aa.vv. parlesia24
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Parlesia
LA PARLESIA, un linguaggio segreto
La parlèsia è un gergo derivante dalla lingua
napoletana e legato a quei musicisti,
chiamati posteggiatori, che si esibivano nei
luoghi di ristoro (osterie, ristoranti, ecc.) di
Napoli. La creazione di un linguaggio
segreto, sviluppatosi molto nell’Ottocento,
era probabilmente dovuto al fatto che
nell’esercitare musica extracolta basata
soprattutto sull’improvvisazione, per un
pubblico che pretendeva un’esecuzione-
spettacolo, era necessario utilizzare tra
musicisti un gergo incomprensibile agli
ascoltatori. Questo gergo è rimasto segreto
fino agli anni Cinquanta del Novecento, poi
negli anni ’60 è uscito dall’ambito della
“posteggia” ed è cominciato a diventare il
linguaggio di chi a Napoli ha prodotto musica
extracolta. La parlèsia prende a prestito dal
napoletano alcune caratteristiche (fonetiche,
morfologiche e sintattiche), ma anche alcune
espressioni lessicali, riporto qui alcuni esempi
tratti dal testo di MariaTeresa Greco “I
vagabondi il gergo dei posteggiatori”:
appuniscë l’alzesia do bbracce (fa il
sollevamento del braccio), nun appunì
bbagarië stanne venennë e ggiustinë (non
fare confusione stanno arrivando le guardie).
Io stesso ricordo da ragazzino che dopo aver
preso in giro dei posteggiatori molto anziani
mi etichettarono come jamme amedeo
(ragazzo frocio). Questo gergo utilizza molto
i suffissi –esië, così che il napoletano manë
(mano) diventa manesië, il suffisso –ènza
fumènza (sigaretta). Riporto per curiosità
alcune parole che provengono da metafore:
sciusciandë (fazzoletto) dal napoletano
sciuscià (soffiare), èvëra (erba in
napoletano) per indicare i baffi, bbicicletta
per indicare l’apparecchio per i denti (in
napoletano denominata macchinetta) per cui
jammë ca bicicletta sarebbe ragazza con la
macchinetta. Alcuni artisti napoletani
contemporanei hanno usato in alcune loro
canzoni la parlèsia come ad esempio il
cantautore Pino Daniele in Marumbà
contenuta in un album della casa
discografica Bagaria (termine della parlèsia
che significa confusione). Renzo Arbore e
Lucio Dalla negli anni’90 hanno ammesso di
utilizzarla tra musicisti (seppure in maniera
divertente e giocosa).
Tratto da Tale e quale di Luciano De
Crescenzo:
A Napoli esiste un gergo chiamato parlesia
praticato dai teatranti e in particolare dai
musicisti. È un modo per capire se si
appartiene o no alla stessa famiglia. Nella
parlesia lo stupido è definito 'o bacono', una
bella donna 'a jammosa', le tette 'e tennose',
quelle più abbondanti 'e to che toche', e
l'apparato genitale maschile 'e richignense'.
Verbi fondamentali della parlesia sono
l'appunire e lo spunire, usati rispettivamente
per evidenziare gli aspetti positivi e negativi
della vita. Esempi: 'Appunisci Totò?', «Ti
piace Totò?»; Me s'è spunita 'a jola, «Mi è
affondata la barca».
Scopo principale della parlesia è quello di
non farsi capire dai non addetti ai lavori.
Supponiamo, ad esempio, che due musicisti
stiano parlando tra loro e che si avvicini una
terza persona alla quale non vogliono far
sapere nulla di quanto guadagnano. In
questo caso il primo dirà al secondo 'chiste
accamoffa', ovvero «questo ci ascolta», per
poi aggiungere 'a pila è loffia', ovvero «la
paga è bassa».
Tra i tanti modi di dire della parlesia quello
che più mi ha colpito è lo specchio, dai più
definito 'o tale e quale. Me lo comunicò un
suonatore di mandolino prima di uno
spettacolo di cabaret al teatro San
Ferdinando. Io ero alquanto spettinato e lui,
porgendomi un piccolo specchio, mi disse:
"Tiè 'stu tale e quale c'a po' adoppo m'o
tuorne", «Tieni questo specchio che poi me
lo restituisci».
L'Enciclopedia del SapereCompendio di
lingua napoletana
C'è stato un tempo in cui i musicisti, anzi, i
musicanti, erano una sorta di popolazione
nomade, considerati gente di cui diffidare,
pericolosi, alla stregua di zingari e malavitosi,
e che, effettivamente, possedevano spesso
peculiarità tipiche dei più bassi strati della
società. Non stiamo parlando dei musicisti di
coorte, dei compositori che frequentavano i
migliori salotti nobili e borghesi sfoggiando la
propria arte, frutto di anni di studi
accademici, bensì dei piccoli orchestranti,
musicisti di strada, autodidatti da osteria, i
maestri della "pusteggia" insomma.
Sì perché, parallelamente alla storia della
musica colta, veniva scritta un'altra storia
che non vanta nessun nome famoso,
snobbata dai libri di storia ma mai
sottovalutata o dimenticata dagli addetti ai
lavori, quella del musicista lavoratore, che
suonava quando e dove la situazione lo
permetteva, viveva alla giornata e, nel suo
precariato, contava sull'unico appoggio dei
suoi colleghi sparsi per l'Italia. Forse,
parlando di questo genere di musicista, la
mente corre subito alle case di tolleranza di
New Orleans, a quei pianisti da
intrattenimento e le piccole orchestre di neri,
presi dalla strada e piazzati su un palco tra
un arresto ed una rissa, ma la nostra storia
ha luogo molti anni prima e nella nostra
terra, i protagonisti sono i precursori bianchi
di quei musicisti che, come loro, formavano
un enorme club privato senza tessere nè
presidenti, solo fratelli che si sostengono a
vicenda. Ma come identificare questi soci?
Chiaro, una lingua, anzi, uno slang, un gergo
grazie al quale poter parlare indisturbati,
riconoscersi, scambiarsi preziose informazioni
e dritte senza essere capiti da chi non fa
parte di questo circolo, della massoneria dei
poveri; e quale gergo sarebbe stato il più
adatto per accomunare un popolo di
spiantati, senzatetto, volgari maestri di
musica, per lo più meridionali (dove la
precarietà dei musicisti era particolarmente
sentita) e raccomandabili quanto un
camorrista? Beh, ovvio, il gergo usato dalla
maggior parte dei banditi del sud Italia: la
Parlesia.
La Parlesia è essenzialmente una versione
riveduta e corretta, semplificata, se
vogliamo, del dialetto napoletano, dove
alcuni termini affondano radici antiche
mentre altri sono totalmente inventati.
Siccome l'utilizzo di questo codice era
limitato solitamente a conversazioni
riguardanti soldi, musica e donne il
vocabolario era piuttosto limitato, con pochi
sostantivi, pochissimi verbi, e la ridondante
desinenza "esia", con la quale è piuttosto
facile tradurre molte parole senza incorrere
in particolari errori: la stessa parola
"parlesia" non è altro che la traduzione di
parlata, inteso come "lingua", con la solita
desinenza, parl-esia. Per rendere le cose
ancora più elementari i verbi essenziali sono
solo due, appunire (appunì) e spunire
(spunì), che non hanno una traduzione in
italiano, ma basti sapere che il primo ha una
generica accezione positiva, il secondo
negativa, tutto qua. Senza dilungarmi troppo
preferisco farvi un esempio pratico che
chiarirà la cosa.
In un episodio del libro "Usciti in fantasia"
(che consiglio caldamente, un bellissimo
spaccato di realtà d'altri tempi), ma non solo,
Luciano De Crescenzo inserisce uno
splendido dialogo in parlesia tra due vecchi
amici musicisti, si tratta di un ricordo della
sua infanzia: i due erano, nell'immaginario
del piccolo Luciano, a causa di alcune
fantasiose storie raccontategli da suo zio,
due ex gangsters americani, strettissimi
collaboratori di Al Capone, e la strana lingua
che usavano gettava ancor più ombra sul
loro passato ("le altre famiglie avevano la tv,
noi avevamo zio Luigi"). Vi riporto qui di
seguito testo e traduzione:
"Appunisce 'a chiarenza? (Vuoi un whiskey?)"
"No, tengo 'a fegatesia addovà. E tu che stai
appunendo? (No, ho il fegato a pezzi. E tu
come stai?)"
"Uhm"
"Appunisce quacche jamma? (Hai qualche
donna?)"
"Nu spunì bacarie: si nunn' appunisco a me,
comm' vuo' ca m'appunisco 'na jamma? (Non
dire sciocchezze: se non riesco a mantenere
me, come vuoi che mantenga una donna?)"
"Appunisce armeno 'na machinesia? (Hai
almeno una macchina?)"
"L'aggia avuta spunì. (Me la sono dovuta
vendere)"
"E comme abbusche 'a campesia? (E come ti
guadagni la giornata?)"
"Cunosco a 'nu jammone c'appunisce 'na
gallaresia e fa l'astesia tutte 'e sere e po
quacche vota appunisco 'a pusteggia.
(Conosco un signore che ha una galleria e fa
un'asta tutte le sere, e poi qualche volta
vado a cantare nelle trattorie)"
"Aggio appunito, fai accauto e allauto a
comme vene vene. (Ho capito, fai quello che
ti capita, come viene viene)"
Pochi verbi, poche parole e pochi argomenti,
ma il necessario per socializzare, scambiarsi
pareri su quanto "spunisce o' jammone"
(paga il gestore) o su come suona "o' jammo
e fierro filato" (il chitarrista), se è "toche",
ovvero bravo, o se prende una "fella", una
stecca, o se "sta chine e' zucchere", nel caso
ne abbia prese tante, di queste "felle"
(letteralmente fette, nel caso in particolare,
in senso figurato, fette di pastiera, il dolce,
quindi star pieno di zucchero vuol dire aver
mangiato tante fette di pastiera!) o ancora
per scambiarsi informazioni più ardite su
qualche jamma, magari se "appunisce 'a
'ndindallè", che non sto qui a tradurvi, ma
che mi ha donato una visione totalmente
comica del sesso orale (ops!).
La tradizione della parlesia è ancora viva,
anche se ormai ha cambiato volto e la sua
utilità è ormai dubbia: mentre un tempo si
trattava di un mezzo segreto per riconoscersi
e difendersi in un ambiente difficile, oggi è
alla portata di tutti, raramente si sentirà un
musicista usare questo gergo, se non in rari
casi, come vecchi posteggiatori nostalgici,
piuttosto sarà facile incontrare giovani
studenti che vantano di conoscere la
famigerata lingua dei musicanti, la imparano
un po' dai film, dai libri, per sentito dire ed
addirittura dai dizionari. Il rito iniziatico dei
giovani orchestranti d'altri tempi è diventato
un modo per dire "eh si, sono un musicista
navigato che sa il fatto suo". La cosa
importante da chiedersi ora è se la parlesia
sia diventata folklore perchè non se ne sente
più necessità o perchè il mondo dei piccoli
musicisti si è talmente disperso, andato via
via disgregandosi facendo spegnere quella
fiamma di complicità che accomunava una
volta i musici spiantati di tutta Italia. Voi
cosa dite?
Appunisce 'a parlesia?
Il gergo è una forma di linguaggio che, in
senso stretto, ha la caratteristica di essere
un codice verbale, piuttosto che un modo di
esternare la propria appartenenza a un
gruppo, come accade nel caso dello slang
giovanile. Il suo scopo principale è quello di
impedire a chi è estraneo a un determinato
gruppo sociale di poter comprendere quello
che si dice. I motivi di questa codificazione
sono da ricercare nella clandestinità di alcuni
gruppi, di solito di tipo criminale o eversivo,
oppure nella miseria in cui versano, che
porta inevitabilmente alla diffidenza verso le
classi sociali più agiate. I musicanti, ad
esempio, come pure i teatranti,
appartenevano ad una categoria che versava
in condizioni precarie (non che adesso si
navighi nell'oro, eh!), ed era costretta a fare
una vita itinerante... sovente venivano
accomunati ai vagabondi e ai delinquenti (e,
x la verità, molto spesso era anche vero). In
Campania si è quindi sviluppato un gergo
comune tra musicanti e camorristi, che, pur
sfruttando la sintassi della lingua napoletana,
usava termini comprensibili solo agli
appartenenti dei suddetti gruppi.
Il gergo in questione si chiama parlèsia.
E' dal XV secolo che l'autorità ha cercato di
svelare i gerghi, come ulteriore tentativo di
combattere il brigantaggio e la malavita, x
informare la gente sulle abitudini dei
vagabondi, e quindi metterla in guardia. Fino
ad oggi, comunque, la parlèsia è
sopravvissuta, non tanto x motivi di
segretezza, ma piuttosto come affermazione
del proprio stato sociale di musicista... ed io
in particolare appartengo proprio alla
categoria dei musicisti. Se devo proprio dire
la verità, non mi va molto giù che siano
venuti fuori pian piano i termini che noi
musicisti utilizziamo x parlare di determinati
argomenti davanti ai non addetti ai lavori,
perché ora non ci si sente liberi di poter più
usare la parlèsia con disinvoltura. Quindi, x
coerenza, non dovrei dirvi più un bel niente
su quest'argomento... ma chi se ne fotte,
tanto se cercate in rete trovate lo stesso
qualcosa, spesso scritta anche male.
Tanto vale allora šbianchì ‘a situènzia (cioè
svelare la cosa).
Gli argomenti trattati in questo particolare
gergo sono molto limitati e settoriali... x la
verità i termini si riferiscono principalmente
alla musica, ai soldi e ai bisogni fisiologici,
compreso il sesso. Ci sono termini che hanno
significati differenti a seconda di come
vengono usati, e viceversa ci sono vocaboli
diversi che indicano una stessa cosa o
concetto. Due verbi molto usati sonoappunì e
il suo contrario, špunì. In realtà non hanno
un significato preciso, ma lo assumono in
funzione del contesto. In generale appunì ha
un'accezione positiva, e špunì una negativa.
Adesso, un po' perché non mi va di svelare
troppo del nostro gergo, un po' perché mi
caco il cazzo di scrivere tutto quello che c'è
da scrivere (anche perché il tutto si
ridurrebbe ad una lista di vocaboli),
preferisco scrivere qualche espressione
comune, con la relativa traduzione, e qualche
curiosità.
Un termine che si usa spesso è ‘o jammë,
cioè il tizio; il femminile è ‘a jamma, e i
plurali sono rispettivamente ‘e jammë e ‘e
gghiàmmë. Alcune varianti sono: jammëtèlla
(ragazza), jammëtiéllë (ragazzino, tizio poco
importante, figlio piccolo), jammëtellìna
(sorella), jammònë (uomo importante),
jammòna(donna importante).
S’annë appunìtë ‘a chidderìa d’o jammë (Si
sono presi la roba del tizio, l'hanno derubato)
Appuniscë ‘a situènzia a llàuttë! (Prendi
quella cosa là!)
‘O jammë base špunìsce ciéntë stèrë a ccapa
(Il proprietario del locale paga cento euro a
persona)
Il termine stèra si traduce "moneta", ma
anche "vagina": è questo il caso di
un'associazione di una cosa (la vagina) con
ciò che serve x ottenerla (la moneta). Il
pene, invece, si traduce ‘o ‘ngrì, che deriva
direttamente da "ingrillato", riferito al
grilletto del fucile quando è alzato.
‘A jamma ‘a ‘ppunìtë ‘o ‘ngrì (La tizia è
incinta)
Appunìmmë ‘a chiarènza! (Beviamo!)
‘O jammë sta acchiarùtë (Il tizio è ubriaco)
Appunìmmë ‘o pròsë (Sediamoci)
‘A jamma ‘o ‘ppunìscë ‘mbròsë (La tizia
pratica sesso anale)
‘A jamma appunìscë a ‘ndindàllë (La tizia
pratica sesso orale)
Aggia špunì ‘o cocchë (Devo fare una
scorreggia)
‘A crocca nun šbaiòcca (La vecchia non ci
vede bene)
Appunìmmë ‘o valzer! (Andiamocene!)
Aggia appunì ‘o valzer in do minore (Devo
lasciare la donna con cui sto)
Abbozza... ‘e ggiustìnë stannë appunènnë ‘o
vënèsië (Attento... stanno venendo i
carabinieri)
Appunìscë ‘a cammënatèsia! (Accellera il
passo!)
Spunìscë ‘a tabbacchèsia! (Spegni la
sigaretta!)
‘E lëngùse so’ bbachërë (i maccheroni non
sono buoni)
‘O cròcchë s’è bbacuniàtë (il vecchio è
morto)
Nun appunìtë bbagarìe! (non fate
bagattelle!)
‘O jammë è bbachërë ‘ngoppë ‘e bbanë (il
tizio è cattivo sui soldi, cioè non paga bene)
Appunìscë ‘e bbanë ‘ind’ ‘a vèrtëla (Mettiti i
soldi in tasca)
Fa’ addò và, ca ‘o jammëtiéllë è amedeo (Fai
finta di niente, il ragazzino qui è
omosessuale)
Amedeo era un personaggio del dramma
"Ferdinando" di Annibale Ruccello, ed era
appunto omosessuale.
‘O jammë è addò và, è bacònë (il tizio è
inaffidabile, è incapace)
‘O jammë tenë ‘a zi’ muscèsia (Il tizio ha la
guàllera, cioè è lento)
‘O pìzzëca ‘ndèrra s’è ffattë ‘mbrusà (I pollo
si è fatto imbrogliare)
‘O pistòlfë s’è arciùtë ‘a jammëtèlla (Il prete
si è scopato la ragazza)
‘O prufëssòrë ‘e trillàndë è tochë (Il
mandolinista è in gamba)
Per finire, quando si vuole dire che un
musicista ha preso una stecca mentre sta
suonando, ci sono varie espressioni:
- ‘O jammë fa ind’ ‘e cchiavèttë (le chiavette
sono le leve che si alzano e si abbassano sui
fori degli strumenti a fiato, o le biette x
allentare o tendere le corde)
- ‘O jammë ‘a pigliàtë ‘na fella (metafora
dello stridìo che produce il coltello sul piatto
quando si taglia qualcosa)
- ‘O jammë s’a magnàtë ‘na pastièra (riferito
al precedente, nel caso in cui si tagli una
fetta di pastiera)
- ‘O jammë stà chinë ‘e zucchërë (x il fatto di
aver mangiato una fetta di pastiera)
Di seguito qualche esempio di parlèsia
contenuto nei testi di alcune canzoni:
I buoni e i cattivi (Pino Daniele)
Tarumbo’ (Pino Daniele)
La Parlesia:
"Scartiloffista o scatuozzo? Scatuozzo o
scartiloffista?". E' il dubbio amletico che
attanaglia il boss camorrista nel paradossale
"No grazie, il caffè mi rende nervoso", mitico
film dei dorati anni ottanta (in confronto a
quelli attuali mi andrebbero bene ache gli
anni di bronzo, basta che non siano quelli di
piombo!) con Lello Arena nella parte del
giornalista Michele alias Funiculì Funiculà, e
Massimino Troisi in un cammeo particolare,
in cui interpreta il "personaggio Troisi", così
lontano dalle bozzettistice caricature
partenopee del periodo, e che verrà invece
schiacciato dalla tradizione folclorica
napoletana, morendo ammazzato in un
pianino meccanico che vomita sempre le
medesime ed ipnotiche note di "Funiculì
Funiculà". E per comprendere le parole di
quello stranulato monologo malavitoso,
pubblico un divertente manualetto di lessico
camorristico di antico stampo, la cosiddetta
"parlesia", gergo cifrato appannaggio di
lestofanti e scaricatori di porto della peggior
risma. Buon divertimento!
Dizionaretto della Malavita Napoletana
Abbuzzatore: Ricettatore
Accammuffare: Accorgersi di essere stato o
stato per essere derubato
Acetaiuolo: Ubriacone
Afflitto: Detenuto
Annasà ‘o pullastro: Accertarsi se la vittima
sia una facile preda o meno
Arricamare: Tatuare
Babbio: Carcere
Baiaffa: Pistola
Baiaffa a panzarotto: Pistola infilata nella
cintura dei pantaloni
Baratto: Bottino, o tangente sul gioco
Barbazzale: Catena d’oro
Bardascia: Prostituta
Basista: Chi prepara o predispone un’azione
criminosa
Bevuto: Arrestato
Bobba: Veleno, pasto carcerario
Bocone, bocolo: Orologio
Briglia: Laccio d’oro
Brigo: Brigadiere
Buccaccia: Tasca
Cacafuoco: Rivoltella
Cacciatore: Giudice istruttore
Caina: Guardia di finanza
Cammisa ianca: Incensurato
Camorra: Provento delle tangenti, del pizzo,
del lenocinio, ecc.
Cangio, cangia: Il complice o la complice, ma
anche il cafone facile a truffarsi
Capa arrapata: Detenuto
Capintesta: Capo assoluto della camorra
Capintrito: Capo del quartiere
Capscerod: Maresciallo, in gergo zingaresco
Cara: Stazione ferroviaria
Carnente: Consanguineo
Carrubbe: Carabinieri
Carta ‘e butteglia: Banconota di piccolo taglio
Carta ‘e tressette: Individuo manesco
Cascia: Petto
Castiello: Tasca interna della giacca
Catania: Borsetta da donna
Cavallo: Complice del borseggiatore che
prende in consegna la refurtiva
Cavallo ‘e ritorno: Restituzione, dietro
pagamento, della refurtiva al legittimo
proprietario
Chiacchierone: Il giornale, ma anche tutto
quello che fa rumore durante le operazioni
criminose
Chiagnistelle: Orecchini
Chiammat’ ‘e core: Il chiamare in giudizio i
correi, o il fare il nome dei complici
Chionze: Occhiali
Chionzo: Individuo facile a derubarsi
Cicoria: Albergo, locanda in cui trattenersi
con prostitute
Cincofrunne: Schiaffo
Corda: Polizia
Correnta: Furto su auto
Correntista: Chi compie furti su auto
Corrento: Furto su mezzi tipo filobus ecc.
Coscia ‘e cavallo: Mitra
Cotta: Pasto carcerario
Craparo: Persona taciturna
Cravaccante: Pantaloni
Cucista: Orologio o anello in similoro
Cucuziello: Un mese di carcere
Cucuzzone: Un anno di carcere
Cuntaiuolo: Contabile
Dama: Presidente della Corte
Dragumane: Procacciatore di clienti per gli
alberghi
Drigna: Porta da scassinare
Drusiana: Prostituta
Duvere: Duello blando
Fangose: Scarpe
Fardaiuolo: Individuo poco raccomandabile
Fecato a otto: Delatrice
Fedele: Cane da guardia
Femmena mia: Donna “protetta”
Femmenella: Travestito
Ferrare: Carabinieri addetti alla detenzione
Fibbia streuza: False generalità
Fiorato: Derubato
Frisella: Giudice
Furlocco: Persona ingenua, facile da
derubare
Furticillo: Orologio
Gancio: L’indice e il medio usati nell’arte del
furto
Giusta: Polizia
Graffo: Borseggiatore
Grano, granelle: Denaro
Guappo: Uomo temuto e rispettato
Iango: Non portare a termine un colpo per il
sopraggiungere della polizia
Ianna: Fidanzata del pregiudicato
Lasagna: Portafogli
Leccaricotta: Lenone
Lenticchie: Orecchini
Liegge liegge: Introduzione leggiadra della
mano nella tasca della vittima
Livorde: Rivoltella
Maganzese: Delatore
Magnaricotta: Lenone
Magnata ‘e grammegna: Scarsa refurtiva
Mammasantissima: Boss
Marrocca: Spiata
Martino: Coltello
Mast’ ‘e carico: Falsificatore di monete
Mast’ ‘e sghiffo: Spacciatore di monete false
‘Mpunitura: Pistola giocattolo
‘Mpuosto: Agguato
Muffo: Spia
Mulignanella: Poliziotto di primo pelo
Muscolo: Braccio
‘Ndrico: Guardiano notturno o sorvegliante
‘Nfamità: Tradimento
‘Ngriccare: Tacere, non confessare
Nik: Niente
Nonna: Complice del borsaiolo che distrae la
vittima
‘Ntaccata: Sfregio al viso
‘Ntinno: Orologio
‘Nzaccagno: Coltello
Ommo pusitivo: Uomo di coraggio
Orecchione: Telefono
Palo: Complice del ladro, incaricato di dare
l’allarme
Palomma: Il biglietto, o la notizia che il
pregiudicato riesce a far avere ai familiari
Pappio: Portafoglio
Paranza: Gruppo di malviventi
Passante: Anello
Percuoco: Vigile urbano
Per’ ‘e puorco: Ferro utilizzato per aprire le
serrande
Pippa: Chiave fasulla
Pistolo: Prete
Pizzo: Tangente
Pollanca: Giovane prostituta
Pruvulillo: Giovane ladro
Pugnetura: Ferita di coltello poco profonda
Rapesta: Rapina
Ricanna: Rivoltella
Ricchione: Pederasta passivo
Ricuttaro: Lenone
Riforgia: Rivoltella a due canne
Rocchia: Gruppo di ladri
Rogna: Polizia
Rundinella: Messaggio clandestino
Sala: Divisione della refurtiva
Santosa: Chiesa
Sbruffo: Tangente
Scarda dint’ all’ uocchio: Delatore
Scarparo: Ladro
Scartellata: Pistola
Scartiloffio: Il tipico “pacco” napoletano,
furto con destrezza
Scartiloffista: Specialista dello scarti loffio
Scatuozzo: Specialista del furto con scasso
Scelpa: Refurtiva, stoffa in cui s’avvolge
qualcosa
Sceruppo: Bevanda alcolica
Scheggia: Ruota di automobile
Sciampagna: Amico del ladro
Sciurumme: Oggetti d’oro
Scummazza: Furto di poco valore
Scuorzo: Cappotto
Settesolde: Coltello a serramanico
Sfarziglia: Coltello a lama lunga
Sgarro: Violazione del codice d’onore,
tradimento
Sghizzo: Bisca
Sgranà: Banchettare
Smamma!: Tipica espressione del palo
Socra: Pasto carcerario
Sparpagliare: Disperdersi dopo il colpo
Spicchio: Vecchio
Stardone: Carcere
Sullazza: Sigaretta
Tarallucce e vino: Fatto grave risoltosi senza
conseguenze
Terzo: Padrino
Tienatella: Invito a non muoversi
Ting-tang: Bicicletta
Tirata: Duello
Tracco: Vestito
Treglia: Banconota da grosso taglio
Trimm: Temperino
Trumbetta: Delatore
Uattazzo: Vecchio pregiudicato
Ubberienza: Codice della malavita
Vavusiello: Giudice
Vertola: Tasca del pantalone
Vocra: Pasto carcerario
Volante: Borseggiatore all’opera su di un
mezzo di trasporto
Volpe: Poliziotto
Zaffio: Poliziotto
Zanzibar: Impresa o organizzazione
commerciale inesistente, che svanisce nel
nulla dopo aver truffato le persone
Zaraffo: Spalla, complice
Zeppa: Arnese usato per scardinare le porte
Zi’ Giustina: La giustizia
Zippa: Chiave originale
Zompafuosso: Coltello
Zumpata: Duello con i coltelli
PARLESIA
ACCHIARI’ – v. intr. “ubriacarsi”; `o jammë
acchiariscë: “il tizio si ubriaca”.
ACCIARATO – part. pass., agg. “ubriaco”;
anche acchiarutë, `o jammë acchiarutë: “il
tizio è ubriaco.
ACCHIARUTË – v. ACCHIARATO.
ACCIBBUÍ – v. tr. “mangiare”; a che ora së
accibbuiscë: “a che ora si mangia?”.
ADDIETARMË – v. ADDITARMË.
ADDITARMË – avv. “dietro”; sta additarmë a
nnuiarmë: “è dietro di noi”.
ADDÓ VA (1) – loc. sost. m. o f. 1. “balzano;
tale da non potersene fidare”; o jammë è
addó va: “il tizio è tale da non potersene
fidare”; 2. “pederasta passivo”.
ADDÓ VA (2) – loc. escl. “fa’ silenzio,
attenzione”; addó va, sta appunenno ‘o
iammo d’a tashca: “fa’ silenzio, smettila, sta
arrivando il padrone del locale”.
l’ALLAGROSA – “la chitarra”, anche
ALLËRÓSA.
l’ALLËRÓSA – v. ALLAGROSA.
l’ALZÈSIA – s. f. “l’atto di alzare”.
AMEDEO – “pederasta passivo, frocio”.
ANDARE PER LA CHETTA – loc. v. intr.
“girare il piattino fra i clienti”.
l’ANTÍCIPË – s. m. “la caparra”.
APPUNÌ – 1. “parlare (la parlesia)”; 2. “capire
(la parlesia)”, `o jammë appuniscë a
parlèsia: “il tizio parla/capisce il nostro
gergo”; 3. “capire, arrivare, combinare,
lasciar credere, e via di seguito secondo
porta il discorso”.
ARCÍ – v. tr. “fare all’amore (secondo la
posizione detta: il missionario”; m’arcessë a
jamm’a ccauttë: “farei all’amore con quella
donna là”; m’arcessë chella jammëtella,
com’è chiddé: “farei all’amore con quella
ragazza, quanto è bella”.
l’ARCIUTA – s. f. “l’atto di fare all’amore,
scopata”; m’aggë fattë n’arciuta cu chella
jamma èia vëré che era: “mi sono fatto una
scopata con quella tizia. Dovevi vedere cosa
è stato”.
ARRETRÒNICA – v. RETRONICA.
o BBÀBBIË – s. m. “il carcere”; `o jammë è
gghiutë o bbabbië: “il tizio è andato in
carcere”.
BBÀCHËNË – agg. “inetto”: `o jammë
bbàchënë: “il tizio non vale niente”; stàtëvë
attientë ca o jammë è bbàchënë ncopp’e
bbanë: “state attenti! Il tizio non paga”; e
lenguse so` bacune no bachere: “i
maccheroni sono cattivi, non buoni”; per
estensione ìo jammë bbàchënë: “il pederasta
passivo, il frocio”.
BBÀCHËRË – agg. 1. “poco serio, che vale
poco”; `o jammë bbàchërë: “il tizio è poco
serio”; `stu pezzë è bbàchërë: “questo pezzo
(di musica) vale poco; 2. bachero: “cattivo”;
e lenguse so` bacune o bachere: “i
maccheroni sono cattivi, non buoni”.
BBACONË – s. m. “persona cattiva, sciocca,
inetta”; nu bbaconë: “chi non fa bene ciò che
deve fare”; chillë è ppropië `nu bbaconë:
“colui è proprio un inetto”.
BBACUNIATË – part. pass., agg. “finito,
morto”; `o jammë s’è bbacuniatë: “il tizio si
è reso inutile”.
a BBAGARIA – “l’atto sciocco, inutile,
dannoso”; `o jammë a ffrundinë sta
appunnenë bbagarië: “l’uomo di fronte sta
facendo discussione”; nun appuni` bbagarië
stannë vënènnë o ggiustinë: “non fare
sciocchezza! Stanno arrivando le guardie”;
amm’appuní stabbagaria appuniscë:
“dobbiamo farla questa sonata? Falla!”.
e BANNË - s. m., pl. “i soldi, il danaro”; `o
jammë è bbàchënë ncoppë e bbanë: “il tizio
non paga”; ‘e bbane: “il danaro”; bano: nu
bbano: “un soldo”.
a BBANÈSIA – s. f. “il danaro”; `o jammë ra
bbanèsia: “il tizio del danaro”.
nu BBANO- v. BANË.
o BBIANCH’E NNIRË – loc. sost. “il
pianoforte”.
BBICICLETTA – loc. sost. f. a jammë d’a
bicicletta: “la tizia con la macchinetta per i
denti”.
o BBUFFO – “palcoscenico”.
`a CAMMËNETÈSIA – s. f., “l’atto di
camminare”; appuniscë `a cammënatèsia:
“affretta il passo”.
`a CANNUCCIA A CINQUE PERTOSE – loc.
sost. “il flauto”.
e CARRUP(B)P(B)Ë – s. m. pl. “i carabinieri”.
`a CASA – s. f. “la caserma”.
CAUTTË, A CCAUTTË – loc. avv. “qui, a
destra”: `o jammë a ccauttë: “l’uomo che sta
alla nostra destra”; mo ci’appunimmë `a
jammë a ccauttë: “ci portiamo a letto questa
tizia”; puortë `nu pochë `e `nzalata a
cauttë: “portaci dell’insalata qui”.
`na CAVÌ’ – “una lira”.
`e CAZUNÈSIË – s. m., pl. “i calzoni”; accattë
e cazunèsië a e jammëtiellë: “comprerò i
calzoni per i bambini”.
la CHETTA – “la questua o richiesta di
volontario compenso per le canzoni cantate”.
`o CHIACCHIARONË – s. m. “il pianoforte”.
`o CCHIARË – s. m. “il vino (sia rosso che
bianco)”.
`a CHIARÈNZA – s. f. “il vino”; appunimmë a
chiarènza: “beviamo”.
`a CHIARÈNZIA – s. f. “il vino”.
CHIARÍ – v. tr. “bere”.
` CHIARÓSA – s. f. “l’osteria, la cantina, la
trattoria”; ddoië o tre cchiaròsë: “due o tre
trattoriole”; a chiaròsa na cantënella: “una
modesta cantina, un’osteria, una trattoria”.
CHIAVETTË, FA’ IND’E CHIAVETTË – loc.
verb. intr. “prendere una stecca”.
CHIDDÉ – agg. “bello”; m’arcessë chella
jammëtella, com’è chiddé: “farei all’amore
con quella ragazza, quanto è bella”; comm’è
chiddé, chella jamma: “com’è bella, quella
donna”.
`a CHIDDERIA – s. f. 1. “la cosa”; nun
appuniscë a chidderia: “non è buono a fare
l’amore”; `o jammë nun appuniscë a
chidderia a spillà è bbàchënë: “il tizio non
suona bene, nel suonare è uno sciocco”; 2.
“la roba”; s’annë appunitë a chidderia d’`o
jammë: “hanno preso la roba del tizio”.
CHIDDÒ – agg. “buono”, valido”; `a jammë
è cchiddò: “la tizia è buona”.
CHIN’E ZÙCCHËRË, STA CHIN’E ZÙCCHËRË –
“prendere una stecca”.
a CHIBUENZA – s. f. “il mangiare”.
`a CHIBBUÈNZIA – s. f. “il cibo”.
CIBBUÍ – v. tr. “mangiare”.
`a CLITENNESTRA – “la chiatarra elettrica”.
`o COCCHË – s. m. “la scorreggia”; aggia
spuní `o cocchë: “debbo fare una
scorreggia”.
la COMUNE IN RE MINORE – s. f. “una serie
di variazioni e svolazzi (del faluto con
l’accompagnamento di un tremolo sostenuto
dalle chitarre)”.
`a CROCCA – s. f. 1. “la vecchia”; 2. “la
nonna”.
`o CROCCHË – s. m. 1. “il vecchio” 2. “il
nonno”.
o CROSCHË – s. m. “il bordello, il casino”.
a` CUMMARA – “ la chitarra”.
`a CUSISTÀ – s. f. 1. “la cosa”; appuniscë `a
cusistà `a llà ngoppa: “prendi la cosa da lì
sopra”; 2. “il pene (quello che sta qui
sotto)”; anche quisistà.
DONDE VAS – loc. agg. “addò va’”, cioè
balzano.
* ll’EVËRA – “i baffi”. ËVERA A U SCOGLI: i
baffi sotto il naso; “nun fa appunì o jammë
cu ll’èvëra a u scoglio”: non far parlare
l’uomo coi baffi.
* FA’ – fare.
FA’ ADDÓ VA – loc. verb. intr., fare silenzio,
attenzione; “fa addò va, o jammë
appuniscë”: taci! Sta attento! Il tizio capisce
(il nostro gergo); “chillë è bbacònë rifardë fa
addò va”: quello è inetto e un po’ maligno.
Taci! Sta attento! Escludilo!; “facitë addò
va”: lasciateli stare! Non curatevene!.
FA’ IND’E CCHIAVETTË – v. CHIAVETTA.
a FANGÓSA – s.f., scarpa.
e FFANGÓSË – s.f., le scarpe.
a FELLA, PRENDERE NA – loc. verb. intr.,
sbagliare una nota, fare una stecca.
a FLAUTAMMA – s.f. “il flauto”.
a FLAUTÈNZIA – s.f., il flauto.
FRUNDINË, A FFRUNDINË – loc. agg., di
fronte; “o jammë a ffrundinë”: il tizio di
fronte.
a FUMÈNZA – s.f., la sigaretta.
a FUMÈNZIA - s.f., la sigaretta.
a FUMÈSIA - s.f., la sigaretta.
FUMMË – s.m., omosessuale maschile,
frocio; “o jammë è ffummë”: il tizio è frocio.
a FUMÓSA - s.f., la sigaretta.
* i GAVOTTISTI – s.m., cantori e suonatori a
orecchio, assai popolari.
e GGHIAMMË BBÀCHËNË – loc. sost. f. pl., le
prostitute.
e GGHIAMMË CHË FANNË MESTIERË – loc.
sost. f. pl., le prostitute.
a GGIRÈSIA – s.f., un giro, un andare intorno
sia casuale che motivato.
o GGIUSTINË – s.m., 1. la guardia; “fa addò
va sta appunennë o ggiustinë”: sta attento!
Sta arrivando la guardia. 2. poliziotto di
tribunale.
o IAMMO s. m. il proprietario.
a JAMMA s. f. la donna.
a JAMMA D’ ‘A TASHCA loc. sost. f. la
proprietaria.
o JAMMË l’uomo. “O jammë d’ ‘o
matrimonië” il committente della festa di
matrimonio; “o jammë è addó va” il tizio è
frocio; “o jammë ca špuniscë e bbanë” il tizio
che paga; “o jammë ra bbanèsia” il tizio che
paga. Anche “jammo”: “o jiammo” il
proprietario; “o iammë ra tašca” 1. il tizio
che paga, 2. il padrone della casa, 3. il
padrone del locale; “o jamma d’ ‘a tashca:
addo va, sta appunenne o jammo da tashca”
fà silenzio, smettila, sta arrivando il padrone
del locale; al f. “a jamma”, “a jamma nu
šbaiocca” la tizia non vede; “a jamma addó
va” la prostituta; al f. pl. “ghiamme”: “e
ghiamme” le donne; “e gghiammë
bbàchënë”.
a JAMMË CA BBICICLETTA la tizia con la
macchinetta per i denti.
a JAMMË STA A PPÈRË loc. sost f. la tizia si è
tolta la macchinetta per i denti.
o JAMMË CA ŠPUNISCË E BBANË loc.sost. m.
il tizio che paga, il committente.
o JAMMË C’A BBANÈSIA loc. sost. m. il tizio
che paga, il committente.
o JAMMË R’A TAŠCA loc. sost. m 1. il tizio
che paga, 2. il padrone della casa, 3. il
padrone del locale.
a JIAMMË D’ ‘A TASHCA: addo va, sta
appunenne `o jiamme d``a tashca” fà
silenzio, smettila, sta arrivando il padrone del
locale.
a JAMMËTELLA s. f. la donna.
a JAMMËTELLINA s. f. sorella; “jammëtellinë”
le sorelle.
o JAMMËTELLINË s. m. bambino.
o JAMMËTIELLË s. m. un uomo poco
importante; “o jammëtiellë” un tizio poco
importante.
o JAMMO s. m. il proprietario.
a JAMMONA s. f. la donna importante.
o JAMMONË s.f. l’uomo importante; “che
bella sammone” che grand’uomo.
o JAMMONË D’E BBANË loc. sost. m. il tizio
che paga, il committente.
o JAMMONË A CCAUTTË loc. sost. m. il
padre.
a JAMMONË A CCAUTTË loc. sost. f. la
madre.
LANZÍ intr. orinare; “aggia i a llanzí” debbo
andare ad orinare.
a LANZITA s. f. l’orinata.
o LANZITURË s. f. il cesso.
o LASAGNË s. m. il portafogli; “s’annë
pigliatë o lasagnë” mi hanno rubato il
portafogli.
LAUTTË, A LAUTTË loc. avv. Di là, a sinistra;
“o jammë a lauttë” il tizio alla nostra sinistra.
a LËNDÍSIA gli occhiali; “appuniscë a lëndísia
lla ngoppë” prendi gli occhiali da lì sopra.
a LLËNGUSË s. f. pl. i maccheroni;
“appunimmë nu piattë e lëngusë”
prepariamo un piatto di maccheroni.
a LOFFIA v. lofië.
LOFIË agg. Cattivo, brutto, scadente; “è
llofia a pusteggia” la pusteggia è cattiva.
LLURTË v. l’urtë.
a LUTAMMA s. f. fango, cosa di spregevoli;
“si ppropriië na lutamma” non vali niente.
a MADAMA s. f. la polizia.
MANGIA’ mangiare.
(SË) MANGIA’ NA PASTIERA v. PASTIERA.
MANCHÈSIA, A MMANCHÈSIA a sinistra; “o
jammë a mmanchèsia a mmiònichë” quel
tale alla mia sinistra.
a MANÈSIA s. f. la mano; ”o ngrì a
mmanèsia“ la masturbazione.
a MBANÈSIA s. f. il danaro.
e MBANË danaro; “quanti mbani cë stannë”
quanti soldi ci offrono.
MBROSË v. PROSË.
MBRUSA’ v. tr. Imbrogliare, perndere per i
fondelli.
MESTIERË v. “e gghhiammë chë fannë
mestierë”.
MIÓNICHË, A MMIÓNICHË me a me.
o MOVIMÈNTË s. m. un’attività da svolgere;
“tenghë nu movimèntë a fa’” debbo
organizzare una cosa.
MUSCESIA, A ZI loc. sost. f. l’ernia; “o
jammë tènë a zi muscèsia” il tizio è lento.
NDARDISCË O NGRI’ loc. sost. la
masturbazione.
a NARDITA s. f. la cacata; “aggia špunì a
ndartita” debbo fare una cacata.
NGASANZA loc. avv. La galera; “o jammë è
statë ngasanza” il tizio è stato in galera.
o NGRI’ s. m. il membro dell’uomo; “o ngrì a
mmanèsia” la masturbazione; ”a jamm’a
‘ppunitë o ngrì” la tizia è incinta.
NTERRA, O PÍZZËCA v. O PÍZZËCA NDERRA.
NTINDALLË, A loc. avv. il rapporto orale
(eseguito da una donna); ”a jamma
appuniscë a ntindallë” la tizia accetta
rapporti orali
a PADRUNÈSIA s. f. la padrona (del casino).
a PARLÈSIA s. f. denominazione del gergo
usato dai posteggiatori; “nun appuniscë a
parlèsia” non parla la parlèsia.
o PARLÈSIË la parlèsia; “nun appuniscë o
parlèsië” non parla la parlèsia.
a PASTIERA, (SË) MANGIÀ NA PASTIERA loc.
verb. rifl. Prendere una stecca.
a PENNA s. f. il plettro.
a PËNNÈSIA s. f. il plettro; “a pënnèsia è
mmalamendë, appuniscë meglië” il suono è
brutto, fa’ meglio.
PPÈRË: A JAMMË STA A PPÈRË.
o PERETTE s. m. il mandolino.
PESANTË agg. importante; “o jammë è
ppesantë” il tizio è importante.
o PISTO s. m. il prete.
u PISTOLFË s. m. 1. il prete; 2. il frate.
a POSTEGGIA v. PUSTEGGIA.
POSITIVË agg. importante; “o jammë è
ppositivë” il tizio è importante; “o jammonë è
ppositivë” il tizio è importante.
PRENDERE NA FELLA v. FELLA.
PRESUTTE, L’UOSSE E – v. L’UOSSË E-
u PROSË s. m. il culo; “appunimmë o prosë”
sediamoci; “a jammë o pigli’a pprosë” la tizia
pratica il rapporto anale; “a jammë o
ppuniscë mbrosë” idem.
o PRUFESSORË s.m. colui che suona nella
posteggia.
a PUSTEGGIA s. f. 1. l’arte del posteggiatore;
2. il complesso musicale che esegue canzoni
in pubblico; 3. il tempo occorrente per le
esecuzione tra una “chetta” e l’altra.
o PUSTEGGIATORË s. m. colui che suona o
canta canzoni napoletane, da solo o con altri,
in luoghi o locali pubblici.
PUSTIGGIÀ v. intr. esecuzione seguite da
“chetta”, ma anche approccio.
i QUISISTÀ s. m. il rapporto orale (da parte
della donna).
QUO VADIS “addó va’” cioè balzano.
O rastë s.f. il piattello per la questua.-
A rastiera s.f. i denti, la dentatura.
Retrònica, a rretronica loc. avv. dietro.
A richignènza s.f. i testicoli.
A richignèzia s.f. l’ernia.
Rifardë 1° cattivo; 2° infame.
A santona s.f. la sentenza.
Šbaciuccà v. intr. vedere Shbianchì v. tr.,
svelare, mettere a nudo la verità.
O šbirrë s.m. la spia.
O šbuffo v. buffe.
Shcancià v. intr. girare la “chetta: girare per
la questua.
Shcancianese s.m. o agg. Avaro.
O sciusciande s.m. il fazzoletto.
A sciusciosa1 s.f. la fisarmonica.
A sciusciosa2 ls.f. la notizia soffiata
all’orecchio.
O sciusciuso s.m. il naso.
O scoglio s.m. il naso.
A ëntosa s.f. la serenata.
‘E sentose s.f. pl. le orecchie
A šfumósa s.f. le sigarette.
A situènzia s.f. la cosa a cui si riferisce:
appunisscë a situènzia: prendi la macchinetta
del caffè.
Šmurfì tr. Mangiare
Špillà v. intr. suonare.
A špillantë s.f. la fisarmonica.
O špillesië s.m. il suonare.
O špillosë s.m. l’atto del suonare.
Špunì v. tr. non parlare.
A šquillantë s.f. la fisarmonica.
Sta’ stare, essere.
Sta’ chin’ e zúcchërë: prendere una stecca,
sbagliare una nota.
A stèra s.f. l’organo genitale della donna.
A stera² s.f. lia: ‘na stera” una lira.
E stèrë s.f. mille lire; cinghë stèrë cinquemila
lire.
O straccë s.m. la carne.
A strillandë s.f. la fisarmonica.
O striscio s.m. voce con incrinatura triste che
conferisce tristezza al canto.
Tabbacchèsia s.f. la sigaretta. Spunisci ‘a
tabbacchésia: spegni la sigaretta
‘O tagliero s.m. il violino.
Tartì verbo intr. cacare.
‘A tartita s.f. la cacata.
‘O tartituro s.m. il cesso.
‘Atashca s.f. la casa, la ditta.
‘E tennuse s.f. le mammelle.
Tionichë a tionichë, te, a te.
Tochë valido, capace ecc.
‘O trillandë s.m. il mandolino.
‘A trioffa s.f. la carne.
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