diritto canonico feliciani

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INDICE I. Le leggi delLa Chiesa 1. Unità e pluralismo 2. Diritto universale e diritto particolare 3. Il diritto della cristianità 4. Verso la codificazione del diritto della Chiesa cattolica 5. Il processo di codificazione 6. Il Codice di diritto canonico del 1917 7. Il Codice delle Chiese orientali 8. I principi del Concilio Vaticano II 9. Verso una nuova legislazione 10. Il Codice del 1983 11. Il Codice dei canoni delle Chiese orientali 12. La «produzione» del diritto II. La legge nella Chiesa 1. Diritto e teologia 2. Autorità divina e autorità ecclesiastica 3. Certezza del diritto ed esigenze di giustizia III. I poteri 1. Sistema gerarchico e organizzazione ecclesiastica 2. L'ufficio ecclesiastico 3. Il primato pontificio 4. Organi centrali di governo 5. Il collegio episcopale 6. Collegialità e primato 7. Esercizio congiunto del ministero episcopale 8. Il governo della Chiesa particolare 9. Il clero diocesano 10. I diaconi 11. Gli altri ministri IV. I fedeli nella Chiesa 1. Lo «status» di fedele 2. La questione dei diritti fondamentali 3. L’elenco dei diritti e dei doveri 4. Il diritto di associazione 5. L’autonomia privata 6. Limiti e sanzioni 7. I chierici

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Page 1: Diritto Canonico Feliciani

INDICE

I. Le leggi delLa Chiesa

1. Unità e pluralismo2. Diritto universale e diritto particolare3. Il diritto della cristianità4. Verso la codificazione del diritto della Chiesa cattolica5. Il processo di codificazione6. Il Codice di diritto canonico del 19177. Il Codice delle Chiese orientali8. I principi del Concilio Vaticano II9. Verso una nuova legislazione10. Il Codice del 198311. Il Codice dei canoni delle Chiese orientali12. La «produzione» del diritto

II. La legge nella Chiesa

1. Diritto e teologia2. Autorità divina e autorità ecclesiastica3. Certezza del diritto ed esigenze di giustizia

III. I poteri

1. Sistema gerarchico e organizzazione ecclesiastica2. L'ufficio ecclesiastico3. Il primato pontificio4. Organi centrali di governo5. Il collegio episcopale6. Collegialità e primato7. Esercizio congiunto del ministero episcopale8. Il governo della Chiesa particolare9. Il clero diocesano10. I diaconi11. Gli altri ministri

IV. I fedeli nella Chiesa

1. Lo «status» di fedele2. La questione dei diritti fondamentali3. L’elenco dei diritti e dei doveri4. Il diritto di associazione5. L’autonomia privata6. Limiti e sanzioni7. I chierici8. I laici9. La vita matrimoniale10. La vita consacrata11. I non battezzati12. Le persone giuridiche

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Capitolo 1LE LEGGI della CHIESA

1. UNITÀ e PLURALISMO

II Concilio ecumenico Vaticano II, definisce la Chiesa come «un solo popolo di Dio radicato in tutte le nazioni della terra»; essa «favorisce e accoglie tutte le ricchezze di capacità e di consuetudini dei popoli, in quanto sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva». Grazie a questa universalità o cattolicità «le singole parti portano propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, e così il tutto e le singole parti sono rafforzate, comunicando ognuna con le altre e concordemente operando per la pienezza nell’unità». In tal modo:

si riconosce la legittimità dell’esistenza, nell’unica Chiesa universale , delle Chiese particolari , presiedute dai singoli vescovi e dotate di propria «cultura» e di proprie tradizioni;

si riafferma, al contempo, l’autorità del vescovo di Roma che «presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime, e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non nuoccia all’unità, ma la serva».

Alla luce di questa dottrina, enunciata nella costituzione conciliare «Lumen gentium» , si comprende il valore e il significato dell’unità e varietà del diritto canonico che costituisce la struttura giuridica del «popolo di Dio». Tale diritto ha un carattere, un contenuto e un’efficacia universali, abbracciando le genti più disparate. Esso, pur restando immutabile nelle sue strutture fondamentali e nei suoi principi basilari, si rivela dotato di un’eccezionale capacità di adattamento alle diverse circostanze e necessità: ogni comunità ecclesiale ha norme peculiari dirette a derogare o integrare quelle riguardanti tutta la cattolicità.

Il pluralismo disciplinare si dimostra in modo particolarmente evidente nelle differenze esistenti tra:- Chiesa latina - Chiese orientali cattoliche.

Precisazioni: nei primi secoli della Chiesa, il governo delle varie comunità cristiane faceva capo non solo a Roma, ma anche ad altre sedi patriarcali collocate in Oriente. In seguito, il patriarcato di Roma o d’Occidente (coincidente con la Chiesa latina e comprendente la stragrande maggioranza dei fedeli cattolici) si diffuse in tutta Europa e negli altri continenti, mentre le comunità di Oriente se ne separarono dando vita a Chiese autonome. Alcune di queste, con il volgere dei secoli, hanno ritrovato l’unità con Roma, che ne ha rispettato le diverse tradizioni. Attualmente si contano 22 Chiese orientali cattoliche, dotate di propri riti liturgici, propria disciplina e propria gerarchia, e raggruppate intorno ai 5 «riti» orientali più antichi. Il Concilio Vaticano II ne ha sancito anche il diritto (e il dovere) di governarsi secondo le proprie discipline particolari.

NB: nel presente studio con il termine «Chiesa» si intende la «Chiesa cattolica», che si distingue dalle altre confessioni cristiane per numerosi fattori di carattere dottrinale e disciplinare (es. il riconoscimento della suprema autorità del vescovo di Roma, considerato successore dell’apostolo Pietro). La precisazione si impone in quanto anche altre Chiese cristiane sono dotate di un diritto proprio che non costituisce oggetto della presente trattazione, esclusivamente dedicata al diritto della Chiesa cattolica e, più specificamente, della Chiesa latina.

2. DIRITTO UNIVERSALE e DIRIITO PARTICOLARE

Oltre che nelle differenze esistenti tra la Chiesa latina e le singole Chiese orientali, il pluralismo disciplinare si manifesta all’interno della stessa Chiesa latina dove, accanto ad un diritto universale, valido dovunque, vigono diritti particolari, obbligatori solo in certi luoghi.

Le leggi universali sono emanate:- dal pontefice, che esercita sempre liberamente la sua potestà, - dal collegio di tutti i vescovi, che può agire previo il consenso dello stesso pontefice; sì che il concilio

ecumenico (che costituisce il modo solenne di esercizio del potere proprio del collegio episcopale) viene

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convocato e presieduto dal papa che provvede anche a confermarne le deliberazioni.

Le fonti del diritto particolare sono: - le norme emanate per un dato territorio dal pontefice, su iniziativa autonoma o sulla base di convenzioni o

accordi con le autorità civili (concordati, intese, modus vivendi, protocolli, accordi); - i decreti dei concili particolari, che riuniscono i vescovi di una provincia ecclesiastica (concili provinciali) o

di una conferenza episcopale (concili plenari) e hanno nel rispettivo territorio competenza legislativa di carattere generale,

- le decisioni delle conferenze episcopali, che riuniscono di regola i vescovi appartenenti ad uno stesso Stato e deliberano in modo giuridicamente vincolante solo nelle materie ad esse attribuite dal diritto universale o da una speciale disposizione della Santa Sede,

- le leggi riguardanti le singole diocesi, promulgate dal vescovo sia nel sinodo diocesano (= in un’assemblea ecclesiale celebrata con particolare solennità), che fuori di esso,

- le consuetudini, che sembrano attualmente svolgere un ruolo ridotto a causa delle restrizioni imposte dalla legislazione.

Questa molteplicità di fonti pone il problema della loro gerarchia , che nella disciplina canonica vigente è determinata esclusivamente dalla diversa autorità dei vari legislatori. Gerarchia:

I. le leggi e disposizioni pontificie e i decreti dei concili ecumenici, II. le norme decise dagli episcopati locali in sede di concilio particolare o di conferenza episcopale e in

ogni caso soggette al nullaosta della Santa Sede, III. le leggi diocesane che non possono essere contrarie né al diritto universale né a quello sancito

collegialmente dai vescovi a livello provinciale o regionale.

Il diritto particolare svolge un ruolo importante nella vita della Chiesa: da un lato assicura una precisa ed efficace applicazione della legislazione universale, specificandola, completandola e adattandola in funzione delle esigenze concretamente poste dalle diverse circostanze, dall’altro è fattore talmente rilevante di sviluppo e di evoluzione di tutto l’ordinamento che molte norme e istituti di carattere universale sono nati in sede locale, soprattutto ad opera dei concili particolari.

NB: non si può, quindi, contrapporre diritto particolare e diritto universale: lo spirito e la struttura dell’ordinamento canonico esigono che questi due diritti vivano in un rapporto di continua simbiosi che consenta un costruttivo interscambio e un’efficace comunicazione reciproca.

L’equilibrio tra l’unità del sistema giuridico e il pluralismo disciplinare non è determinato una volta per tutte da principi astratti e immutabili, ma è condizionato dalla concreta situazione della comunità (a sua volta influenzata delle vicende della società civile) la quale, in funzione delle tendenze che si manifestano nelle diverse epoche storiche, ora favorisce lo sviluppo delle legislazioni locali, ora porta ad accentuare la funzione del diritto universale. In particolare, mentre nei secoli immediatamente precedenti il Concilio ecumenico Vaticano II si assiste ad un progressivo accentramento della vita ecclesiale, il Codice promulgato da Giovanni Paolo II nel 1983 consente maggiori spazi all’autonomia delle singole diocesi e degli episcopati locali.

3. IL DIRITTO della CRISTIANITÀ

Al momento della convocazione del Concilio Vaticano I (1869-1870) le linee fondamentali del sistema giuridico canonico sono ancora offerte dal Corpus iuris canonici = l’insieme delle più autorevoli collezioni in cui, prima del Concilio di Trento, si è venuta consolidando l’esperienza giuridica della Chiesa.

II Corpus iuris canonici si apre con il Decretum di Graziano (o Concordia o Concordantia discordantium canonum) in quanto il suo autore (considerato come l’iniziatore della scienza canonistica e maestro di teologia a Bologna nella prima metà del XII sec.) si propone di concordare i canoni discordanti = di ridurre a unità il sistema giuridico della Chiesa quale era venuto delineandosi negli 11 secoli precedenti. Sulla base di una molteplicità di fonti (dedotte dalla Sacra Scrittura, dai concili generali e particolari, dalle opere dei Padri, dalle lettere dei pontefici, da altri documenti ecclesiastici e dalle stesse leggi civili), Graziano identifica i problemi e ne prospetta la soluzione in asserzioni (dicta) suffragate dalla citazione di testi autorevoli (auctoritates).

L’opera ha carattere privato e si articola in: 101 distinzioni dedicate al diritto e alle sue fonti, ai chierici e alla loro ordinazione; 36 cause relative alle più varie materie (es. la procedura, il patrimonio, i religiosi, il matrimonio e la

penitenza); 5 distinzioni riguardanti il culto, i sacramenti e i sacramentali.

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Il Decretum venne adottato da subito come manuale, prima a Bologna e poi nelle altre università del tempo, determinando intorno allo studio del diritto canonico un vasto interesse che si riflette anche sull’attività legislativa. Infatti, a partire dalla seconda meta del XII sec., a causa della crescente autorità di Roma e della maggior sensibilità per le questioni giuridiche, i pontefici sono frequentemente chiamati a risolvere autoritativamente le controversie che insorgono: le loro costituzioni e decretali si moltiplicano così rapidamente da porre ben presto l’esigenza di raccoglierle in collezioni. II problema è organicamente affrontato da Gregorio IX che affida a Raimondo di Penafort il compito di riunirle in modo rispondente ai bisogni del tempo, espungendo i testi simili, inutili o contraddittori, modificando le fonti là dove necessario e integrandole opportunamente con nuove decretali da emanarsi appositamente. La collezione delle decretali di Gregorio IX (Decretales Gregorii IX, detta anche Liber Extra in quanto raccoglie i testi estranei alla Concordia grazianea):

- è suddivisa in 5 librio giudice, o giudizio, o clero, o matrimonio, o delitto

- viene promulgata nel 1234 con la bolla «Rex pacificus» che ne sancisce il carattere autentico, attribuendole forza di legge per la Chiesa universale, ed esclusivo, vietando il ricorso a qualunque altra raccolta che non sia il Decretum di Graziano.

L’opera di Gregorio IX è proseguita da Bonifacio VIII che nel 1298 promulga il Liber Sextus (così chiamato per sottolineare la continuità con i 5 libri del Liber Extra) dove sono raccolti,

- i decreti dei concili generali celebrati a Lione nel 1245 e nel 1274, - le decretali successive al 1234.

L’ultima raccolta ufficiale compresa nel Corpus è costituita dalle Clementinae, comprendenti quasi esclusivamente atti di Clemente V che, dopo una prima promulgazione ad opera di questo pontefice, sono riviste e promulgate da Giovanni XXII nel 1317. A differenza dei libri Extra e Sextus non hanno valore esclusivo in quanto, salvo che dispongano in senso a esse contrario, lasciano in vigore le decretali precedenti.

Carattere, poi, puramente privato hanno le due collezioni, pubblicate da Giovanni Chappuis nel 1500 e nel 1503 delle Extravagantes Ioannis XXII che riuniscono 20 decretali di questo pontefice (1316-1334) e delle Extravagantes communes che raccolgono più di 70 decretali dovute a vari papi da Urbano IV (1261-1264) a Sisto IV (1471-1484). Le Extravagantes concludono il Corpus che, di conseguenza, nel testo approvato da Gregorio XIII nel 1580, risulta composto da:

- Decretum di Graziano, - Liber Extra di Gregorio IX, - Liber Sesto di Bonifacio VIII, - Clementinae - Extravagantes

4. VERSO la CODIFICAZIONE del DIRITTO della CHIESA CATTOLICA

Al Vaticano I si rileva come la consultazione del Corpus si presenti tutt’altro che agevole a causa della sua ampiezza, del diverso valore giuridico delle singole parti, dell’insufficiente sistematica, della scarsa rispondenza alle esigenze dei tempi.

È quindi comprensibile che di fronte all’incertezza del diritto, molti dei vescovi che partecipano al Vaticano I ritengano indispensabile una «reformatio iuris». Si avverte il desiderio di una certezza del diritto fondata prevalentemente su una legge scritta che assicuri unità di disciplina in tutta la Chiesa.

Le proposte di codificazione nascono dall’esigenza di una maggior uniformità della legislazione ecclesiastica che, implicando necessariamente una limitazione del pluralismo disciplinare, si risolve in una riaffermazione dell’unità della

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Chiesa universale rispetto alla diversità delle Chiese particolari.

In ogni caso, il progetto si scontra con l’atteggiamento sostanzialmente negativo prima delle commissioni preparatorie del Vaticano I, (in larga parte composte da officiali della Curia romana), poi della congregazione istituita da Pio IX per l’esame dei postulati, che, non senza incertezze e contraddizioni, decide di sottrarre l’argomento alle deliberazioni del concilio, proponendolo invece al pontefice «in forma di umile domanda».

La sospensione del concilio e i più urgenti problemi di carattere politico che la «questione romana» pone alla Santa Sede fanno sì che la richiesta venga accantonata.

5. IL PROCESSO di CODIFICAZIONE

Nel marzo 1904 viene pubblicato il motu proprio «Arduum sane munus» in cui Pio X, dopo aver sottolineato l’importanza della disciplina nella vita della Chiesa e la necessità di evitare la dispersione delle leggi, riconosce che le varie collezioni realizzate a tale scopo nei secoli precedenti e le stesse disposizioni emanate dai suoi immediati predecessori non hanno eliminato tutte le difficoltà. Ricorda, quindi, come da più parti si chieda, da tempo, che tutte le leggi della Chiesa siano raccolte in unità secondo un ordine chiaro, espungendo quelle abrogate e superate e adattando le altre alle condizioni dei tempi, e dichiara di approvare e accettare questi voti, istituendo per la realizzazione dell’opera un’apposita commissione cardinalizia e un collegio di consultori che si avvarranno della collaborazione dell’episcopato mondiale.

Il motu proprio resta nel vago circa il metodo da seguire; ogni dubbio in merito è pero prontamente fugato dal segretario della commissione, Gasparri, che nella lettera inviata nell’aprile 1904 alle università cattoliche precisa che è intenzione del pontefice provvedere a distribuire adeguatamente in canoni o articoli sul modello dei più recenti codici statuali tutto il diritto canonico, curando, la raccolta di tutti quei documenti, pubblicati dopo le collezioni autentiche contenute nel Corpus, da cui essi siano desunti.

Questa lettera di Gasparri fornisce anche una prima indicazione circa la sistematica del Codice che si ispira fondamentalmente ai trattati di istituzioni di diritto canonico in uso nelle università, dove, seguendo il modello delle istituzioni giustinianee, le materie sono ripartite in

- persone, - cose - azioni.

Ulteriori precisazioni sono contenute nelle norme approvate dal pontefice nell’aprile 1904: i1 Codice, redatto in lingua latina, conterrà soltanto leggi disciplinari enunciate in canoni che il più chiaramente, brevemente e fedelmente possibile riportino, nella sola parte dispositiva, quanto stabilito

- dal Corpus, - dal Concilio di Trento, - dagli atti dei pontefici, - dai decreti delle congregazioni romane e dei tribunali ecclesiastici,

tralasciando le norme abrogate o superate e innovando là dove opportuno o necessario.

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La commissione, coordinata da Gasparri, che nel 1907 viene nominato cardinale, si mette al lavoro e nel 1912-1914 è in grado di inviare un primo progetto ai vescovi del mondo intero perché facciano pervenire le loro osservazioni. Il testo, adeguatamente rivisto, è poi trasmesso per gli eventuali rilievi ai cardinali e ai prelati della Curia romana e infine, nel 1916, i lavori della commissione possono considerarsi conclusi.

Durante la preparazione del Codice compaiono, come anticipazioni della nuova disciplina, molti atti legislativi. Tra i più significativi vanno ricordati:

- la costituzione «Vacante Sede Apostolica», che innova la disciplina del conclave per l’elezione del pontefice (1904),

- il decreto «Ne temere», sulla forma di celebrazione del matrimonio (1907), - la costituzione «Sapienti consilio» sul riordinamento della Curia romana (1908).

Inoltre, nel 1909, inizia la pubblicazione degli «Acta Apostolicae Sedis» = il periodico ufficiale della Santa Sede. Prima di tale anno i principali atti del pontefice e della Curia romana venivano inseriti negli «Acta Sanctae Sedis» (41 volumi comparsi tra il 1865 e i1 1908); questa collezione aveva un valore puramente privato fino al 1904 quando Pio X ne sancì il carattere autentico e ufficiale.

6. IL CODICE di DIRITTO CANONICO del 1917

Il Codex iuris canonici viene promulgato da Benedetto XV (1914-1922) con la costituzione «Providentissima Mater Ecclesia» nel maggio 1917 ed è pubblicato nel giugno successivo mediante inserzione negli «Acta Apostolicae Sedis».

Dal punto di vista formale il nuovo testo legislativo, entrato in vigore nel maggio 1918, si compone di 2.414 canoni, stilati in forma breve, astratta e senza menzione delle loro motivazioni, distribuiti in 5 libri, che, a eccezione del primo, si articolano in parti, di cui alcune sono suddivise in sezioni. Tutti i libri, sono ripartiti in titoli, spesso distinti in capitoli che, a loro volta, possono suddividersi in articoli. A tutte queste suddivisioni sono premesse delle rubriche che enunciano sinteticamente l’argomento trattato e di cui sono privi solo alcuni canoni di carattere introduttivo, non ricompresi nei titoli. Infine i singoli canoni, dotati di numerazione continua per tutto il codice, sono spesso suddivisi in paragrafi o in numeri.

La sistematica adottata non si scosta molto da quella enunciata da Gasparri nella lettera alle università cattoliche: - il primo libro, Normae generales, tratta delle leggi e della loro efficacia, della consuetudine, del computo del

tempo, dei rescritti, privilegi e dispense; - il secondo, De personis, contiene la disciplina relativa ai chierici, ai religiosi, ai laici; - il terzo, De rebus, concerne i sacramenti, i luoghi e i tempi sacri, il culto divino, il magistero ecclesiastico, i

benefici e gli altri istituti non collegiali, i beni temporali; - il quarto, De processibus, riguarda i giudizi, le cause di beatificazione e canonizzazione e alcuni procedimenti

speciali riguardanti i chierici; - il quinto, De delictis et poenis, disciplina la materia penale.

Ai cinque libri fanno seguito alcune costituzioni pontificie, emanate in diverse epoche e riguardanti varie materie tra cui l’elezione del pontefice.

Il valore giuridico del Codice è quello di una collezione- autentica: approvata e promulgata dal pontefice come supremo legislatore, - unica: tutte le disposizioni in esso contenute, sia che presentino carattere di novità sia che si limitino a ripetere

l’antica disciplina, hanno la stessa fonte di obbligatorietà e, di conseguenza, vanno considerate come emanate nello stesso momento.

L’universalità del Codice non è assoluta: esso riguarda solo la Chiesa latina. Circa, poi, la sua esclusività: nonostante i propositi enunciati nel motu proprio «Arduurn sane munus», il Codice non raccoglie l’«universum ius» poiché da un lato non comprende le leggi liturgiche e dall’altro non abroga gli accordi della Santa Sede con le varie nazioni (convenzioni, concordati), lasciando intatti anche i diritti acquisiti e i privilegi disposti dalla Santa Sede e ancora in uso. Sono, infine, tollerate le consuetudini contrarie centenarie o immemorabili non espressamente riprovate e non abolite. A parte queste eccezioni, tutte le leggi sia universali sia particolari, contrarie alla disciplina del Codice, vengono abrogate (salvo diversa disposizione).

Circa l’opera realizzata da Gasparri, diverse sono le opinioni manifestate in merito. Si può affermare che ad una quasi unanime valutazione largamente positiva si è andata gradualmente sostituendo una

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più meditata riflessione che ha portato alla formulazione di vari e significativi rilievi. Una prima osservazione è che benché il cardinal Gasparri nella sua prefazione collochi il Codice nella grande linea delle collezioni canoniche dei secoli precedenti, questa tesi non appare sostenibile: il Codice conserva nella sua sostanza gran parte del diritto precedente, ma esso costituisce un’assoluta novità nella storia della Chiesa, che non aveva mai conosciuto una legislazione che assorbisse, in modo pressoché totale, la disciplina precedente, abolendo formalmente tutte le collezioni anteriori.

Questa rigida separazione tra storia e diritto vigente è dovuta alla stessa impostazione metodologica del Codice che, abbandonando il sistema tradizionale delle collezioni, si ispira a quelle teorie che, privilegiando i concetti giuridici e le formule astratte sulla concretezza della vita sociale e delle vicende storiche, avevano determinato in molti paesi il processo di codificazione.

Tale «imitazione» da parte della Chiesa di forme legislative proprie degli Stati ed estranee alla sua tradizione ha provocato in questi ultimi tempi alcune critiche in quanto appare dettata da quella concezione secolarizzante della Chiesa come «societas iuridice perfecta» che tende ad assimilare la società ecclesiale a quelle statuali. Più specificamente, il Codice si collocherebbe in un disegno di accentramento che, mediante l’imposizione di una rigida uniformità disciplinare, finisce col negare ogni legittimo pluralismo, col favorire il giuridismo (= la sopravvalutazione dell’importanza del momento giuridico nella vita della Chiesa), col ridurre quella adattabilità alle più diverse circostanze di tempo e di luogo che caratterizza l’ordinamento canonico.

Tutte queste critiche sono meritevoli di attenta considerazione anche se non si possono trascurare gli esiti positivi del Codice che

- ha posto termine alla confusione legislativa preesistente, - ha permesso una maggiore conoscenza delle leggi ecclesiastiche, - ha consentito un più ordinato svolgimento della vita ecclesiale, - ha favorito un notevole sviluppo degli studi canonistici.

II dibattito, dunque, è ancora aperto. Si può, comunque, affermare con certezza che la codificazione non costituisce quella forma di legislazione assoluta e perfetta che gli autori del Codice mostrano di credere.

Questa suggestione del «mito» della codificazione è particolarmente evidente nel motu proprio «Cum iuris canonici» con cui nel settembre 1917 Benedetto XV istituisce la commissione per l’interpretazione autentica dei canoni del Codice. In questo documento il pontefice ritiene possibile arrestare 1’evoluzione della legislazione o almeno regolarla in modo che anche per il futuro la disciplina della Chiesa venga raccolta nell’unico testo legislativo del Codice. Il motu proprio, infatti, dispone che le congregazioni romane si astengano dall’emanare decreti generali ma si limitino a pubblicare istruzioni che si presentino come spiegazioni e complementi dei canoni del Codice. Qualora, una grave necessità della Chiesa universale imponga innovazioni legislative, la commissione provvederà a redigere le nuove disposizioni in canoni che verranno sostituiti o aggiunti a quelli già contenuti nel Codice.

Quest’ultima disposizione non ha trovato pratica attuazione, mentre la commissione ha puntualmente adempiuto al primo compito assegnatole di interpretare autenticamente i canoni del Codice, pronunciando numerosi responsi che sono stati pubblicati sugli «Acta Apostolicae Sedis».

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7. IL CODICE delle CHIESE ORIENTALI

NB: il Codice di diritto canonico riguarda esclusivamente la Chiesa latina: non vincola i fedeli di altro rito se non in quelle disposizioni che per propria natura obblighino anche loro, come i canoni che dispongono in materia di fede e morale e quelli che contengono precetti di diritto divino.

La codificazione del diritto degli orientali viene decisa da Pio XI che nel 1929, dopo aver consultato i vescovi di rito orientale, affida i lavori preparatori ad una commissione cardinalizia, presieduta da Gasparri, a cui vengono affiancate, l’anno successivo, altre due commissioni:

- alla prima, composta dai delegati dei vari riti orientali e da qualche canonista latino, viene assegnato il compito di collaborare alla preparazione della codificazione,

- la seconda, a cui partecipano studiosi di tutti i riti, riceve l’incarico di curare la raccolta delle fonti. La commissione cardinalizia viene, infine, trasformata nel 1935 in commissione per la redazione del Codice di diritto canonico orientale sotto la presidenza del cardinal Sincero, a cui succede il cardinal Massimi. Prima di tale data, i delegati orientali procedono all’elaborazione degli schemi da inviare ai vescovi orientali, ai rappresentanti pontifici e ai vescovi latini nei territori orientali, ai superiori maggiori dei religiosi orientali e ad alcune università ecclesiastiche. Le risposte pervenute sono esaminate da un gruppo di consultori che presenta le sue proposte alla commissione cardinalizia la quale, a sua volta, provvede ad approvare il testo dei canoni da sottoporre al sommo pontefice.

Un primo abbozzo di tutto il codice orientale viene dato alle stampe nel 1943 e un nuovo schema, con numerose modifiche, viene stampato nel 1945, sempre a uso interno. Mentre continua il lavoro di miglioramento e revisione del testo, la commissione inizia nel 1946 l’esame delle fonti in vista del loro inserimento nelle note ai vari canoni.

Ad una conclusione positiva ma parziale dei lavori si giunge solo nel febbraio 1949 con la promulgazione dei canoni riguardanti il matrimonio, avvenuta ad opera del motu proprio «Crebrae allatae sunt», a cui fanno seguito negli anni successivi le norme relative ai giudizi, ai religiosi, ai beni temporali, al significato delle parole, ai riti e alle persone.

Le promulgazioni parziali del codice orientale cessano con la morte di Pio XII (1958), il quale aveva dato un deciso impulso ai lavori della commissione facendoli giungere quasi al termine. La codificazione orientale ha incontrato difficoltà ben maggiori di quella del diritto latino, come documentano chiaramente sia la lunghezza dei lavori preparatori sia la mancanza di una loro definitiva conclusione: mentre la disciplina della Chiesa latina presentava una relativa omogeneità dovuta sia all’unicità del rito regolato, sia alla precedente opera centralizzatrice della Santa Sede, i diritti delle Chiese orientali erano, e sono tuttora, talmente diversi che alcuni di essi appaiono più simili al diritto latino di quanto lo siano tra di loro.

Da tale diversità deriva:- una notevole difficoltà ad individuare e codificare un diritto comune a tutte le Chiese orientali, - la necessità che il codice orientale lasci ai diritti particolari uno spazio ben più ampio di quello previsto dal

Codice di diritto canonico, data l’impossibilità di ridurre a uniformità le differenti tradizioni e discipline delle singole Chiese.

8. I PRINCIPI del CONCILlO VATICANO II

Nel 1959 Giovanni XXIII annuncia inaspettatamente la prossima convocazione di un «Concilio ecumenico per la Chiesa universale», provocando sorpresa.

Le ragioni che avevano indotto il pontefice a questa decisione si trovano enunciate nella costituzione «Humanae salutis», con cui nel 1961, dopo un intenso lavoro di preparazione, viene convocato il Concilio ecumenico Vaticano II.

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A giudizio di Giovanni XXIII, di fronte alla crisi della società, la Chiesa è chiamata a mettere in contatto con il Vangelo il mondo moderno in cui al grande progresso materiale dovuto alle conquiste della scienza e della tecnica non corrisponde un eguale avanzamento in campo morale, dove, anzi, si manifestano preoccupanti fenomeni. Questa dolorosa constatazione non intacca la fiducia del pontefice che, per rispondere ai «segni dei tempi» offerti dall’indigenza spirituale del mondo e dalla vitalità della Chiesa, ritiene urgente convocare il concilio per dare a quest’ultima la possibilità di contribuire più efficacemente alla soluzione dei problemi della società moderna. Questa finalità ispira il grandioso programma del concilio che dovrà occuparsi dei problemi dottrinali e pratici corrispondenti all’esigenza di una perfetta conformità della Chiesa all’insegnamento di Cristo: la Scrittura, la tradizione, i sacramenti, la preghiera, la disciplina ecclesiastica, le attività caritative e assistenziali, l’apostolato dei laici, gli orizzonti missionari, preoccupandosi anche specificamente dell’influsso che l’ordine soprannaturale deve esercitare su quello temporale in modo che le deliberazioni conciliari investano di nuova luce non solo l’intimo delle coscienze, ma anche tutta la massa collettiva delle umane attività.

I lavori del concilio, a cui partecipano circa 2.500 padri (vescovi, prelati a essi equiparati, superiori generali dei religiosi) giunti da ogni parte del mondo, hanno inizio nell’ottobre 1962 e si articolano in 4 periodi:

- dall’ottobre al dicembre 1962, - dal settembre al dicembre 1963, - dal settembre al novembre 1964, - dal settembre al dicembre 1965.

L’8 dicembre il Concilio Vaticano II viene solennemente dichiarato concluso da Paolo VI.

I documenti conciliari - promulgati, per ordine del pontefice mediante la pubblicazione sugli «Acta Apostolicae Sedis» sono 16:

- 4 costituzioni: hanno un carattere eminentemente dottrinale oppure contengono deliberazioni di cui si è voluto sottolineare la particolare importanza;

- 9 decreti: pur non mancando di esposizioni dottrinali di varia ampiezza, riguardano soprattutto le applicazioni pratiche;

- 3 dichiarazioni: risultano atti concernenti questioni specifiche, affrontate sotto il profilo sia dottrinale che pastorale, ai quali il concilio non ha ritenuto opportuno conferire la solennità propria delle costituzioni.

II problema della qualificazione giuridica delle deliberazioni del Vaticano II nel quadro delle fonti del diritto canonico presenta una certa complessità in quanto le esposizioni dottrinali non sono completate (come nei concili precedenti), da canoni che ne sintetizzino le proposizioni, enunciando i relativi precetti e sanzioni. Questa assenza di canones (dovuta alla scelta precisa di privilegiare la «pastoralità» sulla «giuridicità») non implica la mancanza di norme giuridiche, ma impone all’interprete di identificarne l’esistenza sulla base di un’attenta analisi del contenuto dei singoli documenti conciliari che, in quanto approvati dai padri e promulgati dal pontefice, sono tutti idonei a contenere disposizioni di tale natura.

Si può innanzitutto affermare che in nessun caso si è ritenuto opportuno impegnare l’infallibilità del magistero ecclesiastico, mentre numerosi insegnamenti sono garantiti dall’autorità del supremo magistero ordinario, che «deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti».

Riguardo alla rilevanza giuridica delle deliberazioni conciliari, spesso esse contengono «norme-principio»: tali norme svolgono una funzione programmatica, qualificando l’ordinamento e fissando le linee direttive del suo sviluppo; incidono talvolta direttamente e immediatamente come norme sostanzialmente sovraordinate, nella legislazione vigente, innovandola, abrogandola o derogandola, e valgono, inoltre, come criteri di interpretazione e integrazione delle disposizioni anteriori.

Non mancano, infine, soprattutto nei decreti, disposizioni di carattere particolare che specificano o applicano i principi generali precedentemente enunciati, comandando, invitando o esortando ad un’attività pratica o anche predisponendo direttamente innovazioni dell’ordinamento ecclesiastico.

Le 4 costituzioni:1) «Lumen gentium» che, illustrando la struttura della Chiesa, enuncia la dottrina della sacramentalità e

collegialità dell’episcopato e afferma la vera eguaglianza di tutti i fedeli, e quindi anche dei laici, riguardo alla dignità e all’azione comune;

2) «Dei Verbum», è dedicata alla divina rivelazione e definisce il significato e il valore della Scrittura e della Tradizione che costituiscono fonti di cognizione del diritto divino positivo;

3) la costituzione «Sacrosanctum Concilium» stabilisce i principi generali della riforma liturgica, innovando

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profondamente la disciplina vigente;4) di singolare importanza, poi, per la dottrina relativa alle relazioni tra Chiesa e comunità politiche e all’istituto

matrimoniale la costituzione pastorale «Gaudium et spes» sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.

Tra i 9 decreti:1) l’«Inter mirifica» si occupa dei mezzi di comunicazione sociale, sottolineandone l’incidenza nella vita

moderna ed enunciando diritti e doveri dei fedeli e dei pastori d’anime in questo campo; 2) l’«Unitatis redintegratio» affronta il problema ecumenico = il ristabilimento dell’unità tra i cristiani, con un

atteggiamento particolarmente aperto e disponibile; 3) l’«Orientalium Ecclesiarum» riguarda le Chiese orientali cattoliche che ottengono una considerazione e un

apprezzamento delle loro specificità ben maggiori di quelli precedenti; 4) l’«Ad gentes» riconosce nelle missioni un’attività essenziale alla Chiesa che impegna la responsabilità di tutti i

vescovi, stabilendo nuovi principi generali e disposizioni specifiche per tutto il diritto missionario;5) il «Christus Dominus», che tratta dell’ufficio dei vescovi nei confronti della Chiesa sia universale che

particolare, formulando nel terzo capitolo la prima disciplina di diritto comune delle conferenze episcopali a cui viene riconosciuta (in termini molto limitati), vera e propria potestà legislativa;

6) l’«Optatam totius», che innova l’impostazione e i criteri della formazione dei sacerdoti investendo l’ordinamento dei seminari;

7) il «Presbyterorum Ordinis», che, oltre a definire la natura e le funzioni del ministero dei sacerdoti, affronta anche problemi molto concreti (es. la distribuzione del clero, le questioni relative alla sua sussistenza, assistenza e previdenza, l’istituzione del consiglio presbiterale);

8) il «Perfectae caritatis» traccia le linee per il rinnovamento della vita religiosa;9) l’«Apostolicam actuositatem» tratta dell’apostolato dei laici nella società contemporanea alla luce di quei

principi di valorizzazione del laicato che si trovano già enunciati nella costituzione dogmatica «Lumen gentium».

Le 3 dichiarazioni: 1) la «Gravissimum educationis» enuncia i principi fondamentali sull’educazione cristiana, soffermandosi su

scuole, università e facoltà cattoliche;2) la «Nostra aetate» si occupa delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane dopo aver sottolineato la

necessità di dialogo e collaborazione con buddisti, induisti e mussulmani, insistendo sulla mutua conoscenza e stima con gli ebrei, condanna come contraria alla volontà di Cristo qualsiasi discriminazione e persecuzione perpetrata tra gli uomini per motivi di razza, colore, condizione sociale o religione;

3) la «Dignitatis humanae» interamente dedicata al problema della libertà religiosa: rivendica a tutti gli esseri umani libertà psicologica e immunità da coercizioni esterne nella ricerca della verità.

L’interpretazione autentica di tutti questi documenti è affidata alla Commissione centrale per il coordinamento dei lavori post-conciliari e per l’interpretazione dei decreti del Vaticano II, istituita nel gennaio 1966 con il motu proprio «Finis Concilio».

Alla conclusione del concilio ha fatto seguito un’intensissima attività legislativa da parte della Santa Sede, diretta:- sia ad emanare le necessarie norme di attuazione delle decisioni conciliari, - sia ad introdurre nell’ordinamento canonico quelle riforme che appaiano richieste dallo «spirito» del Vaticano

II e dalle nuove esigenze che si presentano.

Tra i più importanti provvedimenti di Paolo VI si possono ricordare l’istituzione del Sinodo dei vescovi; le ampie facoltà di dispensa concesse ai vescovi; la soppressione degli ordini minori. Di notevole rilevanza anche le disposizioni circa la vacanza della sede apostolica, l’elezione del pontefice, quelle di riforma della Curia romana (modificate e sostituite da normative più recenti).

Da parte sua Giovanni Paolo II, nello stesso discorso programmatico del suo pontificato, ha dichiarato di considerare «un compito primario quello di promuovere la più esatta esecuzione delle norme e degli orientamenti del concilio», avvertendo che esso «potrà interessare più settori (es. quello missionario, quello ecumenico, quello disciplinare, quello organizzativo)», ma dovrà soprattutto riguardare l’ecclesiologia. A tale proposito il pontefice ha sottolineato la necessità di «riprendere in mano la “magna charta” conciliare cioè la costituzione dogmatica “Lumen gentium”, per una rinnovata meditazione sulla natura e sulla funzione, sul modo di essere e di operare della Chiesa».

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9. VERSO una NUOVA LEGISLAZIONE

1. Per la Chiesa latina Nel discorso pronunciato nel gennaio 1959, Giovanni XXIII annuncia, oltre alla prossima convocazione del concilio, la sua intenzione di procedere alla revisione del Codice di diritto canonico. II progetto trova pratica attuazione nel marzo 1963 con l’istituzione della «Pontificia Commissio Codici iuris canonici recognoscendo», che, nella sua prima riunione, decide di dare immediatamente inizio ai lavori stabilendo un organico rapporto con la segreteria del concilio per conoscere le questioni di carattere giuridico e disciplinare sollevate dai padri.

I primi risultati dei lavori vengono sottoposti, per volere del pontefice, al Sinodo dei vescovi del 1967, che esprime un largo consenso di massima ai «principi direttivi» elaborati dalla commissione. II nuovo Codice (che dovrà adattare la legislazione ai principi del Vaticano II e alle nuove esigenze del popolo di Dio)

- da un lato, manterrà un’indole giuridica, - dall’altro, sarà animato da quello spirito di carità e moderazione che è proprio della legge canonica.

Si concederà ai vescovi una maggior discrezionalità nell’adattare il diritto universale alle necessità dei fedeli.

I più ampi poteri dei vescovi non dovranno però intaccare la necessaria unità del sistema giuridico e quindi, mentre si lascerà maggiore spazio all’autonomia dei legislatori particolari, non saranno consentiti nella Chiesa latina diritti particolari che si presentino come leggi di Chiese nazionali e si porrà particolare attenzione a garantire una certa unità di disciplina nel campo processuale.

In ogni caso, le posizioni dei singoli verranno tutelate - sia mediante un’enunciazione dei diritti soggettivi dei fedeli che preceda l’esposizione degli specifici diritti e

doveri corrispondenti ai loro diversi status, - sia mediante una radicale riforma della giustizia amministrativa.

Anche il diritto penale verrà profondamente rivisto in adesione all’unanime richiesta di una riduzione delle pene.

Per quanto, infine, concerne il problema della determinazione delle porzioni del popolo di Dio che costituiscono le singole Chiese particolari, ci si atterrà di regola all’elemento territoriale, senza pero escludere il ricorso ad altri criteri.

Questi principi direttivi si discostano sotto vari profili da quelli che avevano ispirato la legislazione precedente e

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impongono, di conseguenza, la revisione della sistematica adottata dal Codice del 1917.La commissione riconosce la necessità di una nuova ripartizione delle materie in armonia con lo spirito del Vaticano II e con le recenti acquisizioni scientifiche, ma non ritiene opportuno fissarla a priori.

Viene quindi adottato un indice provvisorio delle materie al fine di consentire la ripartizione dei consultori in diversi gruppi di studio incaricati di predisporre le singole parti della futura legislazione e di studiare alcuni problemi di carattere generale. I singoli gruppi si riuniscono più volte a Roma per discutere le questioni fissate dal presidente della commissione e presentate da un relatore sulla base delle opinioni espresse in precedenza e per iscritto dai vari consultori.

Gli schemi approvati dai gruppi di lavoro sono poi sottoposti al pontefice perché ne autorizzi l’invio alle conferenze episcopali, ai dicasteri della Curia romana, alle facoltà ecclesiastiche, all’unione dei superiori generali dei religiosi. Le osservazioni pervenute da questi organi di consultazione vengono, infine, esaminati dalla segreteria e dai consultori dei vari gruppi per definire il testo da presentare alla commissione cardinalizia che approva lo schema definitivo da trasmettere al pontefice.

Nel contempo la Santa Sede provvede alle più urgenti riforme legislative con interventi di carattere specifico,

2. Per le Chiese orientali Nel già menzionato discorso del gennaio 1959, Giovanni XXIII annunciava, oltre alla convocazione del concilio ecumenico e all’intenzione di procedere alla revisione del Codice, la prossima promulgazione del codice orientale. Tuttavia si rivelò ben presto più opportuno attendere la conclusione del Vaticano II.Paolo VI istituisce, nel giugno 1972, la Commissione pontificia per la revisione del codice orientale con il compito di preparare, soprattutto alla luce dei decreti del Concilio Vaticano II, la riforma del Codice di diritto canonico orientale sia nelle parti già promulgate con i 4 motu proprio, sia nelle parti già ultimate ma non ancora promulgate e di curare, al contempo, la pubblicazione delle fonti del medesimo diritto. II pontefice si attende che l’impresa incrementi sempre più l’unità e il consenso tra le diverse tradizioni, facendo però salve le peculiarità delle singole Chiese.

La presidenza viene affidata ad un prelato, il siro-malabarese cardinal Parecattil, e vengono chiamati a far parte della commissione, oltre a pochi cardinali della Curia romana, tutti i patriarchi e alcuni vescovi orientali.

A giudizio di Paolo VI, questa composizione (che assicura per quanto possibile il carattere «orientale» della commissione) dimostra la volontà della Santa Sede di far sì che siano gli stessi orientali a preparare il codice contenente la loro disciplina.

La Commissione ha innanzitutto provveduto a riordinare i materiali frutto dei lavori precedenti e a raccogliere dai patriarchi e dalle altre autorità delle Chiese orientali suggerimenti circa la revisione del Codice e la designazione dei consultori (poi ripartiti in 10 gruppi di studio). Dopo l’approvazione dei principi direttivi, (1974), tra il 1980 e il 1984 vengono inviati a tutto l’episcopato cattolico orientale e agli altri organi di consultazione gli schemi predisposti dai diversi gruppi di studio.Nel 1986 il progetto dell’intero Codice, rielaborato alla luce delle osservazioni pervenute, è sottoposto all’esame dei membri della Commissione e nel 1989 lo schema definitivo viene presentato al pontefice. 3. Una costituzione per la Chiesa? Fin dall’inizio dei lavori per la revisione del Codice, la Commissione si trova di fronte ad un grave problema che viene così descritto da Paolo VI: dal momento che la Chiesa latina e quella orientale sono dotate di codici distinti, è necessario valutare l’opportunità di promulgare un «codice comune e fondamentale» che contenga il «diritto costitutivo» della Chiesa.

La questione viene affrontata dalla Commissione che si pronuncia nella sua maggioranza a favore di un codice «fondamentale o costituzionale» comune sia alla Chiesa latina sia a quelle orientali.

Indicazioni più specifiche vengono formulate dal gruppo centrale dei consultori: la Lex Ecclesiae fundamentalis avrà natura giuridica e teologica e permetterà a tutti di conoscere la Chiesa nella sua nozione e struttura, occupandosi anche dei diritti e dei doveri che incombono a tutti i fedeli e delle relazioni della Chiesa con l’umana società.

Viene quindi elaborato, da un apposito gruppo di studio, un documento che si articola in un proemio sulla divina istituzione della Chiesa e in 3 capitoli:

- il primo, dedicato al popolo di Dio, tratta, in 2 distinti articoli, dei fedeli, illustrandone i diritti e i doveri

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fondamentali e soffermandosi sui loro diversi status (chierici, laici, religiosi), e della gerarchia (del somma pontefice, dei vescovi come collegio e come singoli, dei presbiteri e dei diaconi);

- il secondo riguarda gli uffici di insegnare, santificare e governare;- il terzo concerne le relazioni della Chiesa con il mondo in cui essa esiste e opera e con le società umane che

perseguono fini temporali.

Lo schema, dopo essere stato emendato in base ai rilievi dei cardinali componenti la Commissione, della Commissione teologica internazionale e della Congregazione per la dottrina della fede, è inviato nel 1971 ai vescovi del mondo intero perché si pronuncino. II numero singolarmente elevato di voti contrari e di approvazioni con riserva dimostra chiaramente che molti vescovi sono in parte contrari, in parte gravemente perplessi di fronte al progetto. Tale perplessità, favorita dalle polemiche nel contempo accese intorno alla Lex Ecclesiae fundamentalis, trova modo di manifestarsi anche al Sinodo dei vescovi del 1971, dove alcuni padri sollevano critiche e obiezioni di portata generale.

Il gruppo di consultori incaricato della preparazione della Lex Ecclesiae fundamentalis si vede quindi costretto a rivedere lo schema anche nei criteri ispiratori, riconoscendo la necessità che la nuova legge si limiti ad enunciare le norme canoniche fondamentali della Chiesa universale ed eviti dichiarazioni di carattere dottrinale non opportune o necessarie ai fini della certezza del diritto.

Si procede alla rielaborazione del testo, che nel 1974 viene affidata da Paolo VI ad un gruppo misto composto da consultori delle 2 Commissioni per la revisione del Codice latino e di quello orientale e presieduto dal cardinal Felici. Questo gruppo di studio ha concluso i suoi lavori presentando un nuovo schema al pontefice, che si è riservato ogni decisione.

Nel corso del dibattito che ha accompagnato l’elaborazione della Lex Ecclesiae fundamentalis sono state rivolte numerose critiche al progetto e molte questioni restano ancora aperte, inoltre non ha giovato l’incertezza intorno alla natura e all’ oggetto della Lex, che a volte è stata presentata come un codex communis contenente le disposizioni valide per la Chiesa universale, a volte come una legge costituzionale.

Successivamente il dibattito si è polarizzato intorno a temi più specifici come i problemi che deriverebbero da un’eventuale rigidità della Lex Ecclesiae fundamentalis. A questo proposito, la relazione allo schema del 1970 si limita a prevedere che:

- le leggi emanate dalla suprema autorità, salvo espressa disposizione contraria, vengano interpretate in base alle norme della Lex e, qualora vi deroghino, siano soggette a stretta interpretazione;

- le leggi emanate da ogni altro legislatore, se contrarie alla Lex, restano prive di efficacia giuridica. In un secondo tempo, il gruppo di studio incaricato dell’elaborazione della Lex opta chiaramente per la sua rigidità: la nuova legge sarà superiore a tutte le altre leggi positive, universali e particolari, e godrà della massima stabilità (le eventuali modifiche saranno introdotte dalla suprema autorità secondo un’apposita procedura ancora da stabilirsi).

Da tutto questo dibattito, emerge abbastanza chiaramente che l’aspetto più problematico non è quello tecnico-giuridico ma è costituito dalle ragioni che ispirano il progetto: dall’immagine di Chiesa e dal tipo di organizzazione ecclesiastica a cui la Lex si rivela funzionale.

In ogni caso, va rilevato che, nel loro complesso, le critiche ai diversi schemi di Lex Ecclesiae fundamentalis sono state ritenute meritevoli di attenta considerazione da parte dell’autorità. Infatti, non solo il progetto è stato accantonato ma Giovanni Paolo II, presentando il nuovo Codice, ha indicato nel Vangelo l’unica vera e insostituibile legge fondamentale della Chiesa.

4. La conclusione della revisione del Codice pio-benedettino

I lavori per la revisione del Codice pio-benedettino trovano definitiva e positiva conclusione. Ne1 1980, infatti, si giunge alla redazione di un nuovo e completo schema. Il pontefice dispone che per l’esame del nuovo schema, la competente commissione cardinalizia sia allargata ad altri vescovi dei vari continenti.

I 64 membri della commissione, all’inizio del 1981 presentano per iscritto le loro osservazioni che vengono raccolte in una voluminosa relazione. Si riuniscono a Roma nell’ottobre dello stesso anno e decidono all’unanimità che lo schema, come modificato secondo gli emendamenti emersi nella discussione e perfezionato nello stile e nella lingua latina, sia presentato al pontefice

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perché lo pubblichi.

La presidenza e la segreteria della commissione provvedono alla revisione richiesta, preoccupandosi anche di inserire nello schema quei canoni del progetto di Lex Ecclesiae Fundamentalis richiesti dalla sistematicità e dalla completezza del futuro Codice. Lo schema, rivisto e integrato, viene consegnato nell’aprile 1982 al pontefice.Infine, nel gennaio 1983, a 24 anni esatti di distanza dal discorso con cui Giovanni XXIII annunciava i suoi propositi di revisione legislativa, il nuovo Codice viene promulgato da Giovanni Paolo II con la costituzione apostolica «Sacrae disciplinae leges» che ne fissa l’entrata in vigore per la prima domenica di Avvento dello stesso anno. La sua interpretazione autentica è affidata ad una commissione appositamente istituita, che, in seguito alla riforma della Curia romana, riceve più ampie competenze e assume poi l’attuale denominazione di Pontificio Consiglio per i testi legislativi.

10. Il CODICE del 1983

II nuovo Codice si compone di 1.752 canoni e si intitola (come quello precedente) Codex iuris canonici. Anche per quanto concerne la struttura formale, la nuova legislazione non presenta rilevanti mutamenti mantenendo la partizione del Codice pio-benedettino in libri, parti, sezioni, titoli, capitoli, articoli, canoni, paragrafi, numeri, con alcune

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discutibili modifiche di carattere marginale.

Un più ampio discorso merita l’organizzazione della materia, ora distribuita in 7 libri: 1. le norme generali, 2. il popolo di Dio, 3. la funzione di insegnare, 4. la funzione di santificare, 5. i beni temporali, 6. le sanzioni, 7. i processi.

1°: II primo di essi, dedicato alle norme generali, tratta di argomenti diversi, senza che risulti sempre chiaro il criterio adottato per riunire materie cosi disparate: le fonti del diritto, le persone fisiche e giuridiche, la potestà di governo al computo del tempo.

2°: Uno svolgimento più lineare presenta il secondo libro, riguardante il popolo di Dio, che offre una nuova e originale sistemazione della materia: espone innanzitutto i diritti e i doveri di tutti i fedeli per illustrare quindi gli status personali specifici dei laici e dei chierici e la disciplina delle associazioni. Segue un’articolata esposizione della struttura della Chiesa universale e particolare e, infine, la normativa degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica.

3°: Sensibili novità nell’organizzazione interna presenta anche il libro terzo che, occupandosi esclusivamente della funzione di insegnare, regola il ministero della parola, l’azione missionaria, l’educazione cattolica, i mezzi di comunicazione sociale e la professione di fede.

4°: il quarto libro, relativo alla funzione di santificare, ricalca in larga parte la sistematica del codice pio-benedettino disciplinando i sacramenti, gli altri atti del culto divino, i luoghi e i tempi sacri.

5°: La stessa osservazione vale per la normativa dei beni temporali contenuta nel libro quinto che ripete quasi testualmente gli ultimi quattro titoli del libro terzo del Codice del 1917 (acquisizione dei beni, amministrazione, contratti e alienazioni, pie volontà in genere e fondazioni).

6°: Del pari, la partizione del libro sesto (le sanzioni nella Chiesa) in 2 parti, riguardanti rispettivamente i delitti e le pene in genere e le pene per i singoli delitti, non si discosta sostanzialmente da quella adottata dal cardinal Gasparri.

7°: Quasi totalmente nuova risulta la suddivisione dell’ultimo libro che, dopo aver esposto la disciplina dei giudizi in genere, tratta ampiamente del processo contenzioso, ordinario e orale, dei giudizi speciali, del processo penale e della procedura amministrativa.

Ai fini di una valutazione globale e critica di questa sistematica, si può dire che il Codice, pur non abbandonando radicalmente la sistemazione fin qui usata, presenta delle interessanti novità».

Ad un attento esame, risulta evidente la reale portata delle innovazioni che investono l’impostazione di tutta la sistematica.Essa, infatti, non deriva più esclusivamente da dottrine giuridiche di origine secolare (come la tripartizione giustinianea in persone, cose, azioni), ma si ispira anche all’insegnamento del Vaticano II che presenta la Chiesa come popolo di Dio, mettendone in luce le funzioni di insegnamento, di santificazione e di governo. Il significato di questa opzione: documenta una certa preoccupazione di elaborare un diritto ecclesiale che non si proponga un’acritica imitazione degli ordinamenti civili, ma si ispiri ad una riflessione originale sulla natura propria ed esclusiva della Chiesa.

Infine, per completare la descrizione della struttura del nuovo Codice, va ricordato che l’edizione ufficiale del 1989 comprende, oltre ai canoni e all’indicazione delle relative fonti, la costituzione di promulgazione, un’ampia prefazione, la costituzione apostolica di riforma della Curia romana allora vigente e un dettagliato indice analitico-alfabetico.

Il nuovo Codice non intende essere considerato come una revisione della normativa stabilita nel 1917: esso vuole costituire una nuova legislazione. Infatti, se all’inizio dei lavori si riteneva sufficiente «rivedere, aggiornare, introdurre le modifiche giudicate necessarie, senza scostarsi troppo dal Codice vigente», successivamente «sia a conclusione di studi fatti in seno alla Commissione, sia per i suggerimenti ricevuti dalle Conferenze episcopali e da altri organi di consultazione, sia per il progredire della scienza canonica e soprattutto per l’evolversi della vita ecclesiale», si capì che non bastava «una semplice revisione» ma occorreva «una vera e propria riforma».

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Inoltre il nuovo Codice intende costituire «una legislazione unica ed una nella quale non si possono scegliere, né contrapporre canoni nuovi a canoni vecchi, ma dove tutto va fuso armonicamente in un unico intento ed in un’unica volontà legislativa».

È evidente la necessità, per un’adeguata valutazione della nuova legislazione canonica, di individuare gli elementi essenziali e caratterizzanti dell’intento e della volonta legislativa che l’hanno ispirata quali emergono dalla sua prefazione e dalla costituzione di promulgazione, tenendo anche conto delle indicazioni emergenti dai discorsi pronunciati in occasione della presentazione.

Se al nuovo testo legislativo viene assegnato lo scopo estremamente ampio e generale di «restaurare la vita cristiana», la prima preoccupazione specifica è quella di riaffermare l’autentico significato e la vera funzione della legge nella Chiesa. In tale intento, papa Giovanni Paolo II non evidenzia l’esistenza di una relazione specifica e diretta tra il Codice e il Concilio Vaticano II. A suo avviso i postulati conciliari trovano nel nuovo testo legislativo «esatti e puntuali riscontri a volte perfino verbali» sì che, come afferma la costituzione di promulgazione, «il Codice, almeno in un certo senso, potrebbe intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico l’ecclesiologia della costituzione Lumen gentium».

Queste affermazioni vogliono mettere in evidenza la «novità» del Codice che si presenta sotto diversi profili. Innanzitutto, per la prima volta nella storia della Chiesa, un concilio ecumenico è direttamente alla base di una riforma organica e globale di tutta la disciplina precedente. E questo avvenimento risulta ancor più singolare se si considera che il Vaticano II, aveva evitato di sintetizzare le sue enunciazioni in «canones» che stabilissero i relativi precetti e sanzioni, in ossequio ad una scelta precisa che intendeva privilegiare la «pastoralità» sulla «giuridicità». Si può qui riconoscere una chiara conferma della stretta relazione che intercorre tra disciplina canonica e azione pastorale: ogni significativa evoluzione di quest’ultima non può non importare un adeguamento della normativa.

Vi sono, poi le molteplici innovazioni che derivano direttamente dall’ecclesiologia del Vaticano II. A questo proposito, la costituzione di promulgazione non solo afferma che «la novità sostanziale» del concilio «costituisce altresì la novità del nuovo Codice», ma ricorda anche specificamente gli elementi più innovatori dell’immagine di Chiesa che viene proposta.

Questa ripetuta affermazione del «carattere di complementarietà» che il nuovo Codice presenta sotto diversi aspetti in relazione agli insegnamenti del Vaticano II, importa precise conseguenze anche di carattere propriamente giuridico, nell’interpretazione e nell’attuazione dello stesso Codice. Dal momento che la normativa in esso sancita ha, per dichiarazione del pontefice, la sua ratio generale nell’immagine conciliare della Chiesa, in questa stessa immagine «deve trovare sempre, per quanto è possibile, il suo essenziale punto di riferimento».

Il Codice non può quindi essere adeguatamente valutato e correttamente interpretato se viene considerato, secondo l’ideologia delle codificazioni civili, come un testo normativo autonomo, completo ed esauriente. Esso, invece, deve essere collocato «accanto» al «Libro contenente gli Atti del Concilio» in «un abbinamento significativo» che vede «questi due libri, elaborati dalla Chiesa del secolo XX» integrarsi vicendevolmente in una unità armonica e complementare. E sopra e «prima di questi due libri» «è da porre, quale vertice di trascendente eminenza, il libro eterno della Parola di Dio, di cui centro e cuore è il Vangelo».

Giovanni Paolo II indica così nel Vangelo l’unica, vera e insostituibile legge fondamentale della Chiesa di cui ogni norma canonica deve essere derivazione; «come un ideale triangolo»:

in alto c’e la Sacra Scritturada un lato gli Atti del Vaticano II dall’altro il nuovo Codice canonico.

Ai fini di una valutazione critica, bisogna rilevare che, mentre la codificazione previgente si limitava per lo più a raccogliere e ordinare leggi già largamente collaudate e sperimentate, quella di Giovanni Paolo II recepisce le deliberazioni di un concilio concluso meno di vent’anni prima, integrandole e completandole con disposizioni affatto nuove. E l’aver voluto sancire con tanta solennità un diritto recentissimo, non ancora adeguatamente verificato nella concretezza dell’esperienza ecclesiale, può apparire decisamente criticabile. In proposito, è anche da tenere presente che il nuovo Codice, a differenza di quello precedente, non è stato concepito come un testo tendenzialmente fisso e immutabile, ma come una legislazione programmaticamente aperta a un continuo rinnovamento della vita ecclesiale.

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In questo senso si pronuncia chiaramente Giovanni Paolo II nel discorso del febbraio 1983 affermando che «il legittimo posto, spettante al diritto nella Chiesa, si conferma e si giustifica nella misura in cui esso si adegua e rispecchia la nuova temperie spirituale e pastorale» e ribadendo la necessità che lo stesso diritto si ispiri sempre più e sempre meglio «alla legge-comandamento della carità, in esso vivificandosi e vitalizzandosi». La stessa prefazione al Codice si preoccupa di avvertire che se per i troppo rapidi mutamenti della società odierna alcune delle disposizioni in esso sancite divenissero inadeguate ed esigessero una nuova revisione, la Chiesa ha tanta vitalità da poter intraprendere nuovamente l’opera dell’ aggiornamento delle leggi che ne regolano la vita.

Questo costante adeguamento della legislazione canonica ai segni dei tempi e alle nuove esigenze della comunità ecclesiale risulterà notevolmente facilitato dal superamento della pretesa, presente nel Codice del 1917, di imporre all’intera Chiesa universale una disciplina tanto rigidamente accentrata quanto rigorosamente uniforme.

Già i principi direttivi della revisione, approvati dal Sinodo dei vescovi nel 1967, avevano espressamente riconosciuto l’opportunità di operare un certo decentramento, lasciando un più ampio spazio di autonomia ai legislatori particolari, soprattutto agli episcopati nazionali e regionali. Tale orientamento ha tuttavia trovato una attuazione decisamente inferiore a quella prevista nei progetti iniziali. Resta, comunque, innegabile che il nuovo Codice, in ossequio all’ecclesiologia conciliare, riconosca la competenza delle Chiese particolari in molte materie che prima erano riservate alla Santa Sede.

Ne segue che i singoli vescovi e le stesse conferenze episcopali sono chiamati a svolgere un ruolo determinante nell’attuazione del Codice in quanto, oltre a promuovere l’osservanza della disciplina comune a tutta la Chiesa, devono integrarla e specificarla in funzione delle diverse esigenze dei tempi e dei luoghi. Opzione, questa, nella quale si può intravedere una tendenza verso il superamento del mito della codificazione: il legislatore «centrale» non concepisce il Codice come il libro, completo ed esclusivo, che raccoglie tutta la disciplina della Chiesa, ma ritiene indispensabile un suo completamento ad opera dei legislatori «periferici».

Sulla base di tutte queste considerazioni si può concludere che il Codice di Giovanni Paolo II, almeno nei suoi principi ispiratori e nelle sue linee generali, presenta vari e significativi elementi che possono facilitarne la ricezione nell’ambito della Chiesa universale. In particolare si propone di evitare ogni giuridismo, radicandosi nell’insegnamento del Vaticano II e aprendosi alla luce della Rivelazione. Inoltre non pretende di cristallizzare la disciplina canonica, ma vuole sancire una legislazione che sia attenta alle sempre nuove esigenze del popolo di Dio. Infine sembra voler evitare quegli aspetti della tecnica della codificazione, adottata da non pochi Stati moderni e contemporanei, che appaiono più evidentemente incompatibili con la natura della società ecclesiale.

11. IL CODICE dei CANONI delle CHIESE ORIENTALI

Il Codice dei canoni delle Chiese orientali viene promulgato da Giovanni Paolo II nell’ottobre 1990 con la costituzione «Sacri canones» e costituisce un’autentica novità nell’ ordinamento della Chiesa che non aveva mai avuto una legislazione completa ed organica comune a tutte le Chiese orientali cattoliche. Con questa riforma, ci si propone di tutelare tali Chiese nella loro identità e specialmente di promuoverne l’azione e lo sviluppo secondo i principi conciliari e con modalità adeguate alle esigenze dei tempi.

Il Codice orientale presenta una struttura notevolmente diversa da quella delC odice per la Chiesa latina. Infatti, al fine di rispettare le tradizioni legislative delle Chiese interessate, le diverse materie non sono distribuite in libri ma in titoli, a loro volta suddivisi in capitoli ad articoli, secondo un ordine di priorità dettato dall’importanza degli argomenti trattati.

Sintetico riferimento ai principali titoli: - l’enunciazione dei diritti e doveri dei fedeli (titolo I),- la struttura gerarchica (titoli II-IX) - i chierici, i laici, i religiosi e le associazioni (titoli X-XIII). - i canoni relativi al magistero ecclesiastico (titolo XV), - i canoni relativi al culto divino (titolo XVI), - i canoni relativi ai beni temporali (titolo XXIII), - i canoni relativi ai giudizi (titoli XXIV-XXVI) - i canoni relativi alle sanzioni (titoli XXVII-XXVIII), - le fonti del diritto, la prescrizione ed il computo del tempo (titoli XXIX-XXX).

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Le profonde differenze esistenti tra le diverse Chiese orientali hanno suggerito alla Commissione codificatrice di limitarsi ad enunciare le disposizioni ritenute necessarie al bene comune. Per il resto si è lasciato ampio spazio ai legislatori particolari perché promulghino normative complementari conformi alle tradizioni delle loro Chiese.

La ricezione di questo Codice non è esente da difficoltà e resistenze: a tutt’oggi sono poche le Chiese orientali che hanno provveduto agli adempimenti legislativi di loro competenza.

Una questione particolarmente delicata è poi costituita dalla limitazione del potere del patriarca al territorio soggetto alla sua giurisdizione: una restrizione conforme alla tradizione, ma divenuta problematica a causa della diaspora di milioni di cattolici orientali in tutto il mondo.

Per ovviare ai possibili inconvenienti è stata prevista la possibilità che il pontefice, su richiesta delle gerarchie interessate, approvi disposizioni di carattere speciale e transitorio dirette a facilitare la soluzione dei problemi di maggior rilevanza.

Come ha rilevato Giovanni Paolo II, il popolo di Dio oggi dispone di un nuovo «Corpus iuris canonici», composto dai 2 Codici riguardanti la Chiesa latina e le Chiese orientali e dalle disposizioni di riforma della Curia romana promulgate nel 1988 con la costituzione apostolica «Pastor bonus».

12. LA «PRODUZIONE» del DIRITTO

1. La legge II Codice di diritto canonico non prospetta una definizione della legge, ma si limita a regolare le questioni pratiche relative alla sua produzione, efficacia e interpretazione. È universalmente accettato dai canonisti l’insegnamento di Tommaso d’Aquino (1225-1274) che riconosce nella lex una disposizione della ragione diretta al bene comune e promulgata da chi ha la responsabilità della collettività. Di larghissimo seguito gode anche la definizione, ispirata alla dottrina del Suarez (1548-1617), secondo cui la legge è un comando della legittima autorità per il bene dei sudditi, comune, perpetuo, sufficientemente promulgato. Se quest’ultima nozione, più specificamente giuridica, mette in luce i caratteri che differenziano la legge da altre fonti del diritto, la definizione tomistica, privilegiando la ragione sulla volontà, sottolinea la ragionevolezza come requisito essenziale di ogni legge. In forza di tale concezione, nel diritto della Chiesa viene considerato come giuridicamente vincolante solo il comando dell’autorità che si riveli coerente ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico canonico o, più in generale, alla concezione della vita che è propria del cattolicesimo.

Circa, poi, i caratteri formali enunciati nella seconda definizione:- la generalità esclude che la legge possa riguardare singole persone o casi del tutto particolari essendo per sua

natura indirizzata a delle comunità per disciplinare comportamenti che si presentano con una certa frequenza; - la perpetuità implica che di regola la legge venga emanata per un periodo di tempo indeterminato e resti in

vigore fino a quando non sia abrogata.

Lo stesso Codice stabilisce che la legge esiste dal momento della sua promulgazione (= della sua solenne intimazione alla comunità). A proposito della forma, di regola, le leggi universali sono inserite negli «Acta Apostolicae Sedis» ed entrano in vigore 3 mesi dopo. Quanto alle leggi particolari, esse vengono promulgate nel modo stabilito dai rispettivi legislatori e, salvo diversa disposizione, hanno una vacatio di 1 mese. Se ne può dedurre che nel diritto della Chiesa la promulgazione è un requisito più sostanziale che formale della legge, la quale deve in ogni caso essere portata a conoscenza dei suoi destinatari con mezzi adeguati.

Le leggi pontificie vengono emanate con: - bolle (bullae),- brevi (brevia), meno solenni,- atti motu proprio, decisi di propria iniziativa dal pontefice, - chirografi (chirografa), scritti di pugno dal papa o almeno da lui personalmente sottoscritti.

lettere apostoliche = sono gli atti di maggior importanza, per lo più bolle o brevi,

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se indirizzate all’intero mondo cattolico o anche ai vescovi di una sola regione = lettere encicliche, epistole apostoliche = gli atti relativi a questioni di minor rilievo, constitutiones apostolicae = sono le bolle contenenti norme generali di carattere legislativo.

Queste varie forme corrispondono a una maggiore o minore solennità, ma non importano una diversa efficacia normativa delle disposizioni emanate per loro mezzo, in quanto essa dipende esclusivamente dall’autorità di chi le promulga.

Tale efficacia è poi regolata, nella sua estensione nel tempo, dal principio dell’irretroattività: salvo espressa disposizione in contrario, le leggi riguardano solo il futuro. Circa l’estensione nello spazio occorre distinguere:

- le leggi universali obbligano le persone per cui sono state promulgate dovunque siano, - le norme emanate per un determinato territorio riguardano solo coloro che, oltre a risiedervi abitualmente, vi si

trovano effettivamente con l’avvertenza che, se non risulta diversamente, tutte le leggi particolari si presumono territoriali.

Circa il soggetto passivo, le leggi, qualora non ripetano precetti stabiliti direttamente da Dio, obbligano solamente quanti hanno ricevuto il battesimo nella Chiesa cattolica o vi sono stati successivamente accolti. Inoltre, le leggi non obbligano i fedeli privi dell’uso di ragione e, salvo espressa disposizione contraria, di età inferiore ai 7 anni.

Le norme relative all’interpretazione si occupano innanzitutto dell’interpretazione operata dal legislatore o da chi abbia da lui ricevuto questa autorità.

- Se essa è contenuta in una legge, ha la stessa efficacia di quest’ultima e deve essere promulgata con l’avvertenza che, qualora si limiti a esplicitare maggiormente una norma già di per sé chiara, ha effetto retroattivo.

- Se, invece, restringe o estende le disposizioni vigenti o risolve dubbi obiettivi sul loro tenore, non retroagisce. Questa diversità di disciplina si spiega con l’osservazione che nella seconda ipotesi non si ha, a rigor di termini, un’interpretazione, ma una nuova legge.

L’interpretazione autentica può avvenire anche per mezzo di sentenza o di atto amministrativo riguardante un caso specifico, ma in tal caso la sua efficacia non eccede le persone e le cose prese in considerazione.

L’interpretazione vera e propria, cioè il procedimento logico-giuridico diretto a cogliere il senso della norma, è regolata dal canone 17 secondo cui la legge è da intendersi in conformità al significato usuale delle parole valutata nel rispettivo testo e contesto. Solo qualora risulti dubbio o oscuro che questa sia il vero senso, l’interprete potrà scostarsene, attenendosi alle diverse indicazioni emergenti dalle eventuali altre norme che regolino la stessa materia, dal fine della legge, dalle circostanze della sua emanazione e dalla mente del legislatore.

Tra questi mezzi interpretativi, riveste una particolare importanza il fine o ragion d’essere della legge (ratio legis) = il bene specifico tutelato dalla norma quale emerge da una valutazione della sua fattispecie alla luce dei valori supremi dell’ordinamento.

L’identificazione della ratio è da considerarsi momento essenziale e insostituibile di ogni processo interpretativo. Infatti ogni singola norma è svolgimento e determinazione della «norma suprema» dell’ordinamento e, di conseguenza, per la sua corretta interpretazione occorre sempre valutare se il senso emergente dall’interpretazione letterale è coerente con i valori supremi cui si ispira il diritto della Chiesa oppure, al contrario, risulta irrationabilis. In quest’ultimo caso, l’interprete dovrà scostarsene attenendosi alle indicazioni emergenti dal ricorso ai mezzi previsti nella seconda parte del canone 17, il quale si limita a stabilire in quali casi e a quali condizioni l’interprete possa e debba non attenersi al significato usuale delle parole adottate dal legislatore per manifestare la sua volontà.

Inoltre, in tutte le materie in cui il diritto canonico rinvia alla legislazione dei diversi Stati (come avviene per i contratti) questa trova applicazione solo se non risulta in contrasto con il diritto divino e le leggi della Chiesa.

Va infine ricordato che determinate leggi vengono promulgate con la denominazione di decreti genera: questa espressione viene utilizzata anche per indicare provvedimenti di carattere esecutivo emanati dall’autorità amministrativa al fine di determinare le modalità di applicazione delle leggi o di sollecitarne l’osservanza. Dai decreti generali esecutivi si differenziano le istruzioni che vengono indirizzate dall’autorità esecutiva nei limiti della sua competenza a quanti devono curare l’esecuzione delle leggi, per stabilirne i criteri specifici. NB: sia i decreti generali esecutivi, sia le istruzioni non possono contenere disposizioni derogatorie o contrarie alla

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legge.

2. La consuetudine Gli usi e i comportamenti praticati dai fedeli non costituiscono fonte formale di diritto in quanto il Codice stabilisce che essi acquistano valore di legge solo quando siano approvati dal legislatore. Hanno valore giuridico le consuetudini praeter e contra legem che siano state osservate per 30 anni continui e completi e non risultino espressamente proibite da una legge precedente; deve in ogni caso accompagnarsi l’elemento psicologico = l’intenzione di introdurre nuove norme giuridiche.

Le norme consuetudinarie cessano solo per consuetudine contraria o per disposizione legislativa. Quest’ultima, però, se è di carattere universale, non revoca gli usi particolari e, salvo espressa menzione, lascia in vigore quelli centenari o immemorabili che possono affermarsi anche contro le leggi che vietano le consuetudini future.

Il diritto canonico, dunque, a differenza del codice civile Italiano, ammette:- sia la consuetudine secundum legem - sia la consuetudine praeter legem, - sia la consuetudine contra legem.

3. II diritto suppletorio Il legislatore ecclesiastico ha respinto quella pretesa di completezza della codificazione secondo cui ogni caso della vita deve trovare nella legislazione positiva la sua specifica disciplina. Nel diritto canonico è pacifico l’insegnamento tradizionale che la legge, non essendo in grado di prevedere tutte le situazioni che possono verificarsi, deve limitarsi a regolare quelle che si presentano con maggior frequenza.

Le lacune della legislazione sono dovute ad una serie di fattori che non eliminabili: la generalità e l’astrattezza del diritto positivo che contrasta con la concretezza e complessità della vita sociale, la staticità del testo legislativo che non consente un immediato adattamento alle nuove esigenze, le sempre possibili negligenze e dimenticanze del legislatore, la sua volontà di non vincolare il comportamento dei consociati in schemi troppo rigidi e dettagliati. Il problema delle lacune è affrontato dal canone 19: se un caso determinato non trova una disciplina espressa nella legislazione universale e particolare o nel diritto consuetudinario, la causa deve essere definita sulla base delle leggi emanate per casi simili, dei principi generali del diritto intesi con equità canonica, della giurisprudenza e della prassi della Curia romana, della comune e costante opinione dei dottori.

Il primo di questi mezzi di integrazione si risolve nell’applicazione, sia pure indiretta, di una legge positiva che viene estesa dall’interprete fino a regolare un caso non contemplato nella fattispecie, ma ad essa somigliante. Tale somiglianza si realizza in concreto quando il caso previsto e quello non previsto hanno in comune elementi tali da consentirne una comune valutazione dal punto di vista giuridico, con la conseguente attribuzione di una medesima qualificazione. In tale ipotesi, l’estensione analogica si giustifica sul piano logico con il principio di identità e sul piano giuridico, con la razionalità e la coerenza dell’ordinamento.

Nel diritto canonico il divieto del ricorso all’analogia (e agli altri mezzi di integrazione) vige per diverse materie e innanzitutto per le pene. In questo campo, il divieto corrisponde all’esigenza di tutelare le libertà individuali contro i possibili abusi dell’autorità e costituisce una specifica applicazione del principio generale che le pene canoniche devono essere irrogate a norma di legge.

L’estensione analogica è vietata (in considerazione della particolare gravità delle restrizioni) alla libertà dei singoli, per le leggi che stabiliscono nullità di atti o incapacità di persone poiché tali effetti devono essere disposti dalla legge in forma espressa. Infine è vietata l’estensione delle disposizioni del Codice che implichino revocazione di diritti acquisiti, stabilendo che questi ultimi, unitamente ai privilegi concessi in passato dalla Santa Sede e ancora in vigore, restino integri a meno che siano espressamente revocati.

L’ analogia incontra non solo limiti legislativi, ma anche limiti logici: non per tutti i casi non previsti è possibile trovare una legge che regoli un caso simile.

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Occorrerà, allora, far ricorso a quei principi generali del diritto che sono indicati dal canone 19 come il secondo mezzo per supplire al silenzio della legge. Per lo più essi vengono identificati con i principi generali dell’ordinamento canonico, ma molti vi aggiungono anche quelli del diritto naturale e del diritto civile, soprattutto romano. NB: i principi invocati per supplire al silenzio della legge canonica debbano essere formalmente canonici, anche se il diritto della Chiesa può averli mutuati da altri ordinamenti. In concreto essi si possono talvolta trovare già formulati nelle regole di diritto contenute nelle decretali di Gregorio IX e nel libro sesto e in quelle tradizionali regole di diritto che passano sotto il nome di «brocardi», ma per lo più devono essere desunti per via di astrazione dall’esame delle singole leggi positive o dedotti dalla norma fondamentale e dallo spirito dell’ordinamento canonico.

In ogni caso tali principi vanno interpretati con equità: da applicare al caso specifico con umanità, misericordia e carità cristiana, tenendo presenti sia la giustizia naturale, sia il bene della Chiesa. Questa regola è comunemente considerata valida anche per l’estensione analogica. In realtà, l’equità è da considerarsi come il supremo criterio dell’interpretazione di ogni norma canonica.

Emerge come nel diritto della Chiesa, in modo anche più evidente che negli ordinamenti dove vige il principio della separazione dei poteri, il giudice non è un meccanico riproduttore della volontà del legislatore che esaurisce la sua funzione in una mediazione tra la norma giuridica generale e il caso concreto. Egli, invece, è da considerarsi la «voce viva dell’ordinamento» che con un procedimento non arbitrario, ma non privo di discrezionalità trae da tutti gli elementi offerti dall’ordinamento stesso (dalle leggi, dalle consuetudini, dai principi generali, dall’equità, dalla prassi, dalla dottrina) il criterio per risolvere il caso sottoposto al suo giudizio.

4. Gli atti amministrativi c.d. “singolari” Sotto la denominazione di atti amministrativi «singolari» (= riguardanti singoli casi o singole persone) il Codice riunisce, nel titolo IV del libro 1°, diverse fonti che finora avevano discipline autonome, stabilendo per esse alcune norme comuni. In particolare dispone che, di regola, tali atti possono essere emanati anche da chi sia titolare della sola potestà esecutiva con la precisazione che qualora ledano diritti acquisiti da terzi o si rivelino contrari alle leggi e alle consuetudini approvate, devono essere completati da un’apposita clausola in tal senso da parte della competente autorità. In ogni caso devono essere intesi secondo il significato usuale delle parole e il comune modo di esprimersi e non possono essere applicati a casi diversi da quelli espressamente menzionati. Qualora, poi, dirimano controversie, comminino o infliggano pene, limitino i diritti personali, ledano i diritti acquisiti da terzi, contengano eccezioni alle leggi in favore di privati, soggiacciono a interpretazione stretta.Altre norme di carattere molto dettagliato riguardano la modalità di esecuzione.

II Codice si preoccupa anche di disciplinare specificamente i singoli e diversi tipi di atti amministrativi.- i decreti singolari = gli atti con cui l’autorità esecutiva, procedendo a norma di diritto circa un caso particolare,

prende una decisione o assume un provvedimento che per loro natura non presuppongono un’apposita istanza; - precetti singolari = impongano a una o più persone (soprattutto allo scopo di assicurare l’osservanza della

legge), di tenere o di evitare un dato comportamento. Tutti i decreti singolari riguardano esclusivamente le cose e le persone per le quali sono stati emanati e, se non risulta diversamente, hanno efficacia vincolante dovunque queste ultime si trovino.

La tutela delle posizioni dei soggetti viene assicurata sotto diversi profili: prima di emanare un decreto singolare occorre raccogliere le opportune notizie e informazioni, ascoltando

possono risultarne danneggiati; il decreto viene emanato in forma scritta con menzione delle motivazioni e, quando non sia possibile

consegnarne il testo, deve essere letto all’interessato davanti ad un notaio o a 2 testimoni; nel caso di silenzio amministrativo, trascorso inutilmente il termine di 3 mesi, la risposta dell’autorità, fermi

restando i suoi obblighi, si presume negativa.

A differenza dei decreti, i privilegi possono essere disposti solo dal legislatore o dall’autorità esecutiva che abbia da lui ricevuto tale potestà. Si tratta infatti, di norme di diritto obiettivo che stabiliscono per determinate persone fisiche o giuridiche una condizione più favorevole di quella sancita dal diritto comune. Vanno sempre interpretate in modo da assicurare all’interessato l’effettivo conseguimento della grazia (=privilegio) concessagli.

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Nei precetti e nei privilegi si manifesta la capacità del diritto della Chiesa di adattarsi alle specifiche esigenze poste dalla concretezza dei singoli casi che non trovano una risposta adeguata nella formula generale e astratta della legge. Tale adattabilità si documenta anche nelle dispense.

Poiché la legge si esprime in termini generali e astratti e si occupa solo di ciò che accade solitamente, è possibile che la sua applicazione ad un caso specifico determini inconvenienti tali da rendere giusta e ragionevole una deroga. In questa ipotesi l’autorità esecutiva nell’ambito della sua competenza o coloro che ne hanno la potestà, possono concedere un’attenuazione o sospensione dell’obbligatorietà della norma (purché si tratti di una legge meramente ecclesiastica che non definisca gli elementi essenziali di un atto o di un istituto giuridico.

I privilegi, le dispense e altre «grazie», vengono di norma concessi mediante rescritti = atti amministrativi emanati in forma scritta dall’autorità esecutiva competente in seguito ad apposita istanza. Di regola, ogni rescritto si articola in:

- una parte espositiva, che riassume la sostanza della domanda presentata- una parte dispositiva, che enuncia la risposta del superiore. Tale risposta è subordinata alla condizione che il

richiedente non abbia alterato i fatti o tacendo circostanze rilevanti o allegando circostanze false. In questa ipotesi, peraltro, si ha la nullità dell’atto solo qualora non risulti vero nemmeno uno dei motivi addotti oppure, salvo che si tratti di una grazia concessa motu proprio, qualora siano stati omessi gli elementi richiesti per la validità dalla legge o dallo stile e dalla prassi canonici.

In sintesi, risulta evidente che sotto la denominazione di atti amministrativi singolari, il Codice ha riunito categorie di norme tanto disparate da non avere tra loro nulla in comune oltre la mancanza di generalità.

NB: la definizione della natura giuridica dei precetti, dei privilegi, delle dispense, dei rescritti ha dato luogo fra i canonisti a non poche incertezze poiché:

- da un lato, trattandosi di istituti peculiari all’ordinamento canonico, non consentono immediate e dirette valutazioni di diritto comparato;

- dall’altro, non è sempre facile distinguere nella Chiesa l’esercizio della funzione amministrativa da quello della funzione legislativa, a causa dell’inesistenza della separazione dei poteri.

Il Codice vorrebbe risolvere la questione radicalmente, ma la soluzione adottata risulta tutt’altro che convincente. Non si vede, infatti, a quale titolo si possano considerare amministrativi atti come i privilegi, che richiedono la potestà legislativa, o come le dispense, che sospendono o attenuano l’obbligatorietà della legge.

Il titolo successivo (V) del Codice disciplina gli statuti e gli ordini:- statuti = quelle norme stabilite nelle universitates personarum e nelle universitates rerum per definirne la finalità, la costituzione, il funzionamento;ordini = sono le regole da osservarsi nelle assemblee indette dall’autorità ecclesiastica o convocate per libera iniziativa dei fedeli.

Capitolo 2La LEGGE nella CHIESA

1. DIRITTO e TEOLOGIA

I canonisti, ispirandosi a diverse concezioni, hanno proposto varie definizioni del diritto della Chiesa. In ogni caso, il diritto canonico è il diritto della Chiesa e l’esistenza stessa di un diritto siffatto ha sollevato in passato e solleva tuttora molte questioni.

Specialmente nel secolo scorso, ne fu da più parti contestata la giuridicità sulla base della convinzione che non fossero possibili altri diritti al di fuori di quelli degli Stati. Si sosteneva, inoltre, che poiché questi ultimi consideravano la Chiesa alla stregua di una semplice associazione privata, il suo ordinamento non era originario. Le sue norme, infine, non potevano dirsi in alcun modo giuridiche perché:

- da un lato, risultavano prive di coazione dal momento che la Chiesa non poteva imporne il rispetto con la forza;

- dall’altro, mancavano della necessaria intersubiettività in quanto non erano destinate a disciplinare rapporti sociali, ma riguardavano le relazioni delle anime con la divinità.

Si può tranquillamente affermare che queste tesi, in genere, sono state quanto meno accantonate

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Di maggior attualità si rivela l’obiezione che nasce dall’affermazione di una radicale incompatibilità del fenomeno giuridico con l’essenza della Chiesa. Secondo questa teoria (che si ispira alle idee di Lutero e dei riformatori protestanti e ha trovato la sua più organica formulazione nel secolo XIX) la Chiesa, essendo «il regno di Cristo, il regno di Dio, il regno celeste, un regno di spirito, non può aver altro capo se non lo spirito divino, Cristo». Di conseguenza essa «non può accettare alcun sovrano carnale, alcuna dottrina umana, alcun precetto» ed «è incompatibile con ogni potere fondato su principi esteriori e formali».

Ai nostri giorni questa posizione si esprime per lo più in un atteggiamento pratico di decisa insofferenza o di totale indifferenza nei confronti della dimensione giuridica della vita ecclesiale, di fatto considerata come nociva o almeno inutile.

Tale atteggiamento può considerarsi, per certi aspetti, come una comprensibile reazione agli eccessi di un formalismo ecclesiastico che esaltava la funzione della disciplina fino a oscurare la natura essenzialmente personale dell’esperienza cristiana (c.d. giuridismo), ma deriva, in ultima analisi, da una concezione della Chiesa che non corrisponde né alla sua effettiva realtà, né all’immagine che essa ha di sé stessa.

Si comprende, quindi, come Giovanni Paolo II:- da un lato, respinga decisamente ogni giuridismo, precisando che il Codice mira a instaurare nella società

ecclesiastica un ordine che, assegnando il primato all’amore, alla grazia e ai carismi, renda più agevole il loro organico sviluppo nella vita comunitaria e personale;

- dall’altro, insista ampiamente sulla funzione della legge nella Chiesa, non solo ricordando la tradizione canonica, ma facendo anche appello all’intera storia del popolo di Dio.

E nel quadro di questa riflessione afferma che nella Chiesa «il diritto c’è già, non può non esserci» prima ancora di qualunque specificazione, derivazione, applicazione di ordine propriamente canonico. Nello stesso senso, la costituzione «Sacrae disciplinae leges» ritiene che la legge canonica «corrisponda in pieno alla natura della Chiesa» e sia «lo strumento indispensabile per assicurare ordine sia nella vita individuale e sociale, sia nell’attività stessa della Chiesa».

La Chiesa, infatti, si presenta a chiunque la osservi senza pregiudizi come fortemente radicata nel tempo e nello spazio, dotata di una precisa e articolata organizzazione descrivibile in termini giuridici, politici e sociologici, attenta ad utilizzare tutti i mezzi che le possono consentire una più incisiva presenza nella vita e nella storia degli uomini. Tutto ciò può essere giudicato come un tradimento da chi la vorrebbe puramente «spirituale» e totalmente «celeste», ma non è certamente questo il pensiero del Concilio Vaticano II che rifiuta decisamente ogni immagine «spiritualistica» della Chiesa, e respinge energicamente qualunque tentativo di separarne e contrapporne l’aspetto «visibile» e quello «spirituale», l’elemento «terrestre» e quello «celeste».

Secondo la costituzione conciliare «Lumen gentium», essa è stata costituita da Cristo sulla terra «quale organismo visibile» e «sociale», sì che «la società costituita di organi gerarchici e il Corpo mistico di Cristo, la comunità visibile e quella spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse, ma formano una sola complessa realtà; risultante di un duplice elemento: umano e divino».

L’immagine della Chiesa come popolo di Dio, proposta dal Concilio, indica chiaramente che esso ha ritenuto di dover privilegiare, tra le varie interpretazioni possibili della realtà ecclesiale, quella «sociologica», che, senza minimamente rinnegare l’immutabilità del suo fondamento, ne sottolinea la «storicità» e «l’umanita».

Peraltro, il Vaticano II non ha definito espressamente la natura e la funzione del diritto canonico: di conseguenza, ha lasciato impregiudicata la questione del suo fondamento teologico, che è attualmente oggetto di un vivace e interessante dibattito. Facciamo alcune considerazioni che, sulla base delle deliberazioni conciliari, dimostrano la necessità di una dimensione giuridica della Chiesa. È opportuno prendere le mosse dall’affermazione del Vaticano II secondo cui la Chiesa è stata istituita da Cristo come organismo visibile e sociale, conformemente al disegno di Dio che «volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di essi un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse». NB: il Concilio non si limita a riconoscere alla Chiesa una generica «visibilità», quale potrebbe riscontrarsi anche in una comunità religiosa di carattere puramente «carismatico», ma insegna espressamente e specificamente che essa «in questa terra» è, per volontà dello stesso Cristo, «costituita e organizzata come società»: come una «società costituita di organi gerarchici».

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Da questa immagine della Chiesa si evince chiaramente la necessità della sua dimensione giuridica: là dove vi è società vi è anche necessariamente diritto, poiché nessuna società può vivere senza un ordinamento giuridico. II diritto canonico, dunque, costituisce un fattore necessario e insostituibile della sua esistenza: non solo non è in contrasto con il messaggio evangelico, ma deriva dalla volontà dello stesso Cristo che ha istituito la Chiesa come società.

Questa argomentazione è giudicata come non adeguata da un punto di vista teologico; essa è, comunque, ancora pienamente valida, anche se la riflessione teologica può fornire ulteriori elementi utili ad una più approfondita e globale comprensione della funzione del diritto nella vita della Chiesa.

Queste ultime considerazioni introducono il più generale problema del rapporto tra diritto e teologia, che implica a sua volta la questione di quale sia il «metodo» proprio della scienza canonistica. Di fronte alla polemica che contrappone chi la considera una scienza teologica e chi la ritiene una scienza giuridica, è innanzitutto necessario richiamare alcuni punti su cui esiste un largo consenso.

Le deliberazioni conciliari, nel decreto sulla formazione sacerdotale raccomandano di tenere presente nell’insegnamento del diritto canonico ai futuri sacerdoti «il Mistero della Chiesa, secondo la costituzione dogmatica de Ecclesia». Secondo il Concilio, dunque, le leggi ecclesiastiche non possono essere adeguatamente insegnate se non se ne mette in luce il vitale e organico rapporto che le lega a tutta la realtà divino-umana della Chiesa, di cui sono funzione ed espressione. Per la comprensione del diritto canonico è assolutamente indispensabile saper cogliere l’intima relazione che intercorre tra la «forma» delle norme e quella «sostanza» dell’essenza della Chiesa che ne giustifica e determina l’esistenza. II suo studio, quindi, deve essere condotto «non solo con senso giuridico, ma anche insieme con senso teologico».

2. AUTORITÀ DIVINA e AUTORITÀ ECCLESIASTICA

Secondo la costituzione conciliare «Lumen gentium», la Chiesa è «una sola complessa realtà, risultante da un duplice elemento: umano e divino». Tale duplicità di elementi si riscontra anche nella sua dimensione giuridica poiché il diritto della Chiesa è costituito da:

- un diritto umano, stabilito dall’autorità ecclesiastica (pontefice, concilio ecumenico, vescovi ecc.); - un diritto divino, definito come quel complesso di esigenze di giustizia e di principi ordinatori esplicitamente e

implicitamente stabiliti da Dio, che hanno conseguenze rilevanti sul piano giuridico.

II diritto divino si manifesta, innanzitutto, nella stessa natura umana (diritto divino naturale). Secondo la concezione cattolica, infatti, l’uomo reca nel proprio cuore aspirazioni e criteri «originari» (=derivanti direttamente dal Creatore, che ha voluto farlo a propria immagine e somiglianza) e ha la possibilità di riconoscerli e identificarli per mezzo delle facoltà razionali di cui è dotato. A questa tipo di diritto divino appartiene, ad es., il principio generale del rispetto dovuto alla vita umana e le specifiche conseguenze giuridiche che ne derivano.

Vi è, poi, il diritto divino positivo: promulgato per mezzo della Rivelazione (=attraverso gli interventi compiuti da Dio nella storia per rivelare se stesso e il suo disegno di salvare gli uomini). Le verità rivelate sono contenute nella Sacra Scrittura (=nei testi che sono stati scritti per ispirazione divina), e nella Tradizione della Chiesa che il Vaticano II (costituzione conciliare «Dei Verbum») definisce la trasmissione integrale della parola affidata da Cristo agli apostoli e ai loro successori (i vescovi) perché per mezzo della predicazione la conservassero, la esponessero e la diffondessero. Tale costituzione afferma anche che la Sacra Scrittura e la Tradizione «devono essere accettate con pari sentimento di pietà e di devozione» in quanto costituiscono «un solo sacro deposito della parola divina affidato alla Chiesa» e riconosce al «solo Magistero vivo» di quest’ultima «l’ufficio di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta a trasmessa».

NB: la Chiesa cattolica considera rivelati da Dio solo i libri indicati nell’elenco approvato dal Concilio di Trento nel 1546. Per i cattolici la Sacra Scrittura si articola in 2 parti:

- il Vecchio Testamento che contiene la rivelazione di Dio al popolo ebraico prima della venuta di Cristo e si compone di 46 libri di vario carattere (storico, didattico, profetico);

- il Nuovo Testamento di cui fanno parte:o i 4 Vangeli, o gli Atti degli Apostoli,

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o 14 lettere di Paolo, o 7 lettere di altri apostolio l’Apocalisse di Giovanni.

Mentre i precetti del Vecchio Testamento sono considerati superati se non sono stati confermati da Cristo, il Nuovo Testamento, insieme alla Tradizione, costituisce la fonte del diritto divino positivo.

Passiamo ora all’esame di alcune questioni specifiche. Il diritto divino naturale, analogamente al diritto divino positivo, è definito come eterno, fisso e immutabile. Tuttavia occorre precisare che la conoscenza del diritto divino non è fissa e immutabile, ma si realizza attraverso un progressivo approfondimento a cui non sono estranee le vicende e le esperienze storiche.

Più in generale, è stato giustamente osservato che il diritto divino, per avere effettivo vigore nella storia degli uomini, esige di essere formalizzato positivamente attraverso l’opera del legislatore umano, le formulazioni dottrinali dei teologi e dei canonisti, la continua interpretazione che nasce dalla vita e dalia fede della Chiesa. Tale necessità risulta ancora più evidente se si considera che il diritto divino non si compone solo di norme complete e rigorose, ma anche di principi ed esigenze di carattere più generale che, per una reale comprensione e una fedele osservanza, richiedono di essere adeguatamente specificati anche in funzione delle diverse situazioni e dei diversi problemi che si presentano.

In ogni caso, il diritto divino è sovraordinato al diritto umano in quanto, essendo stato posto direttamente da Dio, precede necessariamente nella gerarchia delle fonti qualunque disposizione stabilita dall’uomo che non può in alcun modo derogarlo o porsi in contrasto con esso. Ne segue che se, per ipotesi, una legge promulgata dall’autorità ecclesiastica risultasse in radicale contraddizione con le statuizioni del diritto divino, sarebbe per ciò stesso privo di qualunque obbligatorietà giuridica e mancherebbe di quella «ragionevolezza» che, come si è visto, costituisce ‘uno dei requisiti essenziali della norma canonica. Ne segue, anche, che le norme del diritto divino non possono essere oggetto di dispensa ecclesiastica, salvo che nei casi in cui la Chiesa affermi di aver ricevuto da Dio una speciale facoltà in tal senso (come avviene per lo scioglimento del matrimonio in determinate situazioni).

Si può dunque affermare che il diritto divino svolge una funzione limite nei confronti del diritto umano dal momento che questo non può né violarlo, né derogarlo.

Ma il diritto divino non è solo il limite: è anche la norma fondamentale e la base necessaria o il principio ispiratore ed il nucleo essenziale di tutto il diritto umano.

La struttura giuridica fondamentale della Chiesa, in quanto istituita da Cristo, esiste per diritto divino positivo ed è da questo determinata. Tutte le strutture ecclesiastiche che si sono successivamente venute costituendo attraverso i secoli (collegio cardinalizio, Sinodo dei vescovi ecc.) sono solo derivazioni, complementi e forme di sviluppo di tale struttura fondamentale con cui si integrano organicamente in modo da formare assieme ad essa la completa struttura del popolo di Dio in ogni momento storico. Lo stesso potere dell’autorità ecclesiastica trova la sua legittimazione, il suo fondamento nella volontà di Cristo che «ha edificato la Santa Chiesa e ha inviato gli Apostoli come Egli stesso era stato inviato dal Padre e volle che i loro successori, i Vescovi, fossero nella Sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli». Ne segue che la potestà ecclesiastica esiste ed è fonte di diritto umano in forza di quel diritto divino che la fonda e la legittima. Infine, tutte le realtà ecclesiali che, avendo una dimensione sociale, esigono una regolamentazione giuridica trovano, almeno embrionalmente, i criteri della loro disciplina nel diritto divino che il legislatore umano ha il compito di specificare adeguatamente e di determinare precisamente per mezzo delle norme positive da lui promulgate.

Alla luce di queste considerazioni si può concludere che il diritto divino e il diritto umano non sono due diversi sistemi, ma formano un ordine giuridico unitario che ha la sua norma fondamentale nel diritto divino.

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3. CERTEZZA del DIRITTO ed ESIGENZE di GIUSTIZIA

Ma se il diritto della Chiesa è, al contempo, umano e divino, è evidente cha la sua «forma» (cioè le norme positive emanate dall’autorità ecclesiastica) non può pretendere di comprenderne ed esaurirne la «sostanza», poiché mentre questa è, per definizione, «perfetta, inesauribile e infinita, per essere in massima parte di natura divina», la forma, per essere umana, è necessariamente imperfetta, limitata e circoscritta, come tutte le cose umane».

Ne segue che, poiché il diritto divino fonda quello umano ed è ad esso sovraordinato, il diritto della Chiesa è per sua natura incompatibile con ogni concezione formalistica e positivistica che attribuisca alle prescrizioni legali un valore assoluto ed esclusivo. La sua certezza, quindi, non è di carattere formale ma sostanziale: non è assicurata dalla legalistica osservanza delle singole disposizioni stabilite dall’autorità ecclesiastica, ma dalla coerenza dell’intero sistema giuridico, nella sua globalità e nelle sue specificazioni, ai principi fondamentali posti dal diritto divino.

In altri termini: nell’ordinamento canonico la certezza è garantita dal fatto che tutte le sue norme, per quanto specifiche e dettagliate possano essere, sono in diretta funzione del conseguimento di un unico fine che i canonisti descrivono come gloria di Dio, salvezza delle anime (compimento, cioè, del destino a cui Dio chiama tutti gli uomini), bene comune e utilità della Chiesa, realizzazione dell’unità che all’interno della Chiesa lega tra di loro i singoli fedeli e le diverse comunità (c.d. comunione ecclesiastica).

Quindi, occorre sempre cogliere, valutare e verificare nella concretezza dell’esperienza ecclesiale la coerenza della norma che si intende applicare con i principi fondamentali dell’intero sistema giuridico a cui appartiene. La legge, infatti, è per definizione giusta e ragionevole, ma, essendo formulata in termini generali e astratti, non è sempre adeguata a tutte le situazioni che di per sé ricadrebbero sotto il suo imperio.

Un caso particolare può presentarsi con tali caratteristiche specifiche che il rigoroso rispetto delle prescrizioni legali importerebbe conseguenze pratiche contrastanti con i valori a cui si ispira il diritto della Chiesa e in compatibili con il suo fine proprio ed esclusivo. In tale ipotesi, il giudice o il superiore non potrà mai sacrificare la verità e la giustizia alle esigenze della certezza formale che richiede, sempre e comunque, l’osservanza della legge, ma dovrà, privilegiando lo «spirito» sulla «lettera», valutare il caso alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento e individuare, su tale base, la norma più adeguata a garantire la realizzazione del fine perseguito dal diritto della Chiesa.

Questo istituto = equità canonica: una «correzione» della legge mediante la «creazione» di una nuova norma, utilizzata per la soluzione di un caso concreto che non trova nelle disposizioni legislative una disciplina corrispondente alla logica dell’ordinamento.

L’equità canonica entra in gioco nell’applicazione della legge, ma anche quando si tratti di supplire al suo silenzio e identificare la qualificazione giuridica di un caso che il legislatore non ha previsto o ha, comunque, ignorato.

L’equità canonica interviene qui sotto un duplice profilo:innanzitutto, la soluzione individuata sulla base del ricorso ai mezzi di integrazione (can. 19) (cfr. cap 1, §12.3) deve sempre rivelarsi coerente alle esigenze dell’equità che, se condizionano l’applicazione della legge, a maggior ragione debbono essere tenute presenti quando questa nulla disponga espressamente;in secondo luogo, qualora i mezzi specifici di integrazione (es. l’analogia di legge) non consentano di risolvere il problema, la norma da applicarsi dovrà essere direttamente dedotta dai principi fondamentali del diritto della Chiesa e quindi, in ultima analisi, da quell’equità canonica che lo stesso canone 19 menziona esplicitamente a proposito dei principi generali del diritto.

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Alla luce di tutte queste considerazioni si comprende come si sia potuto affermare che nell’equità canonica si manifesta chiaramente la natura del diritto della Chiesa «di risolversi tutto in una norma, di andare oltre le singole determinazioni, sino alla norma, da cui tutte le norme nascono». L’equità, infatti, è «il modo col quale la norma suprema si afferma nella sua sovranità sopra tutte le determinazioni di se stessa, che sono le altre norme poiché tutte le indicazioni e le prescrizioni delle norme particolari sono riportate necessariamente ad essa, sia quando nella applicazione coincidono, sia quando non coincidono o quando la contraddicono, perché la contraddizione è eliminata e la norma suprema è attuata».

Il diritto della Chiesa si presenta, dunque, «rigido e immutabile nei suoi principi basilari», considerati assoluti e inderogabili in quanto posti dallo stesso Cristo, ma si rivela, al contempo, dotato della massima «duttilità e flessibilità» e capace di adattarsi con estrema sensibilità «alle circostanze e ai bisogni non solo dei tempi, dei luoghi e dei popoli più diversi, ma anche degli individui singoli». Tale capacità di adattamento è diretta funzione dell’affermazione dei «principi basilari» dell’ordinamento nella concretezza di ogni situazione storica, al di là delle eventuali insufficienze e inadeguatezze delle norme positive stabilite dall’autorità ecclesiastica. Nell’equità canonica si dimostra dunque quell’assoluta coerenza interna del diritto della Chiesa che esige di sacrificare, quando occorre, la certezza formale delle norme positive alla verità sostanziale dei valori fondamentali.

NB: poiché la Chiesa ritiene di avere una missione universale il suo diritto è, almeno potenzialmente, destinato a tutti gli uomini e di fatto si applica a tutti i battezzati «senza distinzione o limiti di nazionalità, di condizioni ambientali e sociali, di lingua, di razza e di territorio», di tradizioni culturali.

Questa grande varietà delle situazioni che ricadono sotto l’imperio della legge canonica moltiplica la possibilità che essa non sia sempre in grado di rispondere a tutte le esigenze cui deve far fronte e, di conseguenza, sottolinea la necessità che essa non sia considerata, sempre e comunque, come assolutamente vincolante. Tale necessita è anche evidenziata dal fatto che nella concezione cattolica, la persona umana ha un valore centrale e preminente che non può essere sacrificato a considerazioni di carattere contingente. Nell’applicare la legge al singolo fedele, il giudice o il superiore dovrà, quindi, tenere presenti anche tutte quelle circostanze di carattere individuale e personale che possono suggerire o imporre una valutazione diversa da quella prevista dalla formula generale e astratta della norma legislativa.

Si spiega così perché il diritto della Chiesa sia caratterizzato da una duttilità, designata con il termine di «elasticità»,che si manifesta nell’equità canonica e negli altri istituti, propri di questo ordinamento, che hanno lo scopo di assicurare la perfetta corrispondenza della disciplina giuridica alle diverse e molteplici esigenze poste dalla concretezza della vita ecclesiale.

A tale proposito va innanzitutto ricordata la rilevante funzione svolta dal diritto particolare che, dopo il Concilio Vaticano II, sta conoscendo una nuova fioritura. Le normative locali consentono, infatti, una notevole articolazione e differenziazione della disciplina ecclesiastica in funzione delle diverse circostanze di tempo e di luogo e delle specifiche esigenze dei vari popoli e delle singole comunità.

Analoga funzione potrebbe essere svolta anche dalla consuetudine, ma solo in linea di principio: questa fonte ha attualmente scarsa rilevanza a causa delle restrizioni legislative da cui e stata circondata.

Alle esigenze dei singoli fedeli provvedono, comunque, le varie fonti del diritto singolare, come il precetto, il privilegio, il rescritto, e soprattutto la dispensa, in cui l’elasticità del diritto della Chiesa si manifesta in modo particolarmente evidente. La disciplina di questa istituto è, infatti, molto articolata e significativa e giunge a concedere all’autorità ecclesiastica la possibilità di legittimare a posteriori, mediante la «grazia», un comportamento contrario alla legge. Inoltre, la stessa autorità può assumere un atteggiamento di tolleranza di fronte a usi e pratiche che risultino in contrasto con le norme positive quando tale indulgenza sia richiesta dal bene della Chiesa.

Capitolo 3I POTERI

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1. SISTEMA GERARCHICO e ORGANIZZAZIONE ECCLESIASTICA

La Chiesa non si presenta come una comunità omogenea e indifferenziata in cui tutti i membri hanno gli stessi diritti e doveri ed eguali responsabilità, ma si pone e si autodefinisce come una «società costituita di organi gerarchici», caratterizzata, cioè da una «costituzione gerarchica». Questa definizione non implica solo l’esistenza di funzioni potestative, ma ne afferma anche una origine e una legittimazione che si differenziano nettamente da quelle invocate per i poteri esercitati in seno alle comunità politiche: la «sacra potestà» che compete all’autorità della Chiesa non si fonda sulla delega o sul consenso degli appartenenti alla comunità ecclesiale, ma deriva direttamente e immediatamente da Cristo che, fondando la Chiesa, ha stabilito le linee essenziali e immutabili della sua costituzione.

Questa dottrina è esposta nella «Lumen gentium», che definisce preliminarmente il fondamento e la natura dei poteri all’interno della Chiesa affermando: «Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il Popolo di Dio, ha stabilito nella Chiesa vari ministeri. I ministri, che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al Popolo di Dio tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza». L’origine storica di questi ministeri viene, poi, così descritta: «II Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamo a sé quelli che Egli voleva e ne costituì 12 perché stessero con Lui, e per mandarli a predicare il Regno di Dio. Li mandò prima ai figli di Israele e poi a tutte le genti, affinché partecipi della sua potestà, rendessero tutti i popoli discepoli di Lui, li santificassero e governassero, e così diffondessero la Chiesa e, sotto la guida del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni fino alla fine del mondo». A loro volta gli Apostoli, per garantire la prosecuzione nella storia della missione loro affidata, «ebbero cura di costituirsi dei successori». Di conseguenza ebbero vari collaboratori nel ministero e scelsero anche delle persone che prendessero il loro posto quando essi fossero venuti meno. Questa successione apostolica, secondo la dottrina e la tradizione della Chiesa, si è perpetuata nel tempo in quanto gli immediati successori degli Apostoli (= i primi vescovi), designarono nuovi vescovi, e questi altri ancora: così, attraverso un’ininterrotta serie di successive designazioni, il ministero apostolico è continuato sino ad oggi.In concreto, tale successione si realizza mediante la consacrazione episcopale, nella quale, per mezzo dell’imposizione delle mani da parte di uno o più vescovi, viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, unitamente al compito di insegnare e di governare (cfr. costituzione «Lumen gentium»).

Nell’ambito del ministero degli Apostoli e dei loro successori, è possibile distinguere diverse funzioni (descritte nello stesso documento conciliare «Lumen gentium» in relazione alla costituzione gerarchica della Chiesa. La funzione di insegnare (munus docendi): consiste nella predicazione del Vangelo; essa riguarda

- l’annuncio della «buona novella» portata da Cristo perché sia accolta e messa in pratica, - l’illustrazione del suo significato nelle diverse circostanze di luogo e di tempo, - la cura perché porti frutto nell’esistenza degli uomini, - la vigilanza contro gli errori che si possono diffondere.

Tale funzione si esercita mediante la pubblica predicazione delle verità contenute nella Sacra Scrittura e l’insegnamento o magistero ufficiale: quest’ultimo è:

scritto quando viene proposto per mezzo di documenti (quali le costituzioni, i decreti e le dichiarazioni dei concili, le encicliche e gli altri atti emanati dalla Santa Sede, le lettere pastorali indirizzate dai vescovi, singolarmente o collettivamente, ai loro sacerdoti e fedeli);

orale se viene enunciato nelle allocuzioni pontificie, nelle omelie pronunciate dalle autorità ecclesiastiche nel corso delle celebrazioni eucaristiche, nei discorsi da esse tenuti in altre occasioni.

Tale magistero si traduce anche in atti di definizione delle verità cristiane diretti a dirimere controversie dottrinali, a condannare errori, ad affermare determinati principi considerati come essenziali. Nell’ambito della funzione di insegnamento occorre, poi, sottolineare la singolare importanza della catechesi, definita come «l’insieme degli sforzi intrapresi nella Chiesa per fare discepoli, per aiutare gli uomini a credere che Gesù e il Figlio di Dio, affinché, mediante la fede, essi abbiano la vita nel suo nome, per educarli e istruirli in questa vita e costruire così il Corpo di Cristo».

La funzione di santificare (munus sanctificandi) si realizza negli atti del culto divino, tra cui assumono particolare rilevanza il sacrificio eucaristico (= è la «memoria» della morte e della resurrezione di Cristo e costituisce il centro e il culmine della vita della comunità ecclesiale) e gli altri sacramenti che, secondo la dottrina cattolica, sono segni visibili attraverso cui si comunica la vita stessa di Dio (grazia). La potestà derivante dall’ordine sacro è assolutamente necessaria, oltre che per conferire tale sacramento, per celebrare l’eucaristia, per vincolare più perfettamente i battezzati alla Chiesa nella confermazione o cresima, per riconciliare i peccatori con Dio nella penitenza, per dare l’unzione degli infermi a quanti, per malattia o vecchiaia, versino in pericolo di morte.

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Del sacramento del matrimonio sono ministri gli sposi stessi e il battesimo, in caso di necessità, può essere amministrato da chiunque. La funzione di santificare implica anche il dovere, per coloro che la esercitano autorevolmente, di «aiutare coll’esempio della loro vita quelli a cui presiedono, serbando i propri costumi immuni da ogni male e, per quanto possono, con l’aiuto di Dio mutandoli in bene, onde possano, insieme col gregge loro affidato, giungere alla vita eterna».

La funzione di governare (munus regendi) assicura la direzione e la guida della comunità e si manifesta in molteplici modi che vanno dall’esortazione e dall’esempio all’esercizio della c.d. potestà di governo (chiamata anche potestà di giurisdizione). Tale funzione implica

l’emanazione di norme destinate a regolare le relazioni intercorrenti tra i fedeli (attività legislativa), la gestione e l’utilizzazione ordinaria dei mezzi di cui la Chiesa dispone per il conseguimento dei suoi fini

(attività esecutiva), la soluzione delle controversie insorte e l’applicazione delle pene previste per la violazione delle leggi

ecclesiastiche (attività giudiziaria). In queste 3 attività si esplica una sola e identica potestà: le supreme autorità ecclesiastiche sono, al contempo, titolari del potere legislativo, amministrativo e giudiziario che Cristo ha congiuntamente attribuito agli Apostoli e ai loro successori. La costituzione della Chiesa si rivela quindi estranea e incompatibile con quel principio della divisione dei poteri teorizzato da Montesquieu e attuato in molti ordinamenti contemporanei. Nulla impedisce, però, che il concreto esercizio delle singole funzioni della potestà di giurisdizione venga affidato, da parte di chi ne detiene la titolarità, ad organi specifici e diversi. Es., il potere giudiziario di regola non viene esercitato direttamente e personalmente dal pontefice e dai vescovi ma da appositi tribunali da essi istituiti.

Il Codice nei suoi principi direttivi si propone, al fine di assicurare un’efficace tutela dei diritti soggettivi dei fedeli, di distinguere chiaramente le singole funzioni della potestà ecclesiastica anche mediante la precisa definizione dei diversi organi che devono assicurarne l’esercizio.Affinché le potestà relative alle funzioni di insegnare, santificare e governare il popolo di Dio possano essere liberamente ed effettivamente esercitate nei confronti dei fedeli, alla consacrazione deve aggiungersi una «determinazione giuridica», detta missione canonica: occorre che al vescovo consacrato venga affidato un compito specifico o siano assegnati dei sudditi in modo conforme alle norme stabilite dalla suprema autorità della Chiesa. In assenza di tale determinazione, ogni atto di governo sarà privo di effetti, mentre gli atti sacramentali risulteranno validi ma gravemente illeciti. Pure illeciti saranno gli atti di magistero ma senza che se ne possa stabilire a priori e in via generale la validità o la nullità.

Per comprendere la funzione della missione canonica è necessario ricordare che il potere nella Chiesa è affidato ad una «pluralità di soggetti» «gerarchicamente cooperanti tra di loro». Ora, perché un potere sociale possa essere esercitato in modo ordinato da parte di più persone fisiche contemporaneamente, è assolutamente indispensabile che i compiti e le responsabilità di ciascuna di esse siano precisamente determinati, ciò al fine di evitare contrasti e conflitti difficilmente sanabili. La missione canonica risponde a questa esigenza: stabilisce la parte che compete a ciascuno dei soggetti rivestiti di sacra potestà nella guida della comunità ecclesiale, assegnandogli uno specifico incarico.

2. L’UFFICIO ECCLESIASTICO

Tale specifico incarico, quando sia stabilmente costituito, assume il nome di ufficio. NB: l’ufficio, pur costituendo il cardine di tutta l’organizzazione ecclesiastica, non è necessariamente connesso alla potestà. Ufficio = qualunque funzione stabilmente costituita da una disposizione divina o umana per il conseguimento di un fine spirituale. Il conferimento dell’ufficio (provisio canonica) può realizzarsi in vari modi. La forma più comune è quella in cui l’autorità ecclesiastica procede liberamente alla designazione (libera collazione). Nelle altre forme, invece, il superiore competente non agisce in base a una scelta autonoma, ma si limita a istituire chi viene presentato da parte di un soggetto dotato di tale diritto o a confermare il risultato di una elezione operata da un collegio, o ad accogliere la postulazione di quest’ultimo che, volendo eleggere una persona priva di uno dei requisiti richiesti dal diritto, chiede la concessione della necessaria dispensa. Alcune elezioni non esigono conferma in quanto l’eletto acquisisce la titolarità dell’ufficio immediatamente, con la libera accettazione del risultato dello scrutinio.

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Distinzione:- la nomina vera e propria è riservata all’autorità ecclesiastica, - nella designazione della persona da nominare si ammette l’intervento di altri soggetti purché avvenga nei casi e

nei modi stabiliti dal diritto. Per quanto concerne l’esercizio della sacra potestà, occorre ricordare che la parte del potere di governo annessa per legge ad un determinato ufficio è chiamata potestà ordinaria in quanto il suo contenuto e la sua estensione non dipendono dalla discrezionalità dell’autorità che la conferisce, ma sono predeterminati dal diritto. Viene considerata propria o vicaria a seconda che venga esercitata dal titolare dell’ufficio in nome proprio o in nome altrui. Es. la potestà del vicario generale è vicaria in quanto è esercitata in nome del vescovo diocesano che, da parte sua, gode di potestà propria. Diversa è la potestà delegata, che non deriva dalla titolarità di un ufficio, ma dal mandata conferito ad una persona perché eserciti determinate funzioni di governo. Il Codice del 1917 non conteneva precise disposizioni circa la possibilità della delega; il nuovo Codice, invece, stabilisce che il legislatore di livello inferiore a quello supremo (= tutti i legislatori salvo il papa e il collegio dei vescovi) non può delegare il suo potere, salvo che il diritto lo consenta espressamente. La funzione legislativa è dunque considerata di tale rilevanza da ritenere che, almeno in linea di principio, debba essere assicurata direttamente e personalmente dal titolare della relativa potestà. L’eccezione prevista per il legislatore supremo si spiega con la vastità dei suoi compiti che possono richiedere ampie deleghe.Ancor meno delegabile è il potere dei giudici individuali o collegiali: la delega è ammessa solo per gli atti preparatori di una sentenza o di un decreto. Per comprendere il rigore di questa norma occorre tenere presente che i giudici ecclesiastici non hanno una potestà giudiziaria ordinaria propria, in quanto essa appartiene solo al papa e ai vescovi.Invece il potere esecutivo, se è ordinaria, può essere sempre delegato e in una certa misura anche subdelegato, salvo espresso divieto legislativo. Questa ampia delegabilità trova giustificazione nel fatto che si tratta di una attività concreta e specifica che può necessitare di vari qualificati collaboratori. Di norma ogni potere di governo viene esercitato per il foro esterno, riguardante, primariamente e immediatamente, l’organizzazione, la tutela e la conservazione della società ecclesiastica, che vengono assicurate mediante l’instaurazione e il mantenimento tra i membri della comunità cristiana dell’ordine giuridico-sociale necessario al conseguimento del bene comune. Talvolta, però, il potere di governo viene esercitato, sia nel sacramento della penitenza sia fuori di esso, soprattutto allo scopo di ordinare le relazioni dei singoli con la divinità, prendendo direttamente in considerazione il loro bene spirituale e la loro santificazione. In tal caso i suoi effetti si limitano, di regola, al foro interno.

3. IL PRIMATO PONTIFICIO

Sulla base di queste nozioni di carattere generale relative alla potestà e all’organizzazione ecclesiastica, è possibile descrivere sinteticamente la costituzione gerarchica della Chiesa, indicando i più importanti uffici a partire da quelli che hanno autorità su tutti i fedeli. A tale proposito, il Concilio Vaticano II, dopo aver ricordato la missione affidata agli apostoli e ai loro successori, ripropone, innanzitutto, «la dottrina dell’istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro Primato del Romano Pontefice e del suo infallibile Magistero». Cristo, affinché l’episcopato fosse «uno e indiviso», «prepose agli altri Apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione». Infatti l’«ufficio concesso singolarmente a Pietro» permane e continua nei suoi successori, cioè in coloro che sono preposti come vescovi alla Chiesa di Roma (pontefici romani o sommi pontefici o papi). Ad essi, quindi, compete una potestà suprema, piena, immediata, universale:

- suprema in quanto è superiore a qualunque altro potere ecclesiastico, sì che il pontefice non può essere giudicato da nessuno e contro le sue decisioni non è ammesso alcun appello o ricorso;

- piena perché riguarda non solo la fede e la morale, ma anche la disciplina e il governo.;- immediata, dal momento che non necessita di intermediari;- universale poiché si estende sia sulla Chiesa universale sia su tutte le Chiese particolari e le loro aggregazioni.

Tale potestà è di carattere ordinario e proprio (essendo annessa all’ufficio del vescovo di Roma), e può essere sempre esercitata liberamente nell’indipendenza da qualsivoglia potere umano. Inoltre, il pontefice gode della infallibilità nel magistero quando, esercitando la sua funzione di supremo pastore e dottore di tutti i cristiani, proclama con atto definitivo una dottrina da seguire in materia di fede e di morale. NB: queste condizioni sono talmente rigorose da rendere estremamente rari i casi in cui il privilegio dell’infallibilità viene effettivamente esercitato, tanto più che nessun insegnamento può essere considerato infallibile se non risulta tale in modo manifesto.

La costituzione conciliare «Lumen gentium» fonda, dunque, l’autorità del pontefice direttamente sulla volontà di Cristo, ma con questa affermazione non intende negare che l’attuale configurazione dell’ufficio papale sia anche il risultato di un’evoluzione storica più che millenaria, non sempre lineare e incontrastata. La stessa formulazione della dottrina del primato riproposta dal Vaticano II è assai recente (costituzione «Pastor aeternus», approvata dal Concilio Vaticano I

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nel 1870 ). Tale dottrina, comunque, non è così rigida da consentire una sola modalità di esercizio del primato a cui i singoli pontefici debbano necessariamente attenersi: ogni pontificato è caratterizzato da un proprio «stile», determinato dalla personalità del papa e dalle circostanze storiche in cui si svolge il suo ministero; ma la definizione dogmatica del primato non esclude una sua ulteriore evoluzione che lo renda più adeguato alle mutate condizioni dei tempi e alle diverse esigenze della comunità ecclesiale. Anzi, nell’attuale momento della vita della Chiesa, la questione ha assunto una singolare rilevanza, anche ecumenica, come ha espressamente riconosciuto lo stesso pontefice, incoraggiando la ricerca di «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in alcun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova» (cfr. la lettera enciclica “Ut unum sint” n. 95/1995).Anche per quanto specificamente concerne le modalità dell’elezione al pontificato non mancano problemi.L’eletto, qualora abbia già ricevuto in precedenza la consacrazione episcopale, con l’accettazione della designazione a vescovo di Roma ottiene tutti i poteri e le prerogative propri del pontefice. Se, invece, risulti privo del carattere episcopale deve essere immediatamente consacrato. La designazione è affidata ai cardinali, che originariamente erano i più autorevoli esponenti del clero romano e attualmente sono dei vescovi i quali, essendo stati insigniti dal pontefice della «diaconia» o del «titolo» di una chiesa della città di Roma o del «titolo» di una diocesi a questa vicina (c.d. diocesi suburbicaria), vengono definiti «rappresentanti della Chiesa romana» benché il loro rapporto con i sacerdoti e i fedeli della città sia più formale che sostanziale. Infatti, molti di essi sono preposti alle più importanti diocesi sparse per il mondo e quelli che risiedono a Roma sono impegnati a collaborare con il papa nel governo della Chiesa universale. In ogni caso non hanno alcuna potestà sulla chiesa di Roma o sulla diocesi suburbicaria che è stata loro assegnata come titolo. Secondo la disciplina attualmente vigente (sancita dalla costituzione apostolica «Universi Dominici gregis» del 1996), 1’assemblea per l’elezione del pontefice (denominata conclave), è composta dai soli cardinali di età inferiore agli 80 anni, che vengono sottoposti a clausura e obbligati al segreto. È escluso nel modo più assoluto ogni intervento o ingerenza di altre autorità ecclesiastiche o civili. Risulta eletto colui che ottiene il voto favorevole della maggioranza dei due terzi dei presenti, a meno che, dopo una lunga serie di scrutini infruttuosi, gli elettori decidano di ritenere sufficiente la maggioranza assoluta. Sebbene da molti secoli il papa venga di fatto scelto nell’ambito del collegio cardinalizio, può essere eletto qualunque battezzato, anche laico, di sesso maschile e dotato dell’uso di ragione che non rifiuti o metta in dubbio le verità della fede (eretico) e non sia separato dalla Chiesa cattolica (scismatico).

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4. ORGANI CENTRALI di GOVERNO

Nell’esercizio del suo supremo ufficio pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari, il pontefice si avvale dell’attività dei diversi dicasteri e organismi della Curia romana, attualmente disciplinata dalla costituzione apostolica «Pastor bonus» del 1988 e dal «Regolamento generale» del 1999. I dicasteri sono di norma composti

- da un cardinale prefetto o da un arcivescovo con funzione di presidente, - da un determinato numero di cardinali,- da alcuni vescovi con l’aiuto di un segretario, l’assistenza di consultori e la collaborazione di funzionari

chiamati «officiali». Tra di essi assume particolare rilevanza la Segreteria di Stato che si articola in 2 sezioni:

1) la prima coadiuva quotidianamente il pontefice nel disbrigo degli affari, esamina i problemi che non rientrano nelle specifiche competenze di altre istanze, coordina i lavori dell’intera Curia;

2) la seconda si occupa dei rapporti con gli Stati e, in particolare, delle questioni che richiedano una trattativa con i governi civili.

9 Congregazioni curano le principali materie riguardanti il governo della Chiesa universale: 1. della dottrina della fede, 2. per le Chiese orientali, 3. del culto divino e della disciplina dei sacramenti, 4. delle cause dei santi, 5. per i vescovi, 6. per l’evangelizzazione dei popoli, 7. per il clero, 8. per gli istituti di vita consacrata e per le società di vita apostolica, 9. per l’ educazione cattolica.

La promozione e il coordinamento dell’apostolato dei laici e, più in generale, quanto concerne la loro vita cristiana, spettano ad un apposito consiglio, mentre più specifiche competenze vengono attribuite ad altri consigli ed uffici nonché ad alcuni organismi di natura diversa da quella propria dei dicasteri.

Nel campo giudiziario, la Segnatura Apostolica esercita la funzione di supremo tribunale, assicurando la retta amministrazione della giustizia nella Chiesa. A tal fine:

- si occupa di una serie di questioni relative all’attività svolta da altri tribunali, - si pronuncia sui ricorsi per violazione di legge avverso gli atti amministrativi posti dai dicasteri della Curia

romana o da questi approvati, - giudica le controversie amministrative che le vengano deferite dal pontefice o dai medesimi dicasteri, - risolve i conflitti di competenza che insorgano tra questi ultimi.

Invece, gli appelli contro le sentenze dei tribunali ecclesiastici inferiori, riguardanti per lo più la materia matrimoniale, vengono esaminati dalla Rota Romana che provvede all’unità della giurisprudenza, mentre le materie che concernono il foro interno e le indulgenze sono sottoposte al giudizio della Penitenzeria Apostolica.

Per esercitare le sue funzioni nell’ambito della Chiesa universale, il pontefice si avvale anche del diritto di inviare rappresentanti (legati) in ogni parte del mondo, allo scopo di essere dettagliatamente informato sulla situazione delle

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varie Chiese locali e di rendersi presente nelle diverse regioni. Tale diritto è indipendente dai poteri civili, ma i legati pontifici sono riconosciuti da più di 100 Stati e partecipano a molti organismi internazionali:

- quando esercitano anche funzioni di carattere diplomatico nei confronti dei poteri civili, sono chiamati nunzi; - se si limitano a rappresentare la Santa Sede di fronte alle Chiese particolari del territorio in cui svolgono la loro

missione, assumono la denominazione di delegati apostolici.

5. Il COLLEGIO EPISCOPALE

Fino a non molti anni fa, il regime della Chiesa veniva definito come «monarchico, assoluto e autocratico quanto altri mai» in quanto «la suprema potestà di governo in tutte le sue manifestazioni risiede e deve necessariamente risiedere nella sua pienezza e nella forma più autocratica e assoluta immaginabile in un unico soggetto determinato, la Santa Sede». Dopo il Concilio Vaticano II, questa definizione non è più accettabile: la costituzione «Lumen gentium» ha espressamente affermato che il pontefice non è l’unico soggetto di piena e suprema potestà. Questa, infatti, compete anche al collegio episcopale, che succede al collegio apostolico istituito da Cristo ed è composto da tutti coloro che hanno ricevuto il sacramento della consacrazione episcopale e si trovano in un rapporto di gerarchica comunione con il capo e i membri del collegio stesso. Questa dottrina della collegialità e sacramentalità dell’episcopato costituisce la riscoperta, da parte del Vaticano II, dei dati della più antica e autentica tradizione della Chiesa, che negli ultimi secoli della sua storia non erano stati tenuti sufficientemente presenti.Nella Chiesa, dunque, il potere pieno, supremo e universale compete a 2 soggetti:

- uno di carattere individuale, che esprime l’unità; - l’altro di carattere collegiale, che rappresenta la varietà e la universalità del popolo di Dio.

Un potere pieno, supremo e universale non può appartenere contemporaneamente a 2 soggetti, ma, in realtà, non si tratta di soggetti tra loro diversi in senso assoluto in quanto la distinzione non è tra il pontefice da una parte e i vescovi dall’altra, ma tra il pontefice considerato singolarmente e il pontefice insieme a tutti i vescovi. Il papa, infatti, non solo fa parte del collegio episcopale, ma ne costituisce il capo e mantiene integro nel suo ambito il proprio ufficio di vicario di Cristo e di pastore della Chiesa universale. Spetta, quindi, esclusivamente a lui convocare il collegio, dirigerlo e approvare le norme per la sua azione. Più in generale: la determinazione del modo, sia personale che collegiale, con cui deve essere governata la Chiesa universale secondo le diverse necessità che si presentano nel corso dei secoli, è rimessa totalmente al giudizio discrezionale del papa che, da parte sua, può sempre esercitare la potestà che gli compete in ogni tempo e a suo piacimento. Il collegio episcopale, invece, non può agire se non a intervalli e con il consenso del suo capo.La potestà collegiale, infatti, viene esercitata in modo solenne nel concilio ecumenico o universale a cui hanno diritto di partecipare (con voto deliberativo) tutti e soli i vescovi che siano membri del collegio episcopale, ferma restando la facoltà del pontefice di invitare anche altre persone non insignite del carattere episcopale. Le decisioni del concilio per divenire obbligatorie devono essere approvate, confermate e promulgate dal pontefice a cui, oltre a stabilire l’ordine del giorno, spettano anche, in esclusiva, la convocazione, la presidenza, il trasferimento, la sospensione, lo scioglimento dell’assemblea.

La potestà collegiale può essere esercitata anche dai vescovi sparsi per il mondo purché il pontefice li chiami ad un’azione unitaria o accetti liberamente la loro iniziativa congiunta in modo che questa risulti un vero atto collegiale. Anche in questo caso le decisioni devono essere confermate e promulgate dal papa.

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6. COLLEGIALITÀ e PRIMATO

Se la collegialità episcopale non intacca la potestà piena, suprema e universale del pontefice, pur lasciando intatto il primato, incide profondamente sulle modalità del suo esercizio poiché pone l’esigenza che

- da un lato, i vescovi collaborino in modo più organico e sistematico con il papa e, - dall’ altro, questi ricorra più frequentemente al loro consiglio e al loro aiuto nell’adempimento del suo ufficio.

I vescovi, infatti, in quanto membri del collegio episcopale successore del collegio apostolico, non possono preoccuparsi solo della diocesi a cui sono preposti, ma «sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con atti di giurisdizione, sommamente contribuisce al bene della Chiesa universale». In particolare, essi «devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa, istruire i fedeli all’amore di tutto il corpo mistico di Cristo (cioè della Chiesa), specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia e, infine, promuovere ogni attività comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità. Del resto è certo che, reggendo bene la propria Chiesa come porzione della Chiesa universale, contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il Corpo mistico, che è pure il corpo delle Chiese». Già da molti secoli, il papa si avvale dell’opera di alcuni vescovi chiamati a far parte del collegio cardinalizio. Secondo il Codice, i cardinali sono di aiuto al pontefice

- sia individualmente: nello svolgimento delle funzioni loro personalmente affidate, - sia collegialmente: riunendosi per trattare le questioni di maggior importanza.

Tra queste assemblee, assumono una speciale rilevanza i concistori, convocati per ordine del papa e sono da lui presieduti.

Ai concistori ordinari vengono convocati tutti i cardinali o almeno quanti si trovano a Roma per esaminare problemi gravi ma di carattere non eccezionale oppure per celebrare atti di particolare solennità. In quest’ultimo caso, può essere ammessa la presenza di altre persone;

i concistori straordinari, invece, vengono celebrati quando si presentino necessità della Chiesa affatto speciali o vi siano da discutere questioni di notevole rilievo e prevedono sempre la partecipazione di tutti i cardinali.

Tuttavia il collegio cardinalizio, essendo integralmente composto da membri designati direttamente dal pontefice, non può garantire una effettiva rappresentanza delle opinioni e dei desiderata dell’intero episcopato mondiale. È quindi comprensibile che al Vaticano II sia stata avanzata da più parti la richiesta di un nuovo organismo che rispondesse a queste esigenze; richiesta accolta da Paolo VI che nel 1965, con il motu proprio «Apostolica sollicitudo», istituiva il Sinodo dei vescovi per la Chiesa universale. Il Sinodo è un’istituzione ecclesiastica centrale che, pur essendo dotata di una segreteria generale di carattere permanente, svolge i suoi compiti in modo temporaneo e occasionale. È una riunione di vescovi, provenienti dalle diverse regioni del mondo, convocata nei tempi stabiliti per favorire una stretta unione dell’episcopato con il pontefice, per aiutarlo con i consigli a mantenere intatte e ad incrementare la fede e la morale e a conservare e a rafforzare la disciplina ecclesiastica, per esaminare le questioni riguardanti l’azione della Chiesa nel mondo.Rappresenta effettivamente tutto l’episcopato cattolico, in quanto

- alle assemblee generali ordinarie partecipano i vescovi appositamente designati dalle singole conferenze episcopali;

- alle assemblee generali straordinarie partecipano i presidenti delle stesse conferenze (che sono pure di natura elettiva).

Il pontefice ha poi la facoltà di aumentare il numero dei partecipanti invitando altri vescovi, religiosi ed esperti fino al 15% della totalità dei membri. Oltre alle assemblee generali, è prevista anche l’assemblea speciale destinata a trattare questioni che interessano solo regioni determinate. Dal momento che il Sinodo non è una forma di esercizio del potere pieno e supremo che compete al collegio episcopale, ma è un istituto che si propone di aiutare il pontefice a meglio adempiere il suo ufficio primaziale, la sua funzione, di regola, si limita a dare informazioni e consigli. Gode, infatti, di potestà deliberativa esclusivamente nel caso che questa gli sia stata conferita dal pontefice con la riserva di ratificare le decisioni. In ogni caso, spetta al papa

convocare il Sinodo ogni volta che lo ritenga opportuno, stabilire l’ordine del giorno, presiedere l’assemblea, concludere l’assemblea, trasferire l’assemblea, sospendere l’assemblea, sciogliere l’assemblea.

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7. ESERCIZIO CONGIUNTO del MINISTERO EPISCOPALE

La dottrina della collegialità, pur definendo direttamente il solo problema della titolarità del supremo potere sulla Chiesa universale, pone anche radicalmente in crisi ogni concezione individualistica dello stesso ministero episcopale, mettendo in evidenza che il vescovo non presiede la Chiesa particolare che gli è stata affidata a titolo individuale ma in quanta membro del collegio episcopale, successore del collegio apostolico. Il vescovo, dunque, attraverso la comunione gerarchica con il capo e le altre membra del collegio, rappresenta nella Chiesa particolare la Chiesa universale e, attraverso la sua partecipazione al collegio episcopale, integra la Chiesa particolare da lui presieduta e rappresentata, nell’unità della Chiesa universale.

Si può quindi affermare che il collegio episcopale, a cui compete la suprema potestà sulla Chiesa universale, non è estraneo alle singole Chiese particolari e, a maggior ragione, alle organiche relazioni che si stabiliscono tra di esse a livello locale e che costituiscono un’espressione della collegialità.

Una prima forma di organica relazione a livello locale tra le Chiese particolari è la provincia ecclesiastica = il raggruppamento delle diocesi circonvicine (= suffraganee), intorno a una diocesi più importante per dimensioni o per tradizione, presieduta da un metropolita insignito di dignità arcivescovile.Attualmente i poteri del metropolita sono pressoché inesistenti, riducendosi a poche funzioni di supplenza e vigilanza, mentre la collaborazione tra i vescovi comprovinciali trova la sua più significativa espressione istituzionale nel concilio provinciale. Tale assemblea è dotata di potestà di governo soprattutto legislativa e viene convocata dal metropolita tutte le volte che la maggior parte dei vescovi della provincia lo ritenga opportuno al fine di incrementare la fede, coordinare l’azione pastorale, regolare i comportamenti morali, assicurare un’identica disciplina in modo da provvedere adeguatamente alle necessità spirituali del popolo di Dio. Il voto deliberativo è riservato ai vescovi; agli altri prelati che devono intervenire e ai sacerdoti e ai fedeli eventualmente convocati spetta un voto meramente consultivo. Le deliberazioni devono poi essere inviate alla Santa Sede e vengono promulgate solo dopa aver ottenuto il suo nullaosta.

Nei secoli immediatamente antecedenti il Vaticano II, la celebrazione dei concili locali si è fatta sempre più rara a causa di una serie di fattori che vanno dalle antiche ingerenze dei sovrani, allo sviluppo della legislazione pontificia che ha lasciato spazio ridotto a quella degli episcopati, alle nuove esigenze dell’era contemporanea. Infatti, a partire dal secolo XIX, la costituzione degli Stati moderni, la secolarizzazione della società, la crescente socializzazione della vita degli uomini, pongono alla Chiesa problemi che eccedono di gran lunga i confini delle province ecclesiastiche, investendo interi paesi, e richiedono più che un occasionale intervento di carattere legislativo (quale possono assicurare i concili particolari), una consultazione sistematica tra i vescovi appartenenti alla stessa nazione in funzione della realizzazione di un’azione comune diretta a far fronte alle nuove esigenze).

Nascono così, per spontanea iniziativa di alcuni episcopati dapprirna, e con il deciso appoggio della Santa Sede poi, le conferenze episcopali, che periodicamente e molto frequentemente riuniscono i vescovi di uno stesso Stato e sono dotate anche di organismi di carattere permanente per assicurare uno stabile coordinamento delle attività pastorali (ufficio di presidenza, consiglio permanente, segretariato generale, commissioni ecc.). Questi istituti hanno ottenuto una disciplina di diritto comune solo con il Vaticano II che ha riconosciuto l’utilità che in tutto il mondo i vescovi della stessa nazione a regione si adunino periodicamente tra di loro affinché, da uno scambio di esperienze e di pareri, sgorghi quella collaborazione al bene comune di più Chiese particolari che appare indispensabile nell’età contemporanea per un fruttuoso e adeguato svolgimento del loro ministero.

Tuttavia, il Concilio e la legislazione immediatamente successiva, si sono limitati a stabilire pochi e generalissimi principi, senza sancire una disciplina organica. Questa lacuna è colmata dal nuovo Codice che, ispirandosi al dettato conciliare e tenendo conto delle indicazioni emergenti dall’esperienza, propone una normativa non priva di significative innovazioni.

La conferenza viene sostanzialmente descritta come l’unione dei vescovi di una nazione o di un territorio che esercitano congiuntamente funzioni di carattere pastorale per l’incremento del bene che la Chiesa offre agli uomini, specialmente per mezzo di forme di apostolato appropriate alle circostanze dei tempi e dei luoghi. Al tempo stesso, il Codice sottolinea decisamente quella «permanenza» che caratterizza le conferenze rispetto ai concili locali. Esse, infatti, non si riducono ad assemblee occasionali, ma sono «istituti permanenti» in quanto non solo si riuniscono molto frequentemente (almeno una volta all’ anno e quando sia richiesto da particolari circostanze), ma sono dotate di organi stabili come il presidente, il consiglio permanente, la segreteria generale e tutti quegli uffici e commissioni che siano opportuni per l’efficacia della loro azione.

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Inoltre il canone 448 stabilisce come «regola generale» che la conferenza comprenda i vescovi di tutte le Chiese particolari della medesima nazione.

Un’altra innovazione ben più radicale riguarda il problema della ritualità. A questo proposito, il Concilio dispone espressamente che alla conferenza partecipino, a parità di diritti, i vescovi di tutti i riti. Invece il canone 450 prevede che ne facciano parte i soli prelati di rito latino, consentendo che gli orientali siano invitati, ma con solo voto consultivo.

Circa la specifica composizione delle conferenze, i canoni 450 e 454 sanciscono la partecipazione di pieno diritto dei vescovi diocesani, dei prelati ad essi equiparati, dei coadiutori e l’intervento con voto consultivo degli ausiliari e dei vescovi titolari incaricati dalla Santa Sede o dalla stessa conferenza di un particolare ufficio nel territorio. Gli statuti delle singole conferenze possono però disporre una più ampia attribuzione del voto deliberativo, salvo per quanto riguarda l’approvazione e la revisione degli statuti. Le conferenze godono di vera e propria potestà legislativa, sia pure in misura limitata. Essa, infatti, riguarda solo le materie stabilite dal diritto universale o da una speciale disposizione della Santa Sede, emanata di sua iniziativa o su richiesta della stessa conferenza. Le condizioni per l’esercizio sono rigorose: le deliberazioni giuridicamente vincolanti, oltre ad essere soggette al controllo della Santa Sede, devono essere approvate da due terzi dei vescovi che appartengono alla conferenza con voto deliberativo.

Per quanto, poi, specificamente concerne le dichiarazioni di natura dottrinale, è richiesta l’approvazione unanime di tutti i membri della conferenza che siano vescovi consacrati o, in mancanza di questa, il voto favorevole dei due terzi dei membri dotati di suffragio deliberativo unitamente al nullaosta della Santa Sede.

Tutte queste limitazioni si spiegano con l’osservazione che una più ampia competenza attribuita ad un istituto permanente (come le conferenze episcopali) avrebbe finito con il coartare eccessivamente lo spazio di autodeterminazione dei singoli vescovi diocesani.

È peraltro evidente che il bene della Chiesa in un determinato paese può esigere una legislazione particolare organica e non solamente episodica e frammentaria. Di conseguenza il nuovo Codice prevede che i vescovi appartenenti ad una stessa conferenza possano riunirsi in concilio plenario. Tale assemblea ha una composizione e una competenza analoga a quella del concilio provinciale e viene convocata con l’approvazione della Santa Sede tutte le volte che alla conferenza episcopale appaia opportuno o necessario.

L’istituzione delle conferenze episcopali e la loro valorizzazione da parte del Concilio, avrebbero anche richiesto la creazione di circoscrizioni territoriali, corrispondenti agli ambiti delle singole conferenze. Lo stesso Concilio prevede espressamente la possibilità di riunire più province in un’unica regione ecclesiastica, accennando implicitamente all’opportunità che quest’ultima abbia un territorio corrispondente a quello statuale. Il Codice si rivela, a questo proposito, singolarmente prudente, limitandosi a ripetere il dettato conciliare e a prevedere una riunione regionale dei vescovi priva delle competenze proprie delle conferenze episcopali. Non solo è scomparso ogni riferimento alla dimensione nazionale, ma essa sembra sconsigliata dal momento che tale riunione non coincide con la conferenza che di norma ha carattere nazionale. Si può qui riconoscere il permanere di una certa diffidenza nei confronti di strutture ecclesiastiche «nazionali» che si riscontra anche nel canone 439. In esso, infatti, si stabilisce che quando la provincia ecclesiastica coincide con il territorio di uno Stato, l’approvazione della Santa Sede è necessaria anche per la convocazione del concilio provinciale.

Il Codice, conformemente all’insegnamento conciliare, riconosce espressamente l’opportunità di una collaborazione tra i vescovi che superi i confini dei singoli Stati, raccomandando di favorire le relazioni tra le conferenze episcopali, soprattutto tra quelle più vicine. Tali relazioni sono stabilmente assicurate nei diversi continenti da appositi organismi, composti dai delegati delle conferenze interessate, che, pur essendo privi di poteri giuridici, svolgono una rilevante funzione nella vita della Chiesa contemporanea.

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8. Il GOVERNO della CHIESA PARTICOLARE

Il Codice, sulle orme del Concilio, mette in luce il significato delle Chiese particolari, affermando che «in esse e da esse è costituita l’una e l’unica Chiesa cattolica». La diocesi = viene descritta come «una porzione del Popolo di Dio, che è affidata alle cure pastorali del vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui per mezzo del Vangelo e dell’Eucarestia unita nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica» . Questa definizione è testualmente ripresa dal decreto «Christus Dominus». Manca la menzione dell’elemento territoriale: esso non viene più considerato essenziale. Infatti, mentre si afferma che di regola ogni Chiesa particolare comprenda tutti i Fedeli abitanti nel territorio assegnatole, si prevede la possibilità che in uno stesso ambito territoriale si costituiscano più Chiese particolari distinte secondo il rito dei Fedeli o altro criterio simile.

Alle diocesi sono assimilate le porzioni del popolo di Dio che hanno come pastore proprio un prelato o un abate dotato di poteri corrispondenti a quelli del vescovo diocesano (prelature territoriali e abbazie territoriali) o che, per circostanze particolari (vicariati e prefetture apostoliche) o per ragioni gravi e speciali (amministrazioni apostoliche), non vengono erette in diocesi, ma affidate ad un ecclesiastico che le governi in nome del pontefice e gli ordinariati militari.

Ogni diocesi è affidata ad un vescovo che la regge con tutta la potestà ordinaria, propria e immediata necessaria allo svolgimento del suo ministero, salvo in quelle materie che una legge o un decreto del pontefice abbiano riservato al papa stesso o ad altra autorità. I vescovi che non hanno questa responsabilità (non sono cioè diocesani), sono chiamati titolari in quanto ad essi di regola viene conferito il titolo di una diocesi estinta. Il vescovo diocesano (come tutti gli altri vescovi) è nominato o confermato dal pontefice che consulta previamente, a livello di provincia ecclesiastica o di conferenza episcopale, l’episcopato competente per territorio. Quando si trovi nell’impossibilità di adempiere personalmente tutti i doveri che gli incombono a causa della vastità della diocesi, dell’eccessivo numero di Fedeli o di altre circostanze, viene aiutato da uno o più vescovi ausiliari che agiscono in stretta armonia con lui. In situazioni di particolari difficoltà, la Santa Sede può anche assegnargli un vescovo ausiliare dotato di speciali facoltà e persino inviargli un vescovo coadiutore che oltre a particolari facoltà, gode del diritto di successione. Circa i compiti del vescovo diocesano si sottolinea, innanzitutto, il suo dovere di essere testimone di Cristo di fronte a tutti, preoccupandosi dei suoi fedeli, ma anche dei cristiani di altro rito, dei battezzati che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica e degli stessi non battezzati. Per quanto concerne la funzione di insegnare, è tenuto a proporre e ad illustrare le verità di fede da credere e da applicare nella vita sia personalmente, sia curando che la predicazione e la catechesi siano adeguatamente assicurate a tutti i fedeli della sua diocesi.

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Deve anche tutelare l’integrità e l’unità della fede con i mezzi che ritiene più idonei, ma rispettando la giusta libertà della ricerca teologica. Nell’ambito della funzione di santificare, promuove la santità dei fedeli, curandone la crescita mediante la ricezione dei sacramenti in genere e la partecipazione in specie alla celebrazione eucaristica che presiederà frequentemente nella chiesa cattedrale o in altra chiesa della diocesi. Disposizioni più dettagliate riguardano la funzione di governo. Il vescovo, mentre esercita personalmente la potestà legislativa, per quella esecutiva può servirsi dei vicari generali ed episcopali. Di regola vi è un solo vicario generale che nella sfera esecutiva gode della stessa potestà del vescovo sì che può compiere tutti gli atti amministrativi, salvo quelli che lo stesso vescovo abbia riservati a sé o che richiedano un suo speciale mandato. Inoltre, di norma, guida l’attività amministrativa della curia diocesana (= di quell’insieme di istituti e di persone che aiutano il vescovo nella guida dell’intera diocesi sia nell’ambito giuridico-amministrativo sia in quello più ampiamente pastorale). Quanto ai vicari episcopali, che possono essere istituiti per un più efficace governo, essi hanno una potestà ordinaria simile a quella del vicario generale, ma limitata ad una parte della diocesi o ad un settore di affari o ad un gruppo di fedeli. In ogni diocesi, tutte le cause che non sono espressamente sottratte alla sua competenza, vengono giudicate in prima istanza dal vescovo (che esercita la sua potestà giudiziaria personalmente o per mezzo di altri a norma di diritto). A tal fine deve nominare, oltre ai giudici, un vicario giudiziario o officiale che ha potestà ordinaria e può essere coadiuvato da vicari giudiziari aggiunti o vice-officiali. Nei collegi giudicanti, la causa può essere istruita da un uditore e viene illustrata da un giudice ponente o relatore che ha anche il compito di redigere il testo della sentenza dopo la decisione. La tutela del bene pubblico e l’accusa sono affidate ad un promotore di giustizia, mentre il difensore del vincolo ha il dovere di rivendicare la validità dei matrimoni e delle sacre ordinazioni contro chi ne afferma la nullità. Da tutte queste funzioni i laici non sono esclusi, ma possono fungere da uditori, promotori di giustizia, difensori del vincolo e, quando vi sia l’autorizzazione della conferenza episcopale, da giudici: è ammesso che un laico sia chiamato a far parte di un collegio giudicante.

Il Concilio Vaticano II ha reso il ministero del vescovo diocesano molto più dialogico e partecipato di quanto stabilito dalla disciplina precedente, prevedendo a tale scopo anche l’istituzione di alcuni nuovi organismi. In particolare, in ogni diocesi deve essere insediato un consiglio presbiterale, in larga parte elettivo, che rappresenta tutti i sacerdoti e funge da senato del vescovo con il compito di aiutarlo nel governo della diocesi per meglio promuovere il bene spirituale della porzione di popolo di Dio che gli è stata affidata. Il consiglio presbiterale non ha voto deliberativo ma il vescovo lo deve consultare nelle questioni di maggiore importanza e non può agire senza il suo consenso qualora sia così espressamente stabilito dal diritto.

È invece rimessa alla prudente valutazione del vescovo la creazione di un consiglio pastorale, composto da chierici, consacrati a Dio e soprattutto laici, che, sotto la sua autorità, studi ed esamini quanto riguarda le attività pastorali, proponendo con voto puramente consultivo delle conclusioni pratiche. Va ricordato anche il consiglio per gli affari economici, composto da 3 fedeli nominati dal vescovo tra gli esperti in economia e in legislazione dello Stato che deve ogni anno predisporre il bilancio preventivo e approvare il consuntivo in relazione alla generale gestione della diocesi.

Tutti questi organismi hanno ridimensionato l’importanza del gruppo di sacerdoti istituito presso la chiesa cattedrale (capitolo cattedrale) che nella legislazione precedente veniva considerato il consiglio del vescovo. Il Codice gli affida solo la celebrazione delle più solenni funzioni liturgiche nella cattedrale e altri incarichi che gli siano attribuiti dalla legge o dal vescovo. La designazione del sacerdote che assicura il governo della diocesi durante la vacanza della sede (amministratore diocesano), che un tempo gli spettava, è ora effettuata da un collegio di consultori liberamente scelti dal vescovo tra i membri del consiglio presbiterale e destinati anche ad altre funzioni. Al fine di evitare rotture troppo brusche con la tradizione, la conferenza episcopale può dispone che le competenze del collegio dei consultori vengano esercitate dal capitolo cattedrale.

In questi ultimi decenni ha conosciuto notevole valorizzazione il sinodo diocesano, convocato quando il vescovo, udito il consiglio presbiterale, lo ritenga opportuno per averne aiuto a vantaggio di tutta la comunità diocesana.Esso riunisce i sacerdoti più rappresentativi della diocesi insieme ad altri fedeli (che hanno solo voto consultivo: anche in questa assemblea sinodale l’unico legislatore rimane il vescovo).

Sono, infine, da ricordare alcuni specifici obblighi che incombono al vescovo:- quello di risiedere nella diocesi, - di visitarla ogni anno in tutto o in parte (visita pastorale),

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- di presentare ogni 5 anni una relazione alla Santa Sede e di recarsi nello stesso anno a Roma per venerare le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e per rendere visita al pontefice (visita «ad limina»).

Gli atti delle visite pastorali e le relazioni quinquennali, conservati negli archivi ecclesiastici, rivestono un eccezionale interesse sotto il profilo storico: si rivelano fonti preziose, e spesso uniche e insostituibili, per la conoscenza della storia della Chiesa e della stessa società civile.

A questi doveri tradizionali, il decreto conciliare «Christus Dominus» ha aggiunto la «calda preghiera ai Vescovi diocesani e a coloro che sono ad essi giuridicamente equiparati, perché, qualora per la loro troppo avanzata età o per altra grave ragione, diventassero meno atti a compiere i loro doveri, spontaneamente o dietro invito della competente Autorità, rassegnino le dimissioni dal loro ufficio». Tale raccomandazione si è venuta gradualmente trasformando in un dovere: si prevede che la rinuncia avvenga non oltre il compimento del 75 anni.

9. Il CLERO DIOCESANO

Nell’adempimento del loro ministero, i vescovi devono avere una particolare sollecitudine nei confronti dei presbiteri o

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sacerdoti, ascoltandoli come consiglieri e collaboratori. Essi, infatti, partecipano in modo subordinato alle loro stesse funzioni, avendo ricevuto il secondo grado del sacramento dell’ordine (c.d. presbiterato). Il presbiterato conferito, per mezzo dell’imposizione delle mani da parte dl un vescovo, a battezzati di sesso maschile che presentino le qualità richieste dal diritto (battesimo e sesso maschile sono indispensabili per la sua validità.Le tesi che, appellandosi alle esigenze della promozione della donna, ne auspicano l’ammissione al sacerdozio, sono state riprovate nel 1976 dalla Congregazione per la dottrina della fede, che le ha considerate contrarie non solo al comportamento degli Apostoli e all’ininterrotta tradizione della Chiesa, ma alla stessa volontà di Cristo. Da parte sua Giovanni Paolo II, ha ritenuto necessario intervenire personalmente per dichiarare che «la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli».

I presbiteri sono, innanzitutto, ministri della parola: hanno il dovere di annunciare a tutti gli uomini il Vangelo in modo adeguato alle necessità dei loro ascoltatori. Sono, poi, ministri di Cristo nel conferimento dei sacramenti. In particolare sono ministri ordinari del battesimo e ministri esclusivi, insieme con i vescovi, della penitenza, dell’unzione degli infermi e dell’eucaristia. Per l’amministrazione dell’ordine nei suoi vari gradi, è invece richiesta la consacrazione episcopale. Quanto alla confermazione, ministro ordinario ne è il vescovo, ma essa può essere conferita anche da un sacerdote che ne abbia ricevuto la facoltà. I presbiteri sono, infine, educatori del popolo di Dio: è loro concessa nei confronti dei fedeli una potestà spirituale che devono usare per la costruzione della Chiesa, non limitandosi ad aver cura dei singoli, ma preoccupandosi anche della formazione di un’autentica comunità cristiana.

I sacerdoti di ogni singola diocesi (clero diocesano) costituiscono con il vescovo un unico presbiterio o collegio presbiterale (di cui il consiglio presbiterale è un’espressione istituzionale): sono strettamente uniti tra di loro dal sacramento dell’ordine che hanno ricevuto e dall’esercizio di un identico ministero nell’ambito della stessa Chiesa particolare. Tale ministero viene concretamente svolto in una notevole diversità di mansioni: alcuni sacerdoti si dedicano allo studio e all’insegnamento, altri svolgono un lavoro manuale, condividendo le condizioni di vita degli operai e altri ancora si occupano di diverse opere dirette all’apostolato o con questo connesse. La maggior parte dei presbiteri è destinata al servizio delle parrocchie, che costituiscono la cellula fondamentale dell’organizzazione diocesana. Ogni diocesi, infatti, è suddivisa in parrocchie = comunità affidate ad un sacerdote parroco, eventualmente aiutato da altri sacerdoti, a cui, come pastore proprio, incombe la responsabilità della cura pastorale di quanti ne fanno parte. Tale appartenenza è, di regola, stabilita dal domicilio che si acquisisce con la dimora nel territorio della parrocchia per un periodo superiore ai 5 anni o anche per un tempo più breve se vi è l’intenzione di restarvi per sempre. Le parrocchie, infatti, hanno di norma una base territoriale delimitata in modo tale che le eccessive distanze non impediscano al parroco di adempiere nei confronti di tutti i fedeli i propri doveri (principalmente la predicazione della parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti, la visita alle famiglie, l’assistenza e il conforto agli infermi, la carità verso i poveri). Il decreto «Christus Dominus» raccomanda specificamente che i parroci inseriscano la loro azione nell’unità della pastorale diocesana, collaborando sistematicamente sia con i sacerdoti preposti alle organizzazioni intermedie esistenti tra le diocesi e le singole parrocchie (decanati o vicariati foranei), sia con quelli responsabili delle opere pastorali di carattere sovrapparrocchiale.

10. I DIACONI

Con i vescovi e con gli stessi presbiteri cooperano quanti hanno ricevuto il grado del sacramento dell’ordine chiamato diaconato. È compito dei diaconi amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l’eucaristia, assistere e benedire il matrimonio, portare l’eucaristia ai moribondi (c.d. viatico), leggere la Sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera, amministrare i sacramentali (impartire, cioè, determinate benedizioni), presiedere al rito funebre e alla sepoltura, dedicarsi alla carità e all’assistenza. Queste funzioni sono spesso svolte direttamente dai sacerdoti

- sia perché la loro presenza può rendere non necessario il ricorso ai diaconi, - sia perché il numero di questi ultimi è scarsissimo. Da secoli, infatti, il diaconato è stato praticamente ridotto a

una fase del curriculum che porta al presbiterato sì che i chierici permangono nell’ordine diaconale pochi mesi, nell’attesa di ascendere al sacerdozio, e in tale periodo sono impegnati, più che nelle attività pastorali, nei compiti inerenti alla loro formazione.

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Il Vaticano II non ha sostanzialmente mutato questa situazione, ma ha posto le premesse per un’evoluzione profonda e significativa. La costituzione «Lumen gentium» ha infatti previsto la possibilità che il diaconato venga restaurato come grado proprio e permanente della gerarchia, non venga cioè conferito solo a quanti aspirano al sacerdozio, ma anche a fedeli che lo esercitino effettivamente e stabilmente. La decisione di restaurare il diaconato come grado proprio e permanente della gerarchia, ha posto i padri conciliari di fronte ad una questione complessa e delicata. I sacerdoti sono obbligati dalla legge ecclesiastica del celibato, che

- da un lato impedisce il conferimento del secondo grado dell’ordine ai coniugati,- dall’altro proibisce ai presbiteri di sposarsi, stabilendo la nullità del loro eventuale matrimonio.

Ora, se nulla impediva in linea di principio che il diaconato permanente fosse conferito anche a uomini sposati e appariva persino necessario prevedere questa possibilità allo scopo di trovare un adeguato numero di diaconi, vi era in molti padri la preoccupazione di evitare ogni eccezione che potesse intaccare la legge del celibato, aprendo la via ad una sua revisione anche per i presbiteri. Di fronte a questo dilemma, il Concilio ha adottato una soluzione intermedia stabilendo che il diaconato potrà essere conferito ad uomini di età matura anche viventi nel matrimonio e così pure a giovani idonei per i quali resterà però in vigore la legge del celibato.

Nonostante queste aspirazioni fossero considerate con favore da alcuni vescovi, il Concilio non ha ritenuto di doverle accogliere e papa Montini le ha ampiamente criticate e decisamente respinte nell’enciclica «Sacerdotalis coelibatus», pubblicata neI 1967. In particolare, la Santa Sede si è dimostrata assolutamente intransigente per quanto concerne il matrimonio dei sacerdoti già ordinati poiché, anche quando ha concesso la dispensa a quelli tra loro che desiderassero sposarsi, ha vietato nel modo più rigoroso che essi continuassero ad esercitare le funzioni inerenti all’ordine sacro. Ha, invece, assunto un atteggiamento più possibilista circa l’ammissione di uomini sposati al presbiterato, permettendo che esso fosse conferito ad alcuni ministri coniugati di altre confessioni cristiane che avevano abbracciato il cattolicesimo.

11. Gli ALTRI MINISTRI

Secondo la disciplina del Codice pio-benedettino, quanti aspiravano al sacerdozio acquisivano, innanzitutto, lo stato clericale mediante un’apposita cerimonia, c.d. prima tonsura. In seguito ricevevano gli ordini minori (privi di carattere sacramentale), corrispondenti agli antichi ministeri:

- l’ostiariato relativo alla cura delle porte della chiesa;- il lettorato relativo alla pubblica lettura della Scrittura durante le funzioni liturgiche;- l’esorcistato relativo al compimento delle pratiche dirette a cacciare i demoni dagli ossessi;- l’accolitato relativo all’assistenza al sacerdote nel servizio all’altare.

Ascendevano, quindi, al suddiaconato (considerato ordine maggiore come il diaconato e il presbiterato).

Queste disposizioni sono state profondamente innovate dal motu proprio «Ministeria quaedam» del 1972, in conformità al desiderio espresso da molti vescovi che nell’imminenza del Vaticano II avevano auspicato una radicale revisione della disciplina di tutta la materia. Il documento pontificio ha infatti

soppresso la prima tonsura, stabilendo che l’ingresso nello stato clericale avvenga con il diaconato, abolito il suddiaconato, trasferendone le funzioni di carattere liturgico ai lettori e agli accoliti. per quanto concerne gli ordini minori, ha disposto che d’ora innanzi essi siano chiamati ministeri e non siano

più riservati ai candidati al sacerdozio, ma possano essere affidati anche a laici che li esercitino effettivamente e stabilmente.

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Tali ministeri nel diritto universale della Chiesa latina sono stati ridotti a 2: il lettorato: che attribuisce le funzioni di leggere la Scrittura durante le celebrazioni liturgiche, di guidare il

canto e la partecipazione del popolo, di preparare i fedeli alla ricezione dei sacramenti, l’accolitato: che comporta i compiti di assistere il sacerdote e il diacono nel servizio all’altare, specialmente

nella celebrazione della Messa, e di distribuire, all’occorrenza, la comunione ai fedeli. La determinazione dell’età e delle doti richieste per essere ammessi al lettorato e all’accolitato (comunque riservati a battezzati di sesso maschile) è rimessa alle conferenze episcopali competenti per territorio che possono anche chiedere alla Santa Sede l’istituzione di altri ministeri quando li giudichino necessari o almeno molto utili per il bene dei fedeli nelle rispettive regioni.

Capitolo 4I FEDELI nella CHIESA

1. La «STATUS» DI FEDELE

II Concilio Vaticano II, definendo la Chiesa come popolo di Dio, ha operato una profonda rivalutazione del significato dell’appartenenza a tale popolo. Ha, cioè, posto in piena luce quello status di fedele che è comune a tutti i battezzati e che, identificandosi con la stessa appartenenza alla Chiesa, costituisce il necessario presupposto di ogni più specifica posizione ecclesiale, connessa all’esercizio di una determinata funzione o alla pratica di un dato stato di vita.

Per comprendere la portata di questa innovazione è necessario ricordare che, prima del Vaticano II, la società ecclesiastica veniva prevalentemente descritta come composta, per diritto divino, da categorie di soggetti nettamente distinte e diseguali in ossequio ad una concezione ecclesiologica che esaltava il ruolo dell’autorità fino a mettere in ombra la realtà globale della comunità cristiana e accentuava le differenze tra i vari livelli gerarchici fino ad oscurare la condizione comune a tutti i battezzati. Una concezione decisamente superata dal Concilio Vaticano II che, mentre ribadisce il valore della gerarchia, riconosce in essa una funzione specifica della Chiesa che non può in alcun modo esaurirne la missione ed il significato. In particolare, i chierici e i laici non costituiscono due classi separate, ma sono tra di loro strettamente legati. La distinzione tra i chierici e i laici è di carattere esclusivamente funzionale in quanto si fonda sulla diversità delle rispettive e specifiche funzioni:

- i sacri ministri sono al servizio degli altri battezzati che vengono chiamati ad un’attiva collaborazione, - tutti i fedeli, nell’esercizio delle diverse funzioni loro affidate, contribuiscono efficacemente a manifestare e

incrementare l’unità del popolo di Dio.

I canoni dedicati dal nuovo Codice al popolo di Dio si aprono proprio con la definizione di fedele: «i fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo per mezzo del battesimo, sono stati costituiti in popolo di Dio e, resi così partecipi a loro modo dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, sono chiamati a esercitare, ciascuno secondo la sua condizione, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo».Questa formulazione può lasciare sconcertati per la sua sinteticità. In realtà, la norma in questione ha la sola funzione di rinviare ad una serie di insegnamenti del Vaticano II che vengono specificamente richiamati:

- il battesimo come incorporazione a Cristo, - la Chiesa come popolo di Dio, - la partecipazione di tutti i fedeli agli uffici di Cristo, - l’universale missione di salvezza affidata alla Chiesa, - la responsabilità che compete a tutti i cristiani nella sua realizzazione.

In essa si può dunque riconoscere una codificazione del ricordato principio interpretativo secondo cui il Codice deve essere letto in parallelo con i documenti conciliari. Non deve sorprendere la mancata menzione di quegli elementi più specificamente giuridici che caratterizzano la condizione di fedele. Il legislatore ha preferito collocarli in altra parte del Codice (nel libro I -Norme generali- al titolo VI -Le persone fisiche e giuridiche-): «con il battesimo l’uomo viene incorporato alla Chiesa di Cristo ed è costituito in essa persona con i diritti e i doveri che, secondo la loro condizione, sono propri dei Cristiani in quanto siano nella comunione ecclesiastica e non vi sia una sanzione legittimamente inflitta».

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A questa disposizione fa seguito una serie di norme relative a quelle condizioni che incidono sullo status delle persone fisiche quali l’età, l’uso di ragione, il domicilio, la consanguineità, l’affinità, il rito.

Il rilievo attribuito dalla nuova codificazione alla figura del fedele ha posto il legislatore di fronte ad un delicato problema:

- da un lato, occorreva specificare più accuratamente le condizioni e le modalità dell’appartenenza alla Chiesa-popolo di Dio,

- dall’altro, tale determinazione doveva avvenire nel clima di apertura ecumenica sancito dal Vaticano II.

Per adempiere a questo difficile compito, il Codice ha scelto di attenersi il più strettamente possibile alle enunciazioni conciliari. Così il canone 204 afferma che «la Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui», mentre il canone successivo recita: in questa terra sono pienamente in comunione con la Chiesa Cattolica quei battezzati che nel suo organismo visibile sono uniti a Cristo dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico».

Occorre tenere presente che le leggi meramente ecclesiastiche obbligano solo i cristiani che hanno ricevuto il battesimo nella Chiesa cattolica o vi sono stati successivamente accolti. La mancanza di comunione ecclesiastica importa una limitazione non solo dei diritti, ma anche dei doveri. In sintesi: se tutti i battezzati sono fedeli, solo i cattolici hanno la pienezza dei diritti e la totalità dei doveri che spettano agli appartenenti alla Chiesa.

Il nuovo Codice, sulle orme della costituzione «Lumen gentium», considera anche i cristiani non cattolici come appartenenti alla Chiesa, ma, nel nuovo clima di sensibilità ecumenica, non pretende più di imporre loro tutti gli obblighi dei fedeli cattolici.

2. La QUESTIONE dei DIRITTI FONDAMENTALI

Una volta identificata nei suoi tratti essenziali la figura del fedele, il legislatore ha definito specificamente il suo stato giuridico, indicandone diritti e doveri secondo quanto stabilito dai principi direttivi per la revisione del Codice approvati

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dal Sinodo dei Vescovi del 1967.

Il compito è stato tutt’altro che agevole in quanto il Concilio, mentre riconosce l’esistenza di diritti e doveri comuni a tutti i membri del popolo di Dio, indicandone il fondamento e la natura, non si preoccupa di prospettarli in modo organico e completo, ma si limita ad alcune esemplificazioni formulate in termini privi della necessaria veste giuridica. Nella Chiesa, infatti, non è possibile separare e contrapporre bene pubblico e bene privato: secondo la dottrina cattolica, ogni fedele realizza il proprio destino personale nella partecipazione alla comunità ecclesiale dal momento che questa è stata istituita perché tutti gli uomini giungano alla salvezza. La Chiesa ha un concetto di libertà ben diverso da quello proprio alla cultura laica e razionalistica: essa ritiene che l’uomo debba sempre riconoscere e rispettare la sua originaria dipendenza da Dio.

I diritti dei fedeli non si fondano, almeno direttamente, immediatamente ed esclusivamente nella natura umana, ma derivano dall’incorporazione al popolo di Dio. I diritti specifici dei cristiani non sono preesistenti alla Chiesa, ma sono conferiti dalla stessa attraverso il battesimo e gli altri sacramenti. E la Chiesa non ha come scopo primario di garantire la realizzazione dei diritti dei singoli, ma di assicurare la permanenza del mistero di Cristo nella storia. Tutto questo non toglie che i singoli cristiani abbiano dei diritti nella Chiesa, ma richiede che in essa qualunque diritto, come qualunque potere, venga esercitato in modo corrispondente allo spirito e alla finalità della comunità ecclesiale.

Questa esigenza è stata codificata dal canone 209: «i fedeli sono obbligati, anche con il loro modo di agire, a conservare sempre la comunione con la Chiesa», e specificata dalle norme che richiedono un diligente adempimento dei doveri verso la Chiesa, sia universale sia particolare e un esercizio dei diritti che tenga conto, oltre che dei propri doveri e degli altrui diritti, del bene comune della Chiesa. Ma per i cristiani, vivere in comunione con la Chiesa non è solo un dovere: è anche un diritto, di cui il canone 213 si preoccupa di precisare un aspetto quanto mai significativo: «i fedeli hanno diritto a ricevere dai sacri pastori l’aiuto dei beni spirituali della Chiesa, soprattutto della parola di Dio e dei sacramenti». Di più: vivere nella comunione non è uno tra i tanti diritti e doveri che spettano ai battezzati, ma costituisce l’unico diritto-dovere veramente fondamentale: riassume, sintetizza e qualifica tutti gli altri. La norma del canone 209 ha dunque una portata molto più ampia e generale di quanto possa apparire da una interpretazione meramente «letterale» e si comprende, quindi, agevolmente perché il legislatore abbia voluto collocarla all’inizio dell’enumerazione dei diritti e dei doveri dei cristiani, facendola precedere solo dall’affermazione della loro eguaglianza. Dispone, infatti, il canone 208: «tra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, vige una vera eguaglianza nella dignità e nell’azione con cui tutti, ciascuno secondo la condizione e la funzione propria, cooperano all’edificazione del Corpo di Cristo». Questa disposizione riflette quasi testualmente la costituzione «Lumen gentium» e sancisce una conseguenza giuridica di quell’appartenenza al popolo di Dio che, prima e al di là della distinzione tra laici, chierici e consacrati a Dio richiamata dal canone 207, accomuna tutti i battezzati.

3. ELENCO dei DIRITTI e dei DOVERI

Prima di passare a una rapida presentazione dei singoli e specifici diritti e doveri prospettati dai canoni 210-223, si impongono alcune precisazioni. Innanzitutto, tale elenco non può essere considerato esauriente: esso costituisce una formalizzazione positiva, e dunque storica e contingente, di principi di diritto divino. Di conseguenza non può essere interpretato in modo formale e legalistico, ma deve essere collocato nel contesto dell’immagine globale del fedele quale emerge dalla Rivelazione e dall’interpretazione autentica che ne propone l’autorità della Chiesa. Contro i progetti dei canoni in questione si sono appuntate diverse critiche. In particolare si è osservato che le evidenti deficienze di carattere sistematico non consentivano di cogliere il criterio seguito nell’enunciazione, e si è pure sottolineato che gli obblighi morali risultavano talvolta confusi con quelli giuridici, mentre i diritti dei fedeli non venivano sempre chiaramente distinti da quelli umani.

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Tali carenze si riscontrano anche nel testo del nuovo Codice, che può dar luogo a rilievi soprattutto per il tentativo di conciliare nelle stesse norme l’affermazione dei diritti dei singoli e la tutela delle prerogative dell’autorità. Particolarmente significativo in questo senso è il canone 223, che conclude il titolo dedicato ai diritti e ai doveri dei fedeli avvertendo: «all’autorità ecclesiastica compete moderare in funzione del bene comune l’esercizio dei diritti propri ai fedeli», mentre sarebbe stato opportuno precisare, accogliendo la proposta formulata da un gruppo di canonisti tedeschi, che ogni eventuale limitazione dei diritti fondamentali avvenisse per legge e sempre nel rispetto della loro sostanza. Peraltro, questi come gli altri limiti rilevabili, non devono far sottovalutare l’importanza e il significato delle norme in esame: non si tratta, infatti, di generiche affermazioni di principio, ma di vere e proprie norme giuridiche stabilite dal legislatore supremo. Di conseguenza, se l’autorità ecclesiastica ha il potere di regolare l’esercizio dei diritti dei fedeli, essa non può comportarsi come se non esistessero o fossero integralmente abbandonati alla sua discrezionalità. Ogni eventuale limitazione al loro esercizio dovrà avere carattere eccezionale ed essere giustificata da gravi e proporzionate ragioni.

Ai fini di una sintetica esposizione dei principali diritti e doveri dei fedeli enunciati dal Codice, si può innanzitutto ricordare l’obbligo di impegnare le proprie energie nel condurre una vita santa, incrementare la Chiesa e promuovere la sua continua santificazione, immediatamente completato dal diritto-dovere di adoperarsi perché la buona novella raggiunga in misura sempre maggiore gli uomini di tutti i tempi e della terra intera. Queste disposizioni, di carattere molto ampio e generale, trovano precise specificazioni nel riconoscimento del diritto di associazione e del diritto a promuovere e a sostenere, anche con proprie iniziative, l’azione apostolica.Circa le relazioni con la gerarchia, si afferma preliminarmente il dovere dei fedeli di seguire, con cristiana obbedienza e nella coscienza della propria responsabilità, quanto i sacri pastori insegnano come maestri nella fede o stabiliscono come guide della comunità.Al contempo si sottolinea la necessità di un rapporto veramente dialogico e non improntato a passività o mera sudditanza: non solo si afferma la libertà di manifestare le personali esigenze, soprattutto spirituali, ma si riconosce il diritto, che può diventare un dovere, di far conoscere ai pastori, secondo la propria scienza, competenza e prestigio, eventuali opinioni riguardanti il bene della Chiesa e di renderle note, sia pure nel rispetto di una serie di rigorose condizioni, agli altri fedeli.Altri diritti riguardano la giusta libertà di ricerca nelle scienze sacre l’immunità da qualunque coazione nella scelta dello stato di vita, il rispetto della propria buona fama e della propria intimità.È inoltre garantita ai fedeli la possibilità di difendere legittimamente i loro diritti davanti ai tribunali ecclesiastici, che devono giudicare secondo le norme giuridiche e le esigenze equitative e non possono punire nessuno se non nei casi e nei modi stabiliti dalla legge.

Va osservato che per quanto concerne i doveri dei fedeli, il legislatore si è per lo più limitato alle già menzionate indicazioni di carattere molto ampio e generale. Un’eccezione a questo orientamento si può riconoscere nel canone 222 che menziona l’obbligo di provvedere alle necessità economiche della Chiesa, di promuovere la giustizia sociale, di soccorrere i poveri.

4. Il DIRITTO di ASSOCIAZIONE

Il Vaticano II, pur affermando in modo chiaro il diritto di associazione dei fedeli, non ne ha proposto una definizione formale ed esauriente. Supplisce il nuovo Codice nel canone 215: «i fedeli hanno il diritto di liberamente fondare e guidare associazioni per fini di carità e di pietà e per favorire la vocazione cristiana nel mondo e a riunirsi per perseguire insieme questi fini». L’esercizio del diritto di associazione, traducendosi in forme di organizzazione «spontanea» della vita del popolo di Dio, può rivelarsi uno dei modi più efficaci con cui i fedeli partecipano alla missione della Chiesa. L’inequivocabile dettato del canone 215 ha imposto una radicale revisione di tutta la disciplina precedente e in questa riforma la commissione competente si è volutamente limitata ad alcune disposizioni di carattere generale per non ostacolare l’evoluzione delle associazioni che nel periodo post-conciliare hanno assunto un singolare sviluppo. A tale scopo, il Codice delinea innanzitutto una tipologia singolarmente ampia e dettagliata delle finalità che può proporsi un’associazione ecclesiale:

- favorire una maggior perfezione della vita, - promuovere il culto pubblico e la dottrina cristiana o altre opere di apostolato dirette alla evangelizzazione,

all’esercizio della pietà e della carità, all’animazione cristiana dell’ordine temporale. Si precisa che le singole associazioni possono essere composte da soli laici, da soli chierici, o anche da laici e chierici insieme. Quanto alla partecipazione dei religiosi, essa non viene esclusa, ma risulta subordinata al consenso del loro superiore, a norma delle costituzioni.

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In ogni caso, la Santa Sede e i vescovi diocesani hanno il diritto-dovere di vigilare sulla vita delle associazioni, preoccupandosi soprattutto dell’integrità della fede e dei costumi e del rispetto della disciplina.

Un’innovazione particolarmente significativa è la distinzione delle associazioni in - pubbliche - private.

Solo alle prime è riconosciuto il diritto di agire «in nome della Chiesa». Più larga risulta la disciplina sancita per le associazioni private: il diritto di associazione importa per i fedeli la libertà di costituire, con liberi accordi, associazioni di carattere privato che restano tali anche qualora vengano lodate o raccomandate dai pastori. Questa libertà incontra alcuni limiti di carattere generale: nessuna associazione può assumere la qualifica di «cattolica» se non con il consenso dell’autorità ecclesiastica a cui è comunque riservata l’istituzione delle associazioni che si propongano fini propri alla gerarchia. Il canone 299 dispone che nessuna associazione privata è riconosciuta nella Chiesa se i suoi statuti non sono rivisti dalla competente autorità ecclesiastica. La disposizione va interpretata nel senso che essa si limiti ad esigere tale revisione degli statuti come necessario presupposto di qualunque provvedimento formale con cui i pastori prendano ufficialmente atto dell’esistenza di una determinata associazione privata. Nelle altre disposizioni del Codice, la libertà delle associazioni private è sancita in termini inequivocabili. Esse, infatti, si reggono secondo i propri statuti ed eleggono autonomamente le cariche sociali. Lo stesso assistente spirituale, che necessita della conferma del vescovo, viene scelto liberamente tra i sacerdoti che esercitano legittimamente il ministero pastorale nella diocesi. Circa l’amministrazione dei beni, i poteri dell’autorità si limitano al controllo della loro effettiva destinazione ai fini statutari, controllo compreso in quel generale diritto-dovere di vigilanza su tutte le associazioni che e sancito dal canone 305, specificamente richiamato dal canone 323. Quest’ultima norma precisa anche che spetta alla gerarchia, nel rispetto dell’autonomia propria delle associazioni private, curare che si eviti la dispersione delle forze e l’apostolato sia sempre diretto al bene comune. Infine, il Codice tutela la libertà delle associazioni private anche riguardo all’eventualità della soppressione, poiché questo gravissimo provvedimento è consentito solo quando la loro azione risulti di grave danno alla dottrina e alla disciplina ecclesiastica o provochi scandalo tra i fedeli.

5. L’AUTONOMIA PRIVATA

Tutta la problematica relativa ai diritti fondamentali nella Chiesa attualmente in discussione implica e presuppone il riconoscimento dell’esistenza di una sfera di libertà dei singoli fedeli e conferisce, quindi, nuova attualità al dibattito relativo all’autonomia privata nell’ordinamento canonico. La questione ha dato luogo in passato a una netta divergenza di opinioni tra

- chi affermava che «non solo la distinzione di diritto pubblico e diritto privato deve considerarsi estranea all’ordinamento canonico, ma che tutto il diritto della Chiesa deve considerarsi come pubblico»,

- chi considerava questa tesi come «incomprensibile» e «ingiustificata», mentre, da altre parti, si cercava di comporre il contrasto avvertendo che «questo ordinamento superando le categorie del pubblico e del privato presenta un’unità nella quale è la sostanza dell’uno e dell’altro».

Tale interessante dibattito ha dato un rilevante contributo alla riflessione sulle «peculiarità» del diritto della Chiesa e può, per certi aspetti, considerarsi ancora pienamente attuale. In questi ultimi anni, infatti, nel quadro di un rinnovato interesse per il tema dell’autonomia privata, la scienza canonistica si è riproposta la questione della legittimità di ricorrere agli schemi elaborati dagli studiosi del diritto statuale, che, da parte loro, si rivelano tutt’altro che concordi circa il significato e il criterio della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato.È innegabile che molti dei problemi connessi con l’autonomia privata nel diritto della Chiesa attendano ancora una soluzione organica e adeguata sul piano scientifico a causa del disinteresse da cui sono stati a lungo circondati da parte degli studiosi e dello stesso legislatore.

Il nuovo Codice si propone di colmare questa lacuna dedicando agli atti giuridici un apposito titolo del libro I «Norme generali». A tale scopo, il legislatore definisce, innanzitutto, le condizioni di validità dell’atto giuridico, identificandole nella capacità della persona, nella presenza degli elementi costitutivi essenziali dell’atto stesso, nel rispetto delle solennità e dei requisiti stabiliti dal diritto sotto pena di nullità. Al contempo, sancisce una presunzione generale di validità per ogni atto che nei suoi elementi esterni sia compiuto nei modi dovuti. Inoltre, il canone 125 dispone specificamente che la violenza estrinseca e irresistibile (c.d. violenza fisica) importa nullità, mentre sia le minacce gravi e ingiuste sia il dolo hanno, di regola, il solo effetto di rendere possibile l’annullamento dell’atto ad opera del giudice. Quanto all’errore, esso determina invalidità solo se riguarda la sostanza dell’atto o si risolve in una condizione considerata dal suo autore come decisiva (condizione sine qua non) e rende

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possibile negli altri casi l’azione rescissoria, salvo che sia diversamente disposto. Le altre norme riguardano 1’invalidità degli atti compiuti dal superiore in violazione delle leggi che gli impongono di ottenere il consenso o di richiedere il parere di altre persone e stabiliscono un obbligo generale di risarcire i danni illegittimamente provocati dai propri atti.

6. LIMITI e SANZIONI

Il libero esercizio dei diritti da parte dei fedeli può essere limitato dalle sanzioni legittimamente inflitte dall’autorità ecclesiastica, come espressamente ricorda il Codice. La Chiesa, infatti, ritiene di avere un diritto proprio e originario ad irrogare sanzioni penali ai fedeli che commettano delitti. Quindi essa, come ogni società costituita, gode di quella potestà coattiva che è indispensabile per il mantenimento dell’ordine sociale. Ma il suo diritto è notevolmente diverso da quello degli ordinamenti statuali. Tale differenza risulta particolarmente evidente nel disposto del canone 1341 dove si prevede che il vescovo ricorra alle sanzioni penali solo dopo aver constatato che la correzione fraterna, i richiami e gli altri mezzi pastorali non sono sufficienti ad assicurare la riparazione dello scandalo, la reintegrazione della giustizia, l’emendazione del reo. In effetti, dal momento che lo scopo della Chiesa è quello di far sì che tutti i fedeli e, più in generale, tutti gli uomini raggiungano il destino a cui sono stati chiamati da Dio, il suo diritto penale, mentre si preoccupa della tutela dell’ordine sociale, si rivela particolarmente sensibile al valore della persona umana e attento alle specifiche condizioni e vicende di ogni singolo colpevole.

Nel quadro di un sintetico accenno al sistema penale canonico si può, innanzitutto, ricordare che il Codice definisce il delitto come la violazione esterna di una legge o di un precetto, gravemente imputabile a titolo di dolo o di colpa. Soggiace alla pena prevista solo la trasgressione compiuta deliberatamente; quella dovuta ad omissione della debita diligenza non viene punita salvo che la legge o il precetto dispongano diversamente.

Anche se il termine «legge» è qui assunto in senso lato (comprende non solo la legge vera e propria, universale e particolare, ma anche il precetto imposto ai singoli), questa disposizione sembra sancire nel diritto della Chiesa il divieto di punire taluno per un fatto che non sia espressamente previsto come reato dalla legge (nullum crimen sine lege). E tale interpretazione appare confermata dal riconoscimento del diritto dei fedeli ad essere puniti solo a norma di legge (can. 221) e in quel divieto di estensione analogica delle leggi penali (can. 19) che, di regola, implica il vigore del principio nullum crimen in un dato ordinamento. Qualunque trasgressione esterna di legge, sia divina sia umana, può esser sanzionata con una giusta pena se la speciale gravità della violazione lo esiga e vi sia la necessità di prevenire o di riparare lo scandalo. È evidente che questa norma di carattere generale comporta una sensibile riduzione delle garanzie che un’integrale applicazione del principio di legalità offrirebbe ai fedeli.

È affermata in modo assolutamente chiaro quella esigenza di limitare il più possibile il ricorso alle pene che già emerge dal canone 1321. Infatti il Codice, mentre prevede l’applicazione della legge posteriore più favorevole al reo, dispone che le pene vengano stabilite solo quando risultino veramente necessarie ad una miglior tutela della disciplina ecclesiastica, raccomandando che il precetto penale non venga emanato se non dopo attenta considerazione. Inoltre, richiede una necessità gravissima perché il legislatore particolare possa aggiungere altre pene a quelle previste da una legge universale.

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Quanto alla pena (che consiste nella privazione di qualche bene spirituale o temporale), essa può assumere forme e contenuti molteplici e differenziati. A seconda della loro finalità prevalente, le pene si distinguono in

- medicinali o censure, che mirano soprattutto alla correzione del reo - espiatorie, che si propongono principalmente la punizione del delitto.

Pene medicinali sono la scomunica: che esclude dalla partecipazione ministeriale a qualunque cerimonia di culto pubblico, dalla

celebrazione e dalla ricezione dei sacramenti, dall’esercizio di qualsiasi ufficio, ministero, funzione ecclesiastica come da ogni atto di governo;

l’interdetto: che vieta solo la partecipazione ministeriale alle cerimonie di culto e la celebrazione e ricezione dei sacramenti;

la sospensione: che proibisce ai chierici tutti o alcuni degli atti della potestà di ordine o di governo e l’esercizio di tutti o alcuni diritti e funzioni inerenti all’ufficio.

Pene espiatorie sono: il divieto o l’obbligo per chierici e religiosi di abitare in un luogo determinato; la privazione di una potestà, ufficio, funzione, diritto, privilegio, facoltà, grazia, titolo, insegna, anche se di

carattere puramente onorifico; la proibizione o limitazione del loro esercizio; il trasferimento a titolo di pena ad altro ufficio; la dimissione dallo stato clericale.

Altre pene espiatorie che siano consone al fine soprannaturale della Chiesa possono essere stabilite dalla legge. Vi sono, poi,

- i rimedi penali (come l’ammonizione, che può avere funzione preventiva o rivolgersi a chi sia gravemente sospetto di delitto, e la correzione di colui che con il suo comportamento provochi scandalo o grave turbamento dell’ordine)

- le penitenze che consistono nell’imposizione di un’opera di religione, pietà o carità.

In base al modo con cui vengono inflitte, le pene si distinguono in a) pene latae sententiae, in cui si incorre automaticamente per il fatto stesso di aver commesso il delitto, b) pene ferendae sententiae, che per essere applicate esigono l’intervento dell’autorità ecclesiastica.

Il Codice, mentre riserva e pene latae sententiae a pochissimi delitti, dispone che esse vengano stabilite dal legislatore eccezionalmente, per quei reati che provochino particolare scandalo e non possano essere altrimenti efficacemente sanzionati. Ordina, inoltre, che le censure, e soprattutto la scomunica, siano comminate con la massima moderazione ed esclusivamente per le violazioni più gravi. In ogni caso, il giudice o il superiore gode di una grande discrezionalità poiché la legge, quando non gli affida integralmente la determinazione dell’entità della giusta sanzione, gli riconosce, tra l’altro, il potere di mitigare le pene previste e persino di non irrogarle nel caso in cui il reo si sia emendato e lo scandalo sia state riparato oppure appaia sufficiente la punizione inflitta dall’autorità civile.

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7. I CHIERICI

Dalla loro destinazione all’insegnamento, alla santificazione e al governo del popolo di Dio, deriva per i chierici o sacri ministri (= quanti, cioè, hanno ricevuto il sacramento dell’ordine in almeno uno dei suoi gradi) una serie di diritti e di doveri che costituiscono il loro status personale. Innanzitutto i chierici, nel momento stesso in cui ricevono il diaconato, vengono «incardinati» in una determinata Chiesa particolare o in un determinato istituto di vita consacrata o società di vita apostolica alla cui autorità devono obbedienza e reverenza, accettando e adempiendo fedelmente gli incarichi che siano loro affidati.

Il Vaticano II, mentre riconosceva la necessità di mantenere l’istituto dell’incardinazione, ha auspicato una sua revisione in senso più rispondente alle esigenze dei tempi. A tale scopo la Santa Sede, udite le conferenze episcopali interessate, può erigere prelature personali per una più razionale distribuzione del clero o per attuare iniziative pastorali a favore di certe regioni o gruppi sociali. Tali prelature sono costituite dai presbiteri e diaconi del clero secolare che vengono in esse incardinati sotto l’autorità di un prelato come ordinario proprio, e possono avvalersi, mediante apposite convenzioni, della organica cooperazione di fedeli laici. I loro statuti vengono stabiliti direttamente dalla Santa Sede e devono disciplinare anche le modalità del rapporto con le Chiese particolari nelle quali la prelatura, previo consenso del vescovo diocesano, svolge la sua azione pastorale e missionaria. Inoltre, secondo il Codice, il vescovo diocesano non deve contrastare, salvo il caso di vera necessità della sua Chiesa particolare, quei chierici che, presentando i necessari requisiti, desiderino trasferirsi per esercitare il loro ministero in regioni dove il clero è gravemente insufficiente.

Queste innovazioni sono dettate anche dalla convinzione che la missione derivante dall’ordinazione non è limitata e ristretta ai confini di una diocesi, bensì partecipa all’universalità della missione degli apostoli e implica, di conseguenza, la sollecitudine per tutte le Chiese.

Tra i principali doveri evidenziati dal decreto «Presbyterorum Ordinis» e ribaditi dal Codice: il principale è quello di tendere alla perfezione della vita personale, svolgendo fedelmente e indefessamente il

proprio ministero e avvalendosi soprattutto dell’aiuto della Sacra Scrittura e dell’eucarestia. A tale scopo, è stabilito lo specifico obbligo di recitare lungo le ore della giornata l’ufficio divino, composto da brani tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento e da altri testi della letteratura ecclesiastica, e di dedicarsi periodicamente a ritiri di carattere spirituale.

Inoltre, i chierici devono approfondire lo studio delle scienze sacre nel solco della dottrina comunemente accolta dalla Chiesa e proposta dal magistero, avvalendosi degli strumenti istituiti a questo fine e senza trascurare le altre discipline utili nello svolgimento del ministero pastorale.

Nella Chiesa latina a tutti i chierici (ad eccezione degli uomini sposati in età matura che siano ammessi al diaconato) incombe l’obbligo del celibato sancito da una legge che prevede, per la sua violazione, oltre alla nullità del matrimonio, gravi pene (dalla sospensione latae sententiae alla dimissione dallo stato clericale.

Da quest’obbligo deriva il dovere di comportarsi con prudenza in quei rapporti personali che possano porre in pericolo la continenza o suscitare scandalo tra i fedeli.

I chierici hanno l’obbligo di portare l’abito ecclesiastico secondo le disposizioni del diritto particolare e astenersi da tutte quelle professioni, attività e comportamenti incompatibili o comunque poco consoni al loro stato (es. non possono accettare cariche pubbliche che importino partecipazione all’esercizio della potestà civile).

Hanno il compito adoperarsi sempre e con tutte le forze perché tra gli uomini si mantengano una pace e una concordia fondate sulla giustizia.

Per quanto concerne la sfera economica, il Codice sancisce per i chierici l’obbligo di condurre una vita semplice, esortandoli anche a destinare al bene della Chiesa e ad opere di carità la parte dei redditi di natura ecclesiastica che ecceda le necessità di un onesto sostentamento e dell’adempimento dei doveri del proprio stato.

Speciale attenzione è dedicata dal Codice alle relazioni tra i chierici che, collaborando tutti all’edificazione del corpo di Cristo, sono caldamente invitati a mantenersi uniti nella fraternità e nella preghiera, ad aderire a quelle associazioni che

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favoriscono la santità della vita nell’esercizio del ministero, a praticare forme di vita comune.

Circa i diritti: solo i chierici possono ottenere gli uffici che richiedono l’esercizio della potestà di ordine o di governo

ecclesiastico. I chierici, in quanto si dedichino al ministero ecclesiastico hanno diritto, oltre alle prestazioni assistenziali e

previdenziali, ad una remunerazione adeguata che tenga conto sia della natura della funzione concretamente esercitata sia delle condizioni dei luoghi e dei tempi, e che consenta di provvedere alle esigenze personali e alla retribuzione del personale di cui vi sia necessità.Per garantire l’effettiva attuazione di questo diritto, il Codice prevede la creazione in ogni diocesi di uno «speciale istituto» che raccolga beni ed offerte da destinare al sostentamento del clero. Quanto alla previdenza sociale, se essa non è già sufficientemente assicurata, provvede la conferenza episcopale mediante un apposito istituto.

Il codificatore, rendendosi conto delle difficoltà che si presentano a tale riguardo soprattutto nei paesi a regime concordatario, ha ritenuto di dover procedere con cautela in questa riforma del diritto patrimoniale della Chiesa.Infatti, il canone 1272 prevede che là dove esistono ancora benefici propriamente detti (= entità patrimoniali dotate di personalità giuridica e annesse ai singoli uffici allo scopo di assicurare con i loro redditi il mantenimento dei rispettivi titolari), la conferenza episcopale provveda a disciplinarli con opportune norme concordate con la Santa Sede e da lei approvate in modo che i redditi, e in quanto possibile i loro stessi beni, siano gradualmente trasferiti all’istituto speciale per il sostentamento del clero della diocesi.

Tutte queste situazioni attive e passive (ad eccezione dell’obbligo del celibato per cui occorre dispensa pontificia) vengono meno con la perdita della stato clericale che può verificarsi:

- per sentenza giudiziaria o decreto amministrativo che dichiari l’invalidità della ordinazione, - a causa della pena della dimissione legittimamente inflitta o di un apposito rescritto della Santa Sede che viene

concesso ai diaconi solo per grave causa e ai presbiteri solo per gravissima causa. Colui che ha perduto lo stato clericale decade immediatamente da tutti gli uffici e funzioni ricoperti, e da qualunque potestà delegata che gli sia stata conferita. Rimane il potere d’ordine acquisito con l’ordinazione sacerdotale, ma gli atti sacramentali eventualmente compiuti sono gravemente illeciti. L’assoluzione dai peccati è da considerarsi invalida, salvo che sia impartita a penitenti in pericolo di vita: in tal caso, oltre che valida, risulta pienamente lecita.

8. I LAICI

Il Vaticano II e il Codice prospettano 2 diverse nozioni di laico: 1) il primo qualifica come laici «tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso

riconosciuto dalla Chiesa»;2) il secondo ritiene tali i battezzati che non hanno ricevuto il sacramento dell’ordine e quindi anche quanti tra

essi abbiano abbracciato una forma di vita consacrata. La divergenza è di carattere terminologico:

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- da un lato, il Concilio non intendeva definire la questione sotto il profilo dottrinale, ma semplicemente precisare in quale significato adottava il termine,

- dall’altro, il Codice distingue chiaramente i laici consacrati a Dio da quelli che non hanno ritenuto di optare per tale scelta di vita.

Il codificatore ha rinunciato a delineare la figura del laico nei tratti che la caratterizzano positivamente.

La costituzione «Lumen gentium» avverte che, mentre i chierici sono destinati al sacro ministero e i religiosi conducono un’esistenza diversa dalla comune per una più evidente testimonianza evangelica, i laici vivono nel «secolo», sono cioè implicati nelle questioni e nei problemi di questo mondo con tutti i doveri e le preoccupazioni derivanti dalle responsabilità della vita familiare e sociale. La loro vocazione è quella di ordinare le realtà temporali secondo il disegno di Dio e di rendere presente la Chiesa nelle diverse circostanze e ambiti in cui vengono a trovarsi. Tale secolarità non può tuttavia considerarsi una sua caratteristica esclusiva. Innanzitutto, poiché tutta la Chiesa vive in questo mondo, ogni fedele partecipa, secondo la propria condizione personale, alla sua dimensione secolare. Di conseguenza, la nota propria e peculiare dei laici non è la secolarità tout court, quanto la specifica modalità di realizzarla descritta nei testi sopra ricordati. In secondo luogo non è escluso che anche i chierici, come «compito aggiuntivo o eccezionale», svolgano attività ed esercitino professioni di natura secolare (ad es., vi sono sacerdoti che insegnano discipline non ecclesiastiche nelle scuole e nelle università).

Se i laici sono i «comuni» fedeli, i doveri e i diritti loro propri non possono essere altro che applicazioni e specificazioni dei doveri e dei diritti che competono indistintamente a tutti i battezzati. Si comprende, quindi, come la commissione codificatrice abbia avuto dubbi e perplessità circa l’opportunità di enunciarli in un apposito elenco. Ha poi finito con l’optare per una soluzione positiva per ragioni di carattere pratico e pedagogico: poiché il nuovo Codice, in ossequio all’ecclesiologia conciliare, si proponeva di valorizzare il laicato, non poteva assolutamente mancare un titolo apposito e sufficientemente ampio. Inoltre dal momento che lo status di laico è la condizione più diffusa tra i battezzati, una sua precisa e articolata descrizione avrebbe facilitato una miglior comprensione del significato e della rilevanza delle disposizioni riguardanti tutti i fedeli.

Queste considerazioni possono spiegare la scarsa omogeneità e organicità dei relativi canoni. Alcune norme sono semplici «richiami» delle disposizioni circa l’apostolato e l’educazione cristiana dei fedeli nella prospettiva di quella secolarità che è propria del laicato. In particolare, il canone 225 sottolinea la responsabilità dei laici nel campo della evangelizzazione e il canone 229 sancisce il loro diritto-dovere di acquisire una conoscenza della dottrina cristiana proporzionata alla capacità ed alla condizione di ciascuno, anche mediante la frequenza degli istituti superiori di scienze sacre per conseguirvi i gradi accademici. Altre disposizioni si occupano dei coniugati e, di conseguenza, non interessano tutti i laici e riguardano anche un certo numero di chierici, data la possibilità degli sposati di accedere all’ordine sacro nel diaconato permanente. Solo i canoni 225 e 227 contemplano doveri-diritti che competono in modo esclusivo a tutti i laici in quanto contraddistinti dalla condizione secolare:

- il primo sancisce il loro «specifico dovere» di «animare e perfezionare», secondo la propria condizione personale, «l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico e di rendere così testimonianza a Cristo, particolarmente nel trattare tali realtà e nello svolgimento dei compiti secolari»;

- il secondo precisa che i laici, nell’adempimento di questa missione connaturata alla loro indole secolare, godono «nella realtà della città terrena» di «quella libertà che compete ad ogni cittadino».

Tutti gli altri canoni di questo titolo del Codice concernono, direttamente o indirettamente, la capacità dei laici di essere chiamati dalla gerarchia a svolgere funzioni e a ricoprire uffici che non siano riservati ai chierici. Non si può a questo proposito parlare di un vero e proprio diritto: l’assunzione di tali responsabilità da parte di un numero necessariamente ridotto di laici richiede una «idoneità» non meglio precisata ed è comunque subordinata ad una libera decisione della competente autorità ecclesiastica.

Restano riservate ai chierici tutte le funzioni che richiedono il potere d’ordine, mentre per quelle che importano l’esercizio della potestà di governo, le prescrizioni del Codice non sono del tutto chiare e univoche.È inevitabile riconoscere che il legislatore non è riuscito a pervenire ad una soluzione lineare e organica del problema che ha costituito una delle maggiori difficoltà incontrate dal processo di codificazione. La materia implica, infatti, delicate questioni di carattere teologico, non ancora del tutto definite dal magistero, circa il rapporto tra il potere di ordine e quello di giurisdizione.

In ogni caso, il Codice precisa, sia pure in modo molto generale, i doveri e i diritti dei laici chiamati a prestare, in modo

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permanente o temporaneo, uno specifico servizio alla comunità ecclesiale. Il canone 231 esige che acquisiscano la formazione necessaria per un corretto adempimento dell’incarico ricevuto e riconosce, in linea di massima, il diritto ad una onesta remunerazione che tenga conto delle condizioni personali e familiari e garantisca le prestazioni assistenziali e previdenziali. Per il resto, il titolo del Codice dedicato ai diritti e ai doveri dei laici si limita ad alcune disposizioni relative a specifiche funzioni che possono essere loro affidate (es. il consiglio e la consulenza all’autoritaà ecclesiastica, l’insegnamento delle scienze sacre, il ministero di lettore e di accolito, certi compiti temporanei nelle celebrazioni liturgiche, la supplenza alla mancanza dei sacerdoti nel ministero della parola, nella presidenza delle preghiere liturgiche, nel conferimento del battesimo, nella distribuzione della comunione).

Il nuovo Codice ha operato un’imponente valorizzazione del laicato.

9. LA VITA MATRIMONIALE

Il Vaticano II, illustrando la missione dei laici nella vita della Chiesa il «grande valore» e la specifica importanza della vita matrimoniale e familiare. La condizione giuridica dei coniugati costituisce un vero e proprio status personale dal momento che importa un complesso di precisi diritti e doveri.

All’esposizione di tali posizioni soggettive (proprie di chi ha contratto matrimonio) è opportuno premettere un cenno alla concezione e alla struttura giuridica dell’istituto matrimoniale, quali risultano dalla vigente normativa canonica e dall’insegnamento dell’ultimo Concilio.

Per la Chiesa cattolica il matrimonio è, innanzitutto, un istituto naturale: un istituto che rispondendo alle esigenze originarie della natura umana, è determinato nella sua struttura giuridica essenziale dal diritto divino naturale, e ha dunque per «autore» Dio stesso, come espressamente afferma la costituzione conciliare «Gaudium et spes».

Il matrimonio tra i battezzati è stato, poi, elevato da Cristo alla dignità di sacramento, divenendo così segno visibile attraverso cui si comunica la vita divina e si realizza la missione di salvezza della Chiesa. Da tale «sacramentalità» derivano importanti conseguenze in quanto

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- da un lato, essa fonda la competenza della Chiesa a disciplinare il matrimonio tra i battezzati, specificando e integrando quanto stabilito dal diritto naturale;

- dall’altro, esclude che tra fedeli vi possa essere un valido matrimonio che non sia anche sacramento.In pratica, secondo la dottrina cattolica, nessun fedele può contrarre matrimonio se non nelle forme e nei modi stabiliti dal diritto canonico e che la competenza dello Stato si limita agli effetti meramente civili.

Una definizione dell’istituto matrimoniale nella sua essenza si presenta tutt’altro che semplice sia per la varietà e la ricchezza dei suoi contenuti, sia per le diverse accezioni in cui il termine viene assunto. Per «matrimonio» infatti si intende comunemente

- sia l’atto costitutivo o iniziale della relazione coniugale (matrimonio in fieri), - sia il rapporto permanente e il vincolo stabile che ne derivano (matrimonio in facto).

Nel primo senso (matrimonio in fieri) il matrimonio è un patto che nasce dal consenso delle parti manifestato nelle forme previste dal diritto tra persone che ne siano giuridicamente capaci. Tale consenso non può essere sostituito da nessun potere umano, essendo l’atto di volontà con cui un uomo e una donna per mezzo di un patto irrevocabile si donano e si ricevono reciprocamente per costituire il matrimonio. La relazione così stabilita è qualificata dal Concilio come «intima comunità di vita e di amore», «mutua donazione», «comunione di tutta la vita». Le caratteristiche e la specificità della relazione coniugale risultano particolarmente evidenti se si considerano i fini e le proprietà essenziali del matrimonio, quali risultano dall’insegnamento conciliare e dalla normativa vigente. Il Codice pio-benedettino riconosceva il fine primario del matrimonio nella procreazione e nell’educazione della prole, identificando il fine secondario nel mutuo aiuto tra i coniugi e nel «rimedio della concupiscenza» (= nella lecita soddisfazione dell’istinto sessuale). Il Concilio, pur affermando espressamente l’esistenza di diverse finalità istituzionali, non ha ritenuto di doversi addentrare in questa complessa problematica: non ha voluto né prospettare un elenco organico e completo di tali fini, né indicare una rigida gerarchia tra gli stessi. La costituzione «Gaudium et spes», infatti, si limita a ricordare che «per sua indole naturale, l’istituto stesso del matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati alla procreazione e all’educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento» e menziona, quasi incidentalmente, il «mutuo aiuto e servizio» e gli altri fini, che non devono comunque essere trascurati o sottovalutati, soffermandosi invece ampiamente sull’importanza ed il significato dell’amore coniugale che non costituisce un fine specifico, ma il «principio motore» di tutta la vita matrimoniale e familiare.

Alla luce di questo insegnamento conciliare, il nuovo Codice preferisce non occuparsi direttamente dei fini del matrimonio e della loro gerarchia e ritiene sufficiente una definizione legislativa dell’istituto che lo presenta come il consorzio di tutta la vita tra un uomo e una donna, per natura sua ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole. Se ne può dedurre che la Chiesa non ha inteso introdurre radicali innovazioni di carattere dottrinale e disciplinare a questo proposito, ma ha superato la tradizionale impostazione del problema, preferendo insistere più sull’essenza della vita matrimoniale che sulle sue specifiche finalità.

Circa le «proprietà» del matrimonio, la costituzione «Gaudium et spes» avverte che la «intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esige la piena fedeltà dei coniugi e ne reclama l’indissolubile unità».Coerentemente, il nuovo Codice identifica le proprietà essenziali del matrimonio nell’unità e nell’indissolubilità che nel matrimonio cristiano trovano una particolare consistenza in forza del sacramento . Grazie alla proprietà dell’unità, il matrimonio si instaura tra un solo uomo e una sola donna, con esclusione di qualunque forma di poligamia e di poliandria e di ogni relazione sessuale con terzi (obbligo della fedeltà). L’ indissolubilità impedisce che il matrimonio possa essere sciolto per volontà dei coniugi o per circostanze sopravvenute, ad eccezione della morte, o per intervento dell’autorità (salvo che nei casi di scioglimento da parte del pontefice del matrimonio tra battezzati che non sia stato consumato) e di scioglimento del matrimonio contratto tra non battezzati ad opera del pontefice in forza del cosiddetto privilegio paolino). II matrimonio rato (=avente natura sacramentale) e consumato non può, dunque, mai essere sciolto.

Risulta evidente che la Chiesa ha una propria e specifica concezione del matrimonio che si differenzia nettamente da altre diffuse concezioni, teoricamente formulate o praticamente attuate nel mondo contemporaneo. In questo campo si pongono oggi, sia ai singoli fedeli sia alle autorità ecclesiastiche, gravi problemi a cui accenna l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II «Familiaris consortio» del 1981, rilevando come nel mondo d’oggi la famiglia, accanto ad aspetti positivi, presenti «segni di preoccupante degradazione di alcuni valori fondamentali: un’errata concezione teorica e pratica dell’indipendenza dei coniugi fra di loro; le gravi ambiguità circa il rapporto di autorità fra genitori e figli; le difficoltà concrete che la famiglia spesso sperimenta nella trasmissione dei valori; il numero crescente dei divorzi; la piaga dell’aborto; il ricorso sempre più frequente alla sterilizzazione; l’instaurarsi di

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una vera e propria mentalità contraccettiva». Siffatta situazione obbliga la Chiesa a tenere precisamente conto dei «segni dei tempi», sia formulando il suo insegnamento in modo più attento alla sensibilità degli uomini contemporanei, sia impegnandosi con i nuovi problemi. Significativa in questo senso è la decisione di Giovanni Paolo II di istituire presso la Santa Sede un Consiglio per la famiglia.

Dalla concezione cattolica del matrimonio e dalla relativa disciplina canonistica emerge quel complesso di diritti e di doveri che costituisce lo status personale dei fedeli che hanno celebrato tale sacramento. I diritti e i doveri dei coniugi sono mutui: al diritto di un coniuge corrisponde un dovere dell’altro e viceversa. Marito e moglie hanno gli stessi diritti e doveri per quanto concerne il consorzio della vita coniugale.Tra i principali diritti-doveri dei coniugi:

quelli attinenti alla loro «missione propria» «di essere cooperatori dell’amore di Dio creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla» e specialmente il dovere gravissimo e diritto primario di assicurare per quanto possibile l’educazione fisica, sociale, culturale, morale e religiosa dei figli.

Per quanto, poi, specificamente concerne la comunità di vita e di amore che consente ai coniugi di adempiere la loro missione, va sottolineato il diritto-dovere di realizzare un consorzio che implica l’obbligo della convivenza e della più assoluta fedeltà e tende al mutuo perfezionamento spirituale e materiale.

Infine, i doveri nei confronti della Chiesa e della società umana, sinteticamente enunciati in vari documenti conciliari. In particolare il decreto «Apostolicam actuositatem» impegna i coniugi cristiani a «manifestare e comprovare, con l’esempio della propria vita, l’indissolubilità e la santità del vincolo matrimoniale; affermare con fortezza il diritto e il dovere che spetta per natura ai genitori e ai tutori di educare cristianamente la prole; difendere la dignità e la legittima autonomia della famiglia», collaborando «con gli uomini di buona volontà, affinché nella legislazione civile siano sanciti e difesi questi sacri diritti». L’esortazione apostolica «Familiaris consortio» ricorda che la famiglia cristiana «è posta al servizio dell’edificazione del regno di Dio nella storia, mediante la partecipazione alla vita e al mistero della Chiesa» e nello stesso senso, ma più sinteticamente, il Codice afferma che il matrimonio e la famiglia devono essere vissuti in funzione dell’edificazione del popolo di Dio.

Lo status matrimoniale importa anche delle incapacità: chi è già legato da vincolo coniugale non può contrarre un altro matrimonio; nella Chiesa latina i coniugati non possono accedere al sacerdozio a causa di una incapacità sancita dalla

tradizione; lo stato matrimoniale è, per definizione, incompatibile con quello di vita consacrata.

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10. LA VITA CONSACRATA

Fin dai primi secoli della Chiesa numerosi fedeli avvertirono l’esigenza di non limitarsi ad osservare i precetti comuni a tutti i cristiani, ma di impegnarsi a seguire con maggior libertà Cristo, imitandone più da vicino l’esempio di vita. Di conseguenza molti, uomini e donne, si consacrarono (ancora oggi si consacrano) in modo speciale al Signore nella professione dei 3 consigli evangelici

1) di castità, che implica la perfetta continenza nel celibato;2) di povertà, che implica la dipendenza e la limitazione nell’uso e nella disponibilità dei beni terreni;3) di obbedienza, che implica la sottomissione della volontà ai legittimi superiori.

Tale status di vita consacrata, è caratterizzato non dalla destinazione a determinate attività ecclesiali (come quello clericale), ma da una particolare modalità della vita personale. Esso, quindi, appartiene alla vita e alla santità della Chiesa in quanto segno efficace che preannuncia il compimento del Regno dei cieli, ma non concerne la sua struttura gerarchica e non costituisce una condizione intermedia tra i chierici e i laici, potendo essere abbracciato sia dai primi che dai secondi.

Secondo la disciplina del Codice, appartengono allo stato di vita consacrata quanti, negli istituti appositamente eretti dall’autorità ecclesiastica, professano i consigli evangelici secondo gli impegni liberamente assunti con pubblici voti (=con pubbliche promesse fatte a Dio), o negli altri modi previsti dalle norme dei singoli istituti (le c.d. costituzioni). Nella Chiesa esistono numerosi istituti che si differenziano sensibilmente nello spirito e nelle finalità, dalle forme di vita che vengono concretamente assunte. Agli istituti di vita consacrata vengono assimilate le società di vita apostolica, i cui membri perseguono, senza voti religiosi, un determinato fine di carattere apostolico, vivendo in comunità. Gli istituti di vita consacrata si distinguono in:

- clericali, che assumono l’esercizio dell’ordine sacro, - laicali, privi di tale caratterizzazione.

Sotto un diverso profilo si distinguono in: - istituti di diritto pontifico, eretti o approvati con formale decreto dalla Santa Sede, - istituti di diritto diocesano eretti dal vescovo senza che abbia fatto seguito l’approvazione pontificia.

Tutti gli istituti oggi esistenti sono nati sotto la spinta della volontà e dell’iniziativa individuale di un fondatore sì che, nonostante i tentativi compiuti in passato dalla Santa Sede per introdurre in questo campo una certa razionalizzazione, coordinazione e programmazione, si può affermare che una concezione pluralistica dell’uomo e della sua vocazione ha generalmente presieduto al loro sviluppo e alla loro organizzazione. Il nuovo Codice riconosce espressamente il valore del carisma personale che ha dato origine a ogni singolo istituto, disponendo che tutti i suoi membri si attengano fedelmente alle intenzioni del fondatore. L’autorità ecclesiastica (cui compete interpretare i consigli evangelici, disciplinarne la pratica, approvarne le forme stabili e concrete di attuazione), deve preoccuparsi che gli istituti crescano e si sviluppino secondo lo spirito del fondatore e le loro sane tradizioni. A tal fine, è necessario che abbiano una giusta autonomia di vita e di governo, che consenta loro di conservare intatto il proprio patrimonio spirituale e di avvalersi di una propria e specifica disciplina nell’ambito della Chiesa.

Quanto al governo, esso è assicurato da autorità individuali, i superiori, e collegiali, i capitoli, che negli istituti clericali di diritto pontificio hanno potestà di governo in foro sia esterno sia interno e negli altri istituti esercitano quei più

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ristretti poteri che siano loro attribuiti dal diritto universale e dalle costituzioni. Gli istituti di vita consacrata, in quanto dedicati al servizio di Dio e della Chiesa intera, sono soggetti alla Santa Sede: i loro membri, anche in forza del voto pronunciato, devono obbedienza al papa come supremo superiore. In particolare,

- il regime interno e la disciplina degli istituti di diritto pontificio, dipendono immediatamente ed esclusivamente dalla Santa Sede,

- quelli di diritto diocesano restano affidati alla particolare cura del vescovo.Per quanto concerne la cura delle anime, l’esercizio pubblico del culto divino e le altre opere di apostolato, tutti gli istituti indistintamente soggiacciono alla potestà del vescovo diocesano.

Il Codice dedica ampia attenzione agli istituti religiosi, disciplinando accuratamente i diversi aspetti della loro vita. Distingue precisamente i loro superiori in

- maggiori: come i «supremi moderatori» preposti ad un intero istituto o i «provinciali» che sovrintendono a più case,

- minori: a cui incombono più limitate responsabilità. Di regola, le autorità periferiche, ed in particolare i padri provinciali, non sono semplici organi di trasmissione ed esecuzione delle decisioni delle autorità centrali, ma godono di un largo spazio di iniziativa e autodeterminazione, attuando così una forma di «decentramento burocratico gerarchizzato» che tende anche a realizzare una partecipazione molto ampia. E a questo scopo si prevede che il capitolo generale sia formato in modo da rappresentare effettivamente tutto l’istituto e che ogni membro possa liberamente fargli presenti desideri e suggerimenti. Qualunque fedele cattolico può essere ammesso in un istituto di vita consacrata purché abbia retta intenzione, possegga i requisiti necessari e riceva una congrua preparazione. Per gli istituti religiosi è specificamente richiesto il noviziato = un periodo di almeno 1 anno da trascorrersi in un’apposita casa in cui il candidato si prepara alla vita che desidera abbracciare e comincia a praticarla a tutti gli effetti, mettendo così alla prova le proprie capacità e intenzioni. Al termine del noviziato, se viene giudicato idoneo, è ammesso alla professione dei voti temporanei e solo dopo almeno 3 anni, può pronunciare quelli perpetui. Con la professione si acquisisce lo stato religioso che implica una serie di diritti e di doveri. Tra i doveri si possono ricordare:

- l’obbligo generale di avere come suprema regola di vita il seguire l’esempio di Cristo,- l’assiduità nella preghiera e nella meditazione, - la partecipazione quotidiana al sacrificio eucaristico, - gli esercizi spirituali ogni anno, - le obbligazioni derivanti dai voti (es. il voto pubblico di castità perpetua emesso in un istituto religioso importa

la nullità dell’eventuale successivo matrimonio). Quanto ai diritti: gli istituti devono fornire ai loro membri tutto ciò che, a norma delle costituzioni, sia necessario al conseguimento del fine della loro vocazione.

Il Codice prevede anche la possibilità di vocazioni alla vita consacrata che si possono definire individuali = si realizzano fuori dall’ambito di un istituto. È infatti espressamente menzionata la vita eremitica o anacoretica in cui certi fedeli, ritirandosi totalmente dal mondo, dedicano la loro esistenza alla lode di Dio e alla salvezza del mondo, nel silenzio della solitudine, nella preghiera e nella penitenza. L’eremita viene giuridicamente riconosciuto come consacrato a Dio qualora si impegni ai tre consigli evangelici pubblicamente nelle mani del vescovo diocesano e si attenga alla forma di vita prescelta sotto la guida di quest’ultimo. Sono pure ricordate quelle vergini che, senza entrare a far parte di un istituto, vengono consacrate a Dio dal vescovo mediante un apposito rito liturgico che le rende misticamente spose di Cristo e le impegna al servizio della Chiesa.

La disciplina fin qui descritta risulta sotto diversi profili sensibilmente diversa da quella sancita nel precedente Codice. Per valutare adeguatamente le innovazioni, occorre tenere presente la crisi che dopo il Concilio si è venuta manifestando tra i religiosi e che riguarda non tanto la vita religiosa in sé, quanto le forme istituzionali che essa ha assunto negli ultimi secoli. Infatti, mentre alcuni istituti si trovano in difficoltà a causa della diminuzione delle vocazioni e dell’aumento delle defezioni o suscitano preoccupazioni nella Santa Sede per gli atteggiamenti assunti dai loro membri, si assiste all’imponente sviluppo di famiglie religiose di recentissima fondazione e al moltiplicarsi di nuove esperienze di vita consacrata sia all’interno degli istituti riconosciuti sia al di fuori di essi. Alla luce di questa situazione sembra doversi pienamente condividere l’orientamento di fondo della nuova legislazione che ha preferito sottolineare «più la tipologia spirituale della vita consacrata che le forme istituzionali da essa prese fino a ora», manifestando anche una certa apertura nei confronti dell’«apparizione di nuove forme di vita consacrata», la cui approvazione è comunque riservata alla Santa Sede. Qualche osservazione specifica si impone a proposito delle religiose: tra esse la crisi ha assunto aspetti peculiari a causa dell’intrecciarsi dei problemi concernenti la vita consacrata con quelli relativi alla promozione della donna nella vita

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della Chiesa. Il fenomeno ha assunto particolare rilievo negli Stati Uniti dove molte suore hanno rivendicato un ruolo meno subalterno e più corresponsabile nell’attività pastorale unitamente alla possibilità di una più adeguata formazione culturale e professionale, sollevando anche la questione del conferimento alle donne del sacerdozio o, almeno, del diaconato. Alcune di queste richieste esigono da parte delle autorità ecclesiastiche un cambiamento di mentalità e di atteggiamento che in alcuni luoghi e in una certa misura si è già realizzato. Altre, invece, implicano profonde modifiche della disciplina della Chiesa che sembrano assolutamente improbabili a causa della recisa posizione assunta in merito dalla Santa Sede. Circa poi la questione del diaconato femminile va osservato che oggi, di fatto, le donne sono escluse non solo dai tre gradi del sacramento dell’ordine bensì anche dai ministeri del lettorato e dell’accolitato, benché sia loro consentito, in determinate circostanze, distribuire la comunione. Una più favorevole accoglienza hanno trovato le richieste dirette a far cessare ogni forma di tutela sugli istituti femminili che implichi una loro discriminazione rispetto a quelli maschili: il nuovo Codice dispone espressamente che le norme relative ai membri degli istituti di vita consacrata riguardano identicamente ambedue i sessi, salvo che dal contesto del discorso o dalla natura dell’argomento risulti diversamente.

11. I NON BATTEZZATI

La condizione giuridica dei non battezzati è alquanto controversa: 1) alcuni ritengono che essi, in quanto persone fisiche, possano essere titolari di diritti e doveri nell’ambito

dell’ordinamento canonico, 2) altri negano tale loro capacità.

Le 2 tesi presuppongono una diversa interpretazione del canone 96 (secondo cui l’uomo diventa persona nella Chiesa con il battesimo) che per la prima si limiterebbe a definire l’appartenenza al popolo di Dio, mentre per la seconda

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disciplinerebbe la capacità giuridica delle persone fisiche riservandola ai battezzati. Anche se tutti riconoscono ai non battezzati nell’ambito del diritto naturale i diritti e i doveri propri di ogni persona umana, la questione implica il più vasto problema dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei non cristiani e importa evidenti conseguenze sull’effettiva tutela dei loro diritti umani nell’ambito dell’ordinamento canonico. Infatti, le leggi ecclesiastiche possono interessare direttamente e concretamente anche i non cristiani, come avviene ad esempio nella disciplina dei matrimoni tra fedeli e non battezzati, mentre resta aperto il problema se la Chiesa, in considerazione della sua universale missione di salvezza, abbia qualche potere nei confronti dei non battezzati.

La tesi che afferma la capacità giuridica dei non battezzati appare più aderente alla disciplina del Codice che, nel canone 96, assume chiaramente l’espressione «persona nella Chiesa» come equivalente a quella di «membro della Chiesa», riconnettendo a tale qualifica, che si acquisisce con il battesimo, la titolarità dei diritti e dei doveri propri, specifici ed esclusivi dei cristiani, e in altre norme riconosce la capacità dei non battezzati a porre in essere atti giuridicamente rilevanti, come agire in giudizio o amministrare il battesimo in caso di necessità. Il Vaticano II ha espressamente insegnato che quanti non hanno ancora ricevuto il Vangelo sono chiamati e in vari modi ordinati al popolo di Dio, sottolineando ripetutamente il dovere della Chiesa, derivante dalla stessa missione apostolica, di annunciare a tutti gli uomini la salvezza portata da Cristo. Su queste basi si può sostenere l’esistenza di un vero e proprio diritto di ogni persona umana ad essere istruita nella dottrina cristiana e a ricevere il battesimo qualora lo desideri e abbia le necessarie disposizioni. Anche in questo caso, infatti, deve essere rispettata la libertà religiosa: a nessuno è lecito costringere altri ad abbracciare la fede cattolica contro la loro coscienza.

Più in generale: la dichiarazione «Nostra aetate» (riguardante le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane), richiamandosi alla fraternità universale degli uomini, ha dichiarato priva di fondamento e contraria alla volontà di Cristo ogni teoria o prassi che per motivi di religione introduca una qualsiasi discriminazione tra uomo e uomo in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne derivano. Da questo principio di carattere universale, valido per ogni organizzazione sociale, sembra potersi dedurre l’impossibilità di negare ai non battezzati la capacità ad essere titolari nell’ordinamento canonico di quelle posizioni giuridiche attive e passive che siano proprie delle persone fisiche in genere e non derivino dallo status di fedele.

È, infine, necessario ricordare che tra i non battezzati, i catecumeni (= quanti hanno abbracciato la fede cristiana e si stanno preparando al battesimo mediante una graduale introduzione nella vita del popolo di Dio) hanno uno specifico status giuridico: il canone 206 dispone che essi per il loro desiderio di essere incorporati al popolo di Dio e per la loro vita di fede, speranza e carità sono uniti «speciali ratione» alla Chiesa e, di conseguenza, godono di diverse prerogative proprie dei cristiani.

12. LE PERSONE GIURIDICHE

Per completare la trattazione relativa alle persone è necessario accennare anche a quei centri di imputazione di situazioni giuridiche che sono diversi dai singoli fedeli. Nel diritto canonico questa problematica assume una singolare importanza, in quanto investe direttamente la costituzione della Chiesa. Infatti, il canone 113 afferma che la Chiesa Cattolica e la Santa Sede sono persone morali per disposizione dello stesso diritto divino.

Il Codice stabilisce in merito vari principi, ricordando innanzitutto che nella Chiesa esistono, oltre alle persone fisiche, le persone giuridiche che sono titolari di diritti e doveri compatibili con la loro natura. La personalità giuridica si acquisisce

- per disposizione legislativa (come avviene per le conferenze episcopali, le province ecclesiastiche, le diocesi, le parrocchie)

- per mezzo di un decreto speciale dell’autorità (come nel caso delle regioni ecclesiastiche e delle associazioni private dei fedeli) che la conceda espressamente a realtà associative e istituzionali che, oltre ad essere ordinate ad un fine coerente con la missione della Chiesa e trascendente gli scopi dei singoli, siano veramente utili e dotate di mezzi sufficienti.

Le persone giuridiche vengono distinte in

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universitates rerum, costituite da un complesso di cose o di beni, sia spirituali sia materiali, universitates personarum, composte da almeno 3 persone, che, a loro volta, hanno natura collegiale o non

collegiale.

Assolutamente nuova rispetto alla disciplina precedente è la distinzione stabilita tra le persone pubbliche, che esercitano in nome della Chiesa la funzione loro affidata dall’autorità a vantaggio del

bene comune, le persone private, che possono ottenere la personalità giuridica solo per mezzo di speciale decreto, previa

approvazione degli statuti da parte dell’autorità.

Particolare attenzione è dedicata alla disciplina degli atti collegiali. Il Codice stabilisce un numero legale per la validità delle decisioni che, oltre ad ottenere l’approvazione della maggioranza assoluta dei presenti, devono vedere la partecipazione della maggior parte degli aventi diritto. Distingue, quindi, nettamente le elezioni dalle deliberazioni di altro tipo:

- nelle elezioni, dopo due scrutini inefficaci si passa al ballottaggio e in caso di parità dopo il terzo scrutinio si considera eletto il più anziano. Questa procedura mira ad assicurare per quanto possibile una decisione rapida che non lasci troppo a lungo vacanti uffici e funzioni;

- nelle deliberazioni diverse dalle elezioni, se dopo due scrutini permane una situazione di stallo determinata dalla parità dei suffragi, il presidente può dirimere la questione con il suo voto.

Le decisioni che incidono sulla situazione di tutti i componenti il collegio in quanto singoli devono essere approvate all’unanimità.