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Umano è. Come la fantascienza racconta l'universo-handicap..2 Prefazione - Il Superuomo invisibile........................2 Fratelli invalidi...........................................3 01-A cinquantamila anni-luce da casa........................4 02-Con gli occhi degli altri................................5 03-Gli stereotipi razzisti nella fantascienza...............6 04-Se ci sveglia Sturgeon...................................7 05-Un filo di bava..........................................8 06-Tutti i nostri alieni nel cuscino.......................10 07-Belli, senza eccezioni..................................12 08-Vedere oltre gli occhi..................................14 09-Un cyborg per nemico, un cyborg per amico...............15 10-La carne e i circuiti...................................17 11-Corpi, sogni, incubi, think tank........................19 Limbo......................................................21 Note.....................................................24

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Umano è. Come la fantascienza racconta l'universo-handicap..............................................2Prefazione - Il Superuomo invisibile......................................................................................2Fratelli invalidi.......................................................................................................................301-A cinquantamila anni-luce da casa....................................................................................402-Con gli occhi degli altri.....................................................................................................503-Gli stereotipi razzisti nella fantascienza............................................................................604-Se ci sveglia Sturgeon.......................................................................................................705-Un filo di bava...................................................................................................................806-Tutti i nostri alieni nel cuscino........................................................................................1007-Belli, senza eccezioni......................................................................................................1208-Vedere oltre gli occhi......................................................................................................1409-Un cyborg per nemico, un cyborg per amico..................................................................1510-La carne e i circuiti..........................................................................................................1711-Corpi, sogni, incubi, think tank.......................................................................................19Limbo...................................................................................................................................21

Note..................................................................................................................................24

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Umano è. Come la fantascienza racconta l'universo-handicap

di Daniele Barbieri

Prefazione - Il Superuomo invisibile.

Tra i molti romanzi che Daniele Barbieri cita, in questo suo rapido ma enciclopedico excursus sul tema fantascienza / handicap, ce n'è uno che indicherei quale particolarmente significativo. È Nascita del superuomo (More than Human, 1953) di Theodore Sturgeon. Una delle opere più belle dell'intera fantascienza, da raccomandare, assieme alle altre di Sturgeon, a chi insiste nel disprezzare questo genere letterario.

L'aderenza del romanzo alla tematica che ci interessa è evidente. Senza sostituirmi a Barbieri nel delinearne la trama, mi limito a dire che questa vede cinque persone, affette da gravi menomazioni fisiche e mentali (e, in un caso, dall'isolamento derivante da poteri troppo eccezionali), unirsi, superare assieme i propri handicap e formare congiuntamente una nuova entità collettiva: un superuomo dalle capacità illimitate.

Il pretesto della trasformazione, prettamente fantascientifico, qui non conta. Ciò che conta è la metafora (la grande fantascienza è spesso metafora, per non dire sempre). Le insufficienze possono essere superate mediante la solidarietà. Non quella di chi è o si ritiene "normale" (utile, certo, però in sé non bastevole), ma in primo luogo quella tra chi non viene considerato tale (come se il tasso di "normalità" fosse misurabile).

Abbiamo assistito, in tempi meno grigi dei presenti, a esempi luminosi di handicap che si traduceva in lotta, in proposta e finiva col conquistare una fulgida dignità. Basti pensare a come le cliniche dirette da Franco Basaglia e da altri psichiatri o antipsichiatri di pari livello seppero trasformarsi, fin dagli anni '60 e per tutti gli anni '70, in centri attivi di elaborazione culturale, in cui l'handicap mentale spariva e la collettività di coloro che ne erano portatori rivendicava orgoglio e intellettualità. E che cos'erano, se non forme di handicap, persino più disprezzate di quelle organiche, le condizioni delle minoranze etniche in tanti Paesi, a cominciare dai neri d'America? Il loro riconoscersi quale collettività diede luogo a una delle rivoluzioni più profonde del secolo appena trascorso, e a una battaglia epica in cui la debolezza fu, tramite la solidarietà, convertita in forza.

Ma gli esempi sarebbero tantissimi. Alla base, senza risalire troppo indietro nel tempo, la parola d'ordine dei socialisti dei primi del '900: "Proletari, voi siete piccini perché state in ginocchio: alzatevi". Slogan che, nella sua apparente ingenuità e al di là dei suoi specifici destinatari, indica bene la semplice operazione, anzitutto psicologica e personale, necessaria a dare protagonismo a chi vive condizioni di debolezza tanto fortemente imposte da avere finito per introiettarle.

Anche in questo caso, la fantascienza ci soccorre con un magnifico racconto di Robert Silverberg, Il marchio dell'invisibile (To see the Invisibile Man, 1963). In una società di poco futura certi crimini - per esempio l'asocialità - sono puniti con la condanna a essere invisibili. Non lo si è realmente;

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semplicemente, chi circonda il condannato deve fingere di non vederlo. Il protagonista del racconto vive sulle prime con euforia questa sua condizione, che scambia per libertà; poi si accorge dell'intollerabile solitudine che comporta. Giunto al culmine del patimento, commette una follia, il crimine più grave di tutti: ferma un altro invisibile per la strada e lo abbraccia tra le lacrime. Andrà incontro a una condanna peggiore, ma da quel momento subirà la propria invisibilità con orgoglio. Ormai, si intuisce, il sistema è incrinato.

Vengono in mente Ralph Ellison, Richard Wright e altri scrittori non di genere che hanno trattato dell'"invisibilità" dei neri d'America o di altre minoranze.

Raramente, però, il tema della rivolta degli invisibili è stato svolto così bene, e in così poche pagine, come nel racconto che ho citato. Non è solo una metafora: è addirittura una parabola. L'invisibile cessa di essere tale quando prende coscienza della propria dignità e, al tempo stesso, riconosce il proprio fratello. Due processi che ne costituiscono uno solo e che sono alla base deipiù importanti sommovimenti socio-culturali del recente passato.

Va però detto che fantascienza di questo tipo è sempre più difficile da trovare. Per forza: la società ha preso pieghe tali da ricacciare in ginocchio i "piccini", da ricreare sacche di invisibilità, da far pesare le debolezze e da impedire che si riaggreghino in spinta collettiva. Prevale la logica della differenziazione: che ognuno si isoli nella propria condizione, che non cerchi di mescolare la propria vita a quella di altre comunità, sociali, razziali e quant'altro. Razzismo, sessismo, culto della forza, egoismo sembrano essere rimasti l'unica visione possibile della vita.

Prima o poi, però, qualcuno comincerà a tornare a riflettere sul fatto che le debolezze, le inadeguatezze, gli handicap sono tali solo se vissuti nell'isolamento, mentre si convertono nel proprio contrario se agiti quale energia complessiva e sociale, orgogliosa e consapevole. Allora il Superuomo rinascerà, e questa volta non lo fermerà nessuno.

Fratelli invalidi Di Daniele Barbieri

Tra le mille etichette fallaci (eppur radicate) c'è anche quella che vorrebbe la fantascienza una letteratura solo statunitense. Per quel che qui ci riguarda, ecco una smentita che c'arriva da Praga. E vale la pena (senza entrare in polemica più di tanto) ricordare che dagli stessi luoghi ci era giunto uno dei testi fondanti la moderna sfi, ovvero il Rur scritto nel 1920 da Karel Capek; da quel titolo-sigla (Rossum's Universal Robot, ovvero i lavoratori universali creati da Rossum) fra l'altro tuttora deriviamo la stessa parola di robot nel senso d'un uomo artificiale, automa.

Sempre a voler prendere sul serio le etichette, il libro di Egon Bondy (pseudonimo di Zbynek Fiser) potrebbe essere collocato in un territorio di mezzo tra sfi e surrealismo, fra distopia (un'utopia al negativo o in nero) e satira. Due parole sull'autore ci aiutano a capire meglio anche il senso del romanzo che andiamo poi a riassumere. Nato nel 1930, Fiser-Bondy si iscrive giovanissimo al Partito comunista (in epoca di persecuzioni) e ne esce nel '48, quando cioè esso prende il potere. Un tipino contro-corrente, tant'è che assume lo pseudonimo ebraico di Egon Bondy quando comincia (o meglio: riprende) la persecuzione degli ebrei. Da feroce oppositore del socialismo-formicaio di

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dipendenza sovietica, non ha vita facile: vive di lavori occasionali e pubblica in clandestinità fino al 1989. Crollato quel tipo di "governo sedicente comunista", Fiser-Bondy diventa dirigente d'un nuovo partito di comunisti libertari. Una vita fuori dai ranghi.

Il suo Fratelli invalidi è scritto fra il 1974 e il '77 e da allora circola in Cecoslovacchia solo di mano in mano: infatti è tirato al ciclostile, come ogni samizdat (da un termine russo che significa "pubblicazione in proprio") dell'epoca. Sarà pubblicato liberamente nel '91 e viene tradotto in italiano da Elèuthera due anni dopo. Scrivendo nel pieno dell'oppressione, Bondy immagina che, dopo 5/600 anni di stalin-brezneviano socialismo reale trionfante, la residua umanità sia divisa fra invalidi e "minorati". I primi sono vecchi, pensionati, handicappati ovvero metafora di ogni ribelle, refrattario, non-collaborante e non-produttivo; i secondi sono burocrati, poliziotti e militari che (pur se ben poco è rimasto da reprimere) godono della possibilità di perseguitare gli altri. Solo gli "invalidi" sopravviveranno alla catastrofe finale. Non aspettatevi però da Bondy un "happy end": quel misero spicchio di mondo che si salva appare a sua volta "invalido" o, se preferite, sconvolto mentalmente. Anche dopo il crollo d'un sistema che fa della normalità il suo credo...

l'avvenire è assai più melmoso che radioso: un pessimismo mitigato solo da uno scoppiettante humor. Effettivamente le risate sono continue quanto apocalittiche (delresto c'è persino un concreto diluvio di merda) e le metafore della ribellione come opera dei "minorati" del tutto originali. Il punto che in Fratelli invalidi collega l'idea di un handicap a valori positivi, a una possibilità di liberazione, è qui il non essere produttivo e dunque non prender parte alla grande distruzione (del mondo e delle individualità).

La scrittura di Fiser-Bondy è straordinaria. In questo romanzo già dopo 10 righe incontriamo "il cadavere del mondo". Ma in mezzo a tanti paradossi è proprio la scelta degli "invalidi" come soggetto centrale la più fondata, la meno provocatoria. Perché si può scoprire un gran valore nell'essere "irripetibili in un mondo in cui tutto esiste in milioni di copie uniformi"; e dunque - scrive Goffredo Fofi nella sua post-fazione - "il mondo sarà degli Invalidi o non sarà".

01-A cinquantamila anni-luce da casa di: Daniele Barbieri

Al termine di questa frase "piomberete" in Sentinella, un breve racconto di Fredric Brown: siete pregati di seguire le istruzioni perché altrimenti avrete qualche difficoltà a passare da quel racconto al successivo "sentiero di lettura"...

"Era bagnato fradicio e coperto di fango, aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.

Un sole straniero gettava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d'ogni movimento un'agonia di fatica.

Dopo decine di migliaia di anni, quell'angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro super-armi, ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, con il sangue, palmo a palmo. Come questo maledetto pianeta di una stella mai sentita nominare, finché non ci eravamo sbarcati. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato

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anche il nemico. Il nemico, l'unica altra razza intelligente della GalassiaS crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.

Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito: quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.

E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.

Era bagnato fradicio e coperto di fango, aveva fame e freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano d'infiltrarsi e ogni posizione era vitale.

Stava all'erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.

Allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.

Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire". Attenzione! Mancano 3 righe alla fine del racconto di Brown.Pur se Sentinella è famoso(1) fra gli appassionati di fantascienza, può

darsi che molti di voi lo leggano ora per la prima volta. Bene, ai "novellini" si chiede di interagire con Brown (e con Daniele Barbieri, vostra guida nel sentiero) provando a immaginare come il racconto potrebbe finire. Dunque pensateci un po', magari discutetene con chi avete vicino, abbozzate almeno un paio di ipotesi (banali? geniali? boh) prima di girare pagina.

Ed ecco le 3 righe finali. "Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso;

ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante, e senza squame".

Lo avevate immaginato? Dopo una cinquantina d'anni Sentinella è ancora squassante. È solo una paginetta, scritta bene ma... quel finale (un tipico colpo di reni alla Fredric Brown) cambia tutto. Nelle ultime 3 righe c'è un rovesciamento di prospettiva del tutto imprevisto: l'orrore dell'alieno esplode sì -come in tanti stereotipi della letteratura fantastica e non - ma davanti a noi d'improvviso appare uno specchio. E lo sgomento è giustificato non dalla bruttezza fisica (noi ovviamente ci vediamo belli, proprio come "o scarafone a mamma sua") ma dallo scoprirci a essere quei mostri sanguinari, vera razza dannata dell'universo, che hanno causato guerre crudeli e interminabili perché - Brown ben ci conosce - "avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica".

02-Con gli occhi degli altri di: Daniele Barbieri

Grazie a Sentinella siamo portati dunque (senza preavviso)a guardare il mondo da un'altra parte; anzi, con gli occhi degli altri. E a scoprirci alieni, prima che crudeli.

Cosa significa alieno? Nella fantascienza - d'ora in poi abbreviata in sfi(2)- indica un extra-terrestre, quasi sempre ostile (o considerato tale) spesso immaginato come un essere mostruoso. L'idea di ostilità era all'origine, cioè

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nella parola latina alienus che può essere usata nei significati di estraneo, straniero ma anche di contrario, avverso, ostile (nella disposizione d'animo, cioè nel sentire).

"Sin dal primo incontro fui sopraffatto dal disgusto e dal terrore": così H. G. Wells presenta i marziani nel famoso La guerra dei mondi. Se gli alieni sono cattivi devono essere brutti; e viceversa (pregiudizi resistenti, come sappiamo ... anche perché continuamente alimentati)(3). Nella sfi classica essi somigliano a qualche animale repellente. Per questo negli Usa vennero ribattezzati Bem, ovvero Bug Eyed Monster, i mostri dagli occhi d'insetto. Quella difformità fisica ne fa dei lontani cugini di altri diversi, alieni, barbari che i "terrestri dominanti" hanno incontrato sul loro cammino, cominciando "a combattere senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica". È capitato a indios, pellerossa, "musi gialli", zingari, ebrei, "sporchi negri", omosessuali, pazzi, streghe, "infedeli"... Persino agli albini, cioè coloro che nascono con capelli e pelle molto "schiariti", e in certi luoghi è capitato anche ai mancini. Ancora Wells, considerato più o meno a ragione fra i papà della fantascienza, nel romanzo L'uomo invisibile per scatenarci un senso d'antipatia verso "il cattivo" di turno ci spiega che era un albino.

La diversità in tutte le sue forme, l'incontro con l'incomprensibile e/o con ciò che ci turba (ma sconvolge il nostro profondo o solo gli stereotipi e le abitudini superficiali?) è uno dei temi portanti della sfi. Esiste ovviamente una fantascienza superficiale e reazionaria che affronta l'alieno e/o lo straniero in termini militareschi (prima sparare e poi chiedere chi è), di capro espiatorio su cui scaricare le ansie o i mali della collettività o di bersaglio per riti e divertimenti crudeli.

"È uno straniero, prendiamolo a sassate" diceva, oltre 100 anni fa, una vignetta del Punch (rivista inglese), rimasta celebre. L'intreccio base per migliaia di romanzi, film, telefilm di sfi è tutta lì: ai sassi del Punch sono subentrate armi laser e gli stranieri vengono da Betelgeuse 16 invece che da un villaggio scozzese, si tratta di "xenocidio stellare" invece che di roghi, ma al fondo lo schema è immutato. Lassù, nelle galassie, ci comportiamo proprio come sulla Terra: stupidi, espansionisti, razzisti.

03-Gli stereotipi razzisti nella fantascienza di: Daniele Barbieri

La dice lunga sulla povertà del nostro immaginario collettivo che in una letteratura nata all'incrocio fra desiderio e paura sia quasi sempre la seconda a prevalere(4). Anche quando i nemici sulla Terra erano molti (ora ne sono rimasti pochi ma qualcuno se ne può sempre inventare anche dopo che il muro di Berlino è crollato) si poteva giocare, con metafore più o meno rozze, a spostare lo scontro, la paura più in là. Una statistica mostrerebbe che, almeno sino a una certa epoca, di fronte a una miriade di alieni (i citati Bem ma anche "cose", entità incomprensibili e talvolta neppure descrivibili con i nostri criteri) la fantascienza 99 volte su 100 ci propone un solo tipo di terrestre: gli eroici Wasp, cioè la sigla inglese che indica bianchi, anglo-sassoni, protestanti e ovviamente maschi, lo statunitense idealizzato (e inventato).

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Occorrono decenni perché nella letteratura avveniristica cresca, circoli, germogli l'idea di un diverso non ostile e dunque una concezione del mondo - per meglio dire dei molti universi possibili (qui e altrove) - non a misura di Wasp o addirittura non bipedo-centrica.

Fino a una certa data (fra poco cercheremo di capire quale) questa tipica "letteratura di genere", o secondo taluni di "serie B", che nasce nel secolo della scienza e della tecnica trionfanti adotta gli stessi stereotipi razzisti tipici della letteratura che pretende la L maiuscola. Anche nella sfi le stimmate del guercio, del gobbo o dello storpio, persino sguardi sfuggenti, fronti basse, unghie sporche, ci indicano dove trovare il nemico... che talora è così indecente da tradire non l'amico o la patria ma l'intera razza umana, alleandosi ai "mostri venuti dallo spazio". Se infido è l'uomo senza una gamba o quello con la pelle marrone, figuriamoci il simil-polipo o un peloso essere bluastro.

04-Se ci sveglia Sturgeon di: Daniele Barbieri

Senza dubbio vi è qualche timido o inconscio dissociarsi dal modello Wasp contro Bem. Inezie di cui ben pochi s'accorgono. Poi lentamente alcuni introducono il dubbio: se sotto quella pelle verde o azzurra battesse un nobile cuore? O addirittura - dirà poi Thedore Sturgeon a proposito del suo Nascita del superuomo(5)-

se gli stranieri, fossero migliori di noi, se la nuova super-razza non fosse venuta dalla galassia (o sorta fra noi) per dominarci, per minacciarci con super-armi ma piuttosto per offrirci una super-filosofia, per stupirci con la loro super-gentilezza, per raccontarci una super-solitudine, per insegnarci una maniera diversa d'amare? Desiderio e paura, possibilità e rischio; se lo scopo della fantascienza è (ancora Sturgeon) "svegliare il mondo sull'orlo del possibile" allora può darsi che alcune delle sue storie semplicemente c'insegnino a diversamente guardare anche l'esistente: la realtà contiene più di quanto si scorge a una prima occhiata. È spesso il cervello a essere socchiuso (o arrugginito) anche quando gli occhi sono bene aperti. Come nel celebre disegno di Hill dove di solito c'è chi scorge solo la fanciulla e chi unicamente l'anziana ma bisogna faticare per scoprire che vi sono entrambe, l'una mescolata nell'altra.

Che l'alieno o il mostro risultino tali solo perché guardati troppo in fretta e non capiti, che abbiano qualcosa da insegnarci, è il filo sotterraneo che scorre a esempio dentro le 3 storie che portano Sturgeon a scrivere il citato Nascita del superuomo. Un brevissimo accenno alla trama basterà a capire quanti luoghi comuni siano rovesciati, quanti sguardi diventino obliqui per poter scoprire altre possibilità. Contrariamente a tutta la fantascienza che immagina un super-uomo che da solo si fa dio, in Sturgeon la faticosa, sofferta nascita-evoluzione di "qualcosa più che umano", d'un Homo Gestalt, può avvenire solo grazie alla fusione di individui diversi, uno dei quali è considerato un "idiota".

È necessario compiere altri passi. All'inizio di questa presa di coscienza che rende la fantascienza matura (e finalmente inquietante in profondità) vengono riconosciuti come interlocutori solo alcuni cosiddetti Hilf (cioè Humanoid Intelligent Life Forms), talmente simili a noi da farci malignare che

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forse lo sforzo d'accettazione sia misurabile in millimetri. Poi, negli anni '50 e dunque contemporaneamente a Sturgeon, arriva quel Sentinella con cui abbiamo aperto il nostro viaggio.

Lo choc di Sentinella è salutare. Nel relativamente ristretto mondo degli scrittori di fantascienza (e in quello più vasto di lettori e più avanti anche di lettrici) è come se fosse stato scoperto un micro-scopio. O un macro-scopio. La strada indicata da Brown viene dunque esplorata. Dalla fine degli anni '50 in poi, un drappello - relativamente folto - di autori e successivamente di autrici affronta in modo straordinariamente sovversivo il tema dell'incontro con l'alienità, scoprendo ciò che gli altri scrittori avevano tenuto celato o che non potevano vedere nella loro cecità ideologica. Se in Italia (contrariamente ad esempio alla vicina Francia) questo serbatoio di sguardi e di inquietudini è poco conosciuto, osteggiato da critici e intellettuali, dipende da antichi e radicati, quanto ingiustificati, pregiudizi verso la sfi non meno che verso la scienza e comunque verso ogni forma di letteratura popolare (spiegarne le ragioni comporterebbe un lungo viaggio, con soste fra il lontano Gramsci e il recentissimo Luther Blissett, che ovviamente qui non può essere intrapreso).

La data dunque del cambiamento, lo sguardo copernicano sulla diversità è nel cuore degli anni '50.

E considerato che parliamo di una letteratura a dominanza statunitense va notato che è un fenomeno in totale contro-tendenza rispetto alle diffuse paranoie da fine del mondo. Ci sono confini da spostare, dentro e fuori di noi; cominciano finalmente ad apparire ridicoli coloro che vorrebbero difenderli con le armi come quei pupazzi con laser della prima, ingenua fantascienza. Le angosce delle maggioranze sono reali o indotte, giustificate o fasulle? "Dimmi, se al mondo tutti fossero ciechi meno un sol uomo, non ci sarebbe la tentazione a dire che la vista di quell'uomo è un'allucinazione?" per rubare la frase a Isaac Asimov. Non a caso l'ultimo citato è uno scienziato prima che un letterato. E non per caso molti scienziati useranno la sfi per dire l'indicibile (almeno negli Stati Uniti dell'ossessione imperiale, dell'egocentrismo totale) e insieme per raggiungere un pubblico più vasto. Come accadde a Leo Szilard, uno dei "padri pentiti" della bomba atomica che spiegò(6) "il quesito è: gli americani sono liberi di dire tutto quello che pensano, visto che non pensano quel che non sono liberi di dire?".

Prima di entrare nel vivo dello scontro-incontro tra sfi e ciò che definiamo handicap, è bene rispondere a una possibile obiezione: questo elogio della fantascienza significa sminuire le altre forme di narrazioni-confronti sulle diversità? Certamente no. Ma esistono almeno due eccellenti ragioni (anzi ad avviso di chi scrive, due clamorose evidenze) per credere che abbiamo anche bisogno di nuove utopie, d'un più ricco immaginario. La prima è che sul "controllo dei sogni" si gioca una partita quasi epocale(7). La seconda è che "per conquistare un futuro bisogna prima sognarlo"(8). Nel nostro caso se alcuni guai del diffuso razzismo verso chi abbia un handicap trovano una loro rappresentazione nell'immaginario collettivo, beh sarà il caso che anche su questo terreno ci attrezziamo. Per superare quella "sorta di mutilazione antropologica che uccide la possibilità di pensare a un mondo altro da questo"(9).

05-Un filo di bava di: Daniele Barbieri

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Chi diavolo è questo "diverso"? Da chi o cosa, e secondo chi, sarebbe differente? Ecco come riassume la faccenda Ursula Le Guin(10). "Il problema sollevato è quello dell'Altro, dell'essere che è diverso da te stesso. Può differire nel sesso; o nel suo reddito annuale; o nel modo di parlare, di vestire o di agire; o nel colore della pelle; o nella quantità di gambe e di teste che ha". O negli spasimi che scuotono il suo corpo, si potrebbe aggiungere; o nell'infinito desiderio di comunicare ostacolato da un handicap o - è forse la stessa persona ma vista con gli occhi della paura altrui - in un "vergognoso" (per chi?) filo di bava che gli scorre sempre vicino alla bocca.

La non vastissima comunità che in Italia legge abitualmente la buona fantascienza(11) sa probabilmente indicare all'istante alcuni titoli-chiave sull'Alieno sessuale o razziale; con qualche riflessione in più potrebbe individuare anche alcuni Alieni culturali e sociali. Ma esistono differenze che, direttamente o in maniera metaforica, rimandano alle disabilità, all'handicap? Dunque scrittori-scrittrici di sfi hanno affrontato la questione di petto? Sì, ci sono.

Forse non moltissimi ma quasi sempre di eccezionale impatto emotivo. Perché molti appassionati di fantascienza faticano a ricordare questi titoli? Opera qui forse una doppia censura o rimozione.

La prima è probabilmente ancora numerica: se esistono meno autori/autrici che sanno confrontarsi con questo Alieno, beh deve essere una questione meno importante. La seconda è nella testa di chi legge: spesso è turbato/a ma, con un meccanismo ben noto, preferisce allontanare da sé (in modo più o meno inconscio) l'oggetto dell'imbarazzo e la domanda "cosa davvero mi inquieta?".

Da qui in poi cerco dunque(12) di costruire uno specifico percorso di lettura per individuare come la sfi - o almeno quella tradotta in Italia - abbia affrontato i problemi (o sarebbe più giusto usare un neutrale "fenomeni"?) posti da Handicap City o da "Handicap Haven", come si chiama appunto "il ghetto spaziale" di un romanzo-simbolo che racconteremo in dettaglio.

"Lei stava cercando di raggiungere la coperta con le mani malferme. Considerato che non era nemmeno capace di alzarsi dal letto, non era uno spettacolo.

Cooper le porse il bordo della coperta.-No - disse lei in tono reciso - Regola numero uno. Non aiutare mai un

handicappato se non è lui a chiederlo espressamente. Non importa se fa fatica. Deve imparare a chiedere e deve sforzarsi di fare tutto ciò che gli è possibile fare.

-Mi dispiace, non ho mai conosciuto un handicappato.-Regola numero due. Un negro può chiamare se stesso negro e un

handicappato può riferire questo nome a se stesso, ma Dio abbia misericordia dei bianchi sani che usano una o l'altra di queste parole".

Così in un lungo, denso racconto di John Varley(13), scrittore che in un'altra occasione, lo vedremo più avanti, metterà la cecità al centro d'un suo romanzo.

Quel che lo sferzante dialogo, riportato qui sopra, suggerisce è che il modo "giusto" per scrivere di handicap non sia nascondere (in nome della retorica "buonista" tanto alla moda?) che problemi possano esistere da una parte o da entrambe. Oppure negare (come la politically correct la quale trincera i fatti dietro i nomi) che le differenze fisiche e psico-fisiche talora suscitino mix di

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curiosità (prevalentemente positivo) e di paura... E che naturalmente prevarrà il primo o il secondo di questi sentimenti a seconda dei contesti - storici, culturali, sociali - e delle vicende/esperienze individuali. Come sempre, nella buona letteratura e nel pensiero "ricco", c'interessa il punto d'arrivo ma soprattutto quei viaggi (faticosi, istruttivi, pieni di scorie) che cambiano in profondità i viaggiatori, il loro sguardo e la meta stessa.

Ancora un protagonista con handicap. "I piloti erano completamente sordi per necessità (...) Una persona dotata di udito normale non poteva pilotare un'astronave in mezzo ai punti di sfasamento e uscirne con la mente intatta"(14). Al contrario di Ulisse che rischia, ma solo per un po', la sanità mentale per ascoltare le Sirene (o dei suoi compagni che possono evitare del tutto ogni pericolo tappandosi temporaneamente le orecchie) qui il volo spaziale è praticabile solo da chi rinuncia - per sempre - ai suoni ma anche alla musica (tanto amata dal personaggio di questo romanzo). Sentire, non poterlo fare, ascoltare "cose diverse" è uno dei temi sotterranei di questa bella storia che non narra l'handicap come menomazione ma come una chiave per entrare in una vita diversa (dove ci sarà meno di qualcosa e più di qualcos'altro). E la dedica iniziale è divisa fra un "a Joje, che sente la musica" e un "ai miei amici sordi che mi hanno insegnato tante cose sulla vita e l'amore. La loro è una musica diversa, scritta nell'aria. Sono persone speciali. Grazie". Non stupisce a questo punto apprendere che l'autore, Jack Caroll Haldeman (secondo, perché fratello del più famoso Joe, anch'egli scrittore di fantascienza) è sordo dalla nascita.

Come era già accaduto a proposito della pelle di alcuni alieni-razziali, anche l'handicap è giudicato talmente poco importante da Loren Mac Gregor che nel suo romanzo d'esordio (15) solamente a pagina 40 il lettore scopre - da una frase gettata lì per inciso - che una delle protagoniste è senza gambe. Non è un effetto choc, all'opposto: la notizia è scritta in modo che possa sfuggire, come per far capire che davvero non interessa in questa storia il grado di "normale" abilità. L'opposto dello stereotipo pietistico che sottolinea un handicap con frasi che in apparenza vorrebbero indicare come sia lieve, e dunque vicino alla norma, ma così facendo svelano la loro perversa concezione per cui anche un solo dito in meno (o in più) sminuirebbe l'essenza umana.

Quel nero insomma è quasi un bianco: un altro sforzo, magari un po' di creme o un piccolo trapianto della pelle e può farcela... a uscire dalla giungla.

E a quel disabile si può dedicare (in letteratura o nei mass-media) un po' di spazio perché ha saltato 2 metri con una gamba sola o perché ha compiuto un'altra impresa insolita e dunque... riceverà il patentino ad honorem della normalità. Razzismi mascherati, come in tanto "voyerismo" televisivo; è la totale incapacità di confrontarsi con la diversità che oltretutto si bea della propria presunta bontà nel rilasciare visti d'ingresso nel Paradiso di quelli che hanno tutto a posto.

06-Tutti i nostri alieni nel cuscino di: Daniele Barbieri

C'è uno scrittore di fantascienza, Orson Scott Card, che ha fatto dello "xenocidio", dello sterminio degli alieni, il cuore di alcuni straordinari romanzi a partire da Il gioco di Ender(16). Ed è ancora lui che, senza falsi pudori, ci trascina in quest'incubo, nell'ordinario delirio di chi sa che il suo handicap

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potrebbe essere un comodo capro espiatorio... e infatti lo diventa(17). "Non ci resta che buttarlo lì, che si rompa quel suo piccolo collo spastico". Così i cattivi ragazzi, i normali, che seviziano e poi decidono di uccidere Carpenter, il loro insegnante, in apparenza "colpevole" di essere severo ma in realtà odiato perché su una sedia a rotelle. La vicenda è ambientata nel dopo-bomba, dunque in un classico scenario della sfi, ma in fondo potremmo essere in una qualunque Rimini (o fate voi) del mondo reale. Ciò che Orson Scott Card evidenzia tacitamente è proprio quanti collegamenti vi siano fra quelle desolazioni materiali post-guerra e queste nostre che sono "solo" morali. Per 20 spietate pagine, Carpenter cerca prima di comunicare con i ragazzi attraverso la tastiera d'un computer (unico modo per lui di parlare; o meglio l'unica maniera comprensibile all'altrui arroganza), poi di difendersi sia dall'aggressione che dal suo corpo che s'attorciglia nel dolore, e infine semplicemente di sopravvivere.

Sempre chiedendosi se anche lui sia colpevole (di cosa? perché?) verso quei suoi piccoli, crudeli, ordinari, banali nemici. Ce la farà a salvarsi. E la sua vendetta - o è il suo perdono? - sarà terribile. Non denuncerà gli aggressori. Così loro "si sarebbero ricordati per sempre che un giorno avevano lasciato che uno storpio morisse, non sapeva che significato avesse per loro, ma avrebbero ricordato". Se per i ragazzi vi sarà espiazione e/o redenzione non ci è dato sapere, perché questa parte del romanzo (solo uno dei fili di una più complessa trama del vivere appunto sull'"orlo" dell'abisso etico) termina nel modo più imprevedibile e aperto a varie interpretazioni. Non appena Carpenter intuisce che Pope, uno dei suoi studenti-aguzzini, vorrebbe parlargli lo aspetta... ma il ragazzo non ce la fa. Esce. Non sappiamo cosa c'è nella sua testa ma Scott Card ci dice che agli occhi di Carpenter sembra essere il vento a portarlo via, come fosse un aquilone. Non è vero - pensa poi - si tratta solo di una corrente forte che trascina tutti. La frase finale infatti suona così: "Tutti i corpi del mondo vengono afferrati dalla stessa corrente, dallo stesso vento, si gettano nello stesso fiume, nelle stesse strade. Per finire impigliati in qualche ostacolo, in qualche cimitero, sa Dio dove o perché". Forse questo immaginario Carpenter rovescia sugli altri il suo tormento di "capro espiatorio" o forse la sua non-vendetta è la suprema (e per tanti difficile da capire) forma di perdono. A ben guardare anche questa così anormale scelta evidenzia che la presunta superiorità dei normali poggia sulla sabbia.

Facciamo un piccolo salto indietro nel tempo, come conviene a chi si muove nella fantascienza. È difficile fino agli anni '70 (se si esclude il già citato Sturgeon) che autori famosi affrontino l'handicap direttamente. Molto spesso però possiamo intravedere nei mutanti l'ombra lunga dei diversi perseguitati, degli alieni. Se "i negri verdi"(18) sono chiaramente la metafora del razzismo negli Usa, in altri fra coloro che vengono discriminati - telepati, longevi o semplicemente la bimba che nasce con 6 dita su un piede - quali altri roghi, oltraggi, apartheid possiamo decifrare? C'è un racconto(19) che mostra, quasi come in un catalogo degli incubi, le 100 facce di questa intolleranza. In The Wheels of God di Paul Darcy Boles si parte dal paradossale spunto di rendere tutti handicappati. Un giorno, senza un perché negli Stati Uniti ogni persona si sveglia senza piedi e con rotelle sotto le gambe. È comprensibile lo sconcerto generale ma poi tutto sembra andare per il meglio: non solo l'umanità si riorganizza ma i più magnificano questa splendida evoluzione. Quando però un tal Ronald Starr nasce con i piedi e dunque si accorge di come sia difficile campare da diverso. Un paradosso per certi versi simile viene proposto in

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epoca di "samizdat" dal cecoslovacco Egon Bondy (cfr box a p. 41) e da un allucinato, sconcertante, provocatorio romanzo di Bernard Wolfe (cfr box a p. 45).

Dal 1974 cecoslovacco-brezneviano facciamo un doppio salto: indietro nel tempo al 1955 e avanti nello spazio fino a un pianetino che ora non c'è ma che - la fantascienza può dirlo, al contrario delle favole - forse "ci sarà una volta". Non è, almeno in Italia, uno scrittore particolarmente famoso F. L Wallace tant'è che pubblicando Destinazione Centauro(20) sia la copertina che la nota introduttiva omettono di specificarci il nome di battesimo. Di lui, che non va confuso con un altro paio di Wallace attivi ai margini della sfi, a quanto pare pochissimo è stato tradotto(21). Eppure dobbiamo a quest'autore minore la visione forse più completa, certo inquietante, sulla possibilità/impossibilità di convivere fra normodotati e disabili.

07-Belli, senza eccezioni di: Daniele Barbieri

Ed ecco, in sintesi, la storia. Nostra madre Terra ha confinato sul pianetino artificiale Handicap Haven un migliaio di "accidentali" ovvero - secondo il crudo, cinico, offensivo linguaggio di Cameron, un medico - "umani patetici e rappezzati, uomini e donne per metà o un quarto, organismi frazionari camuffati da persone". Coloro che vi stanno confinati, spiega Wallace, "erano disposti a riconoscersi handicappati ma non chiamavano haven l'asteroide. Usavano altri termini, e nessuno di quei termini aveva a che fare con l'idea del rifugio". Il vero problema non sarebbe curarli o assicurare loro mobilità e lavoro, perché il contesto immaginato da Wallace gode di tecnologie (mediche e non) in grado di risolvere quasi ogni problema. Ma esiste una questione di fondo, che molti da entrambe (Handicap Haven e la Terra) le parti rimuovono. Ovvero il totale rifiuto dei "normali" cittadini di accettare quei corpi portatori di "bruttezza" all'interno d'una società ormai maniacalmente edonista e che non riconosce bellezza al di fuori dei suoi ristretti canoni. Su questa Terra del futuro infatti "quasi tutte le malattie erano state eliminate. Erano tutti sani... eccettuati coloro che avevano avuto incidenti e non potevano venire riplasmati con la chirurgia e la rigenerazione secondo i bei modelli caratteristici dell'intera popolazione. Quei pochi venivano mandati all'asteroide".

Più volte Wallace torna a battere questo tasto: "Erano tutti belli. Senza eccezione. O almeno delle eccezioni non si parlava in pubblico. Naturalmente gli accidentali non avevano posto in quella società. In altri tempi sarebbero finiti a lavorare nei circhi... se fossero riusciti a non finire in formalina".

Gli esclusi si organizzano: iniziano la ribellione, dirottando il loro pianeta-razzo. Cercano solidarietà sulla Terra, saltando il filtro del Medi-consiglio (una sorta di governo sui supremi affari, cioè salute e bellezza) e non la trovano. Decidono allora di lasciare tutto e partire, da soli, verso il fino ad allora irraggiungibile sistema di Alpha e Proxima Centauri. Vogliono dimostrare che proprio loro, che forse solo loro (forti d'intelligenza, sensibilità e delle "mutazioni" scoperte dentro/oltre l'handicap) possono affrontare il lungo viaggio verso le stelle, l'antico sogno di tutta la razza umana. Sfuggono all'arrivo dei militari e nonostante le mille difficoltà tecniche e psicologiche arrivano a destinazione. Ed è strada facendo che conquistano molte libertà. "La vita sull'asteroide aveva subìto una trasformazione non troppo sottile, adesso

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che non c'erano più umani normali a offrire disastrosi termini di paragone. Potevano cominciare a comportarsi in modo sano e sensato" scrive Wallace.

I bei terrestri sarebbero disposti a ingoiare tutto pur di liberarsi degli "accidentali". Ma c'è qualcosa che gli arroganti "normali" non potranno tollerare: che il primo contatto con gli "et", gli alieni stellari, sia stabilito proprio dai "peggiori" rappresentanti della specie umana. Il colpo di scena finale apparirà oggi quasi ovvio al lettore ma all'epoca (il 1955 appunto) anch'esso era contro-corrente, come tutto l'impianto narrativo. Proprio perché quegli stranieri spaziali risultano veramente diversi, alieni - altro che hilf o umanoidi, si tratta di grandi farfalle pensanti - la cosa migliore per la Terra, chiusa nel suo delirio di forme, sarà che a rappresentarla siano proprio coloro che la condizione di alienità la conoscono bene, fin sulla loro pelle.

Forse nel lettore (come nell'autore?) rimane un dubbio: questa delega agli affari "speciali" sarà per gli "accidentali" un vero successo o piuttosto l'ennesima, infame strumentalizzazione? Del resto interrogativi e ambivalenze simili accompagnano, da sempre, ogni tappa dello scontro fra dominanti ed esclusi, fra poteri e contro-poteri; sarebbe ben strano se non li trovassimo quando "le persone con bisogni speciali" fanno i conti con chi si crede involucro d'ogni bellezza e salute.

È interessante notare che questo messaggio (del 1955) chiarissimo viene abbastanza frainteso nella prefazione italiana (del 1981)(22). Non solo la nota introduttiva parla di una "conclusione ironica, quasi beffarda", ma più volte si torna sul concetto buonista di "tolleranza"; dobbiamo accettare questi mostri - è il senso - per "coronare le nostre ambizioni, essere in pace con noi stessi". Il che conferma quanto meno l'ambiguità, la sciatteria, l'ipocrisia, gli strumenti culturali inadeguati di molti editori o sedicenti intellettuali nostrani ma soprattutto la diffusa paura (inconscia?) di accettare un messaggio positivo, un insegnamento non sui "diversi" ma da loro.

L'idea che ammalarsi possa diventare un crimine (sociale o addirittura a norma di legge) non è nuova. Più o meno consapevolmente, Wallace riprende una lontana intuizione di Samuel Butler (il suo Erewhon è addirittura del 1872). Come faranno Clifford Simak(23) e altri. Per ciò che più specificamente riguarda il nostro percorso, in questo "sotto-filone" (della doppia ossessione verso la bellezza e contro ogni diversità) vale la pena di accennare a Follia per 7 clan(24) perché in qualche modo ci consente di ragionare anche sull'handicap psichico. Un romanzo dove c'è forse un solo Norm ("normale" appunto) all'interno di una guerra fra 7 diversi sistemi sociali che, come s'intuisce dai nomi, sono in realtà gruppi dominati da diverse malattie mentali: Para, Mani, Schizo, Eb, Poli, Dep e Os-Com. Su queste sigle s'impone qualche spiegazione. La città dei Mani è nientemeno che Leonardo Da Vinci; così da evidenziare qual sia il loro problema. I para abitano ad Adolf-ville. Chi soffre di ebefrenia alloggia a Gandhi-town (un collegamento crudele e diffamatorio?). I "poli" ovvero gli affetti da schizofrenia polimorfica soggiornano ad Hamlet-Hamlet. Un po' meno espliciti i riferimenti storici-urbanistici dei Dep (depressi), degli Schizo (cioè mistici e catatonici) e degli Os-Com (ossessivi compulsivi). Per la cronaca l'unico normale andrà a sistemarsi a "Thomas Jefferson-burg". E c'è chi teorizza che "i diversi tipi e sotto-tipi di malattie mentali dovrebbero essere divisi in classi, qualcosa come nell'antica India. Queste persone, gli ebefrenici, dovrebbero essere equivalenti agli intoccabili. I maniaci dovrebbero formare la classe guerriera (...) I paranoici, o meglio i paranoici-schizofrenici, dovrebbero

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costituire la classe di governo (...) mentre i semplici schizofrenici dovrebbero corrispondere alla classe dei poeti (...) Quelli affetti da schizofrenia polimorfica semplice dovrebbero essere i membri creativi di questa società, quelli che forniscono le nuove idee di base". Ma siamo capitati all'interno di un gigantesco paravento o di un mondo reale? La insanità mentale è di massa o malato è il sistema con cui i terrestri affrontano ogni handicap psichico? Domande che tornano con insistenza in molte altre opere dello stesso autore, Philip Dick: il più visionario forse all'interno di un genere dove tutti devono esserlo almeno un po'. Negli anni '60, Dick pubblicò anche uno splendido quanto difficile romanzo(25) dove il protagonista è un ragazzo autistico: qui la percezione della realtà, i pensieri dei personaggi, lo stesso linguaggio sembrano in preda all'autismo. "È uno spaccarsi dei due mondi, quello interno e quello esterno, cosicché nessuno dei due registra l'altro". A suo modo, nella sua particolarissima visione mistica del mondo, Dick mette in discussione le fondamenta del pensiero "normale" con la stessa forza di Wallace nel minare la presunzione di bellezza.

"Chi può dire se gli schizofrenici non sono nel giusto? Essi intraprendono un viaggio coraggioso. Rifiutano le mere cose, che uno può maneggiare e volgere a uso pratico; guardano dentro al significato". Provocatorio fino all'estremo, Dick. Ma è per fare - anche lui - un viaggio importante. Di Philip Dick riparleremo più avanti ma ora siamo pronti a fare un altro salto nel tempo, cioè al 1978.

Si possono riscrivere i "classici"? Come no, accade di continuo. Talora è plagio, altre volte un creativo riciclaggio o un ampliamento. Oppure un rovesciamento di prospettiva, come nel caso dell'allora trentenne John Varley che riprende il celebre Il paese dei ciechi dove H. G. Wells aveva immaginato (tanto per cambiare!) un fosco finale dal quale si evidenziava la perfidia di chi non ha la vista. Il romanzo breve (un genere da noi poco apprezzato) di Varley s'intitola La persistenza della visione(26) ed è scritto in prima persona.

08-Vedere oltre gli occhi di: Daniele Barbieri

Siamo nell'epoca della "quarta non-depressione": il protagonista-Varley nei suoi vagabondaggi incontra un muro nel deserto. Lì sorge Keller, la città utopica fondata da un gruppo di sordo-ciechi, da quella fetta di "geni, artisti, sognatori, agitatori... magnifici pazzi", presenti fra le 5mila persone prive di vista e di udito che erano nate 30 anni prima, tutte nel giro di pochi mesi, per le conseguenze di alcune epidemie. Incuriosito, l'uomo decide di entrare.

Incontra una ragazza, Pink e si affanna a parlarle in Braille per scoprire poi che lei non è sorda e cieca. "Qui lo sono solo i genitori, io sono una dei figli". Sarà proprio Pink a condurre il protagonista in quella città aliena, a raccontarne la storia. "Non era mai esistita una comunità auto-sufficiente di ciechi-sordi (...) Partivano da una lavagna vergine, senza modelli da seguire".

Gli abitanti di Keller girano e lavorano nudi. Parlano il linguaggio - anzi, i linguaggi - del corpo. E hanno sviluppato idee nuove in quasi ogni campo del sapere. Sempre più affascinato, l'uomo decide di restare per capire, per collaborare. Ci sono ovviamente regole da seguire; per esempio, lasciare qualcosa che blocchi il passaggio è vietato perché può danneggiare chi non vede. Il tempo passa e il protagonista si sente "in comunione" con queste

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persone da lui così diverse. Ma un giorno dimentica un innaffiatoio sul sentiero e una donna si ferisce. Errore grave, perché "il loro sistema poteva funzionare solo sulla fiducia". Così si riunisce "una specie di commissione, chiamiamola una giuria (...) Tutti avevano l'aria molto triste nel dover decidere di punirlo".

Il processo si svolge perlopiù nel linguaggio delle mani, salvo qualche frase detta da Pink. È riconosciuto colpevole e alla fine gli viene formalmente chiesto se accetta la condanna (che la giuria deciderà poi) o se preferisce lasciare la città. Sceglie di essere punito, secondo regole che ancora non conosce. E allora, con grande solennità, la donna ferita... lo sculaccia. "Più tardi ci pensai sopra parecchio. Sculacciare gli adulti è una cosa inaudita, sapete, anche se non mi venne in mente che dopo molto tempo (...) Avevano una punizione più severa, riservata alle colpe ripetute o intenzionali. Non dovevano usarla spesso. Consisteva nell'emarginarti.

Nessuno ti toccava per un dato periodo di tempo". Un estremo ostracismo.Varley descrive questa immaginaria città con grandissima partecipazione,

ma senza abbandonarsi all'illusione che tutto sia facile-felice anche per quelli che l'hanno fondata o che vi sono nati. Però, "ciò che avevano creato s'avvicinava, per quanto era possibile in questo mondo imperfetto, a un modo sano e razionale di esistere senza guerre e con la politica ridotta al minimo (...) Non la sto proponendo come soluzione ai problemi del mondo. È possibile che possa funzionare solo per un gruppo con un interesse comune vincolante e raro come la sordità e la cecità. Non mi viene in mente nessun altro gruppo con necessità tanto inter-dipendenti". Il protagonista lì è felice; "l'unico visitatore in 7 anni che si fosse fermato più di qualche giorno". Eppure sente forte la spinta di andarsene ogni volta che sorge un problema di incomunicabilità (o di affettività-gelosia verso Pink). Non si sente come loro; sa di non esserlo fino in fondo. E anche se "quelli erano i migliori amici mai avuti", un giorno decide che deve andarsene. Passano 6 anni e là fuori tutto va bene per lui. In apparenza. Ma un giorno d'improvviso sente che deve-vuole tornare a Keller. "Mi trovai a correre nel deserto del Nevada, sudando, aggrappato al volante. Piangevo, ma in silenzio, come avevo imparato a fare a Keller. Si può tornare indietro?". Forse no e infatti trova quasi tutto cambiato e ha paura di aver perso la sua occasione, "il suo incantesimo". Pink però lo ha aspettato e dice che gli farà un dono. E con poche frasi anche Varley sa donare ai lettori uno straordinario finale. "Alzò le mani e mi toccò leggermente gli orecchi con le dita fredde. Il suono del vento cessò e quando le sue mani si staccarono non tornò più. Mi toccò gli occhi, escluse la luce, e non vidi più. Ora viviamo nell'incanto del silenzio e della tenebra".

09-Un cyborg per nemico, un cyborg per amico di: Daniele Barbieri

Su una qualsiasi spiaggia in un qualunque agosto. Con la coda dell'occhio vedo (e con la coda dell'orecchio sento) giocare lo sconosciuto vicino d'ombrellone.

È un ragazzo, anzi un giovane uomo, che ha corso e saltato sino a pochi minuti fa e ora dice agli amici: "Vado a fare un bagno". Con comprensibile sorpresa - e perché non dirlo? con un pur passeggero attacco di panico - lo vedo svitarsi una gamba prima di immergersi in acqua.

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Le parole scritte qui sopra non aprono la via a un viaggio nell'immaginario ma sono uno dei punti di partenza (nel mondo reale o almeno in ciò che la maggior parte di noi considera tale) che hanno portato chi scrive a conoscere Budrio. L'altro punto di partenza è un amico, Ignazio e questa qui accanto è la sua armatura. Non è un guerriero o forse sì. La battaglia di Ignazio è contro gli esiti della poliomielite, il suo castello da conquistare è tutta la mobilità possibile.

Fra tanti santi, madonne, fachiri fasulli, Vigorso di Budrio è uno dei luoghi (pochi, ignoti, non raccontati dai mass-media) che più somiglia a una fabbrica di miracoli(27). E se quest'affermazione vi pare uno spot, peggio per voi che non sapete più distinguere le informazioni utili da marchette e sponsor occulti.

Accade a Vigorso di Budrio e in altri luoghi che si fabbrichino cyborg, o ciò che la fantascienza (e non solo ormai) chiama cyborg.

Tanti i cyborg, pur se non sempre li vediamo. È in continua crescita intorno a noi il numero di coloro che si avvalgono di corpi bio-meccanici, che si muovono (o vivono) grazie a supporti artificiali, che usano protesi e ortesi pressoché perfette in sostituzione degli arti mancanti. Aspettando che un più giusto sistema sociale metta queste meraviglie della tecnologia a disposizione di tutti coloro che ne necessitano (anziché di pochi e comunque solo nel ricco Occidente, come ora accade) possiamo riprendere da qui, da ciò che chiameremo cyborg, il nostro discorso sull'immaginario e sull'handicap. Infatti questi corpi supportati da alte tecnologie, da conoscenze e materiali sino a poco tempo fa indisponibili (anche leghe ultra-leggere, testate nella ricerca spaziale) sono considerati da qualcuno creature inquietanti, alieni forse. È solo questione di novità e poi ci si abituerà, come accadde secoli fa per gli occhiali? Ma le lenti sono un prolungamento tecnologico della vista, di una funzione del corpo che è abbastanza banale (fu così anche all'inizio?); siamo tutti concordi nel dire altrettanto d'un cuore artificiale oppure di uno xeno-trapianto che consenta a un essere umano di vivere con le vene di un maiale? Per chi sa di fantascienza, le prossime generazioni potrebbero essere quelle dei "metalli urlanti" e degli "umanoidi associati"(28). Può darsi che non a tutti piaccia.

Di cosa stiamo parlando? Cos'è già o può essere un cyborg? La parola entra nell'uso comune da (di solito pessimi) telefilm e film (un paio dei quali interpretati dal pessimo Schwarzenegger) più che attraverso la scrittura sfi o le riviste mediche. Il termine nasce dal mix delle prime tre lettere di "cybernetic" con quelle di "organism": dunque designa un organismo cibernetico, o - per estensione - qualsiasi ibrido fra esseri viventi (uomo o animale) e macchina. Se volete, una macedonia di parti naturali e artificiali(29).

Ed è in questo senso appunto che forse tanti di noi hanno già qualche cyborg per amico. Infatti c'è relativamente molta gente in giro con protesi e ortesi, con lo sterno tenuto insieme da punti metallici, con sostituti artificiali dell'articolazione coxo-femorale... o ancor più banalmente con un pacemaker, con ponti dentari fissi che rientrano a pieno titolo in questa categoria.

È curioso che l'immaginario collettivo (che non vuol dire però quello di ogni singolo) oggi "accetti" facilmente chi dispone di congegni metallici al posto o in aiuto del cuore, mentre per secoli un diffuso ostracismo sociale ha accompagnato chi usava la più povera delle "protesi", la stampella; oppure che ancora 60 anni fa si ritenesse che ci fossero tipi di sangue umani e altri bestiali(30); oppure che 100 anni fa venisse celebrato come grande scienziato

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(e sicuro progressista) chi pensava di individuare il delinquente dalla forma del cranio e la prostituta dalla presenza di un dito "prensile"(31), oppure - purtroppo è così - che i razzismi biologici, lo spettro dell'eugenetica continuino ad annidarsi anche oggi in culture e Paesi fieri di definirsi democratici.

Ma le contraddizioni dell'immaginario lastricano quasi ogni strada che percorriamo.

A essere corretti, la definizione cyborg non nasce nell'ambito della sfi ma, nel 1960, a opera di due medici statunitensi, che riprendono alcune intuizioni di Norbert Wiener, "papà" della cibernetica. Ma quando ancora non usava questo nome la letteratura fantastica ne aveva già raccontato, con quasi infinite sfaccettature. Il cyborg potrebbe essere di tre generi: medico, funzionale, adattato. Per ora solo quello del primo tipo esiste nella realtà. Il tipo "funzionale" è, sulla carta, un essere umano modificato in modo da essere adatto a lavori-funzioni particolari o anche "per pensare più velocemente"(32). Il cyborg "adattato" è invece, in teoria, un essere umano interamente modificato (ri-fabbricato) per consentirgli di vivere in ambienti non-terrestri oppure -e siamo pericolosamente vicini alla cronaca - nel suo super-inquinato pianeta natio: questo.

Come osservano due studiosi statunitensi(33) "i cyborg hanno sempre la funzione di porre, in termini narrativi, il problema dell'essenza umana e di ciò che la costituisce".

10-La carne e i circuiti di: Daniele Barbieri

Ne derivano queste assai impegnative domande: c'è e, se sì, qual è questa essenza? Chi e come stabilisce il limite oltre cui un cyborg non è più un essere umano? Ovvero, per estremizzare il discorso: è possibile o presto lo diverrà sostituire/modificare mani, gambe, denti, fegato, cuore, occhi, parte dello scheletro, le vene, grandi quantità di pelle... cosa rimane? Qual è il limite estremo? La sfi ha già immaginato (almeno dall'inizio del '900) un cervello umano che "vive" all'interno d'una scatola metallica-tecnologica oppure che viene trapiantato in un corpo interamente nuovo, che potrebbe anche non essere organico. Par di capire, a noi profani, che ingegneria genetica e robotica - insieme oppure ognuna per conto suo - non siano vicine a rendere ciò fattibile a breve ma ben pochi fra gli scienziati escludono che alla lunga ci si arriverà. Quel giorno proveremo paura o ammirazione? Ne segue un altro interrogativo, dopo aver preso atto che già abbiamo visto coniugare tecnologie e barbarie; ci sarà, quel giorno, chi (in nome di un'ideologia o d'una religione?) si metterà a misurare - con la bilancia d'un allegorico macellaio - la quantità di carne e di circuiti nei nostri corpi per poi rilasciare - o meno - una patente di "umanità"? Quanti circuiti ci vogliono per "fulminare" l'anima o l'essenza umana? O, se preferite riformulare le domande avanzate sopra in termini seri e in una frase secca: cosa fa di noi esseri umani? Dato che qui il nostro argomento-principe è la fantascienza, seguiremo il ragionamento-racconto di un suo "guru", Isaac Asimov, nel bellissimo L'uomo bi-centenario da cui è stato tratto un mediocre film(34).

Andrew Martin si appresta a un'operazione chirurgica "indubbiamente pericolosa". Esita il medico-robot che lo deve operare: oltretutto, nei suoi circuiti è stata inserita una "legge" che gli impedisce di arrecare danno a un

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essere umano(35). "Ma io sono un robot" gli dice Martin. Dopo questo veloce colpo di scena, Asimov ci racconta - in un lunghissimo flasback - la vicenda di questo insolito robot sotto i ferri. Preso per fare il maggiordomo e giocare con la bambina della famiglia Martin, per caso Andrew rivela insolite doti artistiche. "Un difetto di fabbricazione" spiegano i costruttori (della Us Robot) quando viene loro sottoposto il caso. Gli oggetti scolpiti da Andrew piacciono, vengono venduti e il suo "padrone" gli apre un conto in banca: servirà per le "riparazioni". Dopo molti anni, Andrew si presenta al suo "padrone" con i 600mila dollari guadagnati vendendo le sue opere d'arte e gli chiede di accettarli "in cambio di qualcosa che solo voi potete darmi... la mia libertà". Si apre una complessa questione giuridica e simbolica, anche perché fra gli umani è forte l'ostilità verso i robot ("ci rubano il lavoro" è una frase che forse avete sentito anche in altri contesti). In tribunale, il giudice chiede ad Andrew che differenza farebbe per lui essere libero, se già ora il suo "padrone" gli lascia totale autonomia. "Forse niente, vostro onore, ma farei tutto con maggiore gioia. In quest'aula ho sentito dire che solo un umano può essere libero. A me pare invece che chiunque lo desideri dovrebbe poter essere libero". E fu questo - spiega Asimov - a convincere il giudice che nella sentenza scrive: "Non abbiamo il diritto di negare la libertà a un "oggetto" dotato di una mentalità così progredita da comprendere il concetto e desiderarne la condizione". Forse oggi, nel nostro mondo cosiddetto reale, parleremmo del diritto universale di cittadinanza.

Esiste però ancora una palese contraddizione fra quella definizione ("oggetto") e la condizione di libertà. La vicenda si snoda attraverso molti interessanti sentieri, narrativi e filosofici. Ma l'essenza - e quel che più appunto c'interessa - è che Andrew riesce a far sostituire il suo corpo di metallo con quello di un androide sperimentale, ovvero "di apparenza umana anche nella composizione della pelle". Passano molti anni e intanto Andrew studia da robo-biologo e disegna "un sistema che consenta agli androidi (cioè a me) di trarre energia dai carbo-idrati invece che da una batteria atomica... in parole povere di mangiare per alimentarsi. Se lo fa impiantare e l'esperimento riesce. È sempre più umano ma continua a escogitare "congegni capaci di trattare cibo indigesto e di espellerlo" e perfino organi genitali. La domanda che gli viene posta è sempre la stessa: perché desidera "peggiorare" il suo corpo così efficiente? Immutabile la risposta: voglio diventare un essere umano. E infine Andrew chiede di essere riconosciuto come tale. Questa nuova battaglia giuridica è molto più difficile della precedente... Il lungo flashback è concluso. Andrew è sul tavolo del chirurgo e gli ordina di eseguire l'intervento. L' operazione riesce e rende mortali le sue cellule cerebrali, l'unica parte del corpo che non può essere sostituita. Ora Andrew è umano. "Quella sua ultima azione accese la fantasia dell'opinione pubblica. Tutto quello che aveva fatto prima non aveva commosso nessuno ma quando decise di morire, pur di essere dichiarato umano, il suo sacrificio fu troppo sublime per essere ignorato".

Sorvolando sulla (pericolosa? ambigua?) parola "sacrificio", notiamo che qui Asimov ha inventato una cyborg-izzazione al contrario: una creatura artificiale (e potenzialmente immortale) che sostituisce man mano i suoi circuiti pressoché indistruttibili con "carne" destinata a marcire. "Possiamo avere due classi di cyborg completi: un cervello robotico in un corpo umano oppure un cervello umano in corpo robotico" si commentò Asimov in un articolo. Secondo lui, un cyborg del primo tipo verrà accettato dalla maggior

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parte della gente come umano, mentre il secondo sarà classificato dai più come robot. Perché questo paradosso? "Dopotutto noi siamo, per la maggior parte della gente, quello che sembriamo" suggerisce lo scrittore-scienziato. Poi vista la non piacevole caratteristica (o è una generalizzata abitudine?) della razza umana di temere e perseguitare i diversi, Asimov conclude: "Guardiamo in faccia la realtà.

I cyborg avranno i loro guai in ogni caso"(36).Con questo "vedo nero" di Asimov (insolito in lui, che fu piuttosto

ottimista per abito mentale) concordano molti scrittori di sfi. Vediamone un paio illustri.

Il lungo racconto Fra tutte le donne nate di Catherine Moore(37) è un antenato del genere cyborg visto che fu pubblicato nel 1944; ci trascina nel dilemma di Deirdre, danzatrice "distrutta" in un incendio e pazientemente ricostruita: "Così questa sono io - disse -. Metallo, ma io. E lo divento sempre più a mano a mano che ci vivo dentro." E poi commenterà: "Una specie di mutazione, a metà strada fra il metallo e la carne (...) Immagino di essere super-umana", ma c'è un limite: "Il mio cervello si consumerà, entro una quarantina d'anni, non mi piace pensarci". Non del tutto assonante è uno dei padri della moderna sfi, Frederik Pohl(38) che scrive: "Non è facile per un essere di carne e sangue rassegnarsi all'idea che una parte del suo corpo sta per essere sostituita da acciaio, rame, argento, plastiche, alluminio e vetro". Più tranquillo Varley prima citato: in Millennium, un bellissimo romanzo(39) che mostra persino l'ambizione di "ricapitolare" la storia della fantascienza, si dice convinto che il futuro sia del cyborg: "Si trapianterà o s'innesterà tutto: arti e organi, gambe, reni, occhi". Al cinema si sono viste più brutture e angosce (soprattutto in senso filmico, ahi-noi) che altro; c'è però anche un tenero cyborg (Johnny Deep) in Edward, mani di forbice di Tim Burton.

Paranoie filosofico-religiose a parte, il vero rischio potrebbe essere che in una società orrendamente classista - come l'attuale - solo i ricchi possano dotarsi di un "magazzino dei corpi", utilizzando non solo le tecniche d'avanguardia ma persino (costerebbero assai meno) gli organi dei poveri fatti appositamente a pezzi. C'è chi nega che ciò sia già accaduto e parla di "leggende metropolitane" ma, pur con le consuete cautele verso chi vede orrori ovunque, esistono dati certi che ciò sia accaduto: fra l'altro le inchieste di alcuni giornalisti su quei villaggi in India dove chiunque può incontrare centinaia di persone che vivono con un solo rene... perché l'altro è "volato" per pochi soldi in Germania o negli Usa. In questo caso di tratta di uno scenario - forse di massa - che non si colloca nel futuro lontano ma sul confine tra il presente e un domani molto prossimo.

11-Corpi, sogni, incubi, think tank di: Daniele Barbieri

Accanto all'incubo - già qui - dei ricchi che "cannibalizzano" i corpi dei poveri c'è ovviamente il sogno realizzato di un Stephen Hawkins che riscrive l'astro-fisica e la stessa storia del tempo dalla sua sedia a rotelle e che può parlare muovendo gli occhi(40). Come sempre il presente-futuro cela un gran numero di possibilità e di angosce; la migliore sfi prova a costruire intorno a

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quest'ambivalenza laboratori onirici (think tank, serbatoi di pensiero, dicono negli Usa) e persino a essere progettuale, partendo dall'idea che in un mondo senza utopie non valga la pena di vivere. È noto che i miraggi non sono raggiungibili ma la storia insegna che le carovane e i commerci si sono messi in movimento proprio per inseguirli...

I corpi inquietanti, mutati, cyborgizzati sono tutto ciò: insieme miraggio, carovana, commercio (nel senso buono e cattivo del termine). Chirurgia e bio-genetica, persino il tecno-piercing delle mode annunciano che sarà ridisegnato il rapporto corpo-mente. Perfino gli antichissimi e ambigui sogni di super-umani o di separare l'intelletto (lo spirito?) dalla carne putrescente sembrano ora avvicinarsi. Il problema vero resta - come sempre - la definizione di umanità.

Gli esclusi e gli ammessi, i sommersi e i salvati.Ecco come Philip Dick pose la questione, nel suo stile provocatorio quanto

profetico, in una celebre conferenza-saggio(41). "Il più grande cambiamento al quale assistiamo nel nostro mondo è probabilmente la quantità di moto dal vivente verso la reificazione e allo stesso tempo dal meccanico nell'animazione (...) Un giorno forse vedremo un uomo sparare a un androide (cioè a un robot con perfette fattezze umane) appena uscito dalla fabbrica. L'androide, con grande sorpresa dell'uomo, prenderà a sanguinare. Ma l'androide sparerà di rimando e, con sua grande sorpresa, vedrà una voluta di fumo levarsi dalla pompa elettrica che si trova al posto del cuore dell'uomo. Sarà un grande momento di verità per entrambi". Per dirla con l'ironia di un grande poeta-cantautore: "Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo, piantata fra l'aorta e l'intenzione"(42).

Non c'è conclusione possibile. Definire il confine fra umano e non... può significare solo spostare sempre più avanti (o altrove?) lo scontro fra desideri/possibilità e paure/limiti. Un grande passo avanti è nello sconfiggere ogni definizione di umanità e di valore basata sull'estetica, sull'aspetto, sull'esteriorità ma anche sulle pretese di una indefinibile "normalità". Dove molti impauriti (o spaventati ad arte) scorgono qualcosa di orribile non c'è alcun pericolo ma forse c'è il muro di piombo che nasconde la paura di fare i conti con la parte buia del nostro cuore. E dove i bravi, belli, obbedienti cittadini accettano che il mondo sia diviso in umani e non... ecco i veri "mostri", capaci di uccidere il diverso (vero o presunto che sia) perché gli è stato ordinato da una "autorità" o perché tutti lo fanno: questa è la lezione del secolo che si è appena chiuso e non va riferita al solo nazismo. Un messaggio che la migliore fantascienza ci ha proiettato nel futuro ma che ovviamente torna anche nelle pieghe di altre forme del nostro immaginario. Bisogna qui almeno ricordare il fumetto Dylan Dog, in particolare nelle storie scritte da Tiziano Sclavi, più che in quelle dei suoi banali (e spesso inutilmente splatter) co-autori(43).

Affidiamo la conclusione al tante volte citato Dick (che pure fu un autore pieno di contraddizioni). Perché ha più volte ironizzato sul fatto che "Se dovessi mai incontrare un essere intelligente extra-terrestre, un alieno, mi accorgerei di avere più cose da dire a lui che al mio vicino di casa". Perché ha scritto che "La misura dell'uomo non è la sua intelligenza (...) La misura dell'uomo è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un'altra persona? E quanto può dare di sé?"(44). Perché infine ha chiarito, meglio di chiunque altro, il dilemma scrivendo un breve racconto che, non per caso, si intitola

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Umano è, così con l'arroganza - ma anche la grande dolcezza come vedremo - di non avere un punto interrogativo, di pretendere che sia possibile trovare una risposta(45).

Quando il marito, Lester Herrick, violento e odioso, torna da una lunga missione spaziale, Jill lo "scopre" dolce e capace di sentimenti veri. Ma arrivano i servizi segreti per dire alla donna che "lì dentro" c'è qualcun altro: un alieno che, per sopravvivere (ma ciò lo sapremo solo alla fine) si è impadronito di quel corpo (morente, ma anche questo lo si conoscerà poi). I servizi segreti chiedono a Jill di aiutarli a cacciare l'invasore. Lei rifiuta e "tradisce la sua razza"; perché quell'alieno è infinitamente migliore dell'arrogante maschio terrestre che sino a poco prima aveva posseduto quel corpo. E così finisce il racconto, con questo dialogo fra i due.

" - Stavo pensando - dice la donna all'essere non terrestre - che forse continuerò a chiamarti Lester. Se non ti dispiace" E lui risponde.

" - Non mi dispiace". E l'abbracciò. - Tutto quello che vuoi. Purchè possa farti felice".

Ecco come Dick si commentava: "Per me questo racconto simboleggia ciò che è, in conclusione, un essere umano. Non ho cambiato granché il mio punto di vista da quando lo scrissi, negli anni '50. Non si tratta di avere un certo aspetto, di provenire da un certo pianeta ma di vedere fino a che punto si è gentili.

La gentilezza, per me, ci differenzia dai sassi, dai pezzi di legno, dal metallo; e così sarà sempre, qualunque forma assumiamo, dovunque andiamo, qualunque cosa diventiamo. Umano è è il mio credo e mi auguro che possa essere anche il vostro".

Essere gentili dunque dà il senso all'essere umani. Ma anche (come fa Jill) tradire la propria razza, se essa non lo è. Sì tradire. Perché le appartenenze, le patrie, "l'interesse comune" sono concetti vaghi, non trovano tutti d'accordo. Perché spesso "il nemico marcia alla tua testa" come ci disse in una poesia Bertolt Brecht. Perché per qualche nazi-ariano è già "traditore" chi considera umano un handicappato, un nero oppure chi sorride a un curdo, a uno zingaro. Eppure neanche i nazi-ariani sono mostri. O perlomeno... non più "mostruosi" di quelli che ognuno porta con sé, in qualche parte buia del suo cuore, di ciò che avremmo potuto diventare in differenti circostanze. Sono mostri che crescono e si ingigantiscono ogni volta che uccidiamo qualche alieno - le tante diversità - che albergano intorno a noi, dentro di noi e oltre a noi.

Questo è anche il vero significato di yin e yang, ci ricorda - ancora lui - Sturgeon(46)."Oscurità e terra, luce e cielo. (...) Nascita e morte. (...) Insieme formano il cerchio completo, l'universo, il cosmo, tutto. (...) Non c'è nulla sotto il cielo che possa essere interamente l'uno o l'altro". Così non c'è diversità o normalità che, sotto questi nostri infiniti cieli - dei quali anche il nostro sterminato "spazio interno" è parte -, possa essere interamente l'una o l'altra. Non ci sono confini certi per la nostra umanità salvo quelli che possono porci l'arroganza, l'ignoranza, la paura.

Limbo di: Daniele Barbieri

Fra gli appassionati italiani di fantascienza era diventato una specie di leggenda. Dal 1952 si sentiva parlare di Limbo come d'un libro-choc, eppure

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gli editori di casa nostra non lo traducevano. Concordi i critici: se alcuni si sono spinti a parlare di un capolavoro nel genere della "favola nera", del paradosso socio-filosofico, comunque tutti riconoscono trattarsi d'un romanzo importante per contenuti e stile, dentro ma anche oltre i confini del genere.

Incuriosisce anche la figura dell'autore, lo statunitense Bernard Wolfe (1915-1985) che alterna le più varie esperienze di scrittura (giornalista, romanziere, sceneggiatore, storico del jazz) a un percorso di vita insolito che lo porta a laurearsi in psicologia per poi fare la guardia del corpo a Lev Trotsky o il marinaio.

Nel '96 finalmente Editrice Nord pubblica le oltre 400 pagine di Limbo, affidandosi a un ottimo traduttore (anch'egli scrittore di fantascienza), Vittorio Curtoni. In effetti, nonostante siano passati 44 anni, il romanzo è un colpo allo stomaco. Gli si possono riconoscere meriti e difetti d'ogni genere ma è indubbio che scuota. Scritto benissimo ma con troppe parole rispetto ai fatti, a esempio. Ferocemente anti-militarista (e si sa che "diffamare" la guerra è un dovere morale) parla però di Gandhi con una sorprendente superficialità, persino ignoranza forse. E ancora: se Wolfe è geniale nel mescolare piani alti e bassi della cultura (Dostojevskj e Rimbaud ma anche l'antropologa Benedict o lo scienziato Wiener, per citare i debiti più espliciti) più che irritante risulta il suo anti-femminismo dove il ripetuto elogio allo stupro sembra più convinto che ironico.

Si potrebbe continuare con critiche e lodi ma, per quel che qui c'interessa, Wolfe è l'unico romanziere che ha provato a raccontarci un mondo in cui l'handicap fisico sia imposto, persino orgogliosamente rivendicato. Nella seconda parte di Limbo infatti siamo piombati in un Nord-America del dopo-guerra nucleare, dunque semi-devastato. I superstiti hanno scelto di ribellarsi alle guerre per sempre, praticando un'auto-mutilazione di braccia e gambe che vengono sostituite con protesi computerizzate. Davvero questa ideologia e prassi dell'amputazione, definita "Immob", impedirà ogni forma di violenza? La narrazione scorre su altri piani, intrecciandosi a esempio con il tentativo di eliminare ogni impulso aggressivo ma anche - qui l'umorismo nero di Wolfe raggiunge le sue vette - con la minaccia di nuove guerre... "in nome del pacifismo".

Al di là della fondamentale miscela di masochismo e senso di colpa che sottostà a questa auto-mutilazione di massa, Wolfe dipinge (sia pure con una certa fatica) alcuni squarci - che risultano interessanti all'interno del discorso sin qui fatto e tenendo conto dell'humor nero con cui l'autore condisce la narrazione - su una società in cui tutti siano consapevolmente handicappati e sul modo di costruirla. Vediamo a esempio alcuni stralci di questo dialogo (pag 209 e seguenti) che ci introduce all'ideologia "Immob":

"FACCIADAPUPO: Ehi, è proprio un'idea. Forse si può inventare un nuovo modo di combattere la guerra nel quale non esistano più vittime o rulli compressori.

Nel quale tutte le vittime si offrano volontarie per la mutilazione.(...) Ma come convinceresti la gente a offrirsi volontaria? Che tipo di tattica useresti? (ndr: il maiuscolo e il corsivo sono così nel testo; si tenga anche presente che "limb" in inglese significa arti).

IO: facilissimo (...) Bisognerebbe suggerire che i volontari non farebbero del male a se stessi ma anzi farebbero del bene a sé e al mondo intero. Sarebbe

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semplicissimo riuscirci con qualche slogan ben trovato. Non so, slogan che dicano che non esiste smobilitazione senza immobilizzazione, che pacifismo significa passività, o le braccia o la vita. (...) Quanti uomini sono rimasti mutilati nella seconda guerra mondiale? Trentamila solo da noi? (...) Otterresti gli stessi risultati che oggi si hanno dalla guerra, solo che tutti sarebbero contenti e si sentirebbero sublimi padroni del proprio fato. In questo modo un termine deprimente come tarpato non sarebbe pensabile.

Non quando il soggetto è un amputato volontario. Un amp-vol (...) Sigle secche come queste fanno sempre un grosso effetto. Amp-vol. Immob. Limbo. Potremmo chiamare questo nuovo mondo Limbo.

FACCIADAPUPO: Si potrebbe creare uno slogan per dire che il disarmo è impossibile finché restano braccia umane in circolazione (...). Si libereranno tutte le energie ottimistiche dell'uomo. Anche i peggiori masochisti, quelli che si piangono più addosso, cambieranno pelle. Invece di ricevere un po' di botte tutti i giorni, si godranno il festival delle botte in un colpo solo. Dopo di che potranno rallegrarsi, tirarsi su il morale (...). Ci sarà una nuova razza di uomini, uomini pienamente umani. Sarà di grande ispirazione vederla nascere (...)".

Per meglio capire l'humor nero di Wolfe, bisogna sapere che l'ispirazione all'Immob di massa nasce da un quaderno di appunti, smarrito e preso per un testo profetico, in cui il neuro-chirurgo Martine esponeva alcuni suoi paradossali pensieri senza immaginare che potessero essere presi sul serio... O che il romanzo si apre su questa citazione di Matteo: "Se la tua mano e il tuo piede ti sono di scandalo, tagliali e gettali via da te: è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo che avere due mani o due piedi ed essere scaraventato nel fuoco eterno". Dove si conferma che anche una frase inequivocabile, come è questa di Gesù, si può piegare alle più folli interpretazioni; in questo caso da una società che è schiava di un pensiero "macchinista" e dunque disprezza il corpo al quale decide di attribuire le colpe dell'ultima, devastante guerra. Il sempre provocatorio Wolfe a metà del libro così spiega come "il ramo di tradizione giudeo-cristiana basato sul porgere l'altra guancia è strettamente intrecciato a un altro ramo per cui un occhio è un pagamento accettabile per un occhio".

Capire in quale dei personaggi contraddittori e tutti paradossali di Limbo si identifichi Wolfe è difficile (e in fondo poco importante). È significativo che qua e là, in molte occasioni, tornino frasi sul corpo come orrore e ridicolo di cui bisogna liberarsi contrapposte a quelle in cui si riconosce piena umanità solo a corpi fallibili, imperfetti, ben lontani da angeli o robot. O che nella nota finale l'autore sottolinei: "non occorre scavare negli archivi militari per scoprire che l'uomo è senza dubbio l'animale che più si mutila da sé". Se fosse - questo Wolfe non lo dice esplicitamente - anche in questo "continuo interminabile martoriare il corpo", tipico della nostra specie, la paura che poi assale molti di fronti a corpi non in regola con gli standard della maggioranza? "A ogni creatura sono dovute molte vite", suggeriscono i versi di Rimbaud citati da Wolfe. Ci occorrono "i coltelli della conoscenza, non quelli dei macellai" per scavare abbastanza a fondo nella comune umanità che è sotto le diverse apparenze.

Limbo non è un libro centrato sull'handicap, piuttosto sull'angosciosa domanda di come ci si possa salvare dalla violenza (con il ridere, insinua a un certo punto Wolfe). Forse l'aggressività umana è ineliminabile: nessuna tecnica, fede o ideologia può cacciare "i demoni" dalla nostra testa, occorre

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conviverci e imparare a controllarli volta a volta... così essere fisicamente mutilati - o diversi - non è salvezza e neanche dannazione, ma una delle possibili condizioni umane dove si ritrovano le enormi possibilità e il grandissimo dolore con cui tutti siamo in qualche modo chiamati a confrontarci.

Note di: Daniele Barbieri

(1) Il racconto si trova in numerose antologie, in particolare in Le meraviglie del possibile (Einaudi) di autori vari e in Fredric Brown Cosmolinea B-1 (biblioteca Urania-Mondadori, varie edizioni).

(2) La sigla "sfi" riprende il termine inglese "science fiction" mentre "fs" rimanda alla parola italiana "fantascienza" (sulle differenti visioni che questi vocaboli comportano non è il caso d'entrare in questa sede).

(3) Una millenaria filosofia dell'estetica che ci indica il bello come buono, passando per le teorie supposte scientifiche di Cesare Lombroso, arriva a noi continuando a consegnarci nella produzione seriale i cattivi come brutti. Se nei telefilm in arrivo dagli Usa la politically correct impedisce di connotarli ulteriormente (come neri o handicappati, a esempio) i cartoni giapponesi mostrano, talvolta con disarmante ingenuità, che il balbuziente, il grasso, la ragazza con i capelli punk celano pericoli. È la stessa logica che spinge un cartone di successo a reinventare come bionda una Sissi d'Austria che invece aveva i capelli neri. Per un primo approccio alle evoluzioni, eccezioni, contraddizioni di questa impostazione rimando a numerosi articoli usciti su Rassegna stampa Handicap e sulla rivista Hp (in particolare il numero 69 del settembre '90 con i contributi di Annalisa Brunelli, Andrea Canevaro e Claudio Imprudente) e a Letteratura infantile e handicap, a cura di Annalisa Brunelli e Giovanna Di Pasquale (quaderni del Centro Documentazione Handicap di Bologna) e alle indicazioni lì contenute.

(4) Ovviamente la faccenda è un po' più complicata di come qui sono costretto a riassumerla; esistono anche le appassionate (e talora ambigue) utopie a cavallo fra '800 e '900 di Bellamy, London e Twain tanto per citarne tre. Per un appassionato elogio della fantascienza rimando al saggio di Valerio Evangelisti "Una narrativa adeguata ai tempi" che ora è in Alla periferia di Alphaville (edizioni L'Ancora del Mediterraneo).

(5) Così fu pubblicato in Italia il suo romanzo del 1953, ma è interessante notare che il titolo originale suonava invece un meno banale Più che umano.

Lo si trova in varie edizioni Urania, Nord e poi nell'antologia I massimi della fantascienza. Thedore Sturgeon (Mondadori) con altri 3 suoi romanzi.

(6) In un racconto che venne tradotto in Italia negli anni '60 da Feltrinelli nell'antologia La voce dei delfini.

(7) Rimando chi fosse interessato a questo discorso a questi testi: La guerra dei sogni di Marc Augè (Elèuthera); "Colonizzare l'immaginario" di Valerio Evangelisti (ora nella sua antologia citata in precedenza); gli scritti di Eduardo Galeano, in particolare alcuni di quelli raccolti in A testa in giù, la scuola del mondo alla rovescia (Sperling & Kupfer); McMarx, critica della socialità come prodotto industriale di Oscar Marchisio (manifesto-libri); e un

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po' immodestamente al mio dossier "Sesto potere" uscito sulla rivista Cem-mondialità nel giugno 2000.

(8) Rubo la frase al romanzo, ovviamente di fantascienza, Sul filo del tempo di Margot Piercy (Elèuthera) come spesso hanno fatto sognatori di vario genere dal subcomandante zapatista Marcos al centro sociale Leoncavallo.

(9) Da Il confine inviolabile: nonviolenza e bisogno d'identità di autori vari (La meridiana).

(10) Che è qui nell'insolita veste di saggista anziché in quella consueta di scrittrice (di sfi e di favole); la citazione è ripresa da un saggio contenuto nel suo volume Il linguaggio della notte, Editori riuniti).

(11) È tanta o poca la buona sfi? Secondo una celebre (fra gli appassionati) "legge" del già citato Sturgeon: "Il 90 per cento della fantascienza è spazzatura ma del resto il 90% di ogni cosa esistente è spazzatura".

(12) Anche sulla traccia di un mio precedente saggio uscito sul numero 53 della citata rivista Hp nel luglio del '95. Ovviamente anche taluni dei molti romanzi fantascientifici che hanno per protagonisti "i mutanti" potrebbero essere indicati come parafrasi di alcuni handicap ma non c'è qui lo spazio sufficiente per approfondire questo copioso "sotto-genere" letterario che dunque sarà esaminato più avanti solo di sfuggita. Ci sarebbe anche da ragionare (ma confesso la mia scarsa competenza al riguardo) su un intero filone della fantascienza statunitense dedicato alle mutazioni dove spiccano personaggi in sedia a rotelle...

ma con super-poteri.(13) "Blue Champagne" si trova nell'antologia Bolle d'infinito, pubblicata

sul numero 1102 di Urania.(14) Jack Haldeman II, I giorni delle chimere su Urania numero 1022.(15) Una rete fra le stelle su Urania 1101.(16) Tradotto dall'Editrice Nord.(17) Orson Scott Card, Il popolo dell'orlo in Urania 1192.(18) Così s'intitolò un celebre racconto di Leigh Brackett, una delle poche

che riuscì a pubblicare, fin dagli anni '40, con il suo nome nell'allora misogino ambiente della fantascienza; molte altre donne erano costrette a firmarsi con pseudonimi maschili.

(19) Inedito in italiano.(20) È uscito presso Libra Editrice nel 1981 nella buona traduzione di

Roberta Rambelli.(21) Credo che i 3 racconti pubblicati dall'editrice Gamma come Paria del

cosmo nel 1972 facciano parte del ciclo di Centauro; non avendoli trovati in alcuna biblioteca mi rimane il dubbio se possa trattarsi dello stesso libro con altro titolo (come purtroppo ogni tanto accade, generando confusione nei lettori).

Quanto al nome di battesimo, da altre pubblicazioni si deduce essere Floyd.

(22) A firma "u.m." dunque Ugo Malaguti, non nuovo a travisare questo tipo di messaggi; lo stesso gli accade con il romanzo Cristalli sognanti (del già citato Sturgeon), altro romanzo che ha molti punti di contatto con i temi qui affrontati.

(23) In La legge delle stelle del 1963 ma tradotto in Italia (Galaxis editore) solo nel 1986.

(24) Più volte ristampato (da Fanucci nel '91 e su Urania nel '98).

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(25) È Noi marziani, uscito in varie edizioni Nord e ancora Fanucci.(26) Si trova nell'antologia I mutanti, Editrice nord.(27) Il centro protesi dell'Inail è in via Rabuina 14 a Vigorso di Budrio,

provincia di Bologna.(28) Definizioni che rimandano al disegnatore noto come Moebius e a una

famosa rivista di fumetti perlopiù fantascientifici.(29) Sugli antenati letterari e scientifici, su varianti e sotto-filoni, si può

leggere, fra gli altri, Il cyborg, saggio sull'uomo artificiale di Antonio Caronia (Theoria).

(30) "Chi conosce Charles Drew? Eppure questo scienziato salvò milioni di vite (...) le sue ricerche resero possibile la conservazione e la trasfusione del plasma. Drew era direttore della Croce rossa degli Usa. Nel 1942 la Croce rossa proibì la trasfusione del sangue di negri. Allora Drew si dimise. Drew era negro" ricorda Eduardo Galeano in La conquista che non scoprì l'America (il manifesto libri).

(31) Si sta parlando di Cesare Lombroso e dei suoi molti seguaci. Chi volesse affrontare questo tema con un lettura insieme rigorosa e affascinante cerchi Intelligenza e pregiudizio: le pretese scientifiche del razzismo di Stephen Jay Gould (Editori riuniti e poi Il saggiatore).

(32) Non è solo la fantascienza a parlarne. Fin dal 1983 lo teorizzò come un concreto progetto (attraverso l'innesto di un bio-chip nel cervello) il ricercatore David Richtie; confronta il suo Il doppio cervello (Edizioni di comunità).

(33) Scholes-Rabkin, Fantascienza: storie, scienza, visione (Pratiche editrice).

(34) È un lungo racconto del 1976 (appunto il 200° anniversario della rivoluzione americana); lo si trova in varie antologie Urania-Mondadori. Il film omonimo invece fu diretto nel '99 da Chris Columbus e, come nota il critico Morando Morandini, "l'insuccesso espressivo ha coinciso con quello di mercato: la sua imbarazzante pedagogia non ha convinto i bambini e non è piaciuta agli adulti".

(35) Le 3 leggi della robotica, inventate da Asimov (che, in tutti i suoi scritti, immagina siano rese obbligatorie) recitano: "I. Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno. II. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. III. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa auto-difesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge".

(36) Si può trovare questa citazione nella prefazione a un romanzo (di non grande qualità, a dire il vero) intitolato appunto Cyborg, 3° della mini-serie "Robot City" pubblicata da Interno giallo editrice.

(37) È anche nella sua antologia La stagione della vendemmia, ristampata nei Classici Urania.

(38) Frederik Pohl nel suo romanzo Uomo più (Nord).(39) Anch'esso presso l'editrice Nord.(40) Nel caso di Hawkins ciò avviene attraverso un complesso sistema di

"guarda e scrivi" (Eyegaze response Interface Computer Aid, in sigla Erica) cioè con una video-camera che illumina il volto, grazie a infrarossi scopre quale lettera egli fissa sullo schermo e la scrive.

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(41) Il testo (del 1976) è "Uomo, androide e macchina"; si trova in varie antologie dickiane fra cui Mutazioni (Feltrinelli) a cura di Lawrence Sutin.

(42) Fabrizio De Andrè nella canzone "Sogno numero due" contenuta nel disco Storia di un impiegato del 1973.

(43) Esemplare la storia intitolata "Johnny Freak" (pubblicata nel 1993 e più volte ristampata).

(44) Nel romanzo intitolato I nostri amici di Frolix 8 (Fanucci).(45) Tutti i racconti di Philip Dick sono ristampati (in vari volumi) negli

Oscar Mondadori sotto il titolo Le presenze invisibili. Per onestà bisogna ricordare che Dick, personaggio appunto pieno di contraddizioni, ha scritto anche un romanzo (Cronache dal dopobomba, Einaudi) dove il protagonista è un disabile che potremmo definire "cattivo".

(46) Nel racconto "...E la mia paura è grande" che si trova nella già citata antologia I mutanti.