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Page 1: Afganistan

La "guerra necessaria"

Gli Usa, l'11 Settembre e le ragioni della guerra i n Afghanistan

Le ragioni che hanno portato agli attentati dell’11 Settembre non hanno mai davvero interessato il Presidente Barack

Obama. Eppure egli è tornato a quei fatti quando ha cercato di spiegare, e difendere, la guerra in Afghanistan durante un

discorso tenuto ai “Veterani delle Guerre Straniere” a Phoenix, in Arizona, il 17 agosto scorso. “L’insorgenza in

Afghanistan non ha luogo solamente di notte, e non la sconfiggeremo facilmente mentre imperversano le tenebre, ma

non dobbiamo mai dimenticare che questa non è una guerra che abbiamo voluto. E’ una guerra necessaria. Quelli che

attaccarono gli Stati Uniti l’11 Settembre stanno complottando di nuovo. Se lasciata incontrastata, l’insorgenza talebana si

trasformerà in un rifugio ancora più largo e sicuro da cui al Qaeda potrà organizzarsi per uccidere altri americani”.

Questa distinzione tra una guerra voluta (l'Iraq) e una guerra necessaria (l'Afghanistan) è divenuta canonica nel mondo

liberale americano. Ma sarebbe più opportuno che facessimo a meno di essa, poiché è moralmente falsa e

intellettualmente confusa. Nessuna filosofia riguardo a una guerra giusta o ingiusta potrà mai supportarla. L’idea

dell’Afghanistan come “guerra buona” è nata soltanto durante il feroce attacco al progetto americano in Iraq. Essa fu il

bastone con cui è stata tramortita la missione in Iraq. Fu una sorta di “scambio ferroviario” che avvenne praticamente

così: da una parte c'era la guerra buona, necessaria, tra le montagne dell’Afghanistan, la guerra multilaterale nata da una

decisione collettiva della NATO – dall’altra la guerra “volontaria” di George Bush in Iraq, combattuta contro l’opinione

degli alleati, che pure erano stati dalla nostra parte dopo gli eventi dell’11 Settembre, e la cui buona volontà abbiamo

dissipato tra le strade di Fallujah e nei deserti dell’Anbar.

Secondo questa narrazione, le elezioni dello scorso novembre ci avrebbero offerto la possibilità di scrivere la parola fine

all’isolamento americano, sia in battaglia che nel mondo. Un uomo con evidenti legami con l’Islam, intessuti sia nella sua

identità che nella sua biografia, veniva catapultato alla Casa Bianca. In questo modo avremmo drenato le paludi dell’anti-

americanismo. Assalam aleikum (la pace sia con te) con il Cairo, Ankara e Tehran. La grande ostilità, l’ormai fuori moda

“scontro di civiltà”, sembrano sorpassati. Una nuova storia è presumibilmente cominciata quando George Bush jr. è

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ritornato in Texas. Così mentre l’11 Settembre non viene considerato come il casus belli per la guerra in Afghanistan, è

sempre viva la minaccia di processare gli uomini e le donne dei nostri servizi di intelligence che si sono fatti carico delle

speranze degli americani in quei momenti di sofferenza e pericolo.

Tanto per cominciare, una politica che intende tornare indietro all’11 Settembre non può assolutamente prescindere da

una lettura attenta delle radici del radicalismo islamico. L’impeto che ha colpito l’America da Kabul a Baghdad va

interpretato in modo corretto. Quelli che attaccarono il suolo americano con le stragi dell’11 Settembre non erano afgani.

Erano arabi. Il loro terrorismo deriva dai difetti della vita politica araba. I loro finanziatori erano arabi, così come sono

arabe quelle masse che affollarono il Cairo e Nablus e Amman, e che hanno ammiccato al terrore e hanno giudicato quegli

attacchi come la giusta punizione per l’America, una buona volta.

La sola Kabul non era sufficiente come “indirizzo di ritorno” in quella guerra crepuscolare; era importante combattere

all’interno dello stesso mondo arabo, e il despota a Baghdad ha pescato il filo di paglia più corto. E’ stato sfacciato e

ribelle mentre il popolo americano stava vivendo un genuino sentimento di preoccupazione. Saddam aveva bisogno di

una lezione. Nessun arabo ha investito sentimentalmente nella figura del Mullah Omar e dei Talebani, ma il regnante di

Baghdad era uno dei figli favoriti della Nazione Araba. La decapitazione del suo regime è stato un messaggio di

avvertimento per i suoi fratelli.

Oggi il contributo offerto da George Bush è scaduto. Il presidente oltrepassò la linea di non ritorno mentre era davvero

nell’aria una Nazione Araba, che si stava muovendo verso le più potenti e pericolose tentazioni. A quanto sembra Obama

e i suoi collaboratori non hanno bisogno di pagare un eroico tributo agli uomini e alle donne che hanno governato prima

di loro. Eppure il presidente e i suoi hanno malignato così tanto sopra i loro predecessori (e sui loro moventi) che ogni

richiamo all’11 Settembre oggi suona forzato, se non addirittura vuoto. Negli anni scorsi il liberalismo americano si è

separato dal patriottismo, e il danno è ancora tutto da valutare.

Nelle migliori circostanze, la campagna afgana potrebbe essere considerata un "cliente difficile". Questo è doppiamente

vero nel momento in cui l’America si ritrova a fare i conti con una crisi finanziaria in casa propria. Non sembra esserci

alcuna tradizione di governo centrale da restaurare in Paesi perlopiù tribali come l’Aghanistan. La lezione e l’analogia con

il Vietnam dovrebbe forse spiegare tutto il resto. Questo non è il Vietnam di Obama. E’ esattamente ciò che è – il suo

Afghanistan. Ma i paralleli con Lyndon B. Johnson e col modo in cui egli si impegnò durante la sua presidenza, ed

impegnò l’intera nazione, in una guerra che lo terrorizzava fin dall’inizio, sono irresistibili.

Ecco Lyndon Johnson nel 1964, citato nel risolutivo saggio di A.J. Langguth,Our Vietnam, pubblicato nel 2000: “Io non

penso valga la pena combattere, ma non penso neanche che possiamo uscirne. E’ il più grande dannato casino che si sia

mai visto”. Il presidente avrebbe proseguito in quella che definiva “puttana di una guerra” prevedendo che il conflitto

avrebbe potuto demolire i suoi programmi sulla Grande Società. Conosceva bene l’animo americano: “Non penso che la

gente nel Paese sappia molto del Vietnam, e penso che gliene importi ancora meno”. In più, si buttò a capofitto nella

situazione, provando persino a “barare” – armi e lusinghe allo stesso tempo, la guerra in Asia mista agli impegni

casalinghi sui diritti civili e la Grande Società. La storia fu spietata. Provocò una tragedia monumentale in una terra di

nessuna importanza per la sicurezza americana.

Le guerre sono ottime per fare chiarezza. Lo squillo di tromba lanciato da Barack Obama suona incerto. La sua chiamata

alle armi in Afghanistan non esalta gli animi più di tanto. Il presidente teme davvero il fallimento in Afghanistan. Avendo

rinnegato l’Iraq, e messo a distanza il movente della guerra, ora è costretto a impegnarsi nella missione afgana. Così

equivoca e gioca col tempo. Comportandosi incessantemente da candidato e non da presidente, Obama concentra la sua

attenzione sugli umori dell’opinione pubblica. La tempra d’acciaio che Bush mostrò nel 2007, quando in Iraq sembrava

tutto in bilico, non è così evidente nel suo successore.

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Obama sarà costretto a fare una scelta difficile per favorire lo sforzo americano in Afghanistan, sarà chiamato a resistere

sul campo nonostante l’insorgenza talebana stia aumentando sia dal punto di vista delle forze nemiche sia come portata

geografica. Avrà bisogno di un impegno maggiore delle sue truppe sufficiente a rovesciare le sorti della guerra.

Ciononostante, dovrà fare i conti con la sinistra del partito democratico e convincerla che in Afghanistan c’è un progetto

per cui vale la pena combattere (e da finanziare).

A questo punto è evidente che si tratta di decisione che finora il presidente ha rifiutato di prendere, visto che lo vediamo

proseguire spedito nel raggiungimento dei suoi obiettivi interni, lasciando in ballo la questione afgana. Di sicuro si è

convinto che le forze della NATO si precipiteranno a lottare sotto le sue insegne, e che l’Europa fino adesso è rimasta

lontana da un serio impegno in Afghanistan perché quell'impegno era stato menomato dall’animosità provata nei

confronti di Bush. Ma Bush è stato un alibi troppo a lungo: gli europei non hanno mai visto di buon occhio questa guerra.

E’ vero che in Afghanistan c’è un contingente più che sufficiente di forze britanniche ma se è per questo l’Europa ne inviò

uno persino in Iraq. Le decisioni di Jacques Chirac e Gerhard Schroeder (che si sono tuffati nel più vigliacco anti-

americanismo) ormai sono lontane e sono state dimenticate, ma francesi e tedeschi non hanno partecipato alla

liberazione di Kandahar. Le forti restrizioni imposte alle truppe impiegate sul campo, insieme alle regole d’ingaggio

utilizzate da questi Paesi, hanno reso la questione afgana un fardello degli Stati Uniti, ben più di quanto sia accaduto con

quella irachena.

Otto anni fa siamo stati visitati dalle “furie” provenienti dal mondo arabo. Siamo stati svegliati di soprassalto da una

decade in cui guru ed esperti avevano annunciato la fine delle ideologie, della politica stessa, e il trionfo delworld-wide

web e del “gregge elettronico”. Così abbiamo scoperto che, dall’altra parte del mondo, i signori del terrore, i predicatori e

la loro fanteria, si stavano rivolgendo all’America nel modo più perverso possibile. Siamo diventati, senza saperlo, una

delle fazioni della guerra civile che si combatte nel mondo arabo-musulmano, trovandoci a metà tra gli autocrati e i loro

figli che non li amavano più, tra coloro i quali desideravano vivere una vita normale e i guerrieri della fede decisi ad

imporre il loro volere su quelle terre turbolente.

L’America ha risposto alla chiamata, magari non sempre in modo brillante, ed è per questo motivo che siamo destinati ad

essere considerati estranei in quel mondo e, nel contempo, a dover improvvisare e a dover prendere la nostra strada

seguendo strade sconosciute. Durante quest’impresa abbiamo incontrato voltafaccia e prostitute di ogni genere, e

abbiamo imparato in un attimo usanze e patologie incomprensibili. Sicuramente per noi va meglio quando diamo retta

alla nostra visione del mondo. E di sicuro non siamo stati tratti in salvo dalle folle di Parigi e Berlino, o da quelli che ad

Ankara e al Cairo fingono di desiderare la nostra amicizia mentre in realtà si struggono per vedere la nostra rovina.

di

Fouad Ajami 14 Settembre 2009

Fouad Ajami insegna Advanced International Studies alla John Hopkins School ed è adjunct fellow allo Stanford’s

Hoover Institution. Ha scritto “The Foreigner’s Gift: the Americans, the Arabs and the Iraquis in Iraq” (Free Press,

2007), tra gli altri.

Tratto da The Wall Street Journal

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" IL SEGRETO DELLA GUERRA IN AFGHANISTAN: IL TRAFFICO DELLA DROGA " DI JOHN JIGGENS

Clicca qui per vedere il grafico

LA GUERRA AFGHANA: “NIENTE SANGUE PER L’OPPIO” Lo scopo militare segreto è di proteggere il traffico della droga [1] Era normale, all’inizio della guerra contro l’Iraq, vedere slogan che proclamavano: “Niente sangue per il petrolio!”. La motivazione di facciata della guerra – i legami con Al Qaeda di Saddam e le sue armi di distruzione di massa – erano ovvie mistificazioni di massa, che nascondevano un programma imperiale molto meno digeribile. La verità era che l’Iraq era un importante produttore di petrolio e, nella nostra epoca, il petrolio è la risorsa più strategica in assoluto. Per molti era ovvio che il programma vero della guerra era il controllo imperialistico del petrolio iracheno. Questo venne confermato quando la compagnia petrolifera statale dell’Iraq venne privatizzata all’indomani della guerra in funzione degli interessi occidentali. Perché quindi non ci sono slogan che dicono: “Niente sangue per l’oppio!”? Il primo prodotto dell’Afghanistan è l’oppio e la produzione di oppio è straordinariamente aumentata durante l’attuale guerra. L’azione in corso della NATO a Marjah è chiaramente motivata dall’oppio. Si dice che sia la principale area di produzione dell’oppio dell’Afghanistan. Perché allora la gente non pensa che il vero scopo della guerra afghana è il controllo del traffico dell’oppio? Le armi di mistificazione di massa ci dicono che l’oppio appartiene ai talebani e che gli Stati Uniti stanno combattendo contro la droga così come contro il terrorismo. Tuttavia rimane il fatto singolare che il traffico di oppio dell’Asia orientale, negli ultimi 50 anni, ha percorso un tragitto da est a ovest, seguendo le guerre americane, e sempre sotto il controllo degli apparati americani. Negli anni ’60, quando gli Stati Uniti combattevano in Laos una guerra segreta utilizzando l’esercito Hmong dell’oppio di Vang Pao[2] come suo mandatario, l’Asia sudorientale produceva il 70% dell’oppio illegale del mondo. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la produzione dell’Afghanistan, controllata dai signori della droga appoggiati dagli Stati Uniti, che fino ad allora aveva rivaleggiato con la produzione dell’Asia sudorientale, venne eliminata. Dal 2002, la produzione afghana di oppio, incoraggiata sia dai talebani che dai signori della droga appoggiati dagli Stati Uniti, ha raggiunto il 93% della produzione mondiale illegale: una prestazione senza confronti. Il grafico riprodotto nell'illustrazione, tratto dal UN World Drug Report [Rapporto Mondiale sulle Droghe delle Nazioni Unite] del 2008, mostra la crescita sbalorditiva della produzione afghana di oppio seguita all'invasione americana. Negli anni ’80, gli Stati Uniti sostennero in Afghanistan i fondamentalisti islamici, i mujaheddin, contro i sovietici. Per finanziarsi la guerra, i mujaheddin ordinarono agli agricoltori di coltivare l’oppio come pedaggio alla rivoluzione. Lungo il confine col Pakistan, i leader afghani e i cartelli locali, sotto la protezione dell’intelligence pakistana, gestivano

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centinaia di raffinerie di eroina. Quando la Mezzaluna d’Oro dell’Asia sudoccidentale eclissò il Triangolo d’Oro dell’Asia sudorientale come centro del traffico di eroina, fece alzare i tassi di tossicodipendenza in Afghanista, Iran, Pakistan e Unione Sovietica in modo vertiginoso. Per nascondere la complicità statunitense nel traffico della droga, venne chiesto ai funzionari della Drug Enforcement Agency (DEA) di stare alla larga dai narcotraffici degli alleati degli Stati Uniti e dal sostegno da essi ricevuto dall’Inter Service Intelligence (ISI) del Pakistan e dai favori delle banche pakistane. Il compito della CIA era di destabilizzare l’Unione Sovietica per mezzo del sostegno all’islam fondamentalista all’interno delle repubbliche centro-asiatiche, e così sacrificarono la guerra alla droga per combattere la Guerra Fredda. Il loro compito era di danneggiare i sovietici il più possibile. Sapendo che la guerra con la droga avrebbe accelerato il crollo dell’Unione Sovietica, la CIA facilitò le attività dei ribelli anti-sovietici nelle province dell’Uzbekistan, della Cecenia e della Georgia. Le droghe vennero usate per finanziare il terrorismo e le agenzie di intelligence occidentali usavano il loro controllo sul narcotraffico per influenzare i gruppi politici in Asia Centrale. L’esercito sovietico si ritirò dall’Afghanistan nel 1989, lasciando sul campo una guerra civile - tra i mujaheddin finanziati dagli Stati Uniti e il governo sostenuto dai sovietici - che durò fino al 1992. Nel caos che seguì alla vittoria dei mujaheddin, l’Afghanistan scivolò in un periodo di guerra per bande in cui l’oppio crebbe in modo vigoroso. Dal caos emersero i talebani, che si impegnarono a eliminare i signori della guerra e ad applicare un’interpretazione stretta della legge islamica (sharia). Presero Kandahar nel 1994, ed ampliarono il loro controllo dell’Afghanistan, conquistando Kabul nel 1996, e proclamando l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Sotto la politica del governo talebano, la produzione di oppio in Afghanistan venne messa a freno. Nel Settembre del 1999, le autorità talebane emisero un’ordinanza che ordinava a tutti i coltivatori di oppio dell’Afghanistan di ridurre la produzione di un terzo. Una seconda ordinanza, promulgata nel Luglio del 2000, ordinava ai coltivatori di cessare del tutto la coltivazione dell’oppio. Ordinando la messa al bando della coltivazione dell’oppio, il Mullah Omar definì il traffico di droga “anti-islamico”. Di conseguenza, il 2001 fu l’anno peggiore per la produzione globale di oppio nel periodo tra il 1990 e il 2007. Durante gli anni ’90, la produzione globale di oppio raggiunse la media di oltre 4.000 tonnellate. Nel 2001, la produzione di oppio precipitò a meno di 200 tonnellate. Sebbene non venne riconosciuto dal governo Howard, che se ne attribuì il merito, la penuria di eroina in Australia del 2001 era dovuta ai talebani. Dopo l’attacco al Pentagono e alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001, gli eserciti dell’alleanza del nord, guidati dalle forze speciali statunitensi e sostenuti dalle bombe “daisy cutter”[3], dalle bombe a grappolo e dai missili anti-bunker, distrussero le forze talebane in Afghanistan. Il bando dell’oppio venne tolto e, con i signori della guerra sostenuti dalla CIA di nuovo al potere, l’Afghanistan divenne di nuovo il principale produttore di oppio. Nonostante i dinieghi ufficiali, Hillary Mann Leverett, ex addetto del National Security Council per l’Afghanistan, confermò che gli Stati Uniti sapevano che i ministri del governo afghano, incluso il ministro della difesa del 2002, erano coinvolti nel traffico della droga. Schweich scrisse sul New York Times che “la narco-corruzione arrivò ai vertici del governo afghano”. Disse che Karzai era restio a combattere i grandi signori della droga nella sua roccaforte politica al sud, dove viene prodotta la maggior parte dell’oppio e dell’eroina del paese. Il più importante di questi sospetti signori della droga era Ahmed Wali Karzai, il fratello del Presidente Hamid Karzai. Si è detto che Ahmed Wali Karzai abbia orchestrato la fabbricazione di centinaia di migliaia di schede elettorali fasulle per il tentativo di rielezione del fratello nell’Agosto del 2009. È stato anche ritenuto responsabile della presentazione di dozzine di cosidetti seggi elettorali fantasma – esistenti solo sulla carta – usati per fabbricare decine di migliaia di schede fasulle. Funzionari statunitensi hanno criticato il suo controllo “para-mafioso” dell’Afghanistan meridionale. Il New York Times ha riferito che l’amministrazione Obama si è ripromessa di prendere serie misure contro i signori della droga che permeano gli alti livelli dell’amministrazione del Presidente Karzai, e che ha fatto

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pressioni sul Presidente Karzai affinché allontanasse suo fratello dall’Afghanistan del sud, ma lui si è rifiutato. “Karzai ci sta giocando come un imbroglione”, ha scritto Schweich. “Gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari per lo sviluppo infrastrutturale; gli Stati Uniti e i loro alleati hanno combattuto i talebani; gli amici di Karzai hanno avuto la possibilità di diventare più ricchi col traffico della droga. Karzai aveva per nemici dei talebani che hanno fatto profitti con la droga, ma aveva un numero anche maggiore di amici che l’hanno fatto”. Ma chi ha giocato chi come un imbroglione? È stato il Presidente fantoccio o i burrattinai che lo hanno insediato? Come Douglas Valentine mostra nella sua storia della guerra alla droga, The Strenght of the Pack [La forza del branco], questa guerra infinita è stata una gara fasulla, un braccio di ferro tra due braccia dello stato americano, la DEA e la CIA; con la DEA che ha cercato invano di fare la guerra, mentre la CIA protegge i suoi apparati che commerciano con la droga. Durante i secoli diciannovesimo e ventesimo, le potenze europee (soprattutto l’Inghilterra) e il Giappone usarono il traffico di oppio per indebolire e sottomettere la Cina. Durante il ventunesimo secolo, sembra che l’arma dell’oppio venga usata contro l’Iran, la Russia e le ex repubbliche sovietiche, tutti costretti a fronteggiare tassi vertiginosi di tossicodipendenza e la penetrazione occulta degli Stati Uniti, mentre la guerra afghana alimenta la piaga dell’eroina dell’Asia Centrale. ( Fonte: http://andreacarancini.blogspot.com/)

Gino Strada: «In Afghanistan è vera guerra. Dobbiamo ritirarci subito»

di Rachele Gonnelli tutti gli articoli dell'autore Per Gino Strada il sangue non ha un colore diverso a seconda della bandiera e il dispiacere è lo stesso per i soldati italiani uccisi ieri e per tutte le altre vittime della guerra. Non riesce neppure a capire perchè la Fnsi abbia rinunciato alla manifestazione di sabato per la libertà di informazione. «Con decine di morti ogni giorno... donne, bambini...non so, dev’essere per il clima di guerra. Stiamo vivendo da anni in un clima di guerra senza dircelo, anche se solo ultimamente è passata l’ipocrisia di chiamarla “missione di pace”. Un clima che sta avvelenando la coscienza civile, creando intolleranza, criminalità verso il diverso, lo straniero, l’altro da sè. È anche questo, la guerra».

Il lascito di una casta, lo chiama. «I politici di 30 anni fa non lo avrebbero fatto in spregio della Costituzione ». Il 7 novembre del 2001: «l’entrata in guerra dell’Italia decisa dal 92 percento del Parlamento italiano, il voto più bipartisan della storia della Repubblica», per puro «servilismo verso gli Stati Uniti». «Che cosa ci avevano fatto i talebani? Niente. E poi cosa avevano fatto anche agli americani?». Forse non è troppo semplice, recentemente anche negli Usa gli analisti cominciano a porsi la stessa domanda: perchè siamo lì, cosa ci stiamo a fare?.Non c’erano afghani nel commando dei terroristi delle Torri gemelle. Ma la rappresaglia di Bush scattò lì, con Enduring Freedom, il 7 ottobre. Per colpire le basi di Bin Laden, si disse. Otto anni dopo più del l’80 percento dell’Afghanistan è tornato sotto il controllo dei talebani, di

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Bin Laden non c’è traccia, sono morti 1.403 militari stranieri, spesi centinaia di milioni di euro e il Paese è più povero e più criminale, produce il 90 percento dell’oppio del mondo. Dopo otto anni l’unico centro di rianimazione è quello di Emergency a Kabul, sei letti di terapia intensiva per 25 milioni di persone. Spendiamo 3 milioni di euro al giorno per la guerra. Sai cosa avremmo potuto con questi soldi in Italia per i poveri, gli emarginati, chi ha bisogno. In moneta afghana invece avremmo potuto aprire 600 ospedali e 10 mila scuole ». A Khost gli americani hanno costruito una strada, a Kajaki una diga, la Banca Mondiale lo scorso giugno ha stanziato altri 600 milioni di dollari di aiuti per la popolazione afghana... «Se si devono costruire dighe e ponti si mandino commando di ingegneri, non aerei telecomandati e bombe. Non tremila baionette, o fucili, per sostenere il dittatorello di turno ». Quanto ai soldi della cooperazione internazionale, «noi non abbiamo ricevuto una lira quindi non so - dice il fondatore di Emergency - ma gli afghani che si lamentano, anche ora alle presidenziali, dicono che i soldi sono serviti soprattutto a ingrassare funzionari ministeriali e signorotti della guerra». Lasciareil Paese, allora, andarsene unilateralmente o tutti insieme, e lasciare ai fanatici mujaeddin partita vinta? Non una bella prospettiva anche fosse realizzabile. «Finchè c’è l’occupazione militare ci sarà la guerra. Emergency lavora in Afghanistan da 10 anni, da tempi non sospetti. Abbiamo curato 2 milioni e 200 mila afghani, il 10 percento della popolazione. In pratica una famiglia su due, sono famiglie con centinaia di persone, ha ricevuto nostre cure. Per questo a Laskhargah non è mai stato torto un capello al nostro personale internazionale. Tutti dovrebbero porre fine a questa guerra e lasciare che gli afghani trovino la loro soluzione attraverso il dialogo, che per la verità non si è mai interrotto, tra le varie fazioni di talebani, mujaeddin e questo governo. Qual è l’obbiettivo di questa guerra?». Domanda che torna. «Le ultime due guerre internazionali- è la spiegazione di Strada - sono legate ai giacimenti di gas e petrolio. In Iraq perchè ci sono, l’Afghanistan invece è sulla via di transito dal Kazakistan e dalle altre ex repubbliche sovietiche». Pipeline di sangue. La nuova strategia McChrystal o la conferenza sull’Afghanistan, inutile parlarne con un chirurgo. Ad inquietarlo è che dei 35 feriti civili dell’attentato all’ospedale di Emergency a Kabul ne sono arrivati solo tre. Gli altri sono stati dirottati all’ospedale militare detto “dei 400 letti”, «struttura del tutto inadeguata, ma lì possono essere interrogati senza paroline dolci».

18 settembre 2009