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è ormai una consolidata tradizione proporvi per l’Avvento il nostro Ca-lendario con le classiche 24 finestre. Dietro ognuna di esse si cela una rap-presentazione che rinvia ad accurate notizie storiche contenute in questo fascicolo.

Il Calendario di quest’anno è speciale! Esso si colloca “al culmine” di un itinerario volto a descrivere quel mondo medievale che fu anche di Fran-cesco e Chiara. Piace ricordare la serie di Calendari che da qualche anno, ovvero dal 2006, ci aiuta a immetterci in quell’età, lontana, ma anche per tanti aspetti, vicina.

In questo Calendario del 2014 vi proponiamo un quadro d’insieme di quella società complessa e varia. L’abbiamo volutamente intitolato “Uomini e donne nel Medioevo” per mostrare il “lavoro” di entrambi, nonostante i limiti imposti alla condizione femminile. Emerge di tutto: un mondo di mestieri, di professioni, di attività, di rapporti familiari, religiosi, culturali; insomma: un universo di uomini e donne che s’incontrano, che lavorano, che vivono… che agiscono, che soffrono e che sperano…Se era scontato che la storia fosse stata fatta dagli uomini, ci si avvede che anche le donne hanno fatto ampiamente la loro parte a tutti i livelli degli strati sociali.

Cari amici, ragazzi, genitori, nonni e lettori vari, speriamo di essere riusciti a farvi comprendere, o almeno a suggerirvi, che l’età medievale non è un tempo “oscuro” e “misterioso”, ma al contrario un’età creativa, inven-tiva, produttiva pur con tutte le sue durezze, contraddizioni, diversità, di-suguaglianze e difficoltà.

Grazie per averci seguito fin qui! Con il solito affetto, vi giunga il mio saluto e l’augurio di “Pace e Bene”.

Frate Indovino

Carissimi Amici,

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PREMESSA

In questo Calendario dell’Avvento, già preceduto da altri sei con tema-tiche specifiche relative all’età medievale intorno a Francesco e Chia-ra, ci lanciamo a prospettare uno sguardo panoramico sulla società nel suo insieme, senza alcuna pretesa di esaurire la vastità dell’argomento. La famiglia, in primo luogo, come nucleo-base di questa società, che si rivela attiva, fattiva, produttiva, creativa, popolata di energie in gra-do di esprimersi a tutti livelli: da quello religioso, con le varie forme e manifestazioni che comparvero in quest’epoca, alla sempre più vasta e articolata gamma delle attività lavorative e professionali. Tra diversità, disuguaglianze, difficoltà, fatiche, questo mondo è quello che ha po-sto le radici del nostro. Le differenze sono infinite, gli abissi profondi,

cambiamenti e trasformazioni d’ogni genere, ma l’età medievale ha dato il meglio di sé in termini di

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vita religiosa; di capacità organizzative dei mestieri e delle professioni; di forme di “democrazia”; di innovazioni tecnologiche (dall’aratro al mulino, dalla bussola all’orologio); di inventività culturale (dalle scuole alle università); di creatività artistica: pittura, scultura, letteratura, musica, architettura, dando vita, quest’ultima, a strutture imponenti, le più grandi possibili per l’epoca, come le cattedrali, le grandi chiese degli ordini Mendicanti, i grandi palazzi pubblici; di attenzione ai poveri e ai derelitti con la creazione di istituti di accoglienza e di beneficenza (ospedali, confraternite). Gli uomini del Medioevo hanno dimostrato di essere in grado di organizzarsi dal basso “inventando” originali forme di aggregazione umana e politica come, ad esempio, i castelli e i Comuni.

PREAMboloE Punti fERMi

Uomini e donne nella società medievale! Attenzione però! Poniamo su-bito qualche punto fermo. Non esisteva nella lunga età medievale quella parità – o quasi – che appartiene ai nostri tempi e alle nostre aree geogra-fiche (euro-occidentali)! Il Medioevo fu epoca di disuguaglianze a tutti i livelli: sociale, economico, politico, culturale e di “genere”, intendendo per “genere” quello maschile e quello femminile. Sulla condizione della donna nel Medioevo ha pesato un pensiero filosofico-teologico-dottri-nale, un sostrato di mentalità, un retroterra di formulazioni legislati-ve (ecclesiastiche e civili) che l’ha spesso relegata a

livelli d’inferiorità. Così, nel corso del Medio-evo la donna non ebbe quel potere e quel peso politico che fu proprio dell’universo maschile. Considerata inferiore, era esclusa dall’eserci-zio delle armi1, le donne non potevano quin-di essere cavalieri; dallo studio sistematico quale venne svolgendosi nelle università; dal-la vita pubblico-politico-amministrativa. Ciò non significa che regine, imperatrici, feudata-rie, donne dell’alta nobiltà e sante non abbia-no esercitato una loro influenza, ma si tratta di vette. Nella prassi quotidiana l’esclusione delle donne da qualsiasi forma di carica pub-blica fu una costante; la loro fatica di lavora-trici non fu posta sullo stesso piano di quella dell’uomo. È ormai un’acquisizione storiogra-fica irreversibile che le donne medievali po-

_1. Il caso di Giovanna d’Arco (1412 circa -1431) è un’eccezione assoluta! Si colloca in un momento particolare e critico del regno di Francia in piena Guerra dei Cento Anni (1339-1453) e la sua figura devota e religiosa, ispirata dalle “voci”, può aver attratto gli animi a sollevarsi contro la presenza inglese.

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tevano giocare i loro spazi di vita tra matrimonio, da un lato, e monastero e forme varie di vita religiosa, dall’altro.Il tono delle disuguaglianze passava, ad esempio, per almeno tre aspetti fondamentali della vita dell’uomo: la nutrizione, l’abbigliamento, l’abitazione.

Il nutrimento fu un’ossessione della società medievale. La massa contadina deve accontentarsi di poco: la zuppa era la base della sua alimentazione, le erbe raccolte nei campi ne erano spesso il principale contorno. Tuttavia nel XII e XIII secolo il companagium, il companatico, si diffonde in tutte le categorie sociali ed è allora che il pane è sempre più base dell’alimentazione. La festa alimentare dei contadini era l’immolazione del suino. Per gli strati sociali dominanti la manifesta-

zione della loro superiorità passava attraverso l’alimentazione più abbondante, variata e “lussuosa”. I ceti più abbienti prendevano anche così le distanze dagli altri! L’abito nel Medioevo è un segno distintivo: poveri gli abiti dei contadini; preziosi e adornati gli abiti dei ricchi; alcuni capi di abbi-gliamento si riferivano a specifici lavori. Circa l’abitazione, case di pietra e torri, casamenti e pa-lazzi distinguevano i ceti sociali più elevati e abbienti; case-botteghe quelli mercantili-artigianali; modeste le abitazioni contadine.

Un altro punto fermo: la libertà. Gli uomini e le donne medievali non avevano alcun concetto della li-bertà come noi modernamente la intendiamo; l’uomo medievale deve sentirsi parte di un organismo, nel Medioevo si deve fare corpo, si deve appartenere a “qualcosa”: poteva essere un ente, un’ istituzio-ne, una persona, ad esempio un “signore”. Si doveva necessariamente essere in qualche modo inseriti in un organismo/struttura sociale, in primo luogo in famiglia. Nel Medioevo non esiste un significato universale di libertà: le libertà sono sempre particolari, ovvero si incarnano in diritti e privilegi di cui

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godono solo alcuni ceti e corporazioni; la libertà non è un “qualcosa” di astratto, ma si concretizza nella possibilità di fare qualcosa: è libero chi può fare qualcosa e ha il diritto di farlo.

Non esiste il concetto di libertà personale/individuale: libertà di scegliere, di agire, di muoversi, di fare. L’uomo e la donna me-dievali – e viepiù la donna – sono sempre circoscritti in un certo ambito, né poteva essere diversamente: essi erano sempre vincolati da tutta una serie di condiziona-menti e di legami, signorili, corporativi, familiari, in mezzo a coercizioni e costri-zioni di ogni sorta.Se ancora oggi parlare di libertà non è fa-cile, per tutta una serie di infiniti condizio-namenti, nel Medioevo ciò era ancora più complesso e limitativo.

Altro punto fermo: la durezza della vita! Anche noi siamo abituati a dire “la vita è dura” ed è vero, ma nel Medioevo lo era, per certi versi, molto di più! Tutte le at-tività lavorative richiedevano molta fatica umana e animale. L’uomo medievale era

Se Eva, vista come tentatrice, costituì l’emblema della negatività femminile, la Vergine Maria, il cui culto trionfa tra XII e XIII secolo, s’impone come anti-Eva in quanto strumento

dell’incarnazione divina. Il riscatto della donna peccatrice è rappresentato dalla figura di Maria Maddalena, il cui culto si avvia nel XII secolo.

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afflitto da carestie e pestilenze; da malattie impossibili da curare con i mezzi e le conoscenze dell’epoca: oltre alla peste, molte altre erano le malattie che distruggevano la vita degli uomi-ni come il vaiolo, il tifo, il colera, l’influenza con complicazioni bronco-polmonari, il fuoco di sant’Antonio (ergotismo) – per la cura del quale si specializzò l’ordine ospedaliero degli Antoniti – la scrofolosi, la tubercolosi, la malaria, la lebbra. Le condizioni di vita erano al limite della sopravvivenza: fame, freddo, buio, niente privacy e niente di quelle che oggi chiamiamo comodità e/o confort; il letto, ad esempio, poteva essere un bene comune a più persone; basso era il livello igienico: scabbia, tigna, topi, pulci, pidocchi erano all’ordine del giorno; si moriva di più e si viveva meno a lungo: la vita era breve, alta la mortalità infantile.

A livello sociale molte erano le emarginazioni e le esclusioni. Gli ebrei, ad esempio, erano esclusi dal possesso e anche dalla concessione della terra, dai mestieri e dall’attività mercantile. I lebbrosi venivano fisicamente isolati; gli eretici perseguitati come pure i sodomiti; le prostitute dovevano ben distinguersi dalle altre donne. Attenzione! Per gli uomini del Medioevo essere immersi in queste durezze era la “normalità” come per noi l’opposto! Si trattava di una normalità ben diversa dalla nostra!L’uomo medievale viveva nell’insicurezza materiale, avvolto da timori, minacce e pericoli, ma sperava nella salvezza in un mondo “altro”, in un sostegno e/o aiuto superiori: la Vergine e i santi e i loro miracoli, le reliquie, i sacramenti, le preghiere, per un verso, le pratiche magiche, per un altro. Le paure, le guerre, i saccheggi, insomma la necessità di proteggersi determinò il diffondersi dei castelli [cfr. “Nel castello medievale”, Calendario dell’Avvento 2010] e le città di distinguevano proprio per essere cinte da mura. Ma non dobbiamo neppure immaginare un Medioevo sempre triste e piangente: c’erano i giochi, le giostre, i tornei, i balli, la musica, le grandi celebrazioni liturgiche, le fiere, i saltimbanchi, i can-tastorie, i trovatori, i banchetti.

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Ancora un punto fermo! Un Medioevo non-immobile sia in termini di effettivi spostamenti logistici: militari, mercantili e commerciali, religioso-devozionali [cfr. “Pellegrinaggi”, Calendario dell’Avven-to 2012], culturali (università), lavorativi, maestranze esperte nell’edilizia che si muovevano da un luogo all’altro, ad esempio i Maestri Comacini e i mastri costruttori delle cattedrali [cfr. “Il Medioevo delle Cattedrali”, Calendario dell’Avvento 2013]; sia in termini di mobilità sociale, cioè era possibile migliorare le proprie condizioni intraprendendo una qualche attività, imparando un’arte: si poteva socialmente ascendere rientrando in tutta una fascia di ceti medi lavorativo-artigianali. Poteva andare bene, poteva anche andar male e si poteva scivolare tra i poveri, ad esempio tra quelli co-siddetti vergognosi, cioè che vivevano il loro stato di povertà dignitosamente senza ricorrere alla prassi della mendicazione. Tutti i mestieri diventano leciti; il lavoro è un valore. Ha scritto Le Goff: Tra il secolo XI e il XIII nell’Occidente cristiano avviene una rivoluzione economica e sociale, di cui lo sviluppo urbano è il sintomo più lampante, e la divisione del lavoro l’aspetto più importante. Nuovi mestieri nascono o si sviluppano, nuove categorie professionali appaiono o prendono corpo, gruppi socio-professionali nuovi, forti del loro numero, del loro ruolo, reclamano e conquistano una stima, ossia un prestigio adeguati alla loro forza. Essi vogliono essere considerati e ci riescono.In ambito monastico il valore del lavoro fu sancito dalla Regola di san Benedetto (sec. VI). Esso fu ribadito come valore religioso, ad esempio, dai Cistercensi, dagli Umiliati, dai santi Francesco e Chiara d’Assisi.

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fAMigliAE MAtRiMonio

La famiglia – inte-sa come comunità domestica o grup-po parentale – è il nucleo-base della so cietà medievale. In origine il termi-ne “famiglia” (dal latino familia) non indicava la esclusi-va discendenza di

san gue, quanto piuttosto un insieme di perso-

ne rispondenti a un “capofamiglia”, ivi incluso il vasto mondo dei “servi”. Il termine con l’andare del tempo cambia significato e da questa sorta di famiglia “allargata” pervenne progressivamen-te a indicare una famiglia “ristretta”, ridotta agli ascendenti e discendenti diretti. La famiglia, cioè, venne prospettandosi come una comunità di resi-denti il cui nucleo sono i genitori e i figli, il grup-po fondamentale di discendenza biologica. Essa così come verrà evolvendosi con l’avanzare del Medioevo si concentrò nella coppia, con relativi figli, dando vita a un nucleo familiare compren-

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sivo di due generazioni! Tutte le testimonianze che abbiamo in tempi e luoghi diversi del mondo medievale indicano che le famiglie ricche erano più grandi, e presumibilmente più complesse, di quelle povere.Famiglia significa necessariamente matrimonio. La parola matrimonio deriva dal latino matri-monium, ossia dall’unione di due parole latine, mater, madre, genitrice, e munus, compito, do-vere; il matrimonium era nel diritto romano un “compito della madre”, intendendosi il matri-monio come un legame che rende-va legittimi i figli nati dall’unione. Quindi per la donna matrimonio significava diventare madre in una casa diversa da quella paterna. Questo comportava molte conse-guenze giuridiche e sociali e quindi doveva essere un atto pubblico. Progressivamente la Chiesa conferi-sce contorni sempre più precisi alla sua dottrina circa il matrimonio, concepito in termini monogamici e indissolubili che doveva poggia-re sul libero e reciproco consenso degli sposi. Di fatto il matrimonio nel Medioevo si configurò come un contratto, stipulato davanti a un notaio; la benedizione della coppia da parte di un sacerdote non era ritenuta necessaria ai fini della va-lidità dell’unione, anche se era una prassi usuale. Il matrimonio non era affatto una libera scelta e l’amore ben poco c’entrava! In linea di massima le unioni coniugali stabilite tra mem-bri di ceti alti – per non dire regal-principeschi – e “borghesi” erano tutte combinate, cioè frut-to di accordi tra le famiglie per precisi intenti di carattere economico e politico. Si può parlare di “mercato matrimoniale” per cui le famiglie fa-cevano le loro contrattazioni ricercando le con-dizioni più vantaggiose per sé e per i loro figli/e. Notevole era in genere la differenza d’età tra uo-mini e donne: i primi si sposavano dai 20/25 anni ai 40/45; le seconde dai 12 ai 20. I vedovi si risposavano più delle vedove. Per quest’ultime – quando non facevano ritorno alla casa di ori-

gine riprendendosi la dote – la scomparsa del marito poteva in taluni casi significare una con-dizione di vita con spazi di maggiore autono-mia. Quanto la vita familiar-matrimoniale fosse idilliaca è tutto da vedersi: le battiture potevano essere frequenti dal momento che il marito po-teva esercitare lo ius corrigendi. Certo la famiglia “ideale” faceva perno sulla figura dell’uomo quale pater familias e su quella della donna quale bona mulier che, fedele al marito, si doveva occupare di tutte le cose di casa. Questa era uno spazio a un

tempo protetto e chiuso, in cui certi spazi più se-greti bene le si addicevano: la camera, la stanza da lavoro, la cucina. La fragilità e la debolezza della donna esigono protezione e sorveglianza. I suoi andirivieni all’esterno devono limitarsi a percor-si ben controllati: chiesa, lavatoio, forno pubbli-co o fontana, luoghi che variano a seconda della condizione sociale, ma esattamente delineati. La “famiglia” è anche tutto un complesso di perso-ne su cui la moglie deve vegliare ordinandone i ritmi e le attività. In primo luogo il marito, che conta di trovare, nel calore del focolare, il riposo

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Il matrimonio è sempre stato preceduto da atti, da formalità, da cerimonie e da feste, sia nei ceti sociali più elevati, come in quelli più bassi. A Firenze, ad esempio, nel corso del XV secolo, negli strati più ricchi della popolazione, il processo iniziava con un primo incontro non pubblico (detto ‘impalmamento’ o ‘abboccamento’) fra i parenti dei due futuri sposi, preparato

dai sensali, nel corso del quale venivano stabilite le condizioni dell’accordo matrimoniale. A distanza di pochi giorni aveva luogo un secondo incontro, solenne e pubblico, fra i membri

maschili delle due famiglie, che serviva a definire ed enunciare, con l’aiuto di un notaio, le condizioni del matrimonio. Un terzo incontro avveniva, il ‘dì dell’anello’, a casa della fanciulla,

dove si recavano il fidanzato e i suoi parenti. Alla presenza di un notaio il promesso sposo infilava al dito della donna l’anello nuziale. Infine, a distanza talvolta di molti mesi dal ‘dì

dell’anello’, aveva luogo la cerimonia nuziale, con festeggiamenti che si protraevano per alcuni giorni. Negli strati più bassi della popolazione, invece, il numero degli incontri era minore e

più ridotte le formalità. Nei secoli XII e XIII i canonisti introdussero la fondamentale distinzione fra ‘verba de futuro’

e ‘verba de presenti’, cioè parole per il futuro e parole per il presente. Il contratto per ‘verba de futuro’ costituiva una promessa, un impegno per l’avvenire, il vero fidanzamento ed era revocabile. Il contratto per ‘verba de presenti’, con il quale i due fidanzati si scambiavano,

di fronte a testimoni, formule come ‘io prendo te in moglie’ e ‘io prendo te per marito’, costituiva il matrimonio e non era dunque revocabile. Fino alla metà del XVI secolo era questa

cerimonia, e non quella in chiesa, che creava l’obbligo legale vincolante. E non mancavano cortei, festeggiamenti e banchetti più o meno sfarzosi… notevolmente sfarzosi in caso di ceti

alti che dimostravano così la solidità del loro status.

e i piaceri del bagno caldo, della tavola servita, del letto pronto; poi i servitori, quando la famiglia è abbastanza agiata da averne. I bambini, inoltre, la cui prima educazione le spetta senza discussione. Il culto crescente per Gesù Bambino può essere

letto come segno di attenzione affettiva verso i bambini; questo, insieme a quello per la Vergine Maria – e dal sec. XIV per san Giuseppe – proiet-tò a livello sacrale (Sacra Famiglia) l’immagine-modello della famiglia “reale”.

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DotE

È il complesso di beni che la donna porta al marito per sostenere gli oneri del matrimonio. È un istituto giu ri-dico sancito dal di-ritto romano. Con la dissoluzione dell’Impero e il for-marsi di nuove cul-

ture dovute alla presenza dei popoli germanici, ampiamente insediatisi con i loro usi e costumi nelle zone dell’ex-Impero occidentale, le don-ne cominciarono a entrare in possesso di parte dei beni dei mariti: la “terza” in ambito franco, la “quarta” in ambito longobardo. In quest’ultimo contesto, ad esempio, ebbe diffusione la Morgen-gabe, cioè il dono fatto dallo sposo alla sposa nel mattino seguente alla prima notte di matrimonio. Ma con la ripresa della vita economica e cittadina e la riscoperta del diritto romano (dal sec. XI in poi) la dote tornò in auge tanto da divenire l’uni-ca parte del patrimonio di famiglia spettante alle figlie! La dote passava tra i beni del marito; in

caso di morte di questi, si prevedeva la restituzio-ne della dote alla vedova, se questa tornava alla casa paterna. L’istituto della dote fu molto soste-nuto dai Comuni italiani: escludendo con essa le femmine dall’asse ereditario, si favoriva la linea di discendenza maschile! La dote, comunque, non era necessariamente indolore per le famiglie che dovevano sborsarla. Per sovvenire a tale esborso furono “inventati” con l’andare del tempo i “mon-ti delle doti”, come ad esempio quello di Firenze (1425). E la dote era necessaria sia che le donne si sposassero, sia che entrassero in qualche mo-nastero (in questo secondo caso in misura infe-riore): dotare le fanciulle povere divenne una pia opera di cristiana carità!Alle donne toccava portare con sé il corredo (biancheria, vesti…) chiuso in apposite casse o cassepanche o cassoni. A livello di ceti abbienti la coppia sposata aveva una camera da letto sua e i cassoni diventavano parte integrante del mobilio; in essi era custodi-ta la biancheria personale e da casa degli sposi.Gli uomini dovevano provvedere agli ornamenti delle proprie spose (capi di abbigliamento, gio-ielli ecc.).

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tEStAMEnti

Per quanto escluse dall’asse ereditario, limitate nel campo degli offici, dei me -stieri e degli studi, non certo era loro negata la dignità di “libere cittadine”, cioè lo stato giu-ridico di persone di condizione li be ra

e quindi in grado di disporre dei loro beni, con o senza il beneplacito del marito; se poi erano vedove potevano fruire di maggiore autonomia gestionale e amministrativa. Una quantità ster-minata di atti privati mostra le donne attive in contratti dei generi più diversi (compre, vendi-te, locazioni… e anche società commerciali …),

quindi le donne potevano disporre di beni im-mobili e mobili.Tra i tanti atti privati un genere brilla per la sua peculiarità: si tratta dei testamenti che uomini e donne di solito dettavano ai notai per sistemare “il mondo delle loro cose” e proiettarsi in quello dell’Aldilà. I nostri archivi sono ricchissimi di tali documenti ed attraverso di essi anche le donne s’impongono per la loro capacità di decidere la destinazione dei beni fruiti in terra. Esse mostra-no, in linea di massima, rispetto agli uomini, una forma di religiosità più concreta, fatta di persone e non di sole istituzioni, lasciando trapelare una sorta di solidarietà femminile. Comunque i testa-menti sia degli uomini che delle donne palesano attenzione per parenti e congiunti vari, amici, co-noscenti, e tutta una varietà di chiese, monasteri, conventi e specifici religiosi.

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gERARchiEEcclESiAStichE

Come è noto le don ne sono stateescluse dal sacerdo-zio. Le motivazioni di tale esclusione sono molteplici; ad esempio: nessuna di loro era nel gruppo dei Dodici Apostoli all’atto del l’istituzio-ne dell’Eucarestia.

Tuttavia ciò non significò che esse non potessero essere partecipi di varie forme e manifestazioni di vita religiosa [cfr. Finestre 5, 6, 7, 8]. Una volta stabilito e consolidato il non-accesso delle donne al sacerdozio ne conseguì (e ne consegue) che tutta la gerarchia ecclesiastica fu ed è declinata al maschile: papi, cardinali, vescovi e prelati vari erano e sono tutti uomini. Ma proprio nel cuore del pieno Me-dioevo (secc. XIII-XIV) circolò una storia immagi-naria che ha ideato la figura della papessa Giovanna. In breve. Intorno all’anno 850 una donna di ascen-denza inglese, ma nativa di Magonza, seguì il suo amante, dedito agli studi, fino a Roma; avendo ella stessa acquisito gli strumenti del sapere riuscì a in-filtrarsi nella gerarchia curiale romana al punto da essere eletta papa. Il suo pontificato sarebbe dura-to due anni e si sarebbe vergognosamente concluso con la messa al mondo di un bambino durante una processione per le strade di Roma. Questa storia im-maginario-leggendaria ebbe “successo” fino al XVI secolo: forse perché sottendeva aspirazioni som-merse? Forse per mettere in luce critica l’istituzione del papato? La Chiesa temporalizzata? Forse serviva a far discutere circa la legittimità dell’elezione papale a seguito del Grande Scisma (1378-1417)? Nella fi-gura della papessa Giovanna si vide anche la Grande Meretrice di Babilonia (Gv, Apocalisse 17) dandole, quindi, una connotazione apocalittica.La storia si nutre anche di figure immaginarie il cui

successo si protrae nel tempo, si pensi al film del 2009.Attenzione! Immaginario chiama immaginario e così comparve anche il mito della sedia per la veri-fica della virilità dei papi.Una sedia simile esiste; quando un papa prendeva possesso della sua Cattedra romana, in San Giovan-ni in Laterano, si sedeva tradizionalmente su due se-die di porfido (la pietra degli imperatori, assimilata alla porpora), con la seduta dispiegata a ciambella. Il motivo di questi fori è oggetto di discussione, ma poiché entrambe le sedie, di età costantiniana, sono più vecchie di secoli della storia della papessa Gio-vanna, esse non possono avere niente a che fare con una verifica del sesso del papa.

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MonAci E MonAchE

Il monachesimo be-nedettino dominò l’intera Europa oc-cidentale e non si trattò solo di gran-di e potenti abba-zie o monasteri ri-servati agli uomini – i monaci, appun-to – ma anche di una nutrita quan-

tità di insediamenti religiosi femminili riservati

alle donne, monache appunto! [cfr. “Dall’abba-zia al convento”, Calendario dell’Avvento 2011]. In un mare di monaci e monache si stagliano fi-gure di spicco per varie qualità.Bernardo di Chiaravalle (1090/91-1153)si im-pegnò per il rinnovamento del monachesimo benedettino nell’ambito dell’Ordine Cistercense; si batté, infatti, per il rispetto della Regola di san Benedetto secondo principi improntati a sem-plicità e povertà. Fondò monasteri in Francia (Clairvaux = Chiara Valle) e in Italia (Chiaraval-le nel milanese). Fu mistico, tutto teso all’amore

Nel mondo medievale popolato di mo-naci e monache non manca una cele-bre love-story: è quella di Abelardo (1079 circa-1142) e di Eloisa (1100 circa-1164). Lui, maturo maestro teologo, seduce la giovane Eloisa ni-pote di un canonico; lo scenario è la Parigi del XII secolo quando la città diviene anche vitale centro cultura-le, dotata di scuole. Abelardo inten-deva sposare Eloisa rimasta incinta, ma ciò gli fu drasticamente impedito dallo zio della fanciulla che lo fece evirare. Abelardo peregrinò di mo-nastero in monastero e morì in un priorato dell’ordine di Cluny. Eloisa

visse da badessa nel monastero del Paraclito, costruito per lei dallo stesso Abelardo. La sto-ria non ebbe il felice epilogo del “vissero felici e contenti”, ma la loro relazione affettiva non ebbe fine ed è rimasta affidata a un Epistolario a tutt’oggi oggetto di

studi e ricerche.

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verso Dio, promotore del culto della Vergine2 e della devozione delle Piaghe di Gesù, ma anche uomo d’azione: dette slancio all’organizzazione dell’ordine dei Templari; incoraggiò la Seconda Crociata; predicò contro gli eretici. Numerosi i suoi scritti e i suoi sermoni.

Ildegarda di Bingen (1098-1179), monaca benedettina tedesca, fondatrice di monasteri lungo la Valle del Reno, mistica, profetessa,

dotata di visioni divine, è autrice di un’impo-nente mole di opere che rivelano un sapere enciclopedico: ella, oltre a libri di teologia e di mistica, compose anche opere di medicina e di scienze naturali. Numerose sono anche le lettere – circa quattrocento – che indirizzò a persone semplici, a comunità religiose, a papi, vescovi e autorità civili del suo tempo, tra cui l’imperatore Federico I Barbarossa. Fu anche compositrice di musica sacra. Il corpus dei suoi scritti, per quantità, qua-lità e varietà di interessi, non ha paragoni con alcun’altra autrice del Medioevo. Fu un raro caso di donna autorizzata a predicare in pubblico; si impegnò a promuovere la ri-forma della Chiesa contribuendo a miglio-rare la disciplina e la vita del clero. È stata proclamata Dottore della Chiesa e santa da Benedetto XVI il 7 ottobre 2012.

Herrada, abbadessa del monastero di Ho-henburg in Alsazia (1125/30 circa - 1195), è la compilatrice dell’Hortus deliciarum, uno scritto di carattere enciclopedico, costruito come raccolta di testi tratti dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa, dagli scrittori medievali (e anche da autori latini profani) relativi alle varie discipline sacre e profane. Herrada vi aggiunse poesie che in parte ella stessa det-tò in esaltazione del Redentore, rivestendo-le di note musicali. Il prezioso manoscritto dell’Hortus, ricco di centinaia di illustrazio-ni, fu distrutto nell’incendio della biblioteca di Strasburgo (1870); il testo è stato rico-struito e pubblicato in base a precise copie precedentemente realizzate.

_2. Il Canto XXXIII del Paradiso si apre con la preghiera che il Santo rivolge alla Vergine Maria (vv. 1-45) perché Dante possa vedere Dio: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti si’, che ‘l suo Fattore non disdegnò di farsi sua fattura» (vv. 1-6).

Perché nel Medioevo – e oltre – vi fu un gran numero di monache e religiose varie? Perché il destino di una ragazza medievale, e non solo, era quello di divenire sposa o di un uomo o di Cristo. Condizioni diverse da quella coniugale e monacale non davano, in linea

di massima, alle donne alcun riconoscimento sociale! Del resto la vita religiosa poteva essere preferita a quella coniugale per vocazione, da un lato, ma anche per sfuggire a un pesante

destino, quello della cosiddetta “buona moglie”, dall’altro.

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fRAti E SuoRE

A partire dal Due cento tutta l’Europa occiden-tale andò po polandosi di nuove presenze re-ligiose: non più solo i monaci e le monache, ma tutto un univer-so molteplice di frati e suore, ciò fu dovuto all’apparire degli or-dini Mendicanti [cfr.

“Dall’abbazia al Convento”, Calendario dell’Avvento 2011]. Se sul fronte francescano brillano le grandi fi-gure di Francesco e Chiara d’Assisi, universalmente note, sul fronte domenicano si stagliano le personali-tà di Domenico di Guzman (1170-1221), fondatore dell’Ordine, e di Diana degli Andalò. Questa nac-que, nei primi anni del sec. XIII, da nobile e potente famiglia bolognese; già sensibile alla predicazione domenicana, quando Domenico giunse a Bologna (estate 1219), appro-vò la sua idea di en-trare nell’Ordine dei Predi catori e accolse la sua promessa in-sieme con quella di altre quattro giova-ni dame di potenti famiglie bolognesi. Ostacoli furono frap-posti dalla famiglia, che arrivò anche a segregarla per un anno. Domenico le inviò delle let-tere per consolarla, oggi perdute. Dopo vicissitudi-ni varie, Diana riuscì a portare a compimento il suo proposito di dar vita a una comunità monastica; nel 1222 fondò il monastero di S. Agnese di Bologna dove visse tutta la vita (morì nel 1236) e di cui fu superiora. Nell’ambito agostiniano spiccano Nicola da Tolentino (1245-1305) e Chiara da Montefal-

co (1268-1308). Il primo ancora adolescente en-trò nell’Ordine Agostiniano. La sua caratteristica è quella di un religioso semplice, molto caritatevole verso i suoi confratelli e verso il popolo di Dio. Con molta sollecitudine visitava gli infermi e gli indi-genti, e molto volentieri chiedeva l’elemosina per la sua comunità. Notevolmente efficace come predi-catore, era particolarmente ricercato come direttore spirituale. Si distinse per lo spirito di preghiera e di penitenza, come anche per la sua carità per le anime del purgatorio. La seconda nacque a Montefalco e lì trascorse tutta la sua vita. La fama della sua santi-tà, delle sue prerogative taumaturgiche (le si attri-buivano, infatti, moltissime guarigioni), delle sue capacità di percezione dei segreti del cuore umano (si diceva che fosse in grado di intuire i peccati dei suoi interlocutori senza che questi glieli rivelassero) e, infine, la fama delle sue visioni profetiche si diffu-sero tanto rapidamente, che molti erano coloro che esprimevano il desiderio di incontrarla. Fra questi

vi furono personaggi di rilievo nella vita politica e religiosa del tempo che pare apprezzassero in lei, benché illicterata, la straordinaria capaci-tà di interpretare le Scritture. Minata dall’eccessivo rigore della sua vita, Chiara morì, appena

quarantenne, nel monastero della Croce a Monte-falco. Si diffuse la voce che una suora, predisponen-do il corpo alla venerazione dei fedeli, avesse visto nel cuore della defunta i simboli della passione di Cristo. La miracolosa scoperta venne messa in re-lazione con una frase, più volte ripetuta dalla Santa durante la sua agonia, ed esprimente la certezza di portare la croce nel cuore.

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convERSi E oblAti

L’universo religioso medievale fu po-polato anche da un “sottobosco” di per-sonaggi detti oblati (dal latino offerre = offrire) o conversi (dal la ti no conver-tere = convertire); si trattava di uomini e donne liberi che, spinti da sentimen-

to religioso o da qualche necessità, si appoggiava-no alle più diverse istituzioni religiose, eccle-siastiche, caritativo-assistenziali legan-dosi a esse con una specifica promessa e ricevendone protezione. Indossavano un abito religioso e si possono inclu-dere – insieme a penitenti ed eremiti vari – [cfr. Finestra 8] nella denominazione di laicus religiosus (= laico-religioso), co-niata nel XIII secolo da Enrico da Susa (1210-1271), cardinale di Ostia, per indicare quegli uo-mini e quelle donne che viveva-no la propria vocazione cristiana senza abbandonare lo status lai-cale, consacrandosi a Dio senza necessariamente abbracciare una regola. In ambito monastico be-nedettino riformato (Camaldolesi, Cistercensi, Vallombrosani) i con-versi, distinti e separati dai monaci, trovarono spazio e a loro erano in genere demandati quei lavori che assicuravano la sussistenza della comuni-tà. La loro opera fu notevole presso gli ospedali più vari, ivi inclusi i lebbrosari [circa gli ospeda-li cfr. Calendari dell’Avvento 2006, 2010, 2012],

dove forse fungevano anche da personale “infer-mieristico”. Quando fiorirono gli Ordini Men-dicanti anch’essi “inglobarono” conversi/oblati come, ad esempio, l’Ordine di S. Domenico che fu molto aperto ad accoglierli. Non è infrequente trovarli presso monasteri sia maschili che femmi-nili, conventi, canoniche, vescovati, chiese, eremi e perfino ponti, “conversi pontieri”! Si trattava sovente di singoli individui (uomini e donne) che donavano se stessi e i propri beni all’ente di riferimento, ma poteva trattarsi anche di coppie: marito e moglie o di altre soluzioni parentali. Si stabiliva un rapporto di mutua “convenienza”: i conversi/oblati trovavano uno spazio protetto,

so ste gno e una vita “dignitosa”, gli enti, dal can-to loro, avevano a disposizione personaggi su cui poter contare per varie necessità.

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PEnitEnti, REcluSi E confRAtERnitE

Oltre al vitale mondo dei con-versi e degli obla-ti con le loro va-rie afferenze, il Medioevo re-ligioso vede i laici attivi in altre molte-plici soluzio-ni. L’Ordine

della Penitenza-Terz’Ordine francescano (ufficialmente dal 1289) e gli altri Terzi Or-dini apparsi nel tempo furono un valido spa-zio per uomini e donne; grazie a regole e/o norme di vita questi laici-religiosi avevano precisi orientamenti su come condurre una vita cristiana corretta improntata a preghie-re, penitenze, opere di carità. Potevano vivere nelle proprie case, essere coniugati3 e attivi nelle “faccende” del mondo, ma anche non-coniugati e vivere in eremi e/o in comuni-tà. Terziari francescani celebri sono: Pietro Pettinaio di Siena (†1289)4, che fu commerciante di pettini per telai; Angela da Foligno (1248-1309) e Margherita da Cortona (1247-1297); in ambito domenicano splende la figura di Caterina da Siena (1347-1380), che si batté per il ritorno del papa da Avignone a Roma e per la riforma della Chiesa.Le aspirazioni di vita eremitica trovarono anche una soluzione di tipo urbano nel fenomeno della reclusione volontaria [cfr. “Reclusa nella celletta”, Calendario dell’Avvento 2010], quando uomini – e molte donne – si posero a vivere singolarmente – o con poca compagnia – presso chiese, luoghi reli-giosi vari, ponti, porte, fonti, lungo vie nelle città e

nei loro pressi. Ne emerge un’immagine della città marcata sì da chiese, monasteri, conven-

ti, ma anche da un microtessuto di celle e carceri dove questo genere di eremiti-re-clusi (laici) vivevano in ritiro e preghiera usufruendo della pubblica beneficenza e delle elemosine dei fedeli. Ciò è appar-so con evidenza, attraverso i documen-ti, per città, ad esempio, come Firenze, Perugia, Pisa, Viterbo, Siena … La vita religiosa dei laici trovò il suo massimo spazio nelle associazioni confraternali [per la loro varietà, i loro scopi, la loro natura ecc. cfr. “Confraterni te” in Ca lendario del-l’Av ven to 2006] diffuse capil larmente ovun-que e che sovente contavano un co-

spicuo numero di ade-renti. Poteva trattarsi

di confraternite esclu-sivamente maschili, talvolta anche esclusivamente femmi-nili, come quelle di devozione alla Vergine; spesso si trattava di confraternite miste quin-di comprensive di uomini e donne. Due casi opposti sono la Misericordia di Perugia, esclusivamente maschile, e la Misericordia di Bergamo che vanta un ramo femminile no-tevolmente numeroso.

_3. Una coppia di Penitenti furono, a Poggibonsi, il beato Lucchese e sua moglie Bonadonna, nella prima metà del sec. XIII.4. Viene citato nella Divina Commedia da Sapìa Salvani, che nel tredicesimo canto del Purgatorio afferma di esser stata aiutata dalle sante orazioni di Pietro Pettinaio: « ...e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni, a cui di me per caritate increbbe» (Canto XIII del Purgatorio, vv. 125-129).

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cAvAliERi

Quando si parla di “signori” nel Medio-evo, specie italiano, non si deve neces-sariamente pensare all’alta nobiltà co-stituita da principi, duchi, conti, mar-chesi, come ci ha abituato l’immagi-nario della lettera-

tura filmica e non solo, ma a una “folla” di milites, cioè di uomini d’arme le cui famiglie vivevano sulla base di più o meno estese proprietà terriere sulle quali magari potevano aver edificato castelli. Chiara d’Assisi proveniva proprio da una di queste famiglie. [Per armi e armati nel Medioevo cfr. “Nel castello medievale”, Calendario dell’Avvento 2010]. Bisogna però distinguere tra milites e milites! Era-no tutti combattenti a cavallo, e quindi tutti “ca-valieri” sul piano militare, ma non tutti avevano

ricevuto la dignità cavalleresca! Sino al XII secolo essere cavaliere non significava necessariamente essere nobile, perché la nobiltà era una questione di nascita; ben presto però la dignità cavalleresca venne riservata ai figli dei cavalieri dando così vita a una classe ereditaria. Fu così che cavalleria e nobiltà tesero a fondersi e a confondersi. La cavalleria è una delle immagini classiche del Medioevo, già mitizzata dalla letteratura epica di quel tempo che faceva del cavaliere un guer-riero portatore di pace, impegnato nella difesa della cristianità. Al di là del mito, la realtà era ben più dura e diversa! L’avventura cavalleresca era essenzialmente la ricerca di nuove fonti di ricchezza, ad esempio da parte dei cadetti, che ereditavano meno ricchezza e potere rispetto ai primogeniti. Si trattava di guerrieri a cavallo strategicamente importanti nelle campagne mi-litari, tant’è vero che la fine della cavalleria fu de-terminata dall’invenzione delle armi da fuoco. Si diventava cavalieri dopo un lungo tirocinio.

Al primo gradino vi è il paggio: impara a badare al cavallo e a combattervi sopra; al secondo gradi-no vi è lo scudiero: che apprende il maneggio delle armi, le regole del combattimento e por-ta le armi e lo scudo del suo signore; alla fine si diventava cavalieri all’età di 20-21 anni con una specifica cerimonia d’in-vestitura detta “addob-bamento” che con sisteva nella consegna di spero-ni, dell’elsa della spada e del morso del cavallo dorati; del cinturone ar-

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ricchito di rinforzi metallici dorati anch’essi e del mantello foderato di vaio. Varie furono le autorità che nel tempo ebbero il diritto di con-ferire la dignità di cavaliere: sovrani, capi mili-tari, e gli stessi comuni italiani.

La fortuna di un cavaliere Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), figlio cadetto, divenne cavaliere e come tale si distinse in numerosi tornei conquistando il favore dei signori, divenne così nel tempo membro prestigioso in seno all’entourage di re Enrico II d’Inghilterra. Fu tutore del re bambino Enrico III, figlio di Giovanni Senza Terra, e come reggente del regno, fu uno degli uomini dell’Occidente più potenti dell’epoca. Le sue gesta sono tramandate da una composizione letteraria, la “Chanson di Guglielmo”, redatta nel sec. XIII in lingua anglonormanna.

Santi cavalieriSan Galgano, al secolo Galgano Guidotti (1148/1152-1181), visse in Toscana nel XII secolo all’epoca delle lotte per la successione dei beni di Matilde di Canossa. Secondo i costumi dell’epoca, essendo membro della piccola aristocrazia del contado senese, fu avviato alla vita militare in qualità di cavaliere. La tradizione vuole che fosse un giovane violento, ma destinato a cambiare vita e a diventare un cavaliere di Dio come profetizzatogli da san Michele Arcangelo in persona, di cui ebbe due visioni. Nel 1180 Galgano abbraccia la vita eremitica e a suggello della sua conversione pianta la sua spada a mo’ di croce in terra e trasforma il suo mantello in un saio.

Angelo da Rieti (†1258), figlio di Tancredi, fu il primo nobile cavaliere che nel 1210 seguì Francesco mentre si recava a Roma per ottenere l’approvazione del suo modo di vita.

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DonnE Di PotERE

La figura di Ma-tilde di Canossa (1045/ 1046-1115) è legata al celebre episodio del 1077 quando l’imperato-re Enrico IV si recò penitente a Canos-sa per im petrare il perdono del papa Gregorio VII; da

qui l’espressione “andare a Canossa” per indicare l’umiliazione di chi è costretto a pentirsi e ravve-dersi. L’episodio s’inserisce nell’ambito della “lot-ta delle investiture” dei secoli XI e XII che vide

Papato e Impero contrapposti a motivo della no-mina dei vescovi. Ma la stessa “lotta delle investi-ture” rientrava nel più vasto progetto di “riforma della Chiesa” volto alla moralizzazione del clero, all’eliminazione della simonia, a evitare l’inge-renza dei laici sulle cariche che avrebbero do-vuto essere di esclusiva pertinenza ecclesiastica. Contessa di città come Modena, Reggio Emilia, Mantova, Brescia, Ferrara, il titolo più prestigioso che ebbe fu quello di marchesa di Toscana. La va-stità dei domini territoriali e la dignità dei titoli, di cui rimase unica erede, conferirono a Matilde un’autorevolezza che esercitò, ad esempio, ammi-nistrando la giustizia, organizzando eserciti, fon-dando monasteri. Tra il Papato e l’Impero in lot-

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Varietà di mestieriLa varietà dei mestieri nelle città italiane ed europee era infinita! Alcuni lavori si connotano per essere praticati esclusivamente da uomini, altri solo da donne, altri ancora da uomini e

donne. Macellai, fabbri, maniscalchi, tintori, cuoiai, falegnami, carpentieri, muratori, calzo-lai, calzaioli, notai, medici, salaioli, cambiatori, marinai, segantini, bottai, canapai, vasai,

vetrai… erano attività declinate quasi esclusivamente al maschile. Nel campo dell’edilizia gli uomini ebbero una predominanza assoluta: maestri muratori, carpentieri la fanno da pa-

droni [cfr. Calendari dell’Avvento 2006, 2007, 2013], sono loro i grandi artefici di cattedrali e palazzi, tuttavia le donne venivano

impiegate come manovali nella prepa-razione della malta, nella copertura dei tetti e anche nella lavorazione del vetro; venivano retribuite a giornata e rappre-sentavano una forza lavoro più a buon mercato rispetto ai lavoratori giorna-

lieri maschi. Tuttavia una divisione del lavoro rigida tra i sessi non vi fu; né gli uomini lasciarono completamente alle donne i campi delle attività specificata-mente femminili – come la tessitura e la lavorazione delle stoffe o la produzione

alimentare – né il lavoro femminile poteva limitarsi a pochi specifici settori come il lavoro di riproduzione, ostetri-cia, puericoltura, maternità, ricerca e preparazione del cibo, economia do-mestica ecc. Le donne che lavoravano erano molte e nei campi più disparati.

Notevole la loro presenza nell’indu-stria tessile (scelta delle lane, filatura, tessitura); esse potevano anche eser-citare piccoli commerci porta a porta

ta tra loro, ella operò una decisa scelta di campo schierandosi attivamente dalla parte dei pontefici riformatori da Gregorio VII (1073-1085) fino a Pasquale II (1099-1118).Matilde morì a Bondeno di Roncore il 24 luglio 1115. Fu sepolta, come voleva, nella chiesa abba-ziale di S. Benedetto in Polirone, dove il suo corpo rimase sino al 1632, quando fu venduto dall’abate Andreasi a papa Urbano VIII e da questo trasferi-to in un sontuoso monumento in S. Pietro, opera di Gian Lorenzo Bernini.

Eleonora d’Aquitania (1124-1204) visse 80 anni e fu protagonista della politica del suo tempo; prima moglie di Luigi VII di Francia, poi di Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra, madre, tra gli altri, di Riccardo Cuor di Leone e di Giovanni Senza Terra, condizionò il regno di Francia e quello d’Inghilterra. Insieme a Lu-igi VII partecipò alla Seconda Crociata (1147-1148) dove palesò la volontà d’intervenire anche in decisioni militari cercando di evitare l’assedio di Damasco.

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o in strada; potevano vendere cibi cotti, verdura, frutta e prodotti del pollaio, panni vecchi, cuffie e ornamenti. Inoltre le donne facevano le ricamatrici, le sarte, le lavandaie, le balie, le levatrici, le erboriste; nelle città marinare rammendavano le reti da pesca; negli ospedali erano tra il personale di fatica; le troviamo a far le serve nelle case dei signori e nelle terme; a fare le portiere e le campanare, a portare acqua nei cantieri. Ed è in tutti questi luoghi che

possiamo incontrarle molto più spesso che non all’interno di un’organizzazione artigiana. Spesso le donne erano coinvolte nelle aziende a conduzione familiare. I poderi, gli alberghi, le botteghe, le osterie o le cartiere, erano tutti luoghi nei quali l’abitazione diveniva un tutt’uno

con il luogo di lavoro e tutti i membri della famiglia, compresi dunque donne e bambini, erano coinvolti quotidianamente nelle operazioni di lavorazione e gestione. In casa si lavo-

rava anche per l’esterno, svolgendo per esempio operazioni per conto della manifattura della lana: la filatura, l’orditura e la tessitura. In tutte queste attività l’apporto della manodopera femminile risultava decisivo e almeno in una di esse – la filatura – le forze lavorative erano

prevalentemente femminili. Le donne potevano diventare maestre nei settori della tessitura e dell’abbigliamento, ma per lo più erano impiegate come aiutanti e/o lavoratrici giornaliere.

Le contadine lavorano duramente nei campi, le artigiane nella bottega del marito che, talvol-ta, rilevano alla sua morte. Anche dentro la casa, signorile o borghese che sia, non si lasciano

in ozio figlie e mogli. Vanno a costituire il nucleo degli eserciti di lavoratrici soprattutto le vedove, troppo spesso minacciate dalla solitudine e dalla miseria. Anche nelle classi agiate

della società medievale la vedovanza minaccia le donne di un rapido declassamento, per cui precipitano nella povertà quando non possono ottenere dagli eredi del marito il rispetto dei

loro diritti, cioè la restituzione della dote. Il lavoro nelle città italiane era organizzato soprat-tutto in corporazioni/arti che avevano il compito di tutelare gli interessi di chi esercitava una stessa attività economica. Nella documentazione delle Arti delle città italiane le donne non

si incontrano quasi mai: quando emergono nomi femminili è probabile che esse siano vedove che assumevano i diritti del marito od orfane di artigiani che, come i loro fratelli, potevano

ereditare l’arte dal padre e continuavano a esercitarla o a farla esercitare ad altri.

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_5. Goffredo di Villehardouin (Castello di Villehardouin, 1160 – Messinopoli, 1213) partecipò alla conquista di Costantinopoli nel corso della Quarta Crociata e alla formazione dell’Impero Latino con Baldovino VIII di Fiandra. Goffredo nacque nel castello di Villehardouin, sito a circa 30 km ad est della città di Troyes, fra Arcis-sur-Aube e Bar-sur-Aube, nell’attuale dipartimento dell’Aube.

il contADino E lA contADinA

Contadino: anti ca-mente valeva uomo del contado, ma nel senso di abitatore di esso; poi si restrin-se a designare colui che lavora la ter-ra. Infatti quando si dice “contadini” si allude al mondo dei lavoratori del-

la terra. Per un lungo periodo dell’età medievale i contadini sovente non erano uomini liberi, ma servi con tutta una serie di vincoli e obblighi che li legavano alla ter-ra e ai proprietari di essa (signori); con il tempo (sec. XIII) le varie forme di servi-tù tesero a scompari-re e i lavoratori della terra conquistarono anch’essi la dignità di “liberi cittadini”; ma la conquista di una condizione giuridica libera non portava necessariamente con sé un miglioramen-to delle condizioni economiche di vita. Con l’avanzare del Medioevo – ormai “conquistata” la con-dizione giuridica di “liberi” – i contadini,

cioè gli agricoltori, potevano essere o proprietari o affittuari e mezzadri; in quest’ultimo caso erano te-nuti a spartire con il proprietario – aristocratico o borghese che fosse – i prodotti ricavati dal lavoro della terra. Si poteva essere semplicemente salariati agricoli con una scarsa retribuzione e occupazio-ne precaria. Per quanto liberi, la vita e il lavoro dei contadini sono rimasti sempre duri!Le loro misere condizioni di vita sono così descrit-te da Goffredo de Troyes5: I contadini che lavorano per tutti – scrive – che si stancano continuamente, con tutte le stagioni, che si danno ai lavori servili di-sprezzati dai padroni, sono oppressi incessantemen-te, e questo per provvedere alla vita, ai vestiti, alle

frivolezze degli altri. Sono perseguitati dall’incendio, dalla rapina, dalla spada; sono gettati nelle pri-gioni e in catene, poi costretti al riscatto, oppure si fanno mo-rire violentemente di fame, si infliggono loro ogni genere di supplizi.La donna è nel mon do contadino, in fatto di lavoro, quasi l’equivalen-te, se non l’uguale, dell’uomo! La donna affiancava il marito nel lavoro dei campi specie in certi periodi,

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ad esempio, di raccolta; se l’aratura e la semina erano occupazioni principalmente maschili, la raccolta di cereali ed erbaggi era svolta da en-trambi così come la vendemmia; a lei competeva la cura dell’orto; e a lei spettavano lavori tessili in casa (filatura, dipanatura e tessitura di lana e lino) e a lei competevano tutte le attività domesti-che quali po te vano essere l’ap provvigionamento dell’acqua e della legna, la stacciatura della farina, la preparazione e cottura del pane, la cura degli animali da cortile (pollaio e porci-le); la cura della famiglia e dei bambini, “guardare i bambini”; fare il bucato…Se tu sposi un contadino, mai donna sarà più infeli-ce: ti farà filare, frantuma-re il lino, stigliare la cana-pa, battere i panni e cavare le barbabietole.Il breve racconto in ver-si Il massaro Helmbrecht,

composto da Wernher der Gartenaere nella seconda metà del XIII secolo, è for-se l’opera tedesca più rap-presentativa del suo tempo e dei grandi mutamenti politici, economici e socia-li che l’hanno caratterizza-to. Protagonista è un gio-vane contadino che, per la sua smisurata ambizione e insofferenza della vita dei campi, diventa cavaliere predone e sconta con una morte orrenda i suoi cri-mini e la sua prima colpa: aver infranto l’ordine della società medievale, rifiu-tando il ruolo che gli era stato assegnato dalla na-scita. L’opera offre un qua-dro critico del suo tempo – decadenza della cavalleria, volontà di ascesa e di ric-

chezza dei contadini, dissoluzione dell’ordine so-ciale – discostandosi dalle immagini ideali della letteratura cortese verso una rappresentazione più concreta, quasi naturalistica, della realtà. Il disprezzo per i contadini/villani fu una costante, tant’è che ancora oggi si usa la parola “villano” in senso dispregiativo e volutamente offensivo.

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SERvi/E, SchiAvi/E E APPREnDiSti/E

In origine il termine famiglia/familia non indicava la esclusiva discendenza di san-gue, quanto piut-tosto un insieme di persone rispon-denti a un “capofa-miglia”, ivi incluso il vasto mondo dei servi-schiavi [cfr.

Fi nestra 1]. Il Medioevo segnò per questo uni-verso di lavoratori il progressivo superamento della schiavitù in senso stretto, per passare a vari stati di servitù e/o servaggio, cioè a tutta

una rete di rapporti-legami limitanti, condi-zionanti e tali da richiedere tutta una serie di prestazioni e servizi. Fu nel corso del sec. XIII che, attraverso le affrancazioni, questi lavorato-ri pervennero alla condizione di liberi cittadini, cioè ottennero la condizione giuridica di liberi; semplificando si può dire che si passò dall’an-tica condizione schiavile a quella servile e da questa a quella di libere persone. Ciò non signi-ficò la totale sparizione della schiavitù, questa, non più autoctona, ma di tratta, cioè legata alle correnti commerciali che attraversavano il Me-diterraneo: schiavi barbareschi, turchi, caucasi-ci, tartari, “greci” cominciarono a comparire nel XIII secolo nelle grandi metropoli di Spagna e

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di Italia; prima come oggetti di lusso destinati a rialzare con un tono di esotismo lo stile di vita dei patrizi; più numerosi dal XIV secolo, furono poi normalmente usati per funzioni domestiche e artigianali. Servi e serve, famuli e famule, attivi nelle case dei ceti cittadini potevano trovarsi a condivi-dere la pesantezza del lavoro quotidiano con gli schiavi/e. Se forse alle schiave venivano affidati i lavori più pesanti, è anche possibile che non vi fosse una ripartizione rigida dei ruoli. Cucinare, fare il bucato, rassettare la casa, procurare legna e acqua, alimentare il fuoco, badare ai bambini, fare commissioni, accompagnare la padrona erano gesti che probabilmente riempivano le giornate sia delle serve che delle schiave. La durezza della vita e del lavoro nonché umi-liazioni e soprusi accomunavano, per certi ver-si, serve e schiave. La differenza sta nel fatto che le prime erano donne di condizione libera, ma povere, sia che fossero cittadine o che pro-

venissero dalla campagna, per cui dovevano ripiegare su di un lavoro modesto, retribuito sì, però poco e male! In qualche modo tuttavia questi collaboratori domestici erano parte della famiglia: lasciti testamentari, infatti, palesano talvolta una certa attenzione rivolta loro.Il caso di santa Zita di Lucca (1218-1278) è rivelatore di quanto fosse diffusa la categoria sociale dei servi domestici. Proveniente dal contado lucchese, fin da dodicenne fu avvia-ta a questo lavoro che svolse sempre presso un’importante famiglia della città, dove visse in castità, umiltà e devota penitenza; praticava anche la misericordia verso i poveri, pur non disponendo di mezzi personali, ricorrendo a “santi furti” che interventi prodigiosi provve-devano a riparare. La figura di Zita si staglia come esempio di onestà e moralità in rapporto a una categoria che non godeva di buona fama. La famiglia presso la quale lavorò e visse si fece promotrice del suo culto.Le case-botteghe degli artigiani accoglievano

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il MERcAntEE SuA MogliE

Quando si pensa a un mercante [cfr. “Mer-canti”, Ca len dario del-l’Avvento 2006] nel-la società italiana medievale si pensa a Francesco di Mar-co Datini di Prato (1335-1410) che fece la sua fortuna ad Avi-gnone dove costituì

una compagnia individuale. Tornò a Prato nei primi anni 80 del Trecento. Quand’era ormai in età matura, più che quarantenne, sicuro dei ri-

sultati conseguiti, si decise al matrimonio e la scelta della sposa cadde sulla fiorentina Marghe-rita di Domenico Bandini, di quasi venticinque anni più giovane. La riuscita del matrimonio, celebrato con molto sfarzo, fu indubbia, anche se Margherita non diede figli al Datini. I rappor-ti fra i coniugi, sia per le frequenti assenze del mercante, sia per l’inclinazione a quegli amori ancillari consueti nel suo mondo, furono spes-so burrascosi, ma la profonda intesa che li unì emerge – è il caso di dire – a chiare lettere dalla corrispondenza che frequentemente si scambia-rono e che si è in larga parte conservata: è sulla base di questi documenti che è stato possibi-

anche gli apprendisti, ragazzi e ragazze collo-cati, tramite una qualche forma contrattuale, a vivere e a prestare mano d’opera – nonché ser-vizi vari – nelle abitazioni dei “maestri” presso i quali avrebbero dovuto imparare “l’arte”. Po-

teva accadere che la famiglia che collocava il/la giovane in apprendistato pagasse una qual-che retta a quella del “maestro”; da parte sua il “maestro” avrebbe dovuto provvedere a vitto, alloggio e quant’altro dell’apprendista.

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le ricostruire, con notevoli approfondimenti psicologici, un quadro della vita matrimoniale dell’epoca, oltre a un profilo del Datini “inti-mo”. La loro corrispondenza, ricca di notazioni ispirate al buon senso comune, punteggia gran parte dei 34 anni di una vita matrimoniale nel corso della quale gli episodi salienti (le assenze del Datini, la tragica successione della morte dei più fedeli collaboratori, i timori per la pe-ste) videro i due sposi sempre affettuosamente legati e solidali, con una forte propensione del Datini ad affidare alla moglie, nell’ambito della vita domestica, un ruolo di “padrona” che ap-pare tutt’altro che insignificante. E d’altronde Margherita (che sopravvisse al marito e ven-ne a morte a Firenze nell’anno 1423) condivi-se fino in fondo questo “senso della famiglia” che il Datini avvertiva assai forte. Accolse, ad esempio, nella sua casa una figlia naturale, Gi-nevra, che il Datini aveva avuto da una schia-va. Il Datini realizzò un sistema di aziende e

istituì una varietà di compagnie tra l’Italia e l’Oltralpe creando fondaci in varie città; a Pra-to il Datini dette vita all’industria laniera. Mise insieme una fortuna di 100.000 fiorini che de-stinò in gran parte per l’istituzione pratese del Ceppo dei poveri di Cristo. La destinazione ai poveri della fortuna accumulata in oltre ses-sant’anni di ininterrotto impegno mercantesco può esser forse letta nella chiave di un estremo atto contabile, volto a regolare il rapporto con l’Aldilà, ma se si pensa, ad esempio, al tragi-co succedersi delle pesti, l’ipotesi di un’intima, profonda conversione appare tutt’altro che im-proponibile.Nel Medioevo, attivo di commerci, le donne ebbero loro spazi in specie nel piccolo com-mercio al dettaglio – bottegaie, merciaie … – ma non mancò neppure la loro presenza nel grande commercio: ad esempio, in città italia-ne ed europee, appaiono anch’esse far parte di società di commercio.

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PRoPRiEtARi/E,PovERi/E

Uomini e donne li-beri godevano pie ni diritti di proprietà. Lo studio degli atti giuridici prova che per quanto riguar-da la gestione dei beni della coppia, la situazione della donna è peggiorata dal XII e XIII seco-

lo. In un primo tempo con il matrimonio la donna entrava in quota-parte dei beni del marito (terza/quarta) [cfr. Finestra 2] e quindi erano frequenti atti in cui marito e moglie agivano insieme; poi la donna non entrerà più in parte dei beni del mari-to per favorire la linea agnatizia e non disperdere

i beni di famiglia; non rientrerà neppure nell’asse ereditario di famiglia (padre, madre, fratelli…) perché da ciò sarà esclusa a motivo della dote che è quanto legalmente le spetta. Tuttavia la documentazione del pieno e avanzato Medioevo rivela molte donne in azione, in grado di vendere, comprare, stabilire contratti vari, fare testamento… e spesso da sole, ciò vuol dire che erano in possesso di beni di cui poter disporre. Come erano entrate in possesso di beni? Anche se ufficialmente escluse dall’asse ereditario, pote-va comunque accadere che mancassero figli ma-schi e quindi il loro posto veniva preso dalle figlie femmine; inoltre i beni potevano essere acquisi-ti attraverso vari lasciti di madri, padri, fratelli, congiunti e/o conoscenti vari… e forse anche at-traverso l’esercizio di una qualche attività lavora-

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il MonDo DEllA tESSituRA E DEll'AbbigliAMEnto

Intorno all’universo di vesti e ornamen-ti ruotava nella città medievale una mi-riade di artigiani: assortitori di lana, borsai, berrettai, cal-zaioli, canapai, cima-tori, cinturai, concia-tori, cucitori di bor-se, cuoiai, farsettai,

fibbiai, filatrici, guantai, lanaioli, merciai, orafi, pannaioli, pellicciai, pettinatori di lana, pianellai, ricamatori, sarti, scarsellai, setaioli, tessitori, tinto-ri, tiratori di panni, torcitori di refe, zoccolai e via dicendo [cfr. Calendario dell’Avvento 2006]. Nel-la produzione tessile le donne furono vastamente impiegate fin dai ginecei dell’alto Medioevo, dove

tiva… ; le vedove poi talvolta erano eredi del ma-rito, talaltra fidecommissarie dello stesso e dallo stesso potevano essere designate destinatarie di lasciti vari. Un bell’esempio di donna, vedova, in grado di gestire il patrimonio familiare è quello di Alessandra Macinghi Strozzi (1406-1471). La raccolta delle sue lettere contiene molte testimo-nianze relative ai rapporti della Macinghi con gli uffici del Fisco, e consentono di ricostruire con precisione i vari passaggi seguiti nella conduzio-ne dei beni e i criteri che la stessa intese adottare per assicurare ai figli un degno futuro nella città natale. Costretta a numerose vendite, fu l’attività svolta a Napoli dal figlio Filippo a consentire la ricostruzione del patrimonio familiare. La Ma-cinghi vi concorse con la saggezza delle sue scelte e con la forte impronta di una educazione morale e civile di alto profilo. Le lettere rivelano anche la grande attenzione della Macinghi per tutto ciò

che accadeva nella vita politica interna a Firenze.Se il Medioevo pieno-centrale e avanzato pre-senta tutta una gamma vasta, variata e variegata di situazioni economico-sociali che vanno da-gli alti livelli aristocratico-nobiliari a tutta una “folla” di ceti mercantili, proto-imprenditoriali, medio- produttivi, lavorativi, medio-piccoli proprietari, ceti abbienti di articolata entità col-legati all’esercizio di svariate attività lavorati-ve, non sono mai mancati i meno-abbienti e/o non-abbienti, cioè i poveri di cui il Medioevo è disseminato. Chi sono i poveri nel Medioevo? Si tratta di un mondo molto variegato che va dai miserabili ai poveri vergognosi, dai carcerati agli storpi. Come si sopperiva alla povertà? Con l’elemosina e il fiorire di istituzioni caritativo-assistenziali come le confraternite, che non solo elargivano elemosine, ma gestivano ospedali e ospizi di accoglienza.

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le donne del castello si affaccendavano sotto la di-rezione della moglie del signore: si fila, si tesse, si approntano le fibre. In particolare la filatura com-peteva pressoché esclusivamente a maestranze femminili.Il ricamo e la filatura erano attività svolte frequen-temente dalle donne: «l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio» (Boccaccio, Decameron, Proemio) erano insepara-bili compagni delle donne medievali per contra-stare malinconia e ozio.I ricamatori più famosi, vale a dire quelli che la-voravano per le principali corti d’Italia e d’Euro-pa, erano solitamente uomini; e mentre quest’ul-timi erano specializzati nell’operare con fili d’oro e d’argento, le donne maneggiavano fili di seta per arricchire non solo vesti, ma anche paliotti e gonfaloni.Per ottenere fili d’oro e d’argento erano necessarie numerose operazioni. La prima era svolta da uo-mini (i battiloro) che fondevano il materiale pre-zioso, verghe d’argento e monete, e ne ricavavano, a forza di martellate, foglie di metallo che unite insieme formavano delle lastre. Queste, a loro

volta, venivano assottigliate fino a ottenerne fo-glie sottilissime che venivano inviate alla filatura.A questo punto intervenivano le donne che con forbici lunghe e taglienti riducevano le foglie in strisce sottilissime e le avvolgevano intorno a un filo di seta giallo, ottenendo un filo che alla vista era tutto d’oro, lucido e brillante, pronto per ese-guire i ricami.Tra i ricami medievali più famosi, l’arazzo di Ba-yeux, opera che celebra la conquista normanna dell’Inghilterra, fu realizzato da ricamatrici an-glosassoni, probabilmente a Canterbury, tra il 1066 e il 1082.In pieno Quattrocento ricamatori e ricamatrici furono impiegati a Ferrara per gli arazzi voluti dal duca Borso d’Este (1450-1471); il lavoro delle ricamatrici era sottoposto a quello dei ricamato-ri e diversamente retribuito (esse lavoravano a cottimo). Nel settore della manifattura tessile si trovano casi di intraprendenza femminile come in città quali Lucca, Londra, Parigi, Colonia; in città come Colonia e Parigi esistevano anche delle corporazioni esclusivamente femminili.

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tAvERniERi E AlbERgAtoRi

Nel Medioevo l’in-cremento dei traffici commerciali e l’af-fiancarsi quindi di altre classi di viag-giatori a quella tipi-ca dei pellegrini [cfr. Calendario dell’Av-vento 2012] aveva reso insufficiente il si stema altomedie-

vale degli hospitia istituiti da chiese e monasteri e ciò fece sì che si sviluppasse un altro genere di accoglienza non più caritativo, ma a pagamen-to con personale di mestiere (osti, tavernieri, albergatori) che dava alloggio e a volte vitto al viaggiatore. Le città si popolarono di alberghi e taverne la cui attività era regolamentata da apposite norme

statutarie tese a evitare che divenissero dei po-striboli, che si facessero giochi d’azzardo (dadi), che scoppiassero risse e incidenti vari a motivo di ubriachezza, e si ordinava che fossero chiuse dopo la terza ora di notte. Tavernieri e albergatori si co stituirono anch’es-si in corporazioni [cfr. “Corporazioni” in Ca-len dario dell’Avvento 2006]; queste avevano un ruolo rilevante ad esempio a Padova e Torino e di scarsa portata a Milano, Brescia, Cremo-na e Mo dena; l’attività poteva essere esercitata anche da donne, da sole o con i mariti. In par-ticolare a Siena, nel 1288, si contavano ben 90 albergatori. Nelle campagne si potevano incontrare luoghi di sosta, più modesti, che svolgevano funzioni polivalenti: fungevano da taverne per gli abi-tanti del luogo, ma potevano offrire un pasto caldo e un letto a chi era di passaggio nonché ri-

coverare i mezzi di trasporto dell’epoca (asini, muli, cavalli). Oltre a bere il vino, nelle taverne, ap-punto, si poteva mangiare e in ta-luni casi erano gli stessi macellai che aprivano una ta-verna e offrivano ai propri clienti le carni da loro stessi macellate. Così era, ad esem-pio, a Parigi e a Pisa, dove, fino al calare del Tre cento il termine taberna-rius indi cava il ma-cellaio.

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MEStiERi AliMEntARi

Numerosi e sparsi nel-la città per ri spondere ai bisogni della clien-tela, i me stie ri legati al l’alimen tazione co-sti tuiscono un settore vitale del l’economia cit ta dina; in que-sto ambito le donne sono notevolmente presenti. Il pane [cfr.

“Fornai” in Calendario dell’Avvento 2006] è sen-za dubbio l’alimento essenziale e quotidiano: se in campagna ogni famiglia contadina faceva il pane e andava a cuocerlo nel forno di qualche signore, questa pratica era vietata nella maggior parte delle città dove la produzione del pane era monopolio di alcuni mestieri: i mugnai fanno la farina per i panettieri, che impastano il pane che verrà cotto

dai fornai. A Parigi gli statuti del 1305 obbligava-no i fornai a cuocere il pane ogni giorno, eccetto la domenica. I fornai erano controllati dalle auto-rità annonarie (fuoco, igiene, scorte, prezzi) e da loro dipendeva il vettovagliamento delle città; sono considerati un’arte minore, ma assai numerosa.Al contrario di quanto si ritiene comunemente, i cittadini nel Medioevo sono grossi consumatori di carne (bovina, d’agnello, di capra, di lepre, di co-niglio e di pernice e/o volatili vari). Questo è un mercato in continua crescita che fa la ricchezza dei macellai: essi, infatti, figurano in tutte le città me-dievali dell’Occidente tra i contribuenti più facolto-si. Benché abbiano successo, i macellai sono poco amati, invidiati per le loro ricchezze e disprezzati perché esercitano un mestiere sporco a contatto con il sangue. Alla fine del Medioevo per questioni di igiene si istituiscono i mattatoi. I macellai ven-dono sì la carne, ma fanno anche commercio dei

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prodotti relativi alla loro attività, come la lana, le pelli, il sego (cioè il grasso animale importante per la fabbricazione delle candele).Alcuni macellai si servivano di scuoiatori e di ma-cellatori che ricevevano un compenso per ogni capo abbattuto ed era loro vietato di appropriarsi della carne sia per il consumo personale che per la vendita. Se questi erano mestieri prati-cati solo da uomini, quello del pollaiolo era declinabile tanto al maschile quanto al femmi-nile, come si può vedere nelle miniature. I pollaioli oltre ai pollami offrivano le interiora di questi e vendevano le uova.Anche nella vendita delle spe-zie potevano cimentarsi le donne. L’uso delle spezie nel-la preparazione del cibo per-metteva di mascherare sapori poco gradevoli e inventare una varietà di gusti. Il mestiere del formaggiaio era tanto maschile quanto femminile. Gli obblighi religiosi fanno sì che la consu-mazione di pesce occupi una parte importante dell’alimen-tazione medie vale; corpora-

zioni di pescatori sono pre-senti in varie città italiane: Padova, Reggio, Modena, Como, Torino … Nessuna meraviglia! Le città lontane dal mare potevano fruire del pesce di acqua dolce! Alla vendita al minuto del pesce provvedevano i pe-scivendoli considerati tra le arti medio-inferiori. A Roma vi era uno specifi-co mercato ittico attestato già dalla fine del sec. XII; la zona era quella della chiesa di S. Angelo detta per que-sto motivo “in Pescheria”; il pesce veniva esposto e ven-duto al pubblico su pietre raramente di proprietà dei

pescivendoli, mentre a Perugia, Bologna e Vero-na la corporazione di questi era proprietaria delle strutture di vendita.La gamma dei mestieri alimentari è quasi inesau-ribile: ortolani, fruttivendoli, erbivendoli, salaioli [cfr. Calendario dell’Avvento 2006], pizzicagnoli, lardaioli…

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MEDici

Nel corso del Me-dioevo la medicina ufficiale fu sem pre, in linea di massi-ma, esercitata da uomini [cfr. Fine-stra 20].Si diventava me-dici professionisti fre quentando ap-posite scuole e poi

le università [cfr. Finestra 20]. Nel Duecento e Trecento erano celebri per tale corso di studi, ad

esempio in Italia, le università di Padova, Pisa, Firenze, Siena, Perugia, Roma, Napoli per non parlare di Salerno e Bologna già fiorenti nel sec. XII. A Bologna il corso di medicina si basava su i testi obbligatori di Ippocrate (460 a.C. cir-ca -370 a.C. circa), Galeno (130 d.C. circa -200 d.C. circa), Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198). Anche la curia pontificia incorag-giò studi di medicina. Nell’Italia comunale pure i medici si organizzarono in corporazioni e in questo generale slancio corporativo appaiono le specializzazioni: medici dell’università, chirur-ghi, cerusici, speziali. La separazione tra medici

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fisici (specialisti della natura/physis) e medici chirurghi era netta.Professione di prestigio e redditizia, i medici guadagnavano molto e potevano accumulare patrimoni. L’abito stesso li distingueva: indossa-

vano mantelli foderati di vaio (pelliccia morbi-da e pregiata di colore grigio) e il berretto rosso. La diagnostica si basava su scarsi elementi fon-damentali; ogni visita medica seguiva una sorta di rituale: osservazione dell’aspetto del malato,

Un polifarmaco diffuso era la teriaca, il cui nome deriva dal vocabolo greco therion, usato per indicare la vipera o gli altri animali velenosi in genere. Dotata di virtù magiche e capace di risol-vere ogni tipo di male, fu prescritta ininterrottamente dai medici per 18 secoli. Fino al XII secolo

fu preparata dai medici, poi nel 1233, con l’editto dell’Imperatore Federico II di Svevia, noto come “L’Ordinanza Medicinale”, si ebbe una netta separazione tra la professione medica e la

professione farmaceutica, per cui ai medici fu vietata la preparazione dei farmaci. Dal XIII se-colo, perciò, le preparazioni medicamentose furono affidate alla Corporazione degli Aromatari e poi agli Speziali. La migliore teriaca era quella che si preparava a Venezia, dal momento che gli speziali della Serenissima potevano utilizzare più facilmente le droghe provenienti dall’Oriente, la cui fragranza e rarità conferivano al preparato una qualità superiore. L’elemento più curioso della preparazione sono i “trocisci” di vipera, vale a dire carne di vipera femmina, non gravida,

catturata qualche settimana dopo il letargo invernale, privata della testa, della coda e dei visceri, bollita in acqua di fonte salata e aromatizzata con aneto, triturata, impastata con pane secco, lavorata in forme tondeggianti della dimensione di una noce e posta a essiccare all’ombra. La

teriaca era il rimedio sovrano per un’infinità di malattie che spaziavano dalle coliche addomi-nali alle febbri maligne, dall’emicrania all’insonnia, dall’angina ai morsi delle vipere e dei cani,

dall’ipoacusia alla tosse.

Per spiegare la struttura del corpo uma-no e la patologia a esso connessa la me-dicina medievale poggiava su di un si-stema quaternario. Il corpo umano era formato da quattro umori: sangue, fleg-ma, bile gialla e bile nera. Queste sostan-ze, corrispondenti ai quattro elementi cosmici (aria, acqua, fuoco, terra), di cui possedevano le stesse qualità (caldo, umido, secco, freddo), erano responsabili dello stato o meno di salute dell’indivi-duo, nonché del suo temperamento, di-stinto in impulsivo, flemmatico, collerico e melanconico. La condizione di armo-nia psichica e di sanità fisica consisteva nello stato di equilibrio di questi quattro umori, collegati a loro volta all’influen-za del clima, dell’ambiente, delle stagio-ni, degli astri.

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Medici famosi Taddeo Alderotti, fiorentino (1223-1295), dette inizio a una scuola medica che segna la rinascenza della medicina antica nello Studio bolognese e che si protrasse fino alla seconda metà del XV secolo. Fu tenuto in gran stima dai bolognesi che gli concedettero ampli privilegi; per la sua fama fu chiamato anche al capezzale di Onorio IV, durante l’ul-tima malattia del papa. Aldobrandino da Siena (†1287?) è celebre per il suo trattato Le Régime du corps ov-vero De regimine santitatis. Esso è diviso in quattro parti principali: a) igiene generale; b) cure particolari; c) dietetica; d) fisiono-mia, tratti psicofisici. Dell’opera, che ebbe particolare fortuna nel Medioevo, esistono due volgarizzamenti italiani.

Uno strano caso di medico Arnaldo da Villanova (1240-1313), det-to il “Catalano”, è stato un medico, alchi-mista e scrittore del XIV secolo. Fu un personaggio influente nelle corti europee dell’epoca, consigliere del re d’Aragona, del papa e del re di Sicilia. Subito dopo la sua morte, la sua personalità e i suoi studi gli conferirono fama di alchimista e mago. Nel 1305 l’inquisizione catalana proibì la lettura dei libri di Arnaldo, che spaziavano dalla medicina all’astrologia, dalla teologia all’alchimia, ecc., nei quali, con uno spirito apocalittico, il Villanova prevedeva, per la metà del XIV secolo, la fine di un’era e la venuta dell’Anticristo. Dopo la sua morte, nel 1316, i suoi libri fu-rono confiscati e bruciati.

esame del polso, delle orine, del sangue, dello sputo. I rimedi consigliati consi-stevano in salassi, bagni e diete. Nel Medioevo si sviluppa la dietetica e molti medici da-vano appositi consigli in me-rito. La terapia medicamen-tosa poggiava in gran parte su erbe e radici, ma anche su rimedi di origine anima-le e vegetale. Con l’accentuarsi delle specializzazioni la pre parazione dei “farmaci” spettò agli speziali [cfr. “Speziali” in Ca-lendario dell’Avvento 2006].Le cognizioni erano ridotte e carenti; le conoscenze anato-miche scar se (non si

praticava la dissezione) e l’efficacia delle cure era tutta da vedere come pro-

va l’ampia richiesta di mi-racoli. Una professione di tipo paramedico fu quella dei barbieri ai quali com-petevano sa lassi, estrazioni

di denti, inci sioni di ascessi, applicazio-

ni di mignatte, cu ra di ferite sem-

plici; spesso rappresen-

tavano il medi-co della gente po-vera e dei piccoli vil laggi di conta-do6.

_6. Per contro sembra che le donne esercitassero il mestiere di barbiere in senso stretto.

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lEvAtRici E cuRAtRici

Se la pratica della medicina, specie in senso accademico, fu di pertinenza maschile, tuttavia pare che non siano del tutto mancate donne-medico.C’è una Trotula leggendaria e una Trotula storica: la

prima nata da nobile famiglia, i De Ruggiero, moglie del medico Giovanni Plateario e madre di due medici illustri, sarebbe stata famosa per la sua bellezza oltre che per la sua scienza e abilità diagnostica. Un dato è sicuramente documentato: le donne erano presenti e operanti nell’ambiente medico salernitano. Dal XII secolo in avanti ab-biamo te stimonianza di un nutrito nume-ro di donne esperte nell’arte di Ippocrate: Abella, Rebecca Guar-na, Fran cesca di Ro-mana, fino a Costanza Calenda che nel XV secolo divenne dotto-re in medicina all’Uni-versità di Napo li. Inol-tre ricordiamo che secondo il medico e scienziato spagnolo Arnaldo da Villano-va [cfr. Finestra 18], non poche mulieres salernitanae aiuta-vano le partorienti e cu ra vano malattie fem minili. Quanto a Tro tula il documen-

to fi no a oggi più interessante è un breve testo manoscritto che contiene osservazioni sulle me-struazioni, sulle terapie atte a favorire il conce-pimento, ma anche suggerimenti pratici contro il vomito, la pazzia, i morsi dei serpenti, ossia consigli più generali che riguardano gli uomini come le donne. Fin dal più profondo Medioevo vi fu tutto un mondo di donne che praticavano una sorta di at-tività paramedica: si tratta di levatrici e curatrici. Nell’alto Medioevo, ad esempio, le herbarie, erano le esperte delle erbe di cui conoscevano proprie-tà e virtù ed erano in grado di ricavare con esse pozioni, decotti, cataplasmi, filtri e così curavano le malattie più diverse: febbri, ferite e quant’altro. Per tutto il Medioevo le donne occupano un po-sto ben definito nella terapeutica a base di erbe, erano loro, del resto, le incaricate della cura del

corpo nella vita quoti-diana! Il campo in cui per tutto il Medioevo le donne dominarono in contrastate fu l’oste-tricia. Le donne pre-ferivano ricorrere ad altre donne per tutto quello che riguardava l’aspetto ginecologico.Il parto era un mo-mento/evento di e sclu -siva pertinenza fem-minile; solo le vatrici e balie vi assistevano senza il controllo dei medici che considera-vano l’o stetricia un’at-tività per loro poco qua lificante. Il parto, quindi, era un “affare di donne”!

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L’Università è una delle grandi crea-zioni del Medioevo. Si stabilizzò in una i stituzione di tipo corporativo legata al lo sviluppo urba-no e destinata a ciò che oggi chiamia-mo in segnamento superiore. Prima

dell’università vi erano scuole ecclesiastiche sia presso monasteri e/o canoniche sia presso cat-tedrali; comparvero anche scuole private. Alla base dell’insegnamento c’erano le sette arti libe-rali (il “trivio”: grammatica, dialettica e retorica; il “quadrivio”: matematica, geometria, musica,

astronomia), al vertice la teologia. Già in pieno secolo XII Bologna era celebre per lo studio del diritto. Parigi pullulava di scuole e fu qui che nel primo decennio del secolo XIII si costituì l’“uni-versità dei maestri e degli scolari” riconosciuta dal papa; in particolare nel 1231 il pontefice Gre-gorio IX ne confermò gli statuti e le conferì pri-vilegi con eccezionale solennità. Le varie scuole, raggruppate in discipline, dettero vita alle facoltà. Contemporaneamente a quella di Parigi si for-mò l’Università di Bologna quale organizzazione comunitaria di studenti. Nel corso del Duecen-to sorsero in modo spontaneo altre università come quella celeberrima di Oxford in Inghilter-ra; altre sorsero per iniziativa del papato (Tolo-sa) e altre per iniziativa di sovrani (Napoli per volontà di Federico II). Nel corso del Trecento

l’ univERSitA

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_7. Per accogliere questi si crearono appositi collegi come quello della Sorbona a Parigi (1257).8. Tra i celeberrimi figurano Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) e Baldo degli Ubaldi (1327-1400).

Medioevo notarile

Nel pieno Medioevo, quando gli scambi e le transazioni s’incrementarono, per dare loro validità giuridica si affermò un ceto di professionisti in grado di redigere gli atti più diversi, un ceto che

si organizzò in collegi/corporazioni e che con il proprio lavoro si guadagnò uno spazio sociale di tutto rispetto! I notai! [cfr. “Notaio” in Calendario dell’Avvento 2006]. I notai sono una peculiarità

dell’Italia medievale. Il loro compito era di scrivere documenti, quei documenti (carte e registri) che riempiono i nostri archivi storici. Per fare ciò essi dovevano seguire un corso di studio ed essere riconosciuti dalla pubblica autorità. Dove studiavano i giovani che volevano avviarsi alla profes-sione? Nelle città, questo è certo; ma bisogna distinguere. In un primo periodo si formavano nelle

scuole cattedrali, dove imparavano la scrittura professionale, la grammatica cioè il latino, il diritto e il dictamen ossia l’arte di scrivere documenti e lettere. Dal Trecento in avanti queste funzioni passarono a vere e proprie scuole professionali, gestite dall’organismo che riuniva tutti i notai

esercitanti in quel territorio, sia che tale organismo si chiamasse Collegio o Arte o Consorzio dei notai. Quelli più ambiziosi e ricchi di famiglia invece andavano a studiare presso le Università in

cui c’era una facoltà di diritto civile e canonico, presso la quale era attivata una scuola di notariato; le più importanti all’epoca erano quelle di Bologna, Padova, Napoli e Perugia. I notai che avevano ottenuto il titolo universitario si riconoscono perché, quando sottoscrivono un documento, affian-cano alla qualifica di notarius quella di iudex ordinarius. Dopo questo corso di studio (cittadino

o universitario), che durava due o tre anni, bisognava – come oggi – fare pratica presso uno studio notarile (allora si chiamava statio). Alla fine del praticantato, ci si presentava all’esame di notaria-to presso il Collegio della propria città e, se bravi, si otteneva la licenza di esercitare la professione.

e Quattrocento, con fasi di maggiore o minore espansione, tutta l’Europa si “rivestì” di univer-sità che, grandi o piccole che fossero, creavano un clima universalistico e movimentavano stu-denti7 e docenti. Furono favorite dal Papato, da sovrani e principi e dai Comuni. Inizialmente non ebbero una sede specifica, ma i corsi, le dispute, gli esami e quant’altro si svolgevano in luoghi diversi tra i quali quelli religiosi e/o ecclesiastici (chiese, conventi ecc.). Le singole università ebbero propri statuti e governi con a capo il rettore. Funzione sociale dell’univer-sità – oltre la diffusione delle idee e del sapere – fu quella di favorire l’ascesa sociale di molti laureati grazie al riconoscimento della compe-tenza intellettuale individuale. Già si è detto dei medici [cfr. Finestra 18], ma vi fu, ad esem-pio, un’altra categoria di esperti professionisti che nel Medioevo praticamente trionfarono: è quella dei giurisperiti8, cioè degli esperti in diritto civile e canonico; essere, infatti, dottori

in utroque iure era quanto di meglio si poteva ambire!Cosa si studiava nelle università medievali? S’in-segnavano le sette arti liberali per poi accedere a studi superiori di teologia, diritto (civile e canoni-co), medicina. I corsi di studio duravano anni e il conseguimento del dottorato era il grande punto di arrivo che veniva solennizzato con la consegna del berretto, dell’anello, del libro.I papi del Duecento avvertirono l’importanza delle università; da esse doveva uscire personale specia-lizzato a servizio della Chiesa e della Santa Sede. In tale prospettiva tutti i maestri e gli studenti, anche se laici, godevano i privilegi dei chierici e dipende-vano dalla giurisdizione ecclesiastica (universitari = chierici). L’Università di Parigi si specializzò, ad esempio, in teologia e vi insegnarono san Bona-ventura e san Tommaso d’Aquino. Con l’avanzare del Medioevo e l’affermarsi degli Stati le universi-tà divennero centri di formazione professionale a servizio di questi.

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Le donne furono escluse dall’acces-so agli studi uni-versitari! Ma ciò non impedì che alcune di loro si affermassero per le loro qualità intel-lettuali. Celebre è il caso di Cristina de Pizan (1364-1430),

nata in Italia, fu educata alle lettere e alle scienze dal padre, prima docente di medicina e astronomia all’università di Bologna, poi consigliere di Carlo V, re di Francia. Cristina stessa ricorda che il maggior ostacolo alla sua istruzione – raro percorso per una donna di quei secoli – era rappresentato dalla oppo-sizione della madre che avrebbe preferito per lei la

tradizionale istruzione femminile (“ago e filo”), più adatta a una futura moglie.La morte del padre e del marito la costrinsero – come lei stessa dice – a “diventare uomo” e a mettere a frut-to la sua cultura e le sue capacità: divenne la prima scrittrice della storia francese in grado di provvede-re con il suo lavoro alla famiglia, conquistandosi un ruolo sociale e intellettuale di prestigio. Le sue due opere più importanti sono La città delle dame (1405), in cui rovescia i luoghi comuni dell’inferiorità fem-minile che risalivano all’autorità di Aristotele, e il Dettato dedicato a Giovanna d’Arco scritto poco pri-ma di morire. Nella prima opera Cristina racconta di aver ricevuto la visita di tre donne, Ragione, Rettitu-dine e Giustizia, che la invitavano a costruire una for-tezza per difendere le donne dalle maldicenze e dai pregiudizi avversi. L’opera dedicata a Giovanna d’Ar-co è una dimostrazione nei fatti della teoria dell’au-

DonnE intEllEttuAli E "tEologhE”

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Il mestiere del ba lia-tico fu, ov viamente, tutto al femminile (si potevano chia -ma re balii i mariti delle balie che, ad esempio, interve-nivano nella stipula di contratti di ba-liatico) così come tutto al femminile,

per altri versi, era quello della prostituzione, atti-vità sempre condannata, ma anche tollerata fino a “inventare” luoghi specifici – i postriboli – per il suo esercizio.La pratica di ricorrere alle nutrici per l’allatta-mento dei neonati si diffuse dal XIII e XIV se-colo ed ebbe ampio successo nel corso del XV. Vi facevano ricorso le classi sociali più elevate e/o abbienti. Non vi è un’univoca motivazio-ne per tale diffusa pratica: mancanza di latte

delle madri; lo scarso ricorso al latte animale; desiderio di una

maggiore fecondità femmi-nile; modo di ritardare l’af-fezione verso figli destinati sovente a morte prematura; ripresa dei rapporti coniu-gali; volontà di alleggerire le

donne dal compito dell’al-lattamento.Le balie svolgevano il loro lavoro o nelle proprie case in campagna e/o in città, dove i bambini ve-nivano, appunto, “man-dati a balia”, o nelle case private; qui il loro la-voro si assimilava in parte con quello delle serve, ma erano più considerate e meglio

MEStiERi EScluSivAMEntE Al fEMMinilE

trice sulla parità naturale del genere femminile. Che onore per il sesso femminile quando questo nostro re-gno interamente devastato, fu risollevato e salvato da una donna, cosa che cinquemila uomini non hanno fatto... scrive Cristina. Non sappiamo se abbia vissuto abbastanza per conoscere la tragica conclusione del-la storia di Giovanna (condannata nel maggio 1430): per pochi mesi forse la notizia le è stata risparmiata.

Presso le università la teologia era una disciplina di punta ed in tal senso brillò quella di Parigi dove in-segnarono Tommaso d’Aquino (1225-1274), dome-nicano, e Bonaventura da Bagnoregio (1217 circa -1274), francescano. Le donne non potevano essere teologhe in senso accademico; Dio però si rivela agli uomini attraverso la via dell’istruzione e della ragione

(scientia) e attraverso quella dell’amore (sapientia); te-nuto conto che la scientia è il terreno dei teologi dove la ragione è signora e padrona, e che la sapientia è una conoscenza ispirata direttamente da Dio a chi ritiene opportuno, nel progredire del Medioevo si ebbe una fioritura di donne mistiche, dotate di visioni, in grado di dialogare con Dio e con Gesù in particolare. Tra le tante si ricorda Angela da Foligno (1248-1309), pro-clamata di recente santa da papa Francesco (9 ottobre 2013), qualificata come “maestra dei teologi” per es-sere “autrice” di un Liber, opera di grande intensità e testo fondamentale della mistica, che ripercorre la sua esperienza dal raggiungimento della consapevolezza del peccato fino all’unione con la Trinità, dalla neces-sità della conoscenza di sé fino al desiderio di dare istruzioni ai figli spirituali.

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Francesco da Barberino Francesco da Barberino (1264-1348), notaio e poeta fiorentino, è autore del Reggimento

e costumi di donna. L’opera riguarda l’educazione e il contegno delle donne a seconda della loro condizione. È, tra l’altro, una sorta di “enciclopedia” dei mestieri femminili: balie,

levatrici, fornaie, barbiere, serve, “treccole”, cioè venditrici di frutta e verdura, tessitrici, filatrici, molinare, pollaiole, caciaiole, taverniere e albergatrici. Per suggerire loro corretti comportamenti lascia intravvedere astuzie, furbizie, inganni perpetrati ai danni dei datori

di lavoro e/o dei clienti. Ad esempio: alle treccole raccomanda di non porre la frutta migliore sopra quella meno fresca; alle mugnaie di non cambiare la farina migliore con quella meno

buona; alle pollaiole e caciaiole di non lavare le uova e il cacio perché paiano più freschi a chi li compra; alle serve di non rubare.

Nel Medioevo si sviluppò un’atten-zione “scientifica” per il trattamento dei bambini [cfr. “Bambini” e “A scuola” in Calen-dario dell’Avvento 2006], una sorta di pediatria/pueri-coltura; ad esempio

vi dedica attenzione il medico Aldobrandino da Siena nella sua opera Le régime du corps [cfr. Fi-nestra 18]. Punire i bambini fisicamente era un fatto quoti-diano e anche gli insegnanti non scherzavano in termini di battiture; fu Aldobrandino a consi-gliare un trattamento più “affettuoso” nella prassi della loro educazione.Presso le classi aristocratiche accadeva che i figli fossero affidati ad estranei di fiducia: l’imperatri-

ce Costanza, ad esempio, affidò il piccolo Federi-co alla duchessa di Spoleto; in genere i giovinetti erano inviati a casa di altri signori per imparare le belle maniere; qui le fanciulle fungevano da da-migelle e i ragazzi da paggetti cui competeva, tra l’altro, il servizio a tavola… Per i giovani nobili era importante apprendere l’equitazione, la scher-ma, la caccia.Fu prassi ampiamente diffusa nel Medioevo collo-care bambini e bambine in monasteri; essi venivano offerti/oblati dai genitori; lì crescevano e venivano educati alla vita monastica che – giunti all’età “giu-sta” – avrebbero abbracciato. I parti si succedevano quasi senza soluzione di con-tinuità e l’allattamento era ovviamente la cura più immediata da rivolgere ai neonati; questi potevano essere allattati direttamente dalle madri, ma divenne di moda affidare tale impegno alle balie/nutrici [cfr. Finestra 22]. Ma vi fu anche un’altra realtà! Nume-rose furono le donne che si trovavano costrette dal-la miseria, dalla malattia, dalla pubblica disappro-

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pagate; o presso gli enti ospedalieri deputati ad accogliere i bambini abbandonati. Quello delle balie fu un vero e proprio me-

stiere, “regolarmente” retribuito. Francesco da Barberino vi dedica un intero capitolo del suo Reggimento.

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vazione ad abbandonare, più o meno in fretta, i loro bambini. Il rifiuto del neonato sembra una pratica molto diffusa per lo meno nelle città: la alimentano le gravidanze delle domestiche, libere o schiave, e la povertà, cronica o legata a crisi di sussistenza. I miserabili o comunque i ceti in stato di precarie-tà e indigenza lasciavano presso gli ospedali delle città i loro figli legittimi, nella speranza, talvolta, di poterli riprendere in seguito e altresì confidando che l’ospedale potesse salvarli dalla morte meglio di quanto avrebbero potuto fare loro. In genere si trattava di neonati che potevano essere “deposti” in qualche specifico “posto” prossimo all’ingresso dell’ospedale, in anonimato, di nascosto, magari di notte; oppure “recati” da qualcuno; alcuni potevano portare addosso oggetti e/o “scritte”, patetico segno di “affetto” da parte di chi li abbandonava. Bambini e bambine (più femmine che maschi) abbandonati erano fortunati – diciamo così – se venivano lasciati presso un ente ospedaliero che in qualche modo se ne prendeva cura, in primo luogo provvedendo al loro allattamento tramite balie, interne all’ospeda-le stesso o sovente esterne. Se i piccoli abbandonati riuscivano a sopravvivere alla fase dell’allattamento, in genere rientravano nell’ospedale, qui venivano accuditi e anche sommariamente istruiti, potevano

essere adibiti a servizi interni o esterni all’ospedale. Una volta raggiunta l’età di 10-12 anni venivano av-viati al lavoro o a una qualche collocazione: restava-no in servizio presso l’ospedale; affidati a comunità religiose; indirizzati ad attività artigianali; le fem-mine assegnate come famule, cioè serve domesti-che e, comunque, veniva loro assegnata una piccola dote perché l’orientamento era quello, se possibile, di maritarle.Nonostante la frequenza dei parti, nel quotidiano succedersi delle nascite e delle morti, le case del-la fine del Medioevo, quando si dispone di “cen-simenti”, ospitano in media poco più di due figli viventi. Anche i testamenti dei genitori si rivolgo-no a un giro non cospicuo di figli. Pure in seno alle famiglie facoltose molti figli non superavano i vent’anni. Le partorienti morivano, forse, più di rado di quanto spesso non si dica. Tuttavia, anche le donne ricche, attraversano uno dei momen-ti più rischiosi della vita: una su tre delle mogli fiorentine, nell’avanzato Medioevo, che muoiono prima del marito soccombe mettendo al mondo un bambino o muore per le conseguenze imme-diate del parto. Il fardello delle gravidanze e dei parti solo una volta su due ha la speranza di por-tare il bambino all’età adulta.

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La festa del Natale, consolidatasi tra IV e V secolo, nel corso del Medioevo, e in particolare nel pieno Medioevo tra i seco-li XII-XIV, divenne sempre più centrale, conferendo devota solennità al mistero dell’Incarnazione.

Fu un fiorire di rappresentazioni dell’Evento, sia in forme artistico-figu-rative che in termini di espressioni lette rarie. Tra Duecento e Trecen-to, si impon gono laudi e sacre rap presentazioni in centrate su i miste-ri della Fede, quindi su episodi della vita di Cristo e della Ver gine, tra cui non manca di certo la Natività! Famosi sono i laudari redatti in area centro-italiana, tra questi è ce-leberrimo il Laudario di Cortona (seconda metà del sec. XIII) da cui questa splendida lauda.

Gloria ‘n cielo e pace ‘n terra:nat’è ‘l nostro salvatore!Nat’è Cristo glorioso,l’alto Dio maravellioso:fact’è hom desiderosolo benigno creatore!De la vergene sovrana,lucente stella diana,de li erranti tramontana,puer nato de la fiore.Pace ‘n terra sia cantata,gloria ‘n ciel desiderata;

la donzella consecrataparturit’à ‘l Salvatore!Nel presepe era beatoquei ke in celo è contemplato,dai santi desideratoreguardando el suo splendore.Parturito l’à cum canto,pieno de lo Spiritu santo:de li bracia li fe’ mantocum grandissimo fervore.Poi la madre gloriosa,stella clara e luminosa,l’alto sol, desiderosa,lactava cum gran dolzore.

nAtivitA

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