sulle neuroscienze

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L’Arte e la Scienza sono espressioni della straordinaria fantasia creativa e dell’unicità della mente umana. Con la pittura, la scultura, la poesia e la musica, l’Uomo esprime in opere di altissimo livello estetico i concetti più elevati, le passioni e le follie, i piaceri, i tormenti e gli intimi pensieri dell’animo umano. Con la Scienza, egli svela gli enigmi della Natura, riuscendo persino ad interagire con la fisiologia del proprio corpo elaborando rimedi per molte patologie. Nell’ambito specifico delle Scienze che studiano il cervello ed il sistema nervoso (le Neuroscienze), i ricercatori hanno compiuto incredibili passi in avanti nella comprensione della fisiologia del cervello, soprattutto grazie al recente sviluppo delle tecnologie mediche. Per esempio, la risonanza magnetica funzionale (o fMRI) ha permesso di visualizzare l’attività del cervello in vivo mentre compiamo un’azione, pensiamo o ci emozioniamo. Assieme ad altre tecniche, la fMRI ha consentito di studiare il pattern di attivazione delle differenti aree del cervello, rivelando che ciascuna delle strutture cerebrali è specializzata per uno o più compiti specifici, come l’elaborazione degli stimoli sensoriali (visivi, tattili, uditivi, ecc.), la pianificazione ed esecuzione di processi motori o la percezione di determinati stimoli emotivi. Nonostante tali sviluppi, la Scienza non ci ha ancora concesso di aprire lo scrigno che contiene i segreti più arcani, e inviolati della conoscenza, su cui filosofi e scienziati dibattono da millenni: i misteri della mente umana. La neuroestetica Una decina d’anni fa, il celebre neuroscienziato Semir Zeki (University College of London) ha sostenuto l’avvio di un nuovo tipo di ricerca neuro-scientifica, chiamato “Neuroestetica”, per investigare i meccanismi biologici dell’apprezzamento estetico (Ticini, 2003a). Già nei secoli

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articoli presi da internet sulla neuroestetica

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Page 1: sulle neuroscienze

L’Arte e la Scienza sono espressioni della straordinaria fantasia creativa e dell’unicità della mente umana. Con la pittura, la scultura, la poesia e la musica, l’Uomo esprime in opere di altissimo

livello estetico i concetti più elevati, le passioni e le follie, i piaceri, i tormenti e gli intimi pensieri

dell’animo umano. Con la Scienza, egli svela gli enigmi della Natura, riuscendo persino ad interagire con la fisiologia del proprio corpo elaborando rimedi per molte patologie. Nell’ambito

specifico delle Scienze che studiano il cervello ed il sistema nervoso (le Neuroscienze), i ricercatori hanno compiuto incredibili passi in avanti nella comprensione della fisiologia del cervello, soprattutto grazie al recente sviluppo delle tecnologie mediche. Per esempio, la risonanza

magnetica funzionale (o fMRI) ha permesso di visualizzare l’attività del cervello in vivo mentre

compiamo un’azione, pensiamo o ci emozioniamo. Assieme ad altre tecniche, la fMRI ha consentito di studiare il pattern di attivazione delle differenti aree del cervello, rivelando che ciascuna delle strutture cerebrali è specializzata per uno o più compiti specifici, come l’elaborazione degli stimoli sensoriali (visivi, tattili, uditivi, ecc.), la pianificazione ed esecuzione di processi motori o la percezione di determinati stimoli emotivi. Nonostante tali sviluppi, la Scienza non

ci ha ancora concesso di aprire lo scrigno che contiene i segreti più arcani, e inviolati della

conoscenza, su cui filosofi e scienziati dibattono da millenni: i misteri della mente umana.

La neuroestetica

Una decina d’anni fa, il celebre neuroscienziato Semir Zeki (University College of London) ha

sostenuto l’avvio di un nuovo tipo di ricerca neuro-scientifica, chiamato “Neuroestetica”, per

investigare i meccanismi biologici dell’apprezzamento estetico (Ticini, 2003a). Già nei secoli

passati, scrittori e filosofi hanno cercato di afferrare l’intima essenza di un’esperienza estetica

e di definire il concetto di bellezza. Pensiamo a Platone, Immanuel Kant o allo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann, per citarne alcuni. Tuttavia, queste importanti figure del

pensiero occidentale non hanno mai avuto l’opportunità di vedere direttamente cosa avviene nel nostro cervello, per esempio, quando siamo di fronte ad un’opera d’arte. Oggi lo possiamo fare. Per esempio, le ricerche hanno identificato l’origine di alcune percezioni elementari e comuni in ognuno di noi. Di fronte ad un’opera d’arte, ognuno ha un’esperienza

estetica dissimile: i sentimenti, i ricordi, il piacere percepito, hanno un forte carattere indivi-

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LA NEUROESTETICA:

UN PASSO VERSO LA COMPRENSIONE DELLA CREATIVITÀ UMANA?

LUCA FRANCESCO TICINI

neurobiologo

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Società Italiana di Neuroestetica “Semir Zeki”

Ringrazio il professor Semir Zeki per lo scambio di opinioni sulla sinestesia.

Un particolare ringraziamento a Franco e Stella Ticini per i preziosi consigli nella stesura del testo.

La mente estetica

Cosa unisce una canzone dei Beatles al calendario di una pin-

up? La teoria della relatività ad un’opera di Stravinskij? E che

cos’è il “bello”? Perché il nostro cervello lo apprezza?

Se siete curiosi di sapere quali sono le risposte a queste

domande non perdete l’uscita ormai imminente del saggio di

Giuseppe Polipo, La mente estetica, pubblicato

dall’editore Psiconline per la CollanaRicerche e Contributi in Psicologia.

Dai neuroni specchio alle proporzioni del Partenone, dalla

psiconeuroendocrinoimmunologia alla medicina estetica e alla

meditazione, questo libro traccia un percorso multidisciplinare

alla ricerca della fonte da cui scaturiscono la percezione della

bellezza e il benessere.Il bello è negli occhi di chi guarda. Lo dice anche un vecchio

proverbio! Ma che il concetto di bellezza sia molto personale è opinione molto diffusa

ancora adesso. Proprio per questa sua intrinseca soggettività il senso estetico era stato

finora relegato tra quelle prerogative dell’uomo non indagabili dalla scienza al pari di

mente, emozione, coscienza.

Ciononostante, tutti pensiamo di sapere che cosa sia un corpo o un viso “bello”.

Eppure i risultati forniti dalla ricerca scientifica suggeriscono che il giudizio estetico

non possa essere considerato un processo semplice. Solo questo – secondo gli

studiosi – può spiegare perché finora non è stato possibile definire e classificare la

bellezza in modo univoco.

Ma oggi, per fortuna, le cose stanno cambiando.  “Sappiamo che il sistema psichico, nervoso,

endocrino e immunologico sono uniti in un unico network che permette, attraverso un codice comune, la

percezione di una realtà organizzata e coerente. – si legge, ad esempio, nell’introduzione al libro

di Polipo – Il modello cartesiano, secondo il quale l’uomo è una macchina biologica, è stato scardinato e

nuove discipline come la P.N.E.I. (psiconeuroendocrinoimmunologia, ndB) stanno trasformando

radicalmente il modo di concepire il funzionamento del cervello.

Sono state scoperte molecole (neuropeptidi) che trasmettono non solo segnali chimici e metabolici, ma

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anche e soprattutto messaggi psicofisici che armonizzano pensiero, coscienza ed emozioni, allo scopo di

adattare l’organismo all’ambiente che ci circonda. Il modello di un cervello on-off, attivabile come un

elettrodomestico, si è rivelato sbagliato ed è stato soppiantato da quello più complesso della

“neuromodulazione” che ammette diversi livelli di attivazione nella comunicazione tra le cellule nervose.

Emozioni e sentimenti, anche quelli più sfumati e complessi, sono possibili e diventano coscienti per

l’intervento di specifici messaggeri chimici che sono stati rinvenuti in ogni parte dell’organismo e non solo nel

sistema nervoso.”

Tutto questo ovviamente non deve essere visto nel senso di sminuire la potenzialità in

gran parte ancora misteriose della mente umana riducendo tutto a una “semplice”

questione biologica. È vero semmai il contrario, cioè che”tutto il corpo “pensa” e contribuisce a

elaborare strategie per il benessere globale dell’organismo.

Qualunque fenomeno biologico è dunque psicofisico e l’essere umano può finalmente essere visto, più

realisticamente, come un flusso di energia e informazioni le cui leggi sono ancora in gran parte da scoprire.“

“Da queste valutazioni nasce l’idea di affermare la necessità di una percezione estetica riferita a un nuovo

paradigma del “bell’essere” psichico: se l’estetica del corpo, resa sempre più evoluta dal progresso

tecnologico, non tenesse in alcun conto della necessità di una mente altrettanto orientata al bello, – scrive

l’Autore – il culto dell’apparenza fisica potrebbe paradossalmente essere fonte di squilibrio,

insoddisfazione e sofferenza. Sotto i riflettori del miraggio dell’eterna giovinezza e di fronte ad un corpo

sempre più standard e protesico, c’è bisogno di affiancare un’estetica della mente capace di fare risaltare

l’importanza del vissuto e della percezione individuale.“

In definitiva – e questo dovrebbe essere da monito a tanti che anche in tempi di crisi

dicono di poter rinunciare a tutto ma non al “ritocchino” – “lottare contro il tempo con le moderne

terapie anti-età può rivelarsi inutile e frustrante, se non si educa la mente a trovare quella misura psicologica

in cui fascino e personalità si fondono al servizio di una bellezza consapevole, raggiungibile e sostenibile.“

Allora che dite? Non vi incuriosisce proprio questo libro?

Per chi, come me, non vede l’ora di averlo tra le mani, l’uscita è prevista per settembre.

Ma se volete essere avvisati subito cliccate qui e lasciate la vostra mail. Se invece, non

siete del tutto convinti, potete sempre dare un’occhiata anche all’indice.

Basi neurali della percezione estetica Login  o registrati per inviare commenti

 

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Uno dei problemi più dibattuti nel campo dell’estetica è se la bellezza sia definibile mediante parametri oggettivi o se essa sia un fenomeno puramente soggettivo. Il primo punto di vista risale a Platone. Secondo Platone la bellezza risiede nelle proprietà che certi oggetti possiedono. Queste proprietà producono esperienze piacevoli in tutti gli uomini, purché questi siano in condizioni di coglierle. In termini biologici, questa posizione potrebbe essere così espressa. Tutti gli esseri umani possiedono un meccanismo che “risuona” in risposta a parametri che sono presenti nelle opere d’arte.

Il punto di vista opposto è che la bellezza dipenda unicamente da chi la guarda. È determinata dalle sue esperienze precedenti, dalla cultura in cui vive, da convenzioni apprese. Biologicamente si tratta quindi di fattori individuali, essenzialmente legati all’apprendimento.

Recentemente abbiamo cercato di esaminare se esistono dei valori oggettivi nelle opere d’arte e di stabilire, in caso positivo, quali siano i substrati neurali alla base di questo tipo di esperienza estetica. Le ricerche sono state condotte usando la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI). Abbiamo mostrato a 14 soggetti capolavori della scultura Classica e Rinascimentale nelle loro proporzioni naturali (immagini canoniche), come concepite dall’artista e, usando un particolare algoritmo matematico, le stesse immagini con proporzioni lievemente modificate. Gli stimoli erano presentati in tre condizioni sperimentali: osservazione, giudizio estetico e giudizio di proporzione. Nella condizione “osservazione” ai soggetti era richiesto di osservare le immagini con la stessa attitudine mentale di quando si visita un museo. Nelle altre due condizioni dovevano dare o un giudizio edonico (relativo alla piacevolezza) o un giudizio di proporzionalità sulle stesse immagini. Sono state condotte due tipi di analisi. In una, si confrontavano le attivazioni cerebrali durante la osservazione delle immagini canoniche rispetto a quelle durante l’osservazione di quelle modificate. Nella seconda analisi si confrontavano le attivazioni che corrispondevano ad un giudizio edonico positivo, espresso in risposta alla domanda “ti piace?”, rispetto ad un giudizio negativo.

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Il risultato più interessante del nostro studio è stato che l’osservazione delle immagini canoniche rispetto alle modificate produceva un’attivazione di varie aree corticali deputate all’analisi fisica della forma e del movimento dei corpi umani e di un’area nota per essere coinvolta nei processi emozionali. L’attivazione delle aree coinvolte nell’analisi del movimento era verosimilmente dovuta al senso di movimento cha danno all’osservatore le sculture classiche e rinascimentali.

Molto interessante è stato anche il risultato della seconda analisi, quella in cui gli osservatori davano un giudizio edonico sulle sculture presentate. Il confronto tra le immagini che i partecipanti avevano giudicato belle rispetto a quelle considerate meno belle ha prodotto un’attivazione di un’altra struttura coinvolta nei processi emozionali: l’amigdala. È generalmente accettato che la funzione fondamentale dell’amigdala è quella di attribuire valori emozionali a stimoli di per sé stessi neutri mediante processi associativi dettati dall’esperienza individuale. Questa attivazione, secondo la nostra interpretazione, riflette un aspetto idiosincratico dell’esperienza estetica dovuta all’associazione tra stimoli e memorie emozionali piacevoli legate alla loro presentazione. 

In conclusione, i nostri dati suggeriscono che il senso del bello deriva da un’attivazione simultanea di aree corticali deputate all’analisi fisica dello stimolo (e quindi dipendente dai parametri intrinseci dell’opera, che possono variare da opera ad opera) e dell’insula, il centro deputato alla percezione e all’organizzazione delle emozioni. Altri valori dell’opera d’arte sono elaborati, invece, dall’osservatore secondo criteri soggettivi riconducibili all’esperienza e al gusto personale dell’individuo. Questo secondo tipo di bellezza, che si può definire come soggettiva, coinvolge l’attività dell’amigdala, l’area che codifica l’aspetto emozionale delle esperienze personali.

Mente e Bellezza. Arte, creatività e innovazione

Pubblicazioni

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Arte e esperienza estetica: il valore generativo della bellezza nell’ultimo libro di 

Ugo Morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Post-fazione di Vittorio Gallese, Umberto

Allemandi Editore, Torino 2010.

Che cosa ci incanta di fronte a un paesaggio? Perché ci commuove una

sinfonia? Quando ci perdiamo in un quadro o nelle forme di una scultura

cosa ci sta accadendo? Perché creare o affrontare l’inedito, quello che

prima non c’era, ci attrae e ci fa paura allo stesso tempo? Come può un

verso di una poesia risuonare dentro di noi fino al pianto? Di che cosa

parliamo quando parliamo di arte e di esperienza estetica? Quando il

mondo arriva dentro di noi fino al punto di ispirarci una particolare

esperienza di elevazione o quando generiamo qualcosa direttamente o

siamo di fronte a qualcosa che altri generano, ma anche quando siamo

presi e catturati da un paesaggio, da un tramonto, da una persona o da

un fiore, ci troviamo nello spazio della meraviglia, dell’oltre, del non

ancora. Quello spazio è l’esperienza estetica. E’ in quello spazio

esistenziale che ci rendiamo conto che la bellezza fa venir voglia di

creare. Ed è in quel gioco tra realtà e immaginazione che sperimentiamo

il valore generativo della bellezza. Sia quando riguarda un’opera, una persona o una situazione, sia quando

riguarda il nostro mondo interno e l’espressione e la realizzazione di noi stessi. Creatività ed esperienza

estetica intervengono nella nostra vita ed emergono nelle nostre relazioni con gli altri: possono essere più o

meno riconosciute nelle situazioni lavorative e nella vita quotidiana. Tutto dipende da quanto spazio, per la

libertà d’immaginazione e di innovazione nelle relazioni interne abbiamo lasciato vivere nei luoghi

dell’educazione, del lavoro e della vita. La creatività, l’arte e l’innovazione sono al centro di questo libro,

frutto di dieci anni di ricerca pluridisciplinare, che apre la collaborazione di Umberto Allemandi & C. con

SusaCulture project per la divulgazione di ricerche sulla cultura contemporanea. L’ipotesi centrale del libro,

suffragata anche dalla post-fazione di Vittorio Gallese, è che la nostra è una specie naturalmente creativa,

contraddistinta da una distinzione, la tensione rinviante, che ci porta a creare costantemente i mondi che

abitiamo, fino alla creatività artistica che è uno dei vertici della creatività umana. L’esperienza della creatività

umana si connette, inoltre, nell’ipotesi del libro, all’innovazione sociale, intesa come un processo di

condivisione della creatività, mediante l’elaborazione dei vincoli e delle possibilità del riconoscimento.

L’esperienza estetica e il passo del nostro tempo di Fausta Slanzi“La bellezza riguarda , però, anche la concezione di sé e la pienezza del proprio sentimento di se stessi e del mondo. In questo senso può indicare la capacità di ascolto delle risonanze del proprio mondo interno in relazione con gli altri e il mondo esterno”. E’ questo uno dei passaggi più delicati e pregni di significato. La bellezza, come giustamente Ugo Morelli sottolinea nel suo bel saggio, “non ha una dimensione individuale”, riguarda tutti e, consapevoli o no, tutti diamo il nostro contributo alla bellezza o alla disarmonia di noi e del mondo. In questa contemporaneità caratterizzata per la gran parte delle persone dal non-tempo, il concetto di bellezza inteso come pienezza del sentimento di sé e del mondo rischia di essere contagiato o, meglio, intriso proprio dalla mancanza di tempo. Non che questo connoti la bellezza come negativa ma, certamente ne cambia in modo sostanziale la prospettiva. Così come Duchamp con “Fontana” nel 1917 (una delle opere che Ugo Morelli sceglie in apertura del saggio edito da Allemandi) aveva costretto colei o

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colui che guardava quello che era stato un semplice orinatorio, riposizionato dall’artista, a capire il significato di un oggetto trapiantato dal mondo ordinario all’ambito dell’arte, così l’essere umano del terzo millennio ha bisogno di un nuovo paradigma per il concetto di bellezza e per quel “sentimento di pienezza di sé e del mondo” di cui scrive Morelli.  Perché se è vero che il mondo trabocca di volgarità, è anche vero che sono gli esseri umani ad “affrescare”, vivendo, il mondo. E se, come Ugo Morelli sostiene esaustivamente nel suo saggio, l’essere umano è un “infante simbolico” e ancora, se una delle caratteristiche  che distingue il cucciolo umano da quello di altre speci animali è la diversa autonomia di sé (i cuccioli animali diventano autonomi molto, molto prima degli esseri umani), allora c’è un gran bisogno che le menti consapevoli e più mature (non infantili) di alcuni esseri umani, elaborino, creino, inventino e propongano paradigmi diversi in cui riconoscere sè stessi e il mondo per un tramite che diventi riconoscibile. Ciò che cambia nel contesto contemporaneo è, per forza, la narrazione di sè e del mondo. La provocatoria opera di Duchamp presentata all’esposizione degli Indipendenti di New York fu, come ci si poteva aspettare, sottratta agli squardi da parte degli organizzatori della mostra. Lo scopo di Duchamp, annullare ogni indizio narrativo tradizionale, non era di facile comprensione. Infatti non è immediatamente riconoscibile che l’orinatoio, nel momento in cui, riposizionato, diventa “Fontana” è un oggetto “trasparente” al suo significato. Di più: è un riconoscimento scatenato dall’oggetto ma non centrato su di esso. Tanto più che non riguarda il tempo d’esistenza dell’oggetto, ma nemmeno quello dell’esperienza o della comprensione di chi lo guarda. Il readymade “Fontana” trasforma il flusso lineare del tempo: non c’è più progressione fra lo sguardo sull’oggetto e la comprensione del suo senso. Così come Duchamp conferì all’esperienza dell’arte una forma circolare allo stesso modo dovremmo tentare di fare noi per comprendere noi stessi e il mondo. “La pienezza del sentimento di sé stessi e del mondo” non può prescindere da una circolarità che inneschi la comprensione di noi stessi attraverso il rapporto con noi stessi e noi stessi con il mondo. Ma questo, come meravigliosamente spiegato in alcuni capitoli di “Mente e Bellezza”, presuppone il riconoscimento dell’essere umano non più come centrato su di sé, ma sulla relazione di sè con l’altro. Spostare il significato di sé stessi da una concezione centrata sull’ “io”, anziché sul “noi”, come argomenta Ugo Morelli, significa ri-configurare l’essere umano. Estendere il proprio spazio, lo spazio della concezione di sé, in una prospettiva di relazione vuol anche dire creare, concepire una circolarità che forse ancora non vediamo, non riusciamo a com-prendere. Perché, posto che non siamo oggetti, riposizionare noi stessi nei confronti di noi stessi e di noi stessi con il mondo, presuppone un dialogo profondo con la nostra “mente incarnata”. La mente, giustappunto, è “incarnata” in noi e la sua collocazione-posizione rispetto a noi e a un cambiamento di idea sul rapporto di noi stessi con noi stessi e di noi stessi con il mondo non è una questione facile. Ma, così come l’installazione arbitraria di un readymade nello spazio di una galleria d’arte costringe chi guarda, forzandolo, a considerare la stranezza del contesto estetico per sé, allo stesso modo dovremmo guardare noi stessi oltre noi stessi, com-prendendo un’estensione del nostro spazio: “me stesso in relazione a me, me stesso con l’altro e il mondo”. E come se ci fosse bisogno, al pari di un’altra opera di Duchamp “Slitta contenente un mulino ad acqua in metalli vicini”, di un fondo trasparente. Come se il nostro “io”, “noi” e il “mondo” potessero essere com-presi in uno spazio fra due lastre di vetro e noi potessimo guardare oltre, vederci in un contesto diverso dalla nostra mente. Il fondo trasparente estendendo, oltre noi, il nostro spazio rigetterebbe la nostra tradizione narrativa.

Perché se è vero come diceva Costantin Brancusi, per rimanere in un contesto artistico dei primi decenni del XX° secolo, che “c’è uno scopo in ogni cosa: per coglierlo si deve fare a meno di sè stessi”, allora per comprendere il significato di noi stessi in rapporto con noi stessi e con il mondo, dobbiamo rinunciare a noi stessi e modificare o, meglio, deformare la concezione di noi stessi. Esattamente come Brancusi faceva con le sue sculture: deformando una geometria ideale e, come

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per “L’inizio del mondo”, ascrivendo tutto a una questione di posizionamento. Costringendo così chi guarda l’opera a riconoscere il modo singolare che la materia ha di inserirsi nel mondo, e dove è il posizionamento a “tradire” lo stato dell’essere dell’opera.

Una parte di fascino del saggio “Mente e Bellezza” sta proprio nell’aver aperto un dibattito, un luogo, anzi, un non-luogo, una dimensione oltre i nostri consueti “luoghi”, una nuova prospettiva sulla rinconfigurazione di noi stessi. E proprio perché noi esseri umani ci distinguiamo dagli altri del mondo animale per la nostra esperienza estetica, o almeno di questo ci siamo convinti, la visione complessiva della concezione di noi e la pienezza del sentimento di noi stessi e del mondo dipende dal nostro posizionamento. La prospettiva da cui ci guardiamo cosa com-prende? Come ci vediamo? Cosa vogliamo vedere e com-prendere di noi stessi? E degli altri? Come viviamo la relazione con noi stessi e noi stessi in rapporto con l’altro? 

Sono alcuni dei molti interrogativi che hanno bisogno di risposte o, meglio, di ipotesi di nuove prospettive. Perchè è indubbio che per innovare la visione di noi stessi in relazione a noi e all’altro da noi, il tempo - non solo inteso come misuratore dell’evoluzione dell’Homo sapiens sapiens - giochi un ruolo fondamentale. E non è solo decidendo di annullare il significato convenzionale di tempo per donarci un nuovo senso e ritmo della relazione con noi stessi e con l’altro, che si esaurisce la ricerca della “concezione di sé e la pienezza del proprio sentimento di sé stessi e del mondo”. Percorrere il nostro tempo in una prospettiva che ci comprenda come relazione, quella - scrive Ugo Morelli - “che è parte fondante di noi e che ci permette di ridefinire l’idea di noi stessi in rapporto con la mente, il cervello e il mondo”, vuol anche dire fare i conti con una contemporaneità dall’andamento rapsodico. Il passo del nostro tempo è veloce, frenetico, l’ansia e l’inquietudine tormentano i nostri corpi, scompigliano le nostre menti. Sentimenti spasmodici ci attraversano. Un ritmo schizzofrenico accompagna il nostro agire. La ricerca di senso si muove su uno spartito che si interrompe qua e là bruscamente. L’andamento del nostro tempo deve fare i conti con la nostra stessa sopravvivenza. A connotare la nostra ricerca di senso non sono più le devastanti guerre del XX° secolo che hanno generato le avanguardie artistiche di Marcel Duchamp, Kazimir Malevič o Piet Mondrian. La nostra esperienza estetica deve fare i conti con l’angoscia dell’esaurimento di alcune risorse naturali. Lo sfruttamento esasperato dei giacimenti naturali sotteranei di carbonio e idrogeno - il petrolio - l’oro nero della nostra epoca, ha cambiato completamente le nostre vite imprimendo non solo un ritmo diverso e frenetico ma deviando la nostra ricerca di senso verso un corso consumistico disorientante e sfrenato. L’esperienza estetica si confronta con il tormento della sopravvivenza, posto che le economie del mondo ruotano quasi esclusivamente intorno alla scoperta di Edwin Drake, l’americano che aprì il primo pozzo petrolifero redditizio del mondo. E non a caso le nuove guerre si originano per cause non ben determinate, vengono definite guerre contro il terrorismo e le zone dei conflitti sono le stesse dei grandi giacimenti di oro nero non ancora sfruttati. 

La riconfigurazione di noi stessi non può esimersi dal contesto sociale ed economico del mondo. Il passaggio da un’economia fortemente centrata sullo sfruttamento sfrenato delle risorse e sull’arricchimento materiale di poche elite, verso un nuovo necessario e diverso equilibrio del mondo coinvolge l’essere umano nella sua intierezza. Ed è sempre attraverso l’arte e  l’esperienza estetica che ha origine la nuova ricerca di senso, tanto più in una fase di cambiamento epocale come quella che l’umanità si appresta a vivere, consapevolmente o no.

Pubblicato da Ugo Morelli   a 02:42 Nessun commento:  

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giovedì 26 agosto 2010

Mente e bellezza di Fausta SlanziInterrogarsi sulla condizione umana è prassi che scienziati, letterati, sociologi, ed esperti di varie discipline svolgono per innumerevoli motivi e studi. Farlo per un decennio analizzando e indagando soprattutto la dimensione estetica ha portato a un risultato di “mirabile sintesi (…) che rappresenta un importante contributo alla ridefinizione della nozione di estetica e creatività” come scrive Vittorio Gallese nella postfazione di “Mente e Bellezza”. E Gallese, di studi e indagini importanti se ne intende visto che, insieme ad altri, è il neuro scienziato che ha scoperto l’esistenza dei neuroni specchio. Autore del saggio “Mente e Bellezza”, 250 pagine fitte di studi, analisi, considerazioni e riflessioni di grande interesse, è Ugo Morelli studioso e docente di Psicologia della creatività e dell’innovazione, oltreché di Psicologia del lavoro e organizzazione ed editorialista del Corriere del Trentino. Il libro edito da Allemandi, sarà nelle librerie da metà settembre ma una prima presentazione, nazionale, è in programma venerdì 27 agosto a Comano nell’ambito di “Trentino d’autore”. Morelli in questo suo ultimo lavoro “non ha paura di attraversare confini e steccati disciplinari” e, ponendo grandissima attenzione agli aspetti epistemologici (vale a dire quelli che riguardano il rapporto con se stessi come entità consapevoli di conoscere e il sapere), riesce con grande capacità a porre in dialogo la filosofia con la biologia e la psicoanalisi con le neuroscienze.Il tutto per esplorare la comunanza fra arte e scienza, per indagare quanto “le capacità degli esseri umani di esprimere atti estetici” possano essere ascritte alle facoltà naturali e come “i risultati del loro esercizio” possano far parte dei processi e dei fenomeni propri della natura. In che cosa si distingue la natura umana dalla natura normalmente intesa? La prospettiva studiata da Ugo Morelli parte da una questione fondamentale: come mai gli esseri umani sono capaci di concepire e pensare l’estetica e la conoscenza come facoltà posto che pensare e conoscere è patrimonio di tutto il mondo animale? Quale è la distinzione dell’esperienza umana? E, in riferimento alla conoscenza e all’estetica, qual è il punto di combinazione e integrazione tra scienza e filosofia? Quale meccanismo consente alla specie umana, specie che ha acquisito competenze simboliche “solo” centomila anni fa, di elevarsi interrompendo e ri-creando un legame fra il soggetto e il mondo, caratteristica propria dell’esperienza estetica? Come ha acquisito capacità di plasmare manufatti attribuendo loro un significato che naturalmente non avrebbero? L’esperienza del creare e del conoscere, ci dice Morelli, ha il suo senso più pieno nella “considerazione del reale in quanto cifra, codice” che ci rinvia ad un senso ulteriore, ad altri mondi possibili. Ma perché l’essere umano possa accedere all’esperienza della creatività ha bisogno di una tensione, di un particolare stato che Morelli chiama “tensione rinviante”, laddove l’aggettivo è inteso come movimento del preparare, del predisporre a qualcosa di altro. Ed è proprio in questa condizione che l’Homo sapiens si riconosce e diventa riconoscibile. Solo attraverso questa tensione, che è caratterizzante per la specie umana, ha origine il rapporto tra il mondo reale e il “possibile” e, solo attraverso “il possibile” la specie simbolica si distingue. Il reale è il vincolo che permette all’Homo di esprimersi oltre sé stesso, di andare lontano da sé, di esplorare il diverso da sé finché, non coincidendo più con se stesso, l’Homo sapiens diventa relazione. E proprio nel momento in cui nella relazione “ci creiamo umani”, al contempo riconosciamo “la nostra incompletezza e la nostra mancanza”. Ed è qui che la mente entra prepotentemente in gioco in quanto emerge come sistema che non risponde più soltanto a stimoli interni od esterni ma, attraverso le relazioni, seleziona e attiva strategie, compie scelte fra infinite possibilità, crea nuovi contesti e li distrugge, sempre alimentata dall’immaginazione e dalla fantasia, linfe vitali per le capacità di essere e di costruire dell’Homo sapiens. Attraverso “la tensione rinviante” -scrive Morelli - “interrompiamo la consuetudine e ci sporgiamo oltre l’esistente, alla ricerca costante del senso”. Le esperienze estetico creative analizzate nel saggio di Morelli sono: la creazione artistica, la nascita delle ipotesi scientifiche, l’innamoramento e l’amore, la genesi del sacro e la progettualità politica.Affascinato dalla bellezza e da tutto quanto genera, crea e inventa mondi possibili, Ugo Morelli chiama al suo tavolo di lavoro due fra i poeti più creativi: John Keats, a cui è riconosciuta una capacità esemplare di sostare nella riflessione “per riconoscersi e riconoscere il mondo che creiamo e la possibilità di continuare a crearlo” e Josif Brodskij che ha sostenuto più volte quanto sia urgente e importante scegliere fra volgarità e bellezza, in un tempo in cui è la volgarità a farla da padrona. “Per un essere umano non c’è altro futuro all’infuori di quello che l’arte promette” scrive Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987: gli studi e le analisi contenute in “Mente e Bellezza” paiono proprio condurci in questa direzione. “La bellezza - scrive Morelli - non è una questione individuale. Accanto alle relazioni educative che possono sostenere l’accesso

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alla creatività, decisiva è la politica per generare le condizioni che possono favorire l’affermazione della bellezza”. Sostiene Morelli che nessun campo è esente da un’educabilità della mente, meno che mai quello politico visto che, scopo della politica non dovrebbe essere “uniformare la società a un ordine preesistente” ma, attraverso una buona gestione dei conflitti creare, elaborare nuove soluzioni. E il conflitto è un elemento necessario all’evoluzione della propria esperienza in particolare dell’immaginazione e della creatività. E’ in una prospettiva di conflitto che si inserisce “l’atto estetico” che, ci dice Morelli, altro non è che “una presa di distanza conflittuale con il mondo di cui ognuno di noi è parte”. Perché l’esperienza estetica si manifesta proprio su quel crinale fra “l’esserci e il divenire” .Concepire un “io” senza un “noi” appare ormai molto superato, posto che è la relazione che ci fonda e ci permette di ridefinire l’idea di noi stessi in rapporto con la mente, il cervello e il mondo. La specie umana si cimenta con due movimenti simmetrici e difficili supportati da ricerche sempre più approfondite: il primo tende “a riportare la mente nel corpo e nel cervello sostenendo che la mente è ciò che il cervello fa (embodiment, incarnazione); il secondo “cerca di collocare la mente nella relazione con gli altri”, facendo emergere così, “un’eccedenza” evolutiva. Entrambi questi movimenti però, ci ricorda Ugo Morelli, si configurano come un vero e proprio salto evolutivo e con la ri-figurazione di cosa significa esseri umani”. La comprensione della nuova prospettiva della mente che le ricerche di ambito neuro scientifico ci impongono non è facile. Così come non è facile, per la mente umana, cambiare idea.

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"Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione", di Ugo Morelli, Allemandi Editore, 2010

 

 

 

 

Recensione a cura di Gianluca Cepollaro

 

La mente è relazionale e noi tutti in quanto esseri umani siamo costitutivamente creativi, ossia siamo dotati di una creatività originaria che ci permette di istituire delle discontinuità nell’esperienza estetica. L’analisi di diverse forme di esperienza estetica (creazione artistica, elaborazione del sacro, formulazione di ipotesi scientifiche, progettualità politica, amore) mostra che è possibile, andando all’origine ed alla radice dei fenomeni, individuare tracce comuni in tutta l’esperienza umana. È questa l’ipotesi centrale di “Mente e bellezza”, l’ultimo importante ed impegnativo libro di Ugo Morelli.Anche l’educazione e la formazione sono esperienze estetiche, esse riguardano la connessione tra mondo interno e mondo esterno mediata dal principio di immaginazione. L’educazione e l’azione per l’affermazione della bellezza, possono avvalersi oggi di importanti contributi provenienti dalle neuroscienze cognitive e dalla neurofenomenologia. Il libro di Morelli intende essere un contributo a questo filone di ricerca cercando di concorrere non solo a comprendere più approfonditamente il ruolo dell’esperienza estetica nella vita umana, ma a ri-figurare contenuti e metodi per l’educazione e l’azione, valorizzando le interdipendenze e le emergenze tra mente, apprendimento, creatività e innovazione. “L’esperienza estetica interessa di solito il legame con gli altri e col mondo, l’ordine simbolico e la struttura dei significati. Interessati sono perciò i processi di connessione tra mondo interno e mondo esterno, mediati dal principio di

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immaginazione. Mentre siamo embedded nei contesti della vita, allo stesso tempo siamo in grado di tendere verso l’inesistente, verso ciò che ancora non c’è, concependolo simbolicamente”. È quindi attraverso l’immaginazione e la creatività che inventiamo i mondi possibili frutto di menti relazionali incarnate.La bellezza a cui fa riferimento Morelli è svincolata dal canone e dalle convenzioni: essa emerge tra il sé e le sue possibilità di espressione. Come dice Paul Auster “se c’è bellezza, è la bellezza che sentiamo in noi”, quindi non una bellezza che è “là fuori” e che contempliamo. Ogni qual volta svuotiamo l’educazione e la formazione dal loro contenuto relazionale per renderle strumenti di trasmissione della conoscenza stiamo negando e rimuovendo il valore della relazione, stiamo cioè operando un tentativo di negazione delle possibilità di connettere il nostro mondo interno con il nostro mondo esterno. Stiamo mortificando gli altri e noi stessi, nel senso che stiamo perdendo possibilità di evoluzione. L’educazione e la formazione devono saper orientare all’emancipazione da una condizione di minorità, allo sviluppo individuale, organizzativo, istituzionale, sociale e soprattutto civile. Studiare le possibilità della creatività umana nell’educazione vuol dire anche cercare di comprenderne i vincoli e gli ostacoli, primi tra tutti il conformismo e la saturazione che sono alla base della negazione della generatività del conflitto e dell’affermazione di una logica di dominio e manipolazione.Il testo di Morelli di caratterizza per il suo essere un’operazione di continua tessitura, un tentativo di  ricomporre le lacerazioni del nostro modo di fare ricerca ed educazione (scienze naturali e scienze umane; arte e scienza; materialità e spiritualità). Attraverso un continuo lavorio, Morelli cerca di superare i dualismi che vincolano il pensiero, di collocarsi in uno spazio intermedio, di continua ricorsività tra micro e macro, interno ed esterno. Così come nello stile dell’autore, il testo si caratterizza per il superamento degli angusti confini disciplinari, non in modo erudito e fine a se stesso, ma attraverso una ricollocazione in un approccio teorico capace di rendere conto della complessità dell’esperienza estetica. Connettendo i più qualificati contributi delle neuroscienze, della psicologia, dell’antropologia, ma anche della letteratura, delle arti figurative e dell’arte moderna (a proposito il libro è corredato da quindici splendide immagini), Morelli propone una lettura originale frutto di un decennale percorso di ricerca che si distingue innanzitutto per la critica radicale a qualsiasi approccio riduzionista alla comprensione della mente umana. Il risultato, come scrive Vittorio Gallese nella postfazione, “è una mirabile sintesi che è tanto più interessante in quanto non costituisce uno sfoggio erudito di eclettismo multidisciplinare, ma rappresenta un importante contributo alla ridefinizione della nozione di estetica e creatività, che sa cogliere il contemporaneo mutamento di paradigma, trasversale alle scienze umane e a quelle biologiche

Mente e esperienza esteticaArte e esperienza estetica. Il saggista e scienziato cognitivo Ugo Morelli ci guida

verso lo spazio della meraviglia, dell'oltre, del non ancora...

pubblicato domenica 24 aprile 2011

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L’arte e l’esperienza estetica rappresentano un terreno di prova particolarmente valido non solo per comprendere alcuni degli aspetti più distintivi e caratteristici degli esseri umani, ma anche per cercare le vie attraverso le quali possiamo affrontare le esigenze di innovazione e cambiamento che il mondo in cui viviamo ci pone innanzi.  È il valore generativo della bellezza che ci interessa analizzare, se intendiamo la bellezza come quell’esperienza che emerge, allo stesso tempo, dentro noi e nelle relazionali con gli altri e il mondo. Si tratta di percorrere un cammino alla ricerca del senso e dei significati della bellezza nell’esperienza umana, riconoscendo che ci troviamo, con ogni probabilità, di fronte ad uno dei tratti distintivi della specie, una delle dimensioni peculiari mediante la quale ogni individuo della specie diventa se stesso. Prendendo il via dall’ipotesi che la bellezza possa essere, alfine, intesa come un sentimento particolarmente compiuto di risonanza incarnata che confermi o estenda il modello neurofenomenologico del sé, possiamo comprendere come essa emerge, si presenta e la sentiamo, con un doppio processo, interno e esterno. La stessa dinamica corporeo- psichica può generare esperienze del terrore e dell’orrore se quelle esperienze minacciano o pregiudicano il modo di sentirsi nella vita e nel mondo. L’arousal o attivazione è, probabilmente, alla base della tensione rinviante all’esperienza di bellezza e decisivo è studiare le soglie dalla cui elaborazione dipende l’accessibilità alla bellezza. L’ipotesi più accreditata con cui l’esperienza estetica viene analizzata, utilizzando in particolare gli approcci delle neuroscienze cognitive e della fenomenologia, è che l’accessibilità alla bellezza, intesa come espressione sufficientemente buona del proprio mondo interno nella relazione con gli altri e il mondo, sia possibile e difficile allo stesso tempo, perché la bellezza è ambigua e accedervi esalta il suo contrario, non lo supera ed elimina. Più s’intensifica la luce, più aumenta la sua separazione dall’ombra; i margini divengono confini e, perciò, più difficili da attraversare. Più alta è l’esperienza di bellezza che si para innanzi, più sembrano ridursi le possibilità e lo spazio del significato e del linguaggio per accedere all’espansione interna richiesta: quell’accesso esige un’apertura all’immediatezza dell’indicibile e allo stesso tempo riduce la resilienza degli equilibri e degli ordini di senso esistenti, esaltando il valore rassicurante di questi ultimi. È forse in questa dinamica che si situa uno dei principali ostacoli alla creatività e all’innovazione. Eppure l’arte ci mostra costantemente e in modo infinito che la generazione dell’inedito, quello che ancora non c’è, non solo è concepibile e possibile, ma effettiva e concreta.Se si considerano gli ultimi dieci anni di ricerca nel campo delle scienze cognitive e della psicologia della creatività e dell’innovazione, con un assiduo dialogo con i risultati delle ricerche neuroscientifiche applicate all’esperienza relazionale umana e all’esperienza estetica, è possibile accedere ad una visione meno mentalista ed idealista della creatività umana. A partire da un’attenzione al tempo profondo dell’evoluzione, rispetto al quale, in epoche recentissime, abbiamo cominciato a creare segni per un altro, mostrando di sentire quello che l’altro sente, noi possiamo ora riconoscere di aver elaborato la nostra distinzione biologico-evolutiva verso una fenomenologia in cui l’immaginazione e la creatività hanno un ruolo costitutivo e generativo. Non nella ricognizione e rappresentazione del reale consiste l’esperienza del creare e del conoscere, ma nella considerazione della realtà in quanto cifra, codice rinviante all’ulteriorità del senso, a cui l’incompiutezza di ogni esperienza e la mancanza rimandano, proponendo già l’oltre e il possibile. Quella mancanza propria di noi esseri che nasciamo neotenici, incompleti e incompiuti, e che all’incompiutezza dobbiamo lo spazio del possibile divenire e della capacità di creare mondi con l’immaginazione e la creatività. Nella rottura di ogni orizzonte in cui potrebbe concludersi, sta sia il compimento della chiarezza razionale del conoscere, che la sua generativa

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incompletezza creativa che rinvia al "non ancora”. Fra tendenza alla semplificazione e tensione rinviante, si generano la creatività e la conoscenza, che sono possibili per la nostra continuità evolutiva originaria e le nostre caratteristiche emergenti, neurofenomelogicamente distintive. Del resto ognuno di noi si chiede come crea quotidianamente la propria vita e oggi sappiamo che ciò dipende da come il cervello media la cognizione sociale, le relazioni interpersonali e le interazioni affettive e cognitive nei gruppi, nelle istituzioni e nei contesti sociali. Sappiamo di essere una specie relazionale e nelle relazioni costruiamo anche la nostra esperienza estetica e le domande che la accompagnano senza sosta. Che cosa ci incanta di fronte a un paesaggio? Perché ci commuove una sinfonia? Quando ci perdiamo in un quadro o nelle forme di una scultura cosa ci sta accadendo? Perché creare o affrontare l’inedito, quello che prima non c’era, ci attrae e ci fa paura allo stesso tempo? Come può un verso di una poesia risuonare dentro di noi fino al pianto? Di che cosa parliamo quando parliamo di arte e di esperienza estetica? Quando il mondo arriva dentro di noi fino al punto di ispirarci una particolare esperienza di elevazione o quando generiamo qualcosa direttamente o siamo di fronte a qualcosa che altri generano, ma anche quando siamo presi e catturati da un paesaggio, da un tramonto, da una persona o da un fiore, ci troviamo nello spazio della meraviglia, dell’oltre, del non ancora. Quello spazio è l’esperienza estetica. 

E’ in quello spazio esistenziale che ci rendiamo conto che la bellezza fa venir voglia di creare. Proprio in simili circostanze possiamo riconoscere che la creatività per noi è composizione e ricomposizione almeno in parte originale di repertori disponibili. Ed è in quel gioco tra realtà e immaginazione che sperimentiamo il valore generativo della bellezza. Sia quando riguarda un’opera, una persona o una situazione, sia quando riguarda il nostro mondo interno e l’espressione e la realizzazione di noi stessi. Creatività ed esperienza estetica intervengono nella nostra vita ed emergono nelle nostre relazioni con gli altri: possono essere più o meno riconosciute nelle situazioni lavorative e nella vita quotidiana. Tutto dipende da quanto spazio, per la libertà d’immaginazione e di innovazione nelle relazioni interne abbiamo lasciato vivere nei luoghi dell’educazione, del lavoro e della vita. La creatività, l’arte e l’innovazione sono perciò intimamente connesse. L‘ipotesi più oggi più accreditata è che la nostra sia una specie naturalmente creativa, contraddistinta da una distinzione, la tensione rinviante, che ci porta a creare costantemente i mondi che abitiamo, fino alla creatività artistica che è uno dei vertici della creatività umana. L’esperienza della creatività umana si connette, inoltre, all’innovazione sociale, intesa come un processo di condivisione della creatività, mediante l’elaborazione dei vincoli e delle possibilità del riconoscimento.

a cura di ugo morelli

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Mente e bellezzaArte, creatività e innovazione

giovedì 26 agosto 2010

Mente e bellezza di Fausta SlanziInterrogarsi sulla condizione umana è prassi che scienziati, letterati, sociologi, ed esperti di varie discipline svolgono per innumerevoli motivi e studi. Farlo per un decennio analizzando e indagando soprattutto la dimensione estetica ha portato a un risultato di “mirabile sintesi (…) che rappresenta un importante contributo alla ridefinizione della nozione di estetica e creatività” come scrive Vittorio Gallese nella postfazione di “Mente e Bellezza”. E Gallese, di studi e indagini importanti se ne intende visto che, insieme ad altri, è il neuro scienziato che ha scoperto l’esistenza dei neuroni specchio. Autore del saggio “Mente e Bellezza”, 250 pagine fitte di studi, analisi, considerazioni e riflessioni di grande interesse, è Ugo Morelli studioso e docente di Psicologia della creatività e dell’innovazione, oltreché di Psicologia del lavoro e organizzazione ed editorialista del Corriere del Trentino. Il libro edito da Allemandi, sarà nelle librerie da metà settembre ma una prima presentazione, nazionale, è in programma venerdì 27 agosto a Comano nell’ambito di “Trentino d’autore”. Morelli in questo suo ultimo lavoro “non ha paura di attraversare confini e steccati disciplinari” e, ponendo grandissima attenzione agli aspetti epistemologici (vale a dire quelli che riguardano il rapporto con se stessi come entità consapevoli di conoscere e il sapere), riesce con grande capacità a porre in dialogo la filosofia con la biologia e la psicoanalisi con le neuroscienze.Il tutto per esplorare la comunanza fra arte e scienza, per indagare quanto “le capacità degli esseri umani di esprimere atti estetici” possano essere ascritte alle facoltà naturali e come “i risultati del loro esercizio” possano far parte dei processi e dei fenomeni propri della natura. In che cosa si distingue la natura umana dalla natura normalmente intesa? La prospettiva studiata da Ugo Morelli parte da una questione fondamentale: come mai gli esseri umani sono capaci di concepire e pensare l’estetica e la conoscenza come facoltà posto che pensare e conoscere è patrimonio di tutto il mondo animale? Quale è la distinzione dell’esperienza umana? E, in riferimento alla conoscenza e all’estetica, qual è il punto di combinazione e integrazione tra scienza e filosofia? Quale meccanismo consente alla specie umana, specie che ha acquisito competenze simboliche “solo” centomila anni fa, di elevarsi interrompendo e ri-creando un legame fra il soggetto e il mondo, caratteristica propria dell’esperienza estetica? Come ha acquisito capacità di plasmare manufatti attribuendo loro un significato che naturalmente non avrebbero? L’esperienza del creare e del conoscere, ci dice Morelli, ha il suo senso più pieno nella “considerazione del reale in quanto cifra, codice” che ci rinvia ad un senso ulteriore, ad altri mondi possibili. Ma perché l’essere umano possa accedere all’esperienza della creatività ha bisogno di una tensione, di un particolare stato che Morelli chiama “tensione rinviante”, laddove l’aggettivo è inteso come movimento del preparare, del predisporre a qualcosa di altro. Ed è proprio in questa condizione che l’Homo sapiens si riconosce e diventa riconoscibile. Solo attraverso questa tensione, che è caratterizzante per la specie umana, ha origine il rapporto tra il mondo reale e il “possibile” e, solo attraverso “il possibile” la specie simbolica si distingue. Il reale è il vincolo che permette all’Homo di esprimersi oltre sé stesso, di andare lontano da sé, di esplorare il diverso da sé finché, non coincidendo più con se stesso, l’Homo sapiens diventa relazione. E proprio nel momento in cui nella relazione “ci creiamo umani”, al contempo riconosciamo “la nostra incompletezza e la nostra mancanza”. Ed è qui che la mente entra prepotentemente in gioco in quanto emerge come sistema che non risponde più soltanto a stimoli interni od esterni ma, attraverso le relazioni, seleziona e attiva strategie, compie scelte fra infinite possibilità, crea nuovi contesti e li distrugge, sempre alimentata dall’immaginazione e dalla fantasia, linfe vitali per le capacità di essere e di costruire dell’Homo sapiens. Attraverso “la tensione rinviante” -scrive Morelli - “interrompiamo la consuetudine e ci sporgiamo oltre l’esistente, alla ricerca costante del senso”. Le esperienze estetico creative analizzate nel saggio di Morelli sono: la creazione artistica, la nascita delle ipotesi scientifiche, l’innamoramento e l’amore, la genesi del sacro e la progettualità politica.Affascinato dalla bellezza e da tutto quanto genera, crea e inventa mondi possibili, Ugo Morelli chiama al suo tavolo di lavoro due fra i poeti più creativi: John Keats, a cui è riconosciuta una capacità esemplare di

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sostare nella riflessione “per riconoscersi e riconoscere il mondo che creiamo e la possibilità di continuare a crearlo” e Josif Brodskij che ha sostenuto più volte quanto sia urgente e importante scegliere fra volgarità e bellezza, in un tempo in cui è la volgarità a farla da padrona. “Per un essere umano non c’è altro futuro all’infuori di quello che l’arte promette” scrive Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987: gli studi e le analisi contenute in “Mente e Bellezza” paiono proprio condurci in questa direzione. “La bellezza - scrive Morelli - non è una questione individuale. Accanto alle relazioni educative che possono sostenere l’accesso alla creatività, decisiva è la politica per generare le condizioni che possono favorire l’affermazione della bellezza”. Sostiene Morelli che nessun campo è esente da un’educabilità della mente, meno che mai quello politico visto che, scopo della politica non dovrebbe essere “uniformare la società a un ordine preesistente” ma, attraverso una buona gestione dei conflitti creare, elaborare nuove soluzioni. E il conflitto è un elemento necessario all’evoluzione della propria esperienza in particolare dell’immaginazione e della creatività. E’ in una prospettiva di conflitto che si inserisce “l’atto estetico” che, ci dice Morelli, altro non è che “una presa di distanza conflittuale con il mondo di cui ognuno di noi è parte”. Perché l’esperienza estetica si manifesta proprio su quel crinale fra “l’esserci e il divenire” .Concepire un “io” senza un “noi” appare ormai molto superato, posto che è la relazione che ci fonda e ci permette di ridefinire l’idea di noi stessi in rapporto con la mente, il cervello e il mondo. La specie umana si cimenta con due movimenti simmetrici e difficili supportati da ricerche sempre più approfondite: il primo tende “a riportare la mente nel corpo e nel cervello sostenendo che la mente è ciò che il cervello fa (embodiment, incarnazione); il secondo “cerca di collocare la mente nella relazione con gli altri”, facendo emergere così, “un’eccedenza” evolutiva. Entrambi questi movimenti però, ci ricorda Ugo Morelli, si configurano come un vero e proprio salto evolutivo e con la ri-figurazione di cosa significa esseri umani”. La comprensione della nuova prospettiva della mente che le ricerche di ambito neuro scientifico ci impongono non è facile. Così come non è facile, per la mente umana, cambiare idea.

Mente e bellezza. Arte, creatività, innovazione,di Ugo MorelliNote critiche di Marcello Farina

Archivio Sezione Hic et Nunc

Condivido, innanzitutto, quanto scrive Vittorio Gallese nella Postfazione del libro di Ugo Morelli: si tratta di

“un lavoro di interrogazione sulla condizione umana e sulla dimensione estetica, svolto con curiosità,

entusiasmo, amore e passione…”,

anche se mi permetterei di dire che tra “condizione umana” e “dimensione estetica” non c’è separazione o

scansione temporale (un prima e un dopo), ma identificazione, contemporaneità di presenza…

E’ anche vero che in questo lavoro si attraversano “confini e steccati disciplinari, riuscendo così a far

dialogare tra loro filosofia e biologia, psicanalisi e neuroscienze, con una grandissima attenzione agli aspetti

epistemologici” (ad es. con grande attenzione per il linguaggio, che ciascuno di noi è.)

E’ anche da sottolineare il fatto che questa opera “è un importante contributo alla ridefinizione della nozione

di estetica e di creatività”, che non è soltanto un tratto parziale, anche se decisivo dell’esperienza umana, ma

la sua caratteristica esistenziale onniabbracciante, come direbbe Karl Jaspers.

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Nello stesso tempo, però, questo testo di Ugo Morelli porta con sé alcuni connotati di autentica originalità

che esprimerei in questo modo:

il superamento del “dualismo” ontologico ed esistenziale.

Con un’immagine direi: è finita l’epoca di Platone, è finito il Platonismo! Non è un’affermazione neutrale, se

pensiamo quanto l’occidente (e il cristianesimo abbiamo “usato” Platone!

A suo modo Ugo Morelli coglie uno dei passaggi più importanti della tempera culturale del nostro tempo,

quello che rivaluta il corpo e lo fa compagno essenziale dell’anima.

l’affidamento all’estetica del compito marxianamente di cambiare il mondo, non solo di interpretarlo (la sensibilità contemporanea);

la contestazione della ragione calcolante della modernità, attraverso la messa in evidenza di un

nuovo rapporto tra certezza e verità, così come è “vissuto” nella post-modernità. Anche in questo

ambito Ugo Morelli raccoglie ed esplicita un pensiero che alcuni grandi autori della contemporaneità

come Maria Zambrano hanno saputo far nascere;

ma forse, a parer mio, l’aspetto più originale, (mi si permetta di dire: ‘rivoluzionario’) della riflessione

di Ugo Morelli è la scelta, senza tentennamenti, giustificata ad ogni passaggio con grande onestà

intellettuale, del “paradigma evolutivo”, darwiniano, per spiegare il divenire dell’uomo, della

condizione umana, che trova la sua espressione in una delle parole più importanti, decisive, di tutto il

testo, cioè la “tensione rinviante”.

E’ la “tensione rinviante” che rappresenta, come scrive ancora Vittorio Gallese “un momento di

sospensione, lo scarto tra attualità e potenzialità, che innesta la possibilità di divenire ciò che si è (Maria

Zambrano direbbe: “l’andare nascendo”) e consente di concepire il mondo come un’infinita serie di possibilità

che rinviano ad altre possibilità”.

Ugo Morelli descrive tutto questo con immagini di grande suggestione: è la “tensione rinviante” cha apre

al liminale

all’ineluttabile

all’inaudito

all’eccedente

all’universale

coinvolgendo tutta la ricerca umana: l’arte, la scienza, l’amore, il sacro, la politica…

Così, sullo sfondo, cioè se si è capaci di raccogliere il vero “udito” di questo testo, compare una

consapevolezza a mio parere straordinaria, detta con umiltà, senza protervia o enfasi esagerata e che è,

insieme, un punto di arrivo e di partenza della nostra epoca e della cultura che la rappresenta: la

consapevolezza della conquistata “autonomia” dell’umano, della sua dignità, della sua libertà, che non ha

bisogno di riconoscimenti eteronomi, fossero anche interpretati dalla ragione 1.

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Dall’”unità” che la stessa natura umana porta con sé di corporalità e di spiritualità si dilata, per un progetto

che le appartiene, quella disponibilità alla relazione (il “noi vene sempre prima dell’io”) che consente

agli esseri umani di stare al mondo, con la capacità di rinviare continuamente all’inedito che si traduce in

esperienza estetica e creatività. In questo contesto Ugo Morelli affida, infatti, alle arti, il ruolo positivo di

essere il luogo in cui immaginiamo con maggior efficacia nuovi, necessari mondi possibili.

“Ci sono occhi che vanno a fondo delle cose”, egli ci ripete con Paul Celan (p. 37). Noi siamo le relazioni

che viviamo e diventiamo le esperienze che facciamo (p. 41). Per questo noi tendiamo a non coincidere con

noi stessi e con quello che c’è già: proprio la bellezza riguarda la possibilità e la capacità di “vagare” (la

vaghezza) alla continua ricerca di sé ed è il contrario della vanificazione della propria presenza nel mondo”.

Solo creare quello che ancora non c’è merita la fatica di vivere, pur nel peso del tempo finito.

Ugo Morelli mette in guardia, in questo contesto, anche dal “conformismo” e dalla“saturazione”. Sono

pagine intense quelle in cui si esprime la convinzione che ancora una voltaè l’arte la realtà che ci insegna

a non ubbidire!

Un compito anche qui ci aspetta con urgenza: quello di lenire le ferite dello spirito di chi ricerca una

conoscenza adeguata all’oggi. Esse sono quattro:

la prima ferita è la lacerante divisione, ovviamente artefatta, tra scienze della natura e scienze dello

spirito (da Dilthey a Gadamer-Ricoeur);

la seconda ferita deriva dalla visione rigorosamente riduzionistica del mondo perpetrata troppo a

lungo dalla scienza (l’eredità positivistica in senso stretto…);

la terza ferita è nel fatto che a scienziati e umanisti, agnostici e atei, o semplicemente laici, è stato

insegnato che la spiritualità è sciocca o, quanto meno, discutibile (come se non esistesse una

spiritualità del tutto umana?);

la quarta ferita, la più dolorosa, è che tutti quanti – laici e credenti – manchiamo di un’etica globale!

In questo senso, ma non solo, la nostra è un’epoca dell’emergenza.

Di qui un richiamo che personalmente considero una delle perle di questo testo a nuove modalità di

pensiero, così espresse:

dal finalismo al riconoscimento dell’evoluzione;

dalla realtà fissa alla realtà continuamente creata;

dalla razionalità olimpica alla razionalità incorporata;

(dai modi di pensare idealistici ai modi di pensare post darwiniani…)

E’ l’imperfezione la nostra grandezza! (p. 70) Perché quello che siamo non ci basta mai? Ecco l’arte:

l’immanenza dell’infinità nel finito! (p. 131), sempre “sull’orlo del possibile” (p. 138). Ancora: l’essere umano è

un animale plastico e “mancante” o “in ritardo” (p. 153). Eppure “quando ci sembra impossibile fare

diversamente, abbiamo la maggior necessità di innovare” (p. 198). Anche la democrazia è una

“conversazione infinita” (p. 199).

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In questo contesto Ugo Morelli ritiene possibile una “nuova alleanza” tra scienza e filosofia. Il primo a

renderla possibile credo sia stato proprio lui con questa sua opera!

1 Per usare un’immagine di una grande teologo del Novecento, D. Bonbasser, è l’uomo diventato adulto,

che può essere “etsi deus non dare tuo”

Mente e esperienza estetica

Di Ugo Morelli.

Archivio Sezione Hic et Nunc

L’arte e l’esperienza estetica rappresentano un terreno di prova

particolarmente valido non solo per comprendere alcuni degli aspetti più

distintivi e caratteristici degli esseri umani, ma anche per cercare le vie

attraverso le quali possiamo affrontare le esigenze di innovazione e

cambiamento che il mondo in cui viviamo ci pone innanzi. È il valore

generativo della bellezza che ci interessa analizzare, se intendiamo la

bellezza come quell’esperienza che emerge, allo stesso tempo, dentro noi

e nelle relazionali con gli altri e il mondo. Si tratta di percorrere un

cammino alla ricerca del senso e dei significati della bellezza

nell’esperienza umana, riconoscendo che ci troviamo, con ogni probabilità,

di fronte ad uno dei tratti distintivi della specie, una delle dimensioni

peculiari mediante la quale ogni individuo della specie diventa se stesso.

Prendendo il via dall’ipotesi che la bellezza possa essere, alfine, intesa

come un sentimento particolarmente compiuto di risonanza incarnata che

confermi o estenda il modello neurofenomenologico del sé, possiamo

comprendere come essa emerge, si presenta e la sentiamo, con un doppio processo, interno e esterno. Di

fronte a L’homme qui marche di Alberto Giacometti o a Him di Maurizio Cattelan il mondo interno di chi

giarda è pervaso dal gesto e dall’opera dell’artista, in una risonanza indicibile. La stessa dinamica corporeo-

psichica può generare esperienze del terrore e dell’orrore se quelle esperienze minacciano o pregiudicano il

modo di sentirsi nella vita e nel mondo. L’arousal o attivazione è, probabilmente, alla base della tensione

rinviante all’esperienza di bellezza e decisivo è studiare le soglie dalla cui elaborazione dipende

l’accessibilità alla bellezza. Il Quadrato nero su sfondo nero di Kazimir Malevic propone l’infinito in una

distinzione al limite del possibile. L’ipotesi più accreditata con cui l’esperienza estetica viene analizzata,

utilizzando in particolare gli approcci delle neuroscienze cognitive e della fenomenologia, è che l’accessibilità

alla bellezza, intesa come espressione sufficientemente buona del proprio mondo interno nella relazione con

gli altri e il mondo, sia possibile e difficile allo stesso tempo, perché la bellezza è ambigua e accedervi esalta

il suo contrario, non lo supera ed elimina. Più s’intensifica la luce, più aumenta la sua separazione

dall’ombra; i margini divengono confini e, perciò, più difficili da attraversare. Più alta è l’esperienza di

bellezza che si para innanzi, più sembrano ridursi le possibilità e lo spazio del significato e del linguaggio per

accedere all’espansione interna richiesta: quell’accesso esige un’apertura all’immediatezza dell’indicibile e

allo stesso tempo riduce la resilienza degli equilibri e degli ordini di senso esistenti, esaltando il valore

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rassicurante di questi ultimi. È forse in questa dinamica che si situa uno dei principali ostacoli alla creatività e

all’innovazione. Eppure l’arte ci mostra costantemente e in modo infinito che la generazione dell’inedito,

quello che ancora non c’è, non solo è concepibile e possibile, ma effettiva e concreta. Anche la serialità

sfidata sul suo stesso terreno da Andy Warhol non degrada mai nella ripetizione.

Se si considerano gli ultimi dieci anni di ricerca nel campo delle scienze cognitive e della psicologia della

creatività e dell’innovazione, con un assiduo dialogo con i risultati delle ricerche neuroscientifiche applicate

all’esperienza relazionale umana e all’esperienza estetica, è possibile accedere ad una visione meno

mentalista ed idealista della creatività umana. Basti pensare alla starordinaria connessione che si ravvisa tra

i segni paleolitici di Lascaux e i tratti elementari e originari di Basquiat. A partire da un’attenzione al tempo

profondo dell’evoluzione, rispetto al quale, in epoche recentissime, abbiamo cominciato a creare segni per

un altro, mostrando di sentire quello che l’altro sente, noi possiamo ora riconoscere di aver elaborato la

nostra distinzione biologico-evolutiva verso una fenomenologia in cui l’immaginazione e la creatività hanno

un ruolo costitutivo e generativo. Non nella ricognizione e rappresentazione del reale consiste l’esperienza

del creare e del conoscere, ma nella considerazione della realtà in quanto cifra, codice rinviante all’ulteriorità

del senso, a cui l’incompiutezza di ogni esperienza e la mancanza rimandano, proponendo già l’oltre e il

possibile, come nell’insondabile magnetismo di alcune opere di Anish Kapoor. Quella mancanza propria di

noi esseri che nasciamo neotenici, incompleti e incompiuti, e che all’incompiutezza dobbiamo lo spazio del

possibile divenire e della capacità di creare mondi con l’immaginazione e la creatività. Le opere fotografiche

della serieSite Specific di Olivo barbieri rispondono alla tensione tra l’infinitamente piccolo, un punto di fuoco,

e l’infinitamente grande. Nella rottura di ogni orizzonte in cui potrebbe concludersi, sta sia il compimento

della chiarezza razionale del conoscere, che la sua generativa incompletezza creativa che rinvia al “non

ancora”. Fra tendenza alla semplificazione e tensione rinviante, si generano la creatività e la conoscenza,

che sono possibili per la nostra continuità evolutiva originaria e le nostre caratteristiche emergenti,

neurofenomelogicamente distintive. Il costante riferimento al cervello nell’opera di Jan Fabre pare proprio

dialogare con questo fondamento naturale della nostra creatività. Del resto ognuno di noi si chiede come

crea quotidianamente la propria vita e oggi sappiamo che ciò dipende da come il cervello media la

cognizione sociale, le relazioni interpersonali e le interazioni affettive e cognitive nei gruppi, nelle istituzioni e

nei contesti sociali. Sappiamo di essere una specie relazionale e nelle relazioni costruiamo anche la nostra

esperienza estetica e le domande che la accompagnano senza sosta. Che cosa ci incanta di fronte a un

paesaggio? Perché ci commuove una sinfonia? Quando ci perdiamo in un quadro o nelle forme di una

scultura cosa ci sta accadendo? Perché creare o affrontare l’inedito, quello che prima non c’era, ci attrae e ci

fa paura allo stesso tempo? Come può un verso di una poesia risuonare dentro di noi fino al pianto? Di che

cosa parliamo quando parliamo di arte e di esperienza estetica? Quando il mondo arriva dentro di noi fino al

punto di ispirarci una particolare esperienza di elevazione o quando generiamo qualcosa direttamente o

siamo di fronte a qualcosa che altri generano, ma anche quando siamo presi e catturati da un paesaggio, da

un tramonto, da una persona o da un fiore, ci troviamo nello spazio della meraviglia, dell’oltre, del non

ancora. Quello spazio è l’esperienza estetica. E’ in quello spazio esistenziale che ci rendiamo conto che la

bellezza fa venir voglia di creare. Proprio in simili circostanze possiamo riconoscere che la creatività per noi

è composizione e ricomposizione almeno in parte originale di repertori disponibili. Ed è in quel gioco tra

realtà e immaginazione che sperimentiamo il valore generativo della bellezza. Sia quando riguarda un’opera,

una persona o una situazione, sia quando riguarda il nostro mondo interno e l’espressione e la realizzazione

di noi stessi. Creatività ed esperienza estetica intervengono nella nostra vita ed emergono nelle nostre

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relazioni con gli altri: possono essere più o meno riconosciute nelle situazioni lavorative e nella vita

quotidiana. Tutto dipende da quanto spazio, per la libertà d’immaginazione e di innovazione nelle relazioni

interne abbiamo lasciato vivere nei luoghi dell’educazione, del lavoro e della vita. Tutto il lavoro, tra design e

arte, di Ettore Sottsass, ad esempio, lo testimonia. La creatività, l’arte e l’innovazione sono perciò

intimamente connesse. L‘ipotesi oggi più accreditata è che la nostra sia una specie naturalmente creativa,

contraddistinta da una distinzione, la tensione rinviante, che ci porta a creare costantemente i mondi che

abitiamo, fino alla creatività artistica che è uno dei vertici della creatività umana. L’esperienza della creatività

umana si connette, inoltre, all’innovazione sociale, intesa come un processo di condivisione della creatività,

mediante l’elaborazione dei vincoli e delle possibilità del riconoscimento.

La mente estetica facoltà complessa per capire il belloGIOVEDÌ 28 APRILE 2011 09:35 EMANUELA RAVETTA RUINI

Intervista a Giuseppe Polipo, medico, psicoterapeuta, esperto e consulente in medicina estetica,

direttore scientifico della scuola Beauty Source Academy di Lugano – Autore di una ricerca sui

nuovi valori culturali che costituiscono il "bello"

Cos’è la mente estetica? 

È un nuovo modo di sentire la bellezza, che passa da un piano visivo a un più ampio quadro sensoriale ed

emozionale. Mai come adesso il culto del fisico e i riti e i miti dell’apparenza hanno avuto un impatto sociale così

rilevante, relegando la psiche a un ruolo secondario e accessorio.La mente estetica è invece una mente capace

di portare  l’esperienza del bello da una considerazione di meri elementi armonici e proporzionati a una 

consapevolezza profonda e vivificante. In questa nuova percezione l’essere umano fa i conti non solo con   il

superficiale o il gradevole, ma con una  “bellezza abitata”, dove entrano in gioco le idee, le esperienze, il

vissuto. La Bellezza, dunque, per una mente estetica non solo si vede ma si “sente”. 

Perché il nostro cervello apprezza la bellezza?

Per secoli il Bello è stato considerato il trionfo delle proporzioni e dell’armonia delle parti: con il relativismo

moderno invece, ha cominciato a risiedere nell’occhio di chi guarda. Nel libro cerco di dimostrare come il Bello

stia nella relazione tra chi lo percepisce e il soggetto o l’oggetto  percepito. Se l’estetica risiedesse solo

nell’occhio o nella mente di chi osserva, sarebbe inevitabilmente ridotta a mero soggettivismo; se risiedesse in

ciò che è ritenuto oggettivamente estetico non coinvolgerebbe il mondo emozionale e inconscio di chi “sente” la

bellezza. Il punto di incontro, a mio giudizio, sta dunque nel mezzo, in quell’incontro intuitivo e in quella speciale

risonanza tra oggetto e soggetto estetico. Quello che percepiamo attraverso i sensi (forme, colori, rumori,

sapori, odori, sensazioni tattili) viene sempre filtrato e  interpretato dalla nostra mente e l’esperienza estetica è

un’esperienza soprattutto emozionale. Il valore nella percezione della bellezza è dato dalla qualità e dalla

profondità dell’esperienza emozionale che riesce a suscitare. La maggior parte della nostra attività cerebrale

tende ad affrontare l’esperienza quotidiana generando divisioni, classificazioni, razionalizzazioni mentre una

mente estetica tende sempre a conciliare sentimenti, emozioni e ragioni.

Da dove scaturiscono la percezione della bellezza e del benessere? 

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Sino a una ventina di anni fa termini come mente, emozione, coscienza erano ritenuti interpretazioni soggettive

e per questo trattati come concetti estranei alla scienza. Oggi sappiamo che i sistemi psichico, nervoso,

endocrino e immunologico sono uniti e, attraverso un codice comune, permettono la percezione di una realtà

organizzata e coerente. 

C’è bisogno di un’estetica della mente capace di fare risaltare l’importanza del vissuto e della

percezione individuale?

Occorre educare la mente a trovare quella misura psicologica in cui fascino e personalità si fondono, al servizio

di una bellezza consapevole e sostenibile. Il concetto di bellezza crea un sodalizio con quello di benessere e

diventa “Bellessere, bellezza che non riempie solo occhi ma guida verso una piena espressione psicofisica”.

In questa società sempre più frenetica non crede che la scoperta del Bellessere richieda un tempo

che non c’è?

Il benessere non può essere legato solo al tempo, perché nella dimensione della fretta è possibile vivere al

massimo solo la breve e fugace esperienza del “piacevole”.  Nella fretta inoltre manca quel sussulto dell’anima, 

quel  lampo che solo la bellezza autentica sa generare,  quando le si lascia il tempo necessario per incidere nella

nostra vita in modo profondo e significativo. La presenza piacevole che non accende la psiche rischia di ridursi a

mera valutazione di un contenitore fisico, che in breve tempo non lascia alcuna traccia nell’anima. 

Perché scrivere di Estetica? Non è un argomento un po’ inflazionato?

Ciò che è veramente inflazionata è la bellezza considerata come mera apparenza e culto dell’esteriorità che non

sta portando la felicità e il  benessere promessi. Lo si vede nell’aumento enorme dei disturbi legati

all’impossibilità di adeguarsi a un ideale corporeo irraggiungibile, al disagio psichico e fisico. Le aberrazioni a cui

assistiamo oggi, con adolescenti e giovani donne che ricorrono al chirurgo plastico, denotano proprio la paura di

una cultura emozionale vitale,  e l’adesione a canoni e omologazioni che poco hanno a che vedere con il

benessere.  

Cosa unisce una canzone dei Beatles al calendario di una pin-up? La teoria della relatività ad un’opera di Stravinskij?Dai neuroni specchio alle proporzioni del Partenone, dalla psiconeuroendocrinoimmunologia alla medicina estetica e alla meditazione, questo libro traccia un percorso multidisciplinare alla ricerca della fonte da cui scaturiscono la percezione della bellezza e il benessere.

Tutti pensiamo di sapere che cosa sia un corpo o un viso “bello”. I risultati forniti dalla ricerca scientifica suggeriscono però che il giudizio estetico non possa essere considerato un processo semplice. Questo spiega perché finora non è stato possibile definire e classificare la bellezza in modo univoco. Sino a una ventina di anni fa termini come mente, emozione, coscienza, erano ritenuti interpretazioni soggettive e per questo trattati come concetti estranei alla scienza. Gli studi sullamente erano visti con sospetto e il corpo materiale è stato così per secoli l’unica realtà degna di studio.Oggi sappiamo che il sistema psichico, nervoso, endocrino e immunologico sono uniti in un unico network che permette, attraverso un codice comune, la percezione di una realtà organizzata e coerente. Il modello cartesiano, secondo il quale l’uomo è una macchina biologica, è stato scardinato e nuove discipline come la P.N.E.I. stanno trasformando radicalmente il modo di concepire il funzionamento del cervello. Sono state scoperte molecole (neuropeptidi) che trasmettono non solo segnali chimici emetabolici, ma anche e soprattutto messaggi psicofisici che armonizzano pensiero, coscienza ed emozioni, allo scopo di adattare l’organismo all’ambiente che ci circonda. Il modello di un cervello on-off, attivabile come un elettrodomestico, si è rivelato sbagliato ed è stato soppiantato da quello più complesso della neuromodulazione che ammette diversi livelli di attivazione nella comunicazione tra le cellule nervose.Emozioni e sentimenti, anche quelli più sfumati e complessi, sono possibili e diventano coscienti per l’intervento di specifici messaggeri chimici che sono stati rinvenuti in ogni parte dell’organismo e non solo nel sistema nervoso.Questo significa che tutto il corpo “pensa” e contribuisce a elaborare strategie per il benessere globale dell’organismo.Qualunque fenomeno biologico è dunque psicofisico e l’essere umano può finalmente essere visto, più realisticamente, come un flusso di energia e informazioni le cui leggi sono ancora in gran parte da scoprire.

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Da queste valutazioni nasce l’idea di affermare la necessità di una percezione estetica riferita a un nuovo paradigma del “bell’essere” psichico: se l’estetica del corpo, resa sempre più evoluta dal progresso tecnologico, non tenesse in alcun conto della necessità di una mente altrettanto orientata al bello, il culto dell’apparenza fisica potrebbe paradossalmente essere fonte di squilibrio, insoddisfazione e sofferenza. Sotto i riflettori del miraggio dell’eterna giovinezza e di fronte ad un corpo sempre più standard e protesico, c’è bisogno di affiancare un’estetica della mente capace di fare risaltare l’importanza del vissuto e della percezione individuale. Lottare contro il tempo con le moderne terapie anti-età può rivelarsi inutile e frustrante, se non si educa la mente a trovare quella misura psicologica in cui fascino e personalità si fondono al servizio di una bellezza consapevole, raggiungibile e sostenibile.

NOTIZIE

L’esperienza estetica è come un fuoco che connette le menti e il mondo. Jan Fabre a Venezia

«Un fuoco che passa da un autore a un altro, un fuoco inalterato che avvolge una volta

un’opera, una volta un’altra opera». Così ha risposto Jan Fabre a Chiara Casarin che gli

chiedeva cosa fosse per lui l’autenticità. L’emozione estetica ci raggiunge e in noi

risuona, grazie alla risonanza incarnata che fa di noi degli esseri naturalmente relazionali.

Se quella risonanza ci pone innanzi alla nostra condizione e ai compiti del presente, la

nostra auto elevazione semantica può tradursi in emancipazione e noi possiamo avere

l’opportunità di riconoscere ancor più la vita come un progetto e un’invenzione. In

quanto «solo i grandi artisti, che arrivano a rappresentare la follia del mondo, possono

aiutare il mondo a difendersi dalla sua stessa follia», come scrive Antonio Tabucchi

in Racconti con figure (Sellerio editore, Palermo 2011; p. 352).

L’esperienza estetica è un’esperienza sociale e pare proprio che per emergere siano

necessarie quattro componenti: l’artista creatore, l’opera o artefatto, un osservatore e un

altro a cui l’osservatore narra il proprio sentimento dell’emozione vissuta osservando

l’opera. Cosicchè l’arte e l’esperienza estetica connettono le menti e il mondo. Da quella

connessione emergono la costituzione e le discontinuità del senso della vita e del mondo.

L’arte può divenire la via mediante la quale riconosciamo il mondo come mai prima

l’avevamo riconosciuto. In tal senso è la fonte della vita. Un esempio evidente è il

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paesaggio. Senza le descrizioni poetiche di Petrarca e le rappresentazioni pittoriche di

Lorenzetti, tra gli altri, non sono concepibili i codici narrativi che ci siamo dati per

raccontare il paesaggio e le emozioni estetiche che ci suscita, come ho provato a

evidenziare in «Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità», (Bollati Boringhieri, Torino

2011). L’impasto coevolutivo tra atto creativo-estetico e mondo è poietico: letteralmente

fa il mondo. Giacinto Di Pietrantonio, che ha curato la mostra di Jan Fabre a Venezia

insieme a Katerina Koskina, sostiene da sempre che tutta l’arte è contemporanea. Lo

sguardo di ogni osservatore o ascoltatore ri-crea l’opera. La ricrea con l’emozione estetica

di una mente incarnata (embodied), situata (embedded) ed estesa (extended). Altro

sguardo non ci è dato che il nostro, quello che emerge nelle nostre relazioni situate nel

breve tempo storico della nostra vita.

Con quello sguardo e da quel vertice siamo impegnati nella conquista dell’abbondanza del

mondo, per dirla con Paul Karl Feyerabend (La conquista dell’abbondanza, Raffaello

Cortina Editore, Milano 1994). Una conquista che è fatta di selezione, di riconoscimento e

rientro, secondo la lettura della materia della mente fatta da Gerald M. Edelman (Sulla

materia della mente, Adelphi, Milano 1995).

Quello sguardo è storicamente situato e ri-crea il mondo osservandolo: «ieri sarà quel che

domani è stato», scrive il Gunter Grass di Das Treffen in Telgte, (Luchterhand, 1979).

L’arte è contemporanea perché a viverla sono i contemporanei che esistono qui e ora, e

ciò vale per le pitture parietali rupestri di Lascaux e per le sculture di Jan Fabre. È

contemporanea, l’arte, anche in un altro senso: in quanto ci permette di accedere,

mediante break-down, provvisorie e illuminanti interruzioni dei domini di senso, alla

profondità del nostro tempo, di quel tempo che ci vede nella maggior parte dei casi

appartenenti taciti, quando non conformisti, indifferenti o saturi. Il conflitto fra la consegna

rassicurante alla consuetudine e la tensione ad andare oltre, la tensione rinviante

all’inedito, a ciò che prima non c’era, ci distingue evolutivamente come esseri umani,

come ho cercato di mostrare in «Mente e bellezza. Arte, creatività e

innovazione» (Umberto Allemandi & C, Torino 2010).

E’ la transitabilità, probabilmente, uno dei fattori maggiormente caratterizzanti

l’esperienza estetica. Una transitabilità si dà tra mondo e soggetto quando il mondo

penetra un autore raggiungendolo in modo ineluttabile, al punto che egli non può non

creare l’opera che di fatto crea. C’è transitabilità tra autore e osservatore, tra l’artista e il

suo pubblico, in modo che l’osservatrice e l’osservatore di fatto e a loro modo,

ripercorrono in una certa misura la via creativa dell’artista, mentre risuonano in loro,

rispecchiandosi, le emozioni e i sentimenti dell’artista. La transitabilità si manifesta anche

tra generi artistici, come ha riconosciuto Vladimir Jankélévitch, parlando della potenza

Page 24: sulle neuroscienze

della transitabilità dell’arte.

Il filosofo francese si riferiva in particolare al linguaggio di un’arte che transita verso il

linguaggio di un’altra arte, occupandosi del rapporto tra letteratura e musica. E’ facile

constatare come ciò valga per tutte le arti. Un’ulteriore forma di transitabilità riguarda

l’arte nel tempo e la persistenza e la durata degli stili espressivi, ma anche la

trasformazione delle opere attraverso la loro re-interpretazione e attualizzazione. In

entrambi i casi, sia nel rapporto tra arti differenti che nelle trasformazioni e re-

interpretazioni di opere nel tempo, l’aspetto più interessante riguarda la relativizzazione

della paternità, che certamente persiste, ma convive con una inedita originalità. Basti

pensare al rapporto tra Caravaggio e Bill Viola, o a quello tra Michelangelo e Jan Fabre.

Ulteriori prove che l’arte e il terrore ci avvicinano, più di altre esperienze, all’esistenza; ad

una esistenza in cui si possa vivere una connessione sufficientemente buona tra mondo

interno e mondo esterno, che in fondo è una modulazione attuale e possibile della

bellezza.

Merciful dream di Jan Fabre, a Venezia, opera una rivoluzione del classico imponendo una

inevitabilità a noi contemporanei, come l’arte deve fare. Non possiamo, di fronte all’opera

di Jan Fabre, evitare di vivere le trasformazioni della pietà, nel nostro tempo. Come Herta

Muller non può evitare di confrontarsi con la propria bestia nel cuore e con l’arte della

narrazione ci mostra come non farlo, in modo che la letteratura divenga non solo un modo

per raccontare il mondo, ma anche la via per resistere all’annientamento e cercare ancora

una volta di far vincere la vita, allo stesso modo Jan Fabre ci pone innanzi l’inevitabilità del

presente. Bill Viola, per una via affine, connettendo Caravaggio in una sintesi tra memoria

e avvenire, è riuscito a mostrare l’intimità del presente e della sua attuale inevitabilità, ma

anche della sua possibile trasformazione. Trattando il tema liminale della morte, di fatto

Fabre innalza un’ode alla vita. Persino la solennità dei materiali e della forma espositiva,

come per Viola la dimensione sublime della tecnica, sono parte integrante della poetica

del presente che l’arte, con queste sue espressioni, ci restituisce.

Chiara Casarin scrive che durante il percorso fra le sculture, Fabre racconta del suo

incontro con lo scienziato Giacomo Rizzolatti, richiamando la sincronia, a livello cerebrale,

tra azione e osservazione. Quella sincronia fa dell’esperienza estetica un’esperienza

incarnata, come evidenzia Vittorio Gallese, che con Rizzolatti e altri colleghi ha scoperto i

neuroni specchio, nella Post-fazione al mio libro «Mente e bellezza. Arte, creatività e

innovazione», citato prima. L’artista ci mette nelle condizioni di poter provare il dolore che

egli ha sentito ed espresso creando l’opera, mentre osserviamo la morte nel teschio di

Maria. Mettendo in connessione emozioni, corpo e sentimento, la finzione, intesa come

capacità di immaginare e creare mondi, non solo ci distingue e ci fa umani, ma si propone

come la fonte per sentire e divenire noi stessi, o per emanciparci e ricrearci in modi inediti

Page 25: sulle neuroscienze

mentre creiamo i mondi di cui siamo parte. Fernando Pessoa sentiva, forse, qualcosa di

simile quando scriveva: «Il poeta è un fingitore, perché finge di sentire veramente il dolore

che davvero sente».

❑ Ugo Morelli è psicologo del lavoro e dell'organizzazione, della creatività e

dell'innovazione. Tra i fondatori di tsm-Trentino School of Management, con Allemandi ha

pubblicato «Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione» (2010).

Mente e Paesaggio. Una teoria della vivibilità

Pubblicazioni

È in libreria e nei bookshop della rete l'ultimo libro di Ugo Morelli "Mente e Paesaggio. Una teoria

della vivibilità", Bollati Boringhieri, Torino 2011.

Il paesaggio è per i luoghi ciò che la parola diventa quando entra in una

storia.

Ognuno di noi ha un paesaggio nella mente e nel cuore. Un luogo

dell’anima a cui è legato per origine o per scelta. O per tutte e due le

cose. Che cosa ci incanta del paesaggio? Quali sono le ragioni che lo

fanno somigliare a un’opera d’arte creata per noi dalla natura? Un luogo

di elezione che assume a volte il timbro di una sinfonia e ci consegna il

conforto di un calore quasi materno? Se si approfondiscono questi temi,

come si fa in questo libro usando, tra l’altro, le vie delle scienze

cognitive, il paesaggio diviene spazio di vita che connette il mondo

esterno con il nostro mondo interno. Il paesaggio è sia dentro che fuori di

noi e, mentre lo creiamo con la nostra immaginazione, a sua volta

influenza i nostri stati d’animo, la qualità della nostra vita e la vivibilità

nostra e della nostra specie. Ora che la nostra specie rischia la propria

vivibilità sul pianeta terra, il paesaggio da sfondo assume una centralità

che è figlia della malinconia e di un senso di perdita e che richiede un profondo cambiamento di idee e di

comportamenti.

I volti dei propri cari e il paesaggio attorno sono le prime immagini del mondo per chi viene alla vita. In

entrambi i casi si tratta di un’originarietà affettiva, che segnerà nel profondo, generando infinite risonanze.

Alcune le conserva l’espressione «luogo del cuore», con cui si allude a un vincolo - tra quell’individuo e quel

paesaggio - di intensità paragonabile a un rapporto d’amore. Di emozioni vitali, ma soprattutto della mente

relazionale che le elabora, parla questo saggio di Ugo Morelli, e lo fa con un timbro e da un’angolazione del

tutto inediti. Etica, politica, scienze cognitive, estetica vi confluiscono con sapiente levità e delineano un

percorso dai mille, illuminanti, sconfinamenti, privo di recinzioni disciplinari. Il dentro e il fuori sono infatti la

cifra stessa del paesaggio: il luogo non è un contorno o uno scenario inerte, e neppure il puro correlato

Page 26: sulle neuroscienze

naturale di uno stato d’animo, ma deriva sempre da un costrutto, da qualcosa che prende forma mentale e

ridisegna insieme la terra e la nostra presenza su di essa. Ed è proprio la fondamentale coappartenenza di

uomo e paesaggio a dettare uno dei precetti meno eludibili dei nostri tempi, ossia la responsabilità nei

confronti dei luoghi.

"Decisivo è fare un esame di realtà chiedendosi

cosa ostacola il raggiungimento della pienezza

della nostra seconda vita.

È a questo livello, infatti, che interviene, spesso,

la fallacia della nostra percezione nel ritenere fissa

la natura apparente degli ordini istituiti,

che tendono perciò a presentarsi come immodificabili e ineluttabili.

Il riconoscimento di quella fallacia può aprire

varchi alla creatività, a patto di elaborare

il conflitto che interviene tra forza dell’abitudine,

dipendenza dal passato e capacità creative distintive

di noi esseri umani. Si tratta di cercare di accedere

alla riflessione sulla nostra condizione,

di pensare effettivamente, di pensare davvero."

Viviamo sulla soglia

Abitiamo menti relazionali

È abitando le menti altrui che diveniamo noi stessi.

La storia di ogni bambino comincia da un ri-conoscimento

La storia dell’umanità comincia dal riconoscimento dell’altro (D. Abulafia)

È provando a immaginare di essere qualcun altro che ci riconosciamo.

Conoscersi è ri-conoscersi

L’altro è la fonte della nostra possibilità

Cambiare idea

Vincoli e possibilità di cambiare idea. Il dramma di esistere e di cambiare idea.

Possiamo avere un’idea e cambiare idea perché siamo animali simbolici.

Tensione rinviante e creatività

Vivibilità

Contro la natura

Con la natura

Siamo parte del tutto e situati. Ferita narcisistica.

Terra Aria, di Giovanni Sollima

Prima possibilità

La mente è plastica, incarnata, situata ed estesa

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Risonanza incarnata e molteplicità condivisa

Siamo infanti simbolici di fronte alla prima possibilità.

Siamo una specie creativa.

Seconda vita

Diventiamo umani tante volte……..

Per nascere son nato

Confesso che ho vissuto

Ri-figurarsi

Mindfullness and beauty

L’arte spinge verso la possibilità di abitare le menti altrui e il mondo.

Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilitàdi Vittoria AzzaritaRubrica: LibriParole chiave: paesaggio, sviluppo sostenibileUn rapporto non semplice da definire, costituito da numerosi punti di luce e ombra, lega l’uomo al paesaggio. Entità al contempo astratta e concreta, il paesaggio rappresenta lo spazio fisico e mentale con il quale gli individui sono chiamati a confrontarsi e a interagire durante l’intero arco della loro vita, dalla nascita alla morte. Ma affinché tale relazione sia nuovamente possibile è necessario che la mente umana ri-acquisti la sua capacità di pensare il paesaggio e con essa la consapevolezza dei limiti umani e delle conseguenze delle nostre azioni. E’ quanto traspare dal volume “Mente e Paesaggio” di Ugo Morelli, presidente del Comitato scientifico della Scuola per il governo del territorio e del paesaggio presso la Trentino School of Management.Scorrendo le pagine del libro, appare chiaro come gli uomini, abituati a considerare la natura una forza ostile da combattere e sopraffare pur di garantire la sopravvivenza della specie, abbiano preferito adottare una posizione di superiorità rispetto all’ambiente circostante, in nome della quale hanno creduto di poter sfruttare la totalità delle risorse naturali a loro disposizione, ignari

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dell’insensatezza di un simile comportamento.La percezione dei propri limiti più che fungere da argine – e contenere, quindi, l’istinto alla distruzione e all’auto-distruzione che ci caratterizza -, ha svolto il ruolo opposto trasformando gli uomini in esseri sopra le parti che hanno smesso di riconoscersi come parte del tutto. L’uso indiscriminato del paesaggio ha portato alla gravità della situazione attuale, testimoniata da cifre e dati che identificano proprio la nostra presenza come il principale nemico dell’ecosistema di cui facciamo parte. Ammaliati dall’idea di potenza e stregati da un sistema economico e sociale fondato sull’equivalenza tra produzione e ricchezza, gli abitanti dei cosiddetti paesi del Primo Mondo – circa un miliardo di persone – fanno registrare un tasso di consumo 32 volte superiore rispetto ai cinque miliardi e mezzo di individui che popolano il resto della Terra. Ciò significa che se tutta la popolazione del nostro pianeta raggiungesse gli stessi livelli di consumo, sarebbe come se la popolazione mondiale “divenisse immediatamente di 72 miliardi di persone rispetto ai 6,5 attuali”, con l’aggravante che la quasi totalità degli studiosi sono concordi nel ritenere che la capacità di carico massima che il nostro pianeta è in grado di sopportare sia pari a 9 miliardi di abitanti.Secondo l’autore c’è una sola soluzione possibile per evitare una fine catastrofica e conquistare una rinnovata vivibilità presente e futura. Tale soluzione non consiste nel negare a Paesi come l’Africa, la Cina, l’India, l’accesso a condizioni di vita migliori rispetto a quelle attuali, ma passa attraverso tre decisive trasformazioni che riguardano soprattutto il modo di pensare e agire della minoranza ricca e consumistica del pianeta, e che possono essere così sintetizzate: formare una comunità di individui capaci di assumersi la responsabilità del presente e di comprendere che la nozione di crescita non può più coincidere con l’idea di progresso propria del capitalismo; elaborare un insieme di norme e regolamenti che sappiano attribuire la giusta valenza al paesaggio e alla sua tutela e valorizzazione; adottare un approccio

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interdisciplinare che combini l’apporto di discipline diverse – quali l’urbanistica, l’architettura, l’ingegneria, l’economia, la psicologia – al fine di trovare nuove vie d’uscita da problemi che rischiano di minare ogni giorno di più l’incolumità globale della Terra. Per rendere queste trasformazioni reali serve un impegno tripartito tra istituzioni, centri di ricerca e formazione, e singoli individui, perché “la ricerca della vivibilità e della bellezza del paesaggio come spazio di vita esige la responsabilità dell’educazione propria e altrui […] Abitiamo tacitamente un framing che ci fa vivere il vincolo, il limite, la vulnerabilità, come fattori negativi e problematici. Eppure possiamo creare noi stessi mentre creiamo il paesaggio solo perché siamo mancanti, vincolati e capaci di elaborare il limite che ci consente il margine di creatività necessaria. Si rende perciò necessario delineare una nuova cornice che ci consenta di riconoscere le possibilità insite nel vincolo”.Non si tratta semplicemente di cambiare idea a proposito del paesaggio, del clima, dell’ambiente, ma di cambiare le nostre idee più consolidate e di adottare una nuova scala temporale capace di farci comprendere che il presente non si esaurisce nell’oggi, ma continua nel futuro.

Mente e paesaggio

. NeuroesteticaNascita della Neuroestetica.Neuroscienziati e storici dell'arte sono in cerca di un punto d'incontro sulla natura e sulle modalità della reazione degli osservatori alle immagini create dagli artisti.Se statue, disegni, dipinti, cicli di affreschi ci procurano piacere, ci persuadono, ci emozionano, fino a che punto questo è dovuto a meccanismi universali propri della visione, cioè all'interazione tra occhio e cervello? E in che misura, invece, è determinato dai condizionamenti culturali e, dunque, differenziati di tempo in tempo e di luogo in luogo? Nell'ambito delle neuroscienze è nata una disciplina, la Neuroestetica, fondata da Semir Zeki (pioniere nello studio della funzione visiva del cervello, è professore di Neurobiologia e di Neuroestetica presso l'University College

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di  FIGURA 1.1 - A fianco Semir Zeki, pioniere nello studio della funzione visiva del cervello, è professore di Neurobiologia e di

Neuroestetica presso l’University College di Londra, dove dirige il Laboratorio di Neurobiologia.Londra, dove dirige il Laboratorio di Neurobiologia), che si interroga su quali siano le basi biologiche della percezione estetica e anche su come funzioni la mente dell'artista, per cosa si distingue l'individuo creativo rispetto al non-creativo. L'ambizione degli studiosi è quella di riunire, tra di loro, diverse discipline: scienza, arte e filosofia, basandosi, però, sul contributo delle più moderne tecniche di brain imaging e di neurofisiologia. Le tecniche che oggi vengono utilizzate per la diagnostica clinica sono le stesse che si possono estendere a questi e ad altri tipi di ricerca. La RMF (Risonanza Magnetica Funzionale) e la PET (Tomografia a Emissioni di Positroni) sono tecniche che possono indicarci quali "lampadine" si attivano nel cervello, e in quali aree, quando eseguiamo determinati compiti o subiamo alcuni eventi. È noto, infatti, che la RMF può indicarci le aree in funzione attraverso le variazioni di circolazione (aree che funzionano a regime più alto si caratterizzano per un maggiore circolo di sangue) e la PET fornirci i medesimi indizi attraverso il consumo di glucosio (più metabolismo nelle aree che funzionano, più glucosio che arriva).Vale tuttavia la pena ricordare, in un'ottica non eccessivamente riduzionista, che il cervello umano lavora continuamente, in una sorta di armonia di rete in cui tutte le aree sono interconnesse. Quelle che possiamo definire scuole di Neuroestetica in Italia sono due: una di esse è quella del prof. Lamberto Maffei (neurofisiologo della visione. Direttore dell'Istituto di Neuroscienze del CNR dal 1980 al 2008, dal 2009 è presidente dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Dal 1988 al 2008 ha insegnato Neurobiologia nella scuola Normale superiore di Pisa e diretto il locale laboratorio), l'altra attiva è quella dell'Istituto di Fisiologia di Parma, diretto dal prof. Giacomo Rizzolatti (neurologo e direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Parma) che si avvale della collaborazione del prof. Vittorio Gallese (neurofisiologo all'Università di Parma). Rizzolatti, insieme alla sua equipe, è il noto scopritore dell'esistenza dei neuroni specchio (una scoperta quasi casuale come molte di quelle fondamentali): cellule motorie del cervello che si attivano sia durante l'esecuzione di movimenti finalizzati, sia osservando simili movimenti eseguiti da altri individui. Tale scoperta pone una base fisiologica all'empatia.

2. Arte ed empatiaL'arte e il ruolo dei neuroni specchio.

Leon Battista Alberti affermava che "un'opera d'arte è in grado di smuovere i sentimenti dell'osservatore solo se i personaggi in essa raffigurati mostrano i propri moti dell'animo e se questi ultimi sono riconoscibili dal movimento dei corpi". Sono parole del XV secolo e sono oggi confermate dagli studi di neuroscienze sulla percezione estetica.Sul piano emozionale, infatti, sembra ormai chiaro l'intervento dei neuroni specchio (più volte citati nelle pagine della nostra rivista, ndr), strutture che ci consentono in un certo senso di immaginare le intenzioni degli altri, che sottendono alla nostra capacità di vedere, di sentire, di capire altri individui: fenomeni che ci suggeriscono come la nostra sia una specie sociale, molto più di quanto talvolta non dimostri. Alla base degli aspetti cognitivi nella fruizione di un'opera d'arte, dunque, si collocherebbe questa forma di empatia su un piano non dissimile da quello sociale e psicologico che ci permette di immedesimarci in ciò che sta provando il soggetto di una raffigurazione artistica e in alcuni casi persino nello stato d'animo dell'artista nel suo momento creativo. 

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Tale partecipazione emotiva può consistere nella semplice comprensione delle emozioni rappresentate, oppure in una più profonda immedesimazione, un'imitazione dei gesti, delle azioni raffigurate, e così via. Si tratta, quindi, di una forma di empatia non soltanto intellettuale, ma in un certo senso persino corporea. L'osservazione di un dipinto, di una scultura, suscita le stesse reazioni cerebrali di coinvolgimento dei neuroni specchio come avviene di fronte al movimento di un individuo reale. Il gesto viene riprodotto nella nostra corteccia motoria cerebrale, contraendo in maniera inconsapevole i muscoli specifici del personaggio reale o virtuale con cui entriamo in contatto visivo. Pare che il sistema di neuroni specchio si attivi persino quando il movimento è soggetto di una narrazione (per es. in un'opera letteraria). In assenza di rappresentazioni di figure umane, il movimento è in un certo senso implicito nell'opera: le tracce di colore, i tagli, le pennellate sulla tela o su qualsiasi altro supporto pittorico sono lo stimolo del movimento. E i neuroni specchio si attivano anche di fronte a immagini che rappresentano un'azione potenziale, come la frutta, gli oggetti, i giochi. Come se il cervello si predisponesse ad interagire con essi.  L'osservazione di un ritratto (arti figurative, plastiche, fotografia) sembra sia causa di un mutamento nell'osservatore che viene indotto ad assumere atteggiamenti simili ai modelli visualizzati: è quanto va suggerendo anche Antonio Damasio, noto neuroscienziato portoghese, secondo il quale "effettivamente non si mette in moto la nostra muscolatura, è una simulazione teorica della nostra corteccia motoria. Quindi lo spettatore afferra lo stimolo a un livello precognitivo, non totalmente cosciente". Allora ci si chiede: se la reazione a un'opera d'arte è riconducibile a questo sistema di neuroni quasi automatici, che significato ha il contesto storico-culturale in cui si trovano l'artista e l'osservatore? Le risposte sul piano empatico, grazie ai neuroni specchio, costituiscono il livello di base elementare e il primo approccio che abbiamo con l'opera d'arte. Naturalmente nell'esperienza estetica finale questo non è sufficiente. Infatti, oltre ai neuroni specchio, sono coinvolti vie e centri cerebrali diversi, ben individuati da Semir Zeki e dal neurologo indiano Vilayanur S. Ramachandran. Queste vie e centri cerebrali, che subentrano dopo i neuroni specchio, sono in parte "stampati" su una base genetica innata, ma anche plasmati dal contesto esperienziale, culturale ed educativo vissuto dal soggetto: noi siamo sempre il risultato di genetica e ambiente, soprattutto riguardo al cervello, l'organo più maneggevole, più plastico dell'organismo umano, un organo che costruiamo tutti i giorni in base alle esperienze che facciamo.

Aree coinvolte nella visione.Quali sono, dunque, le aree cerebrali che intervengono dopo i neuroni specchio nella percezione di un'opera d'arte? Sono ovviamente le aree visive, le aree corticali occipito-parietali, studiate e classificate da Zeki. Secondo lo scienziato di origine ungherese, la visione, con le sue aree e vie cerebrali, non è un processo passivo, ma assai dinamico e attivo.Vediamo come e in che

modo.  FIGURA 1.2 - In alto alcune parti del cervello. Esiste una via “oggettiva” di percepire il bello, ciò avviene nei centri corticali parieto-occipitali, orbito-frontali e nell'insula, e una invece più soggettiva che nasce dall'amigdala, nell'emisfero destro, che è condizionata dalla

cultura, dall'ambiente e dalle proprie esperienze individuali.La funzione del cervello è quella di conoscere il mondo, la realtà. E da tutte le impressioni percettive che arrivano nell'occhio, il cervello estrae il carattere invariabile di queste percezioni per poter costruire il mondo che ci circonda. Quindi, anche il neuroscienziato moderno sarebbe d'accordo con quanto affermato da H. Matisse secondo cui "vedere è già un'operazione creativa che richiede uno sforzo", oppure con quanto sostiene P. Cézanne: "l'occhio non basta, bisogna anche pensare". Noi vediamo non con l'occhio, ma con la corteccia cerebrale: il cervello non è un semplice cronista, è creativo, è artistico.  

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Le aree visive di Zeki sono quelle indicate come V1, V2, V3, V4, V5, aree deputate ad analizzare i vari attributi dell'immagine: una vede il colore, una vede la forma, una vede il movimento e poi, in interconnessione tra di loro, producono l'immagine. Qual è, quindi, il significato della scoperta di Zeki? Visione e comprensione, cioè percezione e interpretazione di quello che vediamo, avvengono simultaneamente grazie all'attività di queste aree corticali. Ed ecco superato il dualismo kantiano (vigente nelle neuroscienze fino agli anni '70) di percezione passiva/interpretazione attiva: il mondo visibile è un'invenzione, un'elaborazione del cervello. Le immagini (così come i suoni) vengono acquisite e confrontate con il vocabolario, i significati che riteniamo in memoria, e il cervello fornisce un'interpretazione corretta di ciò che udiamo/sentiamo, in un procedimento simile a quello attuato da un artista. "Ho detto nel Dorian Gray, che i grandi delitti del mondo accadono nell'intimo del cervello. Ma non è pure nel cervello che tutto accade? Adesso sappiamo che noi non vediamo con gli occhi, né udiamo con le orecchie. Essi non sono che dei canali per trasmettere con più o meno esattezza le impressioni dei sensi. È dentro il cervello che il papavero è rosso e la mela odora e l'allodola canta". È quanto scriveva O. Wilde nel De profundis. Oltre alle aree corticali visive parieto-occipitali, vi è anche un'area orbito-frontale anteriore coinvolta che mielinizza molto tardi ed è l'area che possiamo considerare responsabile del giudizio estetico. Successivamente intervengono i centri sottocorticali. Paul MacLean (medico statunitense studioso di neuroscienze, che diede importanti contributi anche nel campo della psichiatria) distingue tre formazioni anatomiche cerebrali (teoria del cervello trino): la parte più profonda e più

vecchia,  La “Pietà Rondanini” di Michelangelo.l'archeocervello, quella del midollo allungato, che dirige le funzioni respiratoria e cardiaca; un'area meno antica, il paleocervello, sede delle funzioni istintuali, vegetative (come la fame, la sete, il sonno, la veglia, le funzioni endocrine, il comportamento sessuale e così via) ed emozionali; la neo-corteccia, la parte più superficiale del cervello, di più recente acquisizione filogenetica (quella che la specie umana ha sviluppato di più e che mostra una forma "raggrinzita" vista l'eccessiva massa rispetto al cranio), sede delle funzioni simboliche superiori. Nella percezione dell'arte intervengono anche questi centri sottocorticali di paleocervello, corteccia antica e, soprattutto, il girus cingoli e l'amigdala, aree ormai ritenute responsabili delle nostre risposte emozionali di soddisfazione e di gratificazione. Si è capito, quindi, che le basi biologiche delle nostre esperienze estetiche stanno proprio in questa connettività, a feed-back, retroattiva tra corteccia, aree visive, aree orbito-frontali e i centri emozionali del sistema limbico delle emozioni gratificanti: un ping pong tra corteccia cognitiva e paleocervello emozionale. Conseguentemente possiamo affermare che nel nostro cervello esistono due modi di percepire il bello: uno oggettivo e uno soggettivo. Uno oggettivo che è dovuto a dei parametri intrinseci, biologici che sono i centri corticali parieto-occipitali, orbito-frontali e l'insula e uno invece più soggettivo che nasce dall'amigdala, nell'emisfero destro, che è condizionato dalla cultura, dall'ambiente e dalle proprie esperienze individuali.

3. Il belloSezione aurea.Che esista una sorta di bello oggettivo trasversale a tutte le latitudini e a tutte le longitudini, la ricerca neurofisiologica ormai lo ha dimostrato. Ricerche su colori, ad esempio, dimostrano che il nero trasmette angoscia a tutti, il rosso stimola l'aggressività ed è il colore che attira per primo l'attenzione, stimolando le nostre capacità di difesa e di reazione. Il verde trasmette

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distensione,  FIGURA 1.6 - Immagini relative alla “sezione aurea”: in ambito figurativo indica un particolare rapporto tra le

figure che genera un senso di armonia nell’osservatore.l'azzurro serenità, il giallo energia. I tratti femminili del volto umano pare che procurino universalmente piacere perché si sostiene che la prima icona impressa nel cervello, a funzione gratificante, sia il volto della madre. I tratti del volto infantile: le guance piene, la testa grossa, il naso piccolo provocano piacere perché stimolano sentimenti parentali e di protezione; piacciono i caratteri di certi paesaggi: quelli verdi, fluviali, con dolci alture che distendono e rasserenano perché hanno dato, in senso evoluzionistico, riparo e cibo ai nostri antenati ominidi africani nelle savane. È come se si fossero "stampati" nei geni. La ricerca recente dimostra come l'alternanza di prospettive, ad esempio acqua e bosco, pascolo cioè radura e bosco e di certe configurazioni geometriche con intrinseci principi di ordine, regolari, armoniche e simmetriche, sono preferite perché rispettano la Gestalt che abbiamo nel cervello. Il cervello non ama il caos, ma predilige ordinare, catalogare, classificare le nostre percezioni. Tra i canoni di bellezza la percezione umana mostra naturale preferenza per le proporzioni in accordo con la famosa sezione aurea, il canone estetico ricorrente in natura (la disposizione dei petali di una rosa, i semi di girasole, la spirale logaritmica del nautilus e così via) e che, a partire dal Rinascimento, acquista il crisma dell'armonia e della bellezza estetica. Secondo Luca Pacioli e Albrecht Dürer lasectio aurea o numero d'oro (1,618 ed espresso dalla lettera greca Phi ovvero φ) era elemento proporzionale analogico tra la figura umana e la natura oggettiva. Piero della Francesca, Leonardo da Vinci ("La Gioconda", "L'uomo vitruviano"), Sandro Botticelli ("La Venere") sono alcuni degli esempi universalmente noti che hanno usato questo rapporto nelle loro espressioni artistiche. Inoltre l'accostamento di quadrati e rettangoli aurei è visibile in opere di Piet Mondrian, di Georges Seurat, di Salvador Dalì. Anche nella musica, Ludwig van Beethoven, nelle 33 variazioni sopra un valzer di Diabelli suddivide la sua composizione in parti corrispondenti ai numeri di Fibonacci, il cui rapporto corrisponde al numero d'oro.Michelangelo e Pollock.

L'ambizione di Michelangelo era quella di rappresentare non solo la bellezza fisica, ma anche quella spirituale. Il suo era un lavoro di ricerca quasi ossessivo, che spesso lo portava a lasciare le sue opere incompiute - è il caso della "Pietà Rondanini" o "degli Schiavi" - come se le sue idee sublimi si ponessero sempre oltre la capacità delle sue mani. "Ma forse è un trucco neurologico per amplificare il potere immaginario del cervello" suggerisce Zeki. Dei suoi dipinti e delle sue sculture colpisce la sensualità dei corpi, ma chi osserva le sue opere non si limita a contemplare la fisicità: grazie al meccanismo dei neuroni specchio rivive su di sé lo sforzo muscolare dei protagonisti. Sono i neuroni specchio che ci fanno per esempio sentire il bisogno fisico di liberarci e districarci quando osserviamo gli "Schiavi". E sono sempre i neuroni specchio a farci provare il dolore espresso dalla "Pietà", perché Michelangelo, come ogni vero artista, ha istintivamente compreso la visione comune e l'organizzazione emozionale del cervello. Per questo ci immedesimiamo, senza alcun "ragionamento". Jackson Pollock, l'inventore della "action painting" rappresenta l'azione dell'arte e non l'arte come opera finita. Nelle sue tele ci sono gli esiti delle strutture nervose motorie: sono gesti della danza diventati pittura. "Quando sono nel mio quadro - diceva - non sono consapevole di quello che faccio: un quadro ha una sua vita propria e io cerco di tirarla fuori".

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Meta-emozione.

Ma allora come si definisce il bello? Il bello, in base agli studi di neuroscienze, non può essere una semplice emozione, un vissuto sottocorticale dovuto al lobo limbico. Ma non può essere neppure un bello solo corticale, razionale e culturale, perché si è visto che corteccia e aree sottocorticali sono intimamente legate. Per tale motivo il senso del bello oggi viene definito, come sostiene anche Damasio, una meta-emozione. E grazie a questi studi si possono conciliare le due teorie neuroestetiche che si sono combattute dal sec. XVIII sino ad ora: da A.G. Baumgarten, fondatore dell'Estetica, con la teoria elitaria degli Accademici secondo cui il bello era solo quello classico, le Belle Arti, a una concezione del bello più popolare di fine '800 e primo '900, secondo cui il bello è ciò che suscita emozione, qualcosa che piace, per cui può essere (e poteva essere) bello un viaggio, un libro, un concerto, un film. Esprimono bene i concetti appena espressi le seguenti parole: "non ci può essere arte senza comprensione, cioè conoscenza ed esperienza sono importanti al pari della sensazione estetica e dell'emozione soggettiva" (J. Ruskin) e "ammirare un quadro è come un viaggio di scoperta, avventuroso, un po' misterioso ma anche difficile e pertanto è sì fondamentale lo sguardo aperto, innocente, pascoliano, diciamo sgombro da snobismi intellettuali, fondato sull'insula, sulla corteccia parieto-occipitale e sui neuroni specchio, ma un certo grado di preparazione culturale, un occhio allenato, un'affinità sensibile, grazie all'amigdala destra, potrà rendere più agevole il viaggio e godere appieno l'arte" (Sir E.H. Gombrich).

Sindrome di Stendhal.

Ma a cosa è dovuto, invece, quel senso di malessere che suscitano talvolta le opere d'arte, quasi che la loro bellezza fosse tale da sopraffare lo spettatore? Graziella Magherini, psichiatra e psicanalista, mentre dirigeva il reparto psichiatrico dell'Ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova, si imbatteva spesso in turisti che, pur essendo partiti in salute, lamentavano malesseri strani a Firenze. Si andava da stati confusionali, a inspiegabili attacchi di depressione o di euforia, fino ad attacchi di panico e deliri persecutori in cui il mondo appariva all'improvviso minaccioso. In tutti i casi questi disturbi avevano una breve durata e scomparivano completamente. Ben presto capì che questo malessere insorgeva dopo la visione di opere d'arte e coniò il termine "Sindrome di Stendhal" (il malessere del viaggiatore), ricordando le sensazioni descritte dallo scrittore durante una visita alla Basilica di Santa Croce nel Viaggio da Milano a Reggio Calabria, opera del 1817. La mente può essere sopraffatta dall'arte e dalle emozioni che essa provoca? Anche se cinema e altri media hanno romanzato su queste risposte, alla base di questa reazione, secondo Vittorio Gallese, ci sarebbero sempre i neuroni specchio: sarebbe cioè l'iper-eccitazione dei meccanismi di immedesimazione a provocare questa condizione di sofferenza. Lo dimostrerebbe anche il fatto che le opere d'arte che più spesso provocano la "Sindrome di Stendhal" appartengono ad artisti (quali Michelangelo e Caravaggio) che sembrano stimolare più di altri questi meccanismi di immedesimazione. Può capitare che la forza e l'armonia di alcune sculture, come quella del "David" di Michelangelo, possano risvegliare forti pulsioni e passioni. Il visitatore, infatti, davanti alla bellezza di quel marmo bianco, può avvertire turbe di angoscia e di ansia, sino a forme di mancamenti, affanni e persino turbe psichiche. Si parla di "Sindrome di David". L'osservatore ammira il capolavoro michelangiolesco provando in pieno la sensazione della propria forza, ma nello stesso tempo si sente geloso e invidioso di quel corpo giovane, perfetto nelle forme. E questo mix di sensazioni provoca la mente di qualche visitatore che può sentirsi spinto ad infierire sul capolavoro, ma non si passa mai all'atto, che resta invece nell'ambito dei vandalismi operati da soggetti con ben diversa psicopatologia.

Mondrian e Vermeer. Tra ambiguità e forme universali

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Lo scopo dell'arte, secondo Piet Mondrian, è ridurre tutte le forme complesse di questo mondo a una o poche forme universali, così da scoprire (coscientemente o inconsapevolmente) le leggi fondamentali nascoste nella realtà. Nel corso della sua ricerca, l'artista giunse alle sue opere composte di linee verticali e orizzontali che divennero la caratteristica prevalente delle sue composizioni. Anticipò così - a sua insaputa - ciò che i neurofisiologi scoprirono cinquant'anni dopo: nelle aree visive esistono particolari neuroni che captano selettivamente quel tipo di linee.

“La ragazza con l’orecchino di perla” di Jan Vermeer."Mirando all'essenziale e al permanente, Mondrian sembra quasi voler stimolare una parte ristretta del sistema visivo, proprio come se volesse conoscere come funziona", spiega Zeki. Come lui, molti altri esponenti dell'arte moderna tendono alla semplificazione, alla ricerca di aspetti universali tramite i quali costruire "per assemblaggio" tutte le forme. E in effetti esiste una stretta relazione tra molte opere d'arte moderna e la fisiologia delle cellule del sistema visivo. Tra le opere d'arte più potenti ci sono poi quelle che generano una molteplicità di esperienze come le sculture incompiute di Michelangelo o i dipinti ambigui di Jan Vermeer, il pittore tanto amato da Marcel Proust e da lui stesso definito "un artista che resta eternamente conosciuto". Vermeer è un pittore molto abile nella resa della prospettiva, nella resa del colore e del chiaroscuro, nella verosimiglianza fotografica. Ciò però non basta a spiegare la bellezza e la potenza dei suoi quadri. Secondo Semir Zeki, i quadri del pittore olandese sono capolavori di ambiguità. Vermeer rappresenta soggetti "banali", apparentemente privi di significato, eppure misteriosi e inquietanti. Perché? "L'osservatore è invitato a guardare come dal buco della serratura una scena dalla grande forza psicologica perché risveglia una molteplicità di immaginari" spiega Zeki. "Attraverso il ricordo di eventi immagazzinati in passato, il cervello può dare mille interpretazioni tutte ugualmente valide. Ad esempio, nel dipinto "La ragazza con l'orecchino di perla" la giovane donna appare contemporaneamente invitante e risentita, triste ma in qualche modo allegra, sottomessa e dominatrice, ferma ma in movimento, sensuale e casta. L'immagine non dice nulla, ma dice moltissimo, rappresenta condizioni diverse ed essenziali in un unico quadro. Produce una sorta di shock nell'osservatore perché sottopone a una forte sollecitazione la memoria di eventi passati. Per il cervello è quindi uno stimolo intensissimo, anche se la verità rimane "eternamente sconosciuta". Affascina la pittura impressionista: nella mancanza di dettagli, nei colori sfumati, essa rappresenta una sfida enorme al nostro cervello che vuole conoscere, classificare, per adattarsi, per difendersi, per realizzarsi, a riempire gli spazi mancanti".

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Franzini - Recensione Alla Neuroestetica Di Cappelletto

 

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Chiara Cappelletto,

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Neuroestetica.L’arte del

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cervello (Roma-Bari, Laterza, 2009,

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pp. 203,ISBN - 9788842088998)di

 

Elio FranziniNegli ultimi anni, nel

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nobile campo delle scienze cognitive, si sono affacciati, sullascia di ciò che recentemente due noti

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studiosi, Legrenzi e Umiltà, in un simpaticovolume che ne porta il titolo, hanno chiamato

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“neuromania” (Bologna, Il Mulino, 2009),nomi “contenitore”, che riassumono in neologismi,

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ormai ripetitivi e maniaci, campi disapere tra loro distanti. Uno studio scientifico, per la verità, non

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dovrebbe preoccuparsidi costruire nuove discipline dall’incerto statuto epistemologico

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, bensì analizzare nellaloro specificità le dimensioni della conoscenza, creando le

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novità con parsimonia eprudenza.Il libro di Chiara Cappelletto, tuttavia, cedendo alla moda

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editoriale di costruire“instant book” su temi che si ritengono “vendibili”, non ha quasi mai (e sul

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“quasi” sitornerà, dato che è il punto debole del breve saggio) la pretesa di fondare un nuovoorizzont

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e scientifico. Il suo scopo è fornire un resoconto degli incroci che storicamente sisono

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sviluppati tra studi neurologici e campi della critica e della storia dell’arte, nonchédella riflessione

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filosofica su di essa. Che tutto ciò possa ricadere sotto il generico nomedi “neuroestetica” (in realtà

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utilizzato in modo sistematico da un solo autore tra quellianalizzati, cioè Semir Zeki) è

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probabilmente errato o, meglio, frutto di un’affrettatageneralizzazione: ma, appunto, si tratta di

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fornire un quadro complessivo in una retecomplessa e contraddittoria di posizioni. A

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fronte di questa complessità diatteggiamenti, lo statuto epistemologico della cosiddetta

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neuroestetica – e neuro-discipline affini – appare quindi ancora molto indeterminato, incerto nelle

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finalità, miopenel riconoscere i propri padri, a volte ingrato nel misconoscere i debiti nei

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confronti diorizzonti psicologici, che appaiono ignoti anche là dove molto potrebbero insegnare

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suimedesimi campi di indagine.

 

 I raccomandati / Los recomendados/

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Les récommendés/ Highly recommended 

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L’autrice riesce tuttavia a mostrare in

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modo ordinato, con consapevolezzafilosofica e indubbie conoscenze critiche, artistiche e

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letterarie, le principali posizioni chesi intersecano in un contesto che, come scrive, appare una matassa

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“aggrovigliata”.Impossibile, dunque, in poche righe, cercare qui di sbrogliarla: Chiara Cappellettopro

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pone una lettura lungo tre assi, che prendendo avvio dalla neurocritica dell’arte(dove sono

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particolarmente evidenti quelle istanze che si potrebbero chiamare“riduttiviste”, che riconducono

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cioè al dato neurologico la complessità espressivadell’opera) approdano prima alla neuroestetica

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propriamente detta (dove èprotagonista, oltre al già citato Semir Zeki, Vilayanur S. Ramachandran

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) e infine allaneurostoria dell’arte, che raccoglie in sé posizioni tra loro molto difformi.Diviso il campo in

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direttrici tematiche – per quanto del tutto costruite a posteriori edi conseguenza non sempre rispettose

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della storicità dei processi – l’autrice si concentrasui temi maggiormente “alla moda”,

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cioè l’uso delle tecniche di

neuroimaging

neiprocessi critico-estetici e la scoperta dei “neuroni specchio”, che

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si sono inseriti nellalunga storia estetica dell’empatia (adeguandosi a essa o rivoluzionandola, a

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secondadelle prospettive invocate).Malgrado Chiara Cappelletto cerchi, a volte in modo eccessivo, di

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riconnetterequeste ricerche ai secolari rapporti tra “arte” e “scienza”, non si può negare che

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molteposizioni presentate appaiano “imbarazzanti” (e il tentativo di inserirle in filoni “storici”del

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tutto ipotetici accentua tale imbarazzo). Si continua a pensare, infatti, che risolveresul piano

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sperimentale il senso delle relazioni estetico-artistiche sia operazione cherichiederebbe strumenti

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molto più raffinati di quelli messi all’opera dagli autori quiillustrati. Ne consegue che ricerche che

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generano nessi di spiegazione “riduttivi” ericerche che portano l’arte sul piano del cervello

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appaiano spesso una perdita di tempoper scienziati e filosofi, che vedono entrambi nelle

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posizioni espresse l’evidente carenzao di conoscenze specifiche o di un’opportuna accortezza

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metodologica. Il libro, natoforse per eliminare una visione dualistica, tende così inconsape

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volmente ad accentuarla,costruendo abbozzi di teoria che hanno – ed è quel “quasi” a cui l’autrice,

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come siaccennava all’avvio, non riesce a sfuggire – esiti a volte ingenui e discutibili.E’ il

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caso dell’ultimo breve capitolo, in cui Chiara Cappelletto, con poco rispettodella dimensione

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storica dei problemi filosofici, ipotizza, sulle fondamenta dellaneuroestetica, persino un “secondo

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Rinascimento” in cui arte e scienza possanocollaborare (dimenticando che, per la verità, non

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hanno mai smesso di farlo da migliaiadi anni, come ben sanno nelle scuole d’arte e nelle Accademie:

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ma sicuramente in modimeno velleitari e arroganti di quelli presentati in alcune

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prospettive neuroestetiche) ociti la nota frase di Klee sull’arte che non ripete le cose visibili, ma rende

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visibile, comeprova di una zona di interscambio tra emergenza biologica e formalizzazioneconcettuale,

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che è l’esatto opposto della posizione di Klee, come si comprenderebbe senon ci si limitasse a una citazione

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isolata (e sfruttata in decine e decine di occasioni, incontesti sempre diversi…).

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Tuttavia, senza questa poco fortunata postilla conclusiva, losi ripete, il lavoro di Chiara Cappelletto è

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chiaro e ordinato. Si spera soltanto che sia ilpunto di avvio, ove possibile, per riflessioni più approfondite,

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che possiedano maggiore

 

 I raccomandati / Los recomendados/

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Les récommendés/ Highly recommended 

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dimensione storico-critica e che tengano

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conto, per esempio, di alcune osservazionimetodologiche che, sin dal 1960, nell’

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Occhio e lo spirito

, Merlau-Ponty avanzava.Le opere d’arte, non va dimenticato, sono spazi che

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“fanno pensare”, e in questipensieri fondano, oltre alla loro specifica storicità, la storicità

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originaria del nostroesperire, senza che sia necessario ricondurre tale “originarietà” a processi fisiologici,psico

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fisiologici, neurologici e via dicendo. Come scriveva appunto Merleau-Ponty (e nonsapeva con quale

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valore profetico non avendo avuto la sventura di assistere alla nascitadella neuroestetica) certa filosofia

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è troppo sensibile, oggi, alle mode intellettuali e credeche pensare significhi

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soltanto “sperimentare, operare, trasformare, con l’unica riserva diun controllo sperimentale

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in cui intervengano solo fenomeni altamente ‘elaborati’, che inostri apparecchi, più

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che registrare, producono”.Con grande ironia Merleau-Ponty, ed è la migliore conclusione per

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commentare laneuroestetica e le ricerche su di essa, afferma che le nostre scienze sono piene di quelche

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chiama “gradienti”, che è “una rete che si getta in mare senza sapere quel cheriporterà”.

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In un’ossessione di “operatività”, di “attualità”, di “novità” si deve forse, allora,fermarsi

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a riflettere, invece di inseguire riproposizioni acritiche di antiche teorie soloorecchiate, in cui lo

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studioso è vittima, e a volte purtroppo protagonista, di unartificialismo assoluto, di

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una presentazione ingenua, perché spesso inconsapevole, diideologie “scientiste”. Il messaggio

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metodologico è dunque chiaro: non si superano idualismi cercando terreni ibridi e confusi, sintesi

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astratte, slogan utili solo nelle quarte dicopertina, tantomeno operando per “fondare” su

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oscure dimensioni filosofico-scientifiche il loro superamento, bensì mostrando

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come anche quegli sguardi sul mondoche si chiamano “scientifici” possono ricollocarsi,

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come l’arte, su un piano originario, sulterreno del mondo sensibile, a partire da una corporeità

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esperiente che – ed è il puntoessenziale – non è un corpo come “macchina dell’informazione”, bensì il

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corpo“effettuale”, un corpo che va alle radici del senso, senza accettare di essere “ridotto”

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afunzioni operative e fisiologiche