yod. cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

43
confini PAOLA COPPI PAOLO DE BENEDETTI CLAUDIA MILANI NICOLETTA MICHELI FRANCESCO BUTTURINI GABRIELLA ZAMMILLO EDOARDO BONCINELLI MARIO SIGNORE EMILIO BACCARINI GIANRICO CAROFIGLIO PAOLA MOSCARDINO MARCELO DASCAL PEPPINO ORTOLEVA PAOLO PEVERINI SILVIO GRASSELLI ADRIANO APRÀ MARTA VIGNOLA JUAN GUZMÁN VARDA DASCAL VITO COMISO In caso di mancato recapito inviare a TORINO C.M.P. NORD per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa. GENNAIO-SETTEMBRE 2009 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abb. Postale - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB (TORINO) 1-2 | 2009 € 10,00 9 788874 025046

Upload: giovanni-scarafile

Post on 14-Mar-2016

240 views

Category:

Documents


1 download

DESCRIPTION

YOD 1-2 | CONFINI | On line version

TRANSCRIPT

Page 1: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

confini

PAOLA COPPIPAOLO DE BENEDETTICLAUDIA MILANINICOLETTA MICHELIFRANCESCO BUTTURINIGABRIELLA ZAMMILLOEDOARDO BONCINELLIMARIO SIGNOREEMILIO BACCARINIGIANRICO CAROFIGLIO

PAOLA MOSCARDINOMARCELO DASCAL

PEPPINO ORTOLEVAPAOLO PEVERINI

SILVIO GRASSELLIADRIANO APRÀ

MARTA VIGNOLAJUAN GUZMÁN

VARDA DASCALVITO COMISO

In c

aso

di m

anca

to re

capi

to in

viar

e a

TOR

INO

C.M

.P. N

OR

D p

er la

rest

ituzi

one

al m

itten

te c

he s

i im

pegn

a a

paga

re la

rela

tiva

tarif

fa.

GENNAIO-SETTEMBRE 2009Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abb. Postale - D. L. 353/2003

(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB (TORINO)1-2 | 2009 € 10,00

9 788874 025046

Page 2: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

YOD. CINEMA, COMUNICAZIONE E DIALOGO TRA SAPERIwww.yodonline.com

ANNO I NN. 1-2GENNAIO - SETTEMBRE 2009ISBN 978-88-7402-504-6

Poste Italiane s.p.a.Spedizione in Abb. PostaleD.L. 353/2003 - (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1,comma 1, DCB (TORINO) - 1-2/2009Registrazione Tribunale di Roman. 567/99 del 1-12-1999

Direttore responsabileDARIO EDOARDO VIGANò[email protected]

Direttore editorialeGIOVANNI [email protected]

DirezioneGIOVANNI SCARAfILEDipartimento di Filosofia e Scienze SocialiUniversità del SalentoVia V.M. Stampacchia - 73100 LECCETel. +39.0832.294662 | fax +39.0832.294626

Proprietà ACEC

PresidenteROBERTO BUSTI

Segretario GeneralefRANCESCO GIRALDO

Segreteria [email protected]

RedazioneACECVia Nomentana, 25100161 ROMATel. +39.06.4402273 | fax. [email protected]

EditoreEffatà EditriceVia Tre Denti, 110060 Cantalupa (TO)Tel. +39.0121.353452 | fax [email protected] | www.effata.it

Hanno collaborato:PAOLA COPPI, CLAUDIA MILANI, NICOLETTA MICHELI, GABRIELLA ZAMMILLO, MARIO SIGNORE, EMILIO BACCARINI, PAOLA MOSCARDINO, MARCELO DASCAL, fRANCESCO CIRIOLO, PEPPINO ORTOLEVA, PAOLO PEVERINI, SILVIO GRASSELLI, MARTA VIGNOLA, VARDA DASCAL, EMANUELA DE RICCARDIS, VITO COMISO

Progetto grafico, impaginazione e illustrazioniROBERTA [email protected] | www.robertapizzi.com

StampaPublistampa Arti Grafiche s.n.c. di Casagrande Silvio & C.Via Dolomiti 12 | 38057 Pergine Valsugana (TN)

AbbonamentiRivista quadrimestrale – 1 numero € 10,00Abbonamento annuo ITALIA 3 numeri € 24,00Numero arretrato € 20,00Abbonamento annuo ESTERO (Zona 1) 3 numeri € 60,00Abbonamento annuo ESTERO (Zona 2 e 3) 3 numeri € 78,00c.c.p. 33955105, intestato ad Effatà EditriceIBAN IT66 X030 6930 7501 0000 0063 668

Crediti fotograficiLe immagini e le illustrazioni delle pagg. 1, 10-11, 18-19, 22, 47, 56-57, 59, 62-63, 64-65, 87, 111 sono di proprietà di YOD.Per le altre immagini l’editore ha cercato con ogni mezzo i tito-lari dei diritti fotografici, è a disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti.

foto di copertina Woman Looking Over Fence by © Sam Diephuis/zefa/Corbisfoto terza di copertinaPortrait of a Young Woman and a Laptop by © Image Source/Corbis

Giovanni Scarafile 1 Editoriale

Paola Coppi 10 Ruminando la parola: tra ricerca e beatitudine del sapere

Paolo De Benedetti 18 Sul confine tra sacro e profano. Colloquio a cura di Claudia Milani

Nicoletta Micheli 25Con gli occhi aperti. La didattica dell’audiovisivo per una descolarizzazione dei saperi

Francesco Butturini 34 «…Non uno di meno!»Colloquio a cura di Paola Coppi

Gabriella Zammillo 39 Tra codici e segreti

Edoardo Boncinelli 40 L’anima della tecnica.Colloquio a cura di Gabriella Zammillo

Mario Signore 46 Per un’etica s-confinata

Emilio Baccarini 51 Pensare il margine. Appunti per una fenomenologia della soggettività

Gianrico Carofiglio 56 Nelle pieghe della verità. Intervista di Paola Moscardino

Marcelo Dascal 62 Il linguaggio come tecnologia cognitiva

Peppino Ortoleva 77 Lo spessore dei media

Paolo Peverini 82 Il paradosso della seduzione. Il corpo della star musicale nel sistema dei media

Silvio Grasselli 87 Lo sguardo e la soglia. La morte nel cinema di Ermanno Olmi

Adriano Aprà 95 Il confine nel cinema di Olmi.Colloquio a cura di Silvio Grasselli

Marta Vignola 97Militanti della memoria. A proposito del film-documentario Le Bende del Giaguaro

Juan Guzmán 101 Il confine della giustizia. Colloquio a cura di Marta Vignola

Varda Dascal 103 Un caso a favore dell’applicazione dell’arte in terapia

Vito Comiso 111 Interno, giorno

Page 3: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

1

Illustrare la specificità di una nuova Rivista non è semplice. Una tale difficoltà, che solitamente accompagna la presentazione di ogni nuova realtà editoriale, mi sembra assumere in questo caso una valenza ulteriore: testimonia infatti l’inconsueto cui vogliamo

provare a dare forma.Provare a ricondurre l’inedito al conosciuto diventa allora il compito di queste righe in cui

intendo far cenno alle dimensioni costitutive di YOD, partendo da tre osservazioni piuttosto comuni: la onnipervasività del comunicare; la diffusione delle pratiche del comunicare; la effrazione dei confini intradisciplinari.

Comunicare, oggiPrima osservazione. Oggi, più che in altri periodi, risulta difficile isolare un contesto dal quale

la comunicazione, in una delle sue plurivoche accezioni, possa essere dichiarata assente. È una presa d’atto ordinaria che, tuttavia, consente di isolare il fenomeno della onnipervasività del comunicare. D’altro canto, l’accennata dislocazione plurima della comunicazione rende non ipotetico il rischio di incorrere nello smarrimento non solo e non tanto di ciò che è comune alle diverse declinazioni del comunicare, quanto e soprattutto dell’a quo, ovvero della dimensione fontale ed antepredicativa della comunicazione. Uno degli esiti più nefasti di questo processo è che la costitutiva invisibilità della dimensione incettiva e strutturale del comunicare rischia di convertirsi cinicamente in prova della sua stessa assenza. La comunicazione, deprivata così di ogni elemento non riconducibile alla mera fatticità, si trasforma in epifenomeno, sancendo la presa di distanza da ciò che la rende possibile quale sua stessa condizione di possibilità. Che cosa è richiesto quando ci si voglia cimentare nel recupero dell’intero del comunicare?

editoriale

Giovanni Scarafile

Page 4: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

2

Seconda osservazione. In ambiti diversi, dalla scuola alle università, dai centri di aggregazione giovanili alle sale parrocchiali, crescono esponenzialmente le pratiche del comunicare: realizzazione di video, podcasts, blog e siti internet, rassegne e festival del cinema. Assistiamo alla fermentazione di un patrimonio di iniziative, idee, progetti alla cui base sono rinvenibili istanze specifiche che chiedono di essere ascoltate. L’ascolto, tuttavia, quando non sia preliminare strategia ai fini di un successivo indottrinamento, richiede una attitudine non scontata alla ricerca della sintonia con l’altro.

Al di là delle buone intenzioni di quanti si trovano coinvolti in ciò di cui parlo, uno dei principali ostacoli in direzione di un effettivo ascolto delle istanze che stanno alla base delle pratiche del comunicare è costituito dall’assenza di una piena consapevolezza del venir meno di una grammatica comune tra quanti si trovano implicati negli accennati processi. Un contesto in cui esemplarmente questo confronto impari ha luogo è costituito dalle scuole secondarie, dove, pur in presenza di un non esiguo numero di docenti ben motivati, si assiste all’incontro, da un lato, di docenti abili a navigare in internet, a scrivere con i programmi di videoscrittura, ad utilizzare programmi di fotoritocco ed editing video e, dall’altro, di studenti per i quali l’accesso e l’uso di tali risorse non è stato acquisito a partire da una conoscenza prestabilita di tipo mnemonico-analogico, ma piuttosto all’interno di una conoscenza orientata in senso digitale. Il disagio, talvolta riferito da qualche docente, è il disagio effettivo di chi si trovi quotidianamente ad interfacciarsi con interlocutori rispetto alla cui modalità comunicative è, egli stesso, dimidiato. Da un lato, la logica fondata sulla memoria del precedente e sull’analisi di ogni singolo elemento, come in una sequenza; dall’altro, l’approccio fulmineo di cui è cifra l’immagine sintetica che introduce nella dimensione dell’individualità multipla ed itinerante, per molti versi inedita. Esiste un modo per affrontare responsabilmente questo gap?

Terza osservazione. Ogni ambito di studio (dalla letteratura alla medicina, dalla matematica alla filosofia) consta di diverse articolazioni. Si tratta di piani che si intersecano ed è proprio abitando queste intersezioni che è possibile cogliere aspetti inediti e nuove modalità di lettura del tema originario.

Le straordinarie ed un tempo imprevedibili possibilità di istantaneo accesso a banche dati sempre più globali ha, tra l’altro, potenziato in modo esponenziale le consuete possibilità di approccio, anche trasversale, ai tradizionali ambiti di studio. Nelle Università e negli organismi che seriamente promuovono la ricerca, l’assunzione dell’accennato assunto continua a comportare una configurazione specifica dei research groups: se un tempo poteva forse aver senso immaginare il singolo ricercatore

chiuso nella sua biblioteca, intento a dar conto dell’insieme dei temi studiati, oggi una ricerca che non preveda l’attenzione convergente di un gruppo di ricercatori su un singolo ambito di studio rischia di essere, già soltanto a partire dalla considerazione della mole di materiali e risorse bibliografiche on line, semplicemente vetusta e moderatamente delirante.

Quali risorse ermeneutiche occorre richiamare per orientarsi in modo significativo su un argomento?

Le domande che accompagnano le tre precedenti osservazioni costituiscono lo spazio liminare al cui interno YOD intende collocarsi. Al tempo stesso, non pensiamo di avere la bacchetta magica in grado di semplificare e rendere d’immediato accesso quei problemi che, come accennato, risultano dall’intersezione di più saperi, secondo livelli

molteplici di articolazione. Siamo però convinti che la specificità e le competenze specialistiche richieste dai temi e dagli ambiti che intendiamo analizzare non possano diventare un alibi per riproporre desuete soluzioni preconfezionate o, peggio, per rinunciare a cercare.

Di fronte ai segni del cambiamento occorre predisporre un cambiamento dei segni. È per questo che, nel progettare YOD, abbiamo voluto pensare ad alcune modalità specifiche che potessero accompagnare il lettore all’interno di territori forse più inesplorati.

Assolvono questa funzione di guida alcune Sezioni che il lettore troverà all’interno dei saggi ospitati su YOD.

La struttura di YODNella sezione Percorsi, l’autore di un saggio propone, in relazione

ai temi discussi, ulteriori percorsi di ricerca con riferimento a diversi registri espressivi. Per esempio, in un saggio dedicato al cinema, troveremo rinvii al teatro, alla narrativa e alla musica; in un saggio dedicato alla matematica, troveremo rinvii al cinema, alla letteratura, alla filosofia e così via.

Nella sezione 5 Steps with, l’autore del saggio rivolge alcune domande ad uno degli esperti citati in relazione agli ambiti più significativi emersi nel corso della trattazione.

Nella sezione Effrazioni, l’autore indica i motivi di plausibilità della tesi opposta a quella sostenuta e preliminarmente dichiarata all’inizio del proprio saggio.

Alle tre sezioni appena richiamate, vanno inoltre aggiunte le keywords, le parole chiave poste nella parte alta di ciascuna pagina. Le keywords costituiscono delle vere e proprie bussole in grado di indicare in modo immediato i temi di riferimento di ciascun saggio.

La visibilità, garantita dalle Sezioni, ai rimandi reciproci tra saperi potrà consentire a ciascun lettore, a partire dall’ambito a lui più prossimo, di approntare una propria personale navigazione nei temi

Page 5: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

3

della Rivista, entrando nel merito di questioni decisive e, all’occorrenza, individuando materiali utili per ulteriori approfondimenti.

Il destino del nomeChe cosa significa “YOD”?Rispondere, seppur sommariamente, a questa domanda significa

pagare il giusto tributo all’universo culturale ebraico. La lettera yod, che ricorre già nel logo della nostra Rivista, è la decima e più piccola lettera dell’alfabeto ebraico. Essa, secondo la tradizione, è stata posta da Dio come un monito della possibilità di rinvenire un significato già negli elementi linguistici all’apparenza meno significativi. La yod non solo allude al Nome, uno ed indivisibile, di Dio ma proprio in questo rinvio è cifra del metafisico, di ciò che si sottrae alla vista. È così, allora che le parole non soltanto rivelano la traccia di un esplicito insegnamento divino, ma sono anche portatrici di un messaggio intrinseco, affidato alla cura di ciascuno di noi nella misura in cui sapremo farci custodi di tale ineffabilità.

Nel Talmud, inoltre, il testo sacro è, anche graficamente, contornato dai commenti. Una tale strutturazione suggerisce un particolare configurarsi del rapporto tra centralità, il testo sacro, e marginalità, il commento, laddove la seconda dimensione viene evocata allo scopo di corroborare la prima. In altri termini, ad una idea secondo cui ciò che è marginale è ipso facto subordinato, viene a sostituirsi un’altra idea secondo cui il testo non esiste indipendentemente da colui che lo commenta, cioè lo invera, lo vive, lo interpreta; al di fuori di un rapporto teso a vivificarne i coefficienti esistenziali.

Queste indicazioni di matrice ebraica evocano bene l’anima di YOD: di fronte ad un testo (un saggio, un racconto o un’intervista) ci interessa afferrare non soltanto un aspetto specifico, ma soprattutto l’«intenzione totale» sottesa a quel testo, secondo il ben noto avvertimento di Merleau-Ponty: «Si tratta di ritrovare [...] la formula di un unico comportamento nei confronti dell’altro [...] una certa maniera di plasmare il mondo, che lo storico deve essere capace di riprendere e assumere».

Cercheremo di trovare un nuovo posizionamento di fronte al testo in grado di esplicitarne ogni intima dimensione. È così dunque che pensare un testo può divenire pensare con un testo, secondo un itinerario di fedeltà consistente non tanto nel ricalcare le orme di un autore, quanto piuttosto nell’individuazione del senso di quelle impronte e nella prosecuzione lungo il cammino da esse indicato.

ConfiniIl tema del confine è connaturato alla stessa struttura di YOD. La fotografia Woman Looking Over Fence di Sam Diephuis, fotografo

di San Francisco, scelta per la prima copertina di YOD, allude bene alla plurivalenza del confine. Essa infatti suggerisce rinvii al nascondimento, ma anche all’attesa speranzosa; all’inserzione immaginativa, ma anche all’accoglienza; all’imprevisto, ma anche al debordamento. Muovendo da una sollecitazione di Massimo Cacciari, abbiamo voluto assumere proprio il tema del confine come chiave ermeneutica per interpellare

studiosi e specialisti rappresentanti di diversi saperi: dall’ermeneutica ebraica all’etica, dalla matematica all’arteterapia, dallo studio dei media alla fenomenologia sino al racconto, il lettore troverà molte ed autorevoli voci in grado di sostanziare questa ricerca.

Ad multos annosTutte le questioni cui ho fatto cenno in precedenza, le tre

osservazioni inerenti la natura della comunicazione nelle società complesse, i richiami all’universo concettuale ebraico, l’esplicitazione della stessa struttura di YOD, sarebbero sufficienti, da sole, a spiegare la nascita di una nuova rivista?

Direi di no, francamente.Quando penso ai fattori determinanti per la nascita della Rivista

che ora avete fra le mani non posso che ricordare infatti, prima ancora degli elementi strutturali, un atteggiamento che attiene ad un possibile modo di essere delle persone: la disponibilità a scoprire i lati nascosti di quanto è spesso ritenuto consueto; il coraggio di azzerare i coefficienti delle cose, andando così oltre ogni apparenza; lo sguardo capace di vedere lontano mediante cui, rigettando ogni facile fatalismo e ogni sterile scetticismo pratico, riuscire ad orientare il cammino quotidiano, rendendo così ciò che è atteso un orizzonte prossimo.

L’atteggiamento di disponibilità, coraggio e lungimiranza è quanto ho fattivamente avuto modo di sperimentare nei mesi che hanno preceduto la nascita di questa Rivista nei costanti dialoghi con il prof. Dario E. Viganò, Direttore responsabile di YOD, e con il dott. Francesco Giraldo, Direttore Generale dell’ACEC: desidero esprimere loro il mio ringraziamento più sentito per il compito affidatomi della direzione editoriale di YOD.

Al tempo stesso ed anche in considerazione della preziosa eredità di Itinerari Mediali, non posso che predispormi a lavorare con grande umiltà, serietà e rigore, confidando prima di tutto nella benevolenza dei lettori.

Mi piacerebbe che YOD divenisse un laboratorio multidisciplinare permanente di ricerca sui temi relativi alla comunicazione e al cinema che non solo ci stanno a cuore, ma che penso abbiano una considerevole rilevanza pubblica. Un laboratorio di accoglienza, prima di tutto, in cui ciascuna persona, accantonando appartenenze ed ideologie, possa sentirsi accolta per il contributo di riflessioni e critiche che riterrà di voler offrire.

Nel congedarmi, vorrei qui richiamare, a mo’ di auspicio per la vita di YOD, la celebre immagine con cui Schopenhauer aveva inteso sintetizzare compiti e stile di una autentica ricerca: «Lo studioso cercherà sempre la limpidezza e la chiarezza, e si sforzerà di assomigliare non ad un torrente torbido e impetuoso, ma piuttosto ad un lago svizzero che, grazie alla sua calma, benché così profondo, ha grande trasparenza, ed è proprio questa a renderne visibile la profondità».

[email protected]

Page 6: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

Pro

men

ade

Shl

omo

Laya

t, Te

l Avi

v | d

icem

bre

2008

Page 7: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

Paola Coppi

Ruminando la parola: tra ricerca

e beatitudine del sapere

Page 8: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

Colloquio con Paolo De Benedetti di Claudia Milani

Sul confine tra sacro e

profano

Page 9: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

Colloquio con Paolo De Benedetti di Claudia Milani

Sul confine tra sacro e

profano

Page 10: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

24

Se Dio ha dato a Gerusalemme nove misure di santità delle dieci del mondo, noi dobbiamo sposare l’ipotesi secondo cui il luogo più sacro per gli ebrei è – come Lei ha detto – il Muro Occidentale, come resto del Tempio di Gerusalemme. Però, appunto, l’interpretazione rabbinica afferma l’esilio della Shekhinà. È possibile un raccordo?

«Certo. Sono tipiche del giudaismo le caratteristiche «ossimoriche». Un esempio è la disputa tra la scuola di Hillel e quella Shammaj, conclusa dalla voce celeste che affermava: «Queste e quelle sono parole del Dio vivente» (bEruvin 13b). Questo è uno degli aspetti più affascinanti dell’ebraismo, perché tutto sommato presuppone un’idea di Dio che travalica sia un concetto metafisico sia un concetto, diciamo così, di teologia fondamentale. In Dio le contraddizioni coesistono, perché Egli è coinvolto nel travaglio della storia, e della storia di Israele. È coinvolto. Ed è al di là della logica, se vogliamo dire così, aristotelica. E questa coesistenza di opposti vale anche per Gerusalemme: Gerusalemme resta città sacra, ma in un modo tutto diverso da quando c’erano il Tempio, i sacrifici ecc. Resta città sacra non in forma gloriosa, ma in forma kenotica: il Muro e non il Santo dei Santi. E fa molto pensare il fatto che nel Secondo Tempio, nel Santo dei Santi, non c’era più l’Arca, ma solo una piccola pietra alta due dita. Ma essa condensava in sé tutta la sacralità dell’Arca, delle Tavole ecc. In certo senso realizzava quel passaggio tra due teofanie avvenute sullo stesso monte Sinai/Horeb: il dono della Torà avvenuto tra lampi tuoni e fumo (Esodo 19-20), e l’apparizione di Dio a Elia in forma di «voce di silenzio sottile» (1 Re 19,12). Ecco, nella condizione kenotica di Gerusalemme il sacro è «voce di silenzio sottile».

Quindi è un Dio che si depotenzia.«Sì, si depotenzia».

E perciò possiamo dire che la kenosi non è un’«invenzione» cristiana…

«No».

…esiste una forma kenotica già nell’ebraismo.

«Sì, sviluppata dal giudaismo biblico e soprattutto post-biblico, e che dopo quasi duemila anni di trionfalismo teologico cristiano abbiamo ricevuto da Israele».

Su questo invito all’ascolto cristiano di Israele si interrompe la voce tremante, dai contenuti straordinariamente potenti, del Professor De Benedetti. Sappiamo che alcuni uomini si trovano, loro malgrado, a nascere all’incrocio tra due mondi, portatori di storie, tradizioni, saggezze diverse: possono scegliere di estirpare le proprie radici o di farle crescere insieme, in modo che una vivifichi l’altra e dall’incontro tra culture e religioni nasca una novità originale e creativa. Questo è ciò che ha fatto Paolo De Benedetti, figlio di padre ebreo e madre cristiana, che oggi si definisce «ebreo il sabato e cristiano la domenica», un giudeo-cristiano che ha fatto della sua doppia origine non solo un oggetto di studio, ma più radicalmente una scelta di vita. Maestro di molti discepoli, De Benedetti si è occupato anche di trasmettere loro l’amore per le Scritture e la passione per il dialogo interreligioso, frutto della curiosità e dell’attenzione per le piccole cose, forte della certezza che Dio, se si trova da qualche parte, si trova nel dettaglio.

Mentre mi allontano dalla casa del Professore e ripercorro i Navigli, immersa nella nebbia milanese in cui la città comincia a svegliarsi, mi trovo a ripensare alla frase della Mishnah che afferma che «il padre porta il bambino soltanto alla vita di questo mondo, mentre il maestro lo porta alla vita del Mondo Avvenire» (Mishnah, Bava Metzia II, II): PdB ha saputo mostrare, a quanti lo hanno riconosciuto come maestro, il valore del patrimonio di sapienza di cui l’ebraismo è fonte inesauribile. Un patrimonio che troppo spesso i cristiani dimenticano, amputando così anche una gran parte di quella sapienza cristiana stessa che deve necessariamente

passare, se vuole essere completa, per lo studio dei testi sacri e per l’attenzione alle piccole cose che, come la voce di silenzio sottile, sono spesso una porta d’ingresso di Dio nella vita umana.

Riferimenti bibliograficiJenni E. – Westermann C. 1982. Dizionario

teologico dell’Antico Testamento. Ed. it. a.c. di G.L. Prato. Casale Monferrato: Marietti, vol. II, , col. 531.

Sacchi P. 1993. Sacro profano, impuro puro: una categoria ebraica perduta in E. Guerriero – A. Tarzia (Eds), I segni di Dio. Il sacro-santo: valore, ambiguità, contraddizione. Cinisello Balsamo: Edizioni Paoline.

Sacchi P. 1994. Storia del secondo Tempio. Torino: SEI.

Sacchi P. 2007. Sacro/profano, impuro/puro nella Bibbia e dintorni. Brescia: Morcelliana.

Page 11: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

25

Premessa

«Mamma, oggi ho scoperto una cosa incredibile: l’inquadratura cinematografica!». Una frase che potremmo aspettarci da un bambino e che personalmente devo aver pronunciato intorno al primo anno di università. Eppure amavo il cinema, al cinema frequentemente mi recavo, credevo di conoscerlo, perfino. Mi si potrebbe obiettare, e allora? Cosa c’è di strano?

Di strano invero nulla, di male forse sì. Le tappe in grado di sviluppare una consapevolezza del linguaggio dominante la nostra modernità, caratterizzante addirittura, sono spesso tardive, impervie, il più delle volte inesistenti. Gli studi specialistici e avanzati possono consentire a ristretti gruppi di persone, non sempre le più preparate, di accedere a un sapere codificato e a tal punto pervasivo da venire percepito come un fatto naturale, come una lingua.

Ma lingua non è, bensì linguaggio. Benché perfino una lingua se di comune e largo uso verrebbe prima o poi elevata a oggetto di studio scolastico.

Il fatto è che tutti ritengono di poter utilizzare un testo audiovisivo, in parte a ragione, senza per questo doversi arrovellare sulle lambiccate controversie teorico-critiche degli specialisti. Questo perché le immagini in movimento sono in grado di richiamare la realtà fenomenica tanto da sembrarne una copia, le somigliano sorprendentemente anche se è proprio in ragione della loro difformità che possiamo parlare di un vero e proprio linguaggio, a partire dal quale dovrebbe prendere forma una sperimentazione didattica a qualunque livello.

Non tratterò in questa sede le molteplici specificità linguistiche coinvolte in fase laboratoriale e le relative metodologie messe in atto, vale a dire: sistema dei personaggi, montaggio e narrazione, colonna sonora, poetiche e tanto altro. Mi limiterò a richiamare uno dei concetti cardine in

Con gli occhi apertiLa didattica dell’audiovisivo per una

descolarizzazione dei saperi

Nicoletta Micheli

Page 12: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

34

«Col signor Bernard, le lezioni erano sempre interessanti,per la semplice ragione che lui amava appassionatamente

il proprio mestiere […] appagava una sete ancor più essenzialeper il ragazzo che per l’adulto, la sete della scoperta.

Certo, anche nelle altre classi insegnavano molte cose,ma un po’ come s’ingozzavano le oche.

Si presentava un cibo preconfezionato e si invitavanoi ragazzi ad inghiottirlo.

Nella classe del signor Bernard, per la prima volta in vita loro,sentivano, invece, di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione,

li si giudicava degni di scoprire il mondo…»(A. Camus, Il primo uomo)

Il Liceo Scipione Maffei di Verona è un modello scolastico che cerca di tenere i tempi del mondo ed è sensibile nel coniugare le riforme del Ministero, tenendo d’occhio la realtà e le aspirazioni dei suoi studenti. Il preside della scuola, il Prof. Francesco Butturini, lo

dirige da più di un ventennio. Fra qualche minuto lo incontrerò, in una giornata che dell’inverno presenta tutti i caratteri più severi. Devo confessare, da subito, che questa è, in assoluto, la mia prima intervista e che pur essendomi preparata alcune domande, continuo a sentirmi inadeguata per questo ruolo. Complice, questo maledetto arnese che mi servirà per registrare l’intervista e con il quale non intrattengo un rapporto così amichevole e disinvolto! Mentre ripenso e ripeto, tra me e me, le domande da rivolgere, dalla portineria della scuola qualcuno mi chiama e gentilmente mi riferisce che il Dirigente mi sta aspettando. Il mio tempo di attesa è terminato. La porta si apre. Varco la soglia della stanza dirigenziale e mi presento: «Buongiorno! Sono qui per Yod»:

«…Non uno di meno!»Colloquio con Francesco Butturini

di Paola Coppi

Page 13: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

35

Prof. Butturini, Lei è il dirigente del Liceo Ginnasio di Stato Scipione Maffei di Verona, che è stata scuola polo nazionale per Educazione alla Lettura, scuola polo regionale per Educazione alla Scrittura e, inoltre, che ha fatto parte delle 18 scuole d’eccellenza dell’ex dirClassica del Ministero della Pubblica Istruzione. Perché oggi uno studente dovrebbe scegliere un Liceo, rispetto al panorama del lavoro sempre più orientato alla tecnica, alla professionalità e all’esperienza. Come si conciliano, nella Sua scuola, teoria e prassi?

«Oggi il Liceo Maffei è scuola polo nazionale, non più per l’Educazione alla Lettura e nemmeno per l’Educazione alla scrittura, ma per il Primo Asse del Regolamento per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, che risponde alla «Strategia Lisbona 2000»: Linguaggi. Per questo coordino ottantacinque scuole di ogni ordine e grado in tutta Italia e, per un certo periodo abbiamo coordinato (sulla carta coordiniamo ancora) cinquantanove Licei classici con seminari nazionali. Ne ho già fatti sei per «Linguaggi» e sto predisponendo le basi del settimo seminario. Come dicevo, sono ottantacinque scuole, scelte dalle Direzioni Regionali e dalla Direzione Centrale, fra le scuole che fanno già ricerca e azione didattica. Nel nostro sito, www.liceomaffei.edu, si può trovare il nostro POF, e in particolare nelle Opzioni c’è n’è una, Liceo Classico della Comunicazione, che, per noi, vuol dire la riscoperta dei valori classici della contemporaneità con un occhio attento alla complessità del presente. Crediamo che i criteri fondamentali della ricerca umanistica, quella che si basa sulle lingue della classicità e sulla cultura della classicità, del greco e latino che sono culture mediterranee, abbiano tutti gli strumenti per i processi generali della metacognizione e non siano affatto in contrasto con gli sviluppi scientifici della conoscenza e della professionalità. Anzi, ne siano la logica premessa e contemporaneamente la conseguenza filosofica. Concordo appieno con quello che ha detto M. Cacciari nella trasmissione «Fuoriclasse» di RAI Educational dedicata alla nostra esperienza:

pensare ad una professionalità prima dei diciotto, diciannove anni è una idea bestiale, così l’ha definita Cacciari, e ha ragione! Prima dobbiamo educare la mente ad imparare ad imparare. Nel nostro liceo stiamo seguendo, da Maastricht, quindi dal ’92 in poi, i processi di educazione alla comunicazione e all’apprendimento attraverso una serie di esperienze, che erano incominciate anche prima, con un tentativo di un Liceo Classico ad indirizzo musicale, abbandonato perché il Ministero nel ‘91-92 e ‘92-93 disse di no, prima ancora – dal 1987 – con l’intervento del Piano Nazionale di Informatica, infine con questa esperienza della Comunicazione, per cui la classicità diviene strumento di comunicazione attraverso questo ambito disciplinare che è Linguaggi non Verbali e Multimediali. Nel giro di pochi anni questo liceo che aveva – quando sono arrivato ventiquattro anni fa – trentotto classi, progressivamente è arrivato ad averne sessantotto. Adesso vedremo, con i tagli dell’art. 64 della Finanziari,a come ci ridurremo…vedremo! Il liceo, però, è costantemente in crescita e non è mai stato in calo…c’è un calo fisiologico, è ovvio, e questo è dovuto al calo delle nascite, ma dal punto di vista delle iscrizioni siamo andati sempre molto, molto forti, proprio per questi motivi: il confronto diretto e immediato con ciò che è classico. Quando noi diciamo di una qualsiasi azione che sta bene, che è buona, che è valida, cosa diciamo? che è un classico! Per questo direi che il classico è il massimo della contemporaneità!».

Nel POF dell’anno scolastico 1999/2000, due anni dopo aver dato inizio alla sperimentazione del Progetto Logos, il motto di questa scuola si riassumeva in «rinnovare per conservare» come è nato il Progetto Logos e l’idea di un Liceo classico della Comunicazione? E cosa è cambiato da allora?

«L’idea nasce all’interno dello sviluppo di ricerca e azione didattica che in questa scuola è incominciata presto, in seno allo strumento di collegialità che si chiama

Comitato didattico. Il Collegio docenti dal 1993 si è diviso in dipartimenti, ha delegato molte delle sue funzioni ai dipartimenti e i dipartimenti a loro volta le hanno delegate al Comitato didattico. Il Comitato didattico è formato dai responsabili dipartimentali e, in più, dal mio Staff. Una ventina di persone che si riuniscono con una continuità notevole. Questo gruppo lavoro (è anche la redazione della rivista Quaderni Maffeiani che lei ha in mano) ha rapporti territoriali, locali e internazionali, rapporti con le maggiori università italiane, e una ricerca didattica attiva e fattiva che ha avuto di mira subito la comunicazione didattica. La scoperta elementare è che la comunicazione didattica è una comunicazione di massa: o io adopero tutta la strumentazione della comunicazione o sono destinato a non comunicare. Questa, che non si può neanche chiamare scoperta, questa «ovvietà» ha sollecitato molto in fretta i docenti ad adoperare la prima strumentazione fondamentale di un mondo classico che è il teatro e, quindi, a seguire, il cinema, la televisione, la musica, la danza e poi, naturalmente, l’accompagnamento digitale che è l’accompagnamento fondamentale oggi; senza una conoscenza digitale si fa un po’ fatica ad andare avanti nella comunicazione generale e quotidiana. Siamo andati avanti con uno studio di ricerca attento, per circa tre anni, precisamente dalla fine del ’92 al ’95 e così abbiamo presentato il primo progetto che si chiamava Liceo Classico delle Comunicazioni. Il progetto è stato trasformato, perché, chiamati a far parte di quelle che prima erano i diciotto licei italiani di eccellenza (divenuti in seguito ventidue), nel confronto con le altre scuole, abbiamo visto che era più efficace pensare a Comunicazione e non Comunicazioni: puntualizzare il principio epistemologico della Comunicazione per arrivare alle comunicazioni. Su questo argomento le consiglio di leggere questi Atti (Butturini 2008). che sono la raccolta dei primi cinque seminari sulla comunicazione didattica dove troverà un mio lungo intervento da

Page 14: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

38

per il bicentenario di questa scuola. Siamo riusciti, e continuiamo a riuscire, a coniugare ricerca, innovazione e sperimentazione perché facciamo la formazione in servizio dei docenti che è obbligatoria in questa scuola. La formazione in servizio fa sì che ogni inizio d’anno di programmazione – per noi l’anno inizia circa a maggio – il comitato didattico predispone le linee fondamentali, per i dipartimenti, dell’aggiornamento. Quest’anno sono circa mille ore di aggiornamento che vengono pagate come da contratto. Il collegio docenti le ha votate come obbligatorie e, quindi, sono obbligatorie. Non c’è scritto che è vietato. Ciò che non è vietato è lecito. Le ore di aggiornamento iniziano in maggio e proseguono in giugno luglio e riprendono a settembre ottobre novembre. I temi fondamentali vengono scelti di anno in anno sulla base delle necessità e della novità degli studenti che vengono a scuola, che cambiano con un cambio generazionale che è molto rapido. Diciamo che le generazione sono adesso neanche quinquennali, biennali, per cui il cambio è molto rapido e noi attraverso test d’ingresso, attraverso una serie di inchieste, di indagini, che facciamo con una certa regolarità, su quella scorta costruiamo la base fondamentale di ricerca-azione didattica e filosofica. Abbiamo fatto delle scelte ovviamente. Abbiamo scelto Emmanuel Lévinas, lo abbiamo scelto per tanti motivi, ma quello fondamentale è quella sua idea dell’incontro con l’Altro. Dai due libri fondamentali di Lévinas – dal suo percorso che inizia dal Esistenza all’Esistente del 47- ’48 – Totalità e Infinito e Altrimenti che essere, raccordato e confrontato con P. Ricoeur (ad es. di Sé come un altro), e prendendo lo spunto dall’origine di queste riflessioni che è la cura (Heidegger, Essere e Tempo), abbiamo avviato una ricerca che ci facesse scoprire costantemente la verità e il tema della responsabilità, come per Hans Jonas o come per la Hannah Arendt. Il discorso fondamentale è stato la scoperta di «altri», l’autrui di Lévinas. Dunque è soprattutto con questi due libri che abbiamo riflettuto per due anni. Ci siamo dati una

bibliografia di minima e di massima, ci siamo dati alcuni anni di tempo, perché questi libri bisogna leggerli con pazienza, e così li abbiamo letti in tanti, non io solo o qualcuno, ma in tanti. Letti e riletti con pazienza, riscoprendo il valore della ricerca ermeneutica, come base d’origine per una pedagogia che la smetta di pettinare i capelli delle bambole e che divenga invece il passaggio obbligato dell’incontro con l’altro vero, non fasullo. Letti anche con i nostri ragazzi, che sono differenti quasi di anno in anno. E’ la filosofia l’origine, o meglio l’ermeneutica».

Se volessimo concludere quest’intervista con un motto sulla scuola?

«Io direi che per la scuola deve valere assolutamente il principio fondamentale, che è il succo della nostra Costituzione, «non uno di meno» … questo mi interessa di più!!!»

Oggi, il cielo di Verona è plumbeo, coperto da nubi dense e gonfie di pioggia. È una giornata rigida, l’aria pungente e aggressiva. Nonostante il tempo impietoso, esco felice dal Maffei, attraversando il suo stupendo chiostro, ghirlandato di antiche colonne, segno di un’intramontabile bellezza e classica eleganza. La campanella della scuola suona, e con me gruppi di studenti si affrettano a riprendere la via di ritorno verso casa. Guardo i loro volti, ascolto i loro saluti, i telefonini che riprendono vita, i motorini che si accendono… in questi anni veronesi spesso ho vissuto, da insegnante, gli stessi momenti. Ma oggi mi sembrano differenti. Continuo a pensare alla densa conversazione con Butturini, a quel suo tono di voce sereno e paziente, alle sue risposte così pregnanti di senso e di acuta intelligenza, e a quell’ulteriore sua conclusione: «…non uno di meno!».

Intanto, attraverso la città, percorro via Santa Anastasia, l’animata piazza delle Erbe e la vicina piazza Dante, accompagnata dal peso dei libri, di cui il dirigente mi ha voluto generosamente far dono, mentre un timido raggio di sole si affaccia pallido, tra

le nubi fosche… chissà se questo sfumante raggio riuscirà oggi a colorare i tetti di Verona! Continuo a camminare, mentre nella mia mente s’impone ancora il pensiero e l’immagine di quel raggio di sole: ce la farà? Splenderà?

Una domanda che ancora oggi, mentre scrivo questo articolo, ripeto a me stessa declinandola al mondo della scuola, affinché possa esserci un domani migliore per i miei studenti, che sono ancora, e per fortuna, «adolescenti», che saprebbero riaffermare i principi dell’Umanesimo, attraverso la forza del pensiero e della ragione. Declino ad una società, ad una scuola altra che può essere per (e di) tutti e…non uno di meno!

Riferimenti bibliograficiButturini F. (a cura di). 2008. Didattica

della comunicazione didattica. Seminari residenziali nazionali di formazione in servizio. Verona-Roma: MIUR

Endnotes1 La prima edizione di Proscuola,

quella del 1984, si intitolava «Scuola ‘84», venne organizzata, come le altre cinque fino al 1989, presso l’ente Fiere di Verona. “Proscuola” oltre a presentarsi come una “fiera del libro scolastico e degli audiovisivi” divenne punto di riferimento per gli “aggiornamenti”, frequentati da migliaia di docenti e dirigenti da ogni parte d’Italia (17.000 certificazioni firmate per la sesta edizione), motivo di ricco confronto con la Fiera del Libro di Bologna, e spunto per la nascita del Salone del Libro di Torino. Cf. Butturini (2008 : 23).

Page 15: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

39

[…] La filosofia è scritta in questo grandissimo li-bro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua ne’ quali è scritto. Egli

è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è im-

possibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto […] (Galilei 1623: 232)

Per molti, tuttavia, la regina delle scienze resta una disciplina arida e noiosa, evoca-trice di cattivi ricordi maturati tra i banchi scuola, un linguaggio freddo e lontano dalla vita di

tutti i giorni alla pari dei suoi protagonisti, personaggi spesso dipinti inumani e con la testa tra le nu-vole, per quanto, Ian Steward affermi che: «il matematico è colui che vede la possibilità di fare matematica

quando gli altri non la vedono, alla pari di un uomo d’affari che vede l’opportunità di fare affari laddove gli altri non riescono a vederla» (Steward 2008) e malgrado Keith Devlin ribadisca che, «il linguaggio della matematica consente di rendere visibile l’invisibile» poiché: «[…] la matematica è la scienza degli schemi e delle strutture che si possono trovare ovunque si guardi, nell’universo fisico, nel mondo vivente, perfino nella nostra mente» (Devlin 2002: 3). Viviamo in un mondo in continua evoluzione e noi ci adeguiamo ad esso ignorando, molto spesso, che le teorie più avanzate della matematica trovano impiego in tutti i settori della scienza, della tecnolo-gia e dell’industria, settori che costituiscono il mondo che ci circonda, quel mondo, appunto, in costante evo-

luzione che cambia il nostro modo di vivere, di agire e di pensare. Perché diventa allora così difficile

parlare di matematica e soffermare l’attenzio-ne sulle sue potenzialità e sulla sua bellezza rinunciando spesso ad attrarre quelle menti

Tra codici e segreti

Gabriella Zammillo

Page 16: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

40

matematica | numeri primi

che seppur ambiziose, seppur dalla fervida passio-ne e curiosità intellettuale, continuano a vedere in lei la più ostica delle discipline? La matematica «è una serva padrona» recita il titolo di un libro che Edoardo Boncinelli e Umberto Bottazzini (Bon-cinelli-Bottazzini 2000) hanno voluto dare al loro dialogo su «fascino e potere della matematica», basti pensare infatti che: la teoria delle equazioni differenziali e il calcolo numerico sono impiegati nello studio degli ecosistemi e nella determinazio-ne di modelli dell’andamento di malattie endemi-che; la teoria dei nodi è lo strumento che permette di capire la struttura del DNA; i processi stocasti-ci e la ricerca operativa trovano applicazione nel campo dell’economia e della finanza e poi ancora, la teoria dei grafi torna utile nella descrizione di algoritmi; la logica e l’algebra nello sviluppo di lin-guaggi di programmazione e basi di dati; il calcolo combinatorio e la teoria dei numeri nello studio dei codici e della crittografia, pratica quest’ultima, entrata oggi nella vita di tutti i giorni grazie a ban-comat, pay-tv, acquisti in internet, posta elettroni-ca e nella quale riponiamo tutta la nostra fiducia in cambio di duratura tutela della nostra riservatezza. Poiché «secondo un insegnamento rabbinico», ricorda Giovanni Scarafile, «le parole […] sono […] portatrici di un messaggio intrinseco»1 e John Chadwick osserva che «il desiderio di svelare segre-ti è profondamente radicato nella natura umana» tant’è che «la promessa di partecipare a conoscenze negate ad altri eccita la mente anche meno curio-sa» (Chadwick 1987: 1) sarà proprio attraverso la crittografia e il suo breve excursus storico che avrà inizio la nostra avventura, esplorando una piccola porzione del vasto, meraviglioso e creativo mondo della matematica.

Qualcuno ha la fortuna di trovare un lavoro che consiste nella soluzione di misteri, ma la mag-gior parte di noi è spinta a soddisfare questo de-siderio risolvendo enigmi ideati per divertimento. Romanzi polizieschi e rompicapi sono rivolti alla maggioranza; la soluzione di codici segreti può es-

sere però l’occupazione di pochi (Ibid.).

Cos’è la crittografia?La crittografia (dal greco cryptos: nascosto) è

quell’arte o scienza che fornisce gli strumenti adat-ti a mantenere segrete tutte quelle informazioni che non si vogliono divulgare pubblicamente in maniera tale che la possibilità di accedervi sia data solo ad uno o ad un ristretto numero di persone

\

FIVESTEPSWITH

Perché è così difficile far apprezzare la matematica tra i banchi di scuo-la?

«Purtroppo quasi niente di ciò che si fa a scuola viene apprezzato. Sarebbe trop-po lungo analizzarne le cause, ma direi che questo è un dato sperimentale. Per quanto riguarda in particolare poi la matematica, è necessario ammettere che è più difficile di altre materie. Il nostro cervello non è portato al ragionamento lineare, consequenziale e quindi logico, e farlo funzionare in questa maniera rappresenta una forzatura, utile se non necessaria, ma sempre una forzatura. Occorre quindi smettere di dire che la matematica è facile, ammetterne la difficoltà e trovare la maniera migliore per farla … digerire. Con modestia e apertura mentale».

Lei è autore di numerosi saggi tra i quali: La serva padrona scritto con Umberto Bottazzini. Qual è il suo rapporto con la Matematica?

«Fino al Liceo la matematica è stata per me facilissima. L’incanto si è rotto all’Uni-versità. Evidentemente non ero fatto per il pensiero troppo astratto. Anche oggi io ra-giono da fisico, non da matematico, e mi trovo spesso a disagio al cospetto del modo di ragionare di un matematico, di solito spiccatamente platonico e senza connessione con la “sporca realtà”. Come per tutte le cose di questo mondo, un po’ di matematica fa bene, troppa fa male».

Che posto occupa, per lei, la Matematica nella Cultura?«La matematica ha avuto ed ha un posto enorme nella storia del pensiero e nella

cultura. Per prima cosa porta la fiaccola della logica e della imparzialità più di qualsiasi altra disciplina. Poi è l’unica “scienza esatta”, nonostante i luoghi comuni. Le scienze sperimentali non sono esatte, bensì intrinsecamente approssimate. Per molti poi la matematica si identifica con la verità».

Come Francis Crick, Lei è un fisico passato alla biologia. È noto che le conoscenze matematiche di Crick ebbero un ruolo fondamentale nella sco-perta della struttura del DNA, quanto è stata determinante la padronanza del-le tecniche matematiche nel suo lavoro di ricerca.

«Dubito che Crick si sia avvalso della matematica per decifrare la struttura del DNA, la sua impresa scientifica maggiore. La sua mente era molto fisica e sperimen-tale. La forza sua (e di Watson) è stata la decisione di modellizzare materialmente, con cartone e filo di ferro, la successione dei nucleotidi lungo il filamento di DNA. Gli altri non l’hanno fatto e hanno perso tempo. Nella mia carriera di biologo molecolare la ma-tematica non mi è servita praticamente a niente, almeno per ciò di cui mi sono potuto rendere conto. Certo non posso escludere che la conoscenza della matematica possa aver lavorato sotto sotto per indirizzarmi la mente. Quello in cui, invece, la matematica mi è servita molto, e palesemente, è stato nello scrivere libri, essenzialmente divulgati-vi. La mia prosa ne ha risentito molto, qualcuno dice anche troppo: definizioni, teoremi, conseguenze e corollari, con frasi martellanti e parzialmente ripetitive. La prosa di uno scienziato tende forse sempre allo stile di una trattazione matematica».

In L’anima della tecnica (2006), Lei esamina l’evoluzione del rapporto tra l’uomo e la tecnologia. Alan Turing, nel 1950 scrisse un articolo dal titolo Computing machinery and intelligence pubblicato sulla rivista «Mind» in cui descriveva quello che sarebbe divenuto noto come il Test di Turing. L´articolo iniziava così: «Mi propongo di considera-re la domanda: le macchine possono pensare?... » è così assurdo chiederselo oggi?

«È una domanda alla quale non possiamo ancora rispon-dere, non fosse altro perché non sappiamo … che cosa vuole dire pensare. La soluzione operativa di Turing è stata ed è co-munque geniale. Molti non l’hanno capito e non lo capiscono neppure oggi. Non c’è in giro la mentalità delle risposte basate su una procedura, purtroppo. A volte neppure nella scienza».

EDOARDO BONCINELLI | L’ANIMA DELLA TECNICA

Page 17: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

41

crittografia | comunicazione

autorizzate che «sappiano come farlo». L’opera-zione tramite la quale si nascondono le informa-zioni, detta CIFRATURA o CRITTAZIONE, è effettuata tramite un apposito algoritmo denomi-nato CIFRARIO mentre il messaggio da cifrare è noto come TESTO in CHIARO (plaintext); la crittazione sfrutta come mezzo fondamentale una chiave, CHIAVE del CIFRARIO, che con-sente di convertire il “testo in chiaro” in testo ci-frato (ciphertext). Tale operazione di conversione è detta DECRITTAZIONE mentre l’ambito nel quale sono effettuate le operazioni di crittazione e decrittazione è definito CRITTOSISTEMA. La scienza che permette di analizzare e rivelare ciò che la crittografia tenta di nascondere è nota sotto il nome di CRITTOANALISI, mentre si definisce CRITTOLOGIA (dal greco «studio di ciò che è nascosto») l’insieme di crittografia e crittoanalisi.

Uno sguardo al passatoStoricamente l’uso della crittografia ha trova-

to terreno fertile soprattutto in quattro categorie di persone: i militari, i diplomatici, gli amanti e i diaristi, ma soprattutto i militari hanno giocato il ruolo più importante applicandola a scopi bel-lici e rendendola cosi un’arma determinante nelle mani di coloro che sapevano come usarla. Quella dei codici è una storia antica che segna la mille-naria battaglia tra inventori e solutori di scritture segrete. Da un lato gli inventori con l’ideazione di codici sempre più resistenti, dall’altro i solutori, con l’elaborazione di metodi sempre più sofisticati per indebolirli. Le più antiche notizie sono proba-bilmente quelle sulla scitala lacedemonica data da Plutarco, come in uso dai tempi di Licurgo (IX sec. a.C.) ma più sicuramente usata ai tempi di Li-sandro (400 a.C. circa). Consisteva in un bastone su cui si avvolgeva ad elica un nastro di cuoio; si scriveva sul nastro per colonne parallele all’asse del bastone e, di seguito, lettera dopo lettera, il testo segreto. Tolto il nastro dal bastone, il testo risulta-va trasposto in modo regolare, ma sufficiente per evitare la lettura senza un secondo bastone uguale al primo. Tra il 360 e il 390 a.C. fu compilato da Enea il tattico, generale della lega arcaica, il primo trattato di cifre il cui XXI capitolo era appunto dedicato ai messaggi segreti. Il sistema consisteva in un disco, lungo la circonferenza del quale, si contavano 24 fori corrispondenti ciascuno ad una lettera dell’alfabeto. Partendo dal centro, un filo attraversava i fori in corrispondenza delle lettere del testo e terminato il messaggio, lo si poteva de-

cifrare leggendo al contrario le lettere indicate dal filo. In questo stesso periodo furono ideati codici cifrati indiani ed ebraici, utilizzati soprattutto per camuffare nomi propri.

ATBASH è per esempio il metodo usato da-gli ebrei. Nella Bibbia, precisamente nel Libro di Geremia (25, 26) e successivo (51, 41), si ricorre ad un semplice codice monoalfabetico per cifrare la parola Babele in Sesach. Si tratta di un metodo di sostituzione abbastanza semplice nel quale, alle lettere dell’alfabeto scritto in ordine crescente si fa-ceva corrispondere le lettere dell’alfabeto scritte in ordine decrescente, come in tabella:

ecco allora che la prima lettera dell’alfabeto ebraico (Aleph) viene cifrata con l’ultima (Taw), la seconda (Beth) viene cifrata con la penultima (Shin) e cosi via… da cui il nome ATBASH. Tra i cifrari di sostituzione, piuttosto noto è quello di Cesare. Svetonio, nella Vita dei dodici Cesari (ope-ra del II secolo d.C.), racconta che Giulio Cesare ricorreva ad un codice, per le sue corrispondenze riservate, nel quale la lettera in chiaro era sostituita dalla lettera di tre posti più avanti nell’alfabeto, per esempio: la lettera A con D, B con E e così via, come è facile osservare di seguito:

In generale, è detto codice di Cesare, un codi-ce nel quale la lettera del messaggio in chiaro viene spostata di un numero N di posti. Ma ritorniamo indietro nel tempo.Lo storico greco Polibio (∼ 206 - 124 a.C.) nel suo Le Storie (libro X, 45-46) descrive il più antico esempio di codice poligrafico attribuito a Cleoxe-no e Democleito, suoi contemporanei. La tecnica consisteva nel legare le lettere a una coppia di nu-meri che ne individuavano la posizione su di una scacchiera 5x5 (fig.1). Le coppie di numeri erano poi comunicate nella notte attraverso delle torce. La parola Yod, solo a titolo di esempio, risultereb-be criptata come segue:

Yod = (5,4) (3,5) (1,4)

1 2 3 4 5

1

2

3

4

5

a b c d e

f g h i j

k,q l m n o

p r s t u

v w x y z

fig.1Poiché il nostro alfabeto, a differenza di quel-

lo greco è costituito da 26 lettere anziché 24, la casella (3,1) individua entrambe le lettere, k e q, perché foneticamente più simili. A Polibio, in re-altà, avanzava un carattere che inseriva all’inizio e fine del messaggio. La scacchiera di Polibio, così chiamata, ebbe notevole successo nella storia della crittografia tant’è che costituì la base di altri co-dici di cifratura come il PLAYFAIR CIPHER (o Cifrario Campale Germanico) ideato dal fisico Sir Charles Wheastone (1802 – 1875) e usato duran-te la prima guerra mondiale. Prerogativa del siste-ma crittografico dell’imperatore Romano Augusto era invece la sostituzione della chiave con un’altra parola o frase. La chiave e il testo avevano un cor-rispettivo numerico; il testo cifrato risultava così una sfilza di numeri ottenuti come somma tra il testo e la chiave, di cui diamo un esempio:

Testo: DIALOGO TRA SAPERIChiave: COMUNICAZIONE

testo in chiaro: D I A L O G O T R A S A P E R Ichiave: C O M U N I C A Z I O N E C O M

Quando la somma «valore cifrato» risultava essere maggiore di 21, si ricominciava dalla lettera A, ciò equivale a fare la somma modulo 21. Per la decifrazione era sufficiente sottrarre, naturalmente ricorrere a parole chiave generate da lettere dispo-ste casualmente piuttosto che da parole di senso compiuto, rendeva il messaggio più complicato da decifrare. Bisognerà arrivare al XV sec. d.C. per vedere nascere la crittografia moderna con Leon Battista Alberti. Negli anni immediatamente pre-cedenti, entrarono in voga le cosiddette nomen-clature, cioè liste di parole chiave, del gergo di-

Page 18: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

46

L’implosione della modernità che, dopo secoli di esercizio fiducioso della ragione e di apertura ottimistica verso un futuro carico di speranze e di salvezza, ha mostrato di non essere in grado di orientare le meravigliose e progressive sorti dell’umanità, ha costretto a ripensare con maggiore senso di responsabilità e magari assumendo nuovi parametri di orientamento la nostra storia, che sembra sempre più prepotentemente slargarsi fino a divenire storia globale (senza essere storia universale alla maniera hegeliana!), oltre ogni confine fisico, mentale o di potere politico.

Le speranze di palingenesi riposte nell’economia globale, nelle carte dei diritti, nella normazione capillare della vita umana dal nascere al morire, nella pretesa di far emergere dalla natura più persuasive e vincolanti regole per una buona vita, queste speranze, dico, hanno mostrato di avere il fiato corto, se non proprio un esito fallimentare. I protocolli sono disattesi, le moratorie sempre più opzionali, i patti non più vincolanti, le costituzioni carte da stracciare a seconda del prevalere di certi interessi su altri, il normativismo un debole argine, a volte proprio inconsistente, di fronte al dilagare della cultura della frode e della sopraffazione.

Di fronte a questo quadro, così complesso, forse, conviene sperimentare qualche nuova via, o meglio riscoprire qualche strada già percorsa, ma troppo frettolosamente abbandonata nel miraggio di soluzioni più efficaci ed esclusive. Naturalmente non vogliamo minimamente sottovalutare o trascurare di considerare il cammino che è stato compiuto. Il cammino delle democrazie, inevitabilmente fondate su regole condivise, su forme contrattualistiche di garanzia. Non dimentichiamo il cammino laico delle democrazie repubblicane che hanno a loro fondamento gli Hobbes, i Rousseau e i Kant, la Rivoluzione Francese e le rivoluzioni del ‘900, con gli esiti esaltanti e/o deludenti che sono propri di ogni intrapresa umana.

Ma in questo camminare della storia, che a un certo punto è sembrato uno scorrere veloce verso un futuro senza coni d’ombra, in cui finalmente tutte le questioni sarebbero giunte a soluzione, si è consumata una grave dimenticanza, si è sottovalutata la funzione della norma morale, che ha origini ben differenti dalla norma giuridica e dal diritto, o almeno la si è rinchiusa entro i confini privati delle opzioni della coscienza individuale, trascurandone a piè pari la valenza sociale e collettiva, politica, nonché il suo potenziale s-confinato.

Anche quando la modernità fa appello alla coscienza, preferisce sottolineare le potenzialità cognitive, il bagaglio trascendentale, la granitica struttura razionale, la base di una metafisica della ragione in grado di acclarare l’universo umano e di condurlo senza incertezze verso il suo destino. D’altra parte la perentorietà del “cogito ergo sum” di R. Descartes dice quanto la legge morale possa, kantianamente rimanere rinchiusa “dentro di noi”, senza alcun bisogno di rischiare nel confronto con l’altro, con l’esterno, oltre ogni confine. Noi figli di

Per un etica s-confinata

Mario Signore

Page 19: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

47

Mario Signore nel suo studio

Page 20: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

50

responsabilità morale | solidarietà

politica, sempre meno, orientata verso la realizzazione del bene comune.

Di fronte a questo quadro potrebbe apparire assolutamente impensabile dal punto di vista razionale (se l’unica razionalità rimane quella economica) affrontare in modo convincente il tema della solidarietà che spinge al di là del confine. Però non possiamo non farci carico, come persone responsabili, oltre che credenti nel Vangelo, di una considerazione ormai ineludibile. In un mondo che è sì villaggio planetario, ma multicentrico, in questo mondo l’assenza del valore della solidarietà e di scelte politiche ispirate ad una solidarietà reale, sia nelle città che nel rapporto tra Occidente, Oriente, non potrà che generare costi suppletivi e conflitti, una situazione, cioè, assolutamente non funzionale alle stesse ragioni di quel mercato, di quella produzione, di quel consumo che vorrebbero invece proteggersi, o pretenderebbero di proteggersi, attraverso politiche protezionistiche miopi e cieche.

Pur ponendoci nella prospettiva fondamentale, della profezia apocalittica, non rinunciamo certo al realismo della ragionevolezza. Non sottovalutiamo cioè, il calcolo delle utilità, anche se non è la nostra prospettiva etica.

L’opzione per un’etica s-confinata, infatti, non può non aprire alla vera e propria compassione, intesa non come pura commozione (fatto sentimentale!), ma come forte volontà di assumere dentro di noi il volto dell’altro che soffre: questo vuol dire compatire. Non possiamo veramente compatire se non ci impegniamo a comprendere la passione dell’altro. Entra in gioco una sorta di amor intellectualis, sotto forma dell’intelligenza pratica della sofferenza, che coinvolge il tema del rapporto con l’altro. Non solo l’uomo di fede, col suo riferimento al Vangelo, ma anche l’uomo in genere (anche il filosofo), nella sua miseria, può fondare una ragione in cui l’altro deve interessarci. Potremmo qui aprire un capitolo sulla domanda cruciale: chi è l’altro per me? Il fratello, l’amico, il vicino, il credente nella mia stessa fede, il lontano abitante di mondi e culture diversi, il postero, il non nato

ancora. Diciamo solo che il vero altro è ciò che non è a mia disposizione, non è nella mia disponibilità, e questo altro io me lo trovo dentro (anche quando lo odio!). De soi même comme un autre (P. Ricouer). Questa è la fondazione trascendentale di ogni idea di solidarietà: il mio socius essenziale, cioè me stesso, è un altro. Io non sono un io semplice, un io individuo. In me c’è una società di individui che hanno bisogno l’uno dell’altro, che si dividono l’uno con l’altro, fanno la guerra e la pace l’uno con l’altro. Io non posso ignorare l’altro, perché io mi sono straniero. Io posso riconoscere lo straniero in quanto tale perché io lo conosco in me; non potrei predicarlo fuori di me, riconoscerlo fuori di me. Questo rapporto di alterità con un altro fuori di me è possibile trascendentalmente (come condizione di possibilità), perché l’altro è il mio socio essenziale, colui dal quale non posso distaccarmi, me stesso.

Questa è la rivoluzione antropologica necessaria per considerare la solidarietà al di fuori del pragmatismo, tutt’altro che disprezzabile, in verità, se praticato intelligentemente: ammettere che la condizione del nostro essere noi stessi è avere l’altro in noi. Non un altro di comodo a nostra disposizione, non una convivenza pacificata, garantita magari sotto la forma di un comunitarismo tribale, ma proprio quell’altro straniero, colui col quale possiamo essere in pace o in conflitto, perché è davvero autonomo e possiede sue autonome ragioni. Il rapporto con lui è arrischiato, non è mai equivalente. Tale rapporto ha sempre un aspetto di gratuità, di dono. Mai possiamo essere garantiti che ciò che gli diamo possa ritornare, ci possa essere restituito! Come ci rammenta il Vangelo (Cf. Cacciari – Martini 1995: 21-22).

E vorremmo concludere con una considerazione del Cardinale C. M. Martini, ascoltata in un dibattito sulla solidarietà, in dialogo con M. Cacciari: «solo se le trame complesse e articolate delle strutture economico-giuridiche sociali e politiche di un paese saranno innervate dal riconoscimento delle solidarietà possibili,

quindi doverosamente praticabili, solo allora la solidarietà, come atteggiamento morale, espressione comune e condivisa dell’attuazione per l’altro in ogni suo apparire, potrà dispiegare al massimo grado tutte le sue potenzialità» (Cacciari – Martini 1995: 13).

Ma, paradossalmente, questa prospettiva diviene praticabile, com’è nell’auspicio di Carlo Maria Martini, se saremo stati in grado di rompere il vincolo di un riduttivismo moralistico che pretenda di far tutt’uno con il principio di identità e di accogliere la sfida di un’etica senza confine, in cui il concetto di limite venga interpretato come condizione di possibilità di quell’oltre che l’esperienza della globalizzazione sta prepotentemente portandoci ad accogliere, anche come dato culturale, al di là dei suoi contenuti economico-finanziari. Anche questo evento, per lo più interpretato e vissuto con i parametri che l’hanno originato, ci costringe ad essere sempre più aperti e orientati alle domande, queste sì illimitate, che alla nostra civiltà vengono poste, con impellenza, dall’altro che preme oltre il limite.

Riferimenti bibliograficiBauman, Z.1996. Le sfide dell’etica.

Milano: FeltrinelliBauman, Z. 2002. La società

individualizzata. Bologna: il Mulino.Cacciari, M., C.M. Martini. 1995.

Dialogo sulla solidarietà. Roma: Ed. del lavoro

Nel 2006 Mario Signore ha pubblicato Lo sguardo della responsabilità. Politica, economia e tecnica per un antropocentrismo relazionale (Roma, Edizioni Studium)

Page 21: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

51

PremessaPer pensare il margine occorre ‘metterlo al centro’ dell’attenzione riflessiva e dell’anali-

si. L’obiettivo di queste note è appunto di cogliere la struttura della marginalità in costante connessione dialettica, o, quantomeno dinamica, con quella di centralità. L’analisi feno-menologica di cui ci serviremo è, tuttavia, in vista di una possibile applicazione antropo-logica, come indicato dal titolo di queste considerazioni. Detto in forma interrogativa: in che misura l’uomo è centro o semplicemente margine? Pensarlo in una prospettiva piutto-sto che nell’altra, muta radicalmente il paradima di approccio. Tentiamo una breve analisi fenomenologica del ‘dato’ margine, e proviamo a ‘vedere’ qual è la modalità specifica del darsi di questo dato.

Proviamo a iniziare con un’affermazione paradossale: il margine non è un dato origi-nario, la sua visibilità dipende da ciò che incornicia e che costituisce lo spazio centrale. Il centro rispetto a cui è margine. E tuttavia, come ci ha insegnato la fenomenologia dell’at-tenzione, possiamo concentrarci sull’assenza che costituisce il margine. Infatti, il margine rimanda a un vuoto, al nulla, che trattiene l’essere, il pieno. Se pensiamo a una pagina, o al foglio su cui sto scrivendo, il margine è l’al di là del testo, l’indeterminato determi-nante, potenzialmente l’infinito entro cui si inscrive la determinazione del testo. A partire da queste brevi annotazioni si comprende facilmente che il nostro discorso può aprirsi a riflessioni che lasciano trasparire dimensioni di significato che travalicano totalmente le possibilità di qualsiasi determinazione concettuale. La riflessione su centro e margine può essere la ripresa della grande lezione kantiana sul giudizio determinante e su quello

Emilio Baccarini

Pensare il margineAppunti per una

fenomenologia della soggettività

Page 22: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

56

Nelle pieghe della verità

Intervista a Gianrico Carofiglio di Paola Moscardino

Page 23: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

57

Bari, Lungomare Nazario Sauro | febbraio 2009

Page 24: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

Marcelo Dascal

Il linguaggio come

tecnologia cognitiva

Page 25: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

Marcelo Dascal

Il linguaggio come

tecnologia cognitiva Marcelo Dascal ha insegnato e condotto ricerche nelle

maggiori università d’Europa, America, Australia ed Israele, socio del Netherlands Institute of Advanced Studies e dell’Institute of Advanced Studies presso la Hebrew University, Leibniz Professor for Advanced Interdisciplinary Studies alla Leipzig University. Marcelo Dascal ha inoltre scritto, editato e co-editato circa 25 libri e più di 200 articoli, alcuni dei quali disponibili nel suo sito della Tel Aviv University. È fondatore e direttore della rivista Pragmatics & Cognition e di diverse collane.

Page 26: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

64

Sin da quando Descartes scelse l’abilità di usare appropriatamente il linguaggio naturale in ogni circostanza data come prova che gli uomini – a

differenza di animali e macchine – hanno menti, un’idea trasformata da Turing nel suo ben noto test per determina-re se le macchine hanno intelligenza, la stretta correlazione tra linguaggio e cognizione è stata largamente riconosciu-ta, per quanto espressa in modi piuttosto differenti.

Recenti studi sullo sviluppo del linguaggio naturale, come pure i tentativi di creare «agenti conversazionali in-corporati» che combinano lo sviluppo del linguaggio con i suoi naturali correlati corporei (gesti, espressione facciale e direzione oculare), nella speranza di sviluppare interfacce uomo-computer basate sul linguaggio naturale – piuttosto che formale – hanno nuovamente portato alla ribalta il problema di fino a quanto si può sperare che le macchine siano in grado di conoscere a fondo le abilità cognitive ri-chieste per l’uso del linguaggio. In questo saggio, affronto questa problematica da un’angolazione differente, inda-gando se il linguaggio naturale possa essere visto come una «tecnologia cognitiva» impiegata dagli uomini come stru-mento per l’adempimento di determinati compiti cogni-tivi. Propongo una definizione di «tecnologia cognitiva» che includa dispositivi cognitivi sia esterni (o «prostetici») che interni.

Può anche essere enunciato un certo numero di para-metri nei cui termini una tipologia di tecnologia cognitiva di entrambi i tipi si possa tratteggiare. Si è discusso inoltre che interrogarsi sul ruolo del linguaggio nella cognizione ci porta a riformulare il dibattito tradizionale riguardo la relazione tra linguaggio e pensiero, dall’esame di come ef-fettivamente aspetti particolari del linguaggio influenzano la cognizione – come un ambiente, una risorsa o uno stru-mento. Questa prospettiva ci aiuta ad apportare insieme i contributi della «svolta linguistica» filosofica in epistemo-logia e nella recente «epistemologia della tecnologia cogni-tiva». Inoltre, questo permette una discussione più precisa e fruttuosa della domanda se, e fino a che punto, quali tecnologie cognitive basate sul linguaggio che naturalmente usiamo, possano essere emulate dai tipi di tecnologie attua-li o disponibili nel prossimo futuro.

Marcelo Dascal

1. Introduzione*Nel periodo attuale viviamo circondati

da oggetti e dispositivi che abbiamo creato, in grado di compiere compiti complessi, la cui esecuzione ci richiede molta concentrazione e sforzo mentale. Si può dire che siamo stati in grado di trasferire a questi oggetti e dispositivi alcune delle capacità che erano – fino a non molto tempo fa – considerate tipiche ed esclu-sive dell’intelletto umano.

In questo senso, abbiamo creato «artefat-ti cognitivi» (Hutchins 1999) o, più general-mente, «tecnologie cognitive» (Gorayska & Mey 1996). Queste invenzioni salvano una porzione considerevole del nostro potere intel-lettuale, rendendolo libero per le prestazione di maggiori compiti cognitivi – quelli per i quali non lo siamo ancora – e, così come credono alcuni (per esempio, Dreyfus 1971, 1992), non lo saremo mai – in grado di inventare un surrogato meccanico, computazionale o di qua-lunque tipo esso sia.

Dietro ogni tecnologia creata dal genere umano – sia essa la ruota, l’agricoltura o il telefono cellulare – c’è, sicuramente, un no-tevole sforzo cognitivo. Ma ciò non ne fa, di per sé, una tecnologia cognitiva nel senso in cui suggerisco di usare questa espressione. Quello che ho in mente sono gli usi principali di una tecnologia, piuttosto che il processo della sua creazione o dei suoi effetti. In primo luogo, la ruota serve per il trasporto; l’agricoltura per la produzione di cibo; il telefono cellulare per la comunicazione. In secondo luogo, queste tecnologie possono rivelarsi utili per la cogni-zione: il trasporto ci permette di partecipare alle conferenze scientifiche dove ci aspettiamo di apprendere qualcosa; il nutrimento per noi stessi ci dona anche energia mentale; il tele-fono cellulare può servire occasionalmente per comunicare contenuti cognitivi. Le tecnologie cognitive, tuttavia, sono sia quelle progettate per usi cognitivi che quelle ad essi destinate. Esse possono ovviamente conservare i loro usi originali ed avere degli effetti non cognitivi come ad esempio la produzione di compiti, l’ingaggio della guerra o dei viaggi spaziali.

Per ‘tecnologie cognitive’ (TC), intendo, perciò, ogni mezzo sistematico – materiale o mentale – creato dagli uomini che è usato per consuetudine e in modo significativo per il compimento di obiettivi cognitivi2. Per ‘obietti-

vi cognitivi’, intendo sia stati mentali di natura cognitiva (per esempio, conoscenza, opinione, credenza, intenzione, aspettativa, decisione, piano di azione) oppure processi cognitivi (per esempio, percezione, memorizzazione, concet-tualizzazione, classificazione, apprendimento, anticipazione, formulazione di ipotesi, dimo-strazione, deliberazione, valutazione, critica, persuasione, scoperta) che portano agli stati cognitivi o aiutano a raggiungerli3.

I linguaggi naturali (LN), contrariamente ai linguaggi formali creati per scopi specifici,

possono essere difficilmente considerati – in quanto tali – come ‘artefatti’ prototipici, poi-ché non sono stati ‘progettati’ appositamente. Eppure essi si sono evoluti – geneticamente e culturalmente – in vista di determinati bisogni umani, e alcune delle loro caratteristiche po-trebbero essere state adattate (deliberatamente o meno) in modo tale da soddisfare esigenze differenti rispetto a quei bisogni resi, dallo propria impellenza, responsabili in un primo tempo della nascita di quegli stessi artefatti.

Nella misura in cui tali bisogni sono ‘co-

linguaggio

Page 27: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

65

Sin da quando Descartes scelse l’abilità di usare appropriatamente il linguaggio naturale in ogni circostanza data come prova che gli uomini – a

differenza di animali e macchine – hanno menti, un’idea trasformata da Turing nel suo ben noto test per determina-re se le macchine hanno intelligenza, la stretta correlazione tra linguaggio e cognizione è stata largamente riconosciu-ta, per quanto espressa in modi piuttosto differenti.

Recenti studi sullo sviluppo del linguaggio naturale, come pure i tentativi di creare «agenti conversazionali in-corporati» che combinano lo sviluppo del linguaggio con i suoi naturali correlati corporei (gesti, espressione facciale e direzione oculare), nella speranza di sviluppare interfacce uomo-computer basate sul linguaggio naturale – piuttosto che formale – hanno nuovamente portato alla ribalta il problema di fino a quanto si può sperare che le macchine siano in grado di conoscere a fondo le abilità cognitive ri-chieste per l’uso del linguaggio. In questo saggio, affronto questa problematica da un’angolazione differente, inda-gando se il linguaggio naturale possa essere visto come una «tecnologia cognitiva» impiegata dagli uomini come stru-mento per l’adempimento di determinati compiti cogni-tivi. Propongo una definizione di «tecnologia cognitiva» che includa dispositivi cognitivi sia esterni (o «prostetici») che interni.

Può anche essere enunciato un certo numero di para-metri nei cui termini una tipologia di tecnologia cognitiva di entrambi i tipi si possa tratteggiare. Si è discusso inoltre che interrogarsi sul ruolo del linguaggio nella cognizione ci porta a riformulare il dibattito tradizionale riguardo la relazione tra linguaggio e pensiero, dall’esame di come ef-fettivamente aspetti particolari del linguaggio influenzano la cognizione – come un ambiente, una risorsa o uno stru-mento. Questa prospettiva ci aiuta ad apportare insieme i contributi della «svolta linguistica» filosofica in epistemo-logia e nella recente «epistemologia della tecnologia cogni-tiva». Inoltre, questo permette una discussione più precisa e fruttuosa della domanda se, e fino a che punto, quali tecnologie cognitive basate sul linguaggio che naturalmente usiamo, possano essere emulate dai tipi di tecnologie attua-li o disponibili nel prossimo futuro.

Marcelo Dascal

gnitivi’, mi sembra appropriato considerare le proprietà corrispondenti dei linguaggi naturali e il loro uso come ‘tecnologie cognitive’.

Ricercatori e sviluppatori in molti settori della tecnologia, si sono sempre più interessati ai linguaggi naturali. In un annuncio pubblicato sul Time pochi anni fa, l’azienda Daimler-Benz chiede: «Come lavoreranno insieme gli uomini e le macchine nel futuro?», e replica: «Con la lingua parlata». L’annuncio rivela che uno dei settori dell’azienda «sta continuamente ricer-cando e sviluppando nuovi sofisticati sistemi

basati sulla parola», che daranno vita alla pro-fezia risonante di biblico: «L’Uomo parlerà con la Macchina e la Macchina risponderà – per il beneficio dell’Uomo». La tecnologia basata sul linguaggio occupa una posizione centrale nel progetto multimilionario «Oxygen» del MIT, che è annunciato come la prossima rivoluzione nella tecnologia informatica – comparabile a quelle realizzate dall’introduzione del comput-er e di internet. Oxygen «indirizzerà il bisogno insito delle persone di comunicare spontanea-mente: non siamo nati con attacchi per tastiera

e mouse bensì con bocche, orecchie e occhi. Nell’Oxygen, la comprensione del linguag-gio è incorporata – e tutte le componenti del sistema e le applicazioni useranno il linguag-gio» (Dertouzos 1999: 39).

L’intenso interesse attuale per le tecnolo-gie basate sul LN, tuttavia, è quasi interamente concentrato su una delle sue funzioni – la co-municazione uomo-macchina. Così, malgrado la sua posizione centrale nel sistema Oxygen, i progettisti sembrano voler limitare il LN al suo ruolo comunicativo nell’interfaccia uomo-computer4. Ad esempio, il sistema è program-mato per essere in grado di soddisfare il «bisog-no delle persone di trovare informazioni utili» riuscendo a capire e rispondere adeguatamente ad un utente il quale dice semplicemente: «Tro-vami quell’importante documento rosso che è arrivato un mese fa» (Dertouzos 1999: 39). Ciò sarebbe senza dubbio una grande conquista co-municativa, poiché si richiederebbero macchi-ne con una sintassi e semantica avanzate, così come l’abilità di elaborazione pragmatica. Ma non è meno importante comprendere quanto sia indispensabile, per soddisfare il «bisogno cognitivo di trovare informazioni utili», usare pienamente il potenziale sintattico, semantico e pragmatico del LN – ciò che infatti fanno gli uomini per cogliere dati utili. Per le sue dirette dichiarazioni, l’annuncio della Daimler-Benz sembra si stia avvicinando alla realizzazione del potenziale cognitivo del LN: «Il linguaggio è l’immagine e l’equivalente del pensiero». Tut-tavia, la ricerca segnala che è prevalentemente interessata al problema dell’interfaccia: «E le macchine capiranno le parole e risponderan-no. Loro salderanno, avviteranno, o dipinger-anno, o scriveranno – capiranno anche lingue differenti».

Una tale messa a fuoco sull’uso della lingua parlata come il modo predominante più pros-simo all’interfaccia uomo-macchina, orienta la ricerca verso importanti problemi come il mod-ello di riconoscimento uditivo e la produzione vocale automatizzata, l’identificazione di even-tuali fonti di incomprensione, l’eliminazione di impedimenti artificiali nella comunicazione (naturalezza), spontaneità (senza bisogno di un apprendimento particolare), comodità (facilità nell’utilizzo), ubiquità (uso diffuso di disposi-tivi in miniatura, con minimi fabbisogni ener-getici, linguistici, etc.), sicurezza (attraverso il

risorsa cognitiva

Giovanni Scarafile e Marcelo Dascal a Neve Tzedek, Tel Aviv | dicembre 2008

Page 28: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

76

linguaggio, si veda Dascal (1992b, 1997a) e Dre-sner & Dascal (2001).

13 Ho coniato il termine ‘psicopragma-tica’ per la branca della pragmatica che non si occupa degli usi sociali del linguaggio come co-municazione (un compito riservato alla ‘socio-pragmatica’), ma degli usi mentali del linguaggio. Vedere Dascal (1983) e i riferimenti lì presenti.

14 Ad esempio: “Pensavamo che un gior-no ed una notte di pioggia regolare / fosse più che sufficiente, ma sta nuovamente piovendo ininterrottamente… / …la pioggia è molto si-mile alle parole / ma le parole non cadono allo stesso modo; esse resistono / nel paradiso del lin-guaggio, immuni alla gravità / se non al tempo, penetrando la tua mente / senza alcuna direzio-ne, viaggiando senza distanza, / e con la persi-stenza piovosa, briosa la terra espande / profumi così belli…” (Robert Mezey, “Words”; citato in Aitchison 1994). Le immagine impiegate in que-Le immagine impiegate in que-sta poesia catturano diverse proprietà “ambienta-li” del linguaggio descritte nella sezione 4.1.

15 Rispetto a ciò, sono molto più mo-derato rispetto a Winograd & Flores, i quali interpretano l’affermazione heideggeriana come una pretesa secondo la quale “non esiste niente se non attraverso il linguaggio” (Winograd & Flores 1986: 68).

16 Watson ha più tardi respinto questa dichiarazione riduzionista (vedere Watson & McDougall 1928).

17 Infatti, l’articolazione linguistica va ben oltre questa, dal momento che si possono identificare le caratteristiche sub-fonemiche di cui sono formati i fonemi, così come significa-tivi composti sopra-lessicali come espressioni idiomatiche, il cui significato non può essere de-scritto nei termini della composizione sintattico-lessicale

18 “La grammatica stessa è una macchina / che, da innumerevoli sequenze / seleziona una serie di parole tramite rapporti… / Quando le parole sono svanite, parte la grammatica, / ed è la macchina che intende cosa? / Una lingua to-talmente straniera”. (Lars Gustafsson, “� e ma-(Lars Gustafsson, “�e ma-chines”, citato da Haberland 1996, p. 92).

19 Il filosofo Gilles Deleuze, il quale de-scrisse questo tipo di struttura rifacendosi al mo-dello botanico del rizoma piuttosto che all’attua-le modello a rete neurale, ha evidenziato la sua centralità nella comprensione della complessità stratificata del pensiero umano e della sua espres-sione. Si veda Deleuze e Guattari (1976, 1980).

20 Un affascinante esempio dell’assoluta difficoltà linguistica nel superare quest’ostacolo

è esemplificato nella storia di Alejo Carpentier “Viaje a la semilla” (in Carpentier 1979, pp. 63-94). La narrazione prosegue andando a ritroso, partendo da un evento attuale arrivando al “ger-me” dal quale deriva. Malgrado lo sforzo origi-nale dell’ autore, tuttavia, diventa evidente che è virtualmente impossibile neutralizzare l’ordine temporale radicato nei vari livelli della struttura linguistica.

21 Ad esempio, Smith sottolinea uno di questi dispositivi espressivi usati per eludere gli ordini sintattici di base nell’Inglese (soggetto-verbo-oggetto), ovvero l’anteposizione di “qual-siasi cosa maggiormente interessante nella frase” (Smith, 1983, 18), di cui la moderna teoria sin-tattica tiene conto nei termini di una regola “epi-ciclica”.

22 Ad esempio, le “massime” che gover-nano la conversazione secondo Grice. Per una critica della concezione secondo cui la conversa-zione, non essendo governata da regole costitu-tive di tipo grammaticale, non è, propriamente parlando, un fenomeno governato da regole, si veda Dascal (1992a).

23 Per la discussione e l’ interpretazione di questo fenomeno, vedere Evans (1982: 140-144) e Dascal (1987).

24 Leibniz, che ha riconosciuto questo fatto, dedicò molta attenzione, nei suoi progetti per una enciclopedia e nella ricerca del suo ruo-lo nell’“arte della scoperta”, al ruolo cognitivo di una varietà di sistemi di indicizzazione. Vedere Dascal (2002).

25 Sulla nozione di “rilevanza semanti-ca”, si veda Achinstein (1968). Sulla difficoltà di stabilire una chiara distinzione tra “dizionario” e “enciclopedia”, si veda Peeters (2000) e Cabrera (2001).

26 I Topoi, loci communes, o “luoghi co-muni” hanno occupato una posizione centrale nell’educazione umanista del rinascimento e della prima età moderno. In quell’epoca furono stampate dozzine di “Libri dei Luoghi comuni”, e agli studenti era richiesto di scrivere e di usa-re la loro lista personale dei luoghi comuni. Tale pratica non solo ha fondato forme di espressioni condivise, ma anche strumenti concettuali con-divisi, che costituirono così un contesto di “strut-ture mentali”, guidando, per almeno due secoli, il pensiero e la conoscenza delle persone istruite in ogni parte dell’Europa. Per uno studio di que-ste risorse cognitive basate sul linguaggio, si veda Moss (1996).

27 Alcune di queste risorse sono state im-piegate nelle applicazioni computerizzate. I word

processors cinesi beneficiano dell’abitudine cine-se di usare sistematicamente i proverbi (formati prevalentemente da quattro caratteri ciascuno), “proponendo” a chi scrive le possibili continua-zioni non appena vengono digitati i primi due caratteri del proverbio. Vanno proliferando at-tualmente tentativi per simulare e sfruttare le risorse ideologiche del linguaggio naturale tra le interfacce uomo-computer. Il classico pioniere ELIZA impiegava un numero di frasi che ricor-rono quotidianamente nella psicoterapia non di-rettiva per creare l’impressione di un reale dialo-go tra terapista e paziente (Weizenbaum 1966). L’agente-robot MUD JULIA, così come ELIZA, utilizza elenchi di domande comuni ed una pro-cedura di abbinamenti per generare una conver-sazione apparentemente naturale con gli utenti (cfr. Foner 2000). I più recenti sistemi regola-mentati di dialogo e conversazione (per esempio, Kreutel & Matheson 2000; Webb 2000) sono indubbiamente degli strumenti molto più sofisti-cati ed utili di ELIZA ma, secondo me, rimango-no tuttora eccessivamente subordinati ai modelli regolati da leggi.

28 Per un’analisi retorica del saggio scien-tifico e della sua evoluzione dal XVII secolo in poi, si veda Gross (1990) e Gross (2002).

29 Per un esempio di ricerca sulla metaco-gnizione, vedere Metcalfe & Shimamura (1994). Per le relazioni tra metacognizione e coscienza, vedere Newton (1995), e per la sua relazione con la conversazione, vedere Hayashi (1999).

30 Scientology è un esempio suggestivo dell’uso del linguaggio per presunti obiettivi “scientifici”. Questo movimento religioso, basato sulla “scienza” di “Dianetics”, afferma di forni-re ai suoi seguaci una “tecnologia cognitiva” che permette loro di ottenere lo stato di “Clears”, es-senzialmente attraverso la manipolazione lingui-stica. Per un’analisi di questo fenomeno, si veda Mishori & Dascal (2000).

31 Lavoisier, che fu sotto questo aspetto un seguace di Condillac, vide la sua nuova no-menclatura chimica come avente implicazioni cognitive superiori ad una mera riforma termi-nologica (cfr. Bensaude-Vincent 1993).

32 Zamir (2002a; vedere anche Zamir 2007) propone inoltre una descrizione epistemo-logica di come la letteratura possa esprimere ed eventualmente generare contenuti cognitivi che le risorse del discorso filosofico non sono in gra-do di catturare.

33 Si veda Astroh (1995), Barth (1992), Dascal (1997b, 1998a, 2000) e i rimandi lì con-tenuti.

Page 29: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

77

1. Per molti decenni, decisamente troppi, siamo stati abituati a pensare la società come un fatto esclusivamente umano, oggetto non a caso di una scienza appunto umana come la sociologia; e gli strumenti, in particolare quegli iper-strumenti che sono le macchine, come fatto puramente tecnico, oggetto di progettazione ingegneristica e di applicazione più o meno alla distanza dei saperi delle scienze naturali: oggetti che di umano non avrebbero niente se non le finalità d’uso. Di recente, l’evidenza stessa del nostro vivere ha prodotto qualche primo accenno a un cambio di paradigma: da un lato lo sviluppo di quella curiosa branca del sapere che è l’“interazione uomo-macchina”, scienza dell’ibrido dalle origini epistemologicamente modeste (figlia di saperi umili e integralmente applicativi come l’ergonomia) ma dagli sviluppi già oggi imperialistici; dall’altro l’intuizione di Bruno Latour che ci propone di fare delle macchine una parte integrante delle nostre aggregazioni relazionali, cioè delle nostre società, di farne attori sociali sostanzialmente alla pari con gli agenti umani: tutti “attanti” secondo il termine preso in termine dalla teoria narratologica.

Sono primi passi che meritano credo un’ulteriore radicalizzazione. Dobbiamo insomma riconoscere prima di tutto che “società” non è un’entità dotata di esistenza in sé, ma una serie di processi ininterrotti di associazione e di dissociazione; che il fissarla insomma con un sostantivo comporta un equivoco,

Lo spessore dei media

Peppino Ortoleva

Page 30: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

82

Il labirinto della crossmedialitàEsplorare il sistema dell’industria culturale oggi significa avventurarsi all’interno di un territorio

complesso e stratificato, una geografia di testi, pratiche, soggetti, linguaggi che sperimenta una mu-tazione continua, vive una trasformazione che taglia in modo trasversale tutti i livelli della pragmatica della comunicazione. Formati, generi, abitudini di consumo: nel presente di una semiosfera sempre più estesa e onnivora i processi e le logiche della comunicazione fanno presa sul nostro sentire individuale e collettivo, si alimentano di tutte le dimensioni del vivere quotidiano. Orientarsi nel sistema dei media oggi vuole dire metabolizzare il processo di erosione che coinvolge tutte le forme espressive e rilavora categorie e classificazioni, significa addentrarsi nei luoghi materiali e immateriali in cui la significazione prende forma e si rafforza, in cui la dialettica tra autori, testi e spettatori si trasforma.

Per entrare nel labirinto mediale occorre dunque individuare un punto di partenza, riconoscere una qualche forma di organizzazione del percorso, situare se stessi rispetto ai molteplici percorsi di let-tura e di uso degli spazi della comunicazione. La geografia dell’industria culturale sfugge infatti sempre più alle mappe e alle tassonomie, si sottrae alla razionalità geometrica di uno sguardo dall’alto. Questo accade perché due macro tendenze si incrociano e si sovrappongono: la crossmedialità e le forme sem-pre più invasive di partecipazione del consumatore alla messa in forma e alla diffusione dei fenomeni comunicativi.

Nella nostra esperienza di consumatori dei prodotti mediali assistiamo a processi di ibridazione sempre più espliciti e marcati, l’efficacia delle forme testuali si svincola dai confini dei supporti tra-dizionali, si costruisce sempre più spesso negli spazi tra i media, nelle zone di sovrapposizione tra i linguaggi. Le novità nel piccolo schermo appaiono inevitabilmente come il prodotto della riscrittura e del pastiche, l’innovazione nasce innanzitutto dall’accostamento delle forme e dalla rimodulazione delle distinzioni. Questo processo di mutazione investe profondamente anche i miti del piccolo schermo, gli eroi mediali e le forme del culto che li alimentano. Come afferma Ugo Volli

Paolo Peverini

Il paradossodella seduzione

Il corpo della star musicalenel sistema dei media

Page 31: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

83

Non ci può essere culto se non per qualcosa che è percepito come unico, dunque nuovo al suo sorgere. L’imitazione, la variazione, il rifacimento possono essere modalità legate al successo di massa di una trasmissione, ma dif-ficilmente mobilitano l’energia di appartenen-za e la forza di propagazione che è caratteristica del culto. Ma la novità, in un panorama affol-latissimo e complesso come quello della tele-visione postmoderna, non può che venire dal meticciato, dall’intertestualità mediatica, dalla mescolanza dei generi, da un rifacimento che appare abbastanza radicale da sembrare nuovo soprattutto in virtù del suo carattere misto e transgenerico (Volli 2002: 51)

Il percorso di avvicinamento della televi-sione, dei suoi linguaggi e dei suoi programmi, allo spettatore è ormai entrato nella fase della piena maturazione. Giochi di citazioni, iper-boli autoriflessive, frantumazione del tempo televisivo lineare sono sedimentati, assimila-ti, comuni. Da tempo ormai nella geografia crossmediale è impossibile isolare un centro e una periferia, margini e barriere sono caduti da tempo. La televisione si alimenta dei discorsi critici che investono le sue logiche e i suoi pro-tagonisti, monitora i fenomeni innovativi della comunicazione orizzontale, dal basso, tenta di assimilare al suo interno la vitalità dei social network. In altre parole il vecchio medium cerca di resistere alla pressione della polifonia mediale in cui siamo immersi ricercando ossessivamente il contatto con il corpo irraggiungibile dello spet-tatore.

A partire da questa premessa, da questo sguardo di sistema, la nostra ipotesi è che nella galassia audiovisiva prendano forma dei luo-ghi testuali in cui il rapporto di fiducia con il pubblico non viene più ricercato a partire dalla messa in scena di modelli di corpi ideali, si-mulacri di identità ‘perfette’ e patinate con cui misurarsi, giocare a identificarsi. Al contrario l’industria dei media ricerca un rapporto sem-pre più confidenziale con lo spettatore, in par-ticolare con il target young adult, proponen-do delle icone in cui il corpo patinato lascia il posto a un corpo visibilmente contraffatto, manipolato, artificioso, segno di un’identità

lacerata, problematica.

Corpi manipolatiCorpo, sistema dei media, scienza medica.

Il dibattito sulla relazione fragile tra i model-li di corpi che si affermano nell’immaginario collettivo, sulle loro rappresentazioni nei testi mediali, gli interrogativi etici e deontologici che animano i professionisti della chirurgia estetica sono urgenti e in continua evoluzione, alimentati dal discorso giornalistico e da fatti di cronaca che chiamano in causa trasversal-mente l’opinione pubblica. Come afferma Pa-olo Persichetti

La centralità del valore del corpo, solo se per-fettamente rispondente ai canoni del gusto contemporaneo, affermatosi nella società, condiziona trasversalmente il paziente di ogni età; spetta al chirurgo interpellato il compito difficile dell’ascolto e dell’interpretazione delle diverse sollecitazioni esterne che gli giungono. La chirurgia plastica trova insito nel proprio nome la sua essenza, rimanda all’atto del pla-smare, del dare forma; è forse la branca medi-ca più versatile nelle sue applicazioni, poiché la plasticità insita nella disciplina consente di rispondere adeguatamente alle diverse istanze mediche ricostruttive ed estetiche. Compito del chirurgo è rifuggire dall’accettazione acri-tica delle richieste del paziente, se non ben motivate dalla presenza di un problema fisico suscettibile di soluzione chirurgica, evitando ogni tipo di compromesso (Persichetti 2007: 116)

Come ricorda Vanni Codeluppi il corpo, nelle società ipermoderne, è al centro di un va-sto processo di vetrinizzazione. Nella dialettica che coinvolge il valore simbolico e seduttivo delle merci e il filtro dei media si trasforma esso stesso in un corpo-packaging

Sempre più indifferente alle leggi della biologia, il corpo umano viene liberamente manipolato dagli individui grazie all’impiego di numerose pratiche. Da ciò deriva la possibilità di modi-ficare i significati espressi dal corpo, che pos-sono peraltro essere cambiati a piacere anche sul piano della sola rappresentazione grazie a quel trattamento elettronico cui non sfuggono ormai le principali immagini diffuse dal flusso mediatico. L’ampia circolazione che ha avuto

negli ultimi anni un modello come quello del corpo manipolato consente oggi una crescente accettazione sociale di uno stato di variazione permanente del corpo. Lo stato del “corpo flusso”: corpo nomadico che funziona da in-terfaccia e non ha confini, né identità fisse. Si confonde pertanto sempre più con l’esterno, instaurando con esso una continua attività di scambio di messaggi (Codeluppi 2007: 152)

L’obbiettivo della nostra riflessione ov-viamente non è la ricostruzione storica di un fenomeno estremamente complesso come la mediatizzazione dei modelli di corpo, in cui risulta impegnativo distinguere le cause e gli effetti e ancora più arduo prevedere gli scenari futuri. Ciò che ci interessa è andare oltre uno sguardo strettamente comparativo, resistere alla tentazione di verificare le assonanze, gli scarti marcati o le micro variazioni tra i mo-delli corporei elaborati dall’industria culturale (le cui immagini sono sempre più spesso riela-borate da software per il trattamento digitale) e le figure di corpi ideali realmente modellati dall’intervento chirurgico.

La direzione che ci interessa seguire è piut-tosto un’altra: esplorare il dibattito sui modelli di corpo diffusi, inseguiti, ambiti, indagare le forme in cui l’industria dell’intrattenimento si appropria dell’immaginario legato alla chirur-gia, per mettere in scena in modo critico, para-dossale il mito del corpo perfetto. Proponiamo dunque di rovesciare la prospettiva, ricercando nei media non il repertorio dei caratteri che convenzionalmente connotano oggi un fisico ‘da sogno’, quanto piuttosto la rappresentazio-ne consapevole e ironica dei rischi e dei para-dossi di una piena aderenza ai canoni estetici frutto di una manipolazione, di un intervento medico.

A partire da questa premessa si tratta ora di individuare le forme testuali esemplari al cui interno si traduce la tensione che inevita-bilmente si accompagna alla ricerca ostinata di un corpo perfetto.

Tra le molteplici forme espressive coinvol-te nella rappresentazione della figura umana i videoclip sono senz’altro il caso più eclatante. Si tratta di fenomeni audiovisivi di massa, ri-volti a un pubblico ai cui estremi possiamo collocare gli adolescenti e i giovani adulti, che

sociosemiotica

Page 32: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

86

Nel videoclip, il susseguirsi incoerente, sinco-pato, non sincronico delle immagini riprende inoltre il tema presente in Bacon del corpo isterico con i suoi après coup e avant coup, le sue contratture improvvise, l’eccesso di presenza che viene figurativizzato soprattutto dai pri-mi piani eccessivamente ravvicinati (Pozzato 2006: 246)

Lo scopo di questo elaborato processo è proporre al consumatore delle forme di iden-tità originali ma sufficientemente misteriose da resistere il più a lungo possibile all’usura inevitabile imposta dalle regole del mercato. Un’identità ‘incerta’, enigmatica, può rilan-ciare infatti l’appeal del performer, stimolare l’iniziativa dello spettatore, rendendolo parte attiva nella ricerca di indizi rivelatori, in un gioco consapevole dello ‘smascheramento’ che sollecita forme originali di ‘contatto’ tra il fan e la star, dando vita a forme di contagio come il tam tam mediatico, o il passa parola che alimentano la mitizzazione, supportando in maniera decisiva il successo commerciale di un album musicale.

Nei video le diverse figure della mani-polazione del corpo non vengono dunque impiegate esclusivamente per restituire al per-former una nuova ‘pelle’, simulacro seducente di un’identità effimera, ma sempre più spesso sono esse stesse oggetto di una messa in scena ironica o polemica che si appropria dei cliché sul look delle star dando avvio a una vertigine autoriflessiva dagli esiti imprevedibili.

Il corpo patinato lascia il posto o si sovrap-pone alle tracce visibili della sua stessa costru-zione, innescando un complesso gioco di spec-chi in cui la seduzione viene raffigurata come valore critico. Il corpo, tanto più seducente quanto più svelato come prodotto di un artifi-cio, è rappresentato come il risultato fragile di una dialettica ininterrotta che coinvolge tanto il performer quanto l’intero apparato dell’in-dustria musicale e televisiva.

Se dunque l’autenticità passa sempre più per lo svelamento ostentato di un’estrema fal-sificazione, non sorprende che il luogo topico in cui il corpo del performer viene mostrato al pubblico come artificioso oggetto di consu-mo sia il reparto di chirurgia plastica. La mes-sa in scena dell’intervento di chirurgia infatti

non mira solo a valorizzare il sex appeal della star, riducendo o eliminando le imperfezioni del corpo ma a innestare sulla sua superficie elementi estranei, frammenti che rivelano in modo più o meno diretto i conflitti e i com-promessi che si nascondono sempre dietro un volto da copertina. Un caso esemplare è rap-presentato dalla produzione della regista italo-canadese Floria Sigismondi impostasi all’atten-zione della critica e del pubblico per la capacità di costruire videoclip di grande impatto visivo per artisti di fama internazionale come David Bowie, Marylin Manson, Christina Aguilera in cui il corpo del performer gioca sempre un ruolo di primo piano e viene manipolato in modo radicale attraverso il ricorso a strumenti medici.

Significativamente nei video la maggior parte delle operazioni di chirurgia non coin-volge globalmente il corpo della star ma si con-centra nella zona del viso, figura che esprime in modo simbolico l’identità del performer e al tempo stesso allude come un vero e proprio simulacro al valore commerciale ed estetico dell’album musicale. È il caso di Hollywood, video di culto di Madonna, in cui la performer costruisce il massimo livello di confidenza con il fan rivendicando le operazioni di chirurgia plastica come segno paradossale della propria autenticità.

Se da una parte si può affermare che il rapporto critico con la chirurgia estetica è un tema oramai comune nell’industria dell’intrat-tenimento pop, spesso declinato in chiave iro-nica, tagliente, sarcastica, dall’altra emergono delle zone di sperimentazione in cui il corpo è oggetto di una messa in scena radicale, di uno sguardo che seziona, deforma, celebra il detta-glio anatomico per spiazzare, colpire, disturba-re lo spettatore, per risvegliarne l’attenzione. Si tratta di una tendenza recente nel panorama della produzione videomusicale ma che certa-mente non nasce dal nulla, piuttosto appare come la declinazione per un pubblico televisi-vo di massa di pratiche di body art ampiamen-te sperimentate a partire dagli anni ’60.

Nei videoclip la deformazione del corpo non è mai fine a se stessa, ma è spesso parte di una messa in scena teatrale, una scenogra-fia barocca in cui gli apparati medici non sono

solo strumenti di sevizie ma oggetti di scena, figure simboliche di un rapporto estremo con il corpo che allude a una visione dell’identità complessa in cui dimensione privata e pubbli-ca si compenetrano, si sovrappongono, sono messe a nudo, offerte allo sguardo di uno spet-tatore sempre più vicino alla star, sempre più intimo. Un contatto ricercato, esibito, celebra-to. A tutti i costi.

Riferimenti bibliografici

Abruzzese, A. 1989. Metafore della pubblicità. Genova: Costa & Nolan.

Baldini, M. (Eds.) 2007. Modelli di corpo, L’Arco di Giano 53

Bolla, L., Cardini, F. 1999. Carne in scatola. La rappresentazione del corpo nella televisione italiana. Roma: Rai VQPT.

Codeluppi, V. 2007. Il corpo-packaging. L’Arco di Giano 53: 149-158.

Morin, E., 1972. Les stars. Paris: Seuil; trad. it. 1995. Le star. Milano: Olivares.

Persichetti, P. 2007. Bellezza, verità e bisturi. L’Arco di Giano 53: 111-118.

Peverini P., 2004. Il videoclip. Strategie e figure di una forma breve. Roma: Meltemi.

Pezzini I., (Eds.) 2002. Trailer, spot, clip, siti, banner. Le forme brevi della comunicazione audiovisiva. Roma: Meltemi

Pozzato M. P, 2006. La pittura di Francis Ba-con nel videoclip Radio. Lyrics, immagini, musica tra sincretismo e traduzione in-tersemiotica. In N. Dusi, L. Spaziante (Eds), Remix-remake. Pratiche di replica-bilità. Roma: Meltemi – pp. 241-257.

Sibilla G. 2003. I linguaggi della musica pop. Milano: Bompiani

Spaziante L. 2007. Sociosemiotica del pop. Identità, testi e pratiche musicali. Roma: Carocci

Tedeschi, E. 2003. Vita da fan. Roma: Melt-emi.

Volli, U. 2002. Introduzione. In U. Volli (Eds), Culti tv. Il tubo catodico e i suoi adepti. Mi-lano: Sperling & Kupfer Editori – RTI, pp. 11-55.

metatestualità

Page 33: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

87

Silvio Grasselli

Lo sguardo e la soglia

La morte nel cinema di Ermanno Olmi

Page 34: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

94

riapre gli occhi oltre la soglia: in piedi, con indosso la sua divisa (la corazza), rimane fer-mo rivolto verso il figlio Cosimo, che a sua volta lo guarda in volto, da dietro un can-cello. Il figlio Cosimo è a un tempo istante di Giovanni che si perpetua nella realtà e immagine simbolica dell’identità essenziale dell’uomo, l’incarnazione, l’iconizzazione della sua verità in un altrove apparentemen-te indefinito, che non è che la dimensione ultraterrena evocata attraverso l’immagi-ne simbolica. Giovanni in armi davanti al figlio non è che finale dispiegamento del nodo poetico al cento del testo, e di più, egli rappresenta il compimento del percor-so dell’uomo scopico fino alla Visione della trasparenza assoluta oltre la soglia. Trapassata la soglia della morte, immagine-presenza e immagine-assenza si trovano poste una di fronte all’altra: dopo il riconoscimento, le due non si ricongiungono, ma si confondo-no entrambe nella Luce dell’Assoluto.

RingraziamentiUno speciale ringraziamento ad Adria-

no Aprà e a Virgilio Fantuzzi per la loro di-sponibilità e per l’indispensabile supporto nella maturazione di questo studio

Riferimenti bibliograficiAprà, A. 1967. Verso un cinema delle rispo-

ste?. Cinema e Film, 41.Aprà, A. (a cura di). 1979. Il cinema di Er-

manno Olmi, Parma: Incontri cinema-tografici di Monticelli Terme.

Aprà, A. (a cura di). 2003. Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola. Nuovo Cinema/Pesaro N. 56, Quaderni della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Venezia. Marsilio Editori.

Aumont, J. 1998. L’occhio interminabile: ci-nema e pittura. Venezia. Marsilio.

Buffoni, L., S. Carpiceci (a cura di). 2003. Olmiana. Una documentazione. Roma: Quaderno della Fondazione Pesaro

Nuovo Cinema. Dillon, J. 1986. Ermanno Olmi. Firenze: La

Nuova Italia.Fantuzzi, V. 1983. Cinema sacro e profano.

Roma: Edizioni La Civiltà Cattolica. Fantuzzi, V. 1986. Ermanno Olmi: dialogo

sulle immagini, La Civiltà Cattolica, n. 3253, pp. 43-57.

Fantuzzi, V. 2001. Ermanno Olmi parla del film Il mestiere delle armi. La Civiltà Cattolica, n.3633, p.254 – 267.

Finatti, L. 2000. Stupore e mistero nel cine-ma di Ermanno Olmi. Roma: ANCCI.

Kezich, T. (a cura di). 1989. Da Roth a Olmi. Siena: Nuova Immagine Editrice.

Lévinas, E. 1996. Dio, la morte, e il tempo. Milano: Jaca Book

Masoni, T., A. Piccardi, A. Signorelli, P. Vecchi. 1990. Lontano da Roma. Il ci-nema di Ermanno Olmi. Firenze: La casa Usher.

Owens, C. 2001. Ermanno Olmi. Roma: Gremese.

[S.A.]. 1978, Il “caso” Olmi. Essai, n.2, p.1

Endnotes1 La caratterizzazione simbolica della

visione rimanda all’idea cristiana della rivelazio-ne; rivelazione non solo del Mistero, ma anche dei misteri, delle realtà ultime, dunque anche della morte.

2 Si veda a tal proposito la scena d’aper-tura di Genesi. La creazione e il diluvio (1994) durante la quale la creazione del mondo viene accostata allo sguardo d’un bambino che dal buio del ventre materno (l’interno d’una tenda), nel quale il piccolo è solo voce, giunge alla vita scopica con l’accesso dello sguardo al panorama del sole che sorge (scena che replica la prima alba della creazione e d’Adamo, la prima di tutte le creature)

3 Il titolo del paragrafo allude e rimanda a un passo del Nuovo Testamento: “Ora vedia-mo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò per-fettamente, come anch’io sono conosciuto.” (1 Cor. 13,12)

4 Due film si possono considerare ecce-zioni parziali: E venne un uomo (1965) in cui la morte di Mons. Radini Tedeschi, inserita in una

narrazione storica, viene rappresentata secondo soluzioni classiche; e I recuperanti (1974) che costituisce un caso a parte per la sua mescolan-za di documento e messa in scena in cui le due parti si trovano inestricabilmente comprese.

5 Usiamo questo termine in assonan-za con le stazione che nel rito della Via Crucis celebrano secondo quattordici tappe-momo-menti il memoriale della passione e morte di Gesù Cristo.

6 Valgano come esempio le diverse apparizioni in La leggenda del santo bevitore, o la parata di anime nel finale de Il segreto del bosco vecchio, e su tutto il farsi carne visibile di Dio, il non-visibile per eccellenza, in Cammi-na cammina.

7 La propria identità spirituale feno-menologicamente definita nell’espressione del volto «non cosificato». Cf. (Lévinas 1996: 10).

8 Mentre la luce nella quale si muove il protagonista è una luce azzurrina, dai toni invernali, quella che illumina Terese e i due an-ziani dentro il Tari Bari è una calda luce color ocra.

9 A motivo della brunitura del metal-lo delle corazze del suo esercito Giovanni De’ Medici venne soprannominato Giovanni delle Bande Nere

10 «Questo Cristo qui non è il Cristo del Calvario, ma piuttosto, in una trasposizio-ne simbolica che consente di vedere le cose in trasparenza, è il Cristo del Cenacolo. Il gesto che compiono i soldati pertanto non è una rottura delle ossa. È una spartizione del corpo [corsivi nostri]», (Fantuzzi 2001: 261 ).

11 L’espressione usata qui non vuole, né deve, esser letta secondo un’interpretazione ma-nicheisticamente duale (nella qual corpo e ani-ma si troverebbero posti in opposizione come entità inconciliabili per la loro ontologica in-commensurabilità).

12 Icona, dal greco eikon (imagine), derivante a sua volta dalla radice indoeuropea vik (sembrare). Immagine centrifuga che sug-gerisce e rimanda, media tra umanità e divi-nità. Dunque il volto fisico come contenitore o supporto del «volto non cosificato» - espres-sione del volto sintetizzata dallo sguardo – nel quale secondo il filosofo Lévinas si trova «so-stanziata fenomenologicamente» l’anima. Cf. (Lévinas 1996: 14).

13 Per approfondire questi concetti ri-mandiamo a (Aumont 1998).

Page 35: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

95

Quale posto occupa Olmi nella storia del cinema italiano del dopo neorealismo?«Ermanno Olmi nasce realista in una tradizione italiana che è quella del

neorealismo, che solo successivamente supererà. E così viene recepito dalla critica, soprattutto per Il posto, il suo film più visto che ha determinato nella critica l’equivoco di una sorta di rinascita o di riproposizione del neorealismo. Poi il cammino di Olmi si distacca sempre di più da questo realismo. Già dal terzo film, I fidanzati, è evidente che il rispetto del tempo lineare non gli basta più. E più va avanti e più Olmi sperimenta in una dimensione che non ha nulla a che vedere con il neorealismo, nulla a che vedere con le radici stesse di Olmi, con il documentarismo di Olmi. Salvo dei ritorni nel tempo che sono per me facilmente individuabili: I recuperanti e L’albero degli zoccoli, che quasi portano alle estreme conseguenze, per di più a distanza di diversi anni, una tendenza e un interesse che Olmi ha per uno sguardo relativamente diretto sulla realtà, ottenendo due film eccezionali. L’albero degli zoccoli è diventato l’altro film ufficiale di Olmi. Quindi se metti insieme Il posto e L’albero degli zoccoli l’equivoco di un Olmi realista s’impone come il cliché più facile. Ma chi ha visto e rif lettuto su I fidanzati, Un certo giorno, e soprattutto La circostanza non può vedere le cose che secondo una diversa prospettiva. La circostanza soprattutto, perché porta alle estreme conseguenze il mescolamento dei tempi. C’è un piano del presente, un piano del passato, un

Il confine nel cinema di Olmi

Colloquio con Adriano Apràdi Silvio Grasselli

Page 36: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

96

piano dell’immaginazione, un piano del pensiero, ma mescolati. Olmi non vuole che si crei una netta distinzione. È evidente l’interesse di Olmi di lavorare su una sorta di presente continuo. Questa, mi pare, è la cosa importante: noi viviamo contemporaneamente la stessa dimensione temporale in più strati della coscienza».

Nel mio saggio ho posto Il mestiere delle armi come compimento di un percorso per la sua apparente separatezza rispetto al resto della filmografia olmiana.

«Il mestiere delle armi è un film che perde completamente il rapporto con la realtà: ha una qualità figurativa che mi pare una novità inedita in Olmi. È un film sorprendente. Prima le singole inquadrature avevano un referente realistico, che si perdeva solo nel loro intersecarsi. Uno spettatore distratto vedendo La circostanza poteva confondersi un po’, ma in fondo erano vicende riconoscibili. Il mestiere delle armi non soltanto è visibilmente in costume, ma il tipo di fotografia, il tipo d’illuminazione, non ti consentono un orientamento e un riconoscimento certi, e soprattutto l’intreccio è estremamente e insolitamente complesso.

Siamo in una dimensione, per dir così, metaforica, allegorica, nella quale tutto ciò che si vede rimanda a qualcosa d’altro. È puro cinema, nel senso di un universo che esiste solo sullo schermo, che ha perso i suoi referenti con la realtà. Tutto il suo percorso fa di Olmi un regista molto più complesso di quanto normalmente non si dica».

Restando a Il mestiere delle armi, come considera la logica degli spazi entro la quale si trova pure l’elemento estetico-filosofico della soglia?

«Il mestiere delle armi è costruito in modo tale che i singoli spazi siano degli spazi autonomi, e lo stesso vale anche

per i tempi. Nella realtà, o nel cinema realistico, due stanze contigue sono due stanze contigue, non le percepisci come due spazi necessariamente separati. Allo stesso modo, due inquadrature una dopo l’altra normalmente sono inquadrature che hanno una contiguità temporale, a meno che tu non introduca degli stilemi che fanno sì che – come in Olmi per esempio – i tempi non siano mai contigui. Almeno in alcuni dei suoi film è così. Il lavoro sullo spazio non è sempre altrettanto evidente. Invece ne Il mestiere delle armi ho la sensazione che lo sia molto di più: sia negli spazi interni, sia negli spazi esterni. A questo punto potrebbe avere un senso dire che porte e finestre sono delle soglie: bisogna varcarle, per varcarle ci vuole un certo lavoro, ci vuole un motivo; il varcarle costituisce un evento. Che una di queste soglie sia la soglia tra la vita e la morte, forse solo in questo film è così evidente, e lo è perché il protagonista muore, e questa morte non è una morte passata così, è una morte sulla quale si insiste, c’è un rituale del passaggio. E alla fine c’è, se capisco bene quello che tu hai scritto e ricordando il film, una visione».

Una visione, sì. Una visione che è anche e soprattutto il finale ricomporsi di una vita intera, oltre se stessa. Ma è anche, credo, un invito a considerare la necessità d’ integrare dentro la vita il suo oltre. Mi sembra si tratti in realtà di una dinamica che ha il suo posto più necessario proprio in mezzo all’esistere.

«Ho scritto un saggio tanti tanti anni fa, di cui ero molto soddisfatto, che si chiama Verso un cinema delle risposte? (Aprà 1967). Mi ero impegnato in una ricerca, per una mia pulsione profonda, sul concetto di filmare, per così dire, il paradiso in terra. Si trattava in sostanza di rintracciare quei film che supervano le contraddizioni della contingenza e che fossero in grado di filmare il concetto di

armonia, che fossero capaci di filmare l’armonia nella contemporaneità storica. Arrivavo a una conclusione: individuavo una serie di film per dire sostanzialmente che per trovare l’armonia devi uscire, devi andare in un altrove. Perché anche se l’armonia è sullo schermo resta il fatto che hai dovuto andare a cercarla fuori, non l’hai trovata nella situazione nella quale eri, ma in un altrove fuori di essa».

Olmi, con i suoi film, dimostra forse anche quanto il cinema sia il giusto mezzo per comporre discorsi sulla morte, per comporre discorsi che siano della e sulla morte?

«Io non so se ho mai visto dei film che mi hanno dato questa sensazione, che si siano avvicinati a darmi l’idea, mediata dallo schermo, dell’esperienza limite, dello sguardo estremo. Mi ricordo 2001: Odissea nello spazio, che indubbiamente ha a che vedere con quello che mi chiedi. Il cinema di per sé come meccanismo, come apparato proiettivo, contiene già in sé questa dinamica: al cinema ci si proietta in un’altra dimensione. Quest’altra dimensione consente di confrontarsi, qui e ora, con qualcosa di ulteriore. Fin dal cinema delle origini, quando il cinema era anche viaggio, film di esplorazione. Tu dicevi: non posso andare al Polo Nord, ma posso vedere un film sul Polo Nord. Non cito a caso il Polo Nord o il Polo Sud, perché l’idea d’una distesa completamente bianca, in cui perdere l’orizzonte, mi sembra come finire nell’Ade».

Page 37: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

97

Voi mi chiederete: perché la tua poesiaNon ci parla del sogno, delle foglie,

dei grandi vulcani del tuo paese natio?Venite a vedere il sangue per le strade,

venite a vedereil sangue per le strade,

venite a vedere il sangueper le strade!

Pablo Neruda

Quando mi dissero che dovevo partire per Temuco abbozzai un sorriso e dissi ok è fantastico! Rientrai a casa accompagnata dal solito freddo bolognese che si incanala nei portici con dei rivoli gelidi e ti entra fin dentro le ossa. Avevo una cartina geografica abbastanza grande e dettagliata ma a mala pena riuscì a trovare Santiago su quella striscia lunga e sottile che è il Cile. Dunque era lì che andavo. In Cile. Temuco invece la cercai su internet, era la città natia di Pablo Neruda, a parte questo, nessuna informazione se non che sarei andata a lavorare per una O.n.g. con un progetto contro la violenza nelle baraccopoli di quella città, in un paese di cui non conoscevo praticamente nulla, ai confini con la Patagonia, nel punto più a sud del mondo. Quel poco che immaginavo lo avevo letto nei romanzi di Sepulveda, Chatwin, Dorfman. Avevo urlato spesso nelle manifestazioni El pueblo unido jamas serà vencido senza capirne veramente il senso

Marta Vignola

Militanti della memoriaA proposito del film-documentario Le bende del giaguaro

Page 38: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

102

politica mai sperimentato. Il viaggio cinematografico segue il

ritorno in Cile di Pablo, giovane attore figlio di militanti torturati. Le Ande che annunciano dall’aereo l’ingresso nel Paese, non sono per alcuni una delle meraviglie del mondo, ma un cimitero invisibile. Le testimonianze quasi sussurrate, parlano delle sofferenze dei sopravvissuti, dei morti e anche dei morti viventi, cioè di quella parte della popolazione che non si è mai più ripresa, preferendo ritirarsi in una alienazione totale piuttosto che vivere ciechi. Le bende del giaguaro, ci permette di avere la vista un po’ più acuta, anche se in Cile la gente preferisce vivere tra l’oscurità e l’ombra. Era importante ritornare a compiere il viaggio di trent’anni dove si vede la Cia al lavoro, la Thatcher che si dice convinta che sia stato Pinochet a riportare la democrazia in Cile, il giudice Garzon che procede sicuro, mentre ascoltiamo tutte le testimonianze del tempo passato ancora bruciante, l’opposizione all’impunità, i problemi di distribuzione della ricchezza

che restano nella società. Un film, senza alcuna pretesa artistica, che si è scritto da solo, una storia che si snodava e prendeva forma giorno dopo giorno attraverso il racconto dei sopravvissuti, dei familiari delle vittime, della loro e della nostra quotidianità vissuta insieme. Un film che ha varcato il Confine, attraversato le Ande ed è arrivato in Italia per parlare di sé, per non dimenticare, para que nunca

más.Quanto prima dovrebbe essere fissata

l’udienza preliminare del processo Condor a Roma, un procedimento che vede imputati oltre 140 militari latinoamericani coinvolti nel famigerato Plan Condor, una sorta di Internazionale del terrore costituita da Pinochet nei primi anni della dittatura. Le vittime di quella operazione furono centinaia, scomparvero nel nulla cileni, uruguaiani, argentini, brasiliani, paraguaiani. Molti di loro avevano la cittadinanza italiana ed è per questo che

oggi nell’aula bunker di Rebibbia, sarà possibile processare i responsabili di quei massacri. L’ esito di questi processi è di enorme importanza non solo perché potrebbe confermare, per la prima volta in sede giuridica, l’esistenza di pratiche di sequestro, tortura e soppressione clandestina di migliaia di persone sotto il regime della giunta militare, ma anche perché riaffermerebbe la competenza che una giurisdizione nazionale ha, per delitti lesivi di fondamentali diritti di cittadini all’estero, legittimando la possibilità di perseguire in sede internazionale i reati contro l’umanità. La competenza dei nostri tribunali è perciò indiscutibile: diritto e morale, legalità, legittimità e giustizia coincidono. I processi contro i militari latinoamericani rappresenterebbero non solo un atto tardivo di riparazione dovuto alle vittime degli orrori e delle atrocità di una dittatura, ma anche l’affermazione di un principio generale di grande valore: la giustiziabilità universale dei crimini contro l’umanità commessi dagli Stati e dai loro governanti, e quindi la soggezione al diritto – quanto meno a quel diritto minimo che consiste nella difesa dei diritti alla vita e alla integrità personale – anche dei dittatori passati, presenti e futuri e più in generale dei governanti, che non potranno più ripararsi dietro lo scudo della sovranità per coprire come affari di diritto interno le loro crudeltà e i loro massacri. Tra la documentazione che come avvocato delle parti civili fornirò al p.m. e alla Corte, ci sarà anche Le bende del giaguaro, questo piccolo film che continua a raccontarsi, ma stavolta i volti e le voci dei compagni di Temuco, Santiago, la polvere di quelle stanze e quella del deserto del Norte Chico, le loro testimonianze lucide e strazianti rimbomberanno in un’aula di giustizia.

Riferimenti bibliograficiBerger, P., T. Luckmann. 1997. La

realtà come costruzione sociale. Bologna: Il Mulino.

Ferrajoli, L. 1998. Atti del convegno internazionale: “Il caso Pinochet, i crimini contro l’umanità tra politica e diritto”. Roma: Fondazione internazionale Lelio Basso.

Riera Rehren, J., C.F. Izquierdo. 1998. Il sogno di Salvador Allende. Milano: Baldini e Castaldi.

Verbitsky, H. 1996. Il volo. Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos. Milano: Feltrinelli.

Verdugo, P. 1999. Golpe in diretta. Milano: Edizioni Unicopli.

Si veda l’edizione italiana del “rapporto Church” sulla CIA (1963-1973) e del “rapporto dell’ONU” sulla violazione dei diritti umani da parte della Giunta Militare (1973-1975), 1976, “Documento Cile. CIA, multinazionali, generali, tortura, violazione dei diritti dell’uomo”, Bologna, Vallecchi.

Page 39: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

103

Intendo presentare un’argomentazione teorica, sostenuta da alcuni riscontri empirici, a favore della concezione secondo cui l’arte può e dovrebbe essere più diffusamente usata come strumento terapeutico.

Senza dubbio, la pratica della terapia basata sull’arte è già stata stabilita. È sufficiente richiamare in tal senso discipline come lo psicodramma, la drammaterapia, la danzaterapia, la musicoterapia, ecc. Ciononostante mi sembra che una tale pratica necessiti di una migliore giustificazione teorica.

Oltre al suo valore intrinseco, una tale giustificazione potrebbe eventualmente contribuire alla rimozione del pregiudizio che tende a concepire l’arteterapia come una forma di psicoterapia minore, meramente ausiliaria, e perciò portare ad una reale integrazione, in condizioni di parità, tra le due componenti della coppia «arte-terapia».

La mia argomentazione si riferisce principalmente ad una particolare forma di arte (danzamovimento) applicata ad una speciale situazione terapeutica (terapia familiare). Tuttavia nessun aspetto della mia argomentazione dipende da tali situazioni specifiche, così che essa può rivendicare una validità generale (o almeno abbastanza ampia) per molte forme di arte e molti contesti terapeutici.

Il mio ragionamento si riferisce alle seguenti sei affermazioni:1) Una terapia familiare che possa essere coronata da successo richiede alcuni generi di

apprendimento. Questo apprendimento, tuttavia, è fondamentalmente un imparare a fare (learning to do), piuttosto che un apprendere che la situazione è in un determinato modo (learning that so and so is the case)1. Diversi terapisti sottolineano che la «sola» capacità di osservazione

Un caso a favore dell’applicazione

dell’arte in terapia

Varda Dascal

Page 40: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

110

realtà anti-terapeutico, poiché un cambiamento reale è un vero e proprio cambiamento di comportamento e non solo di pensiero. Cf. Foley (1979: 447-99). Per una rassegna dei differenti approcci alla terapia familiare, si veda Dascal (1982).

3 L’esperimento fu prima realizzato in Beer Sheva, Israele, nel 1979. I partecipanti erano studenti del Dipartimento di Teatro della Tel Aviv University. I risultati menzionati qui si riferiscono a dati raccolti in Israele. Gli stessi questionari furono più tardi utilizzati in Belgio, per una valutazione della performance multimediale «Hockey on Ice» di Nelson Goodman, presentata alla Conferenza internazionale «Art in Culture». Per una descrizione più completa dell’esperimento, le sue assunzioni teoriche, discussione dei risultati ed altri dati, si veda (Dascal 1983: 58-61) e Cabrera (1983: 53-57).

4 Rudolf von Laban è stato un danzatore e teorico della danza austro-ungarico poi ungherese. Figura di spicco della danza moderna, fu tra i suoi principali esponenti e fu l’autore di un sistema di notazione dei passi, denominato «Labanotation».

5 Zwerling (1979: 841-44) considera possibile che questo fatto possa avere un correlato psicologico: «... la terapia delle arti creative essendo indirizzata dalla parte destra del cervello, mentre le terapie verbali coinvolgono primariamente la parte sinistra del cervello».

6 Si noti che la stessa relazione speciale tra i singoli e la stessa attenzione ai dettagli è richiesta sia nell’insegnare l’arte (relazione insegnante-studente) che nel produrre forme di arte in cui sia coinvolta più di una persona (per esempio, la relazione regista-attore).

7 Parte della ispirazione per questi rilievi sulla danzamovimento terapia in quanto arte furono delineati da Doubler (1967); Harris (1980); Whitehouse (s.d.). Sulla connessione e differenze tra teatro come terapia e teatro come arte pura, si veda Bentley (1970).

(traduzione di Emanuela De Riccardis)

\

FIVESTEPSWITH

Nel suo saggio, nel sostenere che l’arte è un mediatore naturale nella acquisizione di quella forma di sapere nota come “sapere come”, Lei fa riferi-mento al “transfer di apprendimento”.

Può spiegarci più nel dettaglio di che cosa si tratta?La parola “corporeizzazione” (embodiment) fornisce la risposta. Al contrario di

una visione dicotomica che separa radicalmente corpo e mente, la corporeizzazione attribuisce allo sviluppo psicomotorio, emotivo e cognitivo una interazione intima, nella quale una è parte dell’altro. Così, dalla fase iniziale della sua formazione, la motricità, l’emozione e la cognizione si formano (costituiscono) unite. Possiamo osservare in queste due forme di conoscenza, “sapere che” e “sapere come”, il differente peso di ogni aspetto. È come “entrare” nel nostro processo conoscitivo (nella nostra cono-scenza) attraverso porte differenti, ma arrivare nello stesso posto. Ci sono conoscenze cronologicamente anteriori, nelle quali l’aspetto psicomotorio predomina; per la mag-gior parte, esse rientrano nell’ambito del “sapere come”. In generale la conoscenza di origine sensoriale immediata precede le forme di conoscenza che sorgono poste-riormente pur senza essere da essa slegate. Nella terapia attraverso il movimento, ad esempio, si può scoprire la deprivazione di alcune esperienze alla luce dei suoi effetti psicomotori; lavorando a questo livello si possono utilizzare altri tipi di esperienza, cioè ‘trasferire’ conoscenza da una modalità all’altra. In breve, vi sono differenti forme di conoscenza nel più ampio senso della parola, e non sempre, ma in molti casi una di esse renderà possibile l’altra.

In cosa consiste e qual è il significato del metodo per analizzare il movi-mento di Laban?

La Laban Notation funziona come una partitura del movimento (analoga ad una partitura musicale). Per questo è necessario osservare il corpo e ricondurre ad un sistema il suo modo di organizzarsi. Bisogna osservare la forma di espressione indi-viduale, così come si verifica non isolatamente ma in relazione ad altre persone e al contesto. Per questo si deve imparare a guardare e anche a vedere. Successivamente si tratta di tradurre quanto osservato in scrittura o in un codice in grado di registrare, memorizzare così da poter essere compreso anche da altri. È a questo livello che si colloca il maggior contributo di Laban: insegnare ad osservare e registrare. In questo modo si può fare un registro in forma di ‘partitura’ o ‘coreografia’ dei movimenti degli attori sul palcoscenico; di un gruppo che conversa; e anche impostare una scena per un film. Come la terapia per mezzo del movimento si avvale della profondità dell’os-servazione, così il lavoro dell’attore si avvale del potere di specificare ed elaborare, gli elementi in tutta la loro estensione. Questo crea una nuova e più ampia possibilità di movimento, cioè amplia il repertorio dei movimenti della persona. Apre alternative e permette una scelta da parte della persona, il che è anche un grado di libertà. Le diffe-renti combinazioni degli elementi dei quali parla Laban, sono uno strumento eccellente nella preparazione dell’attore, tanto nel suo sviluppo personale, quanto per compren-dere i caratteri e i ruoli che egli deve rappresentare. Si possono descrivere diversi tipi di personalità nei termini della Laban Notation. Ad esempio: una persona prevalente-mente estroversa userà la sua energia e lo spazio in modo diverso da una più timida e riservata. Precisando meglio, entrando nel modello dominante del personaggio, si vive anche l’empatia fisica e emozionale. Possono essere annoverati, prima di Laban, altri tentativi di annotazione. Tuttavia, è solo per il tramite di Laban che si è definito uno strumento preciso, servito di base più avanti – ed ancora utilizzato – per lo sviluppo di ulteriori e più elaborate annotazioni (come la annotazione di Eshkol-Wachman).

Perchè alla fine dell’esperimento da lei richiamato, veniva mostrato il film Ballet Adagio di Norman McLaren?

Considero la creazione/opera di Norman McLaren un lavoro che nella sua ric-chezza può essere compreso da tutto il pubblico (i tre gruppi che parteciparono all’esperimento), anche se in molti modi diversi. Essa riassume nello schermo un’ope-ra classica: musica d’epoca e uno stile di danza definito, tutti e due certamente noti ad una parte del pubblico, mentre gli altri partecipanti all’esperimento sono esposti per la prima volta ad una opera di questo genere. In più McLaren non si è limita-to a riprodurre i movimenti caratteristici del balletto, ma vi ha aggiunto elementi moderni più astratti. Questa varietà della composizione porta al fatto che ognuno, con i propri differenti backgrounds, può comprendere l’opera in modi diversi, il che effettivamente fu verificato nelle risposte al questionario distri-buito dopo le performances.

VARDA DASCAL

Page 41: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

111

Il racconto di YOD

Avevo preso alloggio presso una vecchia scorbutica. L’avevo incontrata dal panettiere il primo giorno, appena arrivato, mentre chiedevo in-

formazioni sugli appartamenti e le pensioni più economiche della città. Era una vecchia ossuta, curva, con un fare scostante e spiacevole. Mi aveva squadrato dalla testa ai piedi con attenzio-ne indagatrice degna di un detective. Forse avevo superato l’esame perché poco dopo mi aveva detto di avere una camera disponibile nel suo appartamento, economica, pulita e indipendente.

Le parole avevano trovato conferma nei fatti, la stanza era proprio come l’aveva descritta, in più era a pochi passi dal cuore attivo della città. Decisi che avrei sopportato l’antipatia della vecchia e avrei preso la stanza, in fondo a me importavano la comodità e la pulizia, che certo non mancavano, e la possibilità di cominciare una nuova vita.

Mi accorsi presto che era scontrosa con tutti.Nei giorni seguenti il mio arrivo aveva discusso aspramente con l’inquilino dell’ultimo piano.

Avevo sentito il loro vociare nelle scale, e la discussione era andata avanti per una buona mezzora. Il signore aveva il torto di avere una moglie che usava stendere le robe ai fili del balcone senza strizzarle bene, e l’acqua stillava lamentevole lungo i tre piani del palazzo.

Un’altra volta invece aveva litigato con il dirimpettaio che aveva gettato una cicca di sigaretta dalla finestra sul marciapiede. Lei, che in quel momento stava uscendo dal portone, lo aveva visto, si era precipitata dall’altro lato della strada e si era attaccata al campanello finché quello non era sceso in strada in canotta e ciabatte. Avevano litigato, ma lei era riuscita a fargli raccogliere la cicca dal marciapiede e fargliela gettare nel cestino.

Sembrava avere una attenzione ossessiva a tutto, come se volesse dare un ordine alle cose, a tutte le cose. Una fatica che ritenevo disperata.

Attendevo e temevo allo stesso tempo l’arrivo del momento in cui avrebbe trovato anche me in difetto, in cui mi avrebbe assalito con una delle sue sfuriate, magari in strada, davanti alla gente. Quando la incontravo mi sentivo come un bambino di fronte ad una maestra severa e implacabile. Era come un involontario riflesso psicologico e mi irritava molto.

Per fortuna, fino ad ora, avevo avuto solo i suoi buongiorno stretti tra i denti in risposta ai

Interno, giornoVito Comiso

Ritr

atto

di V

ito C

omis

o

Page 42: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi
Page 43: YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

YO

D. C

INEM

A, C

OM

UN

ICA

ZIO

NE

E D

IALO

GO

TR

A S

AP

ERI

AN

NO

I

N

N. 1

-2

G

ENN

AIO

- S

ETT

EMB

RE

2009

Si pensa al confine come a ciò che separa il luogo da noi abitato e che crediamo appartenerci dall’ “alter mundus” di cui ignoriamo linguaggio, costumi. Pensiamo al confine come al muro che li separa.

Certo, anche la barriera più alta e massiccia sarà esposta alle intemperie e rotta da porte e passaggi. E tuttavia la sua “linea”, lì di fronte al nostro sguardo, continua ad apparirci qualcosa di “sacro”. Ma se invece confine non fosse che il nome proprio per dire il nostro stesso luogo, anzi: il nostro stesso corpo? Che cosa definisce un luogo se non il punto, quel suo punto, dove esso tocca l’altro da sè? Non è forse grazie a questa relazione che ci definiamo? Che cosa rende evidente il nostro corpo se non il suo confine, l’istante, cioè in cui esso si espone al pericolo di toccare ed essere toccato, di ferire ed essere ferito? Confine non è, allora ciò che divide, ma all’opposto ciò che di noi, dei luoghi che siamo, è sempre necessariamente con l’altro. Questo Cum può significare amore o inimicizia, ma rimane comunque ineliminabile. E solo gli organismi condannati a morte lottano per dimenticarlo o rimuoverlo.

Massimo CacciariRepubblica Diario, 28 aprile 2004