, 2005). “Questa straordinaria capacità della geografia di dare a fatti politici, sociali, culturali la maschera di fatti puramente materiali e naturali è stata largamente utilizzata da chi ha voluto giustificare imperialismi, nazionalismi, guerre e sfruttamento” scrive, spietatamente, Giuseppe Dematteis (Dematteis, 1995).

Occorre mettere a punto strumenti e attivare processi in grado di superare la concezione di territorio come “cosa”, oggetto inanimato, passivo e statico, ma piuttosto come rete di interazioni. Per questo bisogna superare una concezione che presuppone la neutralità della nostro osservare e prendere coscienza del fatto che le nostre osservazioni (ovvero le nostre interpretazioni) ci dicono forse più cose di noi che delle cose osservate. Osservare è scegliere interpretare, valutare dare forma: è un viaggio d’immersione, dentro di sé e fuori di sé. Questo

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comporta il superamento della nostra presunta separatezza ed estraneità rispetto alle dinamiche territoriali e ambientali (Morin, 1983).

Esistono sperimentazioni avanzate di rappresentazioni territoriali, denominati Atlanti dei Patrimoni territoriali, che si discostano dalla cartografia tecnica data, cioè da un approccio positivista e oggettivante, per sottolineare e mettere a valore gli elementi distintivi dei diversi contesti territoriali che denotano “valore” e “significato” del territorio. Questi Atlanti sono finalizzati alla rappresentazione degli elementi costitutivi dei giacimenti territoriali, una sorta di ritratto del territorio, il cui stile è dato dal tipo di percezione dei valori territoriali e ambientali che lo sviluppo del dibattito e delle azioni per la sostenibilità ha sedimentato nell’incontro tra cultura tecnica e senso comune. La costruzione degli Atlanti avviene, infatti, attraverso uno scambio comunicativo con le comunità insediate e per questo avviene un processo continuo e circolare di autocorrezioni, interrogazioni, scomposizioni, integrazioni, rappresentazioni alternative degli esiti prodotti.

La rappresentazione riguarda il patrimonio ambientale ( acque, bacini idrografici, identità bioregionali, reti ecologiche, ..) il patrimonio territoriale-paesistico (morfotipi, figure territoriali e paesistiche, strutture e infrastrutture urbane - spazi collettivi, strade, piazze, porte, centralità...- e rurali - trame agrarie boschi, colline coltivate, pascoli...- di lunga durata); il patrimonio socioeconomico ( modelli socioculturali di lunga durata, progettualità sociale, saperi e sapienze contestuali...) (Magnaghi, 2005). Queste nuove mappe si pongono l’obiettivo, da un lato, di decostruire e “denaturalizzare” visioni dominanti e omologanti e, dall’altro, di nutrire “quei percorsi di progetto e quelle soggettività in campo che agiscono tentativi di strategie locali, fornendo strumenti per la

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rappresentabilità del locale differenziato, del valore territoriale”.

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Indicatori localizzati Se progettare il territorio è essenzialmente costruire

rappresentazioni interpretative di contesti locali nel loro rapporto con le dinamiche globali, occorre domandarsi se queste rappresentazioni interpretative debbano per forza assimilarlo alla banalizzazione della merce. O meglio alla subordinazione agli indicatori e ai criteri di valutazione generali e puramente quantitativi che porta ad una omologazione dei luoghi, ad una plastificazione dei tratti singolari e ed una loro riduzione a strumento di marketing (Danani, 2006).

L’importanza di disporre di indicatori comuni a più entità territoriali, costruiti secondo i medesimi parametri e quindi direttamente comparabili fra loro è assodata. Un appropriato insieme di indicatori generali consente di monitorare la situazione ambientale complessiva e di stabili re indirizzi d’azione generali per anticipare conseguenze non desiderabili. Gli indicatori generali tuttavia sono necessariamente riferiti ad un modello astratto di territorio e fanno riferimento a soglie di ecocompatibilità ed ecoefficienza per raggiungere standard di qualità ambientale tollerabile. Nell’orizzonte dell’ecoeffficienza l’obiettivo è quello di promuovere azioni incrementali che comportino un minor spreco di risorse ambientali rispetto alla situazione odierna. Questa impostazione non mette in discussione il modello di sviluppo in atto e la spropositata “impronta ecologica” rispetto al sud del mondo e alla capacità di carico della Terra. L’ecoefficenza poi non riesce a compensare l’aumento dei consumi.

L’utilizzo di indicatori generali rischia di rinforzare le politiche indirizzate “dall’alto verso il basso” e quindi le politiche definite a partire da un definito conteso locale e assunte come generalmente valide e proposte come soluzioni per problemi a volte diversi e per contesti sociali, culturali e organizzativi differenti. Le politiche definite a partire

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dall’esclusiva considerazione di indicatori generali standard non sono generalmente in grado di tener conto delle peculiarità dei singoli contesti né di conseguenza di suggerire soluzioni adeguate alle specificità delle problematiche. Ad esempio la capacità depurativa delle acque reflue viene misurata comparando la sola potenzialità quantitativa degli impianti di depurazione con il carico organico potenziale. Coerentemente con la Direttiva Europea si assume che gli impianti di depurazione centralizzata siano la soluzione ottimale per il trattamento delle acque reflue, indipendentemente dalla tipologia territoriale degli insediamenti, dai modelli di consumo e quindi dalle sostanze inquinanti presenti nelle acque reflue civili e dalle relative tecnologie appropriate di trattamento locale diffuso ad esempio la biofitodepurazione. L’indicatore relativo all’impiego di suolo per lo sviluppo urbano misura la variazione quantitativa fatta registrare dalle diverse classi d’uso del suolo (urbano, industriale, estrattivo). Il puro dato quantitativo non dà conto della forma insediativa che, se dispersa, può produrre elevata frammentazione funzionale ed ecologica o se l’insediamento riguarda una zona di peculiare valore ambientale e paesistico.

La necessità di costruire indicatori locali di qualità ambientale è resa ancor più pregnante nella ricerca di modelli di sviluppo la cui sostenibilità è messa a valore dalla peculiarità dei giacimenti patrimoniali locali per la produzione di ricchezza durevole. In questo caso gli indicatori dello sviluppo endogeno trattano le specifiche qualità ambientali come risorse: risorse pedologiche, climatiche, per la produzione energetica, per la qualità abitativa e produttiva, per la valorizzazione della filiera agricoltura - ambiente - cultura - turismo... Di conseguenza la costruzione di indicatori che riconoscano e misurino il valore delle risorse ambientali e perseguano l’autoriproducibilità delle risorse stesse consente il superamento dell’approccio tecnocratico-scientista e di passare a dagli indicatori standard settoriali

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ad indicatori attenti al contesto che integrino gli indicatori ambientali con integratori generali del ben-essere. Il passaggio ad un sistema di indicatori integrati consente di valutare in modo sintetico le relazioni fra sostenibilità ambientale, economica e sociale. Sono ad esempio caratterizzati da questa natura complessa gli indicatori di benessere proposti dalla Carta del Nuovo Municipio22.

22 www.nuovomunicipio.org

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Progettazione e mappe cognitive La progettazione sociale e territoriale a cui

assistiamo comunemente è calata dall’alto all’interno dei sistemi sociali. L’intero processo decisionale di un’azione sociale esigerebbe il riconoscimento del fatto che non esiste un sistema umano, un gruppo umano, che non abbia una sua progettualità implicita o esplicita intorno ai fenomeni che a quel gruppo interessano o riguardano. Non solo esiste in quel gruppo/sistema una storia e un presente, esiste anche uno sviluppo endogeno di socialità, di relazioni, modelli comunicativi, valori. Tutte queste cose, spesso o sempre, non vengono prese in considerazione da interventi progettuali che partono dal “contenuto” come se questo fosse indifferente al sistema e alle reti di relazioni presenti, alla capacità di apprendimento di quel sistema (quanto nella vicenda di via Anelli è pesata, rispetto al vissuto degli abitanti e di tutti i padovani e quindi nelle reciproche relazioni, la metafora del “cancro da estirpare” che ha trovato una sua materialissima conseguenza progettuale - trovando così conferma e rinforzo - nel “radere al suolo il ghetto”?).

Una politica dello spazio che si proponga come alternativa all’omologazione della globalizzazione richiede in primo luogo una radicale trasformazione del paradigma analitico e progettuale, passando da una descrizione funzionale dello spazio a descrizione identitarie dei luoghi. Il lavoro di progettazione non consiste nell’assemblaggio e la “messa in squadra” di elementi dati, quasi fosse un problema tecnico operativo o l’applicazione di uno schema metodologico, quanto nel processo volto a costruire significati condivisi e co-costruiti - la manipolazione di segni e simboli, un processo eminentemente sociale -, che funziona se tutti divengono attori attivi, partecipando a tutte le parti del progetto: dalla messa a punto di linguaggi e criteri di lettura della realtà e dalla definizione di ciò che costituisce la situazione - problema

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(l’arretratezza, la penuria economica, il sentirsi “tagliati fuori”, la carenza di senso...), alla messa a punto di strategie per risolverlo o per trovare un modo comune per gestirlo; dall’applicazione delle decisioni alla valutazione dei risultati ottenuti23. L’obiettivo è quello di confrontare e coordinare mappe mentali e quindi di proporre molti nodi diversi di vedere il problema. Occorre riconsiderare il processo privilegiando la concezione del “piano come conversazione” ove trovano ospitalità le pratiche discorsive, comunicative a fine di mediazione, persuasione, risoluzione dei conflitti, formazione del consenso (Crosta,1998). Tutto questo che richiede l’accettazione di limiti ai desideri, dell’incompletezza dei propri punti di vista e delle proprie idee, l’accettazione del fatto che altri sono necessari per perseguire scopi, che altri a volte percepiti come nemici o avversari possono essere portatori di visioni legittime ed anzi possono essere risorse importanti per la risoluzione di problemi (Angella, Orsenigo, 1999).

Attraverso la progettazione partecipata bisogna essere messi in grado di apprendere dagli eventi e dalle contingenze che si producono dalla messa in atto. Occorre adottare uno stile progettuale che tenda ad ampliare e non a ridurre l’incertezza, che miri ad ampliare lo spettro delle scelte possibili, a responsabilizzare l’immaginazione, a ricercare e a tenere in considerazione anche ciò che non è immediatamente ovvio.

L’implicazione politica di questa impostazione allude ad un nuovo paradigma che si strutturi su “decostruzione drastica della tradizionale verticalità tipica della politica. E sulla lenta e faticosa ricostruzione di una dimensione orizzontale nella quale la capacità di istituire relazioni, di coresponsabilizzare e di condividere prevalga sulle semplici tecnologie del ‘potere esercitato su’”24.Politica

23 Conferenza nazionale sull’educazione ambientale - Genova 2000. Documento introduttivo del gruppo di lavoro su “Educazione ambientale e sviluppo locale” 24 Marco Revelli,La politica perduta, Einaudi, Torino, 2003

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come entità che nasce tra - infra - gli uomini, e non sopra o accanto ma come arte dell’interconnessione.

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Piena dignità alle diverse forme di conoscenza L’approccio tecnocratico è sorretto da una

sopravalutazione della conoscenza cosiddetta “esperta” meglio ancora se codificata in senso quantitativo, rispetto alla conoscenza esperienziale e situata. Le conoscenze di contesto, apprese dall’osservazione continua nel tempo di un luogo specifico e delle sue trasformazioni; oppure le esperienze relative ai diversi approcci con cui problemi analoghi possono essere trattati in contesti socio-culturali diversi. Occorre rinunciare ad intendere la conoscenza come rappresentazione della realtà e cioè come aspirazione a “riflettere” la realtà stessa. La conoscenza è una modalità di reazione ad eventi problematici – non fatti oggettivi che provengono dall’ambiente esterno – ma effetti della ns autonoma e parziale attribuzione di senso a perturbazioni del ns sistema cognitivo causati da stimoli non univoci. Ogni vivente produce in relazione con altri i significati di cui abbisogna e di cui si costituisce.

L’obiettivo è quello di costruire delle narrazioni collettive nelle quali siano ricondotte a senso comune, rese comprensibili e capaci di interloquire fra loro conoscenze esperte e conoscenze di contesto.

L’esperienza del Centre pour une Anthropologie du Fluve di Givors presso Lione25 rappresenta un caso efficace di riappropriazione, innanzitutto culturale, del fiume da parte dei suoi abitanti. Il Centro, nato nel 1989, inizia la sua attività come luogo di studio ed esposizione sulla cultura storica del fiume a partire da la lavoro di alcuni etnologi dell’Università di Lione che avevano ricostruito i mestieri operai tradizionali legati al fiume. In seguito ha funzionato come risorsa per la progettazione, insieme ai comuni, un nuovo sviluppo economico locale capace di integrare la presenza del fiume, sostituendo lo sviluppo industriale con attività quali: turismo fluviale, 25 raccontata in Anna Marson, Alberto Magnaghi, Democrazia locale e politiche ambientali, in Fausto Giovanelli, Ilaria Di Bella, Roberto Coizet (a cura di), Ambiente Condiviso, Politiche territoriali e bilanci ambientali, Milano, Edizioni Ambiente, 2005

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manutenzione delle barche, aree di fruizione turistica, aree naturali, valorizzazione del patrimonio culturale, archeologico ed enologico. La riappropriazione dei saperi da parte degli abitanti produce lo spostamento di centralità progettuale dalle scienze idrogeologiche (visione lineare e idraulica), alle scienze idrobiologiche ( qualità biologica dei corsi d’acqua) alle scienze antropologiche e sociali (il fiume come sistema vivente e patrimonio culturale).

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ConflittoRicordo ancora nel sussidiario delle elementari una

foto che ritraeva di un gruppo di minatori, italiani e francesi, felici dopo aver abbattuto l’ultimo frammento di roccia della galleria del Frejus. Allora lo scavo di una galleria in un montagna finalizzato alla costruzione di una strada di collegamento, per di più tra due stati, significava, per quasi tutti, progresso. E questo concetto aveva un suo senso reale, una sua pregnanza: il miglioramento delle condizioni materiali, l’affrancarsi dall’isolamento e dall’ignoranza, maggiore interscambio e conoscenza tra i popoli - simboleggiato dall’incontro tra minatori francesi e italiani accomunati da un’unica impresa - erano un narrazione comune che includeva (quasi) tutti. Oggi, evidentemente, non è più così e la nozione di bene comune, e la sua definizione, è più controversa tanto che dovremo parlare di beni comuni. Nel caso della Val di Susa e dell’Alta Velocità si è detto che l’A.V. è la condizione per partecipare a un nuovo processo di sviluppo e di crescita nell’Europa e che di tale condizione l’Italia non può farne a meno. I concetti di riferimento attingono al binomia “crescita - sviluppo”: si pone al centro la crescita come meglio della non-crescita, lo sviluppo come meglio dello non sviluppo, e si traggono le conseguenze (Berta, Manghi, 2006). Chi si oppone è considerato nemico dello sviluppo. In questo schema il dialogo è pressoché impossibile e il conflitto diviene antagonismo.

L’azione di piano svolta da alcuni soggetti competenti realizza l’interesse comune visto che questi, in virtù delle loro competenze, riescono a definire e realizzare l’interesse pubblico (Crosta, 1998). L’insorgenza del conflitto può essere vista come incidente di percorso nella pianificazione che di per sé, in quanto esperta e ben informata, è indirizzata al bene comune. Ogni azione di piano è orientata al bene comune, che viene dato come

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presupposto, se qualcosa non funziona si dice che il nesso tra azione di piano e bene comune non è stato esplicitato e illustrato adeguatamente (“non si è comunicato abbastanza”..). Orbene, l’apertura dei conflitti mette in crisi questa rassicurante visione ed è sintomo non tanto di cirsi della politica, ma di ripoliticizzazione della società e quindi di nuove opportunità dell’agire pubblico pur in condizione di incertezza . Il processo di formazione di consenso dovrebbe significare un processo di costruzione di una nozione di senso comune del bene comune. Il problema è la definizione del “bene”.

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“I progetti come scatole nere”Negli anni ’80 a Bellville (il quartiere parigino reso

celebre dai romanzi di Pennac) venne proposto un progetto di riqualificazione urbana che comportava una trasformazione radicale del quartiere (la distruzione di gran parte degli edifici esistenti, la costruzione di un centro commerciale e di residenze private ...). Il progetto arriva all’esame degli amministratori già definito nei dettagli sulla base della negoziazione avvenuta fra i partners che partecipano alla società a partecipazione mista che promuove il progetto (banche, operatori commerciali e immobiliari). Il progetto per essere approvato deve passare per un processo pubblico di “abilitazione” cioè approvato dagli amministratori locali e concertato con gli abitanti prima che il Prefetto possa dichiararne l’utilità pubblica e dare il via definitivo. Il progetto per come si presentava - addobbato di procedure, argomentazioni e necessità tecniche - nascondeva le scelte di fondo, politiche e sociali. Presentava le caratteristiche di una “scatola nera”. Solo la mobilitazione popolare ha permesso che le scelte politiche e sociali di fondo implicate nel progetto venissero alla luce e quindi diventassero visibili e discutibili. Inoltre la mobilitazione popolare ha costretto gli attori pubblici ad uscire da una posizione sfocata e a salvaguardare le condizioni per cui le scelte su problemi e finalità collettive fossero percepite come tali.

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Partnership........ La questione della partnership arriva alle agende

delle politiche da diversi versanti. Vi è innanzitutto la consapevolezza della multidimensionalità dei problemi che richiede la convergenza dei punti di vista e posizioni diverse, superando così il carattere settoriale che connotava le politiche d’intervento. D’altronde la partnership - così come la partecipazione a cui spesso, nei documenti, si accoppia - costituisce oramai un richiamo obbligato. Obbligato anche nel senso letterale del termine visto che i due concetti fanno parte degli obiettivi enunciati in gran parte dei programmi e delle politiche comunitarie. Lavinia Bifulco e Ota de Leonardis parlano esplicitamente di “nuova ortodossia della partnership” ed individuano alcuni importanti punti di criticità nell’assunzione acritica di questo approccio (Bifulco, De Leonardis).

Innanzitutto grazie alla retorica della partnership e della partecipazione spesso assistiamo alla contrattazione e alla negoziazione tra portatori d’interessi diversi, parziali e in competizioni tra di loro sulla cui aggregazione si costruisce processualmente e a posteriori l’interesse generale. In questo ambito divengono egemonici i modelli di efficienza economica propri del mercato anche nel campo della scelta pubblica. Tutti gli attori coinvolti nelle scelte e nell’impatto delle politiche sono invitati a parlare il linguaggio degli interessi, a fare alleanze strumentali per pesare di più al tavolo delle trattative, a costituirsi e agire come lobbies. Le studiose mettono in dubbio la possibilità attraverso le partnership di coinvolgere e capacitare le comunità e i soggetti deboli e svantaggiati in particolare nei processi di scelta e azione. Gli esclusi, attraverso questi processi, rimarrebbero tali. I richiami alla partecipazione rischiamo di funzionare come discorso giustificatorio di pratiche che non accrescono o che addirittura riducono gli spazi e i poteri della cittadinanza

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attiva. Il pericolo è che si perda per strada il ruolo distintivo del governo della cosa pubblica nell’aggregazione strumentale finalizzato al conseguimento degli interessi. L’aggregazione infatti - a differenza dell’integrazione, incardinata nell’istituzione e sulla loro capacità di far emergere attori, identità e capacità politiche attorno ad un sistema di significati sociali, valori e norme condivise -, si riduce alla negoziazione fra soggetti interessati che competono tra loro. Decisioni e poteri d’intervento nelle politiche pubbliche vengono di fatto assunti da organismi, non pubblici e non elettivi, che traggono la loro posizione dal fatto di aggregare interessi. Nate per promuovere la partecipazione dal basso, le partnership sono divenuti luoghi in cui si attestano “governi privati”.

Quello che scompare in questi casi è l’arena pubblica: cioè quello spazio in cui i problemi collettivi diventano visibili e riconoscibili come tali e perciò campo di decisioni e azioni pubbliche.

L’amministrazione pubblica non deve ridursi a divenire attore tra gli altri altrimenti non può avvenire l’”aggancio” tra partecipazione dal basso e partnership di governo. Senza questo “aggancio” si ha una deprivazione dello spazio pubblico. Il bene più prezioso che l’amministrazione pubblica è tenuta a sorvegliare è l’esistenza di spazi e possibilità di voce dei diretti interessati, e cioè un interesse a promuovere, attivare e far circolare partecipazione. Compito principale della politica è quello di provvedersi di tutti gli strumenti, materiali e culturali che le permettano di esercitarsi

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Formazione Lo sviluppo locale è multidimensionale e fa appello a

cambiamenti culturali e di mentalità. L’apprendimento si può definire come quel processo di modificazione relativamente mutevole provocato dalla progressiva organizzazione dell’esperienza. E’ dall’esperienza che nasce il bisogno di ri-orientare la propria struttura concettuale, di ristrutturare la propria immagine del mondo. La conoscenza non basta, il cambiamento coinvolge processi profondi dell’io che non possono innestarsi senza radicate motivazioni.

I progetti di sviluppo locale possono essere assimilati a delle esperienze formative e educative e cioè riletti come processi di apprendimento e cambiamento. Chiedono quindi una ristrutturazione dei significati delle esperienze individuali e sociali, ma così come vi sono progetti di sviluppo locale che non aprono scenari di possibilità, così le azioni educative e formative possono non generare approfondimenti evolutivi ma apprendere il conformismo anziché l’autonomia. Spesso prevalgono dimensioni prescrittive e risolutive colludendo con la domanda di soluzioni rapide provenienti soprattutto dalle organizzazioni. Si continua a procedere come se la mente fosse isolabile dalle relazioni e dal contesto, come se si potessero separare i processi cognitivi da quelli emotivi. Si procede come inoltre come se l’insegnamento si riducesse a una trasmissione di informazioni in un ambiente separato e decontestualizzato come un’aula di formazione. In contesti dove viene riscoperta la diversità e il protagonismo degli attori, modelli di formazione a-contestuali basati sull’interazione pedagogica frontale tra un soggetto che sa e altri che debbono apprendere, pensati per un’idea di sviluppo economico sostanzialmente eterodiretto, non funzionano più.

Si può dire che viviamo in situazioni che rimandano a due differenti logiche relative alla conoscenza necessaria

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e alla formazione da attivare. La prima logica , più legata alla stabilità, alla linearità, alle routine organizzative e mentali, fa riferimento e richiede un sapere costituito , consolidato, istituito, ha come pilastri certezze e verità. La seconda si sviluppa in ambienti complessi, in sistemi lontani dallo stato di equilibrio, dove i gradi di libertà e di incertezza, sono elevati. In questi contesti appare poco efficace il far riferimento a logiche, soluzioni predefinite, routine cognitive. Appare invece più adattivo lo sviluppo della capacità di conoscere. Più che una capacità accumulativa, un saper immagazzinare e conservare saperi, serve la capacità di conoscere, di riflettere, di dialogare con il mondo esterno e con il mondo interno. Invece di focalizzare l’attenzione alla ricerca di “verità”, ci si orienta alla ricerca di “plausibilità” (Orsenigo, 2005).

I problemi sociali, economici, ambientali non sono più trattabili solo in dimensioni locali o solo in dimensioni globali: le interdipendenze obbligano da un lato ad affrontare, culturalmente ed operativamente, la complessità e dall’altra a lavorare insieme, a co-progettare e co-gestire processi su tanti livelli e tra tanti soggetti diversi, individuali e collettivi. Tutto ciò fa sì che non si possa pensare alla formazione come ad un repertorio più o meno stabile e coerente di conoscenze da trasmettere, né come una “semplice”, si fa per dire, operazione di alfabetizzazione culturale; così come è difficile pensare ad agenzie educative che possano svolgere il proprio mandato educativo in solitudine e auto-referenzialità. Si pone la questione del ruolo delle agenzie educative nella ricomposizione delle esperienze, nella ricomposizione e gestione cognitiva, nella formazione ad una cittadinanza attiva. La compartimentazione dei saperi in discipline e la dominanza di modalità trasmissive non aiuta a far questo. occorre una formazione in grado di promuovere capabilities e quindi la capacità di adattarsi attivamente a situazione mutate e quindi non solo avere dei mezzi ( operativi e le informazioni) ma anche nel saperli usare e soprattutto trovare. Ciò può significare sviluppare

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capacità di affrontare problemi originali non riproducendo solamente soluzioni già note (il sapere) e di successo (in quel momento e in quel contesto), ma costruirne di nuove, riconfigurando la situazione, interrogando e interrogandosi (conoscenza). Significa quindi saper utilizzare ciò che si sa ed avere la capacità di cercare saperi consolidati.

Che cosa è richiesto da un processo di sviluppo locale? 1 - la co-progettualità tra i soggetti territoriali, il fare insieme, la tessitura di reti di relazio-ni e di risorse; 2 - la propensione a tenere insieme ad integrare aspetti e processi diversi dei sistemi territoriali (per es., agricoltura e turismo; pubblico e privato; ecc. ...) 3 - la cura della memoria progetto (identità). 4 - il rilievo della di-mensione culturale 5 -attenzione al miglioramento qualitativo (nella coesione sociale; nell’interazione uomo/ambiente; nelle opportunità; nelle diminuzione delle diseguaglianze; nell’integrazione ed uso delle risorse; nel benessere fisico, psichico e sociale; ecc. ...) 6 - l’accettazione del limite e la scelta di tentare percorsi possibili. L’attivazione di un processo collettivo di sviluppo locale richiede non tanto, e non soltanto, un generico capitale umano di qualità, ma la presenza di un capitale umano competente a svolgere alcune fondamentali funzioni sociali quali, ad esempio, di mediazione e di esplicitazione dei conflitti, d’animazione e di consulenza, di costruzione e del consenso. 7 Tutto questo deve essere finalizzato alla8 promozione di competenze per una migliore

gestione cognitiva e cioè capire in che relazione stanno i modi di pensare, di parlare e di fare che in ogni individuo si possono sviluppare nel tempo e con l’esperienza, con i modi di rappresentare, di sapere e di

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produrre che, reciprocamente aggrovigliati e per nulla trasparenti, caratterizzano la società di oggi.

9 promozione di cittadinanza attiva. Trovare nei luoghi di formazione un ambiente che consenta e promuova una formazione ed uno stimolo ad essere cittadino consapevole, autonomo, attivo, flessibile nel senso di capace di rapportarsi con una diversità di contesti diversi modulando modi di guardare e di agire, e capace di prendere decisioni in situazioni incerte e complesse.

10 promozione della capacità a raffigurare e perseguire il cambiamento. Negli ultimi anni il cambiamento appare, sotto numerosi aspetti, un processo policentrico e diffuso.

Nessun rapporto con i luoghi è possibile senza la vocazione al cammino, al silenzio, alla lentezza, all’attenzione perché comporta percorsi di riconoscimento e di verità e non si accontenta di progetti pronti e immediati, “chiavi in mano”. L’ identità dei luoghi è delegittimata anche dalla “dittatura del tempo”, sotto cui viviamo: velocità e presente sono le categorie dominanti, tutto si consuma qui e subito e questo “qui” non ha identità. “E forse questa perdita di identità dei luoghi non è del tutto indipendente dal grave impoverimento a cui stiamo assistendo tra gli adolescenti e i giovani del ruolo della parola, dalla capacità di produrre narrazione, che nasce più dai luoghi che dal tempo. Qui sta anche il profondo valore educativo della dimensione locale, che può rivitalizzare il piacere della narrazione, attraverso cui si rinforzano le identità personali e collettive” (Legambiente Scuola e Formazione).

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