la macchina antropologica e la questione dell'io. quale umanesimo?

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Il prisma dell’umano all’incrocio dei saperi

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La macchina antropologica e la questione dell’io. Quale umanesimo?

adriaNo pessiNa*

«Il nucleo più autentico della riproposizione della questione antropologica sta in un sincero

non sapere che cosa sia l’uomo, e nella conseguente apertura verso ogni valida risposta» (R. Guardini)

1. UN itiNerario iNterpretatiVo e dUe VaLUtazioNi

«L’uomo è antiquato!»: questa affermazione, che rinvia al titolo di un noto libro di G. Anders, del 1956, può servire per mettere in evidenza alcuni problemi che si presentano a chi oggi voglia riabilitare l’umanesimo nell’epoca delle neuroscienze e delle biotecnologie senza doversi accodare alle teorie post o trans umanistiche1.

* Ordinario di Filosofia Morale, insegna Bioetica ed è Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del sacro Cuore di Milano. No-minato nel 2005 da Papa Benedetto XVI Membro ordinario della Pontificia Accademia per la Vita e, nel 2013, da Papa Francesco, Membro del Consiglio Direttivo della stessa Accademia. Fa pare della direzione della Rivista di “Filoso-fia Neo-Scolastica” e della rivista “Medicina e Morale. Rivista Internazionale di Bioetica”. Autori di molti saggi, si occupa delle trasformazioni dell’esperienza introdotte dalla tecnologia e dalle scienze sperimentali.

1 In questo testo sono anticipati alcuni temi sviluppati in a. pessiNa, L’io insoddi-sfatto, di prossima pubblicazione presso l’editrice Vita e Pensiero di Milano.

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Anders ci fornisce una prospettiva di lettura della contempo-raneità opposta a quella cui siamo soliti pensare: ciò che l’uomo contemporaneo sente come problematico non sarebbe affatto il suo essere ridotto a cosa, a prodotto, ma è esattamente l’opposto, il fatto di non esserlo e perciò di portare in sé il marchio della dipendenza, della fragilità, della sua imperfezione. Questa tesi, che oggi può essere documentata con maggiore ricchezza di dati rispetto alle esemplificazioni presenti nel pionieristico testo di Anders, resta ben espressa in questa lapidaria affermazione: «Credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, vergogna prometeica, e intendo con ciò vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi»2.

Il processo di liberazione pratico-teorico proposto del neo-illuminismo tecnologico ha il suo punto di forza proprio in quella che potremmo definire la macchina antropologica3, cioè in quel modello di autocomprensione dell’uomo che si salda pienamente con il progetto di autorealizzazione del cittadino occidentale espresso dalle politiche e dalle culture neoliberali. Come scrive Anders, «il desiderio dell’uomo moderno di diven-tare un self-made man, un prodotto, va visto dunque su questo sfondo mutato: Non già perché non sopporta più nulla che egli stesso non abbia fatto, vuole fare se stesso; ma perché non vuole essere qualcosa di non fatto. Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (Dio, dei, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati»4.

2 g. aNders, L’uomo è antiquato, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1963, 31.3 Questa nozione non va caricata, come avviene in alcuni autori contemporanei

che ne fanno uso, di significati valutativi: descrive il prevalere del modello mac-china nell’interpretazione dell’umano. A questo proposito risulta interessante la lettura di g. B. dysoN, L’evoluzione delle macchine. Da Darwin all’intelligenza globale, trad.it. R. Cortina, Milano 2000.

4 g. aNders, L’uomo è antiquato, 59.

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In questa impostazione si consolida ciò che, ancora Anders, defi-nisce il rifiuto del natum esse. «L’ “io che pone se stesso” di Fichte è la trasposizione in campo speculativo del self-made man, ossia dell’uomo che non vuole essere diventato, essere nato, ma de-sidera doversi a se stesso, desidera essere un prodotto di sé […]. Una variante posteriore di Fichte è Heidegger: perché il suo “es-sere gettato” non protesta soltanto contro l’essere-creati da Dio, ossia contro l’origine soprannaturale, ma anche contro l’essere-divenuti, ossia contro l’origine naturale»5.

Non sarebbe difficile mettere in correlazione questa affer-mazione con quanto avviene nel campo delle biotecnologie, dove si teorizza la liberazione dal destino biologico spostando sempre di più il focus dalla questione della liberazione dalla patologia alla liberazione dalla stessa casualità dell’origine per dar luogo ad una matura e libera programmazione e modifica migliorativa delle nuove generazioni.

Cosicché già nel 1956 Anders esprimeva con chiarezza quello che sarebbe stato il disegno di un uomo che si considerava an-tiquato: «Alla “teoria dell’organismo” è subentrata dunque una “prassi”, una “fisiotecnica” […] ma non una “fisiotecnica” del tipo a noi noto, ossia di tipo medico; bensì una “fisiotecnica” rivolu-zionaria, che si propone di capovolgere il “sistema” vigente del fisico, di toglierlo di mezzo e di creare, dalle “condizioni attuali” del corpo, condizioni radicalmente nuove. Se ne potrebbe for-mulare il motto parafrasando un modello famoso: “Non basta interpretare il corpo, bisogna anche modificarlo”»6.

Ciò che per Anders costituisce una perdita, ossia il consoli-darsi della macchina antropologica, è invece per Peter Sloterdijk

5 Ivi, 329-330, n. 2.6 Ivi, 71. Non sarebbe difficile documentare come questa impostazione sia pie-

namente presente nel complesso processo economico, scientifico e tecnologico promosso dal report della National Science Foundation e dal Departement of Commerce in the United States intitolato Converging Techonologies for Improving Human Performance.

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spesso ribadito e confermato dagli esperimenti scientifici nel campo delle neuroscienze è che la libertà non esisterebbe, sa-rebbe solo un errore percettivo? Eppure anche lo scienziato non sembra fare a meno di questo concetto ogni volta che rivendica con orgoglio la libertà di ricerca e si allinea al linguaggio comune che esalta l’autorealizzazione, cioè qualcosa che dovrebbe libe-ramente dipendere proprio dall’io e dal soggetto di cui ci si è liberati. Resta una distanza, che dà da pensare, tra ciò che l’uomo sa di sé e ciò che l’io dice di sé. Quanto poi alla liberazione dalla natura, la questione è diversa da come viene posta nella vulgata contemporanea: proprio perché l’uomo è pensato, studiato e manipolato come un essere pienamente ed esclusivamente natu-rale si possono ottenere quei risultati che impediscono, almeno lungo questa traiettoria, di parlare di eteronomia della natura. La cultura attuale ha finito con il rendere sempre più immanente la natura nell’uomo, come si può evincere nel progetto di “prendere in mano l’evoluzione” per modificarne il futuro: processo che è in fondo ancora tutto naturalistico.

Quanto a Dio, che Sloterdijk interpreta come fonte della più radicale eteronomia da cui liberarsi, si potrebbero fare molte considerazioni, ma qui ne possiamo proporre almeno una: è autentica e consistente l’idea di Dio che si sta negando o è in realtà il feticcio di una lunga storia culturale che ha più fami-liarità con le pratiche religiose che con le riflessioni teologiche? La domanda non è oziosa o puramente apologetica, perché, in fondo, la questione antropologica, proprio nel cuore della mo-dernità di Descartes e Pascal, ha avuto a che fare con la questione dell’io di fronte a Dio. Ed è forse a motivo della perdita della domanda sull’io che si è imposta una macchina antropologica che non soltanto non può pensarsi di fronte a Dio, ma che si è abituata a immaginarsi di fronte ad altre macchine. L’uomo che si sente fatto a immagine e somiglianza di una macchina è in fondo a proprio agio nel prodotto delle proprie mani, anche se deve ridimensionare quegli aspetti dell’io che nella macchina

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non hanno più posto alcuno. E non si tratta soltanto del venir meno della categoria dello spirito, ma della perdita del senso dell’eccedenza che l’io empirico, nella sua concreta carnalità, percepiva nell’interrogarsi sul senso del suo esistere.

2. Né pUra MacchiNa Né pUra NatUra

Nella Seconda Meditazione, Descartes, dopo aver salvato dal dubbio l’io – con una variazione non irrilevante rispetto a quella che si trova nel Discorso sul metodo – scrivendo che la proposi-zione «Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito»14, apre la que-stione del corpo. Come conosce l’io il suo corpo? L’esperienza di ciascuno testimonia che il corpo vissuto può essere scarsamente saputo e che in questo quotidiano rapporto di eccedenza e im-manenza al proprio corpo si possono porre fenomeni complessi di mancato riconoscimento e persino di rifiuto di ciò che si è e pure non si è mai del tutto. Scrive allora Descartes: «Io mi consi-deravo dapprima come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa macchina composta d’ossa e di carne, così come essa appare in un cadavere; macchina che io designavo con il nome di corpo». Non è questo il luogo ove analizzare il testo di Descartes che ha avuto molte interpretazioni, ma occorre soffer-marsi su questa analogia tra il corpo come macchina corporea e le spoglie cadaveriche: qui il corpo saputo è quello che allora potevano conoscere e studiare gli anatomisti. Un corpo che poi sarà studiato dal vivo, riprodotto in parte e in parti in labora-torio, simulato in macchine non più biologiche. Questo corpo, che Descartes riteneva potesse funzionare soltanto con “dentro”

14 r. cartesio, Meditazioni metafisiche, in r. cartesio, Discorso sul metodo. Medita-zioni metafisiche, con le obiezioni e le risposte, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1978, Tomo Primo, Seconda Meditazione, 78.

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un io, non soltanto è divenuto sempre più trasparente, ma è riuscito persino a spiegare il sorgere dell’io e delle sue certezze: non a caso oggi si trova ripetuta la tesi per cui le questioni della libertà, della moralità, dell’affettività, della responsabilità sono diventate appannaggio delle neuroscienze che intendono così sostituirsi alle indagini filosofiche e teologiche. Eppure questa pretesa porta con sé il germe del fallimento. Se, infatti, da una parte ha il vantaggio di poter correggere rappresentazioni fanta-siose e infantili del corpo umano e di saper mettere in relazione il corpo vissuto della prima persona singolare – il mio corpo – dal corpo saputo della scienza sperimentale – il corpo dell’uomo –, l’esito più coerente a cui può approdare è un determinismo che rende incomprensibile la semantica più profonda dell’io, quella che parla di responsabilità, di autonomia, di autenticità, di li-bertà, di colpa, di peccato, di redenzione, di salvezza, di morte e di finitezza.

Infatti, affinché queste parole abbiano un significato auten-tico, non siano sempre illusorie – a volte lo sono – occorre che l’io empirico non sia pura natura e perciò non possa che trovare una rappresentazione parziale nella macchina antropologica.

Ma come è pensabile un io empirico che non sia pura na-tura? Nel Novecento si possono citare due suggerimenti sui quali riflettere. Il primo è racchiuso nella celebre formula sar-triana per cui, nell’uomo – meglio sarebbe dire nell’uomo in quanto io empirico, cioè io che esiste dalla generazione alla morte ed è condizione necessaria dell’io penso e dell’io voglio – l’esistenza precede l’essenza. Come è noto, con ciò Sartre voleva infliggere un colpo mortale al creazionismo e alla tradizione filosofica che attraverso Platone ha pensato a un’idea di uomo che fosse in mente Dei e che ne avrebbe dovuto condizionare anche il comportamento: «il concetto di uomo, nella mente di Dio, è come l’idea del tagliacarte nella mente del fabbricante, e Dio crea l’uomo servendosi di una tecnica determinata e ispi-randosi ad una determinata concezione, così come l’artigiano

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qui la differenza tra Sartre e Guardini è abissale. Per il primo questo compimento non ci sarà mai, non solo perché la morte pone fine ad ogni fine, ma perché l’uomo non può sfuggire alla propria condizione finita; per il secondo, questo compimento avviene nell’incontro con Dio dopo la morte, quando diventerà chiaro il significato dell’essere stato creato a immagine e somi-glianza di Dio, perché la creazione dell’io è un essere chiamati per nome da Dio. Ma entrambe le prospettive ci riportano a prendere sul serio la libertà e la responsabilità e ci sottraggono all’idea che per coltivare l’umano basti la chimica e la farmacia, sia sufficiente innaffiarlo con buoni sentimenti e, di fronte al male e alla violenza, rassicurarlo che tutto dipende da neuroni, DNA, sinapsi e meccanismi sociali vari. La tentazione di iden-tificarci con la macchina antropologica che abbiamo creato è sempre possibile. Da questo punto di vista, ripensare all’io em-pirico significa rivalutare la categoria dell’incontro personale, del rischio esistenziale che si gioca nel prendersi cura dell’altro come qualcuno che ci interpella fin dall’inizio della sua esistenza; significa ridare spazio e tempo alla responsabilità come legame personale; significa sottrarsi all’ideologica filantropica che, in nome di un universale amore per l’uomo in generale, non sa poi farsi custode delle ferite, del dolore, delle sofferenze del singolo, non sa poi vedere e riconoscere la presenza di chi gli sta o gli passa accanto. Soltanto se davvero il compimento dell’io è alla fine, nell’incontro ultimo con Dio, allora si può comprendere perché la perfezione dell’umano non possa darsi semplice-mente nello sviluppo, nel potenziamento o persino nella ma-nipolazione della sua natura. Un uomo puramente naturale è infatti condannato, per la logica stessa della natura, alla fine: un uomo aperto alla Trascendenza di Dio comprende che il fine della sua esistenza non potrà mai essere la sua fine e manterrà desta la consapevolezza che la morte è la grande contraddizione a cui nessun umanesimo potrà mai rispondere, anche quando si impegnerà per allontanarla o sognerà, grazie alla medicina

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biotecnologica, di sconfiggerla. In fondo, la creatività dell’uomo si è sempre più esercitata nel potere di dominio su quello che ha considerato la sua natura, studiata e manipolata dentro il modello della macchina antropologica: oggi dobbiamo inter-rogarci seriamente sulla possibilità che in realtà quella pretesa natura sia invece da interpretare come la storia della salvezza a cui ognuno è chiamato fin dalla sua origine. Così si può pensare che da Cristo non derivi tanto un nuovo umanesimo, una specie di dogmatica antropologica da contrapporre o da riconciliare con la macchina antropologica delle neuroscienze, ma un modo nuovo di essere e di pensare all’io dell’uomo come cammino di edificazione di nuove relazioni. L’autocomprensione dell’uomo dentro l’alveo di una fede credente e pensante può fornire un contributo originale e originario all’io. La macchina antropolo-gica, così come l’approccio esistenzialista all’io, non sono mo-menti estranei alla storia dell’autocomprensione dell’uomo, ma la loro verità e autenticità non può essere posta senza prendere sul serio questa affermazione che di nuovo strappiamo al te-sto di Guardini: «tutte le questioni antropologiche si situano fin dal principio all’interno del rapporto con Cristo. Nasce da qui la difficoltà di comprendere in che modo possa svilupparsi una trattazione sistematica di tale rapporto, dato che già nel primo approccio a tale questione è implicata l’intera tematica cristologica e dell’esserci cristiano»22. Nella prospettiva della fede cristiana, l’antropologia non può costituirsi nei termini della natura, ma in quella della storia e della grazia. Questo è un ap-porto decisivo anche per la riflessione filosofica in senso stretto perché permette di fare i conti con un’ermeneutica dell’esistenza e delle sue forme che è in grado di dar ragione delle originarie esperienze della libertà, della responsabilità, dell’interrogazione esistenziale. Nell’epoca del totalitarismo consumistico, in cui l’io è un prodotto di massa, la fede cristiana costituisce un appello

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e un monito alla riscoperta dell’interiorità della soggettività, sconosciuta ad ogni approccio scientifico. Oggi sappiamo molte cose sull’uomo, ma tutto questo sapere non basta a rispondere alla domanda sull’io e sul significato ultimo del suo esistere e progettare. I limiti, gli errori, ma anche la grandezza e le poten-zialità, presenti nell’impresa scientifica e tecnologica dell’uomo contemporaneo emergono con maggiore evidenza laddove si permette ad ognuno di riporre a sé la domanda: chi sono io? Solo un cuore inquieto può incontrare gli altri senza ridurli a forme consuete di un umanesimo asoggettivo. Per questo si può forse concludere con queste parole di Nietzsche: «siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno trovare? Non a torto è stato detto. “Dove è il vostro tesoro, là è anche il vostro cuore”»23. La que-stione antropologica è forse proprio questa: sapere qual è il te-soro che l’io deve cercare.

Parole chiave: Io, Oggetto, Soggetto, Conoscenza, Ragione, Uma-nesimo, Uomo

23 f. Nietzsche, Genealogia della morale, trad. it., Adelphi, Milano 1984, 3.

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