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Italia 1969-1978 LA VIOLENZA POLITICA NEGLI ANNI DI PIOMBO .1 ASSOCIAZIONE FORMALIT 2017/2018

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Italia 1969-1978

LA VIOLENZA POLITICA NEGLI ANNI DI PIOMBO

.1

ASSOCIAZIONE FORMALIT

2017/2018

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Indice

Gli anni Settanta…………………………………………………………………..p.2

Le stragi: Piazza Fontana, 12 Dicembre 1969………………………….p.2

Le Fabbriche: l’autunno caldo del ‘69…………………………………...p.6

Le Piazze: il movimento del ‘77……………………………………………p.10

Il terrorismo: il sequestro Moro, 16 Marzo – 9 Maggio 1978…..p.14

Legenda delle fotografie………………………………………………………p.19

Cronologia degli eventi principali…………………………………………p.20

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Gli anni Settanta

La strage di Piazza Fontana annuncia gli anni settanta, un decennio in cui esplodono le tensioni della

storia precedente e la violenza politica conosce asprezze senza paragone con altri paesi europei. Sono

centinaia le persone che perdono la vita in seguito a stragi, atti terroristici, violenze di piazza, e migliaia

i feriti: vittime nei primi anni soprattutto dello stragismo e dello squadrismo neofascista e poi del

terrorismo rosso degli «anni di piombo». Sullo sfondo vi è una gestione «estrema» dell’ordine pubblico

che radicalizza le tensioni, e la condotta degli apparati dello stato alimenta più di un dubbio sulla

trasparenza della democrazia italiana. […] eppure negli stessi anni e negli stessi mesi avanzano in modo

prepotente le istanze di rinnovamento cresciute negli anni sessanta. Con una più ampia realizzazione

della Costituzione: negli istituti (dalle Regioni al referendum) e nella «democrazia quotidiana», grazie

alla progressiva abolizione di norme e codici ereditati dal fascismo. Con la realizzazione di importanti

conquiste: dall’introduzione del servizio civile all’abbassamento a 18 anni del diritto di voto; dalla legge

sul divorzio a quella sul diritto di famiglia a una regolamentazione dell’aborto che pone fine alle pratiche

clandestine; dalla riforma delle carceri e degli ospedali psichiatrici. Sono elementi fecondi ma al tempo

stesso pesa negativamente l’incapacità della politica di riformare le istituzioni e se stessa.

(G. Crainz – Storia della Repubblica. Donzelli Editore, Roma, 2016. p. 153)

Le stragi: Piazza Fontana, 12 Dicembre 1969

.2

- Non credo a niente: nemmeno a una parola. I dati, certo, i fatti,... ma è tutto falso, il resto; il lutto,

l'indignazione. Tutto alchimia... di questo branco di mistificatori. L'Altare della Patria, l'ara del cielo, le

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banche... tutta roba loro... da sempre... e sempre usata allo stesso modo... come un fiocco! In realtà

come nodo... e che nodo!

- È chiaro che è una manovra intimidatoria contro i sindacati, allo scopo di portarli a cedere... almeno

psicologicamente, con al solita paura del ricatto a destra, del salto nel buio, - disse la donn a con fatica,

cercando di rianimare le parole una per una, perché potessero convincere il suo uomo, che era

stravolto, che ondeggiava davvero scosso da un ventaccio interiore che rischiava di portarlo lontano

dalle cose e dalla loro realtà.

- Non basta, non basta. È di più. È la fine. È tutto il paese che non gliela fa, che non gliela può fare

contro questi nodi. Sempre di sciarpe e manti si sono paludati! Di arredi, lembi stoffe, pendagli labari,

gagliardetti, scalini, archi colonne, colonnacce, - e ondeggiava al ritmo delle sue parole, aumentando la

misura come se dovesse prendere un balzo.

- Facciate coperte, camicie, fazzoletti, cordoni, mappe! Per legare tutto, tutto che non regge, che sfugge

legato a questo modo, senza giudizio, insaccatto, imbracato, stivalato, incinturato, saccone anzi

saccoccione... [...]

- Calmati, - gli raccomandò la moglie, - calmati. Abbi pazienza di aspettare. Tu hai ragione ma la tua

ragione è così vasta che vale sempre e per tutto in democrazie come questa... per tutta la storia. Quante

volte l'abbiamo detto? Adesso considera queste bombe. Il loro motivo è semplice come il loro

meccanismo: è così chiaro tutto che anche la polizia e il governo non potranno sbagliare. Sono sicura

che scopriranno presto gli attentatori e che questi sono stati mandati dalla destra. Se non scopriranno

niente vorrà dire che lo stesso governo ha messo le bombe e che continuerà a metterne altre finché

non fingerà di essere costretto a mettere su un nuovo regime autoritario. Gaspar, è così semplice.

- I morti, - andò a cercare lui che era stato a sentire a metà, affondato per finta nel bicchiere. - I morti...

altri cadaveri sullo stivale, a... a... rinfrescarlo, lucidarlo, concimarlo se ancora vi si coltivasse qualcosa.

Ah! Lo stivale, - e fece il gesto di morderlo, - si riempie di altri morti.

- I morti, - gli si accostò lei, - sono morti. I morti sono uguali a tutti quegli altri che abbiamo sempre

visto: i nostri compagni che cadevano e anche i nostri nemici che cadevano e anche i civili bombardati.

Sono gli stessi morti: cioè sono uguali e sono morti sempre per lo stesso motivo, da centinaia d'anni.

- E noi dobbiamo sempre stare a guardare questi morti? - bofonchiò lui.

- E noi allora, perché non siamo morti? - disse lei, questa volta con severità.

- Siamo morti mille volte, - si compianse Subissoni toccandosi addosso, aprendosi il cappotto.

- No. E vivremo per vedere la fine anche di questa. Calmati. Vedrai che già alle undici la TV dirà

qualcosa sugli attentatori.

- Attentatori. Attentatori. Finiti gli attentatori. Sono altri, tutti, altri ori... i dottori, i professori, i pretori,

i curatori, i contestatori, i lavoratori, i direttori ori-ori, tutti colpevoli, laureati, rispettati, illustrati che si

scambiano soldi, puttane, bombe. Altro che governo. Il governo predica, abbraccia, inaugura, taglia...

taglia centri, borse, torte, prosciutti, protocolli, capocolli, budelli, salami! Salami! Noi, noi, - infilzò il

professore, riprendendo a dondolare, - che davvero restiamo in silenzio. In silenzio davanti a questo

teatrino, - indicò il treppiede occhialuto, - che fa tutto da solo, inventa e commenta: e spaventa -. Si

fermò contento della rima. Vivés lo capì e gli sorrise.

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- Può essere, - disse poi con una convinzione che affermava parola per parola, - la fine del fascismo. La

fine spaventevole. Se i lavoratori restano calmi. Sarebbe un grande passo avanti, più grande di un'altra

affermazione elettorale. O il governo è colpevole o altrimenti non può non mettersi con i lavoratori, -

incalzava su questo punto e continuava a confermarlo a se stessa, a riperselo davanti e dentro, come se

dovesse bloccare un'altra ipotesi, della quale non aveva ancora chiaro nessun termine, ma della quale

doveva avvertire la massa angosciosa.

(P. Volponi – Il sipario ducale. Garzanti, Milano, 1975. Pp. 27-29)

.3

Io so.

Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe"

istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-

fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase

anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).

Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci

della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a

tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una

verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione

politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato),

a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine

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criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva

tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi

comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale

(mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il

generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le

suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come

killer e sicari.

Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere

tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche

lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico,

che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio

"progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti

a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò

che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che

è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.

[…]

Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di

concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon -

questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere:

come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che

siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

(Corriere della Sera 14 Novembre 1974 ora in P. Pasolini – Scritti Corsari. Garzanti, Milano, 2015. P. 56-58)

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La Fabbrica: l’autunno caldo del ‘69

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Noi abbiamo cominciato questa grande lotta chiedendo più soldi e meno lavoro. Adesso sappiamo che

questa è una parola d'ordine che capovolge che manda per aria tutti i progetti dei padroni tutto il piano

del capitale. E adesso noi dobbiamo passare alla lotta per il salario alla lotta per il potere. Compagni

rifiutiamo il lavoro. Vogliamo tutto il potere vogliamo tutta la ricchezza. Sarà una lotta lunga di anni con

successi e insuccessi con sconfitte e avanzate. Ma questa è la lotta che noi dobbiamo adesso cominciare

una lotta a fondo dura e violenta. Dobbiamo lottare per la distruzione violenta del capitale. Dobbiamo

lottare contro uno Stato fondato sul lavoro. Diciamo Sì alla violenza operaia.

Perché siamo noi proletari del sud noi operai massa questa enorme massa di operai noi

centocinquantamila operai della Fiat che abbiamo costruito lo sviluppo del capitale e di questo suo

Stato. Siamo noi che abbiamo creato tutta la ricchezza che c'è e di cui non ci lasciano che le briciole.

Abbiamo creato tutta questa ricchezza crepando di lavoro alla Fiat o crepando di fame nel sud. E adesso

noi che siamo la grande maggioranza del proletariato non ne abbiamo più voglia di lavorare e di crepare

per lo sviluppo del capitale e di questo suo Stato. Non ne possiamo più di mantenere tutti sti porci.

E allora diciamo che è ora di finirla con questi porci che tutta questa enorme ricchezza che noi

produciamo qua e nel mondo poi oltre tutto non sanno che sprecarla e distruggerla. La sprecano per

costruire migliaia di bombe atomiche o per andare sulla luna. Distruggono perfino la frutta tonnellate

di pesche e di pere perché ce ne sono troppe e allora hanno poco valore. Perché tutto deve avere un

prezzo per loro tutto deve avere un valore che è l'unica cosa che aloro interessa non i prodotti che senza

valore per loro non possono esistere. Per loro non possono servire alla gente che non ha da mangiare.

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Con tutta questa ricchezza che c'è la gente invece potrebbe non più morire di fame potrebbe non più

lavorare. Allora prendiamoci noi tutta questa ricchezza allora prendiamoci tutto.

Ma come stiamo impazzendo? I padroni ci fanno lavorare come bestie e poi distruggono la ricchezza

che noi abbiamo prodotto. Ma è ora di farla finita con questa gente qua. È ora che gli facciamo il culo

a tutti questi porci finalmente li facciamo fuori tutti e ce ne liberiamo per sempre. Stato e padroni fate

attenzione è la guerra è la lotta finale. Andiamo avanti compagni andiamo avanti come a Battipaglia

bruciamo tutto spazziamo via queste canaglie spazziamo via questa repubblica. Lunghissimi applausi.

Alle tre c'erano già tremila operai davanti a Mirafiori. La polizia presidiava completamente tutte le vie

di accesso a Mirafiori nonchétutti i cancelli la palazzina eccetera. Erano arrivati anche altri rinforzi.

Allamanifestazione sindacaledel mattino non era successo nessun incidente. I sindacati avevano fatto il

loro comizio sulla casa con gli operai delle piccole e medie fabbriche dove loro erano forti mentre alla

Fiat erano quasi inesistenti. C'erano là davanti al cancello 2 molte bandiere rosse cartelli e sctriscioni.

Mentre si stava così aspettando che partisse il corteo cominciarono le provocazioni della polizia.

Ma la cosa che non avevano proprio pensato i poliziotti che non aveva pensato il questore che non

aveva pensato il ministro degli interni che non aveva pensato Agnelli era che quel giorno non si trattava

del solito corteo di studenti del cosiddetto corteo di estremisti. Cioè come dicevano i giornali borghesi

i soliti figli di papà che si divertono a giocare alla rivoluzione.

Gli operai che si trovavano davanti al cancello 2 di Mirafiori erano quelli che avevano fatto le lotte Fiat

per tutte quelle settimane. Erano operai che avevano fatto delle lotte dure delle lotte vittoriose. Mentre

si stava preparando la partenza del corteo la polizia cominciò a fare le sue manovre. Misero da una

parte un doppio cordone di carabinieri che si tenevano sotto braccio e spingevano indietro i

dimostranti. Alti plotoni di carabinieri si erano messi in fila per quattro e avanzavano lentamente in

mezzo ai dimostranti.

Mentre il vicequestore Voria dava questi ordini facendo muovere i carabinieri nei due sensi per

chiuderci aveva detto a un operaio di spostarsi da lì dove stava vicino a lui. Questo operaio invece gli

sferrò un cazzotto e lo stesa a terra. Intanto quei plotoni di carabinieri che facevano la manovra si

mettono al piccolo trotto quasi a correre come i bersaglieri in mezzo ai dimostranti. E impugnavano il

moschetto come un manganello come una clava. Improvvisamente suona la carica naturalmente chi

cazzo la sentiva.

E cominciarono a arrivare i lacrimogeni una pioggia fittissima di lacrimogeni per cui istintivamente tutti

cominciarono a scappare. Tutti scapparono e i carabinieri cominciarono a tirare botte col calcio dei

moschetti a tutti. Ci spingevano contro il cordone di carabinieri che stavano lì fermi per circondarci. Io

ero proprio vicino a quel cordone tenevano il viso pallido bianco verde dalla paura. Perché si trovavano

così a contatto con noi faccia a faccia. Anzi poco prima ne avevo sfottuto uno gli avevo detto Vuoi

vedere che ti porto via la pistola e ti sparo. Lui non mi aveva detto niente.

Poi avevano acchiappato un compagno e lo volevano portare via ma non c'erano riusciti perché noi

glielo avevamo strappato dalle mani e li avevamo minacciati. Intanto con questa pioggia di lacrimogeni

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ci disperdono da davanti a Mirafiori. Scappiamo via tutti da davanti a Mirafiori e quesi carabinieri che

stavano facendo il cordone impugnano come una clava il moschetto che c'avevano a tracolla e

c'inseguono. E fu un piccolo massacro col calcio dei fucili tiravano botte da orbi su tutti quanti

all'impazzata. E ne arrestarono una decina di compagni allora. Perché stavano tutti così senza bastoni

senza pietre. Mentre corro capito su un mucchio di dieci carabinieri che stavano picchiando a sangue

un compagno steso per terra. Gli grido a uno Che cazzo lo volete uccidere? […]

Erano le quattro e quello fu l'inizio della battaglia che sarebbe durata più di dodici ore. I poliziotti

avanzavano con caroselli e cariche e dall'altra parte avanzavano i carabinieri per chiuderci in una

tenaglia. Noi non ci disperdiamo e subito cominciamo a rispondere coi sassi che raccogliamo un po'

dappertutto. La maggior parte ci spostiamo nel prato a fianco di corso Trainao dove c'era anche un

cantiere edile. Ci riforniamo di legni di bastoni di materiale per fare le barricate. E c'era lì anche una

grande scorta di pietre. […]

[Gli operai edili] tutto in mezzo alla strada mettevano e facevano le barricate con le automobili e poi

incendiavano tutto. La polizia se ne stava lontana in fondo a corso Traiano verso corso Agnelli. Ogni

tanto partivano per dei caroselli delle cariche. Sgomberavano le barricate mentre la gente li riempivano

di sassate e poi scappavano via nei prati di fianco. Poi tornavano quando la polizia sene era andata.

Riportavano il materiale sulla strada e costruivano di nuovo le barricate con le tavole di legno e tutto.

Ci buttavano sopra la benzina e quando la polizia avanzata un'altra voltaci davano fuoco. E davano

fuoco anche a dei copertoni che facevano rotolare infiammati contro la polizia. Si cominciavano a

vedere sempre più molotov.

Sulle barricate c'erano delle bandiere rosse e su c'era un cartello con su scritto Che cosa vogliamo?

Tutto. Continuava a arrivare gente da tutte le parti. Si sentiva un rumore cupo continuo il tam tam dei

sassi che si battevano ritmicamente sui tralicci della corrente elettrica. Facevano quel rumore cupo

impressionante continuo. La polizia non riusciva a circondare e a setacciare l'intera zona piena di

cantieri officine case popolari e prati. La gente continuava a attaccare era tutta la popolazione che

combatteva. I gruppi si riorganizzavano attaccavano in punto si disperdevano tornavano all'attacco in

un altro punto. Ma a desso la cosa che ti faceva muovere più che la rabbia era la gioia. La gioia di essere

finalmente forti. Di scoprire che ste esigenze che avevano sta lotta che facevano le esigenze di tutti era

la lotta di tutti.

(N. Balestrini, Vogliamo tutto, Milano, Mondadori, 2013, pp. 157-158 e pp. 162-163)

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La piazza: il movimento del ‘77

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Non eravamo rimasti in tanti a Milano, la grande parte degli autonomi se n’era andata dal giorno prima.

L’appuntamento principale in quei giorni, per il movimento del ‘77 tutto intero, era la grande

manifestazione indetta a Roma. Ma, anche in pochi, avevamo deciso di manifestare lo stesso. La morte

di un compagno a Bologna, le autoblindo chiamate da Zangheri a presidiare le città vetrina del

comunismo italiano, la manifestazione di Roma ci imponevano, quasi obbligavano, a dover scendere

in piazza.

[…] Il corteo quel 12 marzo ’77 non aveva nulla di allegro e festoso. Facce lunghe, incazzate. Tascapani

pieni di bottiglie, e sotto gli spolverini intuivi e sapevi di armi. In un centro della città assolutamente

vuoto e pieno di paura il corteo si muoveva con lentezza in cerca di obbiettivi. Ma stavolta non si poteva

trattare di del supermarket da espropriare o delle solite guardie giurate da disarmare. Ci avevano

ammazzato un compagno a Bologna e di fronte a ciò tutto ci sembrava inadeguato. Intanto, sopra le

teste i soliti slogan pieni di rabbia e di rancore. Le mani di pochi in aria a simboleggiare la pistola.

[…] C’era voluto un po’ a rintracciare i ragazzi di Baggio, quelli della Siemens, Chicco con Bovisa. Non

ce n’era uno che non avesse il fazzoletto sul viso.

[…] all’altezza di corso Monforte il corteo si era fermato bruscamente. Risalimmo velocemente per

raggiungere la testa. E lì davanti a noi c’era la prefettura completamente circondata da reparti dei

carabinieri armati di Winchester. Tra i responsabili dei vari gruppi dell’autonomia un parlare

sommesso. Ci chiesero se noi di “Rosso” eravamo d’accordo nell’assaltare la prefettura con qualsiasi

mezzo.

Ci basto un attimo per capire che tutta quell’illegalità che avevamo fatto tanto perché fosse parte del

movimento si stava per ritorcere contro il movimento stesso: l’uso della forza non era più al servizio

della contrattualità conflittuale e violenta, ma stava per diventare dominio esclusivo di chi volesse

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abbandonare ogni possibilità di lavoro politico di massa, per scegliere la linea di combattimento e della

clandestinità.

[…] «Noi di “Rosso” vogliamo manifestare sotto l’Assolombarda, uno dei motivi per cui oggi siamo qui

è la protesta degli operai Marelli contro la ristrutturazione. Non siamo d’accordo contro un attacco allo

stato, non è nell’interesse dell’autonomia.» «Non li vedete i fucili dei caramba? È una pazzia!»

Un po’ di bestemmie, parolacce, spintoni. Finalmente il corteo reagì e si mosse. Era passata la parola

d’ordine di andare all’Assolombarda. Un respiro di sollievo e nella testa la netta sensazione di essere

in un casino di portata colossale. Eravamo arrivati a un vicolo cieco. Come venirne fuori?

[…] Finalmente d’avanti all’Assolombarda.

Contro quel palazzo vuoto e pieno di vetri ci scaricammo tutto quello che avevamo. Molotov a volontà,

pistolettate e colpi di fucile. E i vetri della «casa dei padroni» venivano giù che era un piacere. «Brucia,

ragazzo brucia» lo sentivamo dentro di noi. E poi via di corsa

Si era consumato l’ultimo tentativo a Milano di legare la sovversione del movimento con gli spezzoni

organizzativi dell’autonomia che da lì a poco sarebbero morti, stretti nella morsa di repressione e

militarizzazione. Era l’ultimo corteo in cui si era mostrato il più alto livello di scontro e persino di

armamento senza l’attacco alle persone, agli uomini. Due mesi dopo, durante la manifestazione contro

la repressione, fu ucciso l’agente Custra: la linea di combattimento era passata all’interno del

movimento.

(F. Tommei e P. Pozzi: Quegli spari che uccisero il movimento a Milano, in N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro,

Milano, Feltrinelli, 1988)

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OTTO MAGGIO, TESORERIA Mattina, nel parco dove il circolo Zapata occupa la grande villa

antica. Stanno montando il palco, oggi ci sarà la festa del partito radicale per i referendum; contro il

finanziamento pubblico ai partiti, per l’abolizione dei manicomi, contro la legge Reale che permette ad

un poliziotto di spararti addosso senza pagare pegno. Marina mi accarezza la faccia pesta e profuma dei

suoi profumi. Igor è scomparso, secondo promessa, ma non ci sono neanche Billy e Jhonny, manca

un sacco di gente e poi io non sento più niente quando Marina gioca con la mia bocca e mi copre di

riccioli neri. Sa come sorridere, e c’è vento. L’otto maggio è cominciato, e noi sulle aiuole a contare i

fiori e a pensare che in fondo si può andare avanti così. Albertino ha un giornale, Re Nudo, con un

lungo articolo su un militante dei Nap torturato in galera. È un argomento con cui lui si scalda, vuole

che tutti vedano le foto di un uomo legato ai letti di contenzione, cinghie, ferite, mostra storie di corpi

violati, storie argentine e cilene che quasi non si possono ascoltare perché trascinano in basso e ti

lasciano unto di stupore malato, la sorpresa di un corpo che prende potere su un altro e lo viola, e non

c’è risarcimento, e il mondo dopo non sarà più ricucito, dopo la tortura non c’è che aspettare la

vecchiaia e la morte, e dopo la morte l’inferno; per chi è preda di quella sorpresa disgustosa,

testimonianza e memoria saranno solo palliativi, servizio reso ad altri o pratiche per poter dormire la

notte: pulizie temporanee sperando nell’oblio. Non pensi ma vedi, il corpo legato è fastidio, disgusto,

imbarazzo, ancor prima che pietà, lo stupore della prima sberla, di membra ridotte a cosa, lo schifo dei

vincoli, di quel che non può essere restituito e nemmeno colmato e che poi ritorna in tutte le notti che

verranno, di Aldo Moro tra qualche mese, o del compagno nappista legato, di chi è sorpreso e perduto

perché per una volta o per mille è stato in balia di un potere assoluto: è cominciato un tempo di notti

invase di quello stupore, di pessimi sogni.

Rubare, prendere e comprare, e vendere anche, sfondare cancelli, rovesciare macchine, avere per

fratelli lo scassinatore e il bandito nel paradosso dell’innocenza, quella dei ladri e dei soldati. Senza

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regole, e quindi liberi: per questo una notte al cinema Roma avevamo tifato per la marmellata. Con la

pistola in mano, invece, sei parte di un esercito, e se non è un esercito sarà un partito: è già in moto

l’altra violenza, quella militare, più efficace, i sergenti hanno già fatto il loro golpe e siedono orgogliosi

del luccichio dei loro piccoli cannoni in mezzo a capannelli di donne adoranti.

Gira un ragazzo a Torino, un po’ di nascosto: quelli giusti lo conoscono, io devo averlo intravisto ai

morti con Jhonny. Tempo fa l’hanno arrestato con tre compagni mentre si allenava con la pistola,

tirando su sagome di paglia. Fino a quel momento la sua vita era stata quella di chi galleggia dentro una

corrente forte e però amica: alla Magneti Marelli di Sesto San Giovanni l’avevano licenziato assieme ai

più arrabbiati, ma ogni mattina all’ingresso del primo turno si formava un corteo che avvolgeva in sé i

cacciati e li portava dentro, a lavorare. Eccolo il gesto che cercavamo, collettivo, violento, pieno di

solidarietà e ribelle: la lotta armata meno le armi. Per la logica della produzione è peggio di tutto, peggio

che rifiutare il lavoro. E alla Marelli di Sesto accadeva ogni giorno. Poi, quando li prendono con le

pistole, c’è un processo e a tutte le udienze arriva quello stesso corteo che li abbracciava ai cancelli,

come il sogno brutto di un usciere di tribunale, e ai carabinieri tocca far volare le mazze persino dentro

le aule. E quando il processo finisce agli ingegneri di Sesto gli gira la testa a pensare che adesso

ricomincia quella storia del corteo-mamma tutte le mattine per la colazione. Fanno un offerta: 25

milioni a testa e fuori dai coglioni. Accettano, fa 100 milioni per lasciarsi licenziare in quattro, una cifra

enorme. E i cento milioni vanno a costruire un asilo nido a favore delle operaie che non sanno dove

mettere i neonati. Anzi: delle operaie che di solito non sanno nemmeno se farli, i neonati, al chiaro di

luna della fabbrica. E con questo, stavolta, i quattro espulsi con il loro corteo-mamma l’hanno davvero

fatta grossa: contropotere, hanno invertito le regole sociali, hanno modificato il paesaggio, l’hanno

riempito di neonati. Hanno dimostrato che un comando diverso dal comando d’azienda è possibile:

hanno aggredito la forma normale del mondo e bestemmiato la produttività e il suo ordine. Lì, a Sesto,

hanno invertito per qualche metro le leggi dell’entropia. Sì può tornare indietro, allora.

E io adesso immagino che se sei giovane e non hai combattuto mille guerre, quando sei andato così

avanti ti prendono le vertigini, hai bisogno di qualcosa che conosci, di una forma che ti offra riparo.

Salvagenti a forma di pistola: qualcuno è entrato nella portineria della Magneti Marelli e ha sparato

nelle gambe del capo dei guardiani. Le gambe. Sono quelle leve con cui si corre, quelle che ti dimentichi

mentre fai l’amore, una delle due calcia meglio dell’altra, ci puoi anche ballare se una donna te lo

chiede, e piegarti sul passo incerto dei tuoi figli.

E intanto dappertutto c’è gente che si licenzia: per reagire alla marea di sospensioni e cassa integrazione,

lasciando la fabbrica, per scelta. Danno addio al lavoro, al suo grande ventre caldo, al movimento

operaio, madre terra. Va bene, l’onda del mondo nuovo è forte e va avanti dritta, anche se è un mondo

un po’ difficili da immaginare. Va bene, ma fra freddo e ti senti solo, ci vuole un giornale, quasi un

gioco di parole, no spostamento di significati, e il giornale gli danno il titolo Senza Tregua, lo danno in

giro quasi clandestino, a Torino sono operai di Borgo San Paolo, quelli del Comitato Contro la

Repressione, i nostalgici del grande servizio d’ordine di Lotta Continua che si riuniscono in una stanza

di Palazzo Paesana nel quadrato romano. Senza Tregua, per assomigliare a Giovanni Pesce, il

comandante che spuntava dal nulla e lasciava sul cemento il cadavere di un nazista. Un’ombra nella

città, il terrore di chi semina il terrore. E il giornale non basta e allora vengono certi ragazzi da fuori:

hanno armi e un pensiero, nuotano bene sui fondali bassi del nostro sogno d’illegalità, portano assieme

un’idea libertaria e un paradosso di fuoco, alcuni hanno solo voglia di avventura e guerra. Ma non

parlano di tribunali del popolo, di prigioni del popolo e di verità di chiesa, nelle loro parole non c’è

l’asfissia dei comunicati brigatisti: non sembrano un esercito, questa sembra una nave pirata. Fanno

riunioni a lato della nostra assemblea permanente, in orari diversi, nella stanza dietro, in un angolo

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fuori, parlano tra loro, valutano, incontrano, hanno una parola per tutti, ma solo per alcuni che vengono

scelti certe parole speciali; hanno una coscienza impietosa, ma sembra che diffonda armonia.

Marina stava sulla mia pancia, tutta intera, e il mondo era cavo come un’enorme bolla di gas sotto la

crosta leggere del prato. Con le prime urla e i primi tonfi ci siamo alzati di corsa dalle aiuole della

Tesoreria, pronti a scappare, una ragazza grida che c’è la polizia e caricano, ma stranamente nessuno

cerca le vie di fuga, invece vanno tutti all’ingresso del parco. Ecco: sul lunghissimo corso che va al cuore

della città da una parte, e dall’altra alla Valle di Susa, buchi neri, gallerie, ombre e di là la Francia, sul

corso dicevo stanno sparando, pistole tese in avanti, mani addestraste al tiro e passamontagna nero, e

tutti restiamo a guardare dal cancello del parco, e la polizia è fuggita, lontano, fino a Piazza Bernini. E

quelli sparano e qualcuno ride, hanno corpi giovani, elastici, e guizzi negli occhi che ricordo e magari

non ho visto, guizzi verso di noi che non sappiamo se crederci. Occhi che so di conoscere. Sono scesi

dalla Valle di Susa, i duri. E sparano dritto.

(Luca Rastello, Piove all’insù, Torino, Bollati Bolinghieri, 2006, pp. 100-104)

Il terrorismo: il sequestro e l’omicidio Moro, 16 Marzo – 9

Maggio 1978.

.11

Giovedì 16 marzo un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del

popolo ALDO MORO, presidente della Democrazia Cristiana.

La sua scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali, è stata completamente

annientata.

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Chi è ALDO MORO è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino ad oggi il

gerarca più autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di quel regime democristiano che da

trent’anni opprime il popolo italiano. Ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di

cui la DC è stata artefice nel nostro paese, dalle politiche sanguinarie degli anni '50, alla svolta del

"centro-sinistra" fino ai giorni nostri con "l'accordo a sei" ha avuto in ALDO MORO il padrino politico

e l'esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste. […]

Compagni, la crisi irreversibile che l'imperialismo sta attraversando, mentre accelera la disgregazione

del suo potere e del suo dominio, innesca nello stesso tempo i meccanismi di una profonda

ristrutturazione che dovrebbe ricondurre il nostro paese sotto il controllo totale delle centrali del

capitale multinazionale e soggiogare definitivamente il proletariato.

La trasformazione nell’area europea dei superati Stati-nazione di stampo liberale in Stati imperialisti

delle Multinazionali (SIM) è un processo in pieno svolgimento anche nel nostro paese. Il SIM,

ristrutturandosi, si predispone a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione degli interessi economici-

strategici globali dell'imperialismo, e nello stesso tempo ad essere organizzazione della

controrivoluzione preventiva rivolta ad annichilire ogni "velleità" rivoluzionaria del proletariato.

Questo ambizioso progetto per potersi affermare necessita di una condizione pregiudiziale: la creazione

di un personale politico-economico-militare che lo realizzi. […] La DC è così la forza centrale e

strategica della gestione imperialista dello Stato. Nel quadro dell'unità strategica degli Stati Imperialisti,

le maggiori potenze che stanno alla testa della catena gerarchica richiedono alla DC di funzionare da

polo politico nazionale della controrivoluzione. […]

Questo regime, questo partito sono oggi la filiale nazionale, lugubremente efficiente, della più grande

multinazionale del crimine che l'umanità abbia mai conosciuto.

Da tempo le avanguardie comuniste hanno individuato nella DC il nemico più feroce del proletariato,

la congrega più bieca di ogni manovra reazionaria. Questo oggi non basta.

Bisogna stanare dai covi democristiani, variamente mascherati, gli agenti controrivoluzionari che nella

"nuova" DC rappresentano il fulcro della ristrutturazione dello SIM, braccarli ovunque, non concedere

loro tregua. Bisogna estendere e approfondire il processo al regime che in ogni parte le avanguardie

combattenti hanno già saputo indicare con la loro pratica di combattimento. E’ questa una delle

direttrici su cui è possibile far marciare il Movimento di Resistenza Proletario Offensivo, su cui sferrare

l'attacco e disarticolare il progetto imperialista. Sia chiaro quindi che con la cattura di ALDO MORO,

ed il processo al quale verrà sottoposto da un Tribunale del Popolo, non intendiamo "chiudere la

partita" né tantomeno sbandierare un "simbolo", ma sviluppare una parola d’ordine su cui tutto il

Movimento di Resistenza Offensivo si sta già misurando, renderlo più forte, più maturo, più incisivo e

organizzato.

Intendiamo mobilitare la più vasta e unitaria iniziativa armata per l'ulteriore crescita della GUERRA DI

CLASSE PER IL COMUNISMO.

PORTARE L'ATTACCO ALLO STATO IMPERIALISTA DELLE MULTINAZIONALI.

DISARTICOLARE LE STRUTTURE, I PROGETTI DELLA BORGHESIA IMPERIALISTA,

ATTACCANDO IL PERSONALE POLITICO-ECONOMICO-MILITARE CHE NE E'

L'ESPRESSIONE.

UNIFICARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO, COSTRUENDO IL PARTITO

COMUNISTA COMBATTENTE.

16/3/78

Per il comunismo

Brigate rosse

(Comunicato N°1 delle Brigate Rosse dopo il sequestro Moro)

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L’azione si compone di due fasi: la raccolta e la distruzione. La prima consiste nel razziare per alcuni

giorni una serie di oggetti la cui sparizione, presa singolarmente, non susciterà allarme; ognuno penserà,

quella matita, quel libro, di averlo smarrito, forse di averlo scordato a casa. In questo modo ruberemo,

un pezzo dopo l’altro e poco per volta la scuola a se stessa. […]

A questo punto ci prepariamo alla seconda fase. Ogni mattina, prima di entrare in classe, prediamo la

refurtiva dai nascondigli domestici e la portiamo fino al campetto sistemandola invisibile tra le dune e

nei crepacci.

Poi passiamo alla distruzione. […]

Quando la scuola è ancora chiusa e in Piazza de Saliba non c’è nessuno cospargiamo il conglomerato

di oggetti con l’alcol. Altro alcol lo gettiamo sulle corde e incendiamo l’estremità. Appena il fuoco ha

preso ritmo e respiro, tenendoci a qualche metro di distanza lanciamo le corde sul conglomerato, che

all’inizio appare insensibile, tanto che il compagno Raggio è già avvilito, ma a poco a poco inizia a

esalare il primo filo di fumo, poi due, tre e quattro, e poi fa capolino una prima fiammella s’ingrossa e

ancora un’altra che da una scudisciata, un invito per la compagna a fare sul serio. Governiamo per

qualche minuto il fuoco con i bastoni; quando siamo certi che non si spegnerà, che l’arsione sarà lunga

e feroce, lasciamo in una buca il nostro documento e ci dileguiamo.

[…]

Mi sono messo d’impegno a studiare i comunicati delle Br – ogni pomeriggio da solo alla radura del

porno, seduto in mezzo ai ritagli, le forbici in mano – ad analizzarli ancora più approfonditamente di

come abbiamo fatto a maggio. Ho cercato di smontarli e rimontarli, di torcere la sintassi e immaginare

un altro lessico. Volevo modificarne lo stile, una lingua diversa; tecnica e violenta, si, ma anche

autonoma rispetto a quella delle Brigate Rosse, con un valore esclusivamente nostro. Quando mi

rileggo sul giornale mi rendo conto di aver fallito. Mio malgrado sono rimasto imprigionato nella

fraseologia che intendevo riformare.

Secondo il testo, firmato dalla sigla NOI.

La misura è colma, il tempo degli abusi sta per terminare.

L’intensificarsi della repressione scolastica non può che far crescere

la potenza del nostro attacco. Il gruppuscolo di utili idioti che non

ha ancora chiare le dimensioni della nostra lotta avrà modo nei prossimi

tempi di farsi un’idea precisa di chi siamo, di quali siano i nostri

metodi, della direzione verso la quale ci stiamo movendo. Prima di tutto

dev’essere chiaro che il nostro nucleo è connesso, non per filiazione

bensì per ispirazione politico libertaria, a chi già da tempo sta

portando avanti una campagna di lotta contro i gangli dello stato

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borghese, vale a dire della Brigate Rosse delle quali noi siamo dunque

articolazione. Delle Brigate rosse il Nucleo Osceno Italiano fa proprio

il processo popolare contro tutti i fascismi nonché l’indistinzione tra

la prassi politica e quella militare. L’obbiettivo ultimo è quello di

costruire un'unica organizzazione politica e armata che preveda il

coinvolgimento della società a tutti i suoi livelli, dalle fabbriche

alle università, dall’esercito alle carceri fino alla scuola. Ma non,

come ingenuamente si è supposto sin qui, soltanto le media superiori,

bensì anche a quelle inferiori, presso le quali l’attenzione al sociale

non è, specialmente di questi tempi, «inferiore» a nessuno. […]

A questo punto l’articolo riporta le ragioni specifiche dell’attentato.

Agli utili idioti di cui sora, comunichiamo che la presente azione ha

ancora solo il valore di un avvertimento. Continuare ad esporre le classi

della scuola al rischio di malattie e cadute rovinose e tagli alle

braccia e alle gambe imponendo loro di svolgere la lezione di educazione

fisica in quella che in nessun altro modo può essere definita se non

«una discarica», è un abuso ormai intollerabile. […] il rogo scolastico

da noi messo in scena vuole così rappresentare al contempo la distruzione

di una struttura, quella scolastica, già di per se fatiscente (basti

pensare alla semplicità con la quale abbiamo potuto asportare parti

teoricamente statiche della struttura medesima e portarcele via), e la

distruzione di un luogo, l’ignobile discarica, che è vergogna e oltraggio

a qualsiasi concezione scolastica possa venire in mente.

Seguono tre slogan, tre grida di guerra, che soltanto in questo momento, rileggendoli sul giornale, ci

rendiamo conto di aver reso, senza volerlo, paradossali.

PORTARE L’ATTACCO ALLA SCUOLA IMPERIALISTA.

DISARTICOLARE LE STRUTTURE E I PROGETTI DEI SERVI DEL PROFITTO.

BEATO CHI CI CREDE, NOI NO NON CI CREDIAMO.

Nella foga rivoluzionaria non abbiamo valutato l’ordine delle frasi con la quale volevamo sintetizzare il

nostro pensiero. La terza, la riconversione della canzonetta in oscura minaccia, ci si ritorce contro

prendendoci in giro. È come puntare il mitra contro qualcuno e poi sparare a salve.

(G. Vasta, Il tempo materiale, Roma, Minimum Fax, 2008, pp. 177-183)

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Colanghi fece un tiro dalla pipa, ma era spenta. Riaccese il fornelletto con un fiammifero e qualche

boccata, e tornò a sedersi alla scrivania. Quindi prese un foglio bianco, temperò la matita soffiando il

fumo attorno a sé, e scrisse di getto:

Il problema del terrorismo rosso è che rivela uno stato di adolescenza all'interno del vecchio corpo

italiano. La Repubblica non ha gli anticorpi, e dunque perde di credibilità. (Obiez. semplice e radicale:

come fidarsi di chi ha messo in campo la «strategia della tensione»? Non si può. Quindi lotta a oltranza;

quindi, rivoluzione).

Ma chi sceglie di sparare è accecato dal desiderio di avere tutto e subito, a qualsiasi costo: una

perversione. (Il «tutto e subito» coincide sempre con qualcosa di atroce, e mai con quello che si sogna.).

Quindi: non è rivoluzione, bensì vendetta. (Il che genera altro desiderio di vendetta: cfr. quanto

successo alla commemorazione Vissani).

Eppure molta gente ha mostrato (mostra ancora?) simpatia verso di loro: per i loro fini, e per questo

porsi come «vendicatori». È il punto chiave. Se delle persone ci credono, se nelle fabbriche erano

sostenuti, ci deve pur essere una ragione. (A meno di non considerare tutti pazzi).

Dunque: com'è possibile che da premesse spesso estreme ma in parte condivisibili, o comunque

comprensibili (l'impegno della sinistra extraparl. per l'equità sociale, la critica all'abuso di potere, la lotta

contro la repressione, ecc.) si arrivi a giustificare l'omicidio a freddo che fra l'altro non porta a nulla?

Dove si spezza il filo?

Si interruppe un istante, poi premette a fondo la matita sul foglio, quasi con rabbia, e scrisse:

COME SI FA A «PORGERE L'ALTRA GUANCIA», QUI? COME SI FA?

(G. Fontana, Morte di un uomo felice, Palermo, Sellerio, 2014, pp. 113-114)

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Legenda delle fotografie

1: Manifestazione di Autonomia Operaia, Milano, 1977. Foto di Dino Fracchia.

2: Prima pagina del Corriere della Sera, Sabato 13 Dicembre 1969.

3: Striscioni in reazione alla morte di Pinelli e all’arresto di Valpreda. L’unità, Dicembre 1969.

4: Attentato in Piazza della Loggia a Brescia. 28 Maggio 1974. Riproduzione riservata ANSA

5: Scritte murali a Sesto San Giovanni, 1968. Foto di Uliano Lucas.

6: Occupazione di Fiat Mirafiori, 1973. Foto di Tano D'Amico.

7: Slogan di Potere Operaio davanti all'Alfa Romeo, Milano, 1972. Foto di Uliano Lucas.

8: Ragazza e carabiniieri, Roma, 1977. Foto di Tano D'Amico.

9: Manifestante spara ad altezza uomo, Milano, 1977. Durante gli scontri di quel giorno morì l'agente

di polizia Antonio Custra. Foto di Paolo Pedrizzetti.

10: Disordini di piazza a Milano durante gli anni settanta.

11: Processo Moro Ter, aula bunker del Foro Italico. Nella foto Stefano Petrella, Barbara Balzerani,

Salvatore Ricciardi, Marcello Capuano. Roma, 1987. Foto di Stefano Montesi.

12: Prima pagina del Corriere dell Sera, Venerdì 17 Marzo 1978.

13: Ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, che si trova emblematicamente vicino alle

sedi nazionali di PCI e della DC. Roma, 9 Maggio 1978. Foto di Rolando Fava.

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Cronologia degli eventi principali

12 Dicembre 1969: strage di Piazza Fontana.

15 Dicembre 1969: Giuseppe Pinelli muore cadendo da una finestra della questura di Milano.

20 Maggio 1970: Statuto dei lavoratori (Articolo 18).

1 dicembre 1970: Legge sul divorzio.

7-8 Dicembre 1970: tentato Golpe Borghese (sarà reso pubblico solo il 17 marzo 1971).

25 Gennaio 1971: primo attentato firmato BR.

14 Luglio 1970-Febbraio 1971: Moti di Reggio Emilia.

17 Maggio 1972: morte di Calabresi commissario della questura di Milano. Accusato della morte di

Pinelli.

29 Marzo 1973 – 3 Aprile 1973: occupazione della Fabbrica Fiat Mirafiori.

16 Aprile 1973: Rogo di Primavalle per mano di militanti di Potere Operaio. Muoiono due figli del

segretario del Movimento Sociale Italiano Mario Mattei.

11 settembre 1973: Golpe Pinochet in Cile.

17 dicembre 1973: attacco di Settembre Nero all'aeroporto di Fiumicino.

18 Aprile 1974 – 22 Maggio 1974: sequestro Sossi.

28 Maggio 1974: Strage di Piazza Loggia a Brescia.

4 Agosto 1974: Strage dell’Italicus.

11 Marzo 1977: morte di Francesco Lorusso militante di Lotta Continua durante una manifestazione

a Bologna per un colpo d’arma da fuoco esploso dai carabinieri.

1 Maggio 1977: attentato all’Angelo azzurro di Torino, noto luogo di frequentazione di fascisti torinesi

muore lo studente operaio Roberto Crescenzio.

16 Marzo – 9 Maggio 1978: sequestro Moro

22 Maggio 1978: Legge sull’ aborto.

2 Agosto 1980: Strage alla stazione di Bologna.