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Numero 1 | maggio 2016

TANCREDI

Rivista di poesia, linguistica, e critica letteraria

a cura di

Antonio Perrone

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Indice

Editoriale 4

I saggi, gli articoli, le recensioni 5

La vita è una grande avventura dalla quale non usciremo vivi

a cura di Andrea Corona 6

Recensione di “Campionature di Fragilità” di Melania Panico

a cura di Mariano Menna 11

Recensione di “Sei con me, per sempre” di Maria Abatea cura di Mara Brancaccio 14

Contra carmina vacua, ovvero di come il solo talento non basti

a cura di Giuseppe Sbrescia 17

Dante e i Trovatori

a cura di Maria Abate 19

I versi e le prose 23

Componimenti inediti di Mara Brancaccio, Antonio Perrone

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Editoriale

Maggio, il 10. È tornato, il rapace di nero vestito. Il passaggio dallo zero all’unità è come quello del nulla al “qualcosa”, del non essere all’essere e, secondo i canoni della filosofia occidentale, dunque, non può esistere. La prova ha già dentro la sua definizione, lo 0 è in potenza ciò che è l’1 in atto, il Tancredi rosso era già ciò che è oggi il Tancredi blu: una rivista umanistico-scientifica (giacché è di moda il termine di “scienze umane”) che trova il suo fulcro in una ancor vaga idea di indeterminatezza.

Tancredi non ha una redazione fissa, è una rivista atematica e non ha un’inquadratura politica. Tancredi non è la torre d’avorio né la piazza del popolo. Tancredi vive il paradosso dell’embrione. Tancredi è un “idea”. Tancredi è il simbolo dell’uomo moderno, da cui, infatti, prende il nome.

A.P.

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| I saggi, gli articoli, le recensioni |

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La vita è una grande avventura dalla quale non usciremo vivi

Come recita il personaggio di Pozzo in Aspettando Godot di Samuel Beckett:

Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte.

Nascita e morte sono due eventi su cui, chiaramente, non abbiamo alcun controllo. Non dovrebbero quindi costituire per noi dei problemi da risolvere, ma semplici fatti da accettare. Nondimeno, i filosofi esistenzialisti hanno detto e scritto molto a riguardo.

Il punto è che, quando nasciamo, ci troviamo “gettati” nel mondo senza che nessuno ci abbia neppure consultati, per poi morire in modo del tutto insensato, magari giovani e all’improvviso o, peggio ancora, dopo un lungo male dal quale sapevamo che non saremmo mai potuti guarire.

Ciò nonostante, dobbiamo pur farne qualcosa di questo breve o lungo arco di tempo fra la nascita, in cui veniamo gettati qui, e la morte, in cui nessuno sa che fine faremo. E così ci lamentiamo, ci diamo da fare, ci arrabattiamo, cerchiamo insomma di sopravvivere. Ma più della stessa idea della morte, ad annichilirci è il sospetto che la nostra vita non abbia alcun senso, che sia una faccenda completamente assurda, una presa in giro.

Quante volte ci saremo chiesti “Ma è proprio tutto qui? Mangi, bevi, dormi, ottieni questo, perdi quello, certe volte sei contento, perlopiù sei insoddisfatto, e poi l’intera esistenza finisce così, senza alcun criterio. Qual è lo scopo di tutto ciò?”

Allora cominciamo a cercare disperatamente un obiettivo, un traguardo, e ancor più un significato da dare alla vita; qualcosa che ci permetta di dire che va bene, la nostra esistenza finirà, ma almeno ne sarà valsa la pena, perché aveva uno scopo.

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Ma per dare una direzione alla vita – e qui iniziano i problemi – chiediamo assistenza alla mente. Però, come diceva Nisargadatta Maharaj, la mente è un ottimo servitore ma un pessimo padrone, per cui, quando la interroghiamo per trovare il senso della vita, veniamo irretiti dalle infinite storie che il pensiero produce senza sosta come una radiolina perennemente accesa.

Si può anzi dire che passiamo praticamente l’intera esistenza a raccontarci favole inventate dal nostro pensiero, salvo dimenticare che siamo stati noi stessi a produrle, e creare così l’illusione che siano vere.

Invece sono storie completamente inventate, a cui prima o poi finiamo tuttavia per credere come dei veri boccaloni, e senza alcuna esitazione. Ma ogni illusione, ahinoi, prima o poi dà luogo a una delusione.

Naturalmente si tratta di storie anche molto diverse tra loro. Facendo qualche esempio, menzionerei innanzitutto le storie sull’aldilà; per cui c’è chi crede al paradiso e all’inferno, chi alla reincarnazione, chi alla comunicazione coi defunti, e così via.

Vi sono poi le storie, non meno inflazionate, sulla ricchezza come chiave della felicità, il cui scopo ultimo è, ovviamente, trovare il modo di far quattrini. Ma, come osserva Arnaud Desjardins, arguto autore spirituale francese:

Il denaro non dà la felicità. Ma questo lo sanno solo i ricchi.

Vale a dire che magari ci si riesce pure ad arricchirsi, salvo accorgersi, dopo un breve attimo di esaltazione, di essere nuovamente al punto di partenza.

C’è poi una variante di questa favola, che è la storia sul potere come coronamento di una vita ben spesa. In questo caso la morale è pressappoco la seguente: “se divento io il capo, nessuno mi metterà più i piedi in testa”. Beata ingenuità! Come mostra l’Arthaśātra, un antico testo hindu sull’arte del governo (la cui spregiudicatezza farebbe apparire Il Principe di Machiavelli come un’opera pia), nel gioco del potere assoluto l’unico vero prigioniero è chi lo detiene, costretto a guardarsi sempre le spalle da intrighi e congiure, a non fidarsi mai di nessuno e a condurre una misera esistenza fatta di solitudine, avvolto nelle proprie preoccupazioni come un ragno prigioniero della sua stessa ragnatela.

Un’altra variante della favola sui soldi è poi la storia sul successo come apice di una vita riuscita, una vita in cui, cioè, riusciamo finalmente ad esprimere noi

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stessi per ciò che siamo. Ma, proprio su questo argomento, Nathaniel Hawthorne ha scritto:

Nessuno può mostrare troppo a lungo una faccia a se stesso e un’altra alla gente senza finire col non sapere quale sia quella vera.

Seppur mediante vie traverse, ma con obiettivi non troppo dissimili dai precedenti, ci sono poi storie sul vittimismo come strategia vincente per affrontare l’esistenza.

Fare la vittima, si sa, ha i suoi vantaggi: ti risparmia da ogni senso di colpa e fa in modo che tutti si sentano in debito con te; e inoltre, dettaglio non da poco, ti dà un alibi perfetto per giustificare ogni tuo fallimento. Peccato che a lungo andare la tua presenza diventi insopportabile persino per chi ti è più vicino, così che il prezzo da pagare sia, di nuovo, la solitudine.

Le ultime due storie, tra quelle certamente più inflazionate, con cui la mente raggira se stessa, sono poi la storia sull’ottimismo come bacchetta magica per trasformare ogni giorno in una fiaba a lieto fine, e la storia sul pessimismo e sul cinismo come soluzione finale al problema dell’esistenza.

Caratteristica peculiare degli ottimisti è credere che tutto ciò che capita, comprese le sciagure più funeste, siano parte integrante di un grandioso disegno d’Amore Cosmico (o Provvidenza, o karma, o altro) che opera sempre e comunque per il nostro bene. Altre storie, di stampo più “interventista”, cercano poi di convincerci – magari citando a sproposito certe fraintese teorie di fisica quantistica sull’interconnessione fra osservatore e osservato – che se inforchiamo degli occhiali rosa e “pensiamo positivo”, saremo davvero in grado di manipolare la realtà oggettiva in modo che le cose ci vadano meglio.

Naturalmente, qualunque sia la variante adottata, le storie sull’ottimismo prima o poi svaniscono come bolle di sapone o crollano in un cumulo di macerie.

E quando, inevitabilmente, una storia di fantasia finisce per rivelare la propria inconsistenza, passiamo subito a raccontarcene un’altra e un’altra ancora, e la giostra continua a girare in tondo.

Non prima di passare, però, per le storie sul pessimismo o sul cinismo. Chi ha visto le proprie illusioni infrangersi troppe volte nell’amarezza di cocenti delusioni, si sente tradito dalla vita stessa. Ecco allora che si ripromette di non farsi più ingannare da tutte le precedenti storie – a cominciare da quelle sull’aldilà – che cercavano di dare un senso e una direzione all’esistenza, e così

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prende a definirsi un realista; solo che in questo modo, senza nemmeno rendersene conto, ha appena cominciato a raccontarsi un’altra storia, questa volta agra e disincantata: la storia per cui il significato della vita risiede nella sua totale assenza di significato.

Giunti a questo punto, si sente forse il sapore di un teatro dell’assurdo. Ma, dovendo dare un finale a questo copione, me ne guardo bene dal raccontarvi e raccontarmi un’ennesima storia. Preferisco piuttosto attingere a una massima di Winston Churchill, il quale, conformemente al suo humour lapidario, sentenziava:

La vita è una grande avventura dalla quale non usciremo vivi.

Andrea Corona

Recensione di “Campionature di Fragilità” di Melania Panico

lo strascico delle cose rapprese

è predisposizione alla cura

ricerca dell’ala guerriera.

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Campionature di fragilità che si dispiegano su carta, che si palesano in parole: la poesia di Melania Panico evoca immagini che sprigionano una “barbara energia”, come ha ben sottolineato Davide Rondoni nella prefazione alla raccolta. Una distensione del verso, la sua, che tenta di sviscerare l’esistenza, di mostrare le pieghe più recondite e meno palpabili del dettato esperienziale (la disumana forma del ricordo/alberga in pieghe poco sottili) , senza trarre giudizi di valore, ma piuttosto fornendo un filo d’Arianna che unisca tutte le cose e che risulti, allo stesso tempo, imperfetto e privo di un’autentica quadratura del cerchio; vi è infatti uno scarto minimo quanto incolmabile ed inspiegabile tra vita e poesia, tra esperienza vissuta e narrazione poetica:

Si può incidere nei muri/ la storia semplice /eppure il posto che spetta ai parolieri /è il guado incontrovertibile /arginato, arreso.

Oppure:

fa fatica la mano/ a commutare il pensiero prestato/ sento la parola compromettersi /nel momento essenziale /scevro di linearità.

Vi è, dunque, una vertigine palpabile tra il mestiere di vivere e quello di scrivere, un vuoto immenso che stride con la quotidianità (Dovrebbe essere tutto dritto, grato/ le pietanze sul tavolo del tinello/le conversazioni a luce soffusa/si bada a tutto, e niente resta): all’interno di questa polarità che viene a caratterizzare le vite dei poeti – visti quasi come anfibi che si dividono in maniera logorante tra gli eventi della vita e quelli della penna -, emergono prepotentemente il ruolo e l’importanza del lavorio poetico, ma contemporaneamente il suo aspetto sinistro e quasi disumano, il suo rasentare e, talvolta, cercare l’alienazione dalla vita per poi poterla maledettamente raccontare: “In piedi è di nuovo questo il dramma: / non riuscire a raccontare la calma.”

Bagnato da un mare di parole, da onde impetuose che non cessano di ripresentarsi a riva, il senso di estraneità può anche portare il poeta ad una sana e momentanea invidia per chi anfibio non è, per coloro che, pur pienamente immersi nella vita, non hanno parole per essa: “E’ semplice la quiete / per chi non ha parole/ che si arrampicano in gola.

Questo attimo di debolezza, questo ripudio non può durare a lungo, non può nulla contro la vera natura del poeta e contro la sua inevitabile predisposizione patica (“l’aria interferisce, commuove”): è la potenza del sentire che funge da chiamata alle armi per il poeta e non accetta defezioni; soprattutto, è la

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cognizione del dolore che chiama in causa la parola poetica, a prescindere dalle intenzioni del suo artigiano. Dinnanzi al dolore più autentico (“E’ difficile il destino delle peripezie”), l’uomo resta attonito, ma il poeta non può assolutamente seguirlo su questo sentiero del silenzio, non si confà alla sua natura; del resto, è la stessa parola poetica a fornire con umiltà un abbozzo di soluzione al problema del dolore, una possibile salvezza: “Forse è questa la forma della soluzione/ Reinterpretare radici fangose, renderle gioia.” È proprio in questo distico che viene ad esprimersi una delle chiavi più interessanti dell’intera raccolta, perché l’esperienza del dolore e delle nostre fragilità può anche fungere da preludio alla gioia, se lo si vuole: del resto, il lamento baudelairiano “o dolore, o dolore” ed il grido biblico di Giobbe non devono necessariamente condurre alla rassegnazione e far calare il sipario anche su quanto di buono la vita può donarci; giunti ad una consapevolezza più matura (“[…] ma le rughe insegnano/ segnano”) ma non per forza stoica dell’ineluttabilità del dolore, “restare a galla è la nuova prospettiva” ed emergono così la sacralità del dolore, la propedeuticità dei sui insegnamenti e la sua intrinseca e paradossale umanità (“contorcersi ha un solo verso, il nostro/ quello umano instabile scontroso”). La sacralità del dolore, in questo caso, riguarda l’uomo, ma ovviamente può inerire alla vita in generale ed ai suoi sentieri, che non sono meno tragici di quelli umani: nella raccolta di Melania Panico è fortemente presente la natura e, in particolare, è mirabilmente rappresentata in alcune poesie la forza vegetale del paesaggio (le foglie svegliano i piedi /la terra insegna i passi/ per tributo alla vita), che va ad intrecciarsi – quasi come se parlassimo di radici – simbioticamente con la forza, la sopportazione e la pazienza dell’uomo che cerca di andare avanti nonostante tutto. È proprio dovuto alla sopportazione – che spesso e volentieri giunge al suo limite – l’intimo desiderio di stabilità (“Ora io auspico alla quiete di un albero /alle radici fermi di posa in opera /[…] a non mentire”) che assale l’uomo: un desiderio quasi sempre destinato all’insoddisfazione ed un flusso di menzogne che tende a perpetuarsi a prescindere dalla volontà dei soggetti, tanto risulta ineluttabile lo scarto simmeliano tra vita e forma che tutto pervade; nel mondo contemporaneo, del resto, la stessa vita è sinonimo autentico di sradicamento, in quanto proiettata verso l’aperto e quindi eccedente le forme che tentano di imprigionarla. In tal senso, lo stesso approccio sistematizzante e razionalizzante dell’uomo attuale si scontra con il comprendere, che caratterizza le scienze dello spirito, e con la dépense dei possibili: “la ragione ha radici nel

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terreno/ si trattiene sempre/ con le unghie sanguinanti/ non abbraccia possibilità /ha bisogno di spiegare”. Tornando, in conclusione, alla definizione di Rondoni, appare chiaro come la barbara energia che caratterizza il dettato poetico di Melania Panico sia in fin dei conti la vita stessa che si ribella al giogo della forma, pur essendo intrinsecamente legata ad esso, vista l’impossibilità di esprimersi in altre modalità; un rapporto, questo, viscerale quanto tragico – e forse tragico proprio perché viscerale – come quello che intercorre tra esperienza vissuta e poesia, che funge da risposta esaustiva per coloro che si interrogano sull’effettiva utilità della parola poetica e del suo venire alla luce.

Mariano Menna

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Recensione di “Sei con me, per sempre” di Maria Abate

Seneca nella sua Consolatio ad Marciam1 scrive:

Tertius iam praeterit annus, cum interim nihil ex primo illo impetu cecidit: renovat se et corroborat cotidie luctus et iam sibi ius mora fecit eoque adductus est ut putet turpe desinere. Quemadmodum omnia vitia penitus insidunt nisi dum surgunt oppressa sunt, ita haec quoque tristia et misera et in se saevientia ipsa novissime acerbitate pascuntur et fit infelicis animi prava voluptas dolor.

L’opera è indirizzata a Marcia, figlia di uno storico molto importante ai tempi di Seneca, Cremuzio Cordo, la quale non aveva mai cessato di rassegnarsi per la perdita del figlio. I brevi versi riportati delineano il dolore enorme provato dalla madre, la quale, nonostante siano passati circa tre anni, non è riuscita a fuggire il terribile struggimento. La ferita mortale segna ancora il suo petto, con delle ripercussioni che non vogliono essere sanate, il dolore si erge a modi tiranno, e la sua persistenza, la sua continuità e la sua distruzione, si fanno legge. E’ un tormento di cui non ci può sbarazzare che rende i giorni tristi e mutua la vita in una perpetua lacerazione, le cui perenni durezze finiscono solo col logorare loro stesse, e rendere

1 Seneca, Consolatio ad Marciam, VII, Milano 1995.14

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tutto il resto inconsistente. La morte e la vita fanno parte di questo mondo, è il suo ciclo, senza il quale non si potrebbe essere al mondo. Tuttavia la morte di una persona, non può che non essere accolta dalle persone care, come un’ingiustizia, un grande fardello con cui bisognerà far conto, costringendoci a sognare e ancora sognare quell’attimo, quel momento in cui le braccia per l’ultima volta si sono congiunte a quello del defunto. La grandezza degli autori antichi consiste, a mio avviso, nel riuscire a raccontare dell’uomo, ma non la storia di un individuo abitante di un luogo e in un tempo, ma di un uomo senza tempo e senza luogo. Seneca in particolare delinea il dolore causato dalla morte, la cui descrizione coincide perfettamente con ciò che accade anche oggi a chi perde una persona amata. Voglio presentare in questo luogo la storia di Maria, rimasta orfana di padre, troppo giovane, la quale, tuttavia, spinta da enorme coraggio, ha trovato la forza per trasferire nero su bianco, il dolore più grande della sua vita, scrivendo un diario in prima persona delle vicende che le sono capitate, in modo da conferire allo stesso testo, quella dimensione intimistica e personale, che rende la vicenda ancora più terrificante. Il libro, Sei con me, per sempre, si apre con una premessa di grande intelligenza e sofisticatezza, nella quale Maria, mostrando grande animo, presenta una vicenda quotidiana, quella che potrebbe vivere un qualsiasi uomo o una qualsiasi donna, quando vengono informati, attraverso giornali e telegiornali, di notizie di cronaca nera. L’autrice spiega che in genere le persone, non appena ricevute tali notizie, benché possano essere in parte avvilite o colpite per la crudezza della notizia ricevuta, continuano a vivere la loro vita, ignari della sofferenza che si cela dietro il dolore altrui. Ci si aspetterebbe in seguito alla descrizione di questa scena quotidiana, un sentimento di rabbia espresso da Maria, la quale è tristemente venuta a conoscenza della morte del padre attraverso un telegiornale, ma ella mostra, con enorme generosità ed intelligenza, una sua particolare ed acuta lettura della vita: siamo immersi in un fiume che scorre senza sosta e noi non possiamo che sopravvivere. Seguono a raffica capitoli del libro, ciascuno dei quali dotato di un nome specifico che delinea, come Maria stessa scrive, lo stato d’animo all’interno del quale il lettore deve immergere prima di affrontare il suddetto.

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Tremendo, e a mio avviso, e il più bello è il primo capitolo dove Maria riesce con uno stile semplice, per lo più paratattico, a scardinare l’essenza del suo tremendo dolore, che nel momento stesso in cui appare, nell’attimo preciso in cui Maria apprende la tremenda notizia, spezza ogni capacità ragionativa, obnubilando la mente e producendo solo incertezze. La particolarità del libro, che dimostra la grandezza dell’usus scribendi della ragazza, consiste inoltre in una continua mescolanza tra tempo presente e tempo passato, che mette in evidenza non solo l’abilità della scrittrice a cucire le tessere dei due momenti, senza creare incertezze e confusione, ma contemporaneamente è propedeutico ad un accorta e precisa descrizione del suo dolore, che si acuisce non appena un ricordo del padre avanza, perché esso stesso si configura come continuo rimpianto per un tempo che non c’è più. L’autrice nei capitoli successivi a quelli in cui racconta della morte del padre, mostra, ancora una volta con delle pagine pregne di vivace e accattivante realismo, della vita che continua a scorrere, nonostante il cuore voglia fermarsi nel suo dolore. Maria è costretta a crescere e racconta della sua storia d’amore che inizia ad avere solide fondamenta, presentando il sentimento amoroso con grande tenerezza; rievoca poi del traumatico ritorno a scuola, e della incapacità di adattarsi alla vita reale. Ma nonostante tutto, Maria vi riesce, e la sua bella penna scaglia un susseguirsi di ricordi zeppi di sentimenti contrastanti, che esprimono la sua continua lotta tra amore per la vita e il ricordo del padre lontano. Il libro di Maria non è solo la trasposizione di un travaglio interiore, ma offre concreti spunti letterari, la vita della fanciulla è scandita dalla sue continue letture, ella è legata all’arte del belle parole, sin da quand’era piccina, aveva imparato a leggere a soli tre anni. Non si tratta tuttavia dell’elencazione sterile dei libri letti, ma dell’enunciazione chiara, e forbita di sapere letterario e di ciò che ella stessa prova, nell’atto di leggere un libro. La lettura come emancipazione, come fuga al tremendo dolore, la porta più volte, come la stessa racconta, a trovare sfogo scrivendo: pensieri gettati alla rinfusa, che riflettono il suo stato d’animo divengono una grande occasione di liberazione. Una storia di amore, di adolescenza, di dolore e di famiglia, questo è il libro che Maria ha scritto, la quale, forse a causa della sua giovane età, ma spero vivamente che continui a conservare tale semplicità, rievoca un mondo sereno e primitivo, dove grande attenzione è data alle piccole cose.

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Un magistero dell’amore, così io definirei Sei con me, per sempre, una lezione di vita, un’imperante richiesta del ritorno a ciò che genuino, come il buon cibo e i natali passati a costruire il presepe, e una splendida convinzione che l’amore può vincere ogni cosa e dà la forza per andare avanti.

Mara Brancaccio

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Contra carmina vacua, ovvero di come il solo talento non basti

Fin dai tempi più antichi la poesia si è resa portavoce di conoscenze fondanti per comunità più o meno vaste diventando in questo modo uno dei primi mezzi di trasmissione di cui l’uomo poteva disporre, densa di significato è stata capace di porre in relazione il mondo terreno (umano) con quello laicamente definito come “Altro” (cioè tutto ciò che trascende la materialità) consentendo all’uomo di rapportasi con sensazioni e stati d’animo pronti ad elevarlo dalla sua umile condizione. Oltre questa funzione “trascendente”, la poesia arcaica ha avuto anche una funzione didascalica che è possibile trovare in ambito occidentale nel famoso Omero (nel mondo Orientale abbiamo funzioni didascaliche/”trascendentali” della poesia già nel XXVI/XXV a.C. con la sumera Epopea di Gilgamesh o nel XX circa a.C. con gli indiani, precisamente indù, Veda) , il quale era considerato un modello da cui poter trarre modalità di comportamento in ogni campo del sapere: dal come si praticava un duello tra campioni (Iliade) ad alcune istruzioni su come riuscire a costruire una zattera (Odissea) ; non a caso Eric Havelock, filologo inglese del XIX secolo, definì le opere omeriche delle vere e proprie “enciclopedie tribali”: libri che raccoglievano interamente il senso della grecità di V e IV a.C. Naturalmente il poeta di Chio non è l’unico a fare un tale uso del verso, si potrebbe citare la poetessa Saffo che, proprio attraverso una poesia densa di elementi dottrinali, istruiva le sue ancelle all’interno del famoso tìaso; naturalmente un verso siffatto non era affatto comprensibile da chiunque, dal momento che richiedeva una formazione culturale adatta a comprenderlo nella sua interezza. Quanto detto fino ad ora vacilla con poeti come Callimaco, Apollonio Rodio, Teocrito in Grecia o i Poetae Novi a Roma: i primi si fecero portatori di una poesia stilisticamente complessa e raffinata, all’interno della quale ogni singola parola aveva un profondo legame con la tradizione precedente ma, nonostante ci fosse un lavoro così meticoloso, risultava priva di ogni intento dottrinale/didascalico apparendo come un mero esercizio stilistico in cui il poeta si cimenta; situazione simile era a Roma dove il componimento, frutto in egual modo di gran lavoro stilistico definito labor limae (lavoro di lima) dai stessi poeti, esprimeva l’amore dissacrante,non a caso andrà contro ogni costume tipicamente romano, del poeta nei confronti della donna amata molto spesso collocato in ambito extraconiugale. Possiamo notare come una poesia priva di una stabile impalcatura dottrinale sia sintomo di una profonda incertezza contestualizzabile in un preciso momento storico: nel III/II a.C. in Grecia grazie alla fine delle pòleis ed alla fine della famosa indipendenza di cui queste godevano, a Roma nel I a.C. attraverso l’ascesa di un grande personaggio come Giulio Cesare capace di far vacillare quell’istituzione di cui i discendenti di Enea tanto si gloriavano: la Repubblica.

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Questi due precisi momenti storici videro vacillare completamente il sistema valoriale di cui disponevano le civiltà interessate, generando nei poeti, da sempre capaci di esprimere l’essenza del proprio tempo, un senso di vuoto… una sorta di nichilismo ante litteram. Giuseppe Sbrescia

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Dante e i Trovatori

Considerate spesso come correnti a sé stanti – se non fosse per qualche generico riferimento extra-testuale che non fa che confondere chi si accinge a studiare quella temperie culturale – la poesia provenzale, la Scuola poetica siciliana, i Siculo-toscani e il Dolce Stil Novo sono intimamente legate tra di loro, più o meno evidentemente. Se non ci fosse stata la produzione trobadorica, Dante Alighieri non avrebbe potuto condannare la produzione pre-stilnovistica, anzi, non avrebbe nemmeno avuto la necessità di propugnare un nuovo modo di fare poesia. L’influenza della poesia trobadorica nella nascita della letteratura italiana è riscontrabile in molti elementi puramente tematici o linguistici, tra cui la ripresa dell’amore cortese2 e, ovviamente, l’utilizzo comune di una lingua volgare aulica; ma il fatto stesso che Dante citi spesso nelle sue opere i trovatori è già di per sé significativo. In quello che Bonaventura da Bagnoregio definirebbe un Itinerarium Mentis in Deum3, Dante incontra quattro trovatori: nell’Inferno Bertran de Born, nel Purgatorio Sordello e Daniel, nel Paradiso Folchetto di Marsiglia. Siamo nell’ottavo Cerchio, quello denominato ‘Malebolge’ perché suddiviso in 8 bolge in cui sono puniti i fraudolenti, e precisamente nella IX Bolgia. Dante è richiamato da un dannato senza testa che «’l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna»4. Si tratta di Bertran de Born, di cui Dante non guarda tanto l’opera (il trovatore non è nel secondo cerchio dei lussuriosi, come ci si aspetterebbe per le sue poesie d’amore alquanto licenziose5) quanto una famosa vida che lo vede invischiato attivamente nella lotta tra Enrico II d’Inghilterra e i figli. Bertran sarebbe tra coloro che spinsero Enrico III a lottare (il «re giovane»6) contro il padre, dividendo un legame di sangue: ecco perché, per contrappasso, questa pena atroce. Condannando Bertran, Dante, cittadino comunale, non fa altro che condannare l’obsoleta società cavalleresco-feudale e i suoi valori. Considerazione maggiore ha – Bertran – in un ambito del tutto diverso, e cioè nel De Vulgari Eloquentia, dove è celebrato quale massimo esponente della armorum probitas (“prodezza nelle 2 Secondo la definizione del medievista e filologo francese Gaston Paris.3 Titolo di un’opera del teologo francescano Bonaventura da Bagnoregio, che Dante colloca nel cielo del Sole (Paradiso, XII).4 Alighieri, Dante. Divina Commedia, Inferno, XXVIII.5 In Casutz sui de mal en pena Bertran descrive il corpo della donna, la «gaia, fresca Elena».6 È conosciuto così per distinguerlo dal nipote Enrico III d'Inghilterra. La ribellione, appoggiata dal re di Francia Luigi VII, fu repressa da Enrico II, che estromise il figlio dal governo sia del regno inglese che dei feudi francesi. Alla morte del Re giovane, Bertran scrisse in suo onore un planh intitolato Mon chan fenisc ab dol et ab maltraire.

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armi”), uno dei tre grandi argomenti dell’alta lirica volgare (che Dante chiama «magnalia»7). Gli altri due sono l'amoris accensio (“ardore amoroso”) di Arnaut Daniel e la directio voluntatis, ossia la “rettitudine” che è oggetto della poesia di Giraut de Bornelh. Queste tre virtù devono essere adottate, com’è ovvio, nell’interesse pubblico, non privato. Dante perciò, riguardo all’armorum probitas cita il sirventese No posc mudar c'un cantar non esparja, «che impetuosamente esprime il tripudio che fa vibrare l'animo del poeta quando, finalmente, dopo molti incitamenti, Riccardo Cuor di Leone muove guerra a Filippo II Augusto re di Francia»8.Come per Bernart, anche di Sordello non sono esaltate le capacità poetiche, quanto le vicende personali. L’incontro con Sordello9 si fa occasione per una lunga invettiva (vv.76-126) che Dante rivolge all’Italia e che inizia con una terzina memorabile:Ahi serva Italia, di dolore ostello,nave sanza nocchiere in gran tempesta,non donna di provincie, ma bordello!

Sordello era infatti dovuto scappare da quell’Italia così «indomita e selvaggia», ma, essendovi fortemente legato, vi era ritornato sperando che la buona politica di Carlo d’Angiò, eletto re di Sicilia, potesse assicurare pace ed equilibrio a tutti. Se Bertran de Born aveva favorito la guerra tra consanguinei (cosa che stava succedendo in Italia), Sordello farcisce la sua poesia di etica politica e merita così, nel canto successivo, il ruolo di guida nei confronti dello stesso Dante e di Virgilio (mantovano come il trovatore). Li porterà nella valletta dei principi negligenti, che assume i tratti del tipico locus amoenus virgiliano, in cui vi è – tra i tanti – l'imperatore Rodolfo d’Asburgo, che, come l’«Alberto tedesco»10 nominato nell’invettiva, è stato negligente verso il dovere politico di custodire la giustizia in Italia.Arnaut Daniel, invece, assume importanza nella Commedia per lo stile poetico, caratterizzato da un’eccellenza tecnica e una ricercatezza formale mai raggiunte dai suoi colleghi. Presentatogli dallo stilnovista Guido Guinizzelli, Arnaut è opposto ad un altro trovatore, Giraut de Bornelh, che invece era famoso per uno stile alquanto criptico che passava in modo poco coerente dal linguaggio elevato a quello leggero.

7 Cioè “opere grandiose, mirabili”. È neologismo del latino cristiano come calco del greco μεγαλεῖα.8 Cito dall’Enciclopedia Treccani online.9 Nel VI canto del Purgatorio.10 «O Alberto tedesco ch’abbandoni / costei ch’è fatta indomita e selvaggia» (Purgatorio, Canto VI)

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Per il suo verseggiare, Arnaut è «l’unico poeta volgare – a quest’altezza cronologica, quasi al culmine dell’esperienza artistica di Dante – con il quale l’autore della Commedia sente di dover fare i conti»11. Egli infatti riprende lo stile di Arnaut nelle cosiddette Rime petrose12, in cui abbandona il topos della donna angelicata per adeguare il proprio stile alla durezza della donna cantata, Petra, e renderlo altamente metaforico ed erotico. Da Arnaut, in questi componimenti, trae anche la forma metrica della sestina, che il trovatore sperimenta in Lo ferm voler.

Quan mi sove de la cambraon a mon dan sai que nulhs om non intra-ans me son tug plus que fraire ni oncle-non ai membre no'm fremisca, neis l'ongla,aissi cum fai l'enfas devant la verja:tal paor ai no'l sia prop de l'arma.

Del cor li fos, non de l'arma,e cossentis m'a celat dins sa cambra,que plus mi nafra'l cor que colp de verjaqu'ar lo sieus sers lai ont ilh es non intra:de lieis serai aisi cum carn e onglae non creirai castic d'amic ni d'oncle.

[Se ripenso a quella camera dove, a mio danno so, nessuno entra, ma ognuno m’è più che fratello o zio, non ho membro che non frema, nemmeno l’unghia, come fa il bimbo davanti alla verga: tanto temo di non esserle vicino all’anima. Potessi essere presso al corpo, non all’anima, e mi prendesse di nascosto in camera, che più mi piaga il cuore che una verga perché ora il suo servo dove ella è non entra: sarò di lei come la carne e l’unghia, e non darò retta ad amico o a zio.]

11 Gresti, Paolo. Dante e i trovatori: qualche riflessione in Testo - Studi di teoria e storia della letteratura e della critica. N. 61-62 (2011), pp. 175-190.12 Beatrice è morta e Dante compone questo ciclo di quattro testi (1296-1298) dedicati ad una nuova donna.

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Le allusioni sensuali di Arnaut sono riprese dallo scrittore fiorentino in Così nel mio parlar voglio esser aspro, in cui Dante, nonostante Petra lo faccia soffrire, immagina «se stesso in un corpo a corpo con Amore prima e poi con l’amata»13, con atteggiamento aggressivo, radicalmente antitetico rispetto ai modi stilnovistici.È Cunizza, presunta amante di Sordello da Goito14, a presentare l’ultimo trovatore della Commedia a Dante («Di questa luculenta e cara gioia / del nostro cielo che più m’è propinqua, / grande fama rimase; e pria che moia, / questo centesimo anno ancor s’incinqua»)15, ma senza fare il nome. Folchetto di Marsiglia, che presenta sé stesso col ben più noto nome di Folco, era notoriamente apprezzato da Dante, che non solo ne cita la canso Tant m’abellis l’amoros pensamen nel De vulgari eloquentia ma ne ricalca anche l’incipit nel XXVI canto del Purgatorio («Tant m’abellis vostre cortes deman») proprio nelle parole in occitano pronunciate da Arnaut, quasi ad avvicinare i due trovatori ed evidenziare la stima che aveva nei confronti di entrambi.Egli, dopo essere stato mercante e trovatore, divenne monaco dell'Ordine Cistercense e infine vescovo di Tolosa. Questo cambiamento di vita, dall’amore passionale a quello spirituale, si avverte già in uno dei suoi componimenti, Sitot me soi a tart aperceubuz, in cui afferma di voler partire e seguire un altro percorso16. In Paradiso Dante vi pone l’unico trovatore che abbia mai abbandonato l’amore cortese per la vita spirituale. Per di più Folco da Tolosa si era particolarmente distinto nella lotta all’eresia albigese (per questo fu ritenuto traditore dai trovatori) accanto a San Domenico, che Dante elogerà nel XII canto. Ma nel Paradiso, Folchetto è collocato proprio nel cielo degli spiriti amanti: come Cunizza, da giovane, influenzato da Venere, aveva ceduto alle avventure amorose.

Maria Abate

13 Di Girolamo, Costanzo. I trovatori. Torino: Bollati Boringhieri, 2010.14 La fama di donnaiolo del trovatore era rinomata; soltanto Cesare Segre prova a scagionarlo nelle sue Dieci prove di fantasia (Torino: Einaudi, 2010).15 Paradiso, IX (vv.37-40).16 «mas eu m’en part e segrai altra via».

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| I versi e le prose |

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Sai di Antonio Perrone

Sai tutte le miemalattie, le paturniei segreti, conoscila paura dietro le bugie,l’incertezza e la sicumèria.Sai quando smettere la guerracome avvamparla, dove mettereun punto al mio lesionismo.E la vanagloria, la superbial’arroganza, la borial’insolenza tu sai,il mio essere alienola mia incapacitàdi mettermi un freno.

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Senza titolo

Vi racconto una storia che conosco a memoria, quella di Marta e di Andrea, due fratelli il cui destino ha condotto lontano. Di questa storia conosco tutti i personaggi e tutti i particolari, perché me ne ha parlato, non senza remore, o assenza di lacrime, quella che reputo ancora la persona più importante della mia vita. Lei mi raccontava questa vicenda sovente ed io ne avevo ormai imparato a memoria tutti i passaggi; ricordo ancora, quando la sera seduti fuori la veranda di casa nostra -allora era mia moglie- quanto ella si adirasse ogni volta che tentavo di anticiparne gli eventi. Altre volte invece la prendevo in giro,- confesso per vedere il suo piccolo nasino storcersi e il suo viso dipingersi di alterigia- ripetendole sempre: -scommetto che stasera, o meglio anche stasera, mi racconterai di Marta e di Andrea- e lei serissima e puntualissima mi rispondeva- con quella presunzione di cui ero follemente innamorato:-La sensibilità non alberga nel tuo povero cuore evidentemente- Non ho mai capito se le servisse per esorcizzare o, più semplicemente, se lo faceva per ricordare, ma lei la raccontava sempre. E come un po’ accade nella vita di tutti gli uomini i quali nelle loro azioni e nelle loro scelte sono sempre guidati da qualche racconto, io questa storia la porto sempre con me, e ora la voglio scrivere.

Marta e Andrea erano cresciuti insieme, erano fratello e sorella. Da piccoli frequentavano un piccolo asilo vicino casa, lui biondo come il sole, aveva paura di tutto, delle maestre, dei compagni di classe, degli insetti e soprattutto delle femmine, che vedeva come creature indemoniate, crudeli. Andrea proprio non si riusciva a spiegare del perché questi strani esseri umani, come lui definiva le bambine, trascorressero la maggior parte del loro tempo a pettinare i capelli alle bambole, giocattoli che per lui non erano altro che persone finte. Marta aveva più paura di lui, soprattutto dei compiti, della matematica; il padre, appassionato dei numeri e della geometria, era solito trascorrere ore nel tentativo di

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insegnarle qualcosa, ma invano. Lei questo lo ricorda bene, come se fosse accaduto solo pochi anni fa, il suo babbo dapprima gentile e sereno finiva sempre con l’urlare e metterla in soggezione, ma la bambina impaurita a quel punto annullava ogni capacità di ragionamento e correva tra le braccia della madre a cercare conforto. Al di là delle ore impiegate per la scuola, i due fratelli dagli occhi verdi, lui piccolo e magro e lei, che per stazza, benché avesse solo quindici mesi di più, sembrava averlo divorato in un boccone, passavano le ore a giocare insieme, costruendo case, immaginando tesori da scovare, saltellando… ma il loro gioco preferito era sempre stato poter spiare i grandi. Quando strisciavano dietro i divani nel tentativo di non essere visti, i loro animi si dipingevano di un grande senso di onnipotenza, a modi spie della Cia, attraversavano i meandri della casa. E che bella casa era la loro, in essa si davano delle bellissime feste di carnevale: i coriandoli e le stelle filanti tappezzavano con i loro mille colori i pavimenti di casa, e poi c’erano degli animatori bravissimi, organizzavano dei meravigliosi travestimenti: Andrea era vestito da Peter Pan e Marta da principessa della Baci Perugina; la piccolina aveva un vestito blu e argento, con un enorme fiocco in testa, che la rendeva al tempo stesso la bambola di porcellana più bella e ridicola del mondo.

Così erano passati i loro primi anni, tra feste e allegria. Ma poi partirono, i genitori che l'idea della comune l'avevano come obiettivo di vita, fittarono una casa su di una collina in Umbria, di una rara bellezza, le cui mura erano tutte di pietra; questa villetta era isolata dal resto del mondo, aveva un enorme giardino con meravigliosi frutteti e un piccolo orto, dove il padre dei bambini passava la maggior parte del tempo a coltivare, a sistemare, a rastrellare, cantando le sue canzoni di sinistra. Marta, Andrea e il piccolo Simone, il fratello minore nato di recente, erano molto felici, andavano per i prati e rotolavano, poi la sera ascoltavano le canzoni suonate da Valeria, una cara amica di famiglia, e infine stremati si addormentavano abbracciati.

Uno di quei giorni, Marta decise di andare a raccogliere dei fiori per la madre, voleva farne un piccolo mazzolino, ma quelli che piacevano a lei erano azzurri e lì vicino la casa non c’erano. Armata di coraggio, benché non ne avesse, diciamo spinta da entusiasmo nonché da una assenza di senso del pericolo, la piccola si incamminò tutta sola, con le sue pantofole rosse con i pagliacci. Scese l’intera collina: alberi altissimi e piante di vario genere la circondavano, ai suoi occhi quel confuso paesaggio appariva come il bosco della Bella Addormentata. Marta cercò con cura i fiori per sua madre, ed ecco che pian piano nelle sue manine

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cicciotte iniziò a formarsi un piccolo bouquet, finalmente aveva trovato i fiori azzurri.

Il sole nel frattempo passava attraverso le foglie, caldo, e la piccola bimba, stordita dai tanti profumi del bosco- davanti ai suoi occhi appariva una trama di colori, il giallo si mescolava al celeste e il marrone al verde- si perse. Non riusciva più a trovare la strada maestra, vittima della propria incoscienza, iniziò a piangere e le sue grida si fecero ancora più acute non appena si manifestarono i richiami dei genitori impauriti. Le urla provenivano dall’alto, bisogna risalire la collina, pensò la bambina, ma non ci riusciva e si trovava sempre a scivolare, a cadere, a rotolare giù lungo il pendio. Nel frattempo le grida dei suoi erano sempre più forti, e il sole accecava sempre di più il suo pallido viso, sui cui c’erano infinite lacrime amare. La piccola scese la collina, quando si trovò nei pressi di un'autostrada, e una macchina bianca, forse una vecchia Fiat, le si avvicinò: gli automobilisti le chiesero chi fosse e lei scoppiò in lacrime. Marta aveva dimenticato tutto, il suo unico desiderio era quello di riabbracciare i suoi. I due signori, l’uno con una lunga barba bianca, il naso camuso sul quale erano adagiati degli occhiali rotondi e l’altro, alto con le mani sporche di terreno la presero con loro e la piccola perse la sua famiglia, la sua innocenza, la sensazione di sentirsi sempre protetta ed amata. Gli anni passarono veloci e lei, nonostante si fosse abituata all’ambiente di campagna, non aveva mai smesso di pensare alla sua famiglia, alla casa a Napoli, alle feste. Ma il ricordo più grande-quello che voleva si tramutasse in realtà- riguardava il fratello, le mancavano i giochi e le carezze; e d' estate, quando si andava a mare nelle belle giornata, Marta, ormai cresciuta, guardava le caviglie degli uomini che battevano la sabbia, per cercare se qualcuno di loro avesse una voglia piccola e marrone, come la sua, perché quella piccola chiazza rappresentava la loro fratellanza: entrambi infatti avevano una piccola voglia di caffè sulla caviglia sinistra. Ma la ragazza non riuscì mai a trovare un altro uomo che avesse la stessa caratteristica. Eppure lei, col passare del tempo, di spiagge ne aveva viste tante, era tornata anche nella sua terra natia, ma inutilmente. Passati così circa dieci anni aveva infine smesso di cercare.

L’ultima fase di questa storia, che giuro di aver riportato fedelmente, provocava in mia moglie un senso di sconforto, scoppiava a piangere e si rintanava in camera sua. Io non sapevo mai come comportarmi, se abbracciarla, se ricorrere ad un aiuto esterno, tantissime volte avevo pensato persino di portarla da uno psichiatra, eppure quando la conobbi era tutto così diverso. Eravamo in vacanza, in una località di mare, in Puglia. Lei aveva dei bellissimi occhi verdi e capelli

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lunghissimi color nocciola, la sua pelle era bianca come la neve, e a tratti già si vedevano i primi baci del sole. Mi sono innamorato di lei al primo sguardo, tenero e insicuro. Mi colpì di lei la sua allegria e la sua sana risata: avevi denti grandi e sporgenti, e benché gli incisivi fossero più grandi della norma io ne fui folgorato, quasi un dardo avesse trafitto il mio cuore. I nostri primi incontri erano leggeri, di quella semplicità che propria di tutte le prime volte, passavamo ore infinite a fare passeggiate e a cantare. Ma le cose improvvisamente cambiarono: dopo il lavoro tornavo a casa e trovavo Marta stesa su il divano guardare un punto fisso, con gli occhi rossi, quasi avesse appena smesso di piangere. Iniziai a chiedere spiegazioni prima con dolcezza e poi con maggiore insistenza, ma dinnanzi alle mie domande lei restava ostinatamente in silenzio. Capii che qualcosa non andava, quasi avvertisse una sorta di mancanza, rispetto alla quale mi sentivo costretto a colmare- quando ami una persona ti senti sempre, forse delle volte sbagliando, autorizzato ad intervenire, quasi come se potessi sempre e comunque risolvere i problemi. Delle volte pensavo di esserne addirittura la causa. Marta, solo dopo qualche anno, era parecchio riservata, spiegò che la sua tristezza era dovuta alla mancanza della famiglia. Tuttavia a me, che di professione faccio l’investigatore, questa storia era parsa sempre troppo strana, siamo nell’epoca della tecnologia, le persone non spariscono così, le ripetevo quasi ogni giorno; ma quando le promettevo il mio aiuto, lei si rifiutava sempre.

Marta, devi darmi una spiegazione, le ripetevo; la sgridavo, dicendole che lei veniva meno a quel vincolo di sincerità che ci eravamo promessi. Nella mia vita ho sempre creduto che la cosa più importante fosse la fiducia, e ho sempre visto i rapporti come la voglia di due individui di voler condividere sempre e comunque gioia e di dolore. Per tutto il tempo che ho vissuto insieme a Marta, infatti, mi ero dato a mia lei, totalmente, donandole la mia anima e il mio corpo, manifestandole le mie paure e le mie preoccupazioni. Questi principi i quali mi ero figurato di seguire per tutta la vita -costi quel costi- vennero a cadere a causa di una Marta assente e distrutta. Lei cominciò ad apparire ai miei occhi come un muro impossibile da abbattere, e io da innamorato, quale ero, tentai di sfondare, prima con le parole e poi con la terapia di coppia. Lo psicologo mi diceva che le sedute avrebbero portato la mia donna a parlare, a manifestare e a gridare il suo dolore, ma a me sembrava che le cose andassero peggio. Fu allora, dopo circa ventiquattro sedute, che non ce la feci più e durante una passeggiata, in un freddo giorno di inverno, dinnanzi alle mie copiose lacrime, Marta, probabilmente impietosita, decise di svuotare il sacco. Mi disse, tra fiumi di

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lacrime, che lei questa storia l’aveva inventata, per giustificare l’assenza di sentimento che nutriva il fratello nei suoi riguardi. Mi spiegò che i rapporti tra lei e Andrea erano progressivamente peggiorati, benché effettivamente non fosse mai accaduto nulla, e che lei continuava a vedere i suoi genitori di nascosto. Dopo questo racconto, Marta mi guardò, aveva la sofferenza nel volto, sapeva sia che non sarei mai e poi mai venuto meno a miei valori e ai miei desideri che ormai io avevo perso quella luce negli occhi quando la guardavo, ma lei non andava via: aveva capito che quello che se ne sarebbe andato per sempre sarei stato io.

Io che tuttavia, quando guardo le tendine azzurre che Marta aveva appeso con tanta cura alle finestre, scoppio in lacrime, io che tuttavia l’amo ancora, oggi sono solo nella nostra cucina, e le mattonelle, che una ad una, non sanno che cantarmi il suo nome rendono anche il caffè di oggi pomeriggio il più amaro di sempre.

Mara Brancaccio

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Tancredi Rivistafacebook.it/tancredirivista

Finito di stampare in maggio 2016

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