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Kanye West . Emeralds . Daft Punk . John Lennon . Captain Beefheart . Rob Mazurek . Joanna Newsom . Vasco Brondi . EDITORIALE Il 2010 è stato un anno molto interessante dal punto di vista delle uscite discografiche, caratterizzato dal passaggio di alcuni gruppi dall'indie-sconosciuto all'indie-mainstream. Già l'inizio dell'anno si è presentato come antipasto succulento, con due delle uscite più rilevanti, There is love in you di Four Tet e Swim di Caribou. Due dischi differenti, accomunati dall'elettronica e da un interprete in particolare, Four Tet che oltre deliziarci nel suo disco con il suo hebdenism, mette anche lo zampino nel disco dell'ex Manitoba. Sembra di rivivere l'inizio del 2009, quando uscì il pluri-premiato/acclamato/ glorificato/santificato Merriweather Post Pavillion degli Animal Collective, che si presentava, con tutte le ragioni del mondo, come uno dei dischi dell'anno (come confermato in seguito), e trionfò in tutte le classifiche del pianeta, sancendo il trapasso di cui sopra da parte del gruppo americano. ...continua a pagina 11 anno II feedback fanzine di musica indipendente IN QUESTO NUMERO: 1 www.feedbackmagazine.it numero 4 GENNAIO 2O11

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Gennaio 2011

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Kanye West . Emeralds . Daft Punk . John Lennon . Captain Beefheart . Rob Mazurek . Joanna Newsom . Vasco Brondi .

EDITORIALEIl 2010 è stato un anno molto interessante dal punto di vista delle uscite discografiche, caratterizzato dal passaggio di alcuni gruppi dall'indie-sconosciuto all'indie-mainstream.Già l'inizio dell'anno si è presentato come antipasto succulento, con due delle uscite più rilevanti, There is love in you di Four Tet e

Swim di Caribou. Due dischi differenti, accomunati dall'elettronica e da un interprete in particolare, Four Tet che oltre deliziarci nel suo disco con il suo hebdenism, mette anche lo zampino nel disco dell'ex Manitoba. Sembra di rivivere l'inizio del 2009, quando uscì il pluri-premiato/acclamato/

glorificato/santificato Merriweather Post Pavillion degli Animal Collective, che si presentava, con tutte le ragioni del mondo, come uno dei dischi dell'anno (come confermato in seguito), e trionfò in tutte le classifiche del pianeta, sancendo il trapasso di cui sopra da parte del gruppo americano.

...continua a pagina 11

anno II

feedbackfanzine di musica indipendente

IN QUESTO NUMERO:

1

www.feedbackmagazine.it

numero 4GENNAIO 2O11

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Emeralds ARTISTA DEL MESE

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Armato principalmente di chitarra, accompagnato sporadicamente dai suoi compagni smeraldi, il nostro crea, unendoli, i suoni più modaioli degli ultimi anni, droni chitarristici, fughe celesti e improvvise esplosioni noise. Della sua variegatissima discografia faccio menzione dei lavori più interessanti dal punto di vista innovativo, le “Guitar Meditations, psichedelia dronica, meditazioni liquide, che ricordano l’approccio chitarristico del guru Manuel Gottsching, in particolare le sue Inventions for electric guitar.Lo stesso discorso vale per il validissimo A Pocket Full of Rain. Essendo un musicista del sottobosco a tutto tondo, McGuire non puo’ non avere la sua label, la Wagon, sulla quale pubblica i suoi lavori e quelli, tra gli altri, di Lilypad, alter-ego di John Elliott, progetto molto apprezzato, e apprezzabile, anche se non originale, dal suono, tanto per cambiare analogico/dronico, di cui è manifesto la cassetta Source Isolation. McGuire conquista una audience ancora più alta con il suo ultimo disco, Living With Yourself.

suonare musica cosmica sott’acquaGli Emeralds sono stati una figura chiave dell’anno appena concluso 2010, con due dischi (uno a loro nome e uno a nome Mark McGuire, chitarrista della band) che hanno scalato le classifiche di tutto il mondo. La band americana è formata da John Elliott, Mark McGuire e Steve Hauschildt che iniziano a suonare sotto il moniker Fancelions nel 2005. Escono con il loro primo disco a nome Emeralds nel 2007 con Allegory of allergies, un piccolo gioiello proveniente dall’immenso, (ex)sconosciuto sottobosco americano, una musica che aprirà una stagione di revival elettronico. La musica di Elliott e soci prende spunto dall’elettronica anni ‘70 dei Tangerine Dream, i Pink Floyd più psichedelici e la komische musik, il tutto condito da una fedeltà non altissima. Si trasformano in un piccolo caso e iniziano ad avere una cerchia di imitatori. Come ogni band del sottobosco che si rispetti, il trio statunitense iniziano a produrre a dismisura, 15 album tra 2007 e 2010. l’anno più importante per gli Emeralds è il 2008, c’è il salto stilistico che concede visibilità alla band di Cleveland. Tanto per cominciare suonano nel festival più out d’America, il “No Fun Fest” organizzato da sua Maestà Gioventù Sonica Thurston Moore che ha già lanciato Prurient e Kevin Drumm. Oltre alle esibizioni il 2008, ci lascia anche una delle loro opere migliori Solar Bridge per la Hanson Records, due facciate di suoni marini, droni filtrati ed elettronica analogica. Il telaio dell’opera si regge su componenti di matrice ambient, con riferimenti ora agli Stars of the Lid ora ai Main più rarefatti, saldati a fuoco con materia post-doom, che ci riporta dalle parti di Sunn O)) e compagnia. Le trame melodiche che delicatamente si uniscono a questa potente macchina sonora fanno annusare profumi labradfordiani, alle quali si sovrappongono venti psichedelici di krautiana memoria. Questo disco permette alla band di raggiungere le classifiche mondiali spiccando su quella di The Wire. Per i feticisti, il 2008 è anche l’anno dell’uscita di Under Pressure, split con l’ultra-noiser Aaron Dilloway, riservato agli amanti del rischio. Giungiamo al 2009 anno dell’uscita di What Happened per la benemerita etichetta No Fun. Il discorso non è cambiato, le coordinate sono sempre le stesse del disco precedente. Questo non vuol dire che l’album non sia valido; anzi, il suono è nettamente migliore, l’amalgama è più coesa, anche se i picchi di Solar Bridge sono irraggiungibili (per ora). Il disco si snoda tra 5 tracce, tracce che sono un impasto a base di Cluster e di Tangerine Dream, il tutto condito da drone all’ultima moda. Il pezzo migliore è Disappearing Ink, un viaggio di reiterazioni e delay, la più valida del lotto dal punto di vista melodico. Perfetta la stratificazione sonora fatta da questi tre americani con synth analogici e chitarra. Chitarra appunto. Chitarra suonata da Mark McGuire, che ha un progetto solista consolidato, e testimoniato, dalla malattia, a cui accennavamo sopra, di pubblicare materiale su materiale, circa 20 album per lui.

In un periodo di hypna, witch et similia, non poteva mancare un disco dedicato appunto a questo, ai ricordi dell’infanzia. Un lungo viaggio in cui il buon Mark apre lo scrigno dei ricordi e ci risucchia nella sua scatola marrone, facendoci perdere in un delirio psichedelico, pieno di spunti per meditazioni e sogni.Pochi mesi prima esce anche l’ultima opera degli Emeralds, Does It Look Like I’m Here? ed è il disco migliore della loro carriera, il suono si è ripulito, è nitidissmo, grazie a questa pulizia il suono dei synth è travolgente, meraviglioso. Prendiamo ad esempio la traccia più significativa, Genetic, un trip di 12 minuti, in cui gli Emeralds si chiedono se la realtà in cui viviamo è concreta od è solo un sogno ad occhi aperti. Il disco prosegue tra le onde del mare, poi ci innalziamo sempre di più, fino a toccare il cosmo, in un sogno ad occhi aperti. Disco licenziato dalla Editions Mego, che si conferma, ancora, come una delle etichette migliori al mondo, unendo questi suoni sognanto/cosmici di Fennesz, Ktl, Pita e, appunto, Emerlads.

- matmo

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LIVELE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA Firenze, 11/12/2010

LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA ROB MAZUREK & CHAD TAYLOR BEST LIVE 2010: HEALTH

HEALTH Bologna, 24/05/2010

ROB MAZUREK & CHAD TAYLOR - chicago underground duoVenezia, 25/11/2010

BEST LIVE 2010

Il 25 Novembre mi capitò di ricevere, quasi per caso, la notizia che un simpatico duo jazz si sarebbe esibito all’ isola di San Servolo. Uno dei due musicisti era Rob Mazurek. <<Ah, il trombettista! >> Eh, no! Il cornettista! Già, credo sia stato facile confondere il suono della sua cornetta con quello della tromba. Ad occhi chiusi sembrava di ascoltare la voce di un resuscitato Miles Davis dei tempi più maturi e sperimentali. Il concerto ha avuto spunti differenti e apriva parentesi di diverso stampo: dagli echi dei pedali effettati che richiamavano Bitches’ Brew, allo starnazzare di Dizzy Gillespie con ritmi tribali di origine africana raffinatamente adattati da Chad Taylor in chiave minimal, elementare, ed energica. La volontà era, infatti, quella di creare la commistione di più linguaggi percorrendo la savana e le metropolitane; il caldo secco sotto il sole e l’ umido dei vapori notturni della città; la salita di livelli di marimba e di timbales che va a braccetto col sequencer distorto in tempo reale con basetta alla Super Mario Bros. Bassi sintetizzati, atmosfere rarefatte e balli di gruppo rituali in un solo concerto. L’ unica pecca della serata: l’isola di San Servolo è molto fredda: il vento lì soffia più forte della norma, e la nebbia si sposta a banchi. Il traghetto andava aspettato sul pontile all’ aperto. 15 minuti di freddo che mi sono sembrati eterni. Avrei dovuto immaginare, oltre la bruma, Rob Mazurek come nuovo Orfeo che portava verso la meta… Ma questa è già un’ altra storia…

- gorot

Dopo un oretta di macchina in buona compagnia (Matmo, Mr.Potato e special guest Big Muff) arriviamo a Bologna, in via Stalingrado, e il facile parcheggio ci preannuncia non soltanto il nostro largo anticipo ma anche un Locomotiv non proprio stracolmo. Decidiamo subito di entrare per vedere come va la faccenda, nel parco intorno al locale non gira della bella gente, così appena completato l’acquisto della tessera arci (obbligatoria) entriamo e ci accorgiamo della triste realtà: il Locomotiv è vuoto. Non ci interessa molto, riusciamo a strappare una breve intervista al bassista del gruppo e ci accorgiamo dell’arrivo a rilento di un po’ di fan che con l’avvicinarsi dell’inizio del concerto da fuori si spostano dentro il locale. Ovviamente siamo in prima fila e dopo aver insultato, poi applaudito e poi di nuovo insultato il fighissimo e bellissimo duo dei Japandroids ci prepariamo agli HEALTH. Entrano e dopo averci fatto capire, non salutandoci, che non gli interessa minimamente il numero (60?) degli spettatori attaccano la banda, il batterista (grosso come gli altri tre insieme) comincia a picchiare la batteria talmente forte che sembra che le pelli piangano; così ogni canzone scorre sempre più potente tra distorsioni inumane, un flusso di effetti metallici e volumi difficilmente concepibili per altri chitarrisiti. I miei colleghi di concerto sono molto più preparati di me e avevano indossato subito i tappi per le orecchie dei quali io ero invece sprovvisto (grave errore che mi costringerà all’inizio di Death+ ad andare in bagno per appallottolare carta igienica salva timpani). Tutto procede magnificamente, l’acustica del Locomotiv è mondiale e ascoltare questi quattro californiani è mentalmente e fisicamente dispendioso quanto soddisfacente. Ci attende un finale pesante: Heaven, We are Water e Die Slow vengono suonate di fila, senza pause, ho il collo e tutti i muscoli della schiena sbriciolati, mi fanno male gli orecchi e la testa. Sto a pezzi.

-w-

Le Luci della Centrale Elettrica tornano ad illuminare le serate fiorentine e questa volta proprio dal centro del capoluogo toscano, dal Teatro Cinema Odeon. Sarebbe bello poter dire che dopo un anno dall’ultima data fiorentina del Vasco Nazionale non è cambiato nulla, che anzi è maturato e cresciuto e che l’adozione da parte di Canali gli ha insegnato come si sta su un palco. E invece no. Forse un po’ per timidezza, forse per una scarsa e frettolosa preparazione del pre-tour teatrale, forse un po’ schiacciato dal macigno del successo del primo album, Brondi non fa una gran figura. Il cantautore è accompagnato da una violoncellista, un tastierista e da un terzo che alterna alla chitarra elettrica un violino effettato e, meno frequentemente, il basso; sul palco una riproduzione di una palazzina di periferia di quella Ferrara tanto cantata dal nostro, con tanto di luci che si accendono e si spengono nelle stanze. Prima di iniziare (e poi, in seguito, tra una canzone ed l’altra) vengono fatti ascoltare estratti di poesie di Leo Ferrè; peraltro, il nome dell’ultimo album di Brondi nasce proprio da una frase del cantautore e poeta monegasco: “la disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità”. La scaletta parte con Una guerra fredda, seguita poi da Quando tornerai dall’estero, I nostri corpi celesti, fino ad arrivare a Piromani, unico brano del vecchio album ad essere eseguito decentemente (meglio chiudere un orecchio su Per combattere l’acne). Poi L’amore ai tempi dei licenziamenti, Cara Catastrofe, La lotta armata al bar (altro pezzo che non convince), Anidride Carbonica; inspiegabilmente, manca all’appello La gigantesca scritta Coop. Alla fine, 70 minuti scarsi di spettacolo.Uno dei momenti più bassi si raggiunge quando Brondi si misura con una cover di De Gregori, Bene; è l’ennesima prova che non con tutte le canzoni funziona la vascobrondizzazione (già testata su La domenica delle salme di Faber). Meglio lasciar perdere, Vasco. Altre cose non vanno: la voce, per esempio. Certe stecche difficilmente riesci a scordarle, come l’attacco di Per combattere l’acne o in Le petroliere, dove la voce non è la sola ad andare in libertà, ma è accompagnata dalle mani del nostro Vasco che (come ironizza lui stesso, molto intelligentemente), abituate a dover eseguire sempre due accordi, con uno in più si trovano in difficoltà. Altra pecca: la presenza sul palco. Brondi dovrebbe imparare come si sta su un palco, come funzionano il rapporto con il pubblico, gli ingressi, le uscite, i bis, ecc. ecc.; credo esista una sorta di Theatre for Dummies, lo consiglio.Si legge, inoltre, in qualche recensione di questi primi concerti, che Per ora noi la chiameremo felicità dal vivo suona meglio; non credo, mi sa tanto di salviamo il salvabile. Diciamo che rispetto ai pezzi del primo album, quelli del nuovo sono più vivi, più freschi, ma non c’è una grande differenza con la versione registrata. Brondi ha ancora diverse cose da imparare o forse, ripensando ai concerti del vecchio tour, solo da ricordare; chissa se una spalla come Canali non sia quello che serve al nostro giovane ferrarese per rinfrescarsi la memoria o per imparare come si diventa cantautori veri.

- fragor

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Electronic

MARK McGUIRE Living With Yourself[Editions Mego, 2010]

Hip Hop/Pop Citazionista

KANYE WESTMy Beautiful Dark Twisted Fantasy[Def Jam / Roc-A-Fella, 2010]

DISCO DEL MESE

Ebbene si. Vi sembrerà strano che “questo disco” di “codesto personaggio” appaia qui come disco del mese, ma non è così. Non è strano semplicemente perchè merita. Può non piacere (ci mancherebbe), ma evitiamo lo scetticismo. Difficile eh? Provateci e magari “questo disco” riuscirà a stupirvi.Prima di tutto è necessario inquadrare il personaggio: senza citare dischi è necessario sapere che l’ossessione per Kanye è il successo. Niente più, niente meno. A lui interessa diventare una superstar ancora più grande dichiarandolo ad ogni intervista. Ciò vi schifa? Pensate che questo pregiudichi la qualità di un album? Anche David Bowie la pensava pressappoco allo stesso modo, eppure ha fatto dischi immensi. Tra cui un certo Ziggy Stardust che parla proprio della parabola (fama e declino) del successo.“I’m livin’ in the 21st century / doin’ something mean to it / do it better than anybody you ever seen do it / screams from the haters, got a nice ring to it / I guess every superhero need his theme music”.Altra cosa da sapere: Kanye non bada a spese. Produzione curatissima, patinata, stellare.Gli ospiti del disco sono tantissimi, dal compagno Jay Z a Kid Cudi, passando per John Legend, Rihanna, Rick Ross, Pusha T, Raekwon e finendo con chi non ti aspetteresti mai: Bon Iver. Oltre a impercettibili cameo di Elton John e Alicia Keys.Non pago, Kanye per promuovere il disco prima della sua uscita si inventa regista e crea il mediometraggio “Runaway” (35 minuti precisi) chiedendo aiuto come art director pientepocodimenoche a Vanessa Beecroft, la più quotata (e patinata pure lei) artista italiana nel mondo. Il “video” è tremendamente kitch, con Kanye che fa da cicerone ad una donna-uccello-angelo-alieno caduta come un meteorite dal cielo. Un vero e proprio tripudio pop massimalista. Assolutamente in linea con il disco: la sua partenza infatti è una discesa in folle con i freni rotti. Dark Fantasy è una porta d’ingresso con un campionamento di una vecchia traccia di Mike Oldfield mentre Gorgeous ti ammicca stregandoti con il suo riff di chitarra. Power, scelto come primo singolo e dal video visionario e kitchissimo alla David LaChapelle, è una bomba: campiona prima i cori di afromerica e poi 21st century schizoid man dei King Crimson, il tutto su una base tribal africana e testo ironico ma accusatorio nei confronti della società americana.Si continua con All of the Lights, preceduto da un intermezzo divertissement. Pezzo perfetto per Mtv grazie alla parata paramilitare di personaggi famosi (Rihanna, Fergie, Alicia Keys) che costruiscono vocalizzi r’n’b sotto un’orchestrato killer. Assassina anche la successiva Monster, incessante e violento rap “nigga” uptempo con sovrapposizioni vocali di Jay-Z e Rick Ross, urla infuocate di Nicki Minaj, vero e proprio manuale di istrionismo applicato all’hip-hop, e gli improvvisi rallentamenti al riverbero autotune di Bon Iver. Musicalmente è un delirio jungle tra ruggiti di leoni e battiti dub. Geniale. Runaway inizia con un piano ossessivo che apre il sipario a ben 9 minuti di canzone, di cui gli ultimi 3 sono costituiti da un ‘assolo’ al vocoder. Troppi, infatti un difetto del disco è proprio nelle code di alcune tracce (stesso discorso di Blame Game, forte del campionamento di Avril 14 di Aphex Twin), troppo lunghe e annacquate che nell’insieme riducono l’impatto delle stesse tracce. Seguono le conclusive Lost in the World, costruita sull’affascinante cantato autotune a cappella di Woods di Bon Iver con l’aggiunta di un intrigante base ritmica, e Who will Survive in America, dove Kanye rende tributo al grande Gil Scott Heron. Interessante e divertente l’intervista a Bon Iver: “I was literally in the back room rolling a joint with Rick Ross talking about what to do on the next part of a song. It was astonishing.”Kanye West nasce produttore e si sente, la cura per i suoni e’ maniacale e strabordante, ma riesce a confezionare un disco ispirato, intelligente, sfacciato ma con stile e con criterio. L’essenza stessa dell’album, il suo bello, sta proprio nell’essere esagerato, narciso e barocco, proiezione del personaggio Kanye, volto a fare di se stesso il capolavoro vivente.“All of the lights / cop lights, flash lights, spot lights, strobe lights, street lightsFast life, drug life / Thug life, rock life / Every night / All of the Lights.

- mr. potato

La recensione di Mark McGuire la fai te! La mia risposta è stata: Mah, vabbè. E quindi ho preso questa piccola responsabilità. Di responsabilità si tratta quando hai effettivamente a che fare con ricordi altrui. Dover portare una lettera di avi a pronipoti, aprire un vecchio album di famiglia. Sono cose con le quali è dura scherzare. Di solito perché troppo ignote, di solito perché irraggiungibili, inarrivabili e incomprensibili. Questo è il grembo della bellezza in fasce del disco di Mark McGuire intitolato Living with yourself. La parte solista dello splendido smeraldo (chitarrista degli Emeralds) La copertina del disco è proprio un invito, e se non un invito un obbligo nei propri confronti, e tra poco capirete perché dico questo. Intanto il titolo della prima traccia: The Vast Structure of Recollection. Un ripercorrere i propri passi facendo un collage (non)cronologico delle proprie vicende in chiave acustica, avvolta da una membrana di epifanie. Perché abbia un senso la propria vita si deve cercare, non la sorgente, ma l’ignoto. E infatti la seconda traccia è un saluto al vicinato della provincia natale dell’ artista (Aronud the old neighborhood). E una volta affacciato sull’ asfalto della propria provincia cambiare sguardo per guardare le nuvole che passano (inutile non sentire anche la nostalgia di Le Nuvole di De André. L’ italianità dell’ ascoltatore è plausibile, poiché il disco riporta alla natura di ognuno e alle proprie vicissitudini) con una chitarra dotata di ping pong delay per fare rotolare il cielo. Il rotolarsi che accompagna anche quello dei pensieri (chitarra fuzz a frequenze alte e secche). È forse lì che si inizia a riflettere al fatto che ognuno ha sempre a che fare con qualcun’ altro: sé stesso (Two Different People), e sarà forse il caso di vagare in altri luoghi estranei (Moving Apart : traccia di sottofondi di delicati feedback conditi da ritmati phaser ), i più reconditi: i luoghi familiari, quelli a noi” così vicini e così lontani” (il viaggio nell’ uomo levistraussian ). Cambia la sonorità: livello acustico, un suono che si poggia sulla spalla consolante e auscultante. E poi la verità di ritrovarci tutti fratelli (Brothers, con wall of sound scanditi da giri di batteria in old style grunge garage). L’ incanto di Combrais, le nuove madeleines, il tempo perduto e quello che si ritrova. Ed ecco la responsabilità di ogni uomo: portare un ricordo e percorrere i luoghi della persona più lontana a sé: noi stessi.

- gorot

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RECENSIONI

Songwriter

JOANNA NEWSOM Have One On Me[Drag City, 2010]

Tutto ebbe inizio da un concorso imbastito da Dan Snaith, ovvero Caribou, dopo l’uscita del suo disco Swim: chi si aggiudicava il titolo per il miglior remix della traccia Sun lo avrebbe visto pubblicato nella compilation di remixes dell’album. E così la copertina geometricamente tonda e psichedelica di Swim si frammenta in pezzetti caleidoscopici tanti quanti gli artisti che vengono di volta in volta coinvolti nel progetto. Ed è qui il punto forte della compila, la qualità (ed anche saggezza di scelta) dei nomi. Dai Junior Boys a Ikonika, passando per Fuck Buttons e James Holden. E ancora Gavin Russom, Nite Jewel e Dj Koze. Pure la qualità dei lavori singoli è alta, le tracce dell’originale Swim fanno la stessa fine della copertina, scomposte e filtrate attraverso punti di vista diversi. In alcune di esse il risultato è sorprendente. Come nel caso di Kaili (Fuck Buttons Remix): ok, il gruppo è una garanzia ormai e pure senza tastierine effettate è veramente fantastico perdersi tra le stratificazioni percussive. E della traccia originale rimane veramente poco, se non la sua stessa essenza, tribale e danzereccia. Oppure veder affogare Odessa (Junior Boys Remix) in un’atmosfera dalle spiccate sonorità eighties ad opera del duo canadese, tra l’altro stretti amici di Snaith e collaboratori nel suo album. Gold Panda invece contamina Jamelia con beat hip hop e melodie orientaleggianti in linea con il suo lp Lucky Shiner, sempre del 2010. Altro momento alto si ha con Leave House (Ikonika Remix), dove il pupillo tutto al femminile di casa Hyperdub estremizza e riassume il ritmo e la melodia sovraccaricando il ritornello. Passo falso che non ti aspetti: Bowls (Holden Remix). Il Genietto fondatore della Border Community annoia parecchio. 10 minuti di traccia con inizio soporifero di campanellini al ralenty e un sostegno di elettronica un po’ scontata. Appare oltremodo pretenzioso contando che non assomiglia minimamente alla traccia di partenza (e a nessuna traccia del disco). Sorpresa del disco? Sicuramente la vincitrice del concorso, tale Altrice da Tucson, Arizona, che letteralmente fa tramontare la luminosa Sun. Bassi in tumulto, atmosfera dark e di tanto in tanto il mantra vocale che affiora tra la nebbia.Non c’è di che gioire di fronte a questa compila, a maggior ragione per la sua intera gratuità: è possibile infatti ascoltare tutte le tracce sul profilo Soundcloud di Caribou e per chi acquista Swim è in omaggio la versione fisica in cartoncino.

7- mr. potato

Ecstatic Electronic

FOUR TET There Is Love In You[Domino, 2010]

Arrivava nel mio lettore esattamente un anno fa il quinto lavoro in studio di Four Tet (scherzo del destino, l’uscita era prevista a dicembre 2009, poi ritardata di un mese)

è, inutile girarci intorno, IL disco del 2010: raccoglie in sè il +10 (l’ultimo decennio) e il -10 (i novanta) del 2000 della musica elettronica.Riguardo all’ultimo decennio Kieran Hebden aka Four Tet è sicuramente uno dei maggiori protagonisti. Dopo aver acquistato notorietà grazie a remix di famosi artisti (la prestigiosa Warp gli propose un remix di sua maestà Aphex Twin per la compilation dell’anniversario) ed un primo timido album Dialogue, la qualità dei suoi lavori sale esponenzialmente prima con Pause nel 2001 e poi con il capolavoro Rounds del 2003, dove il suo personalissimo suono viene a compimento e fa immancabilmente scuola (la Border Community di Holden gli deve davvero tanto). Segue la consacrazione con il tour europeo dei Radiohead dello stesso anno e con il quarto album Everything Ecstatic nel 2005. Nei cinque anni successivi che porteranno appunto a There is Love in You, collaborazioni importanti che maturano in primis lo stesso Four Tet. Essenzialmente due, una con il batterista jazz Steve Reid, collaborazione duratura e intensa che culmina con il bellissimo album NYC. L’altra con il genio del dubstep Burial che porta ad un altro meraviglioso album: Moth/Wolf Club. Nel mentre un EP, Ringer, dove la club culture viene assimilata dal nostro e ne diventa un manifesto.Le sonorità novanta (il -10 a cui accennavo prima) sono sempre state tenute in considerazione, mai evitate. Mi riferisco alla techno ambient di casa Orbital e all’idm Warp, come anche al post rock (Hebden militava prima della carriera “fourtet” nel gruppo Fridge) e appunto al jazz (da sempre grande estimatore del free jazz di Sun Ra).Tutti questi precedenti influssi sonori diventano così un bagaglio importante per la realizzazione dell’album. L’essere stato distolto da altri progetti ha sì allontanato l’idea di realizzare il quinto album rispettando le precedenti cadenze ma ha anche avuto il merito di aver allargato i suoi orizzonti sonori. Four Tet con quest’album ci dimostra la sua bravura nel fare sintesi, una sintesi intelligente però che prevede un percorso e un arrivare a qualcos’altro.Bellissimi suoni e bellissime tracce escono da questo disco. I momenti più alti: Angel Echoes, il nome spiega tutto, ovvero Hebden che abbraccia i maestri Orbital (Halcyon +On +On) e Circling, ovvero “nel paradiso gli arpeggiatori dei synth suonano così”, liricità in crescendo (respiro al secondo minuto e quaranta secondi e poi di nuovo immersione). Sing è il momento più pop del disco, vero cavallo di battaglia nelle esibizioni live con il suo ritmo incalzante e trascinante. Da un locale londinese dove Kieran è stato per un periodo resident dj prende il nome la traccia Plastic People (Zappa per fortuna non c’entra niente), caratterizzata da un’influenza 2-step tanto cara a lui quanto all’amico Burial.E poi l’episodio finale di She Just Likes to Fight, tentativo riuscitissimo di coniugare

BEST OF 2010

BEST OF 2010

il passato post rock con beat e ritmi propri dell’elettronica. Ogni cosa a suo tempo. Pura lucidità. Pura estasi.

- mr. potato

ma nonostante la data di pubblicazione ad inizio 2010 per chi scrive There is Love in You

Electronic

VARIOUS ARTISTS Swim Remixes[City Slang, 2010]

Nelle recensioni di questo mese troverete sopratutto dischi usciti nel 2010 che abbiamo voluto recensire anche dopo mesi la loro uscita, perchè veramente degni di nota o perchè precedenti alla fondazione della fanzina.

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quale sarebbe stato il disco dell’anno. E così è stato: apprezzato dalla critica e dal pubblico Have One On Me mantiene l’inconfondibile stile della Newsom negli arpeggi leggeri e nelle atmosfere fiabesche ma si distacca dai precedenti lavori grazie al timbro vocale meno childish e più elegante e agli arrangiamenti originali ed elaborati di Ray Franscesconi. Il disco è formato da tre cd di sei canzoni l’uno per un totale di diciotto pezzi, una mole non indifferente di lavoro che però non stanca all’ascolto grazie all’abbandono dei dolci racconti accompagnati dall’arpa e sviolinate romantiche (tipici di Ys), che si prolungavano per svariati minuti e alla riadozione dello schema di canzone di The Milk-Eyed Mender, più leggero e accessibile. La “folkompositrice” (citazione) mischia il classico al moderno creando delle melodie con forti rimandi alla tradizione ma allo stesso tempo innovative, in un irresistibile connubio al quale è sempre un piacere cedere. Con l’ultimo album la sua crescita è stata esponenziale, la voce si è limata ed ha sperimentato nuovi arrangiamenti e suoni talora esotici (Kingfisher) talora alteri e malinconici (In California) diventando un’artista a tutto tondo, unica e inconfondibile. Tra le tracce degne di nota (anche se quelle che non lo sono si contano sulle dita di una mano) voglio citare Good Intentions Paving Company, una frizzante ballata per pianoforte con una vena country e Easy, saggio di eleganza e semplicità che non può che conquistare l’ascoltatore. Ma sarebbe un crimine non nominare Go Long, coinvolgente e contemplativa e Ribbon Bows, sofferta e disarmante. Un grande disco insomma, che eleva l’artista nell’Olimpo delle compositrici femmili, ponendola alla pari di artiste del calibro di Joni Mitchell.

- zuma

Per chi ha potuto godere delle due ore di fulgida ispirazione e alto cantautorato che offre l’ultimo album della ormai pluriacclamata “fata” californiana, era chiaro già a Febbraio

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Catchy-Dream-Pop

WILD NOTHING Golden Haze - EP[Captured Tracks, 2010]

Antony Hegarthy si affaccia al nuovo decennio cambiato e rasserenato: alla disperata voglia di liberazione da un corpo sentito come estraneo si contrappone una maggiore attitudine al cantautorato e al tempo stesso una nuova pacatezza. Spesso, ora, Antony trattiene dentro di sé le parole, esita prima di proferirle, si comporta insomma con una rilassatezza propria, più che dei suoi dischi, di certi crooner americani. Ci sono meno voli vocali, viene lasciato più spazio all'aspetto puramente strumentale, e in effetti gli arrangiamenti ne valgono la pena (I'm in love, danza orientale leggiadramente accompagnata da organo e flauto, o Salt Silver Oxygen). Sia chiaro, infatti, che sebbene la timbrica di Antony sia meno in mostra che nei dischi precdenti, la classe nel cambiare di stile e di mood è rimasta la solita (e ci mancherebbe altro!). Così egli è a volte predicatore, a volte dolce narratore, a volte sognatore perso nella fissità di un momento irraggiungibile (come per esempio in The spirit Was Gone). In Swanlights gioca addirittura con strumenti che non siamo avvezzi a sentirgli usare, vedi alla voce droni e sound manipulation: il risultato è probabilmente uno dei suoi pezzi migliori, che si presenta come un placido e dimesso racconto di un sogno passato a danzare con cigni fatati su scintillanti rive ed è arricchito da queste “nuove” tecniche di una dolcezza tutta particolare. La rilassatezza di questo lavoro lascia però intravedere l'unica vera ombra del disco, e cioè una certa leggerezza di fondo. Swanlights ci intrattiene piacevolmente ma non ci emoziona mai fino in fondo; anche le poche aperture più melodrammatiche (termine usato in un'accezione quantomai positiva) brillano di una luce più accogliente e meno intensa (si vedano Thank You For Your Love, ma anche e soprattutto le più minimali The Great White Ocean e Ghost). Il tangibile dolore fisico che era riscontrabile nel suo personale capolavoro I Am a Bird Now è qui impalpabile e passeggero: ci si commuove, insomma, (se ci si commuove), più per certi passaggi di piano che non per i tumulti interiori di Antony, e il picco di intensità si ha infatti nella minimalista Fletta, dove il ruolo di vocalist principale è consegnato nelle mani della special guest Bjork. In conclusione non possiamo che essere felici della ritrovata tranquillità di Hegarthy, ma ci mancano i tempi in cui sperava con tutto se stesso di poter volare fuori dal corpo nel quale ora si trova così a suo agio. So long, Bird Girl.

- samgah

Jack Tatum -aka Wild Nothing- è un giovanotto che con tutta probabilità è stato ibernato intorno all’85 e scongelato un paio d’anni fa. Gemini era stato, sei mesi fa, il suo debutto, uno di quei buoni debutti del 2010, di quei buoni dischi che a suon di dream

Beh, Tatum è tornato, prima che mai. Lo fa con Golden Haze, un Ep che riprende le fila del lavoro precedente, ma che propone ben poco rispetto alle aspettative e che non regala neanche venti minuti di musica: ciò che ha da dire il nostro giovane di belle speranze (e credetemi, a questo giro non è poi molto) sta tutto in sei pezzi. Il fade in iniziale ci catapulta immediatamente nel pop tanto caro alla band, di quello che si ciba di orecchiabilissimi riff di chitarra e synth delayati, di beat tipicamente anni ottanta, di voci processate con riverberi su riverberi. Con la title-track, in effetti, Wild Nothing azzecca una melodia degna dei migliori episodi di Gemini (come Summer Holiday o Chinatown) riuscendo a mettere bene in fila ritmo, strofa e ritornello, ma proseguendo nell’ascolto ci si imbatte in brani totalmente inconcludenti. E’ il caso di Quiet Hours, che di buono non ha nemmeno il riff di chitarra (che peraltro si ripete ininterrotto per tutta la canzone) o di Take Me In, caratterizzato da una melodia claudicante che, evidentemente, non era riuscita a ritagliarsi uno spazio nel disco di agosto. Neanche la sospensione zuccherina di Your Rabbit Feet risulta convincente, sempre così aggrappata ad una struttura che non cambia mai e che difficilmente riesce a fare a meno dei gorgoglii simmetrici delle linee di basso e di chitarra; come del resto poco convince Asleep, vero scarto di registrazione -si percepisce chiaramente, anche dall’inaccuratezza nel missaggio in studio? garage?- utilizzato un po’ per far numero. Tutto questo walzer di echi fumosi riesce comunque a trovare con Vultures Like Lovers un dignitoso finale: gli strumenti sembrano trovare per la prima volta la giusta armonia e le voci che si allungano (qui più che mai) riescono bene ad infrangersi nelle iterazioni di chitarra, quasi a rievocare i cori di Avey Tare e Panda Bear. Eccezion fatta per la partenza e l’arrivo, quindi, non un grande Ep, quello che mi ritrovo tra le mani. I fan più sfegatati o gli amanti del genere si limitino all’ascolto del primo e dell’ultimo pezzo, gli altri passino oltre. Ah, dimenticavo, si consiglia un uso molto moderato di Bitchfork.

4/5 -visjo

Chamber Pop

ANTONY & THE JOHNSONS

Swanlights [Secretly Canadian, 2010]

pop ci avevano piacevolmente riportati indietro di qualche decennio, quando sui palchi si scatenavano Smiths, New Order e Cocteau Twins.

La 55° uscita della Fabric Records porta il nome di Sam Shackleton, il dj ripercorre la sua performance nello storico locale londinese (Fabric) avvenuta non

Tribal-House/Dubstep

SHACKLETON Fabric 55[Fabric, 2010]

molto tempo fa elevandola ad un livello avanzato grazie a un grande lavoro di mixxaggio e all’aggiunta di nuovo materiale creando un prodotto molto simile ad un album ma che assomiglia molto più ad un viaggio sonoro. Sicuramente sarà un lavoro da ricordare per molto tempo, non perchè le uscite precedenti fossero scadenti ma perchè mai nessuno come lui era riuscito a reinterpretare la propria musica proiettandola in una nuova concezione che lo fa apparire come un santone ad un rito vodoo pronto a rievocare i fantasmi e le divinità che hanno reso grande la Dubstep. Attaverso ritmi tribali, afro e echi acid house Shackleton combina le paure e le tensioni dell’industrial con le preghiere deliranti del miglior David Tibet (Current 93) creando dei veri e propri spasmi travestiti da canzoni che prima di farti ballare ti angosciano, l’impressione è quella di aspettare le classiche esplosioni da “dj moment” e accorgersi di come esse siano controllate sapientemente da rilasci di tensioni classici dei migliori pezzi ambient. Momenti di silenzio colmati da preghiere sciamane, che a tutto fanno pensare tranne che a un dj set, urli animaleschi (molto collective), mitragliate di tamburi, sonagli e bacchette trasformano il nostro viaggio sonoro introspettivo in 75 minuti di pura WorldMusic paralizzante e piena di delirio che ti fanno rimpiangere di essere entrato nel Fabric di Shackleton ma che ti impediscono di uscirne. Il viaggio musicale di Sam Shackleton ripercorre la sua performance allo storico club londinese Fabric arricchendola di nuovo materiale e mixandola un vero e proprio viaggio di un’ora e un quarto tra dubstep minimal techno e tribal.

- wWave

ARCADE FIRE The Suburbs[Merge, 2010]

Si può parlare di un concept album – e cioè di un disco a tema – senza dire una parola riguardo alle idee che lo percorrono? Secondo gran parte dei recensori italici sì.Secondo me no e allora eccovi la nuda verità: The Suburbs è una raccolta di belle canzoni ma non si può cogliere che una minima parte della sua grandezza se non si presta attenzione ai testi. Questo disco non parla di periferie ma invece di come una colata di cemento appena agghindata da prefabbricati color pastello e siepi, staccionate e centri commerciali, abbia preso pieno possesso delle nostre vite. Parla di come il nostro immaginario sia stato colonizzato dalle automobili e dalle luci dello sprawl, di una città metafisica che muta sotto i nostri piedi senza che manco ci accorgiamo. E allo stesso tempo parla dei nostri tentativi di dare un senso ai luoghi nei quali viviamo, aggrappati a ricordi standardizzati e sdraiati su confini immaginari. Gli Arcade Fire suonano la città infinita ed essa si impadronisce dei loro strumenti e delle loro voci. Esiste una via di fuga? Il suggerimento fa a pugni con i canoni del rock: impariamo ad aspettare, godiamo dell’ozio, spegniamo le luci.

8- bobi raspati

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House/Techno

DAFT PUNK Homework[Virgin, 1997]

DAFT PUNKDaft Punk è il nome del duo formato dai parigini Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter, attivi dal 1993 e fin dall’inizio protagonisti della scena elettronica internazionale.Il nome nasce da un recensione da parte della rivista Melody Maker in cui il gruppo in cui militavano i due francesi veniva definito “a bunch of daft punk”, ossia un gruppetto di stupidi straccioni.Il singolo di debutto The New Wave esce nel 1994 per la Soma Records, anche se solo l’anno successivo di guadagnano un po’ di visibilità con il secondo singolo, Da Funk. Nel 1997 esce il primo album Homework (nel quale troviamo la famosa Around The World), un mix di techno, house, acid house e electro che ben presto venne riconosciuto come uno dei lavori più importanti della musica dance degli anni novanta. Nel 2001 esce Discovery, in cui sicuramente spiccano One More Time e Harder, better, faster, stronger, con il quale il duo si recupera sonorità legate all’esperienza synthpop anni 80. Escono poi registrazioni di live (Alive 1997 e Alive 2007), una raccolta (Musique Vol. 1 1993-2005), un nuovo album (Human After All nel 2005) e due album di remix (Daft Club nel 2003 e Human After All: Remixes nel 2006).Recentemente è uscito Tron Legacy, ultimo lavoro del duo come colonna sonora dell’omonimo film di Joseph Kosinski.

Experimental Rock, Blues Rock

CAPTAIN BEEFHEART & HIS MAGIC BAND Save as Milk[Buddah, 1967]

Pop Rock

JOHN LENNON John Lennon/Plastic Ono Band[Apple/EMI, 1970]

ROVISTANDO IN SOFFITTA

1967: il californiano Don Van Vliet, in arte Captain Beefheart, è già sinonimo di devianza. Il suo esordio, dodici saette fuori dai recinti del Rock di consumo, è una polveriera di sarcasmo e rivoluzione, la sua Magic Band, ruotando intorno al perno Blues, ha mille occasioni per divagare a 360 gradi. Safe as milk è la norma destrutturata, decontestualizzata, riproposta con voce gracchiante e cavernosa. Comincia già a insinuarsi in questi brani quella visione musicale efferata e visionaria, strettamente legata alle influenza pittoriche del capitano (dadaismo, espressionismo astratto), che farà la fortuna del capolavoro della trota. Non ci si lasci ingannare: benchè il minutaggio dei brani superi raramente i tre minuti, l’impeto esuberante del leader del gruppo, la cui voce schizofrenica evolve di pari passo con gli sconnessi tappeti sonori, è più che mai evidente in tutti gli episodi, i quali denotano, tra le altre cose, l’ottimo talento compostivo di Vliet e soci (compreso un giovanissimo Ry Cooder affaccendato alla chitarra). Ad aprire le danze il blues standard Sure ‘Nuff ‘n Yes I Do, che va però, prevedibilmente, oltre le semplici dodici battute tipiche del genere, lasciando spazio alla penetrante voce di Beefheart che si rifà, spesso riproducendone perfettamente il timbro, a quella graffiante di Howlin Wolf. Seguono boogie trascinanti (Zig Zag Wanderer), filastrocche folk-country (Yellow Brick Road) e persino ballate “radiofoniche” (I’m Glad) e psichedeliche (Autumn’s Child). Tra tante gemme brillano almeno due capolavori: Abba Zaba, governata da una demenzialità surreale, che fonde ritmiche africane e riff ossessivi, ed Electricity, costruita su travolgenti pattern ritmici in continuo movimento, vocalizzi psicopatici e chitarre stridenti. Un caos misurato che si trasformerà in vera e propria guerriglia sonora.

-zorba

hanno tirato fuori dagli archivi le celebri riprese di lui e Yoko. Per l’intera giornata Imagine, invece di essere usata come sottofondo per servizi su feroci atti di razzismo, ha accompagnato epitaffi televisivi strappalacrime. Su Youtube al numero delle visualizzazioni dei video che lo riguardavano si sono aggiunte parecchie cifre. Stupitevi, è persino tornato di moda il bianco! Se siete un fan sfegatato del quintetto di Liverpool e conservate intatto il vostro odio per Yoko Ono, avrete avuto un bel da fare a evitare di incappare in una sua intervista. Comunque, lei ormai è un’attempata signora, non vi sembra il caso di riporre l’ascia ?Volendo ripescare Lennon dalla soffitta abbiamo rovistato fino a trovare il primo dei suoi dischi da solista. C’è l’adolescente che elabora l’improvvisa perdita in Mother, il Lennon politico che inneggia al Working Class Hero o quello di God che si scaglia contro qualsiasi religione, Beatles compresi, proclamando di credere solo in se stesso. Lennon scrive le canzoni dopo un periodo di terapia, introspezione che, tenuto per mano dall’amata compagna, lo porta ad una rinascita individuale. The primal scream, (titolo di un saggio dello psichiatra che aveva in cura l’artista) l’urlo primordiale che risveglia e lascia spazio a una nuova lucidità: “the dream is over”canta in God. L’opera non è monumentale, appena 40 minuti di spontaneità. E’ comunque doveroso ammettere che il personaggio, l’icona, ha in questo caso totalmente superato il musicista e che nessuno oggi può permettersi di indossare occhiali tondi risultando credibile.

- comyn

L’8 Dicembre ricorrevano 30 anni dall’uccisione di John Lennon. Pensavate che ce ne fossimo dimenticati? Impossibile. Tutti i telegiornali

Immaginatevi di essere nel 1993, vacanza parigina con tutta la famiglia, Eurodisney. Cala la sera e la tua famiglia è stanca, il tuo fratellino piange, tu hai sedici anni e sei fresco come una rosa, non vedi l’ora di uscire da solo per visitare il parco di notte, fumarti la sigaretta che hai rubato al babbo e magari avere un rendez-vous con qualche ragazza francese ma dopo pochi passi ti ritrovi nel bel mezzo di un rave(?). Noti che due ragazzi consegnano una musicassetta ad un tizio ma non gli presti molta attenzione. Sbagli, perchè quei due ragazzi parigini (Thomas Bangalter e Guy Manuel De Homem-Christo) diventeranno i Daft Punk e nel giro di tre anni daranno vita ad un disco tra i più influenti per la musica elettronica. Homework è un vero e proprio “compito a casa”, una rielaborazione innovativa dei ritmi e delle sonorità (dance, disco 70s, funky, techno) che avevano colpito i due giovani dj negli anni passati e che gli avevano offerto il materiale per partorire una differente concezione di musica elettronica che contiene sia la ripetitività martellante dei rave sia gli accenti raffinati della house. Il disco è una raccolta di piccoli affreschi elettronici a sé stanti che contribuiscono a trasformarlo in una perfetta macchina da festa; molte le idee rivoluzionarie alla base del lavoro ad esempio le voci effettate che fungono da beat, ripetute all’inverosimile (Daftendirekt), oppure l’utilizzo di suoni martellanti e fastidiosi che si rivelano poi squisitamente azzeccati nel bel mezzo della traccia (Rollin’ and Scratchin’) o il continuo crescendo di suoni già sentiti ma riletti in una nuova chiave ritmica e musicale (Alive). Nonostante tutti i pezzi siano estremamente divertenti e ben costruiti, frutto anche dell’ ascolto da parte dei due parigini di tutti i maestri dell’elettronica contemporanea e non(Teachers), due furono i grandi successi estratti dall’album: Da Funk e Around the world con il secondo a dominare la pista delle discoteche per molti anni anche grazie ad un videoclip superbo e ai vari remix che anch’oggi si susseguono; tutto ciò non rende comunque onore ad un disco fondamentale che viene prima dei robot, svolte synth-pop, concerti mondiali e filmettini pieni di neon e sta alla base del suono dei Daft Punk. In molti lo considerano troppo lungo, 73 minuti non sono pochi, ripetitivo ed estremamente noioso.... Sciocchi! Dite semplicemente che non sapete ballare.

-w-

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CAPTAIN BEEFHEART We Love You Big Dummy

DEEP INSIDE

Ci sono (pochi) artisti, in ogni qualsivoglia territorio artistico, per cui si può giustamente parlare di perfezione stilistica. Può sembrare buffo, bizzarro e anche un po’ una presa in giro che si parli di Captain Beefheart, al secolo Donald Van Vliet, come di uno di questi: chi più di lui, infatti, (rimanendo nel campo della popular music), e prima di lui, ha incarnato lo spirito dell’anarchia e della più completa sregolatezza in musica? Tuttavia, se si guarda all’opera di Van Vliet con lo stesso spirito con cui ci si accosta ad un capolavoro di un qualsiasi pittore astratto del ‘900 (che certamente ogni critico d’arte che si rispetti sarebbe d’accordo nel definire esempio di perfezione stilistica), piuttosto che con i criteri con cui siamo soliti giudicare e quindi apprezzare/disprezzare la musica, appare incontestabile come questo mattoide californiano non solo ricopre una fondamentale importanza storica, ma abbia anche dato alla luce uno dei maggiori esempi di musica popular intesa come Arte. Diventa chiaro, insomma, che nella sua musica allo stesso tempo nulla è armonia e tutto è armonia. Specialmente all’indomani o quasi della sua morte (la nostra bestia preferita è morta il 17 Dicembre, affetta da sclerosi multipla), non è facile descrivere o parlare approfonditamente di una figura così ingombrante: ci sembrerebbe sempre di dire troppo poco, di venire schiacciati dall’immensa mole del testamento artistico che il Capitano ci ha lasciato. Tuttavia, prima di giungere a quella che sarà la consacrazione assoluta del suo talento eversivo, proviamo a ripercorrere gli inizi della sua carriera.Beefheart nasce a Lancaster, California, nel 1941, e stringe fin da ragazzo una tumultuosa amicizia con Frank Zappa (gli tornerà utile quando Zappa si offrirà di registrargli Trout Mask Replica). Fatte le prime esperienze musicali e datosi il nome di Captain Beefheart, si unisce nel ‘65 alla Magic Band, dove subito assume il ruolo di “dittatore” più che di leader: la sua tirannia nei confronti degli altri membri della band è infatti rimasta proverbiale e forse un po’ del frutto del suo lavoro deriva anche da questa continua spinta al miglioramento che il Capitano fornisce all’ensemble.Suonando un blues rock sghembo e acidissimo, ma tutto sommato ancora orecchiabile, la Magic Band giunge alla pubblicazione di Safe As Milk nel ‘67. Il primo risultato partorito dalla mente di Van Vliet lascia intravedere i germi della rivoluzione che probabilmente già medita di apportare alla forma canzone blues, e, mediando tra questi scampoli di pura anarchia “bestiale” vocale e strumentale e una più tradizionale ma schizzatissima ispirazione melodica, risulta già un primo capolavoro. Quasi per prendere tempo, la Magic Band registra poi, oltretutto in malo modo, alcuni pezzi già da tempo in scaletta per le esibizioni dal vivo e pubblica Strictly Personal(1968): questo, pur non replicando la grandezza del predecessore, consegna agli ascoltatori diverse altre perle di freak-blues (Kandy Korn, Trust Us, Safe As Milk)Molto è stato poi detto sula tormentata genesi di Trout Mask Replica(1969): leggenda vuole che i pezzi siano stati composti da Beefheart in due ore sul pianoforte (che peraltro non sapeva suonare), trascritti dal fedele John “Drumbo” French, batterista, e registrati al termine di otto faticosi mesi trascorsi in una casa isolata presa in affitto dalla band (provando quattordici ore al giorno).Molto è stato detto, ma tutto sembra credibile quando le nostre orecchie percepiscono il risultato di quel lavoro. Correggendomi, dovrei forse dire che tutto sembra credibile dopo la seconda, o la terza volta. Sì, perchè il primo impatto con l’opera è psicologicamente devastante: la pur calcolatissima anarchia dei membri della band, che suonano indipendentemente da qualsivoglia melodia o linea guida, accompagnata al rabbioso vomitare continuo delle fauci del Capitano, può inizialmente persino atterrire. Solo dopo un po’ se ne comprende la caleidoscopica grandezza, la ricchezza espressiva, la varietà stilistica e musicale: musicale, sì, perchè, ben al di là della sperimentazione fine a sé stessa, è la musica che fa da padrona. Allargata a sei elementi, con Beefheart che fa la parte del leone destreggiandosi tra chitarra, canto, sassofono, armonica e clarinetto(!), la Magic Band si cimenta in ventotto pezzi di durata variabile che esplorano le cavità più recondite, pericolose e surreali del blues (non disdegnando di sconfinare talvolta in Free Jazz allo stato puro). Canzoni come Moonlight On Vermont o China Pig sono sia dal punto di vista lirico sia da quello musicale vere e proprie evocazioni dello spirito degli antichi bluesmen, riviste ogni volta prima in una chiave moderna e poi triturate dalla furia avanguardista dei musicisti. Allo stesso modo Hair Pie o When Big Joan Sets Up sono geniali brandelli free e Pachuco Cadaver e Frownland declamazioni sguaiate e rituali, quasi mistiche nel loro incedere. Ogni frammento di due-tre minuti ha una propria personalità e vive di una sapiente elaborazione e collaborazione, che allo stesso tempo non potrebbe esistere se non in un clima di festosa anarchia. Nello stesso pezzo possono affiorare mille melodie, inclinazioni e momenti ritmici diversi, ciascuno irripetibile e persino popolarmente geniale: perfetto esempio di come paradossalmente i risultati più equilibrati si realizzino nel caos più puro, Trout Mask Replica è il massimo risultato conseguito da Van Vliet e dai suoi musicisti (e sottolineo l’aggettivo possessivo) e forse una delle vette artistiche del rock di ogni tempo. Nessuna delle band che successivamente ha provato a replicarne lo spirito e il linguaggio è riuscita infatti a farlo conservandone intatte sia la furia iconoclasta sia la profondità musicale. Allo stesso modo non è opportuno parlare di riferimenti musicali per quest’opera, che brilla in primo luogo proprio della sua assoluta unicità.La Bestia californiana, dopo averci dato questo esempio di straordinaria lucida follia in musica,non raggiungerà più queste vette e, dopo averci dato un ultimo assaggio di free-blues con il meno coeso e meno riuscito Lick My Decals Off, Baby e aver pubblicato Mirror Man, straordinario album dal vivo che ben illustra il clima improvvisato e bestiale delle esibizioni della Magic Band, si appiattirà sempre più, ripiegando su un blues-rock più convenzionale e lontano anche dalla schizofrenia di Safe As Milk. Avrebbe poco senso citare i nomi in fila dei lavori successivi del Capitano, quando ora più che mai è chiaro che il contributo che ha dato alla storia ma soprattutto all’evoluzione della musica rock come forma d’arte, era inestimabile già quarant’anni fa. Lui stesso, che quando ha capito che la sua musica non lo rappresentava più, si è ritirato in campagna con la moglie a portare avanti il suo hobby di pittore, apprezzerebbe questa scelta. So long, Captain.

- samgah8

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Cercare di fare una summa di quello che è (stato?) il post-rock è impresa assai ardua. Questa piccola guida, divisa in parti, cerca di fare un compendio delle fasi salienti, inquadrando geografia, movimenti nel movimento e gruppi fondamentali del più grande terremoto musicale degli anni ‘90 e che ancora oggi non si è stabilizzato. Il post-rock ha avuto lo stesso peso che ebbe il rock’n roll tra ‘50 e ‘60, il punk negli anni ‘70 e il synth-pop negli anni ‘80, forse ancor di più, visto il progressivo e normale diminuire delle possibilità di espressione artistica con il passare degli anni. Ha cambiato il modo di far musica e, come i movimenti sopracitati, ha subito mille variazioni, si è disgregato in mille particelle, vorticose ed impazzite, creando una confusione tale che, sono state considerate post-rock derive avant, è stata scambiata l’elettronica con il post-rock, il modern classical con il post-rock, le tagliatelle ai funghi con il post-rock. C’è stato un abuso del termine, con il quale si è etichettato tutto ciò che non è etichettabile, è stato per i critici in particolare, un ancora di salvezza. Ed è proprio per questo che una storia del post-rock non è affatto semplice, mi scusi perciò in anticipo chi si sentirà offeso dalla non considerazione per gruppi quali i 65 Days Of Static, non perchè non interessanti ma perchè derive di derive, quindi filologicamente non rilevanti. Adesso, partiamo con la vera storia, partendo da prima del post-rock, seguendo passo passo la mutazione.In principio era l’hardcore (prima ancora il punk), poi l’hardcore si incarnò nel post-hardcore e qualcosa cambiò. Alla furia iconoclasta e anarchica del primo, si inserirono concetti più cerebrali. E qui arriviamo al punto, arriviamo agli Squirrel Bait, dove l’hardcore diventò adulto. Siamo nel 1986, siamo a Louisville (ricordatevi il nome di questa città) e questi quattro ragazzi fanno uscire un disco omonimo dove è chiaro che un grosso cambiamento è in agguato. Per tre di questi quattro ragazzi, il futuro ha in serbo qualcosa di veramente speciale, Brian McCahan (chitarra) e Britt Walford (batteria) formano gli Slint e David Grubbs fonda invece i Bastro. Partiamo dai primi.Ai due si uniscono David Pajo (chitarra) e un bassista per ognuno dei due dischi pubblicati. Con loro il cambiamento si sente, si prende l’hardcore, lo si spolpa e lo si ricompone, ma ciò che viene fuori non ha nulla a che fare con ciò che era prima e dopo Spiderland qualcosa, molto, in seno al rock è cambiato. Pressochè ignorati in vita, vengono poi decretati padrini del post-rock. La musica si muove tra silenzi e deflagrazioni esplosive, tra momenti strumentali (ripudiati dal punk in poi) e momenti di sperimentazione anche colta, cosa che, in ambito rock era riuscito solo ai Sonic Youth, i primi, ma mentre loro cercavano di cambiarlo dal cuore, gli Slint ne escono fuori, per questo raggiungono la vita eterna, e raggiungono lo status di suono Slint, eclatante in pezzi come Don, Aman e Washer facenti parte del loro unico album Spiderland stampato da (ricordatevi anche il nome di questa etichetta) Touch And Go, successore dell’ottimo e molto incisivo mini Tweez. Ma la parabola è breve, McMahan scioglie il gruppo. Lo ritroveremo anni dopo nei For Carnation, gruppo che cerca di esplorare ancora il suono di Spiderland rallentandolo ancora e sezionandolo, ma questa è un’altra storia. Sarebbe meglio dire che la parabola di Grubbs e soci, sembra, breve perchè, in realtà, con lo scioglimento di questo gruppo il post-rock apre la sua stagione, con gruppi facenti capo agli elementi degli Slint. Ma prima facciamo un’ulteriore precisazione. In contemporanea a ciò che succede negli Stati Uniti, avviene una rivoluzione musicale anche dai cugini inglesi. In un articolo su The Wire, l’onnisciente Simon Reynolds, tira fuori il concetto di post-rock. Si riferisce a gruppi quali gli A.R. Kane, Seefeel, Main e gli immensi Stereolab. Già da questo elenco si capisce la disomogeneità di questo movimento, elencato da Reynolds accomunando gruppi ambient-isolazionista, post-kraut,elettronica cosmica ecc. Possiamo allora dire che il post-rock nasce in Gran Bretagna? Non lo sappiamo. Come tutte le grandi rivoluzioni, tutte arrivano in maniera graduale, non immediata e quindi è veramente difficile riconoscere una patria al post-rock. Sicuro è che, alla Gran Bretagna bisogna riconoscere un merito iniziatico, che poi si perderà verso le coste dell’Atlantico e tornerà in maniera sporadica con un picco a metà anni ‘90 con il Bristol sound. Torniamo oltr’oceano.In particolare David Grubbs, del circolo Slint, il colto musicista punk, con i Bitch Magnet prima e i Bastro poi, continua il suo lavoro di decostruzione sonora, lavoro che culmina nei Gastr Del Sol. Con i Bitch Magnet pubblica Umber e Ben Hur, con i Bastro Diablo Guapoe Sing the troubled sleep. Con questi gruppi il suono di Grubbs sembra fare un passo indietro, ritorniamo alla violenza di canzoni come Joan of Arc o Navajo Age il power-trio risucchia quello che erano i Big Black fondendoli con gli stilemi post-rock, creano una musica spigolosa e violenta. Nei Bastro invece il suono sembra fondere in maniera allucinante i Talking Heads e l’hardcore, trasferendo le follie del secondo nella nevrosi dei primi, il tutto strumentale. Queste derive grubbsiane sfiorano l’hardcore, ma lo superano e ci lasciano le più belle pagine di quel tempo furioso. Il suono di Grubbs si delinea sempre più con il passare del tempo, si scarnifica, si rende più minimale, e raggiungerà il suo apice con i sovracitati Gastr Del Sol, ma di loro parleremo la prossima volta, insieme a Tortoise, June of 44 e Rachel’s.

- matmo

Post rocK Parte 1

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BEST OF 2010

JOANNA NEWSOM - Have One On Me1

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FOUR TET - There Is Love In You

FENNESZ DANIELL BUCK - KnoxvillePAN SONIC - Gravitoni

FLYING LOTUS - Cosmogramma

SUFJAN STEVENS - The Age Of AdzTAME IMPALA - InnerspeakerIOSONOUNCANE - La Macarena Su RomaCARIBOU - SwimVAMPIRE WEEKEND - Contra

la classifica della redazione

LA CLASSIFICA DI CLAUDIO LUCCIOLETTI1. sufJan steVens - The Age Of Adz

2. TAME IMPALA - InnerspeAker

3. VamPire WeeKend - COnTrA

4. WYATT/ATZOMON/STEPHEN - fOr The ghOsTs WIThIn

5. MOONFACE - dreAmlAnd ep: mArImbA And shIT drums

6. YELLOW SWANS - gOIng plACe

7. JOHN GRANT - Queen Of denmArk

8. EELS - TOmOrrOW mOrnIng

9. THE OCEAN TANGO - The OCeAn TAngO

10. ANBB - mImIkry

LA CLASSIFICA DI MICHELE LUCCIOLETTI1. Joanna neWsom - hAve One On me

2. TAME IMPALA - InnerspeAker

3. menomena - mInes

4. arcade fire - The suburbs

5. MICE PARADE - WhAT IT meAns TO be lefT hAnded

6. FIELD MUSIC - (meAsure)

7. CHEMICAL BROTHERS - furTher

8. A SILVER MT. ZION - kOllAps TrAdIxIOnAles

9. TWIN SHADOW - fOrgeT

10. BEACH HOUSE - Teen dreAm

LA CLASSIFICA DI SAMUELE GAGGIOLI1. Joanna neWsom - hAve One On me

2. sufJan steVens - The Age Of Adz

3. VamPire WeeKend - COnTrA

4. the national - hIgh vIOleT

5. four tet - There Is lOve In yOu

6. LIARS - sIsTerWOrld

7. FENNESZ DANIELL BUCK - knOxvIlle

8. YELLOW SWANS - gOIng plACe

9. GONJASUFI - A sufI And A kIller

10. INDIAN JEWELRY - TOTAled

LA CLASSIFICA DI ANDREA LULLI1. four tet - There Is lOve In yOu

2. Pan sonic - grAvITOnI

3. TRISTAN PERICH - 1 bIT symphOny

4. scuBa - TrIAngulATIOn

5. FLYING LOTUS - COsmOgrAmmA/pATTern-grId WOrld

6. AUTECHRE - OversTeps / mOve Of Ten

7. CARIBOU - sWIm

8. EMERALDS - dOes IT lOOk lIke I’m here?

9. MOUNT KIMBIE - CrOOks And lOvers

10. THE SIGHT BELOW - IT All fAlls ApArT

LA CLASSIFICA DI MATTEO MOCA1. FENNESZ DANIELL BUCK - knOxvIlle

2. TRISTAN PERICH - 1 bIT symphOny

3. Pan sonic - grAvITOnI

4. JEFRE CANTU-LEDESMA - lOve Is A sTreAm

5. MARK McGUIRE - lIvIng WITh yOurself

6. INDIGNANT SENILITY- plAys WAgner

7. FLYING LOTUS - COsmOgrAmmA

8. infinite BodY - CArve OuT The fACe Of my gOd

9. FOUR TET - There Is lOve In yOu

10. PEEESSEYE & TALIBAM! - peeesseye & TAlIbAm!

LA CLASSIFICA DI MARCO VIVARELLI1. four tet - There Is lOve In yOu

2. FENNESZ DANIELL BUCK - knOxvIlle

3. iosonouncane - lA mACArenA su rOmA

4. KanYe West - my beAuTIful dArk TWIsTed fAnTAsy

5. BEACH HOUSE - Teen dreAm

6. FLYING LOTUS - COsmOgrAmmA

7. Pan sonic - grAvITOnI

8. GONJASUFI - A sufI And A kIller

9. WAVVES - kIng Of The beACh

10. EMERALDS - dOes IT lOOk lIke I’m here?

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feedback - GENNAIO 2011 feedback - GENNAIO 2011

Il 2010 non è stato avaro di perle, infatti ecco arrivare l'opera analogico/cosmica degli Emeralds Does it look like I'm Here?, un revival di stagioni lontane, ideale per sognare ad occhi aperti nelle sere di maggio, quando si inizia a stare bene a maniche corte e ci si puo' sdraiare ad occhi chiusi in un prato, magari dopo avere ascoltato nel pomeriggio nuvoloso il mastodontico lavoro di Joanna Newsom, tre cd di pura delizia vocale e strumentale. Poi arriva Scuba con Triangulation, uno dei (nuovi) mostri di quel (mostro?) dubstep, simbolo degli ultimi anni elettronici. In contemporanea esce Gravitoni epitaffio dei Pan Sonic, un'ora di techno virata in chiave noise; mai addio fu più bello, da ascoltare nei sottoscale delle discoteche e da ballare con i mutanti. E intanto anche Flying Lotus e Infinite Body, ci regalano rispettivamente l'hip-hop ribelle di Cosmogramma e i dolci droni di Carve out the face of God. L'estate è alle porte, ci vuole allegria, ci vogliono i Fang Island, che, con il loro disco omonimo, ci regalano un suono fresco, da canticchiare sotto la doccia, sognando un coro di bambini impazziti (imperdibile il loro concerto in un asilo). Per le giornate estive più malinconiche, nuvolose e spleen, niente di meglio che i Beach House, con la loro ultima fatica Teen Dream. Ma in estate torna anche una delle band più attese, gli acclamatissimi Arcade Fire che con i loro sobborghi ci regalano la colonna sonora perfetta per le passeggiate sulla spiaggia con mamme che leggono di gossip. Ma l'estate, si sa, è effimera e siamo già alla fine, si accorciano le giornate e si ritirano fuori le magliette di cotone; quindi rispolveriamo i dolci, auntologici momenti di Plays Wagner di Indignant Senility e le soffuse luci elettroniche di Sight Below. Ma è nel triste autunno che si rallegra il panorama italiano, prima con il cyber-rap degli Uochi Toki e poi con la miglior uscita dell’anno per il Bel Paese, ad opera di Iosonouncane La macarena su Roma, un affresco dell'Italia delle televisioni e delle vacanze a Porto Cervo. Non è finita ancora, anzi, il 2010 finisce col botto, uscite imperdibili; prima il ritorno sulle scene dei Deerhunter, nostalgia dell'estate passata e degli amori finiti (il tutto però rivissuto con un sorriso melanconico), e poi l'opera di 1/3 degli Emeralds, Marc McGuire che con il suo Living with yourself ci apre lo scrigno dei ricordi dell'infanzia. Se la prendono comoda i profeti dell'altra musica mondiale, gli Animal Collective che per Natale escono con la colonna sonora del film Oddsac, disegnando melodie sghembe e geometrie scure, che vi faranno rivivere i fantasmi della digestione del pranzo coi parenti. Poi arriva Tristan Perich con il suo minimalismo in 1 bit. Infine come colonna sonora dell'ultimo giorno dell'anno, niente di meglio della nuova fatica di Shackleton, un tribal-dubstep da ascoltare, ri-ascoltare e ri-ri-ascoltare ancora, all'infinito. Unica pecca di questo 2010, le attese, non ripagate, nei confronti del Panda del collettivo animale che non ci ha ancora concesso il suo Tomboy, ma si sa l'attesa aumenta il desiderio...

- matmo

EDITORIALEcontinua dalla prima pagina

LA CLASSIFICA DI ALESSIA MAZZUCATO1. Joanna neWsom - hAve One On me

2. JOHN GRANT - Queen Of denmArk

3. VamPire WeeKend - COnTrA

4. the tallest man on the earth - The WIld hunT

5. ARCADE FIRE - The suburbs

6. CARIBOU - sWim

7. BELLE AND SEBASTIAN - WrITe AbOuT lOve

8. INTERPOL - InTerpOl

9. THE NATIONAL - high Violet

10. MGMT - COngrATulATIOns

LA CLASSIFICA DI ANGELA FELICETTI1. Joanna neWsom - hAve One On me

2. the tallest man on the earth -

The WIld hunT

3. JOHN GRANT - Queen Of denmArk

4. magnetic fields - reAlIsm

5. VAMPIRE WEEKEND - COnTrA

6. CHARLOTTE GAINSBOURG - Irm

7. RICHARD SKELTON - lAndIngs

8. BEACH HOUSE - Teen dreAm

9. gorillaz - plAsTIC beACh

10. MENOMENA - mInes

LA CLASSIFICA DI LORENZO MAFFUCCI1. VamPire WeeKend - COnTrA

2. OWEN PALLET - heArTlAnd

3. mgmt - COngrATulATIOns

4. mICAH P. HINSON - & The pIOOner sAbOTeurs

5. ALESSANDRO FIORI - ATTenTO A me sTessO

6. IL PAN DEL DIAVOLO - sOnO All’OssO

7. SCOUT NIBLETT - The CAlCInATIOn Of sCOuT nIbleTT

8. IOSONOUNCANE - lA mACArenA su rOmA

9. DEERHUNTER - hAlCyOn dIgesT

10. THE WALKMEN - lIsbOn

LA CLASSIFICA DI RICCARDO GORONE1. FENNESZ DANIELL BUCK - knOxvIlle

2. MARK McGUIRE - lIvIng WITh yOurself

3. FLYING LOTUS - COsmOgrAmmA

4. scuBa - TrIAngulATIOn

5. AFCGT - AFCGT

6. FOUR TET - There Is lOve In yOu

7. PAN SONIC - grAvITOnI

8. CARIBOU - sWIm

9. infinite BodY - CArve OuT The fACe Of my gOd

10. DEERHUNTER - hAlCyOn dIgesT

LA CLASSIFICA DI BOBI RASPATI1. Joanna neWsom - hAve One On me

2. DENSELAND - Chunk

3. CAVE - pure mOOds

4. ABOOMBONG - AsynChrOnIC

5. PEEESSEYE & TALIBAM! - peeesseye & TAlIbAm!

6. ARCADE FIRE - The suburbs

7. KEMIALLISET YSTÄVÄT - ullAkkOpAlO

8. FLYING LOTUS - COsmOgrAmmA

9. EXPLODING STAR ORCHESTRA - sTAr hAve shApes

10. ONEOHTRIX POINT NEVER - reTurnAl

LA CLASSIFICA DI FRANCESCO GORI1. iosonouncane - lA mACArenA su rOmA

2. FOUR TET - There Is lOve In yOu

3. cariBou - sWIm

4. massimo Volume - CATTIve AbITudInI

5. FENNESZ DANIELL BUCK - knOxvIlle

6. sufJan steVens - The Age Of Adz

7. the tallest man on the earth - The WIld hunT

8. ANBB - mImIkry

9. the VASELINES - Sex WITh An x

10. PAN SONIC - grAvITOnI

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feedback - GENNAIO 2011

Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Lorenzo Maffucci.Grafica, impaginazione e web a cura di Francesco Gori.Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel gennaio 2011.Per informazioni, critiche e consigli: [email protected]

CARLO MICHELSTAEDTER un’intervista

Buonasera, buonanotte cari amici. Ospite a Sottovoce questa sera è Carlo Michelstaedter- Buonasera.- Il nostro ospite, nato a Gorizia nel 1887, nel 1910 ha scritto la tesi di laurea che è diventata libro, dal titolo La Persuasione e la Rettorica. Intanto, perché ha sentito il bisogno di scrivere su questo argomento? - Quale argomento?- Quello che tratta nel libro.- Mah, non saprei... - Beh, l’ ha scritto lei! Se non lo sa lei...- Non l’ho propriamente scritta io la tesi; inoltre è incompiuta...- Come? Non l’ha scritta lei?- Eh, no. L’hanno scritta Platone, Aristotele, Leopardi, Schopenauer, Lawrence Sterne...- Vabbè, lei li cita.- No, io non cito proprio nessuno! Io li faccio parlare. Le loro sono parole eterne e mi meraviglio che si continui tutt’ora ad opinare e a sentire il bisogno di fomulare altre parole, o altre sentenze, quando è già stato detto tutto una volta per sempre, mal aùthis.- Eh?... Vabbè. Ma lei lo ha fatto.- No, assolutamente. Io mi appoggio, come fa un nano, alle spalle dei giganti. Il voler credere che questo libro sia per me un lascito eterno di quel che era la mia esistenza, significa non aver capito quello che io ho scritto.- Beh, ma lei è un poeta, scrittore, filosofo, che ha espresso il sentimento degli uomini nei confronti della vita.- No, io ho espresso il sentimento dell’ esistenza, e non della persona come proprietaria di anima o di vita eterna, o di autonomia, o di assolutezza. Io predico la finitezza del nostro protenderci verso, ogni volta, qualcosa che ci rende incontentabili comunque.

- Ma lei è persuaso di vivere, no?- No, non so se sono persuaso di vivere. Il sapere è un tranquillizzarsi sulle proprie incertezze. Sono piuttosto persuaso di esistere, ma anche questo... Non saprei.- Mi scusi, ma dove sta la differenza?- Beh, noi diventiamo consapevoli solo per il fatto che reiteriamo formule tranquillizzanti. Siamo noi che ci dettiamo le regole del nostro gioco, e vogliamo illuderci del fatto che tutti raggiungano quel consenso sul fatto che siamo persone dotate di anima e che perseguono la verità.- Beh, ma io posso dire di conoscere qualcosa. - Sì, lo può pure dire, ma con la consapevolezza che la conoscenza non è la verità. Perfino Cartesio ha dovuto tranquillizzarsi col suo detto cogito ergo sum. Dusxeraì nein en toìs logois. Dove sta scritto che ciò che pensiamo sia quello che sappiamo? E dove sta scritto che quello che sappiamo sia ciò che costituisce il nostro essere? E dove sta scritto che il non-essere sia annacquato di essere?- Credo di non riuscire a seguirla.- E’ già qualcosa. E’ solo partendo dalle nostre incertezze che possiamo prendere le redini della nostra esistenza e risalire verso il cielo. Solo se si è persuasi.- Allora vede che sta dicendo che l’esistenza può diventare vita?- No. L’ esistenza è una malattia mortale, è bìos àbios, vita senza vita. E’ troppo fluida per essere definita e determinata. Viviamo nell’ incompletezza, e proprio per questo non finiamo mai di inseguire, di volere sempre altro, e altro ancora. Come il sasso che per via della gravità tocca terra e, nonostante tutto, non può voler smettere di cadere verso il basso.- Ma ha smesso di cadere.- Questa è l’ illusione della rettorica: ci siamo convinti con le parole, e con i discorsi, che siamo autonomi e che abbiamo perseguito uno scopo. Ma l’ esistenza è di per sé incompleta, è un continuo tendere verso qualcosa. Se non fosse questo, e avesse raggiunto il suo scopo e, cioè, il non-volere, noluntas, sarebbe la morte. La vita è un’ utopia, un luogo introvabile a cui si può aspirare solo dopo essere stati persuasi dell’ esistenza.- E lei lo ha raggiunto questo luogo introvabile? - A ventitre anni mi sono sparato un colpo di rivoltella. Faccia un po’ lei, insomma...- Ah... Bene, questo è tutto da Sottovoce e da Gigi Marzullo. Ringraziamo ancora il nostro ospite e ci salutiamo con un ultimo intervento: si faccia una domanda e si dia una risposta.- Ho esaurito tutte le domande e la mia risposta definitiva è stata la più chiara.- Ottimo. Salutiamo i nostri telespettatori ancora.Buonasera e buonanotte. -gorot

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