ec havelock mimesis teatro greco

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Havelock, la mimesis e il teatro greco: alcuni spunti per nuovi approcci ad una teoria semiotica dei fenomeni urbani Nicolò Savarese Questo articolo vuole essere qualcosa di più del punto di vista di un urbanista/territorialista sulla semiotica dei fenomeni urbani. Esso nasce dal combinato disposto di due letture non proprio recenti: gli atti del XXXIV Congresso dell'AISS 1 ed un quasi contemporaneo saggio di Maria Luisa Catoni 2 , che mi è servito a chiarire alcuni aspetti relativi alla comunicazione del visibile nel mondo greco antico rispetto al mondo moderno; dal quale siamo usciti in un qualche momento del secolo scorso, senza aver tuttora messo a fuoco un efficace paradigma interpretativo del post-moderno. Poiché credo si sia tutti d'accordo sulla centralità della città nella ricerca attorno ai linguaggi basati sulla comunicazione visiva, credo anche che la mancanza di dialogo e di scambio di buone pratiche tra la sfera delle discipline semiotiche e quella delle discipline urbanologiche non giovi alla chiarificazione dei moltissimi problemi ancora aperti sul significato dell'architettura e della città e sulle possibilità di fondazione di una teoria robusta e consistente al riguardo. 1. Eric Havelock: da Omero a Platone Preface to Platon di Eric Havelock ha rappresentato una pietra miliare negli studi platonici, e come tale viene ormai riconosciuto anche dai suoi critici 3 . La sua tesi verte su un momento cruciale della storia dell'Occidente: il passaggio definitivo dalla cultura dell'oralità a quella della scrittura, avvenuto 1 Marrone G., Pezzini I., a cura, 2006, Senso e Metropoli. Per una semiotica posturbana, Roma, Meltemi; ed inoltre: Marrone G., Pezzini I., a cura, 2008, Linguaggi della città. Senso e metropoli II: modelli e proposte d'analisi, Roma, Meltemi. 2 Catoni, M.L., 2008, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Torino, Bollati Boringhieri. 3 Havelock, E.A., 1963, Preface to Plato, Cambridge (Ma.), Harvard University Press; trad.it. Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Bari, Laterza, 1983. Per i successivi riferimenti ai dialoghi platonici vedasi l'opera omnia: Maltese, E.V., a cura, 2010, Platone. Tutte le opere, trad.it. con testo a lato, Roma, Newton Compton. Per quanto riguarda gli altri studiosi successivamente citati vedasi: Lord, A.B., 1960, The Singer of Tales, Cambridge, Ma., Harvard University Press; Ong, W.J., 2002, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London & New York, Routledge, trad.it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986; Goody, J., 1977, The Domestication of the Savage Mind, Cambridge, Ma., Cambridge University Press, trad.it. L'addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Franco Angeli, 1990. Capostipite degli studi sul rapporto tra poemi omerici e cultura orale fu M. Parry, i cui scritti sono stati raccolti a cura del figlio: Parry, A., 1971, The Making of Homeric Verse. The Collected Papers of Milman Parry, Oxford, Oxford University Press.

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Havelock, la mimesis e il teatro greco: alcuni spunti per nuovi approcci ad una teoria semiotica dei fenomeni urbani Nicolò Savarese Questo articolo vuole essere qualcosa di più del punto di vista di un urbanista/territorialista sulla semiotica dei fenomeni urbani. Esso nasce dal combinato disposto di due letture non proprio recenti: gli atti del XXXIV Congresso dell'AISS1 ed un quasi contemporaneo saggio di Maria Luisa Catoni2, che mi è servito a chiarire alcuni aspetti relativi alla comunicazione del visibile nel mondo greco antico rispetto al mondo moderno; dal quale siamo usciti in un qualche momento del secolo scorso, senza aver tuttora messo a fuoco un efficace paradigma interpretativo del post-moderno. Poiché credo si sia tutti d'accordo sulla centralità della città nella ricerca attorno ai linguaggi basati sulla comunicazione visiva, credo anche che la mancanza di dialogo e di scambio di buone pratiche tra la sfera delle discipline semiotiche e quella delle discipline urbanologiche non giovi alla chiarificazione dei moltissimi problemi ancora aperti sul significato dell'architettura e della città e sulle possibilità di fondazione di una teoria robusta e consistente al riguardo. 1. Eric Havelock: da Omero a Platone Preface to Platon di Eric Havelock ha rappresentato una pietra miliare negli studi platonici, e come tale viene ormai riconosciuto anche dai suoi critici3. La sua tesi verte su un momento cruciale della storia dell'Occidente: il passaggio definitivo dalla cultura dell'oralità a quella della scrittura, avvenuto

1 Marrone G., Pezzini I., a cura, 2006, Senso e Metropoli. Per una semiotica posturbana, Roma, Meltemi; ed inoltre: Marrone G., Pezzini I., a cura, 2008, Linguaggi della città. Senso e metropoli II: modelli e proposte d'analisi, Roma, Meltemi. 2 Catoni, M.L., 2008, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Torino, Bollati Boringhieri. 3 Havelock, E.A., 1963, Preface to Plato, Cambridge (Ma.), Harvard University Press; trad.it. Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Bari, Laterza, 1983. Per i successivi riferimenti ai dialoghi platonici vedasi l'opera omnia: Maltese, E.V., a cura, 2010, Platone. Tutte le opere, trad.it. con testo a lato, Roma, Newton Compton. Per quanto riguarda gli altri studiosi successivamente citati vedasi: Lord, A.B., 1960, The Singer of Tales, Cambridge, Ma., Harvard University Press; Ong, W.J., 2002, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London & New York, Routledge, trad.it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986; Goody, J., 1977, The Domestication of the Savage Mind, Cambridge, Ma., Cambridge University Press, trad.it. L'addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Franco Angeli, 1990. Capostipite degli studi sul rapporto tra poemi omerici e cultura orale fu M. Parry, i cui scritti sono stati raccolti a cura del figlio: Parry, A., 1971, The Making of Homeric Verse. The Collected Papers of Milman Parry, Oxford, Oxford University Press.

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in Grecia tra la fine del V e l'inizio IV secolo a.C., esattamente in coincidenza con l'elaborazione dei dialoghi socratici da parte di Platone. Tale passaggio si è andato in realtà sviluppando gradatamente lungo un arco temporale di vari secoli, a partire dall'introduzione della scrittura alfabetica nell'Ellade4 fino all'epoca di Platone, e cioè alla diffusione dell'alfabetizzazione in ambito scolastico e educativo. Ora, mentre il giudizio di Havelock sull'opera filosofico-letteraria di Platone resta controverso5, l'interpretazione della transizione storico-culturale da Omero a Platone, dall'età arcaica a quella classica, è pressoché unanimemente accettata. I punti fondamentali della sua teoria sono così riassumibili.

1) Omero, attorno all'VIII secolo a.C. formalizza nei suoi poemi il vasto patrimonio di canti epici detenuto dagli aedi, consentendoci così di analizzare la tecnologia della comunicazione orale. 2) Il contenuto di tali poemi è una vera e propria mitologica, che Havelock definisce "enciclopedia tribale" delle genti greche, inclusiva di nozioni tecniche, etiche e comportamentali al tempo stesso. 3) La forma con cui questa enciclopedia viene diffusa e tramandata per via orale, si regge su principi e modalità espressive che saranno poi alla base dell'arte poetica occidentale, ma che per gli antichi greci non avevano alcuna valenza estetica, nel significato post-antico del termine. 4) La tecnologia della comunicazione orale è necessariamente affidata alla memoria e le nove Muse - la cui madre era non a caso Mnemosyne (Memoria) - impersonano le componenti basiche di tale tecnologia. 5) La garanzia circa la ritenzione mnemonica dell'enciclopedia, da parte della comunità tutta, risiede nell'immedesimazione empatica con l'aedo prima e con l'attore drammatico poi.

Le tesi di Havelock poggiano sul lavoro pionieristico di Milman Parry e fanno parte di un filone di ricerche specialistiche, assai rilevanti e corpose, sulle culture orali primarie; esso annovera studiosi, come A.B. Lord, W.J. Ong, J. Goody, B. Gentili e molti altri, con agganci e sviluppi in ambito linguistico, poetico ed etnografico. Il riproporle qui, come introduzione ad un diverso approccio alle semiotiche basate sulla comunicazione visiva, deriva anche dall'apparizione di contributi in altri campi disciplinari, che mettono in nuova luce la concezione mimetica del rapporto tra linguaggi e realtà nella Grecia antica. Per un semiologo le tesi di Havelock avrebbero già dovuto generare, in verità, forti effetti di risonanza; eppure negli apparati bibliografici che accompagnano l'ormai vastissima letteratura semiotica, dagli anni 70 in poi, se ne trovano scarse tracce, se non in riferimento agli aspetti molto specialistici di cui ho detto. Innanzi tutto l' "enciclopedia tribale" non è altro, per Havelock, che il substrato semantico della cultura orale dell'antica Grecia; ma non è tanto la coincidenza con il concetto echiano di <enciclopedia> quel che colpisce, quanto la sua strutturazione sistemica in chiave mitologica. Etnologi e linguisti hanno lavorato prevalentemente sul piano dell'espressione, trovandone significativi riscontri nella capacità di improvvisazione poetica sopravvissuta in alcune sacche etniche europee e mediterranee (come i Balcani e le isole maggiori di Corsica, Sardegna, Malta), e meno sul piano del contenuto, ovvero su quella infrastruttura semantica comune a tutti i pensieri "primitivi", che per Lévi Strauss è appunto la Mitologia ed il suo carattere sistemico. L'insieme dei valori culturali e scientifici, che è alla base di ogni enciclopedia del sapere, infatti, in una qualsiasi cultura più o meno evoluta, si costruisce e si struttura inconsciamente in forma di sistema, nel senso più rigoroso del termine; non perché così stiano necessariamente le cose nel mondo reale, ma perché così è costruita la nostra

4 L'introduzione della scrittura alfabetica, in area ellenica, è datata all'VIII secolo a.C, epoca cui si fanno risalire i poemi omerici. Le precedenti scritture note – lineare A e B – risalenti all'Età Palaziale, minoica e micenea rispettivamente, erano infatti scritture sillabiche usate per scopi preminentemente archivistici ed economici; mentre la scrittura alfabetica consentiva uno spettro comunicazionale pur sempre di élite, ma molto più ampio ed articolato. 5 Reale, G., 2004, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano, Rizzoli.

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mente. Il criterio di veridicità e verificabilità sperimentale, su cui si è andato costruendo il nostro sistema di valori scientifici, è frutto dell'episteme che governa la cultura moderna e sarebbe sommamente ingenuo pensare che gli antichi – così come i "primitivi" - non ritenessero oggettivo il loro particolare rapporto con la realtà. Va inoltre evidenziato come l'analisi del piano espressivo, nel linguaggio epico omerico, abbia svelato i meccanismi strutturali della tecnica comunicativa basata sull'oralità. Anche in questo caso tali analisi non hanno registrato significativi punti di contatto e di confronto con le ricerche che in quegli anni iniziavano a svilupparsi sui modelli di generazione testuale in campo poetico e letterario6. La metrica ed il ritmo, rigorosamente predefiniti in rapporto al genere poetico trattato, erano funzionali alla ritenzione mnemonica dei testi, sia dal lato della recitazione che da quello dell'ascolto. L'accompagnamento della cetra o del flauto – peraltro non concepibile come espressione musicale autonoma - permetteva di modulare metrica e ritmo in forma canora, rafforzandone il contenuto. Lo stile formulare, a livello frastico, consentiva agli aedi e ai rapsodi non solo una più agevole memorizzazione dei testi, data la vastità dei repertori costituenti l'enciclopedia, ma anche variazioni, estrapolazioni ed improvvisazioni sui testi stessi. Tutto ciò era però possibile solo ammettendo l'esistenza di strutture generative più profonde, al di sotto dei formulari e dei frasari utilizzati. C'è infine un aspetto molto importante, che va anche oltre il piano della tecnica della comunicazione, e che Havelock ha messo in forte risalto: quello della condivisione collettiva dei messaggi veicolati dal linguaggio poetico, epico e tragico. E' evidente che ogni linguaggio costituisce di per sé un elemento fondamentale di identità culturale, essendo per definizione comune a tutti gli individui che lo usano; ma il linguaggio poetico – come qualsiasi altro linguaggio che noi definiamo "artistico" – esalta esponenzialmente il sentimento identitario di una comunità, in quanto non si limita a comunicare informazioni, ma anche e soprattutto una vision della realtà naturale e sociale, convissuta e condivisa. Molti passaggi, in Esiodo ed Omero, lasciano intuire quale formidabile strumento di persuasione fosse l'epica, se usata, direttamente o indirettamente, anche nel confronto politico e nella gestione del potere7. D'altra parte le rappresentazioni tragiche – che essendo nate in età storica sono meglio documentate8 - erano al centro di una partecipazione pubblica intensissima; tanto che i teatri, nel IV secolo, avevano finito per soppiantare le assemblee come luoghi di scambio e confronto sociale. In conclusione, il saggio di Havelock ha aperto numerose linee di ricerca, lungo le quali la semiotica avrebbe potuto grandemente arricchirsi in prospettiva sia storica che tematica; una, a mio parere, riveste particolare interesse e riguarda la comunicazione non verbale ed il linguaggio figurativo. Cercherò nel seguito di svilupparla, attingendo ad altri più recenti contributi, non senza una necessaria premessa sulla concezione dell'attività artistica nell'antichità.

6 Vedasi sull'argomento: Pavese, C.O., 1972, Tradizioni e generi poetici della Grecia arcaica, Roma, Edizioni dell'Ateneo; Longo, O., 1981, Tecniche della comunicazione nella Grecia antica, Napoli, Liguori Editore; Havelock, E.A., Hershbell, P., a cura, 1978, Communication Arts in the Ancient World, New York, Hastings House Publishers, trad.it. Arte e comunicazione nel mondo antico. Guida storica e critica, Bari, Laterza. 1981. Per una panoramica sulla teoria greimasiana di generazione delle strutture narrative e più in generale sulle semiotiche testuali sviluppate dagli anni 70 in poi, vedasi: Pozzato, M.P., 2001, Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Roma, Carocci. 7 La Retorica ha da sempre costituito un terreno privilegiato di studio per la semiologia; per quanto qui d'interesse, va notato che sebbene l'arte retorica si formalizzi anch'essa nel V secolo a.C., già l'esaltazione che Esiodo fa di Calliope nell'Inno alle Muse (prologo della Teogonia) e il ruolo che le attribuisce accanto al principe - oltre all'etimologia (la musa dalla bella voce) - lasciano intuire un'origine più antica, praticamente contestuale all'epica, o quantomeno un uso retorico dell'epica. Cfr. anche: Barthes, R., 1970, "L'ancienne rhétorique. Aide-memoire", in "Communications", vol. 16, n. 16, trad.it. La retorica antica, Milano, Bompiani, 1972. 8 La Tragedia nasce ad Atene nel VI secolo a.C. e s'impone rapidamente come strumento di comunicazione di massa e di partecipazione attiva alla vita pubblica della polis. La tecnica tragica ricorre alla stessa strumentazione di base dell'epica e della lirica (seppure con metriche e ritmi poetici specifici), ma ne amplia enormemente la potenza espressiva. La definizione di Omero, da parte di Platone, come "il primo dei poeti tragici" (Platone, la Repubblica, Libro X) non è poi così incoerente, come è stato da alcuni affermato.

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2. La mimesis: parole gesti e figure Si può fondatamente sostenere che nell'antica Grecia le arti (ma sarebbe più corretto dire "attività") poetiche e quelle figurative godessero di uno status assai differente, se è vero che le Muse patrocinavano abbondantemente le prime ed ignoravano del tutto le seconde. Sappiamo bene, d'altra parte, che le arti figurative acquisirono pari dignità solo a partire dal tardo Rinascimento in poi e – anche questo è significativo – grazie ai legami ideologici e culturali tra artisti ed umanisti9. In realtà, nell'antica Grecia, quelli che noi definiamo "artisti", sia che producessero con le mani che con la voce, erano considerati artigiani di una particolare categoria - quella mimetica o imitativa - nonostante avessero raggiunto, ai nostri occhi, vertici espressivi assoluti. La semiologia, ai suoi primi passi, ricondusse il problema estetico ai suoi termini fondamentali, mostrando – in contrapposizione radicale con le teorie di matrice idealistica ancora largamente imperanti nella prima metà del XX secolo - come la valenza estetica di un testo derivi da un uso del linguaggio del tutto particolare, senza perdere mai di vista la sua istanza primaria, che resta sempre e comunque comunicativa. La funzione poetica è infatti, basicamente, di natura connotativa10, caratteristica di ogni sistema semiotico conservante il linguaggio naturale come piano dell'espressione, laddove il piano del contenuto si struttura in funzione di leggi finalizzate a comunicare un qualche sottosistema dell'enciclopedia che potremmo definire di secondo livello e che il linguaggio descrittivo non è in grado di fare. Questo sottosistema significato è, in genere, una vision complessiva e complessa, ma sintetica, del mondo o meglio – per dirla alla Goodman - di uno dei mondi possibili. Nei testi omerici ed esiodei le Muse, figlie della Memoria, sono nove: Calliope (epica), Erato (poesia amorosa), Euterpe (lirica), Melpomene (tragedia), Talia (commedia), Tersicore (danza), Polimnia (mimica), Clio (storia), Urano (astronomia/astrologia). L'aspetto per noi più rilevante risiede nella loro tendenziale e progressiva integrazione, al culmine dell'età classica, nella tragedia e nell'arte orchestica11. Il coro tragico, infatti, praticava quasi tutte queste forme espressive in maniera integrata, all'interno di uno spazio circolare – l'orchestra - posto al centro del teatro, tra la cavea e la scena: recitava, cantando e danzando, accompagnato dalla musica, dialogava con gli attori e col pubblico, ricordava gli eventi passati e anticipava quelli futuri. La sua funzione, all'interno dello sviluppo drammatico, era così importante che i maggiori tragediografi erano anche coreografi. D'altra parte, nel teatro greco, il punto focale di convergenza visiva degli spettatori seduti nella cavea, non era il palcoscenico ma l'orchestra (Fig. 1 e 2). Sul teatro e la tragedia tornerò tra poco; quello che mi interessa mettere qui in evidenza, è però il rapporto tra la parola e il gesto, riguardo al quale l'antica Grecia ci offre spunti di riflessione molto interessanti; se non altro perché finisce fatalmente per toccare un tema - quello della mimesis - che ha caratterizzato una lunga fase di discussione12, sviando, a mio parere, la costruzione di una vera

9 Hauser, A., 1951, Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, München, C.H. Beck, trad.it. Storia sociale dell'arte, Torino, G. Einaudi, 1955. In particolare (Cap. III, "La posizione sociale dell'artista nel Rinascimento", p. 339-368) l'Autore documenta come solo con Michelangelo si possa pienamente parlare di un affrancamento delle attività artistiche dai vincoli corporativi medievali e dell'acquisizione dello status di arti liberali. 10 Hjelmslev, L., 1961, Prolegomena to a Theory of Language, Madison, University of Wisconsin Press, trad.it. I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino, G. Einaudi, 1968. In campo architettonico, la prima ad applicare il concetto hjelmsleviano di <semiotica connotativa> fu Scalvini, M.L., 1975, L'architettura come semiotica connotativa, Milano, Bompiani. 11 La derivazione lirica, più che epica, della coreutica tragica è uno dei punti su cui sono state mosse critiche ad Havelock: Gentili, B., "Lirica greca arcaica e tardo arcaica", in Introduzione allo studio della cultura classica I, Milano, 1972, Marzorati. Va in ogni caso ricordato che la componente fondamentale dell'educazione giovanile, nell'antica Grecia, era la mousikè, intesa come l'insieme delle discipline che concorrevano all'espressione poetica: la recitazione, il canto, la danza, l'accompagnamento strumentale, l'apprendimento mnemonico. 12 In realtà il focus del dibattito era il concetto di <iconismo> e il referenzialismo dell'immagine; ma da quel dibattito era praticamente assente l'origine storica del problema, residente per l'appunto nella concezione antica della mimesis. Per una analisi più approfondita della mimesis nella storia e nella filosofia dell'immagine, vedasi: Wurnenburger, J.J., 1997, Philosophie des images, Paris, Presses Universitaires de France, trad.it. Filosofia delle immagini, Torino, G. Einaudi, 1999.

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semiotica figurativa. Per proseguire su questa linea, farò riferimento all'interessante ed approfondito saggio di Catoni (2008), già inizialmente citato, sul concetto di <schema> e sull'uso e significato degli σχήματα nello stesso periodo analizzato da Havelock, tra l'età di Omero e quella di Platone. Gli schemata si rivelano un vero e proprio ponte tra il linguaggio poetico e quello figurativo, attraverso la mediazione fondamentale della mimica e della danza, entrambe espressioni della gestualità umana. Alla base degli schemata c'erano i comportamenti umani, intesi icasticamente come posture del corpo, riproducibili e riprodotti in forma sia statica (pittura e scultura) che dinamica (danza e mimica). Uno degli aspetti più interessanti risiede nel fatto che gli schemata si basavano sul quel principio generale di corrispondenza e relazionamento tra realtà naturale e linguaggi umani, che nel mondo greco antico era la μιμησις. Come diceva Michel Foucault (1966, p. 31)13

"sino alla fine del XVI secolo, la somiglianza ha svolto una parte costruttiva nel sapere della cultura occidentale. E' essa che ha guidato in gran parte l'esegesi e l'interpretazione dei testi; è essa che ha organizzato il gioco dei simboli, permesso la conoscenza delle cose visibili ed invisibili, regolato l'arte di rappresentarle".

Ma la più ampia e diretta testimonianza sulla portata della mimesis nel mondo antico, ci è stata trasmessa, in maniera inequivocabile, dai dialoghi platonici: non erano solo le immagini a ricadere nella categoria della mimesis, ma anche le parole14 ed i comportamenti sociali. La funzione mimetica era per Platone l'unica modalità possibile di rapporto col mondo sensibile, ed era per questo bandita dalla Polis, come opinione (doxa) o falsa conoscenza, contrapposta alla filosofia, come vera conoscenza, che sola può avvicinarci alla realtà delle idee. Dal che si capisce chiaramente che il problema della referenzialità dei segni non era per gli antichi greci circoscritto alle immagini, ma caratteristico di tutte le forme linguistiche; posizione molto più coerente rispetto a quella tenuta da realisti e referenzialisti moderni, in quanto riconosceva ad entrambi i sistemi di comunicazione (uditiva e visiva) lo stesso status semiologico. In conclusione, tutta la concezione antica del segno e della semiosi era basata sulla mimesi e non era data espressione umana che non fosse riconducibile ai principi dell'imitazione, dell'analogia o della similitudine. L'analisi dei testi platonici riveste perciò un interesse tutto particolare riguardo ad alcuni aspetti dell'attuale e passata discussione sui linguaggi non verbali, in quanto fornisce più di un argomento per un'impostazione differente del problema: sia a livello comunicativo (i ruoli del gesto e della sua immagine percepita nei processi comunicativi di tipo visivo), che a livello semiosico (il ruolo del contesto ambientale nell'attribuzione di senso alle attività umane). 3. Imitazione e rappresentazione: l'immagine e il ruolo del disegno nell'ambito dei linguaggi figurativi La prima questione – che potrebbe ritenersi ormai superata, ma che invece è stata solo messa tra parentesi ed accantonata - è quella riguardante il cosiddetto "iconismo". Qualunque siano i termini della relazione su cui tanto ci si accapigliò15 (tra oggetti e loro immagini sensoriali ovvero tra queste ultime e le corrispondenti raffigurazioni grafiche o pittoriche), la discussione restava confinata tutta sugli aspetti sensoriali della comunicazione, senza indagare sullo statuto dell'oggetto significato. Un'impostazione iniziale di questo genere è assolutamente arcaica, perché presuppone implicitamente l'identificazione tra oggetto e soggetto, senza alcuna mediazione psicologica e cognitiva tra i due termini, esattamente come, per l'appunto, nella concezione antica della mimesis.

13 Foucault, M., 1966, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, trad.it. Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 2009. L'Autore declina questo principio generale in quattro figure principali: la convenientia, l'aemulatio, l'analogia, la simpatia, rinvianti l'una all'altra nel circolo chiuso della similitudine. 14 Nel Cratilo il significato delle parole viene spiegato attraverso la loro etimologia - peraltro molto fantasiosa – in un circolo vizioso di rimandi, all'origine dei quali c'è sempre la presenza di un'entità mitologica. 15 Sulla questione dell'iconismo e sugli sviluppi registratisi nell'intervallo di tempo 1975-1997 U. Eco ne fa un breve riassunto in: Eco, U., 1997, Kant e l'ornitorinco, Milano, Bompiani. Per il periodo anteriore vedasi: Fabbrichesi Leo, R., 1983, La polemica sull'iconismo (1964-1975), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane.

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Già da tempo Panofsky, Francastel, Argan (per citare solo alcuni dei contributi più rilevanti su aspetti focali del Rinascimento italiano16), avevano chiaramente evidenziato il ruolo fondamentale che la perspectiva artificialis, quale forma di rappresentazione dello spazio, aveva giocato nel processo di progressivo affrancamento dalla mimesis. Foucault (1966) poté così mostrare come – con la piena affermazione del paradigma classicista tra il XVII e il XVIII secolo - il concetto di <rappresentazione> avesse definitivamente soppiantato quello di <imitazione>, con implicazioni epistemologiche non di poco conto anche in tema di figurazione e di costruzione dei segni figurativi17. Non posso qui che ripetere o parafrasare l'acuta analisi foucaultiana della rappresentazione classica. Il concetto maturo di <rappresentazione> costituisce l'approdo finale della progressiva scissione tra significato e significante, tra rappresentato e rappresentante, non più confusi nella trama indistinta delle analogie, dei rimandi e delle similitudini18. Sciolta dal rapporto tra oggetto e soggetto, la rappresentazione poteva offrirsi allora come pura rappresentazione ed è altamente significativo che il primo esempio di un segno fornito dalla Logica di Port Royal, non sia la parola ma il disegno. Vorrei solo aggiungere che l'invenzione rinascimentale della prospettiva anticipa l'altro grande paradigma scientifico dell'epoca, costituito dalla meccanica classica newtoniana e dall'invenzione di uno spazio assoluto, contenitore omogeneo ed isotropo di tutti gli enti e gli eventi possibili19. E' qui opportuna e pertinente una riflessione sulle basi concettuali della cosiddetta semiotica visiva, che è stata (e resta) un banco di prova fondamentale per una legittimazione delle semiotiche non legate al linguaggio naturale. Il non aver saputo cogliere fino in fondo la differenza tra imitazione e rappresentazione della realtà percepita – e tutto ciò che questa distinzione ha comportato per la nascita di una moderna concezione del segno - è dipeso dalla pervicace volontà di ancoraggio della semiosi alla problematica dell'immagine visiva, anziché alla dimensione spaziale della figuratività; laddove per figuratività intendo il rapporto che le figure umane intrattengono con il loro contesto spaziale di riferimento e di azione, e da cui dipende la comprensibilità stessa del loro essere ed agire all'interno di tale spazio. La semiotica del visibile si è invece focalizzata sulla dimensione estetica dell'immagine, il che ha impedito di capire il vero rapporto tra l'immagine disegnata o dipinta ed il suo referente spaziale, che altro non è se non il rapporto che il disegno intrattiene con la struttura dello spazio costruito, agito o anche solo interpretato dall'uomo, indipendentemente da ogni sua eventuale valenza artistica. Non sorprende quindi che la semiotica visiva non si sia posta il problema basico della funzione del disegno e della pittura nell'ambito assai più esteso dei linguaggi di tipo figurativo. Tutte cose che gli antichi avevano invece già ben presenti, a partire dagli stessi greci, per i quali esisteva una sola parola - γραφειν - per designare tanto il disegno quanto la scrittura. Intendo dire che partendo dalle proiezioni bidimensionali dei segni figurativi - i quali sono invece di natura essenzialmente spaziale - non si arriva da nessuna parte. Citando Saussure, che criticava la tendenza a dare maggiore

16 Panofski, E., "Die Perspektive als 'Simboliskche Form'", in "Vortrage der Bibliothek Warburg", Leipzig-Berlin, 1924-1925, trad.it. "La prospettiva come 'forma simbolica'", in Panofski, E., 1961, La prospettiva come "forma simbolica" ed altri scritti, Milano, Feltrinelli. Francastel, P., 1967, La Figure et le Lieu. L'ordre visuel du Quattrocento, Paris, Gallimard. Argan, G.C., 1955, Brunelleschi, Milano, A. Mondadori. 17 Foucault identifica l'avvento del Classicismo e della corrispondente concezione del mondo col momento della sua completa e totale affermazione, mettendo tra parentesi tutto il periodo della sua formazione e maturazione, iniziatosi col Rinascimento italiano. Ciò è derivato forse dall'assenza, nella sua tassonomia, delle arti figurative, utilizzate solo per quella straordinaria ed illuminante metafora introduttiva che è l'analisi de Las Meninas di Velasquez. Un interessante spunto per una estensione del concetto di <rappresentazione della rappresentazione> formulato da Foucault nella lettura del quadro, può trovarsi in: Stoichita, V.I., 1993, L'instauration du tableau, Paris, Méridiens Klincksieck, trad.it. L'invenzione del quadro, Milano, il Saggiatore, 2004. Trattasi di riflessioni che potrebbero essere estese all'analisi dell'architettura rinascimentale ed in particolare agli edifici a pianta centrale di Brunelleschi (Argan 1955). 18 Nella Logica di Port Royal, rileva Foucault, veniva così formulato, per la prima volta, il carattere duale del segno: "il segno racchiude due idee: l'una della cosa rappresentante; l'altra della cosa rappresentata; e la sua natura consiste nell'eccitare la prima per mezzo della seconda" (Foucault 1966, p. 79-80). 19 Jammer, M., 1954, Concepts of Space, Cambridge, Ma., Harvard University Press, trad.it. Storia del concetto di spazio, Milano, Feltrinelli, 1963.

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importanza ai segni scritti rispetto a quelli parlati, "è come credere che per conoscere qualcuno sia meglio guardarne la fotografia che guardarlo in faccia" (de Saussure 1922, p. 36)20. Il disegno e la pittura non sono altro che un sistema di scrittura del visibile e pertanto – sia come espressioni artistiche che discorsive, e fino al superamento del paradigma classicista – non possono che essere figurative. Solo dopo la crisi dell'episteme classicista diviene possibile decostruire lo spazio e le figure umane ad esso correlate, come s'è potuto vedere nei movimenti artistici sbocciati all'inizio del XX secolo, contestualmente alla nuova concezione relativistica dello spazio-tempo in Fisica. Ma tutto questo riguarda essenzialmente le modalità di registrazione e di scrittura del linguaggio figurativo e non la sua essenza semiotica, che ha sempre continuato a fondarsi – né avrebbe potuto essere altrimenti - sul rapporto che la figura umana intrattiene con il suo spazio di riferimento. Ne discende che la questione della referenza e della convenzionalità del segno deve essere semmai collocata tra architettura e realtà e ci porta in tutt'altra direzione.

4. Linguaggio gestuale e figurazione dello spazio: la metafora teatrale C'è infatti un altro aspetto che l'analisi del linguaggio poetico antico illumina: il rapporto istituito tra gli schemata prima visti e le componenti basiche dei linguaggi aventi lo spazio come contesto di riferimento. Gli schemata, al tempo di Platone, erano ancora radicati e regolavano non soltanto le figure della danza o della mimica, assunte dagli attori sulla scena teatrale, ma anche i comportamenti pubblici delle persone, quella che oggi definiremmo "etichetta" (Catoni 2008)21; ma la comunicazione su di essi basata, risulterebbe indecifrabile se non correlata al contesto comunicazionale. Tutto ciò consente di intendere gli schemata come figure e soprattutto di identificare il concetto di <figura> con quello di componente basica del linguaggio fondato sul rapporto tra l'uomo e il suo spazio vitale, tra la comunità ed il suo territorio di riferimento. La gestualità - uno dei primi sistemi non verbali di comunicazione e significazione studiati dalla semiotica22 - va infatti sempre rapportata ai rituali sociali che regolano e connotano vita e comportamenti di ogni individuo di una comunità, dalla sua nascita alla sua morte. Dal punto di vista etnografico si tende a confinare lo studio di tali aspetti nella sopravvivenza di eventi tradizionali in contesti socio-culturali marginali. Solo di recente, nell'ambito di quella che suole definirsi "antropologia dello spazio"23, si è iniziato a leggere in chiave rituale anche tutta una serie di manifestazioni individuali e di massa contemporanei: dai concerti rock alle movide notturne, dai cortei politico-sindacali allo shopping. Per altro verso, l'attuale attenzione dei semiologi per la fenomenologia urbana ha molti punti di contatto con quelle ricerche, sebbene filtrata, forse, dall'approccio interpretativo di Michel de Certeau24. Vorrei però mettere qui in evidenza il senso più generale di questa modalità di comunicazione – la gestualità, appunto - che ha nella danza, nella mimica e nella recitazione teatrale le sue espressioni di

20 de Saussure, F., 1922, Cours de linguistique générale, Paris, Payot, trad.it. Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1970. 21 In realtà, anche la significatività canonica degli schemata cominciava, in quel momento cruciale di passaggio dall'età classica a quella ellenistica, ad allentarsi lasciando il posto ad un naturalismo espressivo sempre più accentuato, tanto da far rimpiangere a Platone, nel Libro II delle Leggi, la tecnica stereotipata di figurazione della pittura egizia. 22 Le discipline che si sono occupate più approfonditamente di questi aspetti sono la "prossemica" e la "cinesica" ed hanno occupato, a suo tempo, uno spazio piuttosto importante negli studi sui linguaggi non verbali; vedasi al riguardo: Sebeok T.A., Hayes A.S., Bateson M.C., 1964, Approaches to Semiotics, The Hague, Mouton & Co, trad.it. Paralinguistica e cinesica, Milano, Bompiani, 1970; nonché "Langages", n. 10, 1968, dedicato a Pratiques et langages gestuels, con l'articolo di Greimas A.J., "Conditions d'une sémiotique du monde naturel" poi ripubblicato in: Greimas, A.J., 1970, Du sens, Paris, Seuil, trad.it. Del senso, Milano, Bompiani, 1974. 23 Tra i più interessanti interpreti di questo approccio ad un'antropologia dei luoghi, vanno citati alcuni testi ormai classici: Augé, M., 1992, Non-lieux, Paris, Seuil, trad.it. Non luoghi, Milano, Eleuthera, 2005; La Cecla, F., 1993, Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare, Milano, Eleuthera. 24 de Certeau, M., 1980, L'invention du quotidien 1, Arts de faire, Paris, Gallimard.

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eccellenza; ed è proprio la metafora teatrale quella che ci offre la possibilità di comprendere al meglio la vera natura della comunicazione e della stessa semiosi figurativa25. Una veloce carrellata sul rapporto, costantemente verificabile nella storia del teatro occidentale, tra le figure attoriali e la scena, servirà infatti a meglio esplicitare il senso delle tesi qui sostenute. Già s'è detto del teatro greco classico e della sua funzione nei processi di auto-identificazione da parte dei cittadini della polis. Già s'è detto della filiazione della tragedia dall'epica e quindi della sua maggiore adeguatezza a trasmettere i valori della cultura ellenica nell'Atene di Platone e a cui Platone tentava di opporsi. Già s'è detto delle forme espressive tramite cui quei valori venivano comunicati e condivisi a livello collettivo. Ma il rapporto tra tali forme significanti ed il contesto spaziale ed ambientale in cui esse si manifestavano e potevano acquisire senso, non è stato ancora letto in chiave rigorosamente semiotica, nonostante alcuni notevoli contributi sullo spazio teatrale, come quello di Fabrizio Cruciani26. Innanzi tutto va notato che le rappresentazioni tragiche ad Atene si svolgevano durante le Dionisie ed altre feste collettive di carattere ancora fondamentalmente tribale. Abbiamo qui, all'origine stessa dell'istituzione teatrale, la commistione e la simultaneità tra due piani e due tipologie di eventi strettamente collegati: da una parte lo spettacolo cerimoniale, avente come scenario le strade e le piazze della città, cioè lo spazio urbano; dall'altra lo spettacolo teatrale e lo spazio scenico, all'interno di una struttura architettonica deputata. Gli strettissimi legami – e talvolta l'identificazione - tra feste sacre o profane e rappresentazioni teatrali, sono stati ormai indagati e documentati da molti studiosi. Questo vale non solo per l'antica Grecia, ma anche per l'antica Roma27, dove tali rappresentazioni non erano che una componente della più vasta categoria dei ludi scaenici. Durante il Medio Evo e fino a tutto il XV secolo, in Europa, prima della rifondazione rinascimentale di un'architettura scenica e teatrale, ne sono testimonianza le rappresentazioni della Passione e dei Misteri28. Il senso di tali legami è dato dal rapporto costante – anch'esso sottolineato dagli studiosi – tra evento rappresentato e città (Fig. 5), sia essa utilizzata nella sua consistenza reale (le quinte architettoniche di una piazza) o virtuale (l'apparato scenico dei luoghi deputati allo svolgimento delle rappresentazioni). Ecco perché l'evento teatrale può essere analizzato anche in una dimensione rituale, se intendiamo il rito come espressione figurativa del mito rappresentato sulla scena29. Queste due modalità - spettacolo cittadino e spettacolo teatrale - si alternano e si accavallano praticamente lungo tutta la storia dell'occidente e la scena teatrale, dalla Grecia antica a tutto l'Ottocento (e oltre), non è che una simulazione o una riproduzione contratta dello spazio urbano. Nel

25 Personalmente ritengo che la scarsa comprensione dei meccanismi della comunicazione visiva sia incolpevolmente imputabile anche all'influenza a suo tempo esercitata dalla Mitologica di Lévi Strauss su linguisti e semiologi, soprattutto di scuola francese. Ciò ha indotto a trascurare l'altra faccia delle culture "primitive", costituita dal sistema della ritualità, poco trattata dal grande antropologo nella sua opera principale. Esiste invece un parallelismo costante – quando minimamente documentabile - tra mito e rito in ogni cultura umana. Un esempio particolarmente significativo – per quanto qui d'interesse - è quello dei miti e dei riti di fondazione delle città antiche, analizzato da Rykwert e pochi altri: Rykwert, J., 1976, The Idea of a Town, Princeton (N.J.), Princeton University Press, trad.it. L'idea di città. Antropologia della forma urbana nel mondo antico, Torino, G. Einaudi, 1981. 26 Cruciani, F., 1992, Lo spazio del teatro, Bari, Laterza. 27 Savarese, N., a cura, 1996, Teatri romani. Gli spettacoli nell'antica Roma, Bologna, Il Mulino. Vedasi in particolare i saggi ivi presenti: Dupont, F., "I ludi scenici"; Chiarini, G., "La scena romana"; Taladoire, B.A., "La tecnica degli attori romani: la testimonianza dei retori". 28 Francastel, P., 1960-1967, Guardare il teatro (antologia di saggi a cura di Cruciani F.), Milano, Mimesis, 2005. Dovrebbe peraltro far riflettere il giudizio, spesso contestato, di Francastel sulla matrice teatrale di gran parte degli oggetti – rocce, nuvole, paesaggi naturali, architetture e città murate - rappresentati nella pittura del primo Rinascimento, a testimonianza della necessità di utilizzare modelli figurativi già consolidati nell'immaginario collettivo e quindi facilmente riconoscibili (Francastel 1967); un'altra prova di quanto sostenuto nel § 3 precedente circa il ruolo della grafica (e della pittura) nella scrittura dei linguaggi figurativi. 29 Nelle feste urbane del Rinascimento "gli spettatori sono sempre anche elemento essi stessi dello spettacolo, in una relazione che si determina nell'alterazione di uno spazio che non è ma diventa specifico, che è 'ambiente' ben oltre l'essere anche visione" (Cruciani 1992, p. 92).

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teatro greco e romano la scena è infatti costituita da una quinta architettonica fissa e tipizzata30. Sappiamo invece assai poco dello spazio scenico del primo Rinascimento (avendo il Medioevo cancellato ogni forma di rappresentazione teatrale "laica"), salvo che gli allestimenti erano realizzati prevalentemente all'interno delle corti dei palazzi. D'altronde dalla fine del Cinquecento in poi, con la rinascita del teatro in quanto struttura fisica specializzata, viene operato un ricongiungimento con la tradizione greco-romana, veicolata attraverso Vitruvio (Fig. 6). Sia nella trattatistica che nella sua pratica applicazione architettonica, la scena è ancora una volta una quinta urbana, tipizzata in funzione dei diversi generi teatrali31 (Fig. 7 e 8). Né molto differente, se non meno sofisticata, è la struttura scenica del teatro elisabettiano.

Fig. 1 e 2 - Il teatro di Epidauro: nel teatro greco la focalizzazione della cavea è sull'orchestra e sul coro che la occupa.

Fig. 3 e 4 - Il teatro romano di Sabratha: nel teatro romano l'orchestra perde importanza e la focalizzazione del pubblico si sposta sulla scena e sugli attori.

30 Vedasi l'interessante ed esauriente documentazione archeologica raccolta e riportata in: Ciancio Rossetto, P., Pisani Sartorio, G., a cura, 2006, Teatri antichi greci e romani, SPR (eBook). 31 Cfr. Serlio, Libro II dell'Architettura (1545). Vi si tratta di teatri e scenografie sulla scorta del trattato vitruviano, ch'egli contribuì a far conoscere in Europa, fuori dai confini geografici del Rinascimento italiano (Fig. 6). Ma è solo sul finire del secolo che fu realizzato il primo teatro in pietra dell'età moderna: il Teatro Olimpico di Vicenza (iniziato nel 1580) ad opera di Andrea Palladio (Fig. 7 e 8). Ancora alla fine del XVI secolo, per le rappresentazioni teatrali venivano costruite strutture temporanee ad hoc in legno. Bertotti Scamozzi, O., 1796, Le fabbriche e i disegni di Andrea Palladio, London, Alec Tiranti, 1968.

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In età moderna, dal XVI secolo sino a tutta la prima metà del XX, il rapporto tra performances degli interpreti e spazio scenico subisce poche variazioni sostanziali, se non per quanto riguarda la progressiva divaricazione dei generi, laddove dramma, melodramma, balletto, concertistica, acquisiscono un proprio status autonomo, sia a livello rappresentativo che autoriale.

Fig. 5 - Processione per le strade di Cagliari Fig. 6 - Serlio: scena comica

Fig. 7 e 8 - Il Teatro Olimpico di Palladio: sezione e vista frontale della scena Dobbiamo arrivare alla seconda metà del XX secolo per assistere al ritorno del teatro nelle strade della città e a nuove forme di commistione dei generi32. Dal quel momento in poi gli attori tornano ad essere mimi, acrobati e danzatori, mettendo in gioco tutte le proprie risorse corporee. Ma nonostante i più vari tentativi sperimentati nel corso del secolo scorso, di focalizzare l'azione drammatica sulle figure attoriali, onde stabilire un rapporto interattivo tra loro ed il pubblico, la scena teatrale, smembrata e progressivamente dissolta, non può essere definitivamente annullata senza negare l'essenza e la ragione stessa del Teatro. In questo senso il lavoro di Emma Dante rappresenta uno dei più interessanti esperimenti teatrali contemporanei; in una delle sue più importanti opere - la Medea di/da Euripide33 - la scena non esiste più come apparato statico; sono gli stessi attori a portare letteralmente con sé le componenti materiali dello spazio scenico e a ricomporle variamente, di volta in volta, in funzione dello svolgimento drammatico (Fig. 9).

32 Importante al riguardo l'esperienza della compagnia teatrale Living Theatre, fondata da J. Malina e J. Beck nel 1947 a New York ed operante per lungo tempo anche in Italia. 33 Dante E. (adattamento e regia), Medea da Euripide (prima rappresentazione Napoli 2004).

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Fig. 9 - Emma Dante: Medea da Euripide

5. Territori, città e paesaggi culturali: lo spazio antropizzato come sistema di comunicazione La gestualità prodotta e resa visibile dai cittadini-attori, deve essere inquadrata in comportamenti socialmente codificati, la cui interpretazione può avvenire solo in riferimento a contesti urbani e territoriali specifici; in maniera del tutto analoga al rapporto che gli attori teatrali stabiliscono con il contesto scenico entro cui recitano. Quali sono le implicazioni ultime e non solo metaforiche di questa affermazione? Sinora ho usato solo in accezione debole il riferimento allo spazio antropico – ed in particolare allo spazio urbano – come quadro o contesto in cui collocare le principali manifestazioni linguistiche che utilizzano la visione quale fondamentale strumento di comunicazione. Ma se questa posizione può essere fondatamente sostenuta, come credo, le sue implicazioni sono assai più forti e più vaste. E' la città, le sue architetture e più in generale il territorio antropizzato, cioè l'intero spazio vissuto o vivibile dall'uomo, a proporsi come sistema semiotico entro cui acquistano senso tutti i modi di comunicare per mezzo del corpo. Ancor prima che le città apparissero, il territorio insediato da una comunità non era da essa percepito solo come spazio necessario a soddisfare esigenze alimentari primarie, né come contenitore fisico-geografico neutro, entro cui qualsiasi evento fosse collocabile; ma come componente essenziale della propria identità psichica e culturale. Le popolazioni più antiche o arcaiche, dedite all'attività di caccia-raccolta, si basavano e si basano su una conoscenza minuziosa del loro territorio, articolato e gerarchizzato in base alla loro struttura clanica e tribale ed in strettissima connessione con le funzioni di scambio uomo/donna e produzione/riproduzione34. In tale contesto piante, animali, elementi naturali inanimati vengono investiti di significati simbolici profondi, che la storiografia urbana – con poche eccezioni - ha sottovalutato, limitandosi allo studio dei soli manufatti edilizi, mentre il grande e persistente valore simbolico attribuito in tutte le culture antiche ad alcuni elementi – come alberi e boschi sacri – la dice lunga sul rapporto natura/cultura all'interno del concetto di <territorialità>35. Vengono qui alla mente alcuni frammenti delle Songlines di Chatwin. La rappresentazione del

34 Arioti, M., 1980, Produzione e riproduzione delle società di caccia-raccolta, Torino, Loescher. Nel vasto campo degli studi preistorici, fondamentalmente dominati dall'approccio storico-materialista di matrice marxiana, il contributo dell'Autrice appare particolarmente interessante dal punto di vista qui considerato. 35 Brosse, J., 1989, Mythologie des arbres, Paris, Plon, trad.it. Mitologia degli alberi, Milano, Rizzoli, 2010. Da notare anche il rinnovato interesse dell'archeologia per alcuni aspetti presenti nell'opera monumentale di Frazer: Frazer, J.G., 1890, The Golden Bough, London, Mcmillan, trad.it. Il ramo d'oro, Roma, Newton Compton, 2006.

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territorio, per un aborigeno australiano, non ha nulla di naturalistico, ma è data e percepita attraverso un reticolo di linee immaginarie che connettono tra loro alcuni degli elementi naturali che lo caratterizzano, come torrenti e pozze d'acqua, rocce e montagne, alberi e boschi, creati dagli antenati totemici dei clan. Il territorio non esiste come continuum datum, ma in quanto percorribile e percorso da chi ne fa l'esperienza. Il cammino lungo la Via non è un atto arbitrario, ma un rituale rigorosa-mente codificato e tutti gli eventi di rilevanza sociale, come cerimonie, matrimoni e baratti, avvengono proprio nei punti di intersezione tra le vie appartenenti ai diversi individui o alle loro tribù36. Quando – 5.000 anni fa nel Vicino Oriente, lungo il corso dell'Indo e in Cina – i territori insediati dall'uomo hanno cominciato a coagularsi attorno ad embrioni di città, gli elementi più significativi di questo spazio hanno progressivamente acquisito lo status definitivo di "oggetti architettonici". Una prima differenziazione tipologica fondamentale venne così a svilupparsi al loro interno, tra il tessuto seriale delle abitazioni e le funzioni di ordine superiore – politiche e religiose – da subito caratterizzate in senso monumentale37. Ed è in rapporto a questa differenziazione che si istituzionalizza e diviene architettonicamente visibile ciò che prima era solo legato alla gerarchia degli spazi aperti nella struttura del villaggio: la distinzione tra comportamenti individuali e collettivi. La vita di quartiere e l'uso collettivo degli spazi urbani centrali divengono i due poli principali su cui gravita la vita delle comunità urbane. E' la messa in relazione di tali oggetti architettonici, sia come presenze visibili che come spazi fruibili, attraverso i comportamenti individuali o collettivi degli abitanti delle città, ad esprimere il senso del loro stare insieme. Col passare del tempo tali oggetti si specializzano funzionalmente e tipologicamente, in rapporto al differenziarsi delle attività urbane; contemporaneamente lo spazio costruito e non più solo agito dall'uomo, si espande enormemente, sino alla fase attuale in cui le città sono divenute contesti totalizzanti ed i territori hanno subito un processo di completa antropizzazione culturale e fisica, trasformando ogni più piccola persistenza naturale in segno significante all'interno ed in funzione di un sistema di rapporti spazio-temporali complessi e stratificati. Questa concezione del <paesaggio> è stata ormai codificata e normalizzata dalla "Convenzione europea del Paesaggio" (Firenze, 2000). Verso la metà del secolo scorso, tra gli anni 30 e 70, geografia urbana e fisica sociale si dedicarono allo studio degli insediamenti umani non più solo come fenomeni isolati, ma nelle loro relazioni reciproche, scoprendo rapporti gerarchici ricorrenti nella loro distribuzione spaziale, legati alla dimensione fisica e funzionale dei centri urbani38. Furono allora coniati i termini di "città-regione" e "città-territorio", che meglio definiscono, a mio parere, le caratteristiche degli attuali sistemi insediativi, anche indipendentemente dalla dimensione metropolitana dei centri maggiori. Si è potuto così

36 Chatwin, B., 1987, The Songlines, Franklin Press, trad.it. Le vie dei canti, Milano, Adelphi, 1988. "L'itinerario degli scambi è la Via del Canto" – dice a Chatwin uno dei personaggi del suo racconto (p. 81) – "perché sono i canti, non gli oggetti, il principale strumento di scambio. Il baratto degli oggetti è la conseguenza secondaria del baratto dei canti". Il nesso tra linguaggio verbale, linguaggio spaziale e comportamenti sociali non potrebbe essere espresso in maniera più chiara ed efficace, soprattutto tenendo presente che, nel racconto di Chatwin, viene rappresentato il punto di vista "soggettivo" degli aborigeni e non quello "oggettivo" dell'antropologo. 37 Rossi, A., 1966, L'architettura della città, Venezia, Marsilio. Quella formulata dall'Autore fu la prima teorizzazione di questo modello, il quale può essere complessificato articolando ulteriormente le componenti urbane di base. Tuttavia, dopo Rossi, non si sono registrati altri significativi sviluppi in questa direzione, mentre una letteratura più vasta esiste circa la specializzazione tipologica dell'architettura dei luoghi centrali, anche a seguito del rifiorire, negli anni 70, degli studi sull'architettura dell'Illuminismo e dei tre architetti rivoluzionari (Boullée, Ledoux, Lequeu). Vedasi al riguardo i numeri monografici della Rivista Hinterland (pubblicata tra il 1977 e il 1985 sotto la direzione di G. Canella), nonché: Aymonino, C., 1975, Il significato delle città, Bari, Laterza; Aymonino, C., 1977, Lo studio dei fenomeni urbani, Roma, Officina Edizioni. 38 Della vasta letteratura in materia basterà citare: la teoria delle località centrali di W. Christaller (1933) e di Loesch (1940); le teorie gravitazionali di Stewart e Zipf (1950); l'analisi regionale di Isard (1960); le ricerche di geografia urbana e regionale di Philbrik (1957), Garrison e Berry (1958) e molti altri, fino a tutti gli anni 70. Più recentemente i lavori di Barabasi su uno spettro molto ampio di fenomeni sociali analizzabili attraverso il concetto di <rete>, dimostrano l'attualità di quei modelli, opportunamente rivisti e integrati: Barabasi, A.L., 2002, Linked. The New Science of Networks, New York, Perseus Books Group, trad.it. Link. La nuova scienza delle reti, Torino, G. Einaudi, 2006.

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dimostrare che i sistemi insediativi sono regolati da leggi gerarchiche universali in grado di ritagliare sul territorio ambiti ben definiti di gravitazione delle attività economiche e sociali. Sebbene la nascita delle città sia un fenomeno storico sufficientemente preciso e databile, in realtà esso può essere interpretato come sottoclasse del concetto assai più vasto di <territorio antropizzato>: dal punto di vista che qui interessa – e cioè la significatività dello spazio per coloro che lo abitano – non esiste una differenza sostanziale tra il territorio di caccia-raccolta di una comunità paleolitica, il territorio di sussistenza agro-pastorale di un villaggio neolitico, il dominio territoriale di una città-stato sumerica o il sistema insediativo di una città-territorio dell'età industriale. Lo spazio utilizzato da una comunità umana, più o meno organizzata e più o meno articolata che sia, costituisce un sistema di riferimenti sostanzialmente unitario per tale comunità. Chi non appartiene a questo spazio di relazioni è uno "straniero" - o nel migliore dei casi un "turista" - e deve apprenderne la struttura prima di potersi muovere ed agire al suo interno. La città, così intesa, non è un testo, ma qualcosa che rende possibile tutti gli infiniti possibili testi e discorsi declinabili attraverso e attorno ad essa. Ogni nostra attività, individuale o collettiva, pubblica o privata, espressa attraverso la nostra gestualità e mobilità all'interno della città, configura un testo, ossia un insieme strutturato di informazioni indirizzate, coscientemente o no, ad altri attori urbani. ˚ infatti la città quel sistema di segni e strutture relazionali di cui si serve la comunità per significare e comuni-care un determinato sistema di valori culturali; anzi è la città – come la lingua – unÊistituzione sociale, in quanto prodotto storico dellÊazione collettiva degli individui che la abitano e la vivono. Come la lingua viene prima della parola, così la città precede logicamente e materialmente lÊatto individuale della comunicazione visiva e fonda lÊunità del linguaggio inteso come sistema figurativo dello spazio. Tutto questo equivale a dire che la lingua attraverso cui si esprime un qualsiasi atto performativo (che abbia cioè a riferimento la figura umana) non è altro che la città, nell'accezione più comprensiva del termine, e che gli individui che la parlano sono tutti coloro che la popolano e la vivono, mettendo in relazione, coi loro movimenti e i loro gesti, i segni architettonici che la compongono. Gli oggetti architettonici sono segni, non perché fatti dall'uomo, ma perché la loro consistenza materica è a tutti gli effetti una costruzione dei nostri sensi, prima ancora che dei nostri pre-giudizi culturali. E per capire che le cose stanno proprio così non è più necessario ricorrere all'armamentario un po' consunto dell'illusionismo ottico; oggi è ormai possibile esperire a livello multisensoriale e multidimensionale oggetti e contesti ambientali mediante il ricorso alle tecnologie della "realtà virtuale o aumentata", che ci permettono di realizzarne modelli materialmente (e non solo visivamente) interagibili, senza la necessità di postularne l'esistenza reale. Questa precisazione è necessaria per distinguere nettamente la posizione qui sostenuta da quella apparentemente simile, ma sostanzialmente opposta, dei semiologi di ispirazione behaviorista, cui può essere per certi versi apparentato anche L. Prieto39, che ha avuto una influenza non trascurabile su una semiotica degli oggetti e dell'architettura al suo nascere. Nelle impostazioni di questo tipo non soltanto gli atti motori sono assimilati a quelli linguistici, ma i prodotti semiotici di tali azioni sono identificati tout court con gli artefatti umani (strumenti ed oggetti); mentre la posizione qui sostenuta riconosce all'atto motorio solo una funzione di relazionamento dei segni architettonici.

6. Ritorno al futuro Questa linea di approccio alle semiotiche basate sulla comunicazione visiva – ma che ritengo più corretto definire "figurative" per le ragioni sinora dette – trova molte resistenze sia tra i semiologi che

39 Prieto, L..J., 1975, Pertinence et pratique, Paris, Minuit, trad.it. Pertinenza e pratica, Milano, Feltrinelli, 1976; Prieto, L.J., 1964, Principes de noologie, The Hague, Mouton, trad.it. Principi di noologia, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1964. Analoga impostazione fu sostenuta anche da Leroi-Gourhan ed influenzò poi P. Castelnovi (cfr. nota 45): Leroi-Gourhan, A., 1964, Le geste et la parole 1. Technique et langage, Paris, Albin Michel, trad.it. Il gesto e la parola 1. Tecnica e linguaggio, Torino, G. Einaudi, 1977. Le impostazioni di tipo behavioristico furono anche criticate da Greimas nel suo saggio già citato "Per una semiotica del mondo naturale" (Greimas 1968, cfr. nota 22).

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tra gli architetti e gli urbanisti; forse perché su entrambi i versanti, pesano i numerosi fallimenti seguiti ai primi, spesso superficiali, entusiasmi. L'essere partiti, in queste note, dalla Polis e dalla Grecia antica, al di là degli spunti interessanti che se ne possono trarre, vuole anche essere un invito ed uno stimolo a resettare il campo della semiotica del visibile, tenendo conto di alcuni punti di partenza da cui essa mosse i primi passi quarant'anni fa. Tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 si verificarono tre eventi fondanti – la pubblicazione dell'antologia di Charles Jenks e George Baird40, il seminario ENSBA di Parigi41 e il simposio di Castelldefels42 - al centro dei quali una questione si pose preliminarmente: il rapporto, anzi la compatibilità, tra l'approccio storico-critico e quello strutturalista all'analisi dei fenomeni architettonici, urbani e più in generale spaziali. In effetti, in linguistica, il rapporto tra Lingua e Parola poteva essere allora considerato ininfluente o addirittura fuorviante ai fini di una analisi sistemica e sincronica del linguaggio; ma ben presto la ne-cessità di costruire dei modelli esplicativi efficaci sul piano semantico fece spostare l'asse delle ricerche semiotiche verso l'interpretazione dei testi, ed in particolare dei testi letterari, là dove la Parola acquisi-sce non solo un ruolo determinante, ma disvela anche l'influenza ch'essa esercita sull'evoluzione sto-rica della Lingua. Questa maturazione, nel campo delle semiotiche del visibile, non è potuta avvenire, in quanto la rilevanza dei fatti di Parola – e cioè la storia dell'Architettura – appariva predominante ed ha messo in secondo piano, a mio parere, la comprensione dei meccanismi basici della comunicazione visiva. Per questo un'opera di resettaggio appare oggi quanto mai necessaria; magari ripartendo da due o tre saggi degli anni 70, che occorrerebbe leggere o rileggere in maniera nuova e più attenta. Mi riferisco all'intervento di Algirdas Julien Greimas nel già citato Seminario del 197243, ad un saggio di Donald Preziosi del 1979, mai tradotto in italiano ed abbastanza eccentrico rispetto al contesto euro-peo44, e in parte ad un libro di Paolo Castelnovi (con i distinguo di cui alla fine del precedente § 5)45. Greimas, Preziosi, Castelnovi – a mio parere – coglievano uno degli aspetti centrali di tutta la questione: l'impossibilità di comprendere la specificità del linguaggio architettonico (in realtà, aggiungerei, di ogni codice di natura figurativa) al di fuori o indipendentemente dallo spazio urbano ovvero dell'ambiente costruito, trasformato o semplicemente interpretato dall'uomo46. Il che comportava anche, in maniera più o meno esplicita:

40 Nel 1969 venne pubblicato a Londra, a cura di C. Jenks e G. Baird un ampio ed originale confronto a distanza tra critici e architetti di tutto il mondo, tra cui F. Choay, G. Broadbent, R. Banham, K. Frampton, A. van Eyck, F. Morgenthaler, G. Dorfles, C. Norberg-Schultz, J. Rykwert, A. Colquhoun ed altri ancora. Jenks, C., Baird, G., 1969, Meaning in Architecture, London, Barrie & Rockliff, trad.it. Il significato in architettura, Bari, Dedalo, 1974. 41 Nel 1972, si tenne a Parigi un seminario promosso dal Centre d'Etudes et de Recherches Architecturales dell'ENSBA, diretto da J. Zeitoun, con una vastissima partecipazione (A.J. Greimas, S. Ostrowetsky, S. Bordreuil, P. Gresset, A. Renier, J. Petitot-Cocorda, P. Fabbri, G.T. Guilbaud, R. Tabouret, M. Hammad, C. Rocquet, A. Grumbach, i Gruppi 107 e Syntaxe e molti altri). Gli atti del seminario furono pubblicati in un Quaderno dell'ENSBA (n. 3/4 del 1974) e successivamente in: Zeitoun, J., a cura, 1979, Sémiotique de l'espace, Paris, Denoёl-Gonthier. 42 Nello stesso 1972 si tenne a Castelldefels (Barcellona) il simposio "Arquitectura, Historia y Teoria de los Signos" promosso dal Collegio degli Architetti di Catalogna e Baleari, cui parteciparono O. Bohigas, J.P. Bonta, G. Broadbent, A. Colquhoun, F. Choay, M. Krampen, T. Llorens, M.L. Scalvini ed altri. Llorens, T., 1974, Arquitectura, historia y teoria de los signos, Barcelona, La Gaya Ciencia. La semplice lettura dei partecipanti ai tre eventi già di per sé la dice lunga sulle successive traiettorie loro e della semiotica dell'architettura; ma non è questo che interessa qui evidenziare. 43 L'intervento di Greimas fu poi ripubblicato in: Greimas, A.J., 1972, Sémiotique et science sociale, Paris, Seuil, trad.it. Semiotica e scienze sociali, Torino, Centro Scientifico Editore, 1991 (cfr. in particolare per le successive citazioni il capitolo "Per una semiotica topologica"). 44 Preziosi, D., 1979, Architecture, Language and Meaning, The Hague, Mouton. 45 Castelnovi, P., 1980, La città:istruzioni per l'uso, Torino, G. Einaudi. 46 Dice giustamente Preziosi: "There is not human society which does not communicate, express, and represent itself architectonically" (Preziosi 1979, p. 6). Lo stesso concetto è anche espresso da Greimas: "L'esistenza della città come referente immaginario globale non sembra che si possa mettere in dubbio" (Greimas 1972, p. 152).

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a) il riconoscimento che ogni società ed ogni cultura esprime e rappresenta se stessa attraverso l'architettura, intesa come manipolazione del suo spazio vitale47 ed in maniera interdipendente con le altre forme linguistiche; veniva così privilegiato il rapporto lingua/spazio urbano piuttosto che quello parola/immagine architettonica; b) un relativismo culturale di fondo, e cioè la specificità dei linguaggi figurativi rispetto alle diverse culture storico-geografiche in cui si manifestano, indipendentemente dalla lente deformante della storia dell'arte e degli stili; c) il riconoscimento del rapporto tra lo spazio della città ed i suoi utenti48 - gli attori urbani - e la conseguente dimensione comunitaria dei significati funzionali e sociali dell'architettura; veniva così messa in dubbio, per la prima volta, la funzione emittente dell'architetto49, una delle questioni più fuorvianti in questa materia, ma data da tutti e tuttora per scontata.

Queste tesi, portate alle loro naturali ed ultime conseguenze, avrebbero potuto aprire la strada ad una teoria della semiosi figurativa del tutto diversa ed è difficile dire perché ciò non sia avvenuto. Nel momento in cui tanto interesse viene riversato dalla ricerca semiotica sulla città e sullo spazio, ritornare alla sua fase fondativa non è un atto nostalgico; significa aprire ad una nuova e più generale impostazione per la semiotica del visibile, non riguardata più solo in chiave estetica, ma fondata su una più robusta teoria dei sottostanti sistemi di comunicazione, senza i quali essa rischia processi di isterilimento e consunzione.

pubblicato in rete il 27 dicembre 2012

47 Questa interpretazione del concetto di <territorialità> consente a Preziosi di abbozzare – in maniera del tutto autonoma rispetto ai quasi contemporanei sviluppi della linguistica testuale - i meccanismi deittici presenti nel linguaggio architettonico (Preziosi 1979, p. 26-41). 48 "Esiste una relazione complessa tra l'uomo, nella sua manifestazione societaria, e l'ambiente fisico in cui agisce: questa relazione è descrivibile come organizzata secondo una serie di regole, comunicabili e implicite nelle relazioni societarie stesse [...] ed è pertanto descrivibile come una semiotica" (Castelnovi 1980, p. 4). "Concepire la città come un insieme di interrelazioni e di interazioni fra soggetti e oggetti" (Greimas 1972, p. 141) ed in maniera ancor più incisiva "Il linguaggio spaziale viene a configurarsi come un linguaggio con il quale una società significa se stessa a se stessa" (Greimas 1972, p. 127). 49 (L'architetto) "non è che uno degli attori di un attante collettivo complesso, l'analisi del quale rivelerebbe le componenti economiche e politiche ben più potenti dell'architetto urbanista" (Greimas 1972, p. 149).