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SYLLABUS 2010 ORMONI IPOFISARI E CRESCITA Arianna Busti, Sara Belcastro, Maria Teresa Samà, Flavia Prodam, Loredana Pagano, Gianluca Aimaretti Endocrinologia, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università “A. Avogadro” del Piemonte Orientale, AOU “Maggiore della Carità”, Novara La crescita corporea è un processo continuo, ma non lineare, che inizia al momento del concepimento e termina con la maturazione sessuale dell’individuo. La valutazione dei processi di accrescimento e sviluppo rappresenta attualmente un indicatore ottimale sia per la valutazione delle condizioni di salute generali individuali, sia per la sorveglianza epidemiologica di popolazione e di singoli gruppi di popolazione. Il soggetto in età evolutiva non va incontro solo ad un semplice accrescimento somatico, ma contemporaneamente modifica in modo progressivo forma, composizione e funzione di singoli tessuti ed organi. Tale evoluzione è sottesa da complessi meccanismi di interazione tra fattori genetici, ambientali, ormonali e, durante la vita fetale, anche materni, in parte non ancora completamente conosciuti. Alterazioni anche in uno solo uno di questi meccanismi potrebbe determinare condizioni patologiche quali: bassa o alta statura, mal funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi e della funzione riproduttiva. Il sistema maggiormente responsabile della crescita extra-uterina è l’asse GH-IGF-I: a livello osseo il GH esercita una funzione diretta stimolando l’accrescimento lineare, ed indiretta aumentando la sensibilità e la produzione locale di IGF-I, le quali raggiungono la massima concentrazione circa 1 anno prima dello scatto puberale, promuovendo l’espansione clonale dei condrociti. Anche le altre tropine ipofisarie svolgono un ruolo fondamentale: gli ormoni tiroidei stimolano la maturazione dei condrociti sotto la spinta delle IGF-I e promuovono la secrezione di GH. Gli steroidi gonadici stimolano la produzione di IGF-I ed hanno un effetto permissivo sull’azione del GH, in particolare gli estrogeni hanno un ruolo anabolizzante, promuovendo la crescita a dosaggi fisiologici, ma inibendola a concentrazioni elevate, essendo quest’ultimi gli ormoni più importanti nello stimolare la maturazione dei condrociti ed osteoblasti, conducendo alla fusione epifisaria. Durante il primo anno di vita, la crescita è estremamente rapida, aumentando l’altezza del 50% circa rispetto alla nascita. Durante il secondo anno la velocità di crescita (VC) è di circa 1 cm/mese, per poi ridursi progressivamente. La crescita media procede successivamente in modo quasi costante fino ai 10-14 anni, rallenta nel periodo pre-puberale e accelera in corrispondenza dello scatto accrescitivo puberale. Durante questa fase, della durata di circa 2 anni, la velocità di

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SYLLABUS 2010

ORMONI IPOFISARI E CRESCITA

Arianna Busti, Sara Belcastro, Maria Teresa Samà, Flavia Prodam, Loredana Pagano, Gianluca

Aimaretti

Endocrinologia, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università “A. Avogadro” del

Piemonte Orientale, AOU “Maggiore della Carità”, Novara

La crescita corporea è un processo continuo, ma non lineare, che inizia al momento del

concepimento e termina con la maturazione sessuale dell’individuo. La valutazione dei processi di

accrescimento e sviluppo rappresenta attualmente un indicatore ottimale sia per la valutazione

delle condizioni di salute generali individuali, sia per la sorveglianza epidemiologica di popolazione

e di singoli gruppi di popolazione.

Il soggetto in età evolutiva non va incontro solo ad un semplice accrescimento somatico, ma

contemporaneamente modifica in modo progressivo forma, composizione e funzione di singoli

tessuti ed organi. Tale evoluzione è sottesa da complessi meccanismi di interazione tra fattori

genetici, ambientali, ormonali e, durante la vita fetale, anche materni, in parte non ancora

completamente conosciuti. Alterazioni anche in uno solo uno di questi meccanismi potrebbe

determinare condizioni patologiche quali: bassa o alta statura, mal funzionamento dell’asse

ipotalamo-ipofisi-gonadi e della funzione riproduttiva.

Il sistema maggiormente responsabile della crescita extra-uterina è l’asse GH-IGF-I: a livello

osseo il GH esercita una funzione diretta stimolando l’accrescimento lineare, ed indiretta

aumentando la sensibilità e la produzione locale di IGF-I, le quali raggiungono la massima

concentrazione circa 1 anno prima dello scatto puberale, promuovendo l’espansione clonale dei

condrociti. Anche le altre tropine ipofisarie svolgono un ruolo fondamentale: gli ormoni tiroidei

stimolano la maturazione dei condrociti sotto la spinta delle IGF-I e promuovono la secrezione di

GH. Gli steroidi gonadici stimolano la produzione di IGF-I ed hanno un effetto permissivo

sull’azione del GH, in particolare gli estrogeni hanno un ruolo anabolizzante, promuovendo la

crescita a dosaggi fisiologici, ma inibendola a concentrazioni elevate, essendo quest’ultimi gli

ormoni più importanti nello stimolare la maturazione dei condrociti ed osteoblasti, conducendo

alla fusione epifisaria.

Durante il primo anno di vita, la crescita è estremamente rapida, aumentando l’altezza del

50% circa rispetto alla nascita. Durante il secondo anno la velocità di crescita (VC) è di circa 1

cm/mese, per poi ridursi progressivamente. La crescita media procede successivamente in modo

quasi costante fino ai 10-14 anni, rallenta nel periodo pre-puberale e accelera in corrispondenza

dello scatto accrescitivo puberale. Durante questa fase, della durata di circa 2 anni, la velocità di

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crescita raggiunge i 9-10,5 cm/anno. La rapidità e la durata dello scatto puberale dipendono

dall’età di insorgenza e da fattori ormonali e genetici che differiscono da quelli che controllano la

crescita durante l’infanzia, con un ruolo fondamentale svolto dall’interazione tra GH, IGF-I (Insulin-

like-growth-factor) e steroidi sessuali sia nell’accrescimento somatico, sia nello sviluppo sessuale.

Il periodo di rapido accrescimento nelle femmine, si colloca nelle prime fasi dello sviluppo

puberale, mentre nei maschi si manifesta più tardivamente, e si ritiene che ciò sia alla base della

differenza di statura tra maschi e femmine, attribuibile quindi ad un periodo pre-puberale di

maturazione più lungo nei maschi, prima dell’intervento degli ormoni sessuali sulla crescita.

Le anomalie dell’accrescimento possono essere classificate in basse stature ed alte stature.

Spesso non è riscontrabile un vero stato patologico, ma la maggior parte dei soggetti presenta

semplici deviazioni del normale ritmo di crescita, da un andamento medio “prestabilito” per quel

soggetto. Tuttavia, le alterazione dell’accrescimento sono frequentemente il primo segno di

patologie endocrinologiche che devono essere indagate. Infatti, tanto più la crescita si discosta

dall’andamento ritenuto fisiologico e l’altezza è inferiore o superiore rispetto al “target genetico”

calcolato sulla base dell’altezza dei genitori, tanto più è probabile che possa esistere una patologia

organica o funzionale alla base delle modificazioni osservate.

Le cause di bassa statura, sono numerose, spesso hanno implicazioni solo nella crescita somatica,

ma più frequentemente possono interferire con la salute fisica e psichica del soggetto, oltre che

con lo sviluppo puberale dello stesso. Esse si possono suddividere grossolanamente in forme

congenite (associate o non a cromosomopatie) ed acquisite.

Tra le Sindromi associate a cromosomopatie e bassa statura (di particolare interesse

ginecologico) è da ricordare la S. di Turner. La Sindrome si presenta con un’incidenza di 1:2500 –

1:5000 femmine nate vive; circa la metà delle pazienti possiede un cariotipo 45 X0, un quarto

46XX, 45X0 ed un ulteriore quarto possiede un cromosoma X strutturalmente anormale. In queste

ultime due categorie, le paziente possono essere pauci-sintomatiche, presentare cicli mestruali

irregolari e spesso la diagnosi viene posta solo in età peri-puberale o in età adulta. Principali segni

della patologia sono: amenorrea primaria, gonadi rudimentali, infantilismo sessuale, bassa statura,

anomalie strutturali del volto, collo e torace, malformazioni a carico degli organi e predisposizione

alle patologie autoimmuni. Il ritardo accrescitivo inizia già durante la vita intrauterina e alla nascita

le neonate possono avere peso e lunghezza inferiori alla norma. Pertanto in ogni neonata “piccola

per età gestazionale” si potrebbe sospettare la presenza di una S. di Turner. I primi anni di vita

sono caratterizzati da una crescita di recupero con VC ai limiti superiori della norma, raggiungendo

però valori minimi intorno ai 10 anni di età e mancando completamente lo scatto puberale. La

chiusura delle cartilagini avviene in ritardo, intorno ai 20 anni. In assenza di trattamento la statura

definitiva delle pazienti è intorno ai 142 cm. L’ipostaturismo è principalmente legato

all’insufficienza del gene “SHOX” e non a deficit di ormoni tiroidei, sessuali e GH. Le gonadotropine

ipofisarie sono spesso elevate (in particolare FSH) nei primi 4 anni di vita, riducendosi però spesso

a valori normali tra i 6 e i 10 anni soprattutto nelle pazienti con quadri genetici riferibili a

mosaicismo, rendendo difficile la diagnosi.

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Le endocrinopatie rappresentano invece la causa più frequente di bassa statura. Esse

possono essere classificate in forme congenite ed acquisite e sono rappresentate più

frequentemente da deficit dell’asse GH-IGF-I, dall’ipotiroidismo primitivo, dall’ipercortisolismo,

dallo pseudo-ipopoaratiroidismo, dai disordini del metabolismo della Vitamina D, dal Diabete

Mellito, da diabete insipido e da quadri più o meno variabili di ipopituitarismo. L’ipogonadismo

centrale, quando di origine ipotalamo-ipofisaria, raramente si presenta come deficit isolato delle

gonadotropine ipofisarie, più frequentemente si colloca in un quadro di ipopituitarismo. In caso di

ipogonadismo isolato, più spesso di origine periferica, la mancata maturazione ossea porterà

invece ad una alta statura definitiva, con ritardo o mancata comparsa della pubertà.

L’ipopituitarismo non si manifesta clinicamente fino a quando non viene distrutto circa il

70-75% dell’adenoipofisi ed i segni ed i sintomi variano in base al numero ed al grado di riduzione

della secrezione dei singoli ormoni ed alla rapidità dell’esordio, rimanendo spesso misconosciuti

nelle forme di ipopituitarismo parziale. Mentre in età adulta le cause più frequenti sono su base

acquisita, in età pediatrica/adolescenziale, non vanno dimenticate le forme congenite, implicate

nella patogenesi di deficit ormonali multipli (GH, PRL, TSH e, riduzione parziale di FSH, LH). Forme

particolari di ipopitutitarismo congenito si associano a sindromi più complesse quali la Sindrome di

Kallman (agenesia o ipoplasia del nervo olfattorio associato a deficit di GnRH e gradi variabili di

anosmia), la Sindrome di Prader-Willi (associata a riduzione della secrezione di GnRH e

conseguentemente di LH e FSH) e la Sindrome di Lawrence-Moon-Biedl (associata ad

ipogonadismo ipogonadotropo da riduzione della secrezione di GnRH).

L’ipopituitarismo acquisito è però la forma più frequente, si riconoscono numerose cause

ad eziologia differente, le più comuni sono gli adenomi ipofisari, gli interventi chirurgici sull’ipofisi,

l’irradiazione del Sistema Nervoso Centrale (SNC) o dell’ipofisi, la cisti della tasca di Rathke,

l’apoplessia pituitaria, la necrosi ischemica ipofisaria, la sindrome della sella vuota, i traumi cranici

e le neoplasie non ipofisarie (metastasi, craniofaringiomi, germinomi). Altre affezioni sono la

sarcoidosi, la meningite tubercolare, le patologie infiltrative e l’azione tossica di farmaci, come

alcuni chemioterapici. Le cellule somatotrope secernenti GH, insieme con le cellule secernenti

gonadotropine, per la loro particolare anatomia e vascolarizzazione sono spesso le più

danneggiate, con comparsa di sintomi quali rallentamento della crescita, riduzione della massa

magra, astenia, mancato o rallentato scatto puberale, oligo-amenorrea, regressione o mancata

comparsa dei caratteri sessuali secondari.

Tra gli adenomi ipofisari, i prolattinomi rappresentano il 40-50%, responsabili del 20% circa delle

sindromi iperprolattinemiche. Nella donna l’iperprolattinemia determina abolizione del picco

gonadotropinico ovulatorio, e della produzione periferica di progesterone ed estradiolo,

determinando oligomenorrea, infertilità, cicli anovulatori e galattorrea. Durante il periodo di

crescita tale patologia è spesso misconosciuta fino alla pubertà, essendo sostenuta

principalmente, nelle femmine, da microprolattinomi, non in grado di determinare sintomi

neurologici o interferenza con la funzionalità dei restanti assi ipofisari, in particolare con l’asse GH-

IGF-I. Sono segnalati casi di ritardo della pubertà e mancato scatto puberale, in associazione con

elevati livelli di PRL, che dovranno, in questi casi, essere sempre indagati.

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Non va comunque dimenticato l’ipopituitarismo su base “funzionale”, le cui cause sono

principalmente l’anoressia nervosa, lo stress grave, gli abusi, e il disagio sociale che si associano a

deficit reversibile di LHRH più o meno associato a bassa statura (nanismo psicosociale).

Anche numerose malattie sistemiche si possono inizialmente manifestare con

rallentamento della crescita e assenza dello scatto puberale, spesso associate a sintomi sistemici,

difficilmente suggestivi per una determinata patologia e spesso confusi, in età adolescenziale, con

manifestazioni somatiche di disagi psicologici e di socializzazione: tra queste vanno ricordate la

celiachia, le malattie immunologiche, le malattie infiammatorie intestinali, le malattie

ematologiche e nefrologiche.

L’attenta valutazione della crescita e la conoscenza dei meccanismi fisiopatologici ed

endocrinologici che la sottendono, permettono, soprattutto in una fase di cambiamento come la

pubertà, di porre il sospetto e la diagnosi di patologie fino a quel momento misconosciute.

L’assenza, la riduzione, o l’eccessiva crescita durante questa fase sono infatti spesso le prime

manifestazioni di patologie endocrinologiche e/o organiche sistemiche, anche su base congenita, e

devono sempre far parte della valutazione complessiva della paziente.

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La menopausa precoce: i disturbi e il follow- up

Prof. Vincenzina Bruni

Dip. Scienze della Salute della mamma e del bambino

Università degli Studi di Firenze

Il deficit ovarico si presenta clinicamente con alterazioni mestruali ed amenorrea secondaria: la

cessazione dei flussi infatti può essere improvvisa o essere preceduta da periodi di oligomenorrea

spesso associati con il corteo sintomatologico proprio della carenza estrogenica: vampate di calore,

sintomatologia neurovegetativa. La cessazione dei flussi può essere improvvisa o essere preceduta

da periodi di oligomenorrea o di irregolarità mestruali. Le diverse patogenesi possono in parte

motivare un esordio sintomatologica diverso: più alternante in caso di forme autoimmuni, più

brusco in caso di forme jatrogene. Talvolta l‟amenorrea ipergonadotropa insorge anche nel

puerperio o alla sospensione dell‟uso di contraccettivi orali.

L‟iter diagnostico prevede innanzitutto un’accurata anamnesi familiare orientata a rilevare

familiarità per insufficienza ovarica precoce, infertilità, patologie genetiche, diatesi autoimmuni e

un‟ anamnesi personale, volta ad individuare fattori eziopatogenetici predisponenti, storia

mestruale,disendocrinopatie, chirurgia addomino-pelvica o altri trattamenti che possono incidere sul

patrimonio follicolare.

All‟attenta visita ginecologica dovrà essere associata una ecografia pelvica transvaginale, mirata

allo studio morfologico-funzionale di utero e degli annessi con particolare riferimento alla stima

della “riserva di funzionalità ovarica”. Deve essere eseguita in fase follicolare precoce, e dovrebbe

essere valutato il volume ovarico ed effettuata la conta dei follicoli antrali (AFC), che si

caratterizzano per un diametro compreso tra 2 e 10 mm: un numero superiore a 5-6 è espressione di

buona funzionalità ovarica. Alcuni autori suggeriscono di valutare anche il grado di

vascolarizzazione stromale quale indice aspecifico di funzione ovarica.

Sul piano laboratoristico, oltre agli esami di routine comprendenti assetto lipidico ed emostatico, la

valutazione endocrina conferma l‟aumento delle gonadotropine circolanti (FSH e LH). Già il

riscontro (al 3° giorno del ciclo in soggetti con mestruazione) di valori basali elevati di FSH (> 20

UI/L) costituisce un segnale precoce di riduzione della funzione ovarica (“ovarian aging”). Valori di

FSH > 40 UI/L in almeno due dosaggi sono diagnostici per insuifficienz aovarica prematura (POI).

In terza giornata devono essere dosati anche LH, E2, PRL, TSH, fT3, fT4 e assetto androgenico. Più

recente è l‟introduzione nella diagnostica dell‟insufficienza ovarica del dosaggio dell‟ormone

antimulleriano (AMH), un membro della famiglia dei transforming growth factor ß, che è espresso

in modo specifico dalle cellule della granulosa di follicoli in crescita non selezionati ed un marker

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ideale della estensione del pool follicolare. Altro importante marker di funzionalità ovarica è

l‟inibina B, ormone proteico secreto dalle cellule della granulosa dei follicoli in maturazione, i cui

livelli plasmatici correlano inversamente con i valori circolanti di FSH

Valutazione immunologica: su orientamento anche dell‟indagine anamnestica, deve essere

effettuata una ricerca degli anticorpi organo-specifici (anti-ovaio, anti-surrene, anti TPO, anti-

tireoglobulina, anti-recettore TSH, anti-gliadina, anti-transglutaminasi) e non-organo-specifici

(ANA, ENA, DsDNA). La verifica di un panel di autoanticorpi periodico è consigliato nei

soggetti in cui si pone diagnosi di insufficienza su base autoimmune.

Fondamentale una consulenza genetica che orienterà allo studio del cariotipo, delle anomalie del

cromosoma X con tecnica FISH (per la ricerca bassi mosaicismi) e lo studio dei geni nei loci POF 1

e 2 e, in modo particolare, del gene FMR1. Qualora quest‟ultimo risulti positivo si impone lo

studio del cariotipo dei genitori. Le possibilità diagnostiche offerte oggi dall‟indagine citogenetica

in soggetti con insufficienza ovarica prematura sono sicuramente ancora parziali rispetto alle

evoluzioni future della ricerca genetica. Dovrà essere infine valutata la densità minerale ossea

(tramite DEXA), con riferimento ad un software adeguato per l‟età del soggetto in quEstione. Solo

in casi selezionati ( netto deficit di massa ossea, patologie osteopenizzanti associate, necessità di

impiego prolungato di corticosteroidi) può essere utile con lo studio del metabolismo osseo.

Molto discussa invece l‟utilità di una biopsia ovarica, che secondo alcuni autori potrebbe essere

indicata per la diagnosi di POF autoimmune, per lo studio degli enzimi steroidogenetici ovarici e

per un‟eventuale raccolta di tessuto per la crioconservazione.

La presa in carico di questi soggetti richiede una spiegazione esaustiva della patologia, di non facile

accettazione in giovane età. Nel counseling successivo alla diagnosi bisogna affrontare il tema della

fertilità, molto rara ma non impossibile spontaneamente (si parla di 5-15% di concepimenti dopo

una diagnosi di POI), valutando insieme le opzioni disponibili e, se richiesta, anche l‟aspetto

contraccettivo. Il follow-up deve essere orientato a monitorare e prevenire le complicanze ossee,

cardiovascolari, cutanee e mucose di un deficit estrogenico prolungato, ottimizzando il trattamento

ormonale sostitutivo.

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Siena, 17 Ottobre 2010

“EMERGENZE IN SALA PARTO” Prof. Alessandro Caruso

Le emergenze in Sala parto costituiscono quelle situazioni dalle quali scaturisce la maggior parte dei casi di mortalità materna. Gli attuali convincimenti collettivi circa il diritto alla salute hanno fatto invalere anche il diritto al parto sicuro al 100%. La realtà epidemiologica parla di bassa mortalità materna che negli ultimi anni oscilla fra il 4 e il 6/100.000 e che appare poco comprimibile. Le principali emergenze in Sala parto possono essere non ostetriche (Diapo 1) e ostetriche (Diapo 2): fra quelle ostetriche, le emorragiche sono certamente le più importanti. In gravidanza la relazione fra perdita ematica e grado di shock emorragico è stata configurata da Bonnor nel 2000 (Diapo 3). Il clinico, nel momento preventivo, deve altresì considerare le condizioni della paziente prima dell’evento emorragico. Le cause principali dell’emorragia da fronteggiare in Sala Parto sono la placenta previa, il distacco massivo intempestivo della placenta e le emorragie del post partuum. Queste ultime possono essere occulte (rottura d’utero, sanguinamenti cervicali retro perineali) o palesi: patologia del secondamento e atonia uterina. Su tutte queste situazioni si può sovrapporre la coagulazione intravasale disseminata (CID) che rende tutto molto più grave dal punto di vista prognostico. Il management della CID dev’essere medico infusionale (Diapo 4) e non chirurgico. La chirurgia dev’essere applicata in senso preventivo, conservativo o demolitivo dell’utero, della CID, ma non quando essa si è palesata. Per fronteggiare tali situazioni è necessario che ci sia un approccio multidisciplinare di un’équipe allenata e guidata da protocolli assistenziali: ulteriore requisito è l’assunzione di responsabilità di un Ostetrico leader e la rapidità di azione del sistema. Occorre tener presenti una serie di opzioni di chirurgia conservativa (Diapo 5). Le situazioni di emergenza ostetrica non emorragiche in Sala parto sono altresì costituite da inversione uterina, eclampsia, la distocia delle spalle e la non prevenibile embolia del liquido amniotico. Mentre per l’eclampsia, oggi non frequente, è necessaria la collaborazione con l’anestesista rianimatore, la distocia delle spalle dev’essere affrontata da qualunque specialista ostetrico che dev’essere stato preparato alle manovre opportune nella sequenza corretta. Cultura, esperienza ed organizzazione sono alla base della minimizzazione degli effetti negativi delle emergenze in Sala parto che purtroppo non possono essere tutte previste e per le quali oggi stiamo osservando un leggero aumento legato al grande numero dei tagli cesarei e alla situazione sociale di nuove povertà che incide sulla conoscenza dei casi ad alto rischio.

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Adolescenza e ormoni sessuali

Le nuove formulazioni De Leo V., Musacchio M.C., Di Sabatino A., Scolaro V., Morgante G.

Istituto di Ostetricia e Ginecologia. Università di Siena

La pubertà rappresenta una fase di transizione tra l‟infanzia e l‟età adulta in cui si verificano la

maturazione e il raggiungimento della capacità riproduttiva. Clinicamente è caratterizzata dalla

comparsa di modificazioni fisiche, quali lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, accelerazione

della crescita e della maturazione scheletrica, l‟aumento del tessuto adiposo e muscolare.

L‟inizio e la progressione dello sviluppo puberale presentano un‟ampia variabilità dovuta a fattori

individuali, etnici ed ambientali. Il primum movens che ne regola l‟inizio e la progressione è dato

dal progressivo incremento della secrezione pulsatile dell‟ormone rilasciante le gonadotropine

(GnRH) di origine ipotalamica, soprattutto durante le ore notturne. Ciò comporta la produzione di

FSH e LH con conseguente incremento dei livelli di steroidi ovarici che inducono i caratteri sessuali

secondari.

La somministrazione di estro progestinici durante questa fase della vita deve tenere conto, quindi,

dell‟immaturità dell‟asse ipotalamo- ipofisi-ovaio con il conseguente sviluppo dei caratteri sessuali

secondari, ma anche del fatto che l‟adolescenza è un periodo critico per la crescita e la

mineralizzazione dell‟osso. Infatti la densità minerale ossea (BMD) aumenta del 2-10% durante gli

anni perimenarcali, ha il suo picco verso i 20-22 anni e poi mantiene un turn over stabile durante la

vita adulta.

Una nuova formulazione che trova il suo impiego anche in questa fascia di età è rappresentata da

una nuova pillola contenente per la prima volta l‟estradiolo valerato (E2V), invece del tradizionale

etinilestradiolo, e il dienogest (DNG). Ha un regime quadrifasico che si articola nell‟arco dei 28

giorni come segue: 3 mg di E2V per 2 giorni, 2 mg di E2V/2 mg di DNG per 5 giorni, 2 mg di

E2V/3 mg di DNG per 17 giorni, 1 mg di E2V per 2 giorni, placebo per 2 giorni

La precoce dominanza estrogenica garantisce la proliferazione endometriale iniziale e sensibilizza il

tessuto all‟azione del progestinico, mentre l‟associazione di E2V e DNG e la dominanza di

quest‟ultimo nella parte media e tardiva del ciclo, seguita da una modesta attività estrogenica nella

fase finale, garantiscono la stabilità endometriale in modo soddisfacente. Il breve intervallo di 2

giorni libero da ormoni si è dimostrato sufficiente a garantire un sanguinamento da privazione

regolare.

L‟E2V si è dimostrato adatto per le adolescenti in quanto, proprio grazie al fatto che è un estrogeno

naturale, non influisce negativamente sull‟immaturità dell‟asse ipotalamo-ipofisi-ovaio, propria di

quest‟età, né sullo sviluppo dei caratteri sessuali secondari.

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Il trattamento metabolico della sindrome dell’ovaio policistico

Prof. Francesco Dotta

La sindrome dell‟ovaio policistico (PCOS) è una sindrome complessa caratterizzata da un quadro

anatomopatologico costituito da ovaie ingrandite e micropolicistiche e da un quadro clinico

caratterizzato sia da alterazioni endocrinologiche (iperandrogenismo,disordini del ciclo

mestruale,obesità) sia da alterazioni metaboliche che configurano, in tal modo, una complessa

sindrome dismetabolica chiamata, appunto, sindrome dell‟ovaio policistico. La sindrome dell‟ovaio

policistico è uno dei disturbi più comuni nelle donne in età fertile e rappresenta la causa più

frequente d‟infertilità legata ad anovularità cronica. La terapia può essere volta alla correzione

dell‟insulino-resistenza, dell‟irsutismo, alla regolazione dei cicli mestruali e all‟induzione

dell‟ovulazione nelle pazienti che vogliono ottenere una gravidanza. L‟obiettivo della terapia

metabolica è il trattamento dell‟insulino resistenza e pertanto si avvale come primo approccio della

dietoterapia nella donna obesa con PCOS e della terapia farmacologica con farmaci insulino-

sensibilizzanti quali metformina e glitazonici (rosiglitazone e pioglitazone). Gli insulino-

sensibilizzanti riducono la resistenza insulinica e migliorano i parametri metabolici alterati

(iperuricemia, ipercolesterolemia, iperfibrinogenemia), riducono, inoltre, i livelli di testosterone,

soprattutto quello libero. Sembra aumentare, in tempi brevi e indipendentemente dalla perdita di

peso, la frequenza sia delle ovulazioni spontanee che di quelle indotte.

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La sindrome premestruale. Dott.ssa Franca Fruzzetti, Divisione di Ginecologia e Ostetricia I° Universitaria, Università di Pisa Il termine sindrome premestruale (PreMestrual Syndrome – PMS) definisce il complesso di sintomi, sia fisici, sia psicologici, che compaiono ciclicamente e ripetutamente prima della mestruazione e scompaiono al termine del ciclo mestruale. La PMS interessa circa il 20-40% delle donne in età fertile, ed è caratterizzata da dolori, malessere, instabilità emotiva, irritabilità e depressione di entità varia ma tale da influire negativamente sulla vita quotidiana, personale e relazionale della persona affetta. La ciclicità sintomatologia è limitata alla fase premestruale e va incontro a risoluzione con la comparsa del flusso, il che consente di differenziare tale sindrome da altri quadri depressivi, ansiosi e/o dai disturbi somatoformi persistenti. Le cause all'origine dei sintomi premestruali non sono del tutto note e alcune ipotesi non sono state ancora ampiamente dimostrate, tuttavia si ritiene che la PMS sia il risultato dell'azione di diversi fattori quali: squilibri ormonali, deficit vitaminici, alterazioni nelle concentrazioni dei neurotrasmettitori, in particolare della serotonina. Il trattamento della sindrome premestruale prevede l’utilizzo di strategie terapeutiche diverse in relazione ai livelli di intensità della sintomatologia che possono essere molto diversi da donna a donna. Il trattamento non farmacologico prevede l’utilizzo di integratori alimentari (vitamine del gruppo B, Sali di Magnesio) e una variazione dello stile di vita (sport, adeguata alimentazione, riduzione di sostanze stimolanti). Nei casi più gravi, è necessario ricorrere a terapia farmacologica con contraccettivi ormonali, e nei casi con prevalenza dei disturbi di tipo psicologico ed emotivo, può essere utile il ricorso a farmaci antidepressivi quali gli SSRI.

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La PCOS e la salute riproduttiva

Alessandro D Genazzani

Clinica Ostetrica Ginecologica, Centro di Ginecologia Endocrinologica,

Università di Modena e Reggio Emilia

La sindrome dell‟ovaio policistico (PCOS) si riscontra in circa il 4-6% delle donne in età

riproduttiva e ma è frequente fino al 40-55% delle donne che presentano disturbi della ciclicità

mestruale e/o difficoltà ad avere una gravidanza. Gran parte di quest‟ultime presentano un eccesso

di androgeni (tipicamente androstenedione e testosterone) come pure spesso anche di DHEAS,

tipicamente di origine surrenalica. Da un punto di vista fisopatologico si parla di PCOS ogni qual

volta si riscontrano segni clinici (acne, irsutismo, alopecia, da segni modesti a severi) e

laboratosistici (alti livelli di androgeni) di iperandrogenismo, oligo–anovulazione e quadro

policistico delle ovaie al riscontro ecografico. Secondo le recenti classificazioni cliniche almeno 2

di questi 3 indici devono coesistere per poter parlare di PCOS.

Negli ultimi 10 anni la ricerca clinica ha permesso di chiarire alcuni aspetti fisiopatologici

della PCOS che hanno migliorato notevolmente l‟approccio sia diagnostico che clinico-terapeutico

della sindrome. Era infatti stato notato che dal 30 al 60% delle pazienti con PCOS presentavano un

sovrappeso fino anche ad un quadro di obesità e che in genere dal 50 al 70% delle pazienti con

PCOS presentavano un quadro di iperinsulinemia ed insulino resistenza. Questo aspetto di tipo

metabolico della PCOS si è dimostrato essere di estrema importanza non solo per le scelte

terapeutiche ma anche per prevenire possibili complicanze.

La caratteristica della PCOS è quindi quella di essere un disordine non solo di tipo

ginecologico ma anche di tipo endocrino-metabolico se non internistico. Sul piano diagnostico va

quindi ben inquadrato il problema dell‟iperandrogenismo e della funzione ovarica e se è presente un

sovrappeso/obesità deve essere sempre indagata se sia presente una iperinsulinemia compensatoria

(valutabile con l‟OGTT). Le scelte terapeuriche devono essere mirate ala ripristino non tanto della

funzione riproduttiva e del ciclo ovarico (al fine anche della gravidanza) ma anche al miglioramento

delle condizioni fisiche di buona salute. La paziente PCOS, oltre ai disturbi dovuti

all‟iperandrogenismo, tra cui la infertilità, ha un rischio 2-3 volte maggiore delle donne pari età, ma

non PCOS, di sviluppare un diabete mellito di tipo 2, di avere un quadro ipertensivo e/o disturbi

cardio vascolari entro i 50-55 anni, di avere disturbi tipo PMS fino a PMDD, di avere una maggiore

probabilità di alterazione del tono dell‟umore fino alla depressione all‟approssimarsi del periodo

peri-post menopausale.

In pratica la PCOS è un disturbo della sfera endocrino-riproduttiva che abbraccia in modo

ampio la salute della donna per un arco di tempo assai lungo. Per la PCOS è quindi sempre

indispensabile una accorta diagnostica ed una accurata scelta terapeutica al fine di preservare la

funzione riproduttiva e la salute della donna.

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a) LA MENOPAUSA PRECOCE: LA TERAPIA SOSTITUTIVA

Stefano Luisi, Raffaella Forleo, Lucia Lazzeri, Valentina Ciani, Felice Petraglia.

Dipartimento di Pediatria, Ostetricia e Medicina della Riproduzione,

Clinica Ostetrica e Ginecologica, Università di Siena

Introduzione

Si parla di menopausa precoce quando la cessazione spontanea dell'attività ovarica insorge prima

dei 40 anni. Non si conosce con esattezza la prevalenza di questa condizione, ma sembra colpire

circa lo 0.9% delle donne in età riproduttiva. Il notevole interesse che la circonda è giustificata dalla

scarsa reversibilità della condizione, nonostante il numero crescente di casi che documentano il

ripristino della normale funzionalità ovarica dopo appropriata terapia.

Dal punto di vista clinico si tratta per lo più di pazienti che hanno avuto un normale sviluppo

puberale e nelle quali, più o meno precocemente, si manifestano i segni della cessazione dell'attività

ovarica: vampate di calore, secchezza delle mucose genitali, disturbi neuro-vegetativi, calo del

desiderio sessuale, effetti a lungo termine con aumentato rischi di malattie cardiovascolari ed

osteoporosi.

Dal punto di vista ormonale queste pazienti presentano per lo più elevati livelli di FSH e di LH e

livelli bassi ma fluttuanti di estrogeni ed androgeni.

Le cause della menopausa precoce possono essere: genetiche, autoimmuni, metaboliche, ambientali

e chirurgiche. Devono essere tutte sospettate, e a questo proposito un'attenta anamnesi può rivelarsi

utile per indagare casi di familiarità.

Terapia

La terapia della menopausa precoce mira ad evitare gli effetti da deprivazione di estrogeni e cerca,

per quanto possibile, di ridurre l'impatto psicologico che accompagna la donna nel momento in cui

viene fatta diagnosi. Sentimenti di rabbia, depressione, senso di perdita si associano ad un senso di

solitudine e di incomprensione: sono donne che sono state colpite da una condizione che

normalmente è tipica della donna più anziana e che è legata alla perdita della possibilità di avere

una gravidanza.

Ciò che la terapia può garantire, è la ricomparsa di un ciclo mestruale (anche il ritorno mensile del

flusso può influire positivamente sulla salute psichica della donna, che lo rivive come un elemento

di normalità) attraverso una terapia ormonale sostitutiva (Hormone Replacement Therapy, HRT).

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Questa si basa, generalmente, su un'associazione tra progestinico ed estrogeno. Gli schemi

terapeutici utilizzabili sono sequenziale e combinato, ed entrambi possono essere ciclici o continui.

Terapia sequenziale : tende a ricostruire le modificazioni che avvengono durante un normale ciclo

ovarico con una fase iniziale di proliferazione estrogeno indotta, una simil-secretiva favorita

dall'aggiunta del progestinico ed una simil-mestruale da deprivazione. Lo schema ciclico prevede la

somministrazione di estrogeno per 21 giorni con una supplementazione progestinica per 12-14

giorni, con 7 giorni di placebo per consentire la falsa mestruazione. Nello schema continuo si

somministra per 28 giorni l'estrogeno e per 12-14 giorni il progestinico, e nel 90% dei casi circa

compare il flusso per deprivazione da progesterone. Tali schemi richiedono circa 3-6 mesi prima di

regolarizzare i sanguinamenti.

Terapia combinata: si ha l'associazione dell'estrogeno e del progestinico per 21 giorni con una

settimana di arresto nello schema ciclico, e per l'associazione per 28 giorni in quello continuo.

La prima terapia ha il vantaggio rispetto alle sequenziali, di evitare la ciclica esposizione al

progesterone e quindi di ridurre o di evitare la “pseudo sindrome premestruale” (senso di gonfiore,

tensione mammaria, irritabilità, instabilità emotiva, crampi addominali). Lo schema continuo

necessita di circa 3-6 mesi prima di regolarizzare i sanguinamenti uterini. I suoi effetti collaterali

sono rappresentati da un lieve aumento del peso corporeo e da una modesta mastalgia.

L'HRT è accompagnata da numerosi effetti favorevoli, ma ha anche dei rischi e delle

controindicazioni. Molti di questi effetti sono stati studiati nel WHI (Women's Health Initiative), un

lavoro su oltre sedicimila donne sottoposte ad HRT per 5.2 anni circa.

Effetti favorevoli

Sindrome climaterica-qualità della vita: aumentato benessere psico-fisico scomparsa od

attenuazione della sintomatologia climaterica, in particolare delle vampate di calore. Secondo

Campbell tutto questo è dovuto all'effetto domino: la risoluzione dei disturbi vasomotori si

accompagna ad un miglioramento della qualità e della quantità del sonno e di conseguenza della

capacità di concentrazione e del tono dell'umore.

Invecchiamento uro-genitale: efficacia sull'atrofia vaginale, attraverso un miglioramento del

trofismo epiteliale, aumento dell'indice di maturazione citologica, riduzione del pH vaginale e

scomparsa della secchezza e della dispareunia.

Metabolismo osseo ed osteoporosi: contrasta il riassorbimento osseo sia a bassi che ad alti

dosaggi. Si registra quindi una riduzione del rischio di fratture del femore, e anche riduzione della

caduta dei denti per mancato riassorbimento dell'osso alveolare.

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Metabolismo lipidico e aterosclerosi: dopo un'iniziale periodo in cui sono favoriti gli eventi

vascolari avversi, probabilmente dovuti ad una maggiore instabilità della placca, a lungo termine

non hanno sostanziali effetti benefici, contrariamente a quanto stabilito in precedenti studi.

Patologia del colon-retto: effetto protettivo sull'insorgenza del cancro attraverso una soppressione

diretta sulla crescita, favorendo l'espressione del recettore per 1,25OH vitamina D (ruolo

antineoplastico ed effetto prodifferenziativo) e riduzione dei livelli plasmatici dell'acido

deossicolico e chenodeossicolico, che favorirebbero l'insorgenza del cancro.

Demenza senile ed Alzheimer: i risultati sono molto contrastanti. Da una parte vi è l'effetto

indiretto dovuto al miglioramento del sonno, dall'altro, secondo Schumaker, un lieve aumento degli

eventi cerebrovascolari avversi che provocano demenze multinfuartali in pazienti con Alzheimer

latente.

Altri effetti: il miglioramento dell'idratazione, dell'elasticità e della resistenza della cute, dona un

aspetto più giovanile; previene la comparsa della xerostomia e xeroftalmia spesso presenti nella

donna in menopausa.

Effetti sfavorevoli

Effetto protrombotico e rischio tromboembolico: la somministrazione orale degli estrogeni

determina un aumento della sintesi di proteine di origine epatica, tra cui i fattori della coagulazione.

Inoltre l'HRT provoca la comparsa nel plasma di lipoproteine più ricche di TG e che permangono

per tempi più lunghi. Quindi la contemporanea presenza di fattori predisponenti, quali

ipertrigliceridemie familiari, obesità, insulino-resistenza, aumentano il rischio di patologie

tromboemboliche.

Carcinoma della mammella: vi è un aumento del rischio per ogni anno di utilizzo della terapia, ma

dopo 5 anni di sospensione il rischio torna ad essere quasi sovrapponibile a quello della popolazione

generale.

Carcinoma dell'endometrio: si ha solo negli schemi non combinati, con solo estrogeni.

Tumori ovarici: i dati sono contrastanti. Molti studi dimostrano un aumentato rischio per il solo

utilizzo di estrogeni, altri un aumento della loro incidenza anche con estroprogestinici dopo circa

dieci anni di assunzione.

Altri effetti: aumento del peso corporeo, dolore al seno, ritenzione idrica, sindrome premestruale,

perdite ematiche irregolari.

Bibliografia

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La dismenorrea

Felice Petraglia, Raffaella Forleo, Lucia Lazzeri, Valentina Ciani, Stefano Luisi

Dipartimento di Pediatria, Ostetricia e Medicina della Riproduzione,

Clinica Ostetrica e Ginecologica, Università di Siena

Introduzione

Il termine dismenorrea indica letteralmente alterazione del flusso mestruale, ma viene comunemente

usato come sinonimo di algomenorrea, mestruazione dolorosa. Il dolore mestruale è la principale

ragione di perdita di ore lavorative tra le donne: si stima che circa il 50% delle adolescenti e delle

giovani donne ne soffra regolarmente, ed il 5-10% di esse sono inabilitate da 1 ora a 3 giorni al

mese. La dismenorrea si definisce primaria quando non è associata ad alcuna causa di origine

pelvica, e secondaria quando invece è conseguenza di una patologia di natura organica. Le due

forme, quindi, presentano diverse eziopatogenesi e possibilità terapeutiche.

Dismenorrea primaria

La dismenorrea primaria compare, nel 40% dei casi, dopo 6-12 mesi dal menarca, coincidendo con

l'inizio dei cicli ovulatori. La sua insorgenza dopo 2 anni dal menarca, o dopo i 20 anni dovrebbe

sempre far sospettare una patologia pelvica. Sembrerebbe più frequente ed intensa nelle ragazze con

menarca precoce, mestruazione prolungata ed in sovrappeso. Il dolore è aggravato dall'uso

eccessivo di alcool e sigarette. Nella maggioranza dei casi la diagnosi è semplice, e viene posta

sulla base della sintomatologia clinica. Per tale motivo si rende necessaria un'anamnesi accurata,

che vada ben ad indagare l'epoca della sua comparsa in relazione al menarca, la sua intensità, la sua

durata. In genere il dolore nella dismenorrea primaria è di tipo crampiforme ed è avvertito nei

quadranti addominali inferiori, irradiandosi spesso lungo la faccia interna delle cosce e alla regione

lombosacrale; talora si irradia al perineo. Inizia alcune ore prima del flusso mestruale, è più grave il

primo giorno e dura in media da poche ore ad un massimo di 48-72 ore (sono comunque possibili

notevoli variazioni individuali). Possono inoltre associarsi nausea, vomito, diarrea, cefalea, vertigini

e spossatezza. Anche l'intensità del dolore è un parametro del tutto soggettivo.

Eziopatogenesi

Diversi sono i fattori presi in considerazione come causa della dismenorrea primariai.

Fattore cervicale: è stato uno dei primi fattori ipotizzati sin da Ippocrate. A sostegno della stenosi

cervicale vi è la presenza di un dolore simile a quello da parto (si attenua con l'inizio della fase di

maggior flusso mestruale) e il suo miglioramento con la distensione del canale dopo un parto

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vaginale. A sfavore della teoria: la dilatazione cervicale da solo modesti e temporanei

miglioramenti, la dismenorrea è spesso assente nelle donne con stenosi serrata della cervice.

Fattori neurogeni: ancora non è ben chiarito il significato funzionale dell'innervazione adrenergica e

colinergica a livello uterino, ma una neurectomia presacrale può risolvere una grave sintomatologia

di algia pelviche e l'impiego di inibitori della colinesterasi può indurre la comparsa del dolore.

Fattori miometriali: misurando l'attività uterina durante il flusso mestruale sono stati registrati degli

aumenti del tono basale, della pressione intracavitaria e della frequenza delle contrazioni. Durante

ogni contrazione, il flusso ematico si riduce proprio nel momento in cui la paziente avverte

un'intensificazione del dolore. È quindi ipotizzabile la genesi del dolore da una temporanea

ischemia.

Fattori endocrini: sono coinvolte numerose sostanze. L'ossitocina e la vasopressina sono in grado di

stimolare l'attività contrattile del miometrio (la prima esclusivamente durante il parto, la seconda

durante il flusso mestruale): i livelli ematici di vasopressina sono quattro volte superiori in donne

affette da dismenorrea rispetto a quelle che non ne soffrono.

Elevati livelli plasmatici di estradiolo determinano un aumento della sintesi di PG, mentre il

progesterone è indispensabile per la formazione dei fosfolipidi da cui viene liberato l'acido

arachidonico (AA) necessario per la sintesi delle PG. Ma il progesterone svolge anche la funzione

di stabilizzazione delle membrane, per cui solo con la regressione del corpo luteo e la discesa dei

livelli dell'ormone, si ha l'attivazione della fosfolipasi A e formazione dell'AA. Su di esso agiscono

le ciclossigenasi, con sintesi delle PG (PGE2, PGF2alfa), e le lipossigenasi con formazione dei

leucotrieni (LT). Diversi studi hanno dimostrato come le donne con dismenorrea, presentano più alti

di PG nel plasma, nel sangue mestruale e nel tessuto endometriale. Le PG determinano il dolore

attraverso diversi meccanismi: aumento della contrattilità uterina (mediata dall'AMPc, dal GMPc e

dal Ca-calmodulina); riduzione del flusso ematico ed ischemia; effetto algogeno diretto degli endo-

perossidi ciclici, intermedi della sintesi delle PG; sensibilizzazione delle fibre nervose dolorifiche a

stimoli meccanici e chimici.

I LT aumentano durante il flusso mestruale, e livelli maggiori sono riscontrati in donne affette da

dismenorrea. Massobrio et al. hanno dimostrato livelli particolarmente elevati in donne non

rispondenti alle terapie con antiprostaglandinici.

Fattori psicologici: sospettati dall'impossibilità di trovare un eziopatogenesi nella maggioranza delle

donne, ma non sono supportati da test psicometrici.

Terapie

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Spasmolitici: anticolinergici, adrenergici e calcio antagonisti (nifedipina). Tra gli adrenergici, solo

la terbutalina per via ev o nasale si è dimostrata efficace, ma è poco usata a causa della sua scarsa

maneggevolezza e dei suoi effetti collaterali. La nifedipina provoca in un gran numero di paziente

edema degli arti inferiori.

Analgesici e sedativi: poco usati, trova qualche rara applicazione la codeina.

Terapie ormonali: gli estroprogestinici rappresentano la terapia di prima scelta, garantendo anche

una copertura contraccettiva. Sono attivi attraverso una soppressione dell'ovulazione e attraverso

una minore crescita dell'endometrio.

Inibitori della sintesi delle PG: rispetto alla pillola hanno il vantaggio di non inibire l'asse

ipotalamo-ipofisario e di non provocare effetti dismetabolici sistemici. Tra i più usati i derivati

dell'acido propionico, come l'ibuprofene e il ketoprofene.

Agopuntura: agisce stimolando i recettori cutanei specifici, determinando alterazioni neurormonali

specifiche, come l'increzione degli oppioidi endogeni.

Trattamento psicoterapeutico: ipnosi e training autogene, ma non è state confermata la loro

l'efficacia.

Terapie chirurgiche: dilatazione cervicale (miglioramento temporaneo nel 33% delle pazienti);

neurectomia prescrale (efficacia nel 50-90% dei casi, accompagnata da una temporanea stipsi a

disuria; denervazione paracervicale secondo Doyle.

Dismenorrea secondaria

Si differenzia dalla primaria per la comparsa dopo diversi anni dal menarca e può essere presente

anche in donne con cicli anovulatori. La diagnosi è confermata da indagini strumentali: ecografia

pelvica (trans-addominale e quando possibile trans-vaginale), isteroscopia, isterosalpingografia,

dosaggio del CA125 e laparoscopia. Diverse sono le cause responsabili della dismenorrea

secondaria.

Endometriosi: patologia tipica della donna in età fertile con una incidenza dell'8-10%. Tipicamente

colpisce la donna tra i 20 ed i 50 anni ma di rado può interessare l'adolescente ( in questo caso la

dismenorrea da endometriosi può presentarsi come primaria). Secondo Massobrio et al. nelle donne

con endometriosi sono presenti più alti livelli di LT e PAF nel liquido peritoneali rispetto alle donne

sane, probabilmente prodotti dal tessuto endometriale e dai macrofagi peritoneali. Il dolore

normalmente insorge qualche giorno prima del flusso, e tende ad accentuarsi durante e soprattutto

alla fine della mestruazione: ciò è dovuto all'aumento dei focolai endometriali che alla fine del

flusso sono più voluminosi. Si associano dispareunia, infertilità e menometrorragia.

Vi è insensibilità alla terapia con FANS ed estroprogestinici, mentre si registrano effetti positivi

dall'uso di danazolo, analoghi del GnRH e gestrinone, che permangono anche alcuni mesi dopo la

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loro sospensione. La diagnosi di certezza viene posta con la laparoscopia, e ad essa segue la terapia

medica o la terapia chirurgica a seconda dello stadio.

Adenomiosi: in questo caso la dismenorrea è preceduta da un senso di peso, di tensione, di dolenzia

pelvica, che può essere avvertito in regione sacrale in presenza di una retroversione uterina. Con il

sopraggiungere del flusso il dolore diventa più acuto e crampiforme ed è presente durante l'intero

periodo mestruale. All'esame pelvico l'utero appare aumentato di volume, dolente e deforme. Alle

donne giovani si consiglia una terapia medica simile a quella dell'endometriosi, un'isterectomia alle

donne più anziane che non hanno più il desiderio di procreare.

Fibromi: causano dismenorrea e menorragie quando hanno localizzazione endocavitaria, e il dolore

è di tipo espulsivo. L'asportazione per via endoscopica rappresenta il trattamento di prima scelta.

Varicocele pelvico o congestione pelvica: dilatazione dei plessi uterini da cause costituzionali

(associate ad emorroidi), meccaniche (vizi di posizione dell'utero o tumori).

Sindrome di Allen-Masters o ipermobilità dolorosa dell'utero: dovuta a maggiore lassità degli

apparati legamentosi o di sostegno.

Malformazioni genitali: con ostruzione completa al flusso mestruale (criptomenorrea) e dolore

pelvico.

Conclusioni

La dismenorrea è una condizione di dolore cronico che inficia notevolmente il benessere della

donna, con importanti ripercussioni sugli aspetti sociali, psicologici e lavorativi.

Comprenderne le cause, formulare una corretta diagnosi ed impostare una terapia adeguata,

appropriata al tipo di dismenorrea (primaria o secondaria) ed al contempo alle esigenze della donna,

rappresenta l'obiettivo primario del medico.

Bibliografia

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ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-GONADI Roberto Maggi Dip. di Endocrinologia, Fisiopatologia e Biologia Applicata Università degli Studi di Milano La riproduzione sessuale permette la generazione di prole tramite fusione di due gameti (ovocita e spermatozoo) a formare uno zigote diploide; essa dà l’ineguagliabile vantaggio di dare origine ad organismi che possiedono un corredo di geni ereditato da genitori diversi, portando ad una enorme variabilità del patrimonio genico dei figli, che sfocia in una maggiore capacità di adattamento al mutare delle condizioni ambientali e che ha caratterizzato l’evoluzione di molte specie. Tale tipo di riproduzione richiede però un elevato costo biologico; infatti, richiede due genitori diversi (differenziamento sessuale), altera la genetica costruita dai genitori stessi e richiede la specializzazione dei genitori a produrre gameti diversi. Allo scopo sono necessari sofisticati meccanismi di controllo sia del differenziamento sessuale degli individui che del controllo della produzione dei gameti. Non meraviglia quindi che la funzione riproduttiva sia controllata da complessi meccanismi che caratterizzano un asse funzionale, cervello-gonadi. Il principale mediatore dell’attività cerebrale sui controlli omeostatici dell’organismo è l’ipotalamo; qui vengono confrontati ed elaborati i segnali provenienti dall’ambiente esterno con quelli provenienti dall’interno dell’organismo e generate le risposte comportamentali adeguate. Mediante fattori di rilascio (releasing hormones, RH), prodotti e secreti da neuroni neuroendocrini, l’ipotalamo è in grado di controllare l’attività dell’ipofisi che a sua volta produrrà ormoni che agiranno sulle ghiandole endocrine periferiche. Questa stretta interconnessione funzionale è alla base del controllo dell’attività riproduttiva da parte dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi. Alterazioni dello sviluppo e della funzione dell'asse sono pertanto responsabili di diverse forme di infertilità. La profonda conoscenza dei meccanismi che regolano l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi permette da una parte di chiarire l’eziopatogenesi di molte patologie della riproduzione e dall’altra offre la possibilità di identificare i bersagli per eventuali interventi terapeutici. Tale visione integrata è proposta nella figura 1 dove vengono anche indicati alcuni fattori o patologie di rilievo.

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Il GnRH (Gonadotropin-Releasing Hormone) rappresenta l’ormone chiave della funzione riproduttiva attraverso il controllo della sintesi e del rilascio delle gonadotropine ipofisariche (Gn). Il GnRH è un decapeptide prodotto da neuroni distribuiti in una regione ipotalamica che comprende la zona del setto, il nucleo arcuato e l’area preottica. Questi neuroni derivano dall’epitelio olfattivo embrionale e durante lo sviluppo fetale mostrano una peculiare migrazione lungo i nervi olfattivi per raggiungere la loro localizzazione ipotalamica finale, prendendo poi contatto con i vasi portali ipofisarici per il rilascio del peptide. E’ stato proposto che un’alterata migrazione dei neuroni GnRH sia responsabile della sindrome di Kallmann legata al cromosoma X (X-KS) (1) e possibilmente di altre forme di ipogonadismo ipogonadotropo (HH). Recenti studi hanno dimostrato che l'evento migratorio di tali neuroni è sottoposto ad un controllo multifattoriale (2) la cui caratterizzazione permetterà di far luce sull’eziopatogenesi di forme idiopatiche di HH. La regolazione della secrezione del GnRH nei vasi portali ipofisarici richiede il contributo interattivo di una rete complessa di neurotrasmettitori e di neuro modulatori. I neuroni GnRH ricevono infatti afferenze di tipo dopaminergico, serotoninergico, noradrenergico, e neuropeptidiche (CRH, TRH ecc) suggerendo che un’ampia gamma di fattori e/o situazioni fisiopatologiche a carico del sistema nervoso, le loro terapie, o anche semplici condizioni di stress, possano alterare la secrezione di questo ormone (3). Per una corretta attività dell’asse è necessario che la secrezione del GnRH avvenga in modo pulsatile ed è il presupposto per una efficace terapia con analoghi del decapeptide; al contrario, la somministrazione continua di analoghi del GnRH viene utilizzata per ottenere il blocco dell’asse riproduttivo e quindi la riduzione dei livelli circolanti di ormoni steroidei gonadici. L’azione del GnRH sulle cellule gonadotrope ipofisariche è mediata dal legame a specifici recettori di membrana (GnRH-R) e mutazioni di essi sono responsabili di alcune forme di HH. Il GnRH controlla la secrezione di ambedue le gonadotropine ipofisarie quali l’ormone follicolo stimolante (FSH) e l’ormone luteinizzante (LH), glicoproteine costitute ciascuna da una subunità comune alfa (la stessa che forma anche il TSH e l’hCG) e da una subunità beta differente tra i due ormoni, (che ne permette l’identificazione specifica a scopo diagnostico), tuttavia il rilascio di LH è particolarmente sensibile all’azione del decapeptide. Anche la regolazione della secrezione delle gonadotropine è complessa in quanto dipende non solo dalla quantità di GnRH nel circolo portale, ma, come accennato, dalla sua pulsatilità secretoria. Variazioni della frequenza e dell’ampiezza della secrezione del GnRH sono ad esempio alla base dell’induzione della pubertà e del meccanismo che porta all’ ovulazione nella donna. La conseguente frequenza anche del rilascio delle Gn è diversa nell’uomo e nella donna, e in quest’ultima varia durante le varie fasi del ciclo ovulatorio caratterizzando un vero e proprio ciclo ‘ormonale’. Le Gn svolgono le loro azioni mediante il legame a specifici recettori accoppiati alle proteine G e mutazioni dei geni che codificano per essi portano a diverse forme di insufficienza gonadica. Nel maschio l’FSH stimola le cellule di Sertoli, mentre nella femmina è responsabile dell’attività delle cellule della granulosa e sostiene le prime fasi della crescita dei follicoli ovarici. L’LH ha un effetto trofico sulle cellule di Leydig e della teca ed è responsabile, nella femmina, delle fasi finali di maturazione dei follicoli ovarici. Esso inoltre stimola la steroidogenesi testicolare e ovarica, con produzione di testosterone nell’uomo e di estrogeni e progesterone nella donna. Le Gn di origine estrattiva (hCG o hMG) o ricombinante (rFSH) vengono utilizzate nella terapia dell’infertilità. L’asse quindi funge da vero e proprio sistema di amplificazione a cascata dove il segnale neuronale di controllo produrrà effetti quasi sull’intero organismo attraverso le azioni sistemiche esercitate proprio degli steroidi sessuali. Questo sistema offre il vantaggio di essere altamente controllabile ad ogni livello della cascata ormonale. Infatti esso è

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caratterizzato da una serie di sistemi di feedbacks (positivi o negativi). Gli steroidi sessuali giocano ad esempio un ruolo importante di modulazione dell’attività dell’asse riproduttivo stesso proprio attraverso la loro azione di feedback sul sistema ipotalamo-ipofisario, regolando la liberazione di LH che di GnRH a livello ipotalamico. La capacità degli steroidi sessuali di esercitare un feedback negativo sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi è alla base dell’efficacia della contraccezione ormonale con estro-progestinici sviluppata da Gregory Pincus negli anni ’50. Data la loro natura chimica gli steroidi sessuali sono da tempo utilizzati nella terapia per molte patologie legate a insufficienza gonadica. Fattori di origine gonadica, quali inibina, attivina e follistatina sono anch’essi in grado di modulare la secrezione delle Gn. Da qui appare come anche alterazioni primarie della funzionalità gonadica (PCOS, POF ecc) possano portare ad alterazioni della funzionalità dell’asse riproduttivo e ipergonadotropinemia. La funzionalità dell’asse può essere alterata anche dalla eccessiva secrezione di prolattina, in grado di inibire la liberazione di GnRH. L’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi mostra inoltre marcate variazioni funzionali nelle diverse fasi della vita. Infatti, sia la secrezione di GnRH che di Gn subisce modificazioni sia nel periodo fetale che durante la pubertà, ma anche durante l’invecchiamento, quando la funzione riproduttiva si riduce significativamente. Durante il periodo riproduttivo le modificazioni dei livelli ormonali dell’asse riproduttivo nell’uomo sono molto limitate, mentre nella donna seguono delle importanti fluttuazioni periodiche che caratterizzano il vero e proprio ‘ciclo ormonale’. Esso è guidato dall’alternarsi della secrezione dei diversi ormoni dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi ed è mirato al controllo ciclico della maturazione dell’ovocita e alla preparazione dell’apparato riproduttivo all’eventuale fecondazione e quindi all’instaurarsi della gravidanza. Pertanto, i vantaggi di una efficiente riproduzione sessuale vengono garantiti attraverso il complesso e integrato controllo ormonale tra il sistema nervoso e l’apparato riproduttivo.

1. Schwanzel-Fukuda M, Bick D, Pfaff DW (1989) Mol Brain Res. 6:311-326. 2. Cariboni A, Maggi R, Parnavelas JG.Trends Neurosci. 2007 30:638-44; Cariboni A, Maggi

R 2006 Cell Mol Life Sci 63:2512-2526; Cariboni A, Pimpinelli F, Colamarino S, Zaninetti R, Piccolella M, Rumio C, Piva F, Rugarli E, Maggi R 2004 Hum Mol Gen 13:2781-2791; Maggi R, Pimpinelli F, Molteni L, Milani M, Martini L, Piva F 2000 Endocrinology 141:2105-2112

3. Maggi R, Pimpinelli F, Martini L, Piva F 1995 Endocrinology 136:5177-5181

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La menometrorragia e i sanguinamenti uterini anomali Matteucci C, Meriggiola MC

Centro per la Tutela della Salute Sessuale, Università di Bologna c/o Policlinico S.

Orsola Malpighi, Bologna

Le alterazioni del ciclo mestruale, che possono interessare il ritmo, la quantità e la durata, sono un’importante causa di accesso alle strutture ospedaliere e ambulatoriali e causano una riduzione della qualità di vita nelle donne affette, con possibili problemi nella vita sociale , occupazionale e sessuale. La terminologia utilizzata per descrivere i sanguinamenti uterini anomali in letteratura e nei libri di testo è inconsistente. Questo ha portato negli anni una notevole confusione nel trattamento clinico e nell’interpretazione dei risultati della ricerca. La menometrorragia viene definita come un’alterazione della durata e quantità del flusso mestruale (flusso di quantità uguale o superiore a 80 ml e di durata superiore a 7 giorni) che si può presentare ad intervalli regolari o irregolari. Polimenorrea viene definita invece una mestruazione regolare che si presenta con una frequenza inferiore ai 25 giorni. La menorragia può avere cause pelviche, sistemiche o iatrogene e spesso si associa ad anemizzazione severa, ma in più del 50% dei casi ogni condizione organica di menorragia viene esclusa e si parla quindi di sanguinamento uterino disfunzionale (menorragia essenziale). Nella maggior parte dei casi la menorragia si spiega per la presenza di cicli anovulatori ( più frequenti in adolescenza e peri-menopausa) caratterizzati da inadeguata produzione di progesterone che non contrasta gli effetti proliferativi degli estrogeni sull’endometrio. Nei cicli ovulatori il sanguinamento anomalo può essere spiegato con la presenza di elevati livelli di prostaglandine a livello uterino: prostaglandine E2 e F2α sono state ritrovate in concentrazione maggiore nel fluido mestruale di donne con menorragia rispetto a donne con cicli mestruali regolari. Per un corretto inquadramento clinico della paziente con menorragia è importante eseguire un’accurata anamnesi, con particolare riferimento alla storia mestruale della paziente, attento esame addomino-pelvico, citologia cervicale, esami laboratoristici comprendenti emocromo per escludere anemizzazione, funzionalità tiroidea e una valutazione dell’assetto coagulativo. Infine un’ecografia transvaginale, tecnica non invasiva e capace di diagnosticare le principali patologie endometriali, dovrebbe essere eseguita routinariamente per selezionare la pazienti che necessitano di ulteriori indagini diagnostiche (dilatazione e curettage, biopsia endometriale ed isteroscopia). La terapia della menorragia può essere di tipo medico e chirurgico, ed ha lo scopo di ridurre la perdita ematica, il rischio di anemizzazione e migliorare la qualità della vita della paziente.

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Le principali terapie mediche, indicate in assenza di patologie pelviche e quando la donna desidera mantenere la propria fertilità, possono essere di tipo non ormonale e sono gli antinfiammatori non steroidei, prima linea di trattamento nella menorragia essenziale. Questi farmaci agiscono bloccando la ciclossigenasi riducendo così i livelli di prostaglandine endometri ali. Vengono poi utilizzati antifibrinolitici quali acido tranexamico che esercita il suo effetto mediante il blocco reversibile del plasminogeeno, etamsilate che riduce la fragilità dei capillari mediante un meccanismo sconosciuto. Le principali terapie mediche di tipo ormonale sono: il progesterone, che rappresenta uno dei farmaci più comunemente prescritti nella menorragia e viene somministrato dal 15^ al 26^ giorno del ciclo o in modo continuo, per via orale, intramuscolo o mediante dispositivi intrauterini (IUS); gli estroprogestinici (agiscono mediante l’induzione di atrofia endometriale); i derivati degli androgeni (danazolo e gestrinone); agonisti del GnRH; mifepristone (agente antiprogestinico). Per donne che non hanno in programma una gravidanza imminente, il dispositivo intrauterino a rilascio di progesterone rappresenta una scelta supportata da ottime evidenze di efficacia, poiché efficace nel bloccare la menorragia, capace di migliorare la qualità di vita della donna, costo ridotto e gravato dall’assenza di effetti avversi. La terapia chirurgica, necessaria in presenza di patologia pelvica o se la paziente non risponde al trattamento medico. La scelta terapeutica dipende dalle esigenze contraccettive della donna, dal desiderio futuro di una gravidanza, dai costi e benefici. La terapia medica dovrebbe essere considerata come prima scelta, poiché circa il 50% delle pazienti risulta soddisfatta da tale terapia ed evita i rischi correlati alla chirurgia. La terapia chirurgica dovrebbe essere riservata alle pazienti che non rispondono alla terapia medica.

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Pubertà, obesità e disturbi del ciclo

Paolo Moghetti

Sezione di Endocrinologia e Metabolismo

Dipartimento di Medicina

Università di Verona

Vi sono da tempo evidenze che le alterazioni del peso corporeo hanno ripercussioni sulla funzione

riproduttiva femminile. Già nel 1970 Frisch e Revelle avevano osservato che una normale ciclicità

mestruale richiedeva una quantità critica di tessuto adiposo, anche se all‟epoca i meccanismi che

potevano essere responsabili di questo fenomeno rimanevano totalmente oscuri. In una visione

finalistica non appariva tuttavia sorprendente che fra gli adattamenti, sviluppati nel corso

dell‟evoluzione, conseguenti ad uno stato di carenza di riserve energetiche vi potesse essere la

messa a riposo della funzione riproduttiva, date le potenziali difficoltà che questa condizione può

determinare in rapporto alle esigenze di una eventuale gravidanza. Oggi sappiamo che i meccanismi

alla base delle alterazioni riproduttive presenti nei soggetti con peso ridotto sono verosimilmente

ascrivibili alla alterata secrezione da parte del tessuto adiposo di leptina e altre adipochine. Questi

ormoni giocano un ruolo chiave nell‟informare i centri superiori sullo stato di replezione energetica

dell‟organismo e, soprattutto in modelli animali, hanno documentato chiari effetti anche sulla

funzione riproduttiva. A questo proposito è interessante notare che la somministrazione di leptina

può normalizzare la funzione mestruale in donne con amenorrea ipotalamica funzionale, malgrado

la ulteriore diminuzione di peso e massa grassa che la somministrazione di questo ormone può

determinare.

Studi più recenti hanno documentato che anche l‟obesità si associa a disturbi della sfera

riproduttiva, in entrambi i sessi. In particolare, i disturbi della funzione riproduttiva femminile

mostrano una relazione ad U con il BMI. Un‟analisi condotta sull‟ampia coorte del Nurses‟ Health

Study ha evidenziato come il rischio di infertilità riconducibile a disturbi ovulatori sia maggiore

nelle donne con BMI inferiore a 18 kg/m2 ma soprattutto in quelle con BMI aumentato e già a

partire da valori ai limiti superiori della norma. Il fenomeno è più evidente sopra i 30 kg/m2,

raggiungendo nell‟obesità franca un rischio relativo circa 2 volte e mezzo superiore a quello della

popolazione con BMI normale.

Questa associazione fra eccesso ponderale e disturbi riproduttivi si manifesta molto precocemente

nella vita della donna, già in fase peri-puberale. E‟interessante notare che la distribuzione per BMI

delle adolescenti che afferiscono a strutture ginecologiche per disturbi mestruali mostra una chiara

asimmetria, per un eccesso di ragazze in sovrappeso o obese. Inoltre, nelle adolescenti con

alterazioni mestruali un elevato BMI è un predittore indipendente della persistenza di queste

alterazioni in età adulta. E‟ stato riportato che nelle ragazze con BMI sopra la mediana la

probabilità che queste alterazioni si mantengano nel tempo supera l‟80%, contro il 30% osservato

nelle ragazze con BMI più basso.

Se la presenza di una associazione fra disturbi della funzione riproduttiva femminile ed eccesso

ponderale è chiara, i meccanismi che sottendono questo fenomeno sono ancora molto controversi.

Una spiegazione parziale è data dalla possibile coesistenza di questi aspetti nell‟ambito della

sindrome dell‟ovaio policistico (PCOS). L‟obesità è infatti un comune riscontro nelle pazienti con

PCOS e questa condizione è tipicamente caratterizzata da oligo-anovulazione cronica. Inoltre,

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anche nelle donne con PCOS che hanno un BMI normale vi può essere, più frequentemente che

nelle donne senza PCOS, un relativo eccesso di grasso viscerale.

I meccanismi che legano l‟eccesso ponderale alla PCOS restano tuttavia ancora mal definiti e sono

probabilmente molteplici. Queste pazienti sono spesso insulinoresistenti e una larga messe di dati

indica che l‟insulinoresistenza, con l‟iperinsulinemia compensatoria che l‟accompagna, costituisce

un importante meccanismo patogenetico alla base della sindrome. In questo contesto, l‟obesità

potrebbe fungere da fattore facilitante l‟insulinoresistenza e attraverso questa determinare, in

soggetti predisposti, le manifestazioni tipiche della PCOS – fra le quali ci sono in primo luogo

iperandrogenismo e disturbi ovulatori. Un„altra possibilità è che l‟eccesso di androgeni che

caratterizza questi soggetti costituisca il meccanismo iniziale che favorisce un accumulo di adipe a

livello centrale, con induzione secondaria di insulinoresistenza.

La presenza, nelle ragazze obese, di aumentati livelli di testosterone e bassi livelli di SHBG già

negli stadi precoci dello sviluppo puberale suggerisce tuttavia che l‟eccesso di tessuto adiposo sia

un meccanismo iniziale di questo processo. In ogni caso gli stretti legami che esistono fra questi

aspetti possono rendere conto di un circolo vizioso che, qualunque sia il problema iniziale, tende a

mantenere ed aggravare le diverse manifestazioni tipiche della sindrome.

Nel caso dell‟obesità il ruolo svolto dalle adipochine nel determinare le alterazioni del ciclo

mestruale e più in generale i disturbi della funzione riproduttiva resta ancora poco chiaro. E‟ stato

valutato il potenziale ruolo di leptina, adiponectina, resistina e di altri elementi di questa ampia

categoria. Finora gli studi condotti in proposito non hanno tuttavia dato risultati a sostegno di questa

ipotesi. Le nostre conoscenze su questo complesso sistema di regolazione ormonale restano peraltro

ancora molto limitate.

Indipendentemente dal suo ruolo primitivo o secondario, l‟obesità rappresenta in molte donne

affette da PCOS un elemento clinico e fisiopatologico importante. Diversi recenti dati indicano che

la presenza di obesità si associa a quadri di maggior gravità della sindrome. Inoltre nelle donne con

PCOS obese sono assai più frequenti le alterazioni metaboliche che caratterizzano molte di queste

pazienti. In particolare, il rischio di sviluppare precocemente alterazioni della tolleranza ai

carboidrati (IGT o diabete tipo 2), ipertensione e altri aspetti della sindrome metabolica appare

nettamente incrementato nelle pazienti con PCOS obese. E‟ verosimile che sia soprattutto in

relazione a questi disordini metabolici che in tali soggetti sono più spesso presenti alterazioni di

diversi indicatori surrogati di rischio cardiovascolare, come gli indici di flogosi cronica e di

disfunzione endoteliale, anche se manca ancora la dimostrazione che tale rischio sia effettivamente

aumentato in questa patologia. Va tenuto presente, in ogni caso, che l‟epoca della vita in cui le

pazienti giungono al medico per gli aspetti tipici della PCOS è molto più precoce rispetto a quella in

cui è verosimile possano svilupparsi le complicanze cardiovascolari. Anche l‟iperandrogenismo è

spesso più severo in queste donne in presenza di obesità.

Le interrelazioni fra obesità, insulinoresistenza e alterazioni metaboliche associate ed aspetti

endocrini sono in ogni caso molto complesse. La figura 1 schematizza i risultati dell‟analisi delle

componenti applicata agli aspetti caratteristici della sindrome dell‟insulinoresistenza in un

campione di 255 donne iperandrogeniche esaminate nel nostro centro. In questa analisi i diversi

aspetti della sindrome dell‟insulinoresistenza risultano raggruppati in tre componenti principali,

quella centrale, che contiene il BMI fra i suoi parametri, e quelle dell‟iperglicemia e

dell‟ipertensione, legate a quella centrale rispettivamente attraverso l‟iperinsulinemia e l‟eccesso

ponderale. Questi dati ottenuti in donne iperandrogeniche sono in accordo con quanto già osservato

nella popolazione generale del Framingham Study. Includendo gli aspetti endocrini tipici della

PCOS a questa analisi, si osserva una quarta componente nella sindrome dell‟insulinoresistenza,

anch‟essa associata a quella centrale attraverso l‟iperinsulinemia. Ma i livelli di testosterone libero

compaiono anche in altre componenti, a suggerire dei nessi molto complessi fra iperandrogenismo e

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alterazioni metaboliche. Questi dati sono a sostegno dell‟ipotesi che le alterazioni endocrine tipiche

della PCOS possano costituire un fenotipo peculiare della sindrome metabolica.

L‟associazione fra obesità e PCOS non rende comunque completamente conto dell‟associazione fra

eccesso ponderale e disturbi riproduttivi. In studi condotti su popolazioni non selezionate è stata

osservata un‟associazione analoga, con aspetti endocrini che non sono quelli tipici della PCOS. Un

elemento che sembra caratterizzare questa associazione è infatti la riduzione dei livelli delle

gonadotropine, a suggerire l‟intervento di meccanismi centrali. Alcuni dati suggeriscono anche un

possibile ruolo di un‟ipersecrezione di prolattina, apparentemente su base funzionale. Resta

comunque da chiarire come l‟eccesso di tessuto adiposo possa alterare la secrezione ipofisaria.

E‟ importante notare che tutti gli approcci che determinano calo ponderale, dalla dieta ipocalorica,

ai farmaci anti-obesità fino alla chirurgia bariatrica - nelle pazienti con obesità massiva - migliorano

non solo gli aspetti metabolici ma anche quelli riproduttivi, consentendo in molti casi il ripristino di

cicli regolari e ovulatori. Inoltre, va ricordato che nelle donne con PCOS l‟efficacia della

metformina e di altri strumenti terapeutici è ridotta e il rischio di complicanze di una eventuale

gravidanza è aumentato nei soggetti con obesità grave. L‟approccio terapeutico ai disturbi

riproduttivi della donna obesa deve quindi sempre comprendere interventi mirati alla correzione

dell‟eccesso ponderale.

Fig 1.

Componenti della sindrome dell’insulinoresistenza in 255 donne iperandrogeniche

Core

insulina BMI

Ipertensione Iperglicemia

glicemia pressione

lipidi

testosterone testosterone

17OHP dopo GnRH-a

testosterone

PCOS

Risultati dell’analisi delle componenti della sindrome dell’insulinoresistenza applicata ad un campione di donne iperandrogeniche. Il modello distingue una componente centrale e alcune componenti associate a quella centrale attraverso specifici aspetti della sindrome metabolica. L’inclusione nel modello dei livelli di testosterone e del 17-idrossiprogesterone dopo stimolo con GnRH-analoghi individua una quarta componente della sindrome dell’insulinoresistenza, che contiene gli aspetti endocrini della PCOS. Da Zanolin et al, Diabetes Care 2006

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La sindrome dell'ovaio policistico

Il trattamento ormonale della PCOS

Morgante G., Musacchio M.C., Di Sabatino A., Cappelli V., De Leo V.

Istituto di Ostetricia e Ginecologia. Università di Siena

La sindrome dell‟ovaio policistico (PCOS) è una frequente e complessa endocrinopatia che è

caratterizzata, sul piano clinico, da irregolarità mestruali, irsutismo, acne, seborrea, infertilità da

anovulazione cronica, obesità o tendenza al sovrappeso. Sul piano endocrino, le peculiari alterazioni

ormonali sono rappresentate da alterato rapporto LH/FSH, iperandrogenemia e ridotta tolleranza al

glucosio. L‟insulino-resistenza è spesso presente nella PCOS ed è più marcata nelle pazienti obese,

indicando che la PCOS e l‟obesità possiedono un effetto sinergico sull‟entità dell‟insulino-

resistenza.

Il trattamento è correlato alla gravità della sintomatologia clinica, al tipo e/o all‟entità

dell‟alterazione ormonale e metabolica presente e alla presenza o meno di desiderio di

concepimento da parte della donna. La terapia sintomatica ha l‟obiettivo di ridurre i segni clinici

dell‟iperandrogenismo e di regolarizzare i cicli mestruali in assenza di desiderio di concepimento. I

farmaci più utilizzati a tali scopi sono gli estroprogestinici e i farmaci ad attività antiandrogenica.

La somministrazione di contraccettivi nelle donne con PCOS si è rivelata utile in quanto riduce

l‟entità dell‟acne e dell‟irsutismo, regolarizza i cicli mestruali e migliora la densità ossea. Tuttavia

può esercitare una serie di effetti metabolici negativi, come l'incremento dei livelli di trigliceridi e

colesterolo totale, il peggioramento dell‟insulino-resistenza, l'aumento di peso. Questi effetti

possono essere più o meno marcati a seconda del tipo di contraccettivo ormonale utilizzato.

Gli estroprogestinici agiscono riducendo la sintesi androgenica ovarica LH dipendente e

aumentando la sintesi epatica di SHBG, con conseguente riduzione dei livelli di androgeni liberi.

Nelle donne con PCOS un contraccettivo orale contenente 30 g di etinilestradiolo inibisce la

steroidogenesi surrenalica e stimola la produzione epatica della sex hormone binding globulin in

maniera più efficace rispetto a CO contenenti dosi inferiori di SHBG. Riguardo al tipo di

progestinico, il ciproterone acetato, il clormadinone acetato, il dienogest e il drospirenone si sono

dimostrati dei potenti progestinici con attività anti-androgenica: questi agiscono soprattutto

bloccando i recettori degli estrogeni sugli organi bersaglio e riducendo, a livello cutaneo, l'attività

della 5 reduttasi, l'enzima che converte il testosterone in diidrotestosterone.

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Altri farmaci ad attività antiandrogenica esercitano un meccanismo d‟azione esclusivamente

periferico (flutamide e finasteride). La flutamide inibisce il legame recettoriale degli androgeni,

mentre la finasteride inibisce elettivamente la 5-alfa-reduttasi che trasforma il testosterone in

diidrotestosterone, dotato di grande affinità per i recettori nucleari. Con entrambi questi farmaci è

utile l‟associazione con un contraccettivo orale, a causa della loro potenziale teratogenicità.

I CONTRACCETTIVI ORMONALI

Rossella E. Nappi

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Centro di Ricerca per la Procreazione Medicalmente Assistita, Sezione di Ostetricia e Ginecologia,

Dipartimento di Scienze Morfologiche, Eidologiche e Cliniche, Università degli Studi di Pavia,

Unità di endocrinologia Ginecologica e della menopausa, Dipartimento di Medicina Interna ed

Endocrinologia, IRCCS Fondazione Maugeri, Università degli Studi di Pavia.

Enormi progressi sono stati fatti negli ultimi anni in tema di contraccezione ormonale (CO) allo

scopo di ottimizzare l‟accettabilità e di minimizzare la discontinuazione. L‟obbiettivo principale

nella pratica clinica è di proporre una CO “su misura” per il profilo biopsicologico della singola

donna al fine di favorire i benefici “non contraccettivi”, non soltanto sul controllo del ciclo

mestruale, sul dolore pelvico e sulle problematiche cosmetiche (acne, seborrea, irsutismo, ecc), ma

anche sulla qualità di vita connessa al benessere psicofisico premestruale ed alla sessualità. In

questa ottica, le nuove formulazioni contraccettive si propongono di ridurre il più possibile gli

effetti collaterali (nausea, tensione mammaria, ritenzione idrica, aumento di peso, cefalea, calo della

libido, ecc) con un profilo rischio-beneficio positivo per lo stato di salute generale ed, in particolar

modo, riproduttivo.

Nelle formulazioni contraccettive per via orale la personalizzazione è correlata al dosaggio della

componente estrogenica [etinil estradiolo (EE) nella maggior parte dei casi e, più recentemente,

estradiolo valerato], ma soprattutto, al tipo di progestinico. I progestinici sintetici utilizzati nella

CO dimostrano profonde differenze in relazione alla loro struttura chimica e alla natura dei

metaboliti. E‟ ormai noto, infatti, che è del tutto inappropriato considerare un effetto di classe dei

vecchi e nuovi progestinici, dal momento che l‟unica proprietà comune tra le differenti molecole e‟

rappresentata dall‟effetto progestativo sull‟endometrio. Per il resto l‟effetto biologico dei vari

progestinici è del tutto peculiare, sia sul versante metabolico che clinico, ed anche la natura degli

effetti collaterali può essere variabile ed estremamente rilevante per l‟accettabilità della CO. In

breve, i progestinici derivano sia dal testosterone (19-nortestosterone derivati) sia dal progesterone

(17-OH progesterone derivati e 19-norprogesterone derivati). In associazione all‟EE, i progestinici

permettono una CO efficace e si distinguono soprattutto per le differenti attività recettoriali che ne

condizionano il profilo metabolico e clinico. I progestinici per via orale di più recente introduzione

nel nostro mercato comprendono il clormadinone acetato (CMA), il drospirenone (DRSP) e il

dienogest (DNG), quest‟ultimo abbinato però all‟estradiolo valerato e non al tradizionale EE.

Il CMA unisce un profilo molto simile al progesterone naturale, che ne garantisce la neutralità

metabolica, alle caratteristiche antiandrogeniche tipiche dei derivati del 17-OH progesterone.

L‟azione antiandrogenica deriva sia dall‟inibizione competitiva del recettore degli androgeni sia

dall‟inibizione della 5-alfareduttasi, enzima coinvolto nella biotrasformazione degli androgeni. Per

di più, a differenza di molti progestinici, il CMA non contrae alcun legame con la SHBG,

rimanendo libero di esplicare la sua azione antiandrogenica e rendendo così al contempo la SHBG,

stimolata dall‟EE, totalmente disponibile per legare gli androgeni circolanti. Il DRSP è un

progestinico unico, cosiddetto di quarta generazione, con proprietà antimineralcorticoidi, in quando

derivato dallo spirolattone, ed un profilo farmacologico pressocchè identico al progesterone, con un

effetto antiandrogenico parziale. Il DNG, infine, è un progestinico cosiddetto ibrido perché è un

derivato del 19-nortestosterone che possiede però le proprietà aggiuntive dei derivati del

progesterone, in particolare l‟attività antiandrogenica.

Inoltre, nuovi regimi (esteso, flessibile, con una pausa più breve), ma anche vie di somministrazione

innovative (vaginale, transdermica, intrauterina, sottocutanea) hanno permesso ancor di più di

adattare la scelta sulle esigenze della singola donna e favorito la possibilità di una CO a base di solo

progestinico.

Nonostante tutto ciò e il fatto che numerose casistiche suggeriscano un impatto benefico della CO

su moltissimi sintomi correlabili alla ciclicità mestruale, ancora molte donne non sono soddisfatte

della loro scelta contraccettiva ed oppongono resistenze, più o meno consapevoli, all‟utilizzo di

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formulazioni ormonali. In particolare, nel corso degli anni, sono emerse associazioni negative tra

l‟uso della CO per via orale ed il benessere mentale e sessuale delle donne, con significativi risvolti

sull‟accettabilità a lungo termine. E‟ possibile, infatti, che alcune donne non sperimentino i

benefici fisici, psicologici e relazionali della scelta contraccettiva ormonale in termini di immagine

corporea, eroticità, intimità, pianificazione riproduttiva, qualità della vita ed energia psicofisica, e si

sentano addirittura manipolate dall‟uso degli ormoni. Per di più, molte donne ancor non riescono a

realizzare insieme al proprio ginecologo il potenziale preventivo per la salute a lungo termine.

Alcune componenti del benessere psicofisico e sessuale sono davvero molto soggettive nel corso

della vita riproduttiva e non sempre facilmente determinabili in studi clinici controllati. La scelta

ragionata da parte del clinico appare fondamentale per l‟aderenza al metodo contraccettivo e per

l‟accettabilità a lungo temine e deve basarsi su di un attento counselling che tenga conto del profilo

della donna, del profilo del metodo e del contesto di vita.

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La menopausa precoce: i disturbi e il follow- up

Prof. Vincenzina Bruni

Dip. Scienze della Salute della mamma e del bambino

Università degli Studi di Firenze

Il deficit ovarico si presenta clinicamente con alterazioni mestruali ed amenorrea secondaria: la

cessazione dei flussi infatti può essere improvvisa o essere preceduta da periodi di oligomenorrea

spesso associati con il corteo sintomatologico proprio della carenza estrogenica: vampate di calore,

sintomatologia neurovegetativa. La cessazione dei flussi può essere improvvisa o essere preceduta

da periodi di oligomenorrea o di irregolarità mestruali. Le diverse patogenesi possono in parte

motivare un esordio sintomatologica diverso: più alternante in caso di forme autoimmuni, più

brusco in caso di forme jatrogene. Talvolta l‟amenorrea ipergonadotropa insorge anche nel

puerperio o alla sospensione dell‟uso di contraccettivi orali.

L‟iter diagnostico prevede innanzitutto un’accurata anamnesi familiare orientata a rilevare

familiarità per insufficienza ovarica precoce, infertilità, patologie genetiche, diatesi autoimmuni e

un‟ anamnesi personale, volta ad individuare fattori eziopatogenetici predisponenti, storia

mestruale,disendocrinopatie, chirurgia addomino-pelvica o altri trattamenti che possono incidere sul

patrimonio follicolare.

All‟attenta visita ginecologica dovrà essere associata una ecografia pelvica transvaginale, mirata

allo studio morfologico-funzionale di utero e degli annessi con particolare riferimento alla stima

della “riserva di funzionalità ovarica”. Deve essere eseguita in fase follicolare precoce, e dovrebbe

essere valutato il volume ovarico ed effettuata la conta dei follicoli antrali (AFC), che si

caratterizzano per un diametro compreso tra 2 e 10 mm: un numero superiore a 5-6 è espressione di

buona funzionalità ovarica. Alcuni autori suggeriscono di valutare anche il grado di

vascolarizzazione stromale quale indice aspecifico di funzione ovarica.

Sul piano laboratoristico, oltre agli esami di routine comprendenti assetto lipidico ed emostatico, la

valutazione endocrina conferma l‟aumento delle gonadotropine circolanti (FSH e LH). Già il

riscontro (al 3° giorno del ciclo in soggetti con mestruazione) di valori basali elevati di FSH (> 20

UI/L) costituisce un segnale precoce di riduzione della funzione ovarica (“ovarian aging”). Valori di

FSH > 40 UI/L in almeno due dosaggi sono diagnostici per insuifficienz aovarica prematura (POI).

In terza giornata devono essere dosati anche LH, E2, PRL, TSH, fT3, fT4 e assetto androgenico. Più

recente è l‟introduzione nella diagnostica dell‟insufficienza ovarica del dosaggio dell‟ormone

antimulleriano (AMH), un membro della famiglia dei transforming growth factor ß, che è espresso

in modo specifico dalle cellule della granulosa di follicoli in crescita non selezionati ed un marker

ideale della estensione del pool follicolare. Altro importante marker di funzionalità ovarica è

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l‟inibina B, ormone proteico secreto dalle cellule della granulosa dei follicoli in maturazione, i cui

livelli plasmatici correlano inversamente con i valori circolanti di FSH

Valutazione immunologica: su orientamento anche dell‟indagine anamnestica, deve essere

effettuata una ricerca degli anticorpi organo-specifici (anti-ovaio, anti-surrene, anti TPO, anti-

tireoglobulina, anti-recettore TSH, anti-gliadina, anti-transglutaminasi) e non-organo-specifici

(ANA, ENA, DsDNA). La verifica di un panel di autoanticorpi periodico è consigliato nei

soggetti in cui si pone diagnosi di insufficienza su base autoimmune.

Fondamentale una consulenza genetica che orienterà allo studio del cariotipo, delle anomalie del

cromosoma X con tecnica FISH (per la ricerca bassi mosaicismi) e lo studio dei geni nei loci POF 1

e 2 e, in modo particolare, del gene FMR1. Qualora quest‟ultimo risulti positivo si impone lo

studio del cariotipo dei genitori. Le possibilità diagnostiche offerte oggi dall‟indagine citogenetica

in soggetti con insufficienza ovarica prematura sono sicuramente ancora parziali rispetto alle

evoluzioni future della ricerca genetica. Dovrà essere infine valutata la densità minerale ossea

(tramite DEXA), con riferimento ad un software adeguato per l‟età del soggetto in quEstione. Solo

in casi selezionati ( netto deficit di massa ossea, patologie osteopenizzanti associate, necessità di

impiego prolungato di corticosteroidi) può essere utile con lo studio del metabolismo osseo.

Molto discussa invece l‟utilità di una biopsia ovarica, che secondo alcuni autori potrebbe essere

indicata per la diagnosi di POF autoimmune, per lo studio degli enzimi steroidogenetici ovarici e

per un‟eventuale raccolta di tessuto per la crioconservazione.

La presa in carico di questi soggetti richiede una spiegazione esaustiva della patologia, di non facile

accettazione in giovane età. Nel counseling successivo alla diagnosi bisogna affrontare il tema della

fertilità, molto rara ma non impossibile spontaneamente (si parla di 5-15% di concepimenti dopo

una diagnosi di POI), valutando insieme le opzioni disponibili e, se richiesta, anche l‟aspetto

contraccettivo. Il follow-up deve essere orientato a monitorare e prevenire le complicanze ossee,

cardiovascolari, cutanee e mucose di un deficit estrogenico prolungato, ottimizzando il trattamento

ormonale sostitutivo.

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Menopausa precoce: genetica e fattori patogenetici (Dr.ssa Renieri)

La menopausa precoce o insufficienza ovarica precoce (POF) è una condizione

relativamente frequente: interessa circa 1 donna su 100 entro i 40 anni, 1:1000 entro i 30 e 1:10000

entro i 20 anni. Sebbene le cause possano essere estremamente eterogenee la componente genetica

ha in molti casi un ruolo determinante. Nel 74-90% dei casi tale condizione risulta essere idiopatica

tuttavia nel 4-33% delle pazienti la POF può essere familiare o sporadico. Le anomalie del

cromosoma X , ed in particolare la Sindrome di Turner, rappresentano le alterazioni genetiche più

frequentemente associate a tale patologia. In numerose pazienti infatti la comparsa di menopausa

precoce può essere ricondotta a mosaicismi anche a basso grado 45,X/46,XX. Ad oggi sono inoltre

note diverse condizioni rare monogeniche di insufficienza ovarica primitiva che possono

distinguersi in due categorie: a) da disfunzione: come nel caso di APECED, pseudoipoparatiroisimo

ecc; b) da deplezione: come nel caso di blefarofimosi ed epicanto inverso (BPES) e portatrici di X

fragile. Nella maggior parte dei casi, le basi molecolari della insufficienza ovarica precoce

rimangono tuttavia sconosciute. Negli ultimi 15 anni sono stati messi in evidenza come possibili

geni candidati per lo sviluppo della condizione numerosi geni, tra cui ADAMTS19, già noto in

quanto gene up-regolato a livello gonadico nei topi femmina durante la differenziazione sessuale

(Human Reproduction, 2009), GDF9 (Growth and Differentiation Factor 9) e BMP15 (Bone

Morphogenetic Protein 15), mutazioni in omozigosi a carico dei quali determinano un precoce

arresto dello sviluppo follicolare (Reproduction, 2004), FOXO3, principale regolatore e potente

soppressore dell‟attivazione del follicolo primordiale (Science, 2003). Alcuni anni fa fece inoltre

molto scalpore il rinvenimento nella popolazione finlandese di mutazioni puntiformi nel gene del

recettore per FSH (Cell., 1995). È successivamente emerso che tale condizione, che genera una

insufficienza ovarica ipergonadotropa, è in effetti molto rara.

Lavori molto recenti hanno inoltre messo in evidenza alcune CNV predisponenti (J Clin Endocrinol

Metab, 2009), loci sui cromosomi 13, 19 e 20 (Nat Genet, 2009) e 4 varianti di splicing del FSHR

che correlerebbero con il numero di oociti per ciclo (J Clin Endocrinol Metab 2010). Ad oggi i

modelli murini caratterizati in cui un singolo difetto genetico provoca insufficienza ovarica precoce

sono più di nove. In particolare, un recentissimo lavoro ha messo in evidenza come larga parte dei

follicoli ovarici quiescenti, possa essere attivata a generare cellule germinali femminili mature dalla

stimolazione del pathway PI3K-Akt (Activation of dormant ovarian follicles to generate mature

eggs, Li J et al PNAS 2010). Indubbiamente il continuo divenire delle conoscenze in tale ambito

apre interessanti prospettive per il trattamento dell‟infertilità nelle donne con ridotta riserva ovarica

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e per la preservazione della ferilità nelle trattamento delle pazienti oncologiche sottoposte a

crioconservazione del tessuto ovarico.