il mistero dell'incarnazione nella poetica di charles peguy
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CHARLES PEGUY POETA DEL MISTERO DELL’INCARNAZIONE
Paolo Cugini
Esiste una coerenza interna che percorre tutta l’opera di Péguy e che poggia da una parte sul metodo
intuitivo appreso da Bergson, dall’altra sulla concezione del tempo presente come punto cruciale in
cui l’uomo può accogliere e vivere la realtà (plurale). Se questi punti nodali del pensiero péguysta
legano con fili sottilissimi le sue concezioni politiche con quelle di carattere morale e sociale, ciò
vale soprattutto per le concezioni religiose. Occorre ricordare che la posizione di Péguy nei confronti
del cristianesimo ha vissuto stagioni diverse. Péguy si è rapportato con la religione cattolica in
accordo con la riflessione globale che stava conducendo intorno alla realtà.
Proprio per questo, per offrire un giudizio il più obbiettivo possibile, occorre tenere presente il
travaglio interiore percorso dal Nostro. Sarebbe pericoloso, infatti, fermarsi alla fase critica e
polemica di Péguy, in quanto ne potrebbe scaturire una visione oltre che parziale, anche e
soprattutto negativa. Non va dimenticato che Péguy ha avuto parole dure non tanto nei confronti
del cattolicesimo quanto, piuttosto, nei confronti di coloro che dovrebbero salvaguardare ed
annunciare il patrimonio religioso portato da Gesù sulla terra. Il rischio costante in cui si imbatte
colui che si accosta all’opera di Péguy è quello di trasformarla immediatamente in blasfema. Una
lettura attenta conduce invece a scoprire la fedeltà estrema di Péguy al messaggio rivelato, che si
traduce in una ricerca continua e sofferta della sua essenza.
Le pagine positive della mistica péguyana non possono, dunque, essere lette ed analizzate senza
tenere conto dell’ impostazione filosofica che soggiace, e degli sviluppi che sul piano della critica
sociale e morale ne conseguono. I Misteri, in definitiva, non possono essere compresi se non sono
accostati alla prosa di Péguy.
Passione di Cristo come realizzazione dell’Incarnazione
“Il presente è il punto di passata del tempo”1. Questa definizione che abbiamo avuto
modo di analizzare nel secolo capitolo e che sta alla base della intera impostazione
filosofica di Péguy, è la riflessione conclusiva che in Nota Congiunta il Nostro svolge
sul mistero dell’Incarnazione. E’ un dato bibliografico che è molto più profondo di
quello che in apparenza potrebbe sembrare.
1 Nota congiunta su Cartesio, in Cartesio e Bergson, cit., p. 204.
Contiene, infatti, in germe lo stupore che ha accompagnato Péguy nella
contemplazione dell’Incarnazione: “Et homo factus est”. Péguy in certi passaggi della
sua opera, che più avanti prenderemo in esame, sembra quasi sconvolto dal
constatare – una constatazione contemplativa, non astratta, quella contemplazione
che sa riconoscere nella realtà la presenza del Trascendente – che proprio dove di
solito si trova l’umanità con tutto ciò che di finitezza e miseria porta con se, si è
incarnato il verbo.
“Bisogna sempre considerare, l’abbiamo detto, che Gesù ha preso l’Incarnazione nella sua esattezza e nella sua pianezza. Senza alcuna limitazione o riserva. Senza alcuna prudenza o precauzione fraudolenta. E’ diventato un uomo tra gli uomini. Si è fatto santo tra i santi. Ha specialmente rivestito la riserva e la limitazione che sono proprie dell’uomo. Specialmente la limitazione nel tempo e nel luogo”2.
L’incarnazione è un evento che è accaduto nel presente. Come tutti gli eventi anche
l’Incarnazione ha voluto sottostare alla stessa legge che è la legge del tempo e della
storia. Nel presente finito è passato l’eterno e l’infinito. Péguy ci invita a cogliere lo
straordinario del mistero dell’incarnazione, non nell’inconsueto, ma nella
consuetudine della vita di ogni giorno. “Non ha voluto essere attestato, ricordato
mediante un miracolo costante. Mediante un miracolo permanente. Non ha voluto
servirsi di mezzi diversi da quelli dell’uomo e della storia e della memoria dell’uomo”3.
La vita di Gesù è la storia del figlio di Dio, ma che a differenza di quello che l’umana
comprensione poteva aspettarsi, può essere raccontata perché, in fin dei conti è la
storia di un uomo. E’ “la vita di uno santo in testa alle altre, ma la vita di un santo
nonostante tutto, come le altre fra le altre”4.
Il Figlio di Dio si è incarnato in un tempo, in un luogo, in mezzo ad un popolo. Si è
lasciato guardare, toccare, ascoltare. Il Figlio di Dio è vissuto come un uomo tra gli
uomini e, in questo modo, ha permesso che la sua vita fosse raccontata. Gesù si è
2 Ivi, p. 192. 3 Ivi, pp. 194-195. 4 Ivi, p. 197.
consegnato allo storico, all’esegeta, al critico: ha permesso all’intelligenza umana di
penetrare da una particolare angolatura il mistero. In questa prospettiva “I Vangeli
sono per Gesù ciò che i “Processi” sono per Giovanna d’Arco, “Poliuto” per Poliuto,
Joinville per San Luigi”5.
Nei Vangeli, dunque, non ci troviamo di fronte a delle profezie compiute in modo
determinato, come si esegue un’equazione matematica. La realizzazione delle
profezie è passata tramite le libere scelte del Figlio di Dio che si è fatto uomo e che
nella pienezza di questa libertà poteva anche non realizzarle.
“Appartiene all’ordine dell’uomo e dell’avvenimento, il passaggio dalle profezie ai Vangeli. Appartiene all’ordine dell’uomo e dell’avvenimento, per niente all’ordine della deduzione logica, matematica, fisica apparentemente scientifica, per niente all’ordine determinista e a quello moderni. I Vangeli non sono soltanto le profezie avvenute, sono le profezie realizzate6.
Il mantenimento delle promesse operate da Gesù e che noi leggiamo nei Vangeli non
stanno solamente in una determinata relazione cronologica. La profezia e il
mantenimento sono due momenti e, secondo Péguy, non si può nemmeno affermare
che uno stia all’inizio o l’altro al termine di una serie di eventi. Occorre recuperare la
profondità e la ricchezza del senso della Parola rivelata collocando il mantenimento
della profezia nel luogo in cui si realizza: il presente. “Un immenso passato non ha
potuto dare un immenso ed universale futuro se non passando per un certo punto di
fecondità per un certo punto di generazione del presente”7.
Se è vero che il presente non è inerte non è solo spettatore e testimone passivo di
eventi che sarebbero in ogni modo accaduti, allora l’Incarnazione del Verbo nella
storia assume significati inattesi. Occorre prima di tutto abituare la nostra mente a
non considerare il presente come l’ultimo punto di una linea. In questa prospettiva,
infatti, è facile cadere nel determinismo e non aspettarsi nulla di nuovo da ciò che è
5 Ibidem. 6 Ivi, p. 198. 7 Ivi, p. 203.
già stato preparato in precedenza. Il presente come evento terminale di una sequenza
non può essere che portatore del passato del già conosciuto. Se, invece, il presente
“è il primo punto non ancora impegnato, non ancora formato, il punto ancora in corso
di acquisizione, in corso di iscrizione, la linea mentre la si scrive e la si iscrive, il punto
che non ha ancora le spalle afferrate nelle mummificazioni del passato”8 , allora il
discorso cambia radicalmente. Il compimento diviene infatti ad assumere
caratteristiche nuove rispetto alla profezia, poiché porta con sé una pianezza di
novità, di fecondità, che non sono altro che la realizzazione di un evento libero in un
momento presente. Il Verbo incarnato è la condivisione divina della condizione
umana tranne, naturalmente, il peccato; condivisione assunta a partire
dall’inquietudine che il presente porta con sé.
Lo scarto tra profezia e compimento, tra i profeti e l’ultimo dei profeti nel senso sopra
delineato per Péguy, è possibile delinearlo riflettendo intorno agli eventi che hanno
caratterizzato la Passione di Gesù. E’ in questa circostanza che tutta la creazione è
rimasta con “il fiato sospeso”9 in una situazione di universale attesa nei confronti del
gesto libero di Gesù dinnanzi alla propria morte. Il senso della libertà in cui si è
adempiuto il mistero dell’incarnazione, consiste nel fatto che l’ultimo dei profeti non
era rigorosamente tenuto a rispettare le attese e poteva, se voleva, disimpegnarsi.
“Poiché egli era la chiave di volta. E i secoli eterni essi stessi attendevano, insieme,
(nello stesso tempo), prima, dopo, perché sono eterni. L’eternità stessa era
sospesa”10.
E’ Clio che parla in prima persona e per rendere maggiormente il senso della gravità
della situazione che si è venuta a creare con l’Incarnazione del Verbo e del carico di
attese poste in essa, mostra il cammino che la storia ha percorso sino a quel
momento. Tutto sembra confluire in quel punto di presente: la disciplina romana, la
8 Ivi, p. 204. 9 Cfr., Véronique, dialogue de l’histoire et de l’àme charnelle, cit., p. 456. 10 Ibidem.
libertà greca, la tecnica giudaica. Tutto sembra partecipare in spasmodica attesa a ciò
che Gesù farà nei confronti della propria morte. Accetterà la volontà del Padre (“che
era anche la sua; da tutta l’eternità era propriamente la sua”)?11 E’ vero che Gesù
stesso aveva annunciato, nei tre anni di predicazione, la propria morte, ma “sapere,
amico mio, come si vede bene, in questo esempio imminente, su questo esempio
singolare che c’è un abisso tra sapere e fare, tra sapere la morte, (la propria morte),
e passarci”12.
Non è possibile accostarsi ai brani della passione di Gesù presenti nei Vangeli, come
ci si accosta ad un brano di letteratura. Non vi è in essi la narrazione di una morte
eroica, ma di una morte reale, drammatica. Gesù ha vissuto la propria morte con
quella serenità e con quella pienezza che ha caratterizzato tutta la sua esistenza.
“In questo senso non vi scappi – ammonisce Péguy – che la sua passione e soprattutto che la sua morte era come un compimento e nello stesso tempo come una prova e un controllo, una verifica, quasi una concentrazione, una realizzazione suprema della sua incarnazione, che il mistero della sua passione e soprattutto della
sua morte donava come controprova”13.
Gesù dinnanzi alla volontà del Padre si stava preparando a subire la morte
comune, la morte di tutti gli uomini14.
E’ in questa circostanza che si consuma e allo stesso tempo giunge pienezza il dramma
dell’umanità del Figlio di Dio: “Transeat a me… Pater mi, si possibile est, transeat a
me calix iste”. E’ questa la preghiera che echeggia in tutto il creato e che ha fatto
temere il peggio. Un pesante presente ha sorretto l’angoscia carnale della atroce
preghiera: la creazione ha vissuto un tempo di arretramento.
11 Ivi, p. 457. 12 Ibidem. 13 Ivi, p. 258. 14 “Egli stava per subire la morte, la morte ordinaria, la morte comune, bambino, la morte come in Villon, la morte di ogni uomo, la morte di tutti, la morte comune, la morte comune a tutti, la morte di cui vostro padre, è morto, mio bambino, e il padre di vostro padre; la morte che vostro padre, il vostro giovane padre ha subito quando avevate dieci mesi, la morte che vostra madre subirà, un giorno, una volta; e vostra moglie, e voi bambini, e i bambini di voi bambini; voi stessi, al centro. La rottura carnale, la rottura che si compie una volta. La rottura dei tessuti, la rottura dei vasi, la rottura di tutti i cardini della vita” (Ivi, p. 459).
Se, infatti, secoli di catechismo non hanno troppo abbruttito e abituato il senso
profondo dei testi sacri, allora ci si accorge che mentre tutti i testi vanno nella stessa
direzione del compimento della salvezza, ve n’è uno – quello della preghiera di Gesù
nell’orto degli Olivi – che va nel senso opposto. Osservando con attenzione come si è
evoluta la tradizione cristiana sembra che si sia fatto di tutto pur di dimenticare la
terribile ora di Gesù:
“Perché questi tre piccoli libri, più o meno dello stesso ordine, dello stesso valore, l’almanacco, la storia, il catechismo, si sono congiurati a questo scopo; la storia a rendere questo evento passato (quando è dappertutto presente); quindi abituato; il catechismo a renderlo rituale; quindi abituato; e il calendario non ha potuto fare altro che di metterlo di primavera, nel cuore della stagione dove la natura ha l’illusione di
una rinascita eterna”15.
Nella settimana di Pasqua i cristiani celebrano il ricordo della preghiera di Gesù
nell’orto degli Olivi, che in un simile contesto passa piuttosto inosservato. Sono parole
che si venerano in un contesto di festa perché non le si vuole ascoltare. Parole terribili,
annacquate da secoli di catechismo, che hanno fatto disperdere la drammaticità
dell’evento in atto, come se tutto dovesse essere adattato a livello e alla
comprensione dei bambini.
La stessa sorte ha subito il rimprovero che, nella stessa scena evangelica, Gesù rivolge
ai suoi discepoli, in modo particolare, a Pietro: Vigilate e pregate. Non si tratta, per
Péguy di un semplice rimprovero del maestro nei confronti dei propri allievi. Gesù
parlando ai suoi discepoli, pur riprendendoli con severità, non intende frapporre delle
distanza come se lui fosse di un’altra razza.
“É tutto il contrario, diametralmente il contrario. Nel momento in cui insegna la
tentazione e di vegliare e di pregare per non entrare nella tentazione, e che lo spirito
è pronto e che la carne è debole[…] non era un insegnamento ma una confidenza”16.
15 Ivi, p. 461. 16 Ivi, p. 463.
Péguy sottolinea l’imbarazzo che si prova quando si accenna alla debolezza che
sembra contrastare con l’idea di Dio come Essere eterno, immutabile, trascendente.
Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, ha sposato integralmente la condizione umana,
vivendo sulla propria carne i limiti di una tale condizione umana, vivendo sulla propria
carne i limiti di una tale condizione che ha nell’esperienza della morte e il suo culmine.
L’intento di Péguy, mentre da una parte si dirige nel tentativo di smascherare
l’edulcoramento operato da una certa tradizione cristiana nei confronti dello scandalo
della croce, dall’altra propone una riflessione profonda sulla reale prova che l’umanità
di Gesù ha subito. Gesù non ha semplicemente fatto finta di essere uomo ma, “nella
sua propria carne di uomo, davanti alla morte, istantaneamente giungeva a conoscere
ciò che è la debolezza e l’infermità di ogni carne d’uomo”17. E’ questa la confidenza
terribilmente umana che Gesù comunica ai suoi apostoli nell’ora della prova, che non
può essere, dunque, talmente travisata da presentarla come un insegnamento
distaccato: “È una comunicazione d’esperienza, personale, di una triste esperienza
che stava per compiersi, una rivelazione di una miseria, umana, una rivelazione di
uomo, di un povero essere miserabile ad un povero essere miserabile[…] una triste
confessione”18.
Lo stesso si deve sostenere per la preghiera che Gesù pronuncia nell’orto degli Olivi e
che Péguy collega alla preghiera che Gesù stesso aveva insegnato agli apostoli durante
il discorso della montagna.
La dolce cadenza ritmica del Pater noster che fluiva dalle labbra del Redentore in quel
giorno sul monte, circondato dall’affetto degli apostoli è, ora, nel contesto della notte
tragica della Passione
“sbriciolata, irregolare, brutta […] questa invocazione come tirata a sé, Pater mi al posto di Pater noster, che attira, che attrae, che ritira suo Padre, a sé; che fa, che dona una tale confusione, una tale penetrazione delle sue due persone, che facendo questa preghiera d’uomo non si sa tutto d’un colpo egli non parli tutto d’un colpo,
17 Ibidem. 18 Ibidem.
molto specialmente, particolarmente, quasi professionalmente, come tecnicamente
come figli di Dio”19.
Nella Passione – prova sublime del mistero dell’Incarnazione – tutto concorre a
sostenere che fino alla fine Gesù è stato un uomo con un corpo d’uomo. Come tutti i
corpi d’uomo, anche quello di Gesù si è ribellato contro la morte del proprio corpo.
Gesù compie il coronamento dell’incarnazione, coronamento che non si sarebbe
verificato se Gesù fosse venuto come puro spirito20. E’ in questo che per Péguy,
occorre riconoscere il mistero dell’Incarnazione, nell’integralità del sodalizio che Dio
ha creato con l’uomo senza tralasciare nulla: nascita, storia, malattia, sofferenza,
morte. Se, infatti, avesse inaugurato “un sistema con delle eccezioni, una sola
eccezione, tutto sarebbe perduto […] perché tutto il mondo vorrebbe entrare, tutto il
mondo vi si precipiterebbe”21. Occorreva che il rischio della sofferenza e della morte
fosse mantenuto nella sua drammaticità altrimenti l’eccezione avrebbe costituito una
prova troppo eclatante e anche “i più imbecilli se ne sarebbero accorti. Anche gli
storici se ne sarebbero accorti”22.
Se il cristianesimo fosse stato in modo evidente una seconda creazione “avrebbe
fornito una prova da mettere nei libri”23. L’era cristiana non ha inaugurato un’era di
fortuna, così come l’uomo promosso cristiano non è tolto dalla propria condizione
terrestre. Anzi, secondo Péguy, un cristiano si dovrebbe riconoscere dal fatto che “è
un uomo che ha delle seccature senza fine. Dovrebbe sembrare che ne abbiate avute
sistematicamente più della media, più del normale, più che per il vostro grado di
uomini”24.
19 Ivi, p. 466. 20 “Se egli (Gesù) non avesse avuto questo corpo, amico mio, se fosse stato, se fosse restato un puro spirito, se si fosse fatto angelo, se fosse stato, se si fosse fatto angelo, se fosse stato, se si fosse fatto uno spirito più o meno puro, più o meno incarnato, se infine non fosse stato l’anima carnale, se non fosse stato questa anima carnale, una anima carnale, come noi, come le nostre, tra noi, tra le nostre, se non avesse sofferto questa morte carnale, tutto cadeva, bambino mio, tutto il sistema cadeva, perché non sarebbe stato interamente uomo” (Ivi, p. 468). 21 Ivi, p. 479. 22 Ivi, p. 486. 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 481.
Il vero senso del miracolo dell’Incarnazione va dunque colto in questa situazione di
radicamento terreno, perché pone l’uomo nella condizione di cogliere la continuità
della propria creazione – fiat lux – con la seconda creazione – fiat voluntas.
“A cinquanta secoli di distanza, dopo il primo Adamo, fino al nuovo Adamo, fino a questo nuovo Adamo, secondo lo stesso ritmo, secondo la stessa formula, secondo lo stesso ritmo segreto, secondo lo stesso ritmo interiore, come un eco fedele questa stessa parola, questa eco rinnovava […]. Dio a più di cinquanta secoli rispondeva Dio. Dio sottomesso, Dio fatto uomo rispondeva se posso dire a (un) Dio in pieno esercizio, a Dio in tutta la grandezza e la maestà della sua creazione”25.
Da una nuova angolazione Péguy intende evidenziare la natura della realtà cristiana,
avvertendo che la continuità tra la prima e la seconda creazione non si pone
sull’ordine del progresso storico. Non si tratta, infatti, di un miglioramento di
condizione. Come per la morte per il sacrificio di Gesù “nessun angelo è sceso dal cielo
per fermare il colpo”26 – come era accaduto nel sacrificio di Isacco – così sarà per
l’uomo. Contrariamente a quanto si è soliti pensare la nuova legge è più dura ed
esigente della seconda perché non ammette eccezioni, ma solo in questa prospettiva
è in grado di rinnovare il mondo27. Dopo quella storia unica e irripetibile che ha
assistito alla nascita, alla predicazione, alla passione, alla redenzione al Figlio di Dio, il
mondo è rimasto lo stesso. Tutti coloro che si attendono particolari capovolgimenti,
uniti a segni divini sono rimasti delusi, perché “la cristianità non è un’operazione
pubblica, superficiale […] E’ un evento, un’operazione tutta segreta, interiore molto
profonda […] L’operazione cristiana è un’operazione molecolare, interiore istologica,
un evento molecolare, che spesso lascia intatti le scorza dell’evento”28. Operazione
talmente profonda che spesso lascia spiazzata l’intera umanità.
L’intento di Péguy consiste nell’indicare all’uomo del suo tempo, l’uomo moderno,
talmente preso dai propri meccanismi di conoscenza scientifica da non permettere
25 Ivi, p. 472. 26 Ivi, p. 474. 27 “Questa volontà di morte, della morte temporale, della morte naturale; questa volontà che la morte, la vostra morte è naturale, che vi è naturale, che la morte è nella vostra natura, la vostra morte, che è nell’ordine della natura, nel vostro ordine naturale” (Ivi, pp. 474-485). 28 Ivi, p. 482.
alcuna eccezione al sistema, la via giusta da seguire per scoprire il senso della realtà.
E’ una via poco rumorosa, ma silenziosa che costantemente e fedelmente segue i
sentieri tortuosi dell’uomo. L’Incarnazione del Verbo, agli occhi di Péguy, ritiene di
comunicare l’intimità stretta di Dio con l’uomo:
“l’incredibile legame, il solo reale, dell’uomo e di Dio, dell’infinito e del finito, dell’eterno e del temporale, dell’eternità e del tempo, dell’eternità e della temporalità; e anche dello spirito e della materia, dello spirito e del corpo, dell’anima e della carne; questo incredibile legame dell’anima carnale; con Dio in Dio, con l’uomo, nell’uomo. Questo incredibile, il solo reale legame, del Creatore e della creatura”29.
E’ in questa affermazione che occorre riscoprire il senso e allo stesso tempo il dramma
del cammino spirituale di Péguy. Deluso da una cristianità che, a suo avviso, giocava
la propria appartenenza al progetto divino nelle mere elucubrazioni del mondo
moderno, ha fatto l’esperienza del rifiuto e dell’abbandono. Per sorta, però, di quel
divino mistero dell’amore di Dio, che nell’Incarnazione del verbo trova la sua
completa realizzazione, lo stesso Péguy in costante atteggiamento di ricerca e di
attesa, ritrova il senso della propria natura creaturale. A questo punto del cammino
Péguy non può fare altro che mostrare all’umanità i tranelli che più o meno
consapevolmente la natura umana pone come ostacoli alla realizzazione del piano di
Dio. La foga che Péguy mette nelle dense righe della propria prosa, è tutta protesta e
mostrare che Dio non si è allontanato dall’uomo morendo sulla croce, ma che proprio
in virtù di questo gesto supremo si è legato a lui indissolubilmente dall’eternità.
Percorrendo la strada del figliol prodigo Péguy ha sperimentato l’immensa paternità
dell’amore di Dio. La sua opera è la testimonianza di questo lungo viaggio.
29 Ivi, p. 491.