spazio teatro

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Luoghi recuperati per la scena

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prefazione di Giuseppe Datosaggio introduttivo di Paolo Ruffini

contributi di:

Riccardo DalisiGiuseppe Pagnano

Vittorio FioreElisabetta Pagello

Stefania De MediciFrancesco Nocera

Alessandra PaglianoManuel Giliberti

Corrado RussoPatrizia Carnazzo

e degli studenti del corso Spazio Teatro 08/09Facoltà di Architettura di Siracusa

Vittorio Fiore

SPAZIO TEATROLuoghi recuperati per la scena

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Teatro Olimpico di Vicenza, Andrea Palladio, 1580

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Caratteri dello spazio teatrale

Che il mito del teatro di parola, ovvero della parola come elemento distintivo proprio del teatro, rispecchi una convenzione, è una

convenzione recente e falsa, non c’è neanche bisogno della storia per dimostrarlo. Né ricorrere a citazioni. Il vocabolo «teatro» ne è già di per se una prova, con la sua radice intatta, come raramente accade, dalle

lingue latine alle anglosassoni alle slave: e dea in greco è radice che sta per «vedere», non già per «parlare».

Franco Quadri, 1977

F. Quadri, La deverbalizzazione del teatro. Il gioco dei capovolgimenti, in «Lotus international», n.17, dicembre 1977, p.110.

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Spazio teatrale / Spazio scenico nel teatro contemporaneo Vittorio Fiore

Candelaiodi Giordano Bruno

regia di Luca Ronconi stagione 2000-01

scene di Giovanni Montonatifoto Marcello Norberth/Piccolo Teatro di Milano;

porte ed infissi di recupero invadono la sala del teatro

restituendo una scena articolata

La ricerca di una potenzialità comunicativa sempre più tesa della disciplina teatrale, conduce inesorabilmente ad annullare il tradizionale rapporto bivalente spettacolo-spettatore per inserire quest’ultimo nell’ingranaggio stesso della macchina concettuale che produce lavoro teatrale.

Gae Aulenti, Luca Ronconi, 19771

I primi tentativi di teatro organizzato in forma tradizionale ove il pubblico ha un posto assegnato si deve alle rappresentazioni private nei cortili di palazzi patrizi: Giulio Pomponio Leto, animatore della vita teatrale romana, curerà la regia di spettacoli privati di dilettanti2, uti-lizzando le logge delle corti per disporre il pubblico su doppia altez-za, sistemazione che prelude gli ordini di palchi del “teatro all’italiana” che fisseranno una geografia sociale; nelle corti alle scene non era deputato uno spazio preciso, ma lo spazio scenico veniva organizza-to in modo sempre diverso3.

Cambia la funzione sociale del teatro che diventa un evento pri-vato. Il teatro medievale non organizzato per spazi distinti, in piazze e sui sagrati delle chiese, dove quadri scenici sempre diversi, erano organizzati in siti urbani. utilizzando scene praticabili, con usci e fine-stre reali, e con botole e macchine per effetti particolari, dove aveva luogo la commistione delle classi sociali ed una maggiore relazione spettatore-attore, lascerà il posto ad eventi per pochi selezionati, pa-trizi o borghesi emergenti4.

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palchi del ferro di cavallo, un po’ alla maniera del teatro elisabettia-no. Questi, in numero più esiguo, e separati dai palchi, seguono soli, in concentrazione, usufruendo di viste diverse e selettive. La scena è come un’architettura lignea ribaltata, riflette il luogo che ospita lo spettacolo, ha come fondo il boccascena al buio; cornici, paraste e modanature creano, nella loro giacitura orizzontale, dislivelli, punti di seduta ed aggregazione, nonché un’impervio cammino per gli attori, forse ad accentuare le difficoltà di relazione che imperversano in que-sta storia di amore ed onore che occhieggia alla consolidata Giulietta e Romeo di Shakespeare, illustre predecessore e riferimento.

Ribaltamento, ma stavolta illusorio anche nel Dioniso nato due volte, uno studio di Giorgio Barberio Corsetti42 dal poema Le Dionisiache di Nonno di Panopoli (V secolo d.c.)43. Il regista, dopo un allestimento per Villa Adriana a Tivoli, ritorna ai miti greci nel luogo simbolico di Dioniso, l’Orecchio di Dioniso appunto alla Latomia del Paradiso a Siracusa. Gli attori funamboli recitano sospesi sulle pareti verticali di roccia della cava sotto il Teatro Greco restituendo al pubblico un’ine-dita “vista dall’alto”.

Lo spazio scenico può essere una a macchina scenica indipenden-te dal luogo che la ospita; una struttura mobili, della quale l’attore è parte e non ne esce mai durante l’intero spettacolo; ad esempio tra le numerose performance di danza a cui si è assistito a Noto durante la manifestazione La Francia si muove44, costituisce un esempio estre-mo: Maria Donata D’Urso. Questa danzatrice di origine siciliana

Peccato che fosse puttana ('Tis Pity She’s a Wore, 1625)

di John Fordregia di Luca Ronconi scene di Marco Rossi

Teatro FarneseParma 2004

foto Marcello Norberth/Piccolo Teatro di Milano.

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Sulla scenografia

Nella pittura l’anello di mediazione tra spazio reale e la sua rappresentazione è unico […]; nella scenografia è duplice: la tecnica

da un lato, il nucleo spaziale dato dall’altro. Ne deriva che, mentre nella pittura la «rappresentazione» è «invenzione» dello spazio […], nella

scenografia essa diviene «elaborazione», vale a dire rapporto. L’arbitrio dello scenografo è condizionato dal «dato» di partenza: il volume scenico,

che deve inserirsi con la sua fisicità nello spazio rappresentato, in una coerente continuità di rapporti, di raccordi, e soprattutto di qualità.

Franco Ruffini, 1972

Franco Ruffini, Per una epistemologia del teatro del ‘700: lo spazio scenico in Ferdinando Galli Bibiena, in «Biblioteca Teatrale», n.3, 1972

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La finzione-struttura

Lo spazio teatro è lì dove avviene qualcosa che mette assieme gli uomini attorno ad una finzione. Qualcuno simula un evento, ricorda gesta sicché tutti vedono ciò che non c’è. Lo spazio teatro è dunque il luogo della finzione, ove questo termine acquista una particolare va-lenza, una grande pregnanza sociale, formativa o di necessario svago. Un tempo non era difficile che nei rioni popolari, ove le antiche usan-ze vigevano ancora, si formassero capannelli di gente attorno ad un gruppo di attori semigirovaghi. Recitavano episodi di vari generi, se-condo un estro elementare ed efficace. Poi c’era la colletta ma quello era un autentico spazio-teatro. La forma a cavea era spontaneamente formata in cerchio attorno agli attori recitanti, ove la finzione teneva unite le fila dello spazio.

Ma il termine “finzione” qui assume una valenza cruciale, creativa oltre che formativa. Non a caso sin dai tempi più lontani una comu-nità era tenuta assieme, nei tempi e nello spazio, tramite il rituale re-citativo che creava le forze coesive ed anche di sussistenza per molte generazioni. Col tempo si sono sempre più qualificate e specificate fino ad assumere quello che oggi crediamo e consideriamo il teatro. Rimane un luogo la cui espressione massima è indubbiamente la for-ma a cavea o, se vogliamo, a ferro di cavallo in cui più che mai nasce il senso di polarizzazione delle azioni.

La finzioneRiccardo Dalisi *

* Professore Ordinario di Progettazione

Architettonica ed UrbanaDocente di Scenografia

Facoltà di Architetturadi Siracusa

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La finzione che svela (la simulazione)

Negli spettacoli di strada, un clown, un venditore ambulante, un incidente, il pubblico fa da corona, crea così uno spazio- spettacolo. La strada, gli sfondi, la luce: improvvisate scene. In realtà qualunque luogo della città si presta a sfondi teatrali. Il teatro però è altra cosa, la sua sostanza è finzione. Gli spettatori lo sanno, ci stanno anche loro, anche loro fingono. La finzione sembra che mimi la realtà, come lo spazio teatrale sembra mimare spazi della città. Non è così, fingere è un’altra realtà, più reale del “reale”. E’ svelamento, connette i fatti, li fa scorrere l’uno nell’altro, contrae i tempi, quelli andati, lontani, lonta-nissimi, li spinge nel presente. È magia pura. Li assembla, li ribalta, vi si tuffa dentro, li replica, ne inventa di nuovi. Più duttile, ha la realtà del-la coscienza dell’uomo, del suo estro, della sua capacità di sintesi, di relazione, di ricordare, di rimembrare, di entrare nel cuore di ciò che palpita, di ogni giorno. Ogni realtà, ogni vicenda, ogni racconto qui è il racconto del cuore degli uomini che vi hanno fatto parte. Anche la scena urbana, di un interno, di un luogo naturale è una finzione: a volte evidente oppure monca, traslata, appena accennata o del tutto assente, solo possibile. Oppure un vuoto, un vuoto soltanto segnato, mettiamo, da un orologio sospeso in alto, nel nulla.

Tutto ciò è così intenso nell’animo dello spettatore e nei gesti, nelle parole, nei silenzi degli attori e degli astanti tutti da reclamare una propria forza di presenza che raramente la vita che si vive, possiede.

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Anche quel minimo è svelamento, è lampo di intuizione che corre da animo ad animo, scavalca il tempo e contrae lo spazio, lo spinge lontano. Quell’essere presente ha un sito altro. È lì nell’antica Grecia di Sofocle ed è pur qui. Inversamente, nell’essere qui ci trasporta nel quel lontano ambito del mondo. In quell’ora sostiamo e patiamo con gli eroi d’un tempo, anche noi per un po’ trasformati in eroi. Doppia magia, tripla.

Il teatro ha dunque una sua propria realtà, la realtà dell’uomo ove ogni realtà, anche quella enigmatica, imperscrutabile, misteriosa con-verge. Anche la banalità in simile contesto acquista un senso, un va-lore, una profondità inaspettata. Il dubbio, l’incertezza, l’errore hanno pregnanza, dignità di attenzione, un ruolo; basta un segno strano nel vuoto a creare aspettativa.

Lo spazio scenico è dunque il contenitore di tutto ciò: un conteni-tore-finzione che contiene eventi-finzione. Nella Medea di Euripide1 a Siracusa lo spazio scenico ideato da Fuksas alludeva ad una monta-gna. Quel metallo riflettente era al contempo uno schermo, un limite, uno specchio dell’azione, una aridità senza fine. Accoglieva e respin-geva: pur essendo altra cosa rispetto ad ogni contesto di visibilità, la sensazione era di chi, al di là di ogni spazialità dell’oggi (ognuno porta il suo proprio spazio dentro di sé), viveva nel luogo greco, in ciò che resta di quei tempi ed il luogo vagante dell’azione, mentre tutt’intorno il cielo, le nuvole, la luminosità della sera, gli uccelli, as-sumevano il loro proprio ruolo di amalgama, di contesto scenico più

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che mai presente nel racconto nella sua vivacità profonda e straziante al contempo, dell’ora e qui e nel lontano animo di Euripide interprete dell’umanità di quel tempo, dell’umanità di sempre. Un vero miracolo.

Tutto ciò contiene la simulazione più che la finzione, si identifica-no, si separano nel gioco eterno della vita. Certo possiamo mettere steccati, isolare ciò che è spazio scenico, ma più che mai non si può isolare il contenuto dal contenente. Sembra si interscambino i ruoli: lo spazio che sempre contiene, qui è contenuto nella vicenda, nel tempo e nelle parole.

1. Medea di Euripide, regia di Krzysztof Zanussi, impianto scenico di Massimiliano e Doriana Fuksas, Inda XLV ciclo di rappresentazioni classiche, Teatro Greco di Sira-cusa, 2009.

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1. Studi per Pelleas et Melisande di C. Debussy, 1968

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Le mie esperienze di scenografia risalgono agli anni di università, dapprima a Roma dove da studente del secondo anno avevo fre-quentato il corso tenuto da Veniero Colasanti a quelli del quinto e con la sua guida avevo lavorato alle scene per la Medea di Seneca, poi a Venezia dove come guida avevo assunto il teatro La Fenice, in cui passavo da attivo membro della claque molte serate. In un teatro così impegnato nel raggiungimento di un’alta qualità, non di rado si aveva l’occasione di assistere a spettacoli eccellenti, soprattutto in occasione del festival di teatro della Biennale. La scenografia era, tal-volta, una componente forte dello spettacolo e mi dava modo di ag-giornarmi sugli sviluppi recenti della ricerca scenografica nel panora-ma internazionale. Era, a suo modo, una scuola in cui le lezioni erano direttamente svolte sul palcoscenico dai fondali e dai praticabili, dalle luci e dagli attrezzi di scena. Una scuola tutta di esempi concreti, tutta svolta nel magistero dei modelli da osservare e da ridisegnare a me-moria a casa, da interpretare e da modificare in un nuove soluzioni. Con questo metodo – simile a quello che applicavano le antiche bot-teghe degli artisti - appresi in fretta o almeno credevo di apprendere poiché mai giunse la parola di un maestro a raddrizzare il percorso. Sui fogli si accumulavano le varianti per Pelleas et Melisande (fig. 1), per il Flauto magico, per la Turandot (fig. 2), per la Fedra di Pizzetti, per l’Elektra di Strauss, per il Belisario di Donizetti e la passione per il teatro e per le scene si radicava sempre di più.

Nello stretto confronto tra architettura e scenografia che conti-

Esperienze di scenografiaGiuseppe Pagnano *

* Professore Ordinario di Disegno dell'Architettura

Facoltà di Architetturadi Siracusa

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nuamente proponevo alla mia riflessione, la prima usciva malconcia e la seconda trionfante, forte della sua natura effimera, della sua rapi-dità di esecuzione, della perfetta aderenza dell’ideazione alla realizza-zione. Mi illudevo che avrei potuto dedicarmi alle scene per tutta la vita per scoprire poi che è - o meglio era - più facile ottenere l’incarico della progettazione di un quartiere che di un semplice siparietto. La scenografia, una volta terminata l’università, divenne rapidamente un capriccio, un esercizio segreto e poi una malinconica memoria. Degli schizzi che facevo a quel tempo mi restano parecchi fogli, tutti quelli relativi ad Oedipus Rex di Strawinskij, quelli per l’Elektra di Strauss, al-cuni fogli sparsi per altre opere.

Ho visto Oedipus Rex per la prima volta alla Fenice nel febbraio del 1965, una esperienza teatrale straordinaria che ha lasciato il segno nel mio gusto musicale ma che mi apparve del tutto deludente dal punto di vista scenografico. Infatti, la scena era tratta da uno studio astratto di Adolphe Appia realizzato dagli scenotecnici in modo pe-dissequo senza alcun tentativo di adattare la scena all’azione teatrale. Sei pilastri a base quadrata e con intervallo uguale al lato dei pilastri occupavano il primo piano non lasciando spazio al movimento degli attori e del coro. Nello stesso anno lessi le Memorie di Strawinskij e scoprii la volontà dell’autore che voleva che il coro apparisse formato da statue e che l’azione sulla scena fosse ridotta al minimo e spiegata non dagli attori ma da uno speaker posto di lato al boccascena. La scelta della lingua latina in quanto lingua morta serviva a rendere la

2. Studi per Turandot di G. Puccini, 1969

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profondità storica dell’azione - del resto a tutti arcinota – ed a comu-nicare soltanto la «sonorità minerale» del testo. Le parole del musici-sta mi suggerirono delle immagini sceniche e ad ogni ascolto della musica questo processo di immaginare lo spazio adatto per il dram-ma di Edipo si riproponeva con forza. Una volta sentii il bisogno di di-segnare queste immagini e di incardinare la successione degli schizzi, tanto essi mi apparvero conseguenti pur se molto diversi l’uno dall’al-tro. Era il giugno del 1969 ed ero occupato dalla redazione della tesi sulla natura semiologica dell’architettura, tutta teorica e senza alcun disegno, ragione per cui la voglia di evadere era forte e soprattutto irresistibile era la voglia di disegnare. I dieci foglietti di carta da lettere illustrano un percorso ideativo che si fonda sui seguenti punti fer-mi: gli attori devono essere statici, ciascuno ad un posto assegnato, il coro bloccato dai gusci che lo fanno apparire statuario, la scena tutta costruita senza alcuna parte dipinta.

Nei primi quattro fogli avevo studiato una partizione della scena sull’asse centrale, luogo riservato ad Edipo: a sinistra dell’osservatore un grande solido con la faccia superiore inclinata, popolata dalle sta-tue del coro; nella metà a destra, simmetrica alla prima, agivano gli attori. Nel quarto foglietto la parte destra era definita da una faccia superiore a forte inclinazione, spingendo gli attori ad agire in primo piano, ciascuno indicato e coperto da una stele quando non era pre-sente nell’azione (fig. 3). La soluzione appariva buona ma l’indomani mi apparve del tutto insufficiente tanto da costringermi a mutare rotta.

3. Studio per Oedipus Rex di I. Strawinskij

1969, foglio 4

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La ragione stava nella corsia di proscenio destinata ai cinque atto-ri che era del tutto indifferenziata e neutra in rapporto alla grande evidenza scenica riservata al coro. Pensai ad un solido centrale che imprigionasse Edipo al suo interno, un ordigno plastico che rendesse visibile la sua condizione umana ed il suo destino (fig. 4). Il coro stava "pietrificato" in un fregio incassato nel muro della reggia tebana. Da questo punto le soluzioni alternative mi si affollavano alla mente ed alcune le disegnai anche, come quella in cui il destino è raffigurato mediante una gabbia o una rete che ha la forma di una corona regale (fig. 5). Infatti è la corona di Tebe, conquistata sulla Sfinge, la causa delle miserie di Edipo. Il coro è in primo piano incapsulato in una teo-ria di statue, mentre dal fondo avanzano gli attori che discendono su un praticabile a forte convessità. Il disegno mi sembrava buono ma non potei fare a meno di ritornare all’idea di solidi che imprigionano il povero re. Un muro, punteggiato da una teoria di nicchie con le teste dei coristi, è desinente in due grandi volute convergenti che creano una nicchia per Edipo; un prisma indefinito la sovrasta (fig. 6). Una variante si presenta con forme più sintetiche (fig. 7).

Qualche mese dopo ritornai a riprendere il filo progettuale della scena con una prima soluzione in gran parte descrittiva di una loggia regale, da cui si affaccia Edipo sotto un baldacchino, e di una grande scala da cui discende Giocasta ed una forte luce che taglia con ombre dense lo spazio del proscenio in cui si affolla il coro (fig. 8). Per succes-sive semplificazioni si passa ad un portico fitto di pilastri (fig. 9) e poi,

4/5. Studi per Oedipus Rex 1969, fogli 6 e 7.Il destino di Edipo pensato «come laccio, come rete, come gabbia piuttosto che come masse […]. Un piano convesso si stende per tutta la scena; le statue del coro ne popolano la parte inferiore. In alto un’altissima gabbia reticolare occupa il centro con il suo profilo svasato come una corona regale. È il segno della regalità su Tebe, conquistata sulla Sfinge, che danna Edipo». Accanto una sezione mostra l’andamento dei piani.

Pagina accantostudi per Oedipus Rex

6. 1969, foglio 87. 1969, foglio 98. 1970, foglio 19. 1970 foglio 2

10. 1970, foglio 6

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11/12. Studi per Elektra, di R. Strauss, 1970, fogli 1 e 2

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esaltando il ruolo delle scale come elemento architettonico a forte valenza simbolica, si giunge a soluzioni sempre più astratte (fig. 10).

Anche la serie di schizzi per l’Elektra di Strauss su testo di Ugo von Hoffmansthal, l’autore che più amavo in quegli anni, segue lo stesso procedimento da una visione naturalistica ad una astratta. Il primo disegno mostra una corte sovrastata da muri di pietra – o forse da rocce tagliate – che non lasciano visibile un solo tratto di cielo, spa-zio opprimente ed ostile che le numerose aperture – nicchie, porte, passaggi e finestre – non rendono più gradevole (fig. 11). Della scena ricercai subito di fissare lo schema planimetrico e di sviluppare un dettaglio (fig. 12) mantenendone i caratteri descrittivi, poi il proce-dimento di stilizzazione ebbe corso con una scena più unitaria ma ancora naturalistica che esalta i due ingressi (fig. 13) e poi con un impianto scenico più astratto e perfettamente simmetrico, in cui una metà è campo di azione per Oreste, l’altra metà per Clitennestra che entrano in scena da aperture distinte, il figlio da una passaggio rivol-to verso la luce, la madre da un passaggio che affonda nell’oscurità (fig. 14). La soluzione seguente rende ancora più semplici i volumi ed individua al centro lo spazio di azione per Elettra (fig. 15). Ritorna quindi la scena come nicchia intagliata in un banco roccioso (fig. 16) ed infine, dopo innumerevoli gradi di semplificazione, si giunge alla scena essenziale (fig. 17), due passaggi, uno che conduce in alto, uno che proviene dal basso con intenzioni simboliche evidenti per tut-ti gli spettatori. L’immagine ha la semplicità e l’essenzialità plastica

13. Studio per Elektra1970, foglio 3

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Difficile oggi ricondurre la parola scenografia al suo significato eti-mologico. Appare infatti naturale essere consapevoli che il teatro in tutte le sue accezioni strutturali e spaziali, originario luogo dove si esercitava tra le altre, anche l’arte scenografica ha oggi acquisito una libertà di invenzione e rappresentazione che lo ha sottratto a strette categorizzazioni e generi. Per essere più precisi possiamo dire che ac-canto alla messa in scena canonica, in uno spazio teatrale tradizionale (teatro all’italiana per esempio) sempre più spesso registi e attori si rivolgono alla ricerca e all’uso di spazi non deputati, siano essi urbani o naturali, al fine di individuare e innestare nella rappresentazione valori aggiunti derivanti dall’utilizzo di “quello spazio” particolare. Ecco dunque le suggestioni del genius loci e una nuova forma di sceno-grafia che diviene integrativa della spazialità “altra” che pieghiamo al nostro disegno artistico.

E’ utile ricordare che nel teatro il concetto di spazio ha almeno due diverse concezioni e due significati: il primo è lo spazio fisico, il luogo della rappresentazione, la cui conoscenza deriva dal mondo della scienza, il secondo è lo spazio della immaginazione, uno spa-zio mentale, intuitivo che si definisce spazio mitopoietico: «Lo spazio non precede le cose che lo occupano, ma, al contrario, viene da esse costruito. Lo spazio mitopoietico è sempre pieno e sempre reale; fuo-ri dalle cose esso non esiste. Lo spazio non solo è saldamente legato al tempo in un rapporto di reciproca influenza e determinazione, ma anche al proprio riempirsi di oggetti, cioè a tutto ciò che in un modo

De La Guarda, Villa Villa, 1995

* Architettoscenografo, regista

Le suggestioni del genius lociScenografia come interpretazione spaziale

Manuel Giliberti *

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Gli spettacoli

E ora il palcoscenico! E’ lì che a volte avviene il miracolo. Si riflette, si studia, si discute ma poi è su quelle tavole che le idee prendono vita, i personaggi si rivelano agli interpreti e sbocciano soluzioni che non erano attese o che si erano appena intuite. E’ sul palcoscenico – il luogo dove si gioca a fare sul serio- che la poesia acquista la sua indipendenza e qualche volta ci dona le sue ragioni che la ragione non conosce.

Glauco Mauri, Roberto Sturno, 2006

G. Mauri, R. Sturno, Delitto e Castigo di F. Dostoevskij, pubblicazione di sala, 2006-07, p. 24.

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La proposta del percorso Esplora – palcoscenico contemporaneo, fa-cente parte della stagione 2008/09 del Teatro Vittorio Emanuele di Noto, nasce con l’idea di avvicinare il pubblico ad un linguaggio in-novativo della scena, che si è soliti identificare come teatro “contem-poraneo” o “d’innovazione”. Definire il teatro, ossia confinarlo in un genere, è di per sé riduttivo, poiché l’idea stessa di teatro contempo-raneo sta proprio nella peculiarità di non lasciarsi chiudere in confini circoscrivibili, ovvero di essere indefinibile, di uscire fuori dai generi, per lasciare libero sfogo alla creatività. La sfida che Esplora ha lanciato in un territorio come quello della provincia, non è stata nel proporre una stagione alternativa alle pro-grammazioni più usuali, ma bensì di creare nello spettatore un “gu-sto” e un “codice di lettura” di quello che può essere oggi identificato come “contemporaneo”. Bisogna partire da un analisi antropologica e culturale del territorio, risalendo alle politiche culturali che fino ad oggi si sono attuate nella provincia italiana, e da lì si capisce come i confini fra nord e sud si attenuano, perché si intuisce che il problema del pubblico e del contemporaneo, accomuna tutti, da nord a sud. Forse in un sud così estremo, come è la provincia di Siracusa, propor-re una programmazione così lontana dagli standard dell’offerta ordi-naria, risulta doppiamente difficile. Innanzitutto perché agiamo su un terreno privo di un precedente culturale del genere, e poi perchè il nostro destinatario privilegiato è un utente giovane, che porta con sé una frattura di disinformazione teatrale e culturale, quasi decennale.

Esplora: un’esperienza contemporaneaCorrado Russo *

* Direttore artistico,Fondazione Teatro Vittorio

Emanuele di Noto

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Vincenzo Carta & Benjamin Vandewalle – We Go VzwIn Betweenvisione dall’interno

concezione e coreografia di Carta & Benjamin Vandewallemusica originale di Michael Northancoproduzione Monty, Fabbrica Europa, Santarcangelo Festival, STUK kunstencentrumcon il supporto di Vlaamse Gemeenschap, Buda, het Cultuur 2000 Programma van de Europese Unie in het kader van Enhanced DanceWEB-Europee la collaborazione di Ulti’mates/Ultima Vez, Rosas

Il primo maggio 2007 entriamo nello studio di danza dello STUK di Leuven con il pro-posito di restare chiusi nello spazio per dieci giorni. Abbiamo concordato di non ricor-rere ad alcun tipo di comunicazione verbale durante l’intera permanenza. Al termine dei dieci giorni, alle 20 esatte, lo studio viene riaperto a un pubblico selezionato per essere testimone di una performance. Questo è l’inizio del processo creativo. Forse solo l’1% di ciò che è stato prodotto tra queste quattro pareti è stato poi sviluppato. L’assun-to principale è stato mantenuto: creare un pezzo di danza impiegando la danza come strumento di discussione sulla creazione stessa. E’ nello spazio intermedio che la danza è creata. Ci muoviamo in uno spazio nero con luci soffuse. I punti di riferimento spaziali sono per quanto possibile eliminati; unico punto di riferimento è il corpo dell’altra persona. Ogni singolo gesto viene messo costantemente in relazione con i movimenti dell’altro. La performance non ha una coreografia prestabilita, ma deriva da una precisa interazione con l’altra persona, raggiunta mantenendo specifici stati della mente. [...] Solo seguendoci l’un l’altro e mantenendo una totale concentrazione su ciò che stia-mo facendo riusciamo a creare una conversazione interessante. [...] Ciò che importa è focalizzarsi in ogni istante sui movimenti dell’altro e sulla sua posizione nello spazio, affinché ogni singola azione eseguita da ciascuno sia il risultato di un’attenta osser-vazione e partecipazione a quello dell’altro. Si crea così un loop infinito di movimenti rifratti, come il feedback creato da un microfono posizionato vicino a un altoparlante.

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Balletto CivileSalomon

ideazione coreografia Michela Lucentiin scena Francesco Gabrielli, Emanuele Braga, Maurizio Camilli, Yuri Ferrero, Damiano Madiatesti Balletto Civiledisegno luci Stefano Mazzantiscena Balletto Civileprodotto da Balletto Civile

L’eco delle parole dei nostri padri nei nostri occhi e nei nostri corpi.I nostri corpi forti ma un poco tormentati e meditabondi.Le parole dei nostri padri che non stanno nelle nostre bocche e i loro discorsi che escono come dei fiumi incontrollabili.Noi figli di imprenditori, noi figli di comunisti, noi figli di silenziosi uomini burberi, noi figli di padri premurosi.I padri nei ricordi, i padri che dovremmo diventare e i padri che ci avevano fatto sognare.Salomon è una corsa tormentata e sospesa di giovani uomini del tutto disorientati da tutta questa eredità. Il palco è cosparso di petali rossi, che è sostegno caloroso e scivoloso allo stesso tempo. Sul fondo una porta o un materasso, una luminosa uscita di emergenza o un muro di gomma sul quale non si può che rimbalzare piangere e riposare.È uno spettacolo semplice ed energico che in qualche modo invoca un ‘ingenuità ori-ginaria e denuncia una certa insofferenza e inadeguatezza ai codici del mondo che ci hanno dato da abitare.

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Daf & Studio12Giampiero CicciòGiovanna d’Arco di Borgovecchiotesto e regia di Gianni Guardigliluci e fonica Marco Zara

Proposto con grande successo di critica e di pubblico nel festival Kals’art di Palermo e ripreso più volte in vari teatri nazionali, lo spettacolo Giovanna d’Arco di Borgovecchio è scritto e diretto da Gianni Guardigli (Premio Flaiano, Premio Idi, Premio Riccione) e interpretato da Giampiero Cicciò. La pièce ha ricevuto il Premio Fondi La Pastora 2006 come spettacolo dell’anno. E’ un monologo comico ma dalle tinte amare che ha per protagonista un’anziana donna siciliana che vive in una condizione di profonda solitudine, ossessionata dai messaggi dei mezzi di comunicazione. Il suo unico nipote si è trasferito a Roma e sta tentando una carriera artistica. Lei non ha ben chiaro in che cosa consiste e continua a fantasticare, ad insistere sulle grandi doti professionali e umane del ragazzo. I fraintendimenti e gli equivoci si susseguono e s’intrecciano, creando un inevitabile tessuto di comicità. La Signora ha un altro progetto: consigliata da una mortuaria Ecuba, che ogni notte le appare in sogno, deve purificare la cucina siciliana, e il mondo occidentale in genere, dai detestati influssi arabi. Le sue giornate sono così scandite da un maniacale lavoro di divisione di “semi buoni” da “semi cattivi” con la meticolosità di un personaggio mitologico.Ma tutto questo naturalmente rappresenta un artificio, un mosaico bizantino di verità create ad arte per comporre una rassicurante piramide che tiene in piedi questa soli-taria esistenza.

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Emma Dante / Sud Costa OccidentaleVita mia di Emma Dantedirezione organizzativa Fanny Bouquerel, luci Christian Zucarocon Ersilia Lombardo, Enzo Di Michele, Giacomo Guarneri, Alessio Piazzaregia Emma Dante, produzione Sud Costa Occidentaleco-produttore principale Romeuropa festival 2004co-produttori Scènes étrangères- La Rose des Vents/ Lille, Festival Castel dei mondi 2004

Entriamo in una stanza vuota con un letto al centro. Cos’è quel letto ci chiediamo: un riparo? Una pace pigra? Un termine?C’è un viaggio nel tempo e nello spazio attorno a quel catafalco e ciò che muove tutto è qualcosa che non possiamo comprendere. La stanza dove entriamo è un buco sul nulla. È il posto dove l’anima per un attimo si sospende nell’aria prima di strapparsi dal corpo. Una madre guarda con occhi dolci e tristi i tre figli che ha di fronte e gli inse-gna che la vita è la cosa più preziosa, è qualcosa che fugge, passa. La vita è una corsa attorno a quel letto. Vita mia è il tentativo folle e disperato di ritardare fino allo stremo delle forze quest’ultimo giro prima della morte. Chi è il prescelto? A chi tocca? Al più grande o al più piccolo? Al più buono o al più cattivo? E soprattutto perché toccherà a chi ancora non è pronto, a chi non si è fermato, a chi mantiene fermi gli impulsi della vita, le idee, le scoperte, i progetti, le piccole cariche d’energia?Tra Gaspare, Uccio e Chicco c’è un morto che deve occupare quel letto, ma la madre non vuole saperne, vacilla, si mette a sedere, piega la testa di lato e se li guarda a uno a uno i suoi maschi di casa: il grande, il mezzano, il piccolo… Come fa a sentirlo “suo” quel figlio morto? Con quale coraggio lo porterà fra le braccia sul letto “conzato di lutto”, dopo averlo vestito e avergli bisbigliato nell’orecchio parole d’amore? Come faranno le sue gambe a non cederle inaspettatamente?Tutto è immobile: i gesti, i ricordi, le parole di conforto, i rimorsi, quell’ultimo ritmo di pulsazione del cuore che si ripete all’infinito. Vita mia è una veglia.Quel letto è una nave di pietra e quella stanza è il mare che ci risucchia e sparisce.Emma Dante, a mio fratello Dario

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Collegio dei Gesuiti, cortile, fotomontaggio, A3 Tubi

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Il workshop

CAMPESE: Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette…sette passi.Poco più di cinque metri. Calcoliamo il doppio per misurare la metà del

cortile: dieci. Bè, il cortile di un palazzo antico come questo è sempre quadrato: venti per venti. E’ un bel cortile!

Si potrebbe fare un discreto teatro.Quattrocento, cinquecento posti si tirerebbero fuori…

Il resto, palcoscenico. Ma nemmeno un palcoscenico vero e proprio; una pedana sarebbe sufficiente.

Eduardo De Filippo, L’arte della commedia, 1964

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Chiesa di Santa Caterina, Cubo al teatro

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……nulla è più straordinario di queste strade laterali, in salita, meravi-gliosamente lastricate a quadrettature di lava e di pietra bianca; né per quanto ripide, sembrano in salita, ma come si è accennato, traducono la salita in prospettiva, nelle sdrucciolevoli, precipiti prospettive masoline-sche, a risucchio, a imbuto come tramoggie rovesciate. […] Da questa trasposizione di una prospettiva reale in finta prospettiva il ritmo archi-tettonico riceve un’accelerazione straordinaria, una messa in evidenza che è come se la strada venisse incontro a noi piuttosto che noi a lei. […] Naturalmente si può bollare tutto ciò come «scenografico», ma attenti; la scenografia, se ridotta ad un trucco, se ridotta cioè a sviluppare l’illusio-nismo d’uno spazio naturalistico alle spese della spazialità propria dell’im-magine, intende dilatare lo spazio finto in uno spazio vero, mentre qui si rovescia il problema e d’uno spazio vero se ne fa uno finto: lo spazio natu-rale viene a trovarsi compigiato come se si abbassi il soffietto d’un mantice, o come se, d’un colpo, si chiudano le stecche d’un ventaglio. La forzatura indotta è d’un effetto squisito, il frutto quasi d’un leggero incanto.

Cesare Brandi, Noto, 19491

Teatro nei luoghi urbani di Noto, la città più scenografica della Sicilia orientale, dove la struttura urbana è tale da indurre suggestioni illu-sorie; come sapientemente coglie Cesare Brandi, tale espediente è realizzato attraverso una teoria di spazi reali, dove l’uomo muovendo-si non rischia di svelare un trucco prospettico mostrando l’incedere

Luoghi della scena nella città teatrale Vittorio Fiore

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Appendice

Il problema dello spazio non è […] come e dove mettere gli spettatori, o come creare lo sfondo della rappresentazione; lo spazio del teatro diventa

quel sistema di relazioni in cui il teatro consiste.

Fabrizio Cruciani, 1992

Fabrizio Cruciani, Lo spazio del teatro, Laterza, Roma-Bari 2003

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Le nostre belle arti sono state istituite - e i loro caratteri e il loro uso fissati - in un tempo molto diverso dal nostro, da uomini il cui potere d’azione sulle cose era insignificante in confronto a quello che possediamo noi. (…) Vi è in tutte le arti una parte fisica che non può più essere considera-ta e trattata come si è fatto finora (…). Nè la materia, né lo spazio, né il tempo sono da vent’anni ciò che erano sempre stati. Bisogna aspettarsi che novità così grandi trasformino completamente la tecnica delle arti, agiscano con essa sulla stessa invenzione, giungano forse a modificare meravigliosamente anche la nozione di arte.

P. Valery, Scritti sull’arte, 19341

1. P. Valery, Scritti sull’arte, TEA arte, Milano,1996, p. 107 (1934 Editions Gallimard, 1984 Ugo Guanda Editore).

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Il teatro, sin dalle sue antichissime origini, è stato legato alla strut-tura urbana, al dinamismo della vita sociale; i suoi molteplici e diversi contenuti non si sono mai separati e allontanati dalla città in cui eser-cita, da sempre, una funzione politica e culturale, ora in modo espli-cito, ora sottinteso e latente, in relazione ai diversi momenti storico-culturali di cui è sensibile espressione e durante i quali ricerca nuove forme di realismo e sperimentalismi d’avanguardia.

Importante opera civile dell’organizzazione della città, il luogo della rappresentazione è progettato e costruito per essere uno spazio di ri-chiamo per la collettività che, invitata a partecipare come pubblico, è destinataria di messaggi didattici ed ideologici e coinvolta dal punto di vista emotivo ed intellettuale.

Il luogo che ospita la funzione teatrale, oggi, non è sempre uno specifico edificio da realizzare ex novo ma è frequente che sia un or-ganismo edilizio esistente che offre aspetti interessanti per la dimen-sione e gli spazi che contiene e soprattutto per la sua relazione con la città. Se è vero che l’ambito dell’architettura è in grado di accogliere contenuti diversi, di innovarsi ed ampliare il proprio campo d’azione secondo logiche che vedono nel riuso e buon uso di un edificio un mezzo e il fine ultimo per la sua cura e conservazione, si vuole dimo-strare attraverso la lettura di alcuni progetti di recupero, presentata di seguito, come il teatro abbia trovato la sua ambientazione in edifici con caratteristiche funzionali diverse.

Le schede1 elaborate raccontano i modi e gli obiettivi in base ai

Architetture per il teatroUn percorso tra casi studio

Patrizia Carnazzo

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Strategie di riusoGli obiettivi di conservare un’importante testimonianza di archeologia industriale del 19mo secolo e di riqualificare un’area urbana adiacente al centro storico dialogano con alcune soluzioni progettuali contemporanee ed innovative. La diversità formale e il carattere strutturale dei tre edifici, che componevano il complesso produttivo originario, la loro localizzazione all’interno del parco hanno posto vincoli al progetto di recupero che, per accogliere nuove funzioni di rilevanza urbana e territoriale, ha previsto alcune soluzioni giudicate ardite: tra queste le tre grandi vetrate che sostitu-iscono i muri trasversali demoliti del corpo principale trasformano il rapporto tradizionale preesistente tra interno ed esterno e svolgono una funzione di richiamo, svelando l’attività e la dimensione del nuovo spazio.

Spazio teatraleIl corpo di fabbrica principale, lungo m 90, contiene tutte le funzioni dedicate allo spettacolo: il foyer a due livelli, in cui sono allocati la reception, la biglietteria e il guardaroba, la platea di 780 posti, posizionata su un’area di mq 590, legger-mente inclinata per permettere la visione da ogni posto della sala, il palcoscenico abbastanza grande, mq 250 metri, da potere ospitare contemporaneamente un’orchestra sinfonica e il coro e chiuso da uno schermo in vetro che valorizza l’inserimento dell’auditorium nel parco.

Spazio scenicoEliminata ogni barriera tra l’edificio e lo spazio circostante, il parco, elemento di pregio e di valore nella città, avvolge completamente la costruzione e diventa la scena naturale e dunque mutevole dell’auditorium. L’area verde, che assicura un naturale isolamento acustico e fisico, è protagonista in questa riqualificazione urbana e in questo senso deve essere letto lo sforzo di rendere sempre visibile il verde anche dall’interno dell’edificio principale, a partire dal foyer, fino alla platea e al palco3.

Bibliografia1. Casabella Redazione, Renzo Piano Building Workshop, architects. Auditorio Niccolò Paganini. Parma 2001 in «Casabella» nn 717-718

dicembre 2003/gennaio 2004, pp. 78-89.2. F. Irace, G. Basilico, S. Rossi, Renzo Piano. La fabbrica della musica. L’ Auditorium Paganini nella città di Parma, Abitare Segesta, 2002.3. C. Pifferi, Renzo Piano Building Workshop. Il recupero dell’ex zuccherificio Eridania a Parma in «Costruire in laterizio», n 105 maggio/

giugno 2005, pp. 66-71.4. M. R. Pinto, Il tema del riuso nel Piano Regolatore Generale di Parma in F. Castagneto, D. Radogna (a cura di), Lo spazio della musica.

Flessibilità e nuove configurazioni spaziali, Gangemi Editore, Roma, 2005.5. Renzo Piano Building Workshop, Trasformazione in auditorium di un dismesso edificio industriale del 19mo secolo: il risultato genera

ammirazione sia per le qualità acustiche ottenute sia per la leggerezza e trasparenza del restauro, testo per gentile concessione Rpbw.

Progetto Renzo Piano Building Workshopconsulenti: Müller BBM; P. Costa ; Manens Intertecnica ; Paghera; Studio Galli;Gierrevideo; Amitaf; Austin Italia; F. Santolini

Localizzazione/committente Comune di ParmaCronologia Progetto 1997, realizzazione 1999-2001Destinazione originaria Zuccherificio EridaniaNuova destinazione Spazio per la musica

Auditorium Niccoló PaganiniParma

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Strategie di riusoL’inserimento di un nuovo nucleo edilizio all’interno di un capannone industriale del primo Novecento risponde all’esi-genza di rinnovare una sala cinematografica già esistente nell’edificio. La scelta progettuale vuole autonomi e comple-mentari i due volumi, il nuovo e il vecchio, in modo che le dimensioni e i caratteri architettonici originari siano conservati e l’effetto spaziale sia riqualificato. Il progetto, comparando un’apparente incompatibilità, innesta un oggetto che diventa soggetto regolatore capace di governare e organizzare il vuoto lasciato dal Ketheluis I e sistema le funzioni richieste in spazi ben definiti: cinema, servizi e una piccola piazza coperta, un ambiente intermedio semi-pubblico, sospeso nell’ambiguità tra esterno ed interno1.

Spazio teatraleLe due sale proiezioni di 50 posti ciascuno e la sala più grande di 143 posti sono rivestite interamente da un caldo colore rosso che genera suggestioni intime e raccolte in cui la dimensione spazio-temporale è temporaneamente sospesa; l’esterno, invece, ha materiali e colori freddi come il ferro delle capriate del capannone, le lamiere d’acciaio piegate dei corpi scala e l’azzurro del bar: è uno spazio di relazioni, un luogo di transizione tra dentro e fuori ed evoca atmosfere con un carattere metropolitano e industriale e per sua vocazione veloce2.

Spazio scenicoLe tre sale di proiezione e il capannone industriale sono la scenografia fissa di una rappresentazione dal linguaggio semplice e schietto: il nuovo volume, leggero da un punto di vista materico-costruttivo e monumentale per la forma, rivela la sua presenza per contrasto con il vecchio capannone che dichiara la sua originaria destinazione d’uso, mostran-do il rigore e la purezza della sua struttura. Non finzione o illusione ma conoscenza ed esperienza storica attendono il visitatore che rimane coinvolto in una riuscita dialettica tra vetustà, durezza industriale di questi “non puliti” interni originali e la “temporaneità permanente” introdotta dal nuovo del gruppo delle sale che vi si innesta all’interno1.

Bibliografia1. C. Anselmi, Cinema ad Amsterdam, Olanda in «L’industria delle costruzioni. Rivista tecnica dell’ANCE», n 403, settembre/ottobre 2008,

pp. 70-75.Sitografia2. www.b-c-t-a.net3. www.industriadellecostruzioni.it

ProgettoRamin Visch, Mark Helder Localizzazione Amsterdam Cronologia Progetto 2004, realizzazione 2006Destinazione originariaCapannone industrialeNuova destinazioneCinema

Het Ketelhuis II CinemaAmsterdam

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Strategie di riusoUn piccolo edificio per il culto, in stile barocco, che ha conosciuto nei secoli il susseguirsi di molteplici destinazioni d’uso, ritorna a parlare chiaro grazie ad un progetto che ne recupera il valore storico-artistico e ne rafforza l’esistenza affiancandogli un nuovo volume. Questo ripropone in chiave moderna l’immagine vistosa dell’antica chiesa traducen-dola in un’architettura semplice per nulla neutrale che ha la forza di fare emergere il complesso edilizio costituito ex novo in un contesto urbano caotico ed eterogeneo, nel cuore della capitale belga. Il nuovo centro culturale, come effetto della sua presenza, offre un luogo di relazioni urbane e si pone al servizio della città, come qualsiasi edificio pubblico deve sapere fare.

Spazio teatraleLa sala per gli spettacoli è ricavata all’interno dell’edificio antico completamente svuotato. La chiesa barocca e la nuova struttura, alta sei piani, sono collegate da un volume vetrato che contiene il corpo scale e l’ascensore. Il piano interrato è destinato ai locali di servizio, al piano terreno si trovano il ristorante e il foyer a doppia altezza, i due piani superiori ospitano un piccolo teatro di 100 posti e il sottotetto è pensato come uno spazio polivalente da cui è possibile osser-vare la città circostante.

Spazio scenicoL’architettura monumentale crea un mondo chiuso per lo spazio teatrale; i muri di pietra separano l’ambito della fan-tasia e dell’immaginario dalla realtà e non rivelano nulla della nuova funzione che rimane nascosta come un prezioso segreto. L’esistenza del teatro è denunciata all’esterno dagli ambienti del living inseriti nella nuova struttura che recu-perano alla vista dell’osservatore un panorama sui generis: si può osservare la torre immobile che ha scacciato la Casa di Horta, gli appezzamenti che attendono sempre una costruzione, le linee della ferrovia che collegano la stazione nord e la stazione Midi… una realtà impossibile da dissimulare1.

Bibliografia1. C. Prati, Raddoppio dell’edificio Les Brigittines a Bruxelles, Belgio in «L’industria delle costruzioni. Rivista tecnica dell’ANCE», n 403, set-

tembre/ottobre 2008, pp. 76-83.Sitografia2. www.constructalia.com3. www.industriadellecostruzioni.it

Progetto Andrea Bruno, SumProjectLocalizzazione BruxellesCronologia Progetto 2004, realizzazione 2007Destinazione originariaCappella del 1637, progettata da Léon van Heil Nuova destinazioneCentro destinato alla danza e al canto

Centro di Arte ContemporaneaBruxelles

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Strategie di riusoUn palazzo dell’Ottocento, destinato in origine ad attività commerciali e ad abitazione, è l’oggetto di questo recupero che ha come obiettivo il riuso di uno spazio edilizio da destinare all’arte, attuando un programma funzionale ardito e vivace in un luogo strategico, una zona facilmente accessibile e vicino a uno degli assi commerciali più importanti e affollati della città1. Lasciate intatte le superfici esterne, testimonianza del linguaggio architettonico neoclassico, l’intervento si rivolge agli ambienti interni del piano terra, del primo e secondo piano e al cortile, che negli anni Trenta era stato chiuso alla quota del solaio del primo piano per la costruzione di una sala cinematografica con platea e galleria, il Cinema Giardini.

Spazio teatraleLa nuova sala cinematografica conferisce all’edificio esistente la qualità di un’architettura di rilevanza civile; realizzata al posto della platea del Cinema Giardini, può anche ospitare piccoli spettacoli teatrali e musicali avendo un palco rial-zato. Contiene 200 posti ed è interamente rivestita con pannelli quadrati in mogano, fonoassorbenti, disegnati da Gae Aulenti. L’effetto ottenuto è di uno scrigno chiuso in cui le porte e i dispositivi di apertura/chiusura si nascondono nel rivestimento ligneo. Sullo stesso piano si trovano la biglietteria e una piccola libreria tematica.

Spazio scenicoIl nuovo cinema, elemento che struttura l’intervento insieme alla grande sala espositiva e al volume che contiene le scale, è uno spazio racchiuso interamente all’interno; gli apparati e gli effetti dello spazio scenico appartengono esclusivamente al mondo dello spettacolo, fantastico e immaginifico, al quale si accede attraverso il percorso delle sale espositive che diventa il filtro tra il dentro e il fuori. La nuova dimensione interna è svelata solo dalla presenza delle vetrate dell’atrio a doppia altezza.

Bibliografia1. G. Borasi, Spazio Oberdan: tra struttura e rivestimento in «Lotus International» n 103, dicembre 1999, pp. 106-114.2. Gae Aulenti architetti associati, Spazio Oberdan, Milano (1997-1999), testo per gentile concessione dello studio Gae Aulenti.

Sitografia3. www.gaeaulenti.it

Progetto Gae AulentiLocalizzazione MilanoCronologia Progetto1997, realizzazione 1999Destinazione originariaEdificio per abitazioni ed attività commercialiNuova destinazioneCinema e centro culturale

Spazio Oberdan Milano

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Ph. Studio G. Aulenti

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Strategie di riusoSalemi presenta un impianto urbano arabo che si è disteso su un territorio acclive, superandone le difficoltà dell’oro-grafia2.In questo tessuto terrazzato, dall’impossibilità di recupero di un edificio crollato con il terremoto del 1968 e dai suoi ruderi, l’autore fa rinascere la nuova funzione e i nuovi rapporti con la città ed il contesto, esaltando valenze svelate dal vuoto creatosi ed insite in esso, fissando la memoria latente delle distruzione.Nel recupero dei ruderi del Convento del Carmine il nuovo ingloba le membrature, ne accoglie didascalicamente i fram-menti. Soprattutto dà forma al vuoto della sua assenza5.

Spazio teatraleL’invaso, un’alveo di pietra1 configurato da una cavea e da un palcoscenico inclinato, costituisce un’ideale congiunzione tra centro storico e paesaggio; il primo adagiato su pendii con forti dislivelli presenta un tessuto di viuzze e scale, il se-condo si guadagna alla vista una volta raggiunta la quota del camminamento progettato lungo il perimetro: frammento e paesaggio si relazionano mediante l’orizzonte5.

Spazio scenicoLa scena fissa è realizzata con un piano inclinato, nella cui superficie in acciottolato sono affondati frammenti architet-tonici, che assumono il compito di punti focali, restituendo dinamicità alle azioni sceniche, costituendo elementi su cui sedersi o intorno a cui riunirsi che restituiscono spunti alla regia, che può affidare loro diverse valenze, per azioni anche contemporanee; il paesaggio svolge funzione di fondale naturale, come nel teatro classico: la vista sulla vasta campagna si estende fino al mare visto brillare a un orizzonte lontano; e le Egadi, solo indovinate5.

Bibliografia1. B. Messina (a cura di), Francesco Venezia. Architetture in Sicilia 1980-1993, CLEAN, Napoli, 1993, pp. 24-27.2. F. Venezia, M. Jodice, Salemi e il suo territorio, Electa, Milano, 1984.3. F. Venezia, Due case, tre edifici pubblici, ARQ, Santiago del Chile, 1994, p. 112.4. W.J.R. Curtis, Modern architecture since 1900, Phaidon, London (1982) 1996 (third edition), pp. 627-6285. F. Venezia, Francesco Venezia. L’architettura, gli scritti, la critica, Electa, Milano, 1998, pp. 100-103.

Progetto Francesco Veneziacon Marcella Aprile e Roberto Collovà

Localizzazione Salemi (TP)Cronologia 1983-1986 Destinazione originariaRuderi del convento del CarmineNuova destinazioneTeatro all’aperto

Teatrino all'apertoSalemi

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Strategie di riusoIl progetto di recupero degli architetti Perra e Loche si riappropria di un luogo di scavo dismesso dagli anni Settanta del secolo scorso, sito sulla costa occidentale della Sardegna, in un’area dalle forti valenze storico-naturalistiche. Le potenzialità insite in questo luogo trovano la loro realizzazione nella nuova destinazione d’uso: un parco dei suoni, ad un tempo luogo di divulgazione e laboratorio permanente di sperimentazione e produzione di progetti culturali, ove far interagire musica, arti visive e teatro1. L’organizzazione degli spazi all’interno della cava, dalla forma definita geometricamente ad “L”, funziona come un’efficiente macchina distributiva: il teatrino all’aperto in un estremo del parco, un percorso di sculture sonore al centro della cava, che collega lo spazio delle rappresentazioni con l’unico fabbricato coperto in cui sono sistemati i servizi principali, l’area degli uffici e le sale polivalenti.

Spazio teatraleL’area destinata dal progetto alle rappresentazioni artistiche occupa l’estremo sud della cava in un terreno in leggera pendenza su cui sono collocate pedane e una rampa che lo rendono utilizzabile come teatro all’aperto. Le qualità acustiche del luogo sono amplificate e valorizzate dal sistema dei percorsi che attraversa lo spazio aperto dell’invaso e dall’impiego di materiali, come il legno e la pietra arenaria che concretizzano l’identità del luogo.

Spazio scenicoLo sfondo costituito dalle pareti rossicce della cava è la scenografia continua degli spazi aperti (il teatro e l’area delle sculture) e dell’edificio del centro visite che, delimitato da un portico rivestito dalla pietra estratta in loco, ricostituisce un fronte dell’invaso, più leggero e irregolare rispetto alla pesantezza e l’uniformità delle alte pareti rocciose. Le evocazioni percettive che coinvolgono il visitatore non sono solo sonore ma anche prospettiche, nella sequenza di molteplici inquadrature, e tattili, nelle incisioni lasciate dalle attività estrattive.

Bibliografia1. M. Mulazzani, Perra & Loche. Parco dei suoni nelle cave del Sinis, Oristano. Tra natura e geometria in «Casabella» n 774, febbraio 2009,

pp. 68-74.

Sitografia2. www.architetturadipietra.it3. www.domusweb.it4. www.europaconcorsi.com

Progetto Pierpaolo Perra, Alberto Antioco Loche Localizzazione Riola Sardo (OR)Cronologia Progetto 2003, realizzazione 2004-2007Destinazione originariaCava di arenariaNuova destinazioneSpazio per la musica, arti visive, teatro

Parco dei suoni nel SinisRiola Sardo

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Strategie di riusoIl riuso delle cave di Fantiano rientra in un progetto di recupero più ampio che ha interessato il centro storico del comune di Grottaglie e alcuni siti rupestri. Un luogo dismesso ed abbandonato (la cava è stata utilizzata negli ultimi trent’anni come discarica abusiva) ha trovato l’occasione per riscattare l’alta valenza paesaggistica che da sempre lo connota come luogo depresso e recinto naturale. Con la collocazione della sede stabile del teatro nell’area delle cave e la realizzazione del Parco Attrezzato delle Gravine e delle Cave, il progetto ha risposto all’esigenza di dotare la città e il territorio circostante di un sistema di spazi in cui svolgere attività culturali, ricreative e sociali.

Spazio teatraleUna depressione naturale del terreno ospita lo spazio teatrale. È il luogo della cava a fossa che accoglie la cavea degli spettatori realizzata utilizzando i gradoni in tufo, lasciati dalle ultime attività estrattive, e costruendo ex novo altri posti a sedere, sempre in pietra locale. Al di sotto della gradinata lapidea, sfruttando la profondità del terreno bonificato, sono collocati i servizi degli spettatori e gli impianti tecnologici. I camerini, i servizi per gli artisti e il personale si trovano dietro il palcoscenico, in un edificio costruito con blocchi di tufo, estratti in loco, e acciaio corten che evoca immagini di un tempo quasi remoto: i macchinari impiegati in questi luoghi per gli scavi. Il progetto di recupero trasforma in palcoscenico un banco tufaceo e un cumulo di scarti che si trovano ai piedi della parete più alta della cava e, dopo avere eliminato ogni forma di degrado, conservando l’ingombro originario, rimodella il piano di calpestio e lo riveste con un tavolato di legno trattato.

Spazio scenicoIl verde e la roccia, la natura e l’orografia del sito sono la quinta naturale del teatro all’aperto: una scena fissa e, in quanto naturale, per valore intrinseco, cangiante permanenza con il trascorrere del tempo. In questo spazio la realtà si fa spettacolo, gli elementi casuali e gli oggetti finiti sono in grado di riappropriarsi di questo luogo attraverso segni immediatamente riconoscibili.

Bibliografia1. Donati D'Elia Associati, Recupero e valorizzazione delle cave di Fantiano. Grottaglie (TA), testo per gentile concessione studio D_progetti

Sitografia2. www.donati-delia.it

Progetto D_progetti Donati D’Elia AssociatiLocalizzazione / Committente Comune di Grottaglie (TA)Cronologia Progetto 2006, realizzazione 2007-08Destinazione originariaCava Nuova destinazioneSpazio per il teatro

Recupero e valorizzazione delle Cave di Fantiano

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Strategie di riusoTeatro di Documenti è un progetto prima di tutto “concettuale”. Nel senso che lo spazio sensibile e fruibile restituisce, attraverso la complessità della concatenazione orizzontale e verticale, uno spazio scenico composito idoneo a sostan-ziare l'idea di “fare teatro” che Luciano Damiani ha alimentato e sperimentato nel corso della sua vita.Ricavato e progettato all'interno delle grotte secentesche del Monte Testaccio, un tempo utilizzate come depositi di derrate alimentari, in questo luogo è reso tangibile un teatro inteso come partecipazione in cui lo spazio possa essere condiviso tra pubblico e attori.L'articolazione volumetrica della preesistenza, una serie di grotte l'una sull'altra, l'una dopo l'altra, costruiscono un luo-go di fruizione dinamica fra luce ed ombra in cui tre sale per rappresentazioni sono collegate da corridoi e passaggi.E' l'idea che si vuole affermare che ha consentito il recupero della volumetria conservandone immutata la configurazio-ne, coniugando istanze della conservazione con istanze della nuova funzione.

Spazio teatrale Il Teatro di Documenti si distingue da altri luoghi per lo spettacolo in quanto progettato e utilizzato dalla stessa perso-na che, in virtù della sua multiforme personalità e per dimostrare i suoi teoremi, costruisce un luogo consono alla sua attività. Per Damiani il teatro è partecipazione; negli ambienti voltati e interconnessi sotto il Monte dei Cocci, attori e pubblico condividono il medesimo spazio. Il senso non è tanto quello del Totaltheater, bensì una scelta che rispecchia la posizione culturale di un regista/scenografo che non distingua tra attore e oggetti della scena/per la scena; l'attore come i dispositivi scenici giocano l'analogo ruolo nella costruzione di situazioni più evocative che realistiche.Una tale teoria del teatro si rinnova ad ogni spettacolo e l'allestimento si confronta inevitabilmente con un assetto che, se pur dato, si offre all'invenzione per “un teatro del Possibile e della Fantasia”.

Spazio scenicoScenografo, architetto, costumista, regista, ha rivoluzionato lo spazio teatrale con scenografie di “struttura” superando il concetto della scena di “decorazione”. Damiani innova l'uso del palcoscenico inteso come impianto scenico all'italiana, invade la platea con veli o accenni architettonici, inventa nuovi spazi, usando il vuoto come poesia della messinscena: «Le mie più belle scenografie sono fatte di silenzi». Adotta soluzioni di nuova concezione per le luci, i costumi, le sce-nografie, introducendo materiali mai utilizzati a quello scopo. I critici hanno affermato che “i suoi spettacoli avevano il potere allucinatorio delle pellicole felliniane.”

Progetto Luciano Damiani (1923-2007)Localizzazione RomaCronologia progetto 1981, realizzazione 1982-87Destinazione originariaGrotte del Monte TestaccioNuova destinazioneTeatro

Teatro di DocumentiRoma

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Sopra: La mandragola di Niccolò Machiavelli, regia, scene, costumi di Luciano Damiani, doppia compagnia, prod. Associazione Teatro di Documenti, 2004, Sala Avorio Inferiore (foto: Marcello Norberth)

Sotto: Teatro di Documenti progettato e costruito da Luciano Damiani, aperto al pubblico nel 1988, Roma, Sala Avorio Superiore e Inferiore (foto: Tommaso Le Pera)

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