saperi di parte

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E' una sperimentazione collettiva nella creazione di saperi. Saperi meticci, critici, all'incrocio fra teoria e pratica. Sappiamo che il sapere non è neutrale, che conoscere è prendere posizione. Quello che Saperi di parte si propone è costruire un punto di vista che dalla propria parzialità sappia indagare il presente con un'ottica di trasformazione radicale. Non ci interessa apprendere acriticamente nozioni che riproducono l'esistente, ma assemblare in maniera creativa ed innovativa saperi che non siano la merce fredda di cui l'università vuole farci produttori, ma corpi caldi inseriti nei flussi metropolitani, in grado di consolidarsi e divenire strumenti di lotta.

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Sommario:Introduzione p.5

Attacchi e risposte p.6Dai banchia a tutta la società p.8

Funzione sociale e sguardo storico sull’ università p.10Costruire antagonismo nelle facoltà p.16

Politica è comunicazione p.19Conclusioni p.13

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IntroduzioneSono tempi cruciali, tempi di manovre lacrime e sangue, di austerity e impoverimento, di tagli per molti e privilegi per pochi, di otto volanti borsistici, di precarietà, di guerre infinite, di rais che cadono e riot emergenti. Giunti ormai alle soglie del quarto anno della global crisis è tempo di mettere un punto analizzando i processi socio-economici da essa innescati e di provare a delineare qualche linea interpretativa dei comportamenti e dell’intensità antagonistica nel rapporto tra le classi dominanti e subalterne che ogni giorno sembra aumentare in tutto il mondo.Tutto ciò partendo dall’analisi di quello che siamo, volenti o nolenti, all’interno della catena del valore di questo sistema in crisi. Studenti universitari sì, ma non solo: impossibile isolare il soggetto studentesco in quanto tale dalle dinamiche che riguardano tutte le dimensioni dell’essere sociale. Nel rapporto tra studente ed università si scorge l’urgenza storica da parte della controparte (istituzioni di governo, partiti, banche, associazioni industriali come Confindustria, media mainstream, sindacati collaborazionisti come Cisl e Uil) di costruire le condizioni necessarie per il nostro inserimento nel sistema. Eppure ci sono delle controindicazioni..Si può dire che come sono state delineate (all’interno di una ridefinizione complessiva socio-economica di cui il Bologna process è il totem) le nostre potenzialità a livello di forza-lavoro precaria e si è cercato di modulare le condizioni sociali e giuridiche per metterci nel movimento economico e dispiegare anche lì il libero gioco della concorrenza in cui perdono tutti, ebbene si è anche, nel tempo della crisi, costruito un formidabile antagonista che proprio anche grazie al tentativo di mettere a lavoro i tempi e gli spazi che lo separavano da un lavoratore classicamente inteso lo rende sempre meno studente e sempre più precario, sempre meno categoria e sempre più soggetto sociale. Il proletariato giovanile che sta animando la primavera araba, ma che si è visto anche scendere in piazza per le vie di Londra o di Roma ne è la dimostrazione. Questa espansione della precarietà non è in linea di massima limitata allo studente-precario dell’università, ma tocca anche i settori dell’istruzione media, del lavoro autonomo, del classico lavoro fordista sindacalizzato. Si può scorge-re come a partire da punti differenti il risultato, a livello di tendenze, possa essere il medesimo quando la precarietà (espressione concreta del concetto di aggressione capitalistica alle nostre vite), organizzata dalla governance che garantisce le condizioni sociali del suo funzionamento) diventa il paradigma di riferimento. Le manovre finanziarie classiste e inique che stanno rimodellando ovunque (sfruttando il panico generato dai capricci dei mercati) le condizioni di vita di milioni di persone nell’un tempo ricco Occidente sono però questa volta vittime di una contraddizione enorme: quella di un sistema economico incapace di sopravvivere a meno di distruggere, di un siste-ma in agonia che può solo spremere fino all’esaurimento i suoi sudditi sempre più riluttanti ad accettarne le bruttezze e le infamie. Da Tunisi a Londra, da Roma a Santiago del Cile, da Madrid a Tel Aviv, dal Wisconsin al Guangdong movimenti diversi mettono in crisi la legittimità di questo ordine mondiale ed aprono la sfida per la definizione di quello che verrà. Milioni di persone paiono via via riscoprire il sentiero duro e del conflitto, dell’autorganizzazione e dell’azione diretta, della solidarietà e della voglia di una libertà non omologante tipica del nostro sistema di pensiero in crisi. Realizzando, nella lotta quotidiana, la realizzazione di quell’alternativa sociale che mai potrà esistere se concepita slegata dai conflitti re-ali, gestita da burocrati ridipinti di un rosso che odora di marcio. Bisogna prendere parte a questo sommovimento globale. E’ il momento di scegliere da che parte stare.

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Nell’appena concluso terzo anno della global crisis sono giunti ad un primo parziale accumulo diversi elementi di tendenza che era possibile scorgere dal principio della crisi stessa ma che ancora non avevano trova-to una determinazione definita. Rarefazioni ed improvvise accelerazioni, carsicità ed esplosioni, contenimenti e rotture, stanno segnando in profondità l’andamento di una temporalità difficilmente prevedibile ed ingovernabile ed una spazialità nuova, costantemente scossa, sotto tensione, prossima a cedimenti e a nuove aperture.Sia sul piano strutturale-oggettivo che su quello delle soggettività, molteplici ed approfondite sono le questioni da sottolineare.Da un lato il lungo elenco delle manifestazioni della crisi (finanziaria, politica, ambientale.. sistemi-ca): il rischio default per gli Usa e di una nuova bolla in Cina; l’indebolimento dell’Euro e l’incapacità e timore di rilanciare il progetto politico dell’Unione Europea; le crisi del debito (sovrano?) dei vari Piigs; la forte frenata dei Bric; le borse in erosione costante; la disoccupazione dilagante e l’impossibilità di risparmio e consumo; il rischio recessione; il potere sempre più sfacciato di istituti privati a là Standard&Poors & Co.; ricette neoliberiste sempre più aggressive, violente ed inutili come unica exit strategy possibile; palese incapacità dei governi di prendere deci-sioni autonome dai poteri economici; assoluta assenza di alternative istituzionali a livello di partiti di opposizione, sindacati o altro.Dietro questo parziale elenco si possono leggere in filigrana alcuni punti: 1. il capitalismo, lungi dall’aver relegato alle sue origini la “cosiddetta accumulazione originaria”, e dopo aver a lungo sperimentato una compresenza di differenti modelli di estrazione di valore, nel momento di crisi generalizza quella che in molti hanno definito “logica del saccheggio” con intensità ed estensione che annullano qualunque distinzione geografica;2. fuori dalle retoriche retrive che vorrebbero separare economia reale e finanza, il proces-so di finanziarizzazione si mostra come la forma contemporanea dell’accumulazione di valore dentro la produzione sociale. L’attuale crisi di questa forma è dunque data da una mancanza di accumulazione da parte capita-lista di fronte al blocco diffuso e molecolare di parte proletaria;3. all’accentuarsi dello scontro sociale il ca-pitale tende ad eliminare i dispositivi governamentali coi quali si era garantito un patto sociale dopo le ondate conflittuali dei decenni post-bellici, a partire dal welfare e dai diritti del lavoro;4. la fase di transizione che ha segnato la forma-stato da alcuni decenni continua a non trovare soluzione;5. la guerra permanente rimane uno strumento irrinunciabile di global governance;6. risposte di tipo riformista all’attuale congiuntura paiono sempre più inapplicabili.Nell’Italietta nostrana la seconda repubblica berlusconiana pare ai suoi ultimi sgoccioli, ma continua pervicace-mente a sopravvivere grazie ad una sfacciata corruzione dilagante dal Pd di Penati alla P4, ad una borghesia spenta

Attacchi e risposte

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ed incapace rappresentata dai sempreverdi uomini della salvezza Monti e Draghi, dall’onnipresente Napolitano in grado di suscitare insospettabili aspettative. Dopo le lodi bipartisan l’arroganza di Marchionne pare scalfita dai ribassi record del titolo Fiat, la Cgil della Camusso alterna in maniera semi-schizoide aperture concertative al fianco di Confindustria e dei sindacati gialli allo “spettro antinazionale” dello sciopero generale. Chissà.. Per non parlare di un Bossi ormai grottesco, trovando in questo una buona sponda in una opposizione per finta, sempre pronta a piegarsi al dovere nazionale come di fronte alla finanziaria lacrime e sangue dell’Italian austerity.Sul versante dei movimenti e delle soggettività si sta tessendo in controluce alle suddette dinamiche un ampio e variegato tessuto di lotte e conflitti di portata inedita da parecchi decenni. I territori risentono sempre più di tensioni e scosse telluriche, si formano spazialità transnazionali e sfere mediali di parte emotivamen-te connesse in grado di far circolare immaginari e pratiche di trasformazione, dalle metropoli diffuse si levano con sempre maggior consistenza grida di rivolta, pur con livelli spesso insufficienti di consolidamento di contropoteri permanenti. Un’ampia emersione di autonomia inizia ad alludere e delineare una nuova composizione di classe che trova i suoi livelli più avanzati in una classe media in via di proletarizzazione spesso saldata ad un preca-riato giovanile cognitivo e a forme di proletariato metropolitano. Una composizione tecnica che nel proprio divenire politica rompe le oramai consolidate linee sessuate e del colore che fino ad ora avevano retto nella partizione e separazione del lavoro vivo.Le lotte del mondo della formazione in Italia, Inghilterra e Cile, le insorgenze fatte di espropri e riot in In-ghilterra, la primavera araba in marcia da dicembre che continua a minare la stabilità degli equilibri negli assetti

mondiali, le lotte sui beni comuni come quelle in Val Susa, le nuove forme di mobilitazione come quella degli Indignados dalla Spagna alla Grecia ad Israele, nuove forme di sciopero come in Francia, un mai sopito prota-gonismo migrante.. Un altro mondo in costruzione, carico di ambivalenze ma anche di ricchezze e potenzialità ancora inespresse, si è ormai messo in movimento.Nel quadro appena tratteggiato la crisi ha messo a nudo i dispositivi del comando e la neo-modernità irrompe facendo cadere i veli del post e della storia liscia e senza conflitti, striandola ed increspandone il corso. Una mo-dernità fatta di guerre mura confini controllo oppressione sfruttamento ma anche di lotte e percorsi di liberazione. L’illusoria distinzione fra pubblico e privato cede di fronte allo spregiudicato utilizzo del capitalista collettivo dei due ambiti, alternati o congiunti, per tentare di salvare la propria imbarcazione nella tempesta. La

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2. Dai banchi a tutta la societa’Parte fondamentale e trainante in moltissime delle recenti lotte paiono essere gli studenti che a livello globale si sono attivati, in tutti i comparti della formazione, contro le riforme della scuola, ma andando in tutti i casi oltre la contestazione del testo di legge, letto in maniera matura e consapevole come tassello di un processo di ristrutturazione dal respiro ben più ampio. Riforme dell’istruzione finalizzate alle esigenze neoliberiste della ri-produzione di forza lavoro precaria e di messa al lavoro di cervelli-macchina (affronteremo questo ambito più approfonditamente al punto 4). Riforme che sono una delle varie facce della medaglia della ristrutturazione in atto, tra le più estese e pervasive del tessuto sociale in quanto nelle società globali l’obbligo scolastico e l’apertura all’università di massa fanno sì che il soggetto interessato sia particolarmente numeroso e innervato nella società. Infatti il tentativo di neutralizzare la figura dello studente in quanto tale e dei suoi spazi di manovra è già un dato di realtà nella precarietà degli studenti lavoratori universitari o degli stage non pagati dei ragazzi dei tecnici e professionali nelle aziende.La capacità del soggetto studentesco-precario di portare direttamente l’attacco ai nodi fondamentali del conflitto (crisi e governance) sembra un dato su cui riflettere. I recenti sommovimenti studenteschi in Italia, Spagna, Francia (dove addirittura si sono mobilitati per dei tagli pensionistici!), Grecia, paesi arabi, Cile, Gran Bretagna hanno avuto e mantengono la capacità di parlare alla società tutta indicando con mano ferma il nemico e l’obiettivo da col-pire. La portata del dissenso è riscontrabile in questa generazione che come unico futuro per la prima volta vede profilarsi la precarietà, avvertita come un modello da rigettare in quanto la dura realtà della crisi ne ha tolto gli ultimi fronzoli con cui veniva abbellita dai cantori della flessibilità neoliberista. E anche a livello di studenti medi la coscienza del proprio futuro di precario sembra sempre incrementare. L’attivazione dell’antagonismo studentesco si riscontra anche e in maniera forte rispetto all’attacco agli spazi di libertà (esami a scelta, ore da 55 minuti, legittimità dei fuoricorso ecc..) che il sistema disciplinare dei paesi neoliberisti pareva concedere nel mondo della formazione. Spazi di libertà che al momento della loro erosione diventano spazi di manovra del soggetto studentesco, luoghi fisici di ricomposizione e punti di accumulo dell’attac-co nella metropoli e dei simboli del potere in essa collocati. Un altro dato conseguente da riscontrare è la qualità del contenuto dei messaggi alla società di cui sono innervate queste lotte e la capacità in formazione, ma già

questione del debito assume una centralità sempre maggiore nell’essere grimaldello di ricatto e sfruttamento da chi detiene le leve del potere globale.Dentro, contro e oltre la sempre più asfittica quotidianità si impone l’urgenza della reinvenzione ed applicazione di un pensiero forte, di forme di movimento in grado di uscire da una immaginazione ciclica per esprimersi traccian-do nuove verticali in grado di mirare dritte verso il cielo. Uno sguardo sul reale che miri costantemente a delineare adeguati battleground e a raggiungere punti di rottura. In cui le soggettività puntino a una costante messa in discussione del sé tendendo verso un divenire piqueteros contro la crisi e un divenire wobblies nell’organizzare una composizione precaria, mobile, meticcia. Ripartire dalla potenza destituente del Que se vayan tod@s! che continua ad echeggiare in tutti i focolai di lotta contro le caste e le cricche politico-economiche, agire da acceleratori antagonisti e iniziare a costruire e consolidare forme di istituzionalità autonoma.

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Dai banchi a tutta la societa’

in parte messa in atto, di colpire la circolazione capitalista bloccando gli snodi del flusso delle merci come stazioni, aeroporti, autostrade facendo male alla controparte come abbiamo potuto assistere, ad esempio, in Italia nell’inverno 2010. Ponendo la sfida dello “sciopero moderno” come modalità di attacco alla circolazione delle merci e generalizzazione nell’ambiente urbano delle dinamiche di blocco della produzione e riproduzione di valore.La soggettività studentesca-precaria pare non risentire dei lineamenti del vecchio patto sociale ormai in frantumi ed agisce compiutamente nel nuovo panorama sociale avendo come bussola unicamente gli orienta-menti che riesce a scorgere nell’attualità più concreta. Prodotto finito delle politiche neoliberiste ne è anche la più compiuta antagonista. La capacità di lettura del sociale e la contaminazione spontanea con altre lotte (come ad esempio quelle operaie o territoriali) sembrano essere dei tratti caratteristici. A differenza in questo, ad esempio, dei settori del lavoro sindacalizzato che risentono in maniera molto forte (ma con alcune eccezioni: vedi Fincantieri) dei meccanismi governamentali di quel patto di collaborazione delle forze politiche istituzionali cui si accennava più indietro e a cui vanno aggiunti, senza remore, quanto meno i sindacati gialli collaborazionisti. Eppure, appunto, l’urgenza della crisi globale e la crisi della rappresentanza stanno forse incominciando a scalfire anche questi processi come dimostra la lotta di fabbriche particolarmente agguerrite. L’attacco alle scelte di governo sulla vita si articola e si sviluppa all’interno di una crisi della rappresentanza che si configura come tendenza aperta nello stacco fra popolazioni e territori rispetto alla casta dominante all’interno del soggetto sociale, specialmente studentesco. Se il capitale sembra aver trovato, ovviamente a livello formale, la quadra sul meccanismo governamentale (dove l’alternanza parlamentare nasconde in verità la difesa degli stessi interessi) lo stesso non si può dire dei governati che ne sono sempre più distaccati se non apertamente ostili. L’apertura di spazi di decisionalità collettiva costituitosi intorno al rigetto di crisi e governance riescono sempre

più a delineare, in questo contesto, l’esperimento di forme di organizzazione autonoma siano essi comitati, col-lettivi, assemblee permanenti, occupazioni. L’esempio del No Tav è emblematico quando il ministro Matteoli si dichiara preoccupato che in Valsusa qualcuno si possa prendere la briga di decidere da sé. Questo passaggio costituente è il momento chiave della crescita di questi movimenti che possono compiutamente

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3.

All’interno del quadro sin ora delineato è sicuramente importante cogliere il posizionamento dell’università, es-sendo questa da tempo il luogo in cui si attua il monopolio e il comando delle classi dominanti sulla produzione e la socializzazione dei saperi, elemento chiave in quel paradigma in cui ideologia, territorio e produzione del valore si legano nello strutturare il reale in una relazione sempre più stringente.Il ruolo centrale che svolge all’interno del nostro sistema l’università oggi va dunque contestualizzato in un quadro storico che coglie la connessione tra la formazione di élite intellettuali e la produzione dei saperi, il mondo del la-voro e i territori in quanto elemento fisico su cui si sperimenteranno forme moderne di controllo. In questo contesto se all’università viene concessa al momento della sua istituzione una piena e peculiare autonomia istituzionale, vediamo come questa sia possibile in quanto essa è materialmente subordinata, tesse le lodi e giustifica gli interessi del ‘principe’, assistendolo nella costruzione dell’impalcatura concettuale dello stato moderno.Se dunque la subordinazione delle élite intellettuali in Europa al potere politico non è mai messa in discussione, lungo l’arco dell’evoluzione storica la costante dell’accesso selettivo all’istituzione, preposta alla costruzione e socializzazione di saperi che incidessero e trasformassero il reale, ha consegnato nelle mani dei vertici via via al potere la possibilità di presentare dei processi storici di ristrutturazione sociale e dei territori come un processo universale e naturale, celandone le contraddizioni e lo sfruttamento che comportavano. Veniva così scolpito nella

cominciare a sperimentare e pensare punti di programma entrando appieno nella fase di movimento, destituente dell’esistente e affermativo di alterità praticabile. In presenza di questi fenomeni che non solo sfuggono alla maglie della governance allentate dalla crisi, ma addirittura, come nei paesi arabi ad esempio, sono costituenti di contro-potere fondato su passioni e bisogni di liberazione, è chiaro che anche i meccanismi governamentali iniziano a scricchiolare per il capitale. Il patto di collaborazione delle forze politiche istituzionali è funzionale alla conservazio-ni degli interessi delle élite finanziarie, ma perde terreno nelle società se queste tendenze continueranno ad inten-sificarsi. Possono conservare i loro interessi e utilizzare questo modello per avviare speculazioni, tagli e saccheggi rapaci dei territori, ma sotto la spinta dei movimenti il dominio neoliberale così come lo conosciamo comincia seriamente ad essere messo in discussione.

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L’università e la struttura sociale della modernitàSe questa è dunque la tendenza storica, è all’incirca all’inizio del XX secolo che il dispositivo di potere cui è prepo-sta l’università esprime la sua maggior potenza, soddisfacendo due necessità cardine del sistema capitalistico per riprodursi: la creazione di una classe dirigente asservita alle logiche capitalistiche e la riproduzione di una élite imprenditoriale destinata a tramandare la propria preminenza sociale, in un contesto dove lo scenario intel-lettuale è pienamente organico e funzionale.Esempi ne sono Gentile in Italia e Von Humboltdt in Germania. Quest’ultimo attraverso la propria scuola di diritto (scuola storica tedesca) non ha mai nascosto l’intento di costruire un università come un circuito di saperi ad uso e consumo delle classi dominanti e dei loro bisogni in termini di trasformazione sociale.Ed è proprio per rompere l’accesso ultra-selettivo ai saperi e alla possibilità di mobilità sociale che i movimenti degli anni ’60 e ’70 spingono nella direzione di una università di massa, accessibile a tutti, rompendo con l’università d’élite dei tempi. Oggi assistiamo ad un massiccio innalzamento di nuove barriere di accesso all’istruzione (vedi ad esempio i provvedimenti del governo Cameron in Inghilterra, ma anche i tagli a sussidi e borse di studio in Italia). Non bisogna tuttavia cadere in ipotetici scenari di ritorno a condizioni pre-’68. L’intento di fondo è un ulteriore approfondimento del meccanismo del debito più che una minor formazione della forza lavoro.In virtù dello stretto legame (mobilità e trasformazione sociale, saperi e trasformazione del reale) che si materia-lizza tra università, società e territori, che nel secondo dopoguerra (periodo di intensissima tensione sociale) la conflittualità generalizzata abbia trovato, insieme a molti altri terreni (autodeterminazione sociale come aborto e divorzio, condizioni di reddito e lavoro come nel conflitto industriale) nell’università un luogo privilegiato.E’ già dai tempi dei conflitti targati anni ‘70 dunque che i movimenti hanno scritto nella loro personale storia come i saperi non siano mai neutrali, come la loro trasmissione sia capace di celare e riprodurre la subordinazione sociale: l’università è di conseguenza un terreno in cui il potere cerca di riprodursi, un campo di battaglia politico sul quale una lotta relativa alla sua organizzazione e alla messa in discussione dei saperi che questa distribuisce è necessaria.

storia il mito del sapere come unico e neutrale. Detta altrimenti è stata mascherata la natura costitutivamente situata e contingente dei saperi proponendoli invece come descrittivi di processi materiali, che i saperi non potreb-bero dunque intaccare.Processi e tecniche di sfruttamento, paradigmi di potere e ideologie giustificatrici dunque si intrecciano nella co-struzione, riproduzione e rinnovamento dei sistemi di dominio, trovando nell’università, nei suoi addetti e nel suo prodotto (sia inteso come saperi, sia in termini di produzione di un soggetto che quei saperi ha interiorizzato) uno snodo fondamentale.

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L’università e la ristrutturazione sociale oggi

Dall’esclusione si è dunque giunti a forme di inclusione diffe-renziale e in questo scenario, gli anni ‘80 segneranno il suc-cessivo debutto del neoliberismo finanziario, che utilizzerà l’accresciuta forza lavoro qualificata per creare competizione sempre maggiore tra i lavoratori, in un gioco al ribasso che vede nell’introduzione generalizzata del meccanismo della precarietà la sua pietra angolare e nei prodromi del settore dell’”economia della conoscenza” il suo contesto.

L’università come baricentro della ristrutturazione precaria del lavoro

Da questo punto di vista viene in essere quel processo che Foucault chiama bio-potere. In un contesto di apparente mobilità sociale, ricomincia a fare capolino l’ideologia del merito e dell’efficienza, e mentre una minima ripresa economica tesse le lodi degli anni ‘80 come il periodo storico delle opportunità e della crescita, si comincia ad attaccare il concetto di welfare state, di redistribuzione sociale (riformista) della ricchezza, di raggiungimento del pieno impiego. Gli anni ‘90 e la costruzione dell’Unione Europea, con i suoi vincoli e i suoi obiettivi, sono dietro l’angolo, e saranno elementi fondamentali nell’aprire la strada a logiche di mercificazione e speculazione su uni-versità e lavoro. È questa dunque l’exit strategy che il capitalismo escogita, in termini complessivi, per rispondere alla crisi definitiva degli anni ‘70 che al livello sociale si era costituita tramite il rifiuto del lavoro fordista e del patto keynesista, che permette di rimettere in moto il meccanismo dello sfruttamento sociale in termini nuovi .L’intreccio di queste linee di tendenza, dagli anni ‘80 ad oggi, portano a un trentennio di politiche di flessibilità lavorativa e di ristrutturazione universitaria, che ci fanno affermare come, se nel primo momento la produzione massiccia di forza lavoro precaria è stata necessaria per permettere un rapido cambiamento nel paradigma della produzione, cambiamento che ha portato al sempre più forte attacco delle precedenti figure centrali della produ-

L’ottenimento dell’università di massa di cui sopra è stato però oggetto di un’impor-tante opera di rilancio nella ristrutturazione dei processi di sfruttamento. Alla vittoria dei movimenti sulla possibilità per molti di potersi bene o male permette-re l’accesso agli atenei, dal punto di vista del capitalista collettivo l’apertura a una università di massa è stata sussunta e resa compatibile in un momento in cui la crisi internazionale reimpostava la strategia capitalistica dall’apparente obiettivo del pie-no impiego (da raggiungersi tramite il lavoro operaio e manuale) e della produzione

materiale, alla delocalizzazione e la terziarizzazione del lavoro. La ristrutturazione capitalistica, spostando l’asse della produttività fordista verso la cooperazione metropolitana, ha frammentato i soggetti produttivi in una pluralità di figure. L’operaio massa, il segmento di classe in grado di ricomporre le lotte nel paradigma fordista, perdeva di centralità in favore di una nuova composizione che venne definita dal pensiero operaista “operaio sociale”.

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zione (soprattutto operaie), in un secondo momento la crescente disoccupazione operaia è stata accompagnata da una sempre maggiore disoccupazione giovanile e precaria.Questo doppio binario, precarietà giovanile e dismissione delle vecchie garanzie del lavoro, permette oggi di gene-ralizzare il meccanismo precario, che cerca di allargare la propria incidenza su tutti i settori della formazione e del lavoro come nuovo modello portante dello sfruttamento capitalistico.E’ dunque nel contesto di un mercato del lavoro altamente frustrante e insoddisfacente, oltre che fortemente bloc-cato, che il meccanismo bio-politico produce la individualizzazione e frammentazione del nuovo soggetto pro-duttivo. A questo fanno da sfondo dismissioni strutturali in termini di università e ricerca, come di welfare e diritti sul lavoro, portando alla crescita di nuove forme di povertà, alla proletarizzazione dei ceti medi, allo sfruttamento sempre più intensivo del lavoro precario e migrante.

Tutto questo mentre la ca-pacità, già scarsa, dei saperi trasmessi nelle università di fornire stru-menti critici nella lettura del reale e consentire ef-fettiva mobilità sociale, crolla in modo inversamente proporzionale all’accrescer-si del costo del servizio. La presenza di massa all’interno degli atenei viene sfruttata per osteggiare metodi didat-tici critici in favore di quelli individualizzati, capaci di riprodurre esclusivamente quei saperi in grado di rende-re i soggetti sfruttabili in un mondo del lavoro altamente dequalificato e articolato.

L’università ha sempre piegato l’offerta formativa secondo quelli che sono gli standard capaci di soddisfare la do-manda di forza lavoro di un sistema produttivo costantemente in crisi e incapace di rispondere alle sfide di cam-biamento che la crisi stessa impone se non introiettando le innovazioni prodotte dalla dinamica antagonistica che fonda il rapporto sociale capitalistico. Per questo motivo va fatto un utilizzo controllato della definizione di azien-dalizzazione dell’università. Essa non significa altro che un adeguamento dell’istituzione in questione alla forma

I risvolti del precariato all’interno dell’università: saperi, didattica e formazione

impresa, forma che tende a divenire egemone nell’organizzazione sociale contemporanea. Non a caso si parla di rettori-manager, governance universitaria (ricordiamo che il termine deriva dal corporate governance aziendale) e consigli di amministrazione. Il lavoratore viene spinto a farsi impresa individuale e il senso di appartenenza nazio-nale superato dall’appartenenza aziendale. Ciò detto, aziendalizzazione non significa ingresso nei privati nell’uni-versità! L’impostazione dicotomica di pubblico e privato come polarità distinte è uno dei veli di maya dell’ideologia neoliberista. E’ necessario respingere questo approccio ipostatizzante per assumere pubblico e privato come due facce della stessa medaglia, sin dalle origini della modernità. Dunque non possono che nascondere uno sfondo reazionario le retoriche che in nome dell’opposizione all’ingresso dei privati nelle università invocano un ritorno al

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pubblico, cioè più Stato.L’università voluta da imprese e governi passati e presenti in tutta Europa è quella che si sta rivelando capace, alla luce dei fatti, di produrre forza lavoro precaria, altamente qualificata ma altamente ricattabile, nel minor tempo possibile. La merce particolare della fabbrica dei precari siamo noi studenti e i saperi da noi prodotti tramite tempi alienanti in sintonia con i ritmi del lavoro precario, con conoscenze parcellizzate e segmentate e una incapacità evidente nel non poter difendere e rivendicare i diritti di una categoria di lavoratori poco definibili e riconoscibili.

Il Bologna process, il processo continentale di unifica-zione dei criteri di valutazione delle carriere universitarie, si è rivelato di fatto, invece che un ascensore sociale in ambito europeo un meccanismo di dequalificazione dei saperi (processo riassunto nell’introduzione del cre-dito, strumento quantitativo di valutazione di una cosa, il sapere, per sua natura non calcolabile, qualitativo) e di nuova contingentazione dei tempi, dettati dall’introdu-zione del 3+2 e dei meccanismi di formazione perma-nente (long-life learning). Sotto questo punto di vista è facile leggere le mobilitazioni in tutta Europa come l’estendersi di un sentire comune che percepisce il lega-me tra le trasformazioni dell’università e l’abbassamento delle proprie aspettative di mobilità sociale.Lo studente perde completamente l’illusione di utiliz-zare il transito nell’istituzione dell’istruzione superiore per produrre una propria idea del mondo e costruire un proprio percorso formativo e di lavoro, semplicemente passerà tra un esame e l’altro acquisendo saperi parcel-lizzati, acritici, incapaci di consegnare degli strumenti di riflessione critica e visone complessiva del reale, col solo scopo di renderlo efficiente nell’immagazzinare, utiliz-zare e cancellare il più velocemente possibile nozioni e capacità, vero elemento di continuità tra formazione e lavoro del nostro tempo. Il cervello umano diventa

solamente una macchina, un semplice hardware dove inserire tanti piccoli saperi-software slegati tra di loro giusto per il tempo che ci serviranno prima di abbandonarli. E’ significativo in questo senso il parallelismo con il sistema dei brevetti, che vede dei saperi facilmente espropriabili come non idonei a divenire fonte di arricchimento per i soggetti che li utilizzano, ma semplicemente fonte di alienazione. L’insegnamento frontale, già di per sé fonte di alienazione che svilisce le potenzialità dei processi collettivi e cooperanti di formazione, scaturisce in uno studio individualizzato e atomizzato, che è alla base della rinuncia alla costruzione di un sapere condiviso e al lavoro cooperativo, in nome di tempi e metodologie di studio in cui il docente e’ solo uno strumento, il raccoglitore di ricerche e lavori fatti sì autonomamente dallo studente, ma con una concreta mancanza dei servizi e di strutture che costituivano la forza dell’università nel suo ruolo pubblico (e che giustificherebbero il pagamento delle tasse): la forza di un luogo dove avviene la trasmissione diretta dei saperi, dove si confrontano pensieri divergenti, risultati e validità delle iniziative, in un costante e irri-nunciabile rapporto critico docente–studente.In un’ ottica più ampia, la condizione di individualizzazione e isolamento fisico e mentale si ripercuote sulle logi-che lavorative della massa precarizzata: si creano soggetti che lavorano senza aver nessun legame tra loro, segregati e per questo deboli a livello di diritti, che potrebbero reclamare maggiori diritti solo in un contesto di riconoscimento collettivo.

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Prospettive (e realtà) dell’università precaria oggi: il prestito d’onore

Tutto questo mentre l’indebitamento dell’esistenza arriva ad attuare uno dei meccanismi bio-politici per eccellenza, tramite il prestito d’onore. Se in Italia lo studio tramite indebitamento per ora è solo l’orizzonte struttura-le di un sistema che preferisce produrre una larga massa di precari che non troveranno posto nel mondo del lavoro (stritolandola nella morsa dell’aumento dei costi e dello sfruttamento all’interno del territorio, visto che ormai è pressoché impossibile per uno studente provvedere ai propri bisogni se non coniugando in itinere lavoro precario e studio precario) la realtà in molti paesi è diversa.Scommettendo sulla propria vita, sul suo accesso all’università e il pagamento dei suoi costi vertiginosi, lo studente-precario è subordinato infatti a prestiti a quattro zeri (spesso e volentieri tra i 30.000 e i 50.000 dollari in USA) da parte di banche che di fatto gli annodano intorno al collo il cappio del debito, costringendolo ad accettare senza remore un servizio acritico e volto allo sfruttamento, rispettandone tempi e disciplina, per poi rituffarsi nello sfruttamento precario accettando qualsiasi tipo di lavoro, dato che il fausto momento della laurea fa il palio con l’imminente necessità di saldare il vertiginoso debito contratto. In questo contesto si rende sempre più stringente la necessità di organizzare il rifiuto a ripagare il debito e praticare un concreto diritto all’insolvenza.Disciplina e subordinazione nello studio e nel lavoro sono così servite, allo stesso modo in cui l’ideologia del consu-mo è stato capace, sempre tramite il sistema del debito finanziario, di proporre un modello di pace sociale basata su livelli di consumo che il reale livello salariale dei lavoratori non sarebbe mai riuscita a coprire e che vede all’oggi soprattutto nella rivendicazione del diritto alla bancarotta una via d’uscita capace di rivendicare maggiori livelli di qualità della vita, senza per questo farsi abbindolare da retoriche lavoriste e di sacrifici. A questo va aggiunto che la situazione di precarietà esistenziale è anche prodotta dalle imperanti retoriche securitarie delle quali spesso la soggettività studentesca, quale portatore del solo obbligo di studiare e produrre, è oggetto privilegiato del controllo metropolitano e della conseguente desertificazione dei luoghi di socialità. Questo, insieme all’assenza di spazi anche all’interno dell’università per socializzare saperi critici o proprie visioni del mondo, che porta anche le facoltà a perdere quella capacità di essere centro aggregativo e di produzione di un identità critica e autonoma, favorisce invece un attraversamento subordinato alla disciplina universitaria con la conseguente inte-riorizzazione dell’ideologia dominante (meritocrazia e efficienza).

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4. Costruire antagonismo nelle facoltà

A partire da queste considerazioni non è più possibile rifiutarsi di portare avanti istanze di cambiamento che insistano su elementi centrali della nostra università, nella consapevolezza che oggi i luoghi di formazione e produzione di saperi sono sempre più diffusi e che le università stesse non sono separate dalla metropoli produttiva bensì pienamente inserite nei suoi flussi. Un’università autonoma e la produzione autonoma dei sape-ri, nella loro capacità di produrre risvolti pratici e materiali, è un importante nodo di attualità per i movimenti, che legandosi a molte altre istanze contro la crisi stanno emergendo in questi anni, fuori e dentro l’università, in Eu-ropa e non solo. Questa prospettiva consiste nel trovare nell’autogestione e nell’autorganizzazione quei mezzi capaci di trasformare i nostri spazi e tem-pi di vita, di costruire quegli strumenti coi quali soddisfare bisogni e desideri che per noi stessi costituiamo come obiettivi.E’ importante sottolineare come i movimenti del mondo della formazione negli ultimi anni in Italia, grazie al catalizzatore offerto dalle ultime riforme dell’istruzione (Moratti 2005 – Gelmini 2008 – Gelmini 2010), sia stata tra

le principali minacce ai governi Berlusconi, soprattutto se registriamo il percorso delle finte opposizioni della cosiddetta sinistra radicale, che proprio nel proprio ruolo collaborativo hanno imboccato il baratro che li ha portati a uscire dal panorama parlamentare del nostro paese. Questi movimenti hanno con grande intelligenza assunto una dimensione sociale, specchiandosi nella battaglia contro il modello-Marchionne e il connesso tentativo di uscita padronale dalla crisi, per poi riversarsi nell’importante vittoria referendaria e soprattutto, smentendo ogni possibile risucchio giustizialista-istituzionale, nella “madre di tutte le battaglie”, quella resistenza contro la Tav in Val di Susa che ha ricomposto insieme diverse anime di movimento, non sulla carta ma sulla montagna, e sul terreno oggetto di conflitto.Bisogna però ragionare, in mancanza di altre riforme direttamente legate all’organizzazione degli atenei e del mon-do dell’istruzione superiore, su come e dove imprimere quella forza raggiunta in tre-cinque anni di lotte.

Rivendicazioni e prospettive per un’università autonoma e trasformante

Per questo l’obiettivo diventa necessariamente produrre autonomia in università: questa significa cambiare e reinterpretare tutti quei gesti ed elementi quotidiani che fanno parte del nostro processo di formazione. Se come detto il modo in cui attraversiamo un’università complice di costruire un futuro fatto di atomizzazione e precarietà può permettere a questi processi di riprodursi, proprio la costituzione di comportamenti, saperi e pratiche di rifiuto dello studio e di conflitto possono invece interrompere e anche rovesciare questi meccanismi.Questo è possibile incidendo e trasformando i metodi didattici, costruendo spazi per l’autoformazione di studenti e altri soggetti (docenti e ricercatori) nel produrre seminari, lezioni e corsi di studi che possano sostituire nel proprio corso di studio gli spazi occupati da corsi frontali, spesso obbligatori, che non rispondono ai bi-sogni formativi e di conoscenza dei soggetti stessi. E’ necessario modificare profondamente i percorsi di studi, sempre più bloccati con un lungo elenco di esami obbligatori e una sempre minore offerta di scelta delle materie opzionali e integrative, favorendo la transdisciplinarità.E’ necessario aprire anche all’autorganizzazione degli spazi fisici dell’università, non solo in quanto fonda-

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Rivendicazioni e prospettive per un’università autonoma e trasformante

mentali per rispondere ai bisogni di socialità del soggetto studentesco, ma anche per permettere la connessione extra-didattica con altri soggetti che operano all’interno delle metropoli.Lottare per l’eliminazione di test d’accesso e di prerequisiti alle iscrizioni, ma anche mettere fine alla gerarchizzazione delle fasce di pagamento evitando ogni pulsione meritocratica nel decidere l’importo della contri-buzione, e anzi via via riducendo fino alla loro scomparsa le tasse universitarie. Di fronte ai piani di dismissione strategica dell’università è necessario affermare che di questa università non vi è nulla da difendere. Che la crisi dell’università della riforma permanente è anche crisi della rigida compartimen-tazione dei saperi in discipline inadatte oramai a leggere e produrre il reale e che solo tramite l’autoformazione e la pratica transdisciplinare è possibile formare nuovi strumenti adeguati al presente. Nel blocco feudale della vita degli atenei imposto dal baronato e nell’impossibilità di soluzioni riformiste è necessario impiantare un rifiuto che produca processi di istituzionalità autonoma. Infine, fuori dalle logiche che parlano di mercificazione del sapere, è necessario affermare che il sapere è merce, una merce fredda, espropriabile e sviluppata per il proprio valore di scambio. Di fronte a ciò, assumere questa cultura implicita che attraversa anche i nostri corpi e rovesciarla in forme calde dove il sapere vivo conquisti la sua esistenza per il proprio valore di scambio, per l’arricchimento individuale e sociale.

Lotte e saperi: direzione Val di susaVediamo come il circuito della produzione dei saperi e della gestione dei territori messo a punto dalla controparte può però essere sfidato, prendendo l’esempio della lotta No Tav in Val di Susa. Da anni la valle si trova a scontrarsi con il silenzio mediatico, rotto solo dalla riproduzione dell’emergenza nei casi di conflittualità, e con una politica bipartisan che attraverso la dittatura della maggioranza istituzionale e il sempre verde ricorso alla retorica di auste-rità e sacrifici impone la produzione di un’opera inutile e dannosa, allo scopo di favorire le solita lobby speculative di turno.Crediamo che un punto di forza di questa esperienza stia proprio nel ruolo che l’uso di parte dei saperi ha giocato in questa partita. A partire dalle resistenza infatti si sono susseguiti i momenti di formazione e ricerca di quei dati tecnici che contrastano, punto per punto, il presunto sapere universale, figlio di interessi speculativi, che descrivono l’opera come necessaria.E’ proprio il fatto che quella popolazione si sia dotata nel tempo di strumenti critici per valutare cambiamenti im-portanti nel proprio territorio e nella propria vita che ha permesso la generalizzazione del consenso e ci permette

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di dire che la ragione sociale sta tutta dalla parte di chi resiste, sia perché dotata degli argomenti necessari alla valorizzazione del proprio territorio sia perché portavoce di un consenso sociale reale.

E’ da questa consapevolezza che dobbiamo ripartire, per portare anche in un pilastro sociale come l’università, nel cuore dell’istituzione preposta alla produzione e socializzazione dei saperi, metodi e argomenti capaci di mettere in moto un cambiamento sociale radicale dell’esistente.

Non si tratta né di riformare l’università né di abbatterla tout court in termini semplicistici: la posta in palio è svuo-tare la funzione capitalistica dell’università, cambiarla di segno, renderla improduttiva per le esigenze del potere, trasformarla in una fucina di sapere critico, divergente, conflittuale. Significa scardinare il baronato all’interno delle nostre facoltà, colpevole di costruire lobby intente a giocare a risiko nel cercare di accaparrare per la propria cricca più cattedre possibili, imponendo i propri punti di vista che, più si fanno portavoci dell’apologia del presente e del punto di vista del potere, più permettono alla cricca di accumulare potere e visibilità. Significa costruire forme di istituzionalità autonoma dentro e contro le facoltà.

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Politica è comunicazione

5.

Se una cosa possiamo dire con sicurezza assoluta è che la comunicazione, nelle sue molteplici forme, è diventata un qualcosa di essenzialmente indivisibile dalla politica. Nel riconoscere questa fusione si intende dire che ogni soggetto politico moderno deve essere allo stesso tempo soggetto capace di comunicare all’esterno evitando di rinchiudersi in ghetti anti-sviluppisti e di non vedere le possibilità che si sono aperte con i recenti sviluppi in questo campo, pur nella loro costitutiva ambivalenza. L’emersione del web 2.0, con le contrastanti possibilità che questo offre (social networks, blog, utilizzo delle tecnologie mobile) ha sicuramente caratterizzato in maniera forte tutti i movimenti trasformativi degli ultimi anni, permettendo un forte salto di qualità nella capacità di sfondare la Grande Muraglia dell’informazione mainstream.

Rivoluzioni copernicaneLo avevamo percepito con le prime scintille nella palude della crisi italiana e poi con la le rivoluzioni che hanno infiammato per prime le piazze tunisine ed egiziane: la Rete ha assunto un ruolo sempre più cruciale come disposi-tivo di sommovimento e di creazione di senso che trascenda la sua connessione con la singola realtà e vertenzialità. Lo scopo? Creare parole d’ordine generali e dispiegare uno strumento di lotta immediatamente fruibile in un contesto ampio, quando non transnazionale.Riconducendo il dibattito fuori dall’arena del positivismo acritico e del nichilismo tecnologico, il Battleground del web (come battezzato da John Perry Barlow) si configura così un dispositivo cruciale per attraversare un nuovo autunno che, nel delirio finanziario e sotto la scure della crisi e dell’austherity, si annuncia più caldo e insorgente che mai.Anche limitandoci al confronto con l’Onda, è innegabile che Facebook e Twitter abbiano costituito un enorme mezzo di espansione della mobilitazione di questo autunno passato contro il governo Berlusconi, permettendo una circolazione di video-appelli, di appuntamenti per cortei e flash mob, oltre che fornendo il basso continuo di informazione alternativa a quella propinata dai tg e dai siti di informazione mainstream. I recenti dati dicono che nei giovani la percentuale di chi si informa su internet è quasi pari a quella di chi ancora utilizza la televisione. Questa è sicuramente una rivoluzione copernicana nel campo della creazione di consenso, nella quale anche i movimenti hanno già avuto e possono avere ulteriori margini di crescita.Nella capacità di utilizzare sapientemente questi mezzi si danno sicuramente grandi potenzialità di sviluppo per i movimenti, tenendo sempre conto dell’ambivalenza di questi mezzi e della loro inutilità in mancanza di movimen-ti reali, di piazza che agiscano sui luoghi fisici del potere. Tutta la retorica che abbiamo visto riguardo alle “Twitter Revolution” arabe è stata giustamente attaccata da più parti, quando questa voleva insinuare subdolamente che fosse stato l’utilizzo dei social network a permettere la cacciata dei rais e non invece la determinazione, il coraggio dimostrato da migliaia e migliaia di manifestanti esasperati in tutto il Maghreb.Bisogna evitare una irrealistica esaltazione della Rete come propulsore o addirittura causa stessa

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Danzando tra i linguaggi

delle rivolte: una lettura al caviale, come quella di Bernard Henry–Levy, che si limita con una certa spocchia a letture di manzoniana memoria “per ottenere un tozzo di pane” e l’accesso a Twitter. O una puerilmente emotiva come quella offerta dal partito di Repubblica, ansioso di fomentare il mito di una caduta di Berlusconi grazie alla creazione (dal sapore quasi mistico) di soggetti a formato di social network.Non ha mai avuto senso assumere un confine netto tra reale e virtuale: sono due dimensioni di un unico processo sociale. Così come nell’economia, dove la finanziarizzazione non si dà come ambito separato dalla produzione bensì come tentativo capitalistico di organizzazione del lavoro ed estrazione di valore, così per le lotte i legami freddi che caratterizzano l’infrastruttura dei media sociali non hanno alcuna utilità se slegati dalla realizzazione di concrete dinamiche di piazza. Un esempio da questa riflessione può essere lo sviluppo del movimento degli indignados in Spagna, di cui si è detto giustamente molto dell’utilizzo magistrale delle possibilità offerte dalla Rete ma poco invece delle grandi assemblee che ancora continuano nei barrios di numerose città iberiche che dimostrano la reale trasposizione sul concreto delle relazioni sociali emerse nell’ambito telematico.Ancora, #jan25, #sidibouzid e #tahrir sono solo alcune delle parole che hanno permesso di seguire minuto per minuto l’evolversi delle rivoluzioni mediterranee e ai rivoluzionari di organizzarsi forzando le maglie della censura.

Anche la vittoria referendaria di giugno, con gli intrecci tra la mobilitazione in Rete e il lavoro costante di centinaia di comitati territoriali, ci dimostra che è nell’interazione tra l’ambiente di Internet e la piazza fisica che bisogna lavorare, approfondendo soprattutto il ragionamento sull’impostazione virale di campagne comunicative.Quanto alla sfera del linguaggio, un ulteriore dispiegamento delle potenzialità di contro - utilizzo della Rete si è dato attraverso il detournement delle parole, il subvertising della retorica politica mainstream e la creazione stessa di significati e significanti, sfruttando quella viralità intrinseca allo strumento che permette di produrre partecipa-zione distribuita, quantomeno nella creazione e diffusione di messaggi e parole d’ordine, in una dimensione spazio – temporale estremamente duttile.

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Basti pensare all’attacco dei mediattivisti ai meccanismi di Twitter durante la grande giornata NoTav del 3 luglio: l’hastag nervi #saldi si è impossessato di una parola usata in chiave di consumo, andando a virarla di significato. Ciò ha prodotto due risultati (peraltro riconosciuti quasi con terrore dal folto partito dei “riferisce la questura”): fornire informazioni sul campo a vantaggio degli attivisti presenti in Val di Susa e imporre la cronaca della marcia chiomontina anche agli algoritmi ostili del social network. Un esperimento che va a bissare il successo ottenuto dagli Indignados spagnoli che, in questi mesi, hanno inventato e viralizzato gli hashtag più diversi per cortocircuitare i canali comunicativi mainstream a proprio vantaggio.Ecco dunque il ruolo della Rete: non certo creatrice di insorgenze eterodirette dalla Mano Invisibile di Youtube e Facebook, bensì luogo di organizzazione dei movimenti e di espansione della comunicazione politica di questi.Non bisogna tuttavia supporre uno scontro tra media mainstream e media dal basso, sia perché co-munque i primi sono un terreno che non bisogna abbandonare ma anzi cercare di forzare quotidianamente com-prendendo come funzionano le agenda setting mainstream e capendo i meccanismi comunicativi che permettono di “fare notizia” ma anche perchè permettere al web 2.0 di diventare un luogo liberato e assolutamente corretto e orizzontale di informazione partecipata rischia di diventare poi un terreno scivoloso quando la controparte decides-se di smetterla di utilizzare ciecamente i social network come dei puri mirror delle loro testate e di passare ad un utilizzo appunto più “sociale” del mezzo stesso.

A questo riguardo la capacità di diventare impliciti “opinion leaders” nel traffico delle centinaia e centinaia di byte che affollano l’info-sfera è una qualità che andrà sempre più raffinata per chi si pone la volontà politica di creare mobilitazione. Per farlo, sicuramente lo sviluppo di un adeguato utilizzo delle possibilità offerte dalle peri-feriche mobile (come ad esempio le dirette real time dai cortei) è centrale: la Val Susa ha insegnato come le bugie dei media mainstream possano essere sbugiardate dal materiale raccolto e inviato in tempo reale dal mediattivismo diffuso, che a dieci anni dalla sua comparsa su larga scala a Genova dimostra di essere più in forma che mai. In tutto il mondo, in tutti i movimenti sociali, dal Cile alla Spagna, passando per l’Inghilterra e la Cina, il contributo dato dagli smartphone alla creazione di informazione dal basso (pensiamo in Italia ad esempio a YouReporter) aumenta sempre più...

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La de–mistificazione degli equivoci più o meno consapevoli sulla Rete e la sua restituzione a diffusore di organiz-zazione piuttosto che polarizzatore di lotte è perciò la chiave di volta per leggere anche i tentativi di creazione di movimenti transnazionali che si sono dati nell’anno appena trascorso. Il tentativo di costruzione di un tessuto di rete e di parole d’ordine comuni grazie a un approccio transmediale ha ribadito, se ancora ci fosse qualche dubbio, che costruire una rete transnazionale organizzativamente connessa di rivendicazioni e riappropriazione è possibile, ma solo se ciò si accompagna a una ricomposizione nel reale dei vari soggetti in lotta, al fine di produrre un proprio immaginario capace di decodificare la complessità dell’esistente, ampliando sempre di più il “noi” e nel contempo individuando sempre con maggiore nettezza la propria contro-parte.Prescindendo dalle motivazioni di queste letture palesemente fuorvianti, appare più interessante osservare come la Rete possa assumere il ruolo di moltiplicatore solo in presenza di soggettività sedimentate nel reale, già capaci di produrre senso, pratiche e ricomporre le varie “scintille nella palude”. Non bisogna infatti dimenticare, come dimostrato dal contesto italiano, che la rete tende a produrre legami deboli e, che, in quanto fattore unico, non può essere concepito come una sorta di deus ex machina capace di ribaltare regimi dittatoriali in piedi da decenni. Non basta quindi, mutuare da altri linguaggi e immaginari e immetterli nel calderone del web per creare soggetti politici in grado di incidere nelle lotte. Prova ne sia il contesto tunisino, laddove l’organizzazione non è certo nata dall’oggi al domani, si era già data tra vari soggetti (università, sindacati, movi-menti) in un momento precedente, per poi esplodere definitivamente con il casus belli proposto dall’immolazione di un ragazzo a Sidi Bouzid.Bisogna quindi sviluppare una teoria ed una prassi di utilizzo congiunto di tutte le possibilità comunicative esisten-ti, senza dimenticare il ruolo centrale della “cultura della strada”. Se molti, nel raccontare le rivolte arabe, puntano il focus soprattutto sul ruolo svolto dai new and old media, sarebbe sbagliato dimenticarsi il ruolo avuto dalla cir-colazione di informazioni nelle piazze, da linguaggi da strada come ad esempio quello dell’hip-hop dei ragazzi dei quartieri di Tunisi come di Londra, dalla sempre maggiore conoscenza da parte del popolo in rivolta di come muoversi all’interno di piazze conflittuali, organizzare e difendere il proprio conflitto e il proprio territorio. Proprio per questo avere la capacità, in un contesto sicuramente diverso da quello delle metropoli magrebine, di rendere le proprie zone luoghi di trasmissione di linguaggi alternativi e che comunichino ogni giorno, con scritte, volantini, manifesti prese di posizione antagoniste sul reale è un compito fondamentale.

Il Battleground per un autunno di lotte transnazionali

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Quello a cui ci troviamo di fronte è un mosaico di conflitti e insorgenze che hanno come origine le conse-guenze della crisi e delle politiche governamentali che la stanno contrastando/attraversando. I dati fondamentali che unificano e permettono di usare espressioni come “sommovimento globale” non sono solo le cause scatenanti della conflittualità, ma anche e soprattutto la lucidità con cui a livello trans-nazionale si identificano la crisi -come sintomo acuto del fallimento del modello neoliberista- e la governance come i responsabili delle disuguaglianze e dei costi sociali esistente allo stato di cose presenti. Il protagonismo giovanile è un altro dato costante da tenere in considerazione come lo è il manifestarsi, talvolta e quando le circostanza lo richiedono, violento dei momenti di contestazione, in un superamento del tranello etico della non-violenza a fronte della difesa, anche a costo dello scontro violento, del proprio percorso di decisionalità autonoma rispetto ai freni e ai blocchi imposti dalla governance. Sembra proprio questa energia costi-tuente di percorsi di liberazione dispiegati in maniera antagonistica nel reale, nell’unico mondo possibile, quello in cui viviamo e che va cambiato, la costante più intrinseca di questi movimenti globali del nuovo millennio. Il confronto sorge spontaneo con un altro grande movimento globale, il primo dopo l’89, e cioè quello No Global che aveva già indicato il nemico nel suo livello più alto, quello dei vertici internazionali e delle multinazionali, e che trovava il suo collante in una forte tensione etica di rifiuto dell’esistente che teneva insieme le più diverse sogget-tività e sensibilità. L’11 settembre e la guerra infinita di Bush provocarono la fine di quell’esperienza incapace di rimodellare il suo agire a fronte del contrattacco capitalista. Oggi a dieci anni di distanza sembra riemergere una conflittualità che era stata latente, ma finalmente dispiegata a livello globale, una conflittualità che forse non è nell’etica che trova il suo collante, ma nella contrapposizione antagonistica ai processi di rimodellamento e ristrutturazione agiti dalla classe-parte capitalista delineando nel concreto della lotta modelli di superamento della cooperazione sociale comandata dal capitalismo contemporaneo.

Conclusioni

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