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Societa' Italiana delle Scienze Veterinarie LIX Convegno Nazionale Sezione 3: Farmacologia, Clinica Medica e Chirurgia 21-24 September 2005, Viareggio - Italia Societa' Italiana delle Scienze Veterinarie - SISVET- LIX Convegno Nazionale - 2005 - Viareggio, Italia This manuscript is reproduced in the IVIS website with the permission of SISVET Scroll down to view document Close window to return to IVIS

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Societa' Italiana delle Scienze Veterinarie

LIX Convegno Nazionale

Sezione 3: Farmacologia, Clinica Medica e Chirurgia

21-24 September 2005, Viareggio - Italia

Societa' Italiana delle Scienze Veterinarie - SISVET- LIX Convegno Nazionale - 2005 - Viareggio, Italia

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ATTIVAZIONE NEURORMONALE NEL CANE AFFETTO DA INSUFFIC IENZA MITRALICA. DATI PRELIMINARI NEUROHUMORAL ACTIVATION IN DOGS WITH MITRAL INSUFFICIENCY. PRELIMINARY DATA Cuniberti B., Badino P., Barbero R., Borgarelli M.*, Borrelli A.*, Odore R., Re G. Dip.di Patologia Animale, Sez. di Farmacologia e Tossicologia e * Sez. di Clinica Medica, Università degli Studi di Torino Parole chiave: cane, ormoni neuroendocrini, insufficienza cardiaca, insufficienza mitralica. Key words: dog, neuroendocrine hormones, heart failure, mitral insufficiency. SUMMARY - The aim of the study was to identify biochemical markers that may be used in the diagnosis of heart failure caused by mitral insufficiency (MI) in the dog. Twenty-four dogs, 8 affected by MI of different degree and 16 controls, were used to measure plasma proANP 31-67, epinephrine, norepinephrine, angiotensin II and aldosterone levels using ELISA and RIA methods. Data obtained showed that neurohormones increased in the MI group compared with controls in relation to the severity of heart failure, except for aldosterone levels in dogs with decompensated heart failure. Aldosterone is probably down-regulated by high levels of the anti-hypertensive proANP. To conclude, these neurohormones may be used as markers in the diagnosis of heart failure due to MI. Further investigation could verify if these neurohormones may be also considered as markers for the efficacy of drug therapy. INTRODUZIONE – L’insufficienza mitralica (MI) è una delle cause più frequenti di insufficienza cardiaca (IC) nel cane. La caduta della portata e l’ipertensione atriale, che si sviluppano nel corso di MI, determinano l’attivazione di alcuni ormoni neuroendocrini (NH) ad azione vasocostrittrice e sodio-ritentiva (catecolamine, sistema renina-angiotensina-aldosterone) (1,2) o ad azione vasodilatatrice (sistema natriuretico) (3). Questi meccanismi di compenso sono causa del deterioramento della funzione ventricolare nella IC cronica ed inoltre sono correlati con il grado di insufficienza cardiaca (4,5). Lo scopo di questo lavoro è stato quello di misurare i valori basali di alcuni NH (adrenalina, noradrenalina, aldosterone, angiotensina II e proANP 31-67) ed eventualmente di correlarli con la gravità della patologia cardiaca, al fine di poter utilizzare tali marker nella stadiazione e nella prognosi della MI nel cane. MATERIALI E METODI – Nello studio sono stati inclusi 24 soggetti, 16 maschi e 8 femmine, dell’età di 7.7 ± 0.9 anni e del peso di 20.1 ± 2.5 kg (media ± S.E.M.). Sedici soggetti erano sani e 8 affetti da MI; questi ultimi sono stati suddivisi nelle 3 classi ISACHC di IC a seconda della sintomatologia presentata. Da ciascun cane è stato effettuato un prelievo ematico al fine di misurare i livelli plasmatici dei NH. I livelli di proANP 31-67 sono stati dosati mediante un kit immunoenzimatico di tipo competitivo, mentre i livelli plasmatici di adrenalina noradrenalina, angiotensina II e aldosterone sono stati dosati attraverso kit radioimmunoenzimatici indiretti. RISULTATI – In Tabella 1 sono riportati i livelli medi dei NH nei soggetti sani e nei soggetti affetti da MI; per ciascun marker, l’aumento delle rispettive concentrazioni risulta statisticamente significativo, ad esclusione dell’angiotensina II e dell’aldosterone. In Figura 1 sono rappresentati i valori dei NH in relazione ai soggetti sani e alle 3 classi di IC nei cani affetti da MI, in cui è stata riscontrata una tendenza all’aumento in proporzione alla gravità dell’insufficienza cardiaca, ad eccezione dell’aldosterone per i soggetti appartenenti alla classe ISACHC 3.

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NH SANI (n=16) MALATI (n=8) P proANP 31-67 1499 ± 98 fmol/ml 2467 ± 278 fmol/ml 0.0111 adrenalina 0.32 ± 0.03 ng/ml 0.60 ± 0.09 ng/ml 0.0211 noradrenalina 0.42 ± 0.06 ng/ml 0.96 ± 0.2 ng/ml 0.0176 angiotensina II 11.0 ± 1.7 pg/ml 23.5 ± 6.2 pg/ml N.S. aldosterone 25.9 ± 3.0 pg/ml 206.6 ± 78.8 pg/ml N.S.

Tabella 1. Valori degli ormoni neuroendocrini (NH) riscontrati nei soggetti sani ed in quelli affetti da MI (medie ± S.E.M., Unpaired t-test).

proANP 31-67

0

1000

2000

3000

4000

fmol

/ml

Adrenalina

0.0

0.5

1.0

1.5

ng/m

l

Noradrenalina

0

1

2

ng/m

l

Angiotensina II

sani0

25

50

75

pg/m

l

Aldosterone

0

250

500

750sani

ISACHC 1

ISACHC 2

ISACHC 3

pg/m

l

CONCLUSIONI – I dati ottenuti nel presente studio dimostrano un aumento delle concentrazioni di NH nei cani affetti da MI, quindi un’attivazione del sistema nervoso simpatico, dell’asse renina-angiotensina-aldosterone e del fattore natriuretico atriale. La tendenza all’aumento dei livelli di NH correlati a tali sistemi endocrini sembra inoltre essere proporzionale alla gravità della MI. Tuttavia, i livelli di aldosterone nei soggetti con scompenso cardiaco (classe ISACHC 3) risultano aumentati rispetto ai cani sani, ma più bassi quando confrontati con i soggetti asintomatici affetti da MI (classe ISACHC 1). Questo dato risulta in accordo con studi precedenti (6) e può essere attribuito all’aumento dell’attività del peptide natriuretico atriale, la cui funzione è quella di controllare la secrezione degli ormoni ad azione ipertensiva. Per quanto riguarda la correlazione tra concentrazione dei NH e classe di insufficienza cardiaca, non è stato però possibile effettuare un’analisi statistica dei dati ottenuti a causa del numero esiguo dei soggetti appartenenti a determinate classi e della conseguente elevata variabilità di alcuni parametri (vedi aldosterone). Sono tutt’oggi in corso ulteriori analisi al fine di poter correlare statisticamente tali risultati. In conclusione, i NH considerati nel presente studio possono essere considerati utili marker nella diagnosi della IC causata dalla MI; lo sviluppo futuro di questo lavoro prevede l’utilizzo dei marker nella valutazione dell’efficacia di diversi farmaci, impiegati nella terapia dell’insufficienza cardiaca, nell’inibire l’attivazione neurormonale che rappresenta la causa della progressione della malattia. BIBLIOGRAFIA – 1) Uechi M et al (2002) J Vet Med Sci, 64, 1023-1029. 2) Pedersen HD (1995) J Vet Intern Med, 9, 328-331. 3) Greco DS et al (2003) Can Vet J, 44, 293-297. 4) Boswood A (2004) J Vet Intern Med, 18, 797-799. 5) Boswood (2003) J Small Anim Pract, 44, 104-108. 6) Häggström J et al (1997) Am J Vet Res, 58, 77-82.

Figura 1. Concentrazioni di ormoni neuroendocrini (NH) (media ± S.E.M.) nei soggetti sani (n=16), nei soggetti in classe ISACHC 1 (n=4), 2 (n=2) e 3 (n=2).

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INFLUENZA DEL 17ββββ-ESTRADIOLO E DEL PROGESTERONE SU STRIPS MIOMETRIALI DI AGNELLE IMPUBERI. MODELLO SPERIMENTALE INFLUENCE OF 17ββββ-ESTRADIOL AND PROGESTERONE ON IMPUBERAL LAMBS MYOMETRIUM. SPERIMENTAL MODEL Giammarino A., *Robbe D., Amorena M. Dipartimento di Scienze degli Alimenti; *Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università di Teramo. Parole chiave: acetilcolina, estrogeni, progesterone, miometrio, bagno d’organo isolato Key words: acetylcholine, oestrogens, progesterone, myometrium, isolated organ bath SUMMARY - The effects of gonadal steroid hormones on uterine smooth muscle contractility appear to be multiple. The genomic effects include inhibition of transmembrane Ca2+ entry, release of Ca2+ from intracellular stores and membrane hyperpolarization. The genomic effects are mediated through their specific binding to nuclear hormone receptors with subsequent changes in expression of target genes. In order to reproduce in vitro the functional change on myometrial contractility induced during normal oestrus cycle, we have incubated uterus segments from 15 impuberal lambs with 17β-estradiol and progesterone. We have tested incubation effects by acetylcholine cumulative concentration-response curves. Our results demonstrate that the uterus contractility is decreased by progesterone and increased by oestrogen treatment. INTRODUZIONE - Numerosi studi condotti in vivo, hanno dimostrato una stretta relazione tra somministrazione parenterale di ormoni ovarici e contrattilità uterina. È da tempo infatti dimostrato come ormoni steroidei quali estrogeni (E2) e progesterone (P4) influenzino la risposta contrattile miometriale indotta da diversi agonisti (1). Il trattamento con E2 in animali ovariectomizzati incrementa l’attività contrattile dell’utero scatenando contrazioni del muscolo liscio sia attraverso la modificazione della soglia di eccitabilità, sia interferendo con la capacità di utilizzo energetico (2). Valutazioni condotte nella donna, mediante tecniche di ecografia vaginale, hanno messo in evidenza come durante la fase follicolare del ciclo estrale si assista ad un costante aumento delle contrazioni uterine in concomitanza all’innalzarsi delle concentrazioni di E2 in circolo. Al contrario, in seguito ad ovulazione, sotto lo stimolo progestinico, l’utero si rilassa progressivamente durante tutta la fase luteale (3). Gli E2 ed il P4 sembra svolgano la loro azione modificando l’espressione delle “proteine associate alla contrazione”, alterando l’omeostasi intracellulare del Ca2+ ed interferendo con l’attività dei canali ionici per il K+ (4). Esistono in letteratura svariati esperimenti atti a riprodurre in vivo le modificazioni funzionali del miometrio che avvengono durante le fasi del ciclo estrale, soprattutto su modelli sperimentali di ratto e topo ovariectomizzati. Al contrario sono scarsi gli studi circa la valutazione sulla contrattilità miometriale in risposta allo stimolo estrogenico e progestinico in sistemi di bagno d’organo. Nell’ambito di studi condotti dalla nostra unità di ricerca, inerenti la valutazione dell’attività modulatoria degli aminoacidi eccitatori sulla motilità della muscolatura uterina, si è reso necessario riprodurre le modificazioni della contrattilità miometriale che intervengono normalmente durante il ciclo estrale. Pertanto, il nostro obiettivo è stato quello di simulare, in segmenti di tessuto uterino prelevato da agnelle impuberi, la fase luteale e quella estrogenica attraverso incubazione con 17β-estradiolo e progesterone. L’efficacia della tecnica di incubazione è stata verificata mediante prove di responsività del muscolo liscio uterino allo stimolo colinergico. MATERIALI E METODI – Da 15 agnelle, di età compresa tra i 45 ed i 50 giorni, sono stati prelevati gli uteri, durante le normali procedure di macellazione. I campioni sono stati immediatamente posti in soluzione fisiologica e trasportati in laboratorio, entro un’ora dal prelievo, in un contenitore termostatato alla temperatura di 24 °C. Dai corni uterini di ciascun soggetto sono stati allestiti tre segmenti (1,5 cm) immersi in tre vials contenenti rispettivamente: 10 mL di soluzione Krebs Henseleit (pH 7.4) rappresentanti i campioni controllo, 10 mL di soluzione Krebs Henseleit e 80 µg di P4 (Fluka, Chemika); 10 mL di soluzione Krebs Henseleit contenenti 2 µg di E2 (17β-estradiol; Fluka, Chemika). Dopo

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incubazione overnight (12 ore a 24 °C) dei preparati, sono stati allestiti da ciascuno di essi una striscia di tessuto (2mm x 7mm) immediatamente montata in un bagno d’organo (Ugo Basile) contenente 10 mL di soluzione di Krebs Henseleit carbossigenata (95% O2; 5% CO2) e termostatata a 37 °C. La porzione inferiore dello strip è stato fissato al bagno mediante filo di seta chirurgico, la porzione superiore, è stata collegata sempre attraverso filo di seta, ad un trasduttore di tensione (Fort WPI 10) ed è stata applicata una tensione isometrica iniziale pari ad 1,5 g. Dopo un periodo di stabilizzazione di 45 minuti, durante il quale la soluzione Krebs Henseleit è stata lasciata fluire continuamente, si è proceduto a saggiare la responsività dei tessuti allo stimolo colinergico, mediante l’immissione di dosi cumulative di acetilcolina. Per ogni strip è stata effettuata una sola curva concentrazione risposta all’acetilcolina. La concentrazione in grado di determinare il 50% dell’effetto massimo (EC50) è stata espressa come pD2 (potenza) rappresentata dal logaritmo negativo dell’EC50, mentre l’efficacia è stata espressa come Emax ovvero la contrazione massima, misurata in grammi, in risposta allo stimolo acetilcolinico. I risultati sono stati analizzati statisticamente mediante ANOVA e Tukey post-test. (GraphPad InStat 3). RISULTATI - I dati relativi alla potenza (pD2), espressa come logaritmo negativo dell’EC50 ± S.E.M sono riportati nella tabella. I risultati mostrano una differenza statistica altamente significativa (p<0.01) tra il gruppo trattato con P4 (4.74±0.16) e il gruppo del controllo (5.51±0.18). Al contrario il gruppo controllo non ha mostrato alcuna significatività (p>0.05) nei confronti di quello incubato con E2 (5.40±0.13). Una differenza statisticamente significativa è stata dimostrata anche tra il gruppo incubato con 17β-estradiolo e quello con P4 (p<0.05). Per quanto riguarda l’efficacia (Emax) espressa come media dei valori massimi ± S.E.M (tabella), si è riscontrata un’alta significatività del gruppo incubato con P4 nei confronti sia del gruppo controllo che di quello incubato con 17β-estradiolo (p<0.001). Mentre si evidenzia una differenza statisticamente significativa tra il gruppo di controllo e quello incubato con 17β-estradiolo.

Lettere diverse sulla stessa colonna a/b/c p<0.01; A/B p<0.05

CONCLUSIONI – Dai dati ottenuti si evidenzia come l’incubazione di uteri provenienti da agnelle impuberi con 17β-estradiolo e P4, alle concentrazioni da noi utilizzate, determini un effetto modulatorio sull’attività miometriale paragonabile a quello riscontrato durante le normali fasi del ciclo estrale (2) così come riportato da altri AA in studi condotti in vivo (3). In particolare emerge come, anche in strips di utero isolato, il progesterone sia in grado di modificare la risposta contrattile allo stimolo con agonisti. Sebbene non sia emersa nessuna differenza statisticamente significativa circa la potenza (pD2) tra i campioni controllo e quelli incubati con 17ß-estradiolo, tuttavia è evidente un aumento statisticamente significativo della capacità di contrazione (Emax) dei secondi rispetto ai primi. A dimostrazione che la capacità contrattile del miometrio risulta maggiore sotto lo stimolo estrogenico sia rispetto ai controlli sia a quelli incubati con P4. In conclusione, i nostri risultati ci permettono di disporre di un valido modello sperimentale che consentirà di condurre le valutazioni circa la modulazione dell’attività contrattile miometriale indotta dagli aminoacidi eccitatori nelle varie fasi del ciclo estrale. BILIOGRAFIA – 1)Accorsi-Mendoça D et al (2002) Pharmacol, 64, 208-213. 2) Batra S (1980) Trends Pharmacol, Oct, 388-391. 3) Fanchin R et al (2002) J Obstet Biol Reprod, 31, 325-332. 4) Fomin VP et al (1999) Am J Physiol, 45, 379-385.

n pD2 Emax Krebs

(Controllo) 8 5.51 ± 0.18 a 3.96 ± 0.28 a A

P4+Krebs 10 4.74 ± 0.16 b A 2.09 ± 0.21 b 17β-estra.Krebs 9 5.40 ± 0.13 B 4.78 ± 0.34 c B

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EFFETTI DI AGENTI PRO-INFIAMMATORI SUL RILASCIAMENTO MEDIATO DALLA STIMOLAZIONE -ADRENERGICA NEL BRONCO DI CAVALLO EFFECTS OF PRO-INFLAMMATORY AGENTS ON THE –ADRENOCEPTOR MEDIATED RELAXATION IN SMALL BRONCHI OF THE HORSE Putignano C., Zizzadoro C., Belloli C., Lai O.R., Sasso G., Ormas P. Dip. Sanità e Benessere degli Animali, Farmacologia e Tossicologia Veterinaria, Valenzano – BA. Parole chiave: sistema -adrenergico; muscolatura liscia bronchiale; infiammazione; cavallo. Key words: -adrenergic system; bronchial smooth muscle; inflammation; horse. SUMMARY – To investigate the effects of inflammation on the functionality of the bronchial -adrenergic system (-AS) in the horse, the relaxant response to isoproterenol was studied in

isolated equine bronchi after incubation with a cocktail of pro-inflammatory substances involved in the pathogenesis of heaves [bacterial endotoxin (LPS)+cytokines (TNF-α, IL-1 , IFN- )]. LPS and TNF-α were also assessed individually. Cocktail and TNF-α treatments had no effect, whereas LPS significantly reduced the maximal relaxation induced by isoproterenol (P<0,05). Our findings suggest that the apparent lack of influence of inflammation on equine bronchial -AS seems more likely the sum of various effects individually or synergistically exerted by the different inflammatory stimuli. The mechanism of action of these substances needs to be defined. INTRODUZIONE – L’iper-reattività bronchiale che caratterizza le patologie respiratorie broncostruttive croniche ricorrenti dell’uomo e del cavallo è in parte espressione di alterazioni dei meccanismi di regolazione del tono broncomotore indotte dallo stato infiammatorio(1). Con particolare riferimento al sistema -adrenergico (-ADR), nell’uomo una riduzione del numero e della funzionalità (produzione di AMP ciclico - AMPc - e risposta leiomiorilasciante) dei recettori -ADR bronchiali è stata documentata in vivo, in corso di malattia, e riprodotta in vitro in seguito ad esposizione a citochine pro-infiammatorie(2). Anche in bronchi prelevati da cavalli affetti da COPD (chronic obstructive pulmonary disease), studi recenti evidenziano una riduzione significativa del numero dei recettori -ADR e della risposta post-recettoriale (produzione di AMPc)(3); ciononostante, secondo quanto riportato in studi precedenti(4), la risposta di rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale alla stimolazione -ADR è apparentemente conservata. Il presente lavoro è stato inizialmente condotto per valutare gli effetti indotti sul rilasciamento -mediato del bronco di cavallo da una condizione di infiammazione, mimata in vitro mediante l’esposizione ad un cocktail di sostanze pro-infiammatorie a riconosciuto coinvolgimento nella patogenesi della COPD(5,6). Inoltre, poiché i dati disponibili in letteratura indicano che gli effetti dei singoli agenti pro-infiammatori sulla funzionalità del sistema -ADR possono essere estremamente variabili(2), ulteriori prove sperimentali sono state realizzate su bronchi esposti alle singole sostanze usate per l’allestimento del cocktail. In questa sede sono riportati i risultati relativi all’endotossina batterica (lipopolisaccaride o LPS) e alla citochina tumor necrosis factor-� (TNF- ). MA TERIALI E METODI – Dai polmoni di ciascun soggetto sono stati isolati due segmenti bronchiali (Ø esterno= 3-4mm, lunghezza= 8-10mm), ciascuno dei quali è stato incubato (16 h; 37°C; CO2 5%) in 10 ml di terreno di Dulbecco, addizionato con siero equino (Gibco Invitrogen Corporation, Auckland, N.Z.; 10%), L-glutammina (4mM), penicillina (100U.I./ml) e streptomicina (100g/ml) (Cambrex Bio Science Verviers, Verviers, Belgium), in assenza (controllo) o in presenza (trattato) di agenti pro-infiammatori aggiunti secondo i seguenti protocolli: (a) cocktail [LPS (Escherichia coli, sierotipo 0111:B4, Sigma Chemical Co., St. Louis, MO, USA; 10µg/ml) + TNF-α (100ng/ml) + Interleukina–1 (10ng/ml) (Becton Dickinson DC, Laagstraat, Temse, Belgium) + Interferone- (Strathmann Biotec-AG, Hamburg, Germany; 10ng/ml)]; (b) TNF-α (100ng/ml); (c) LPS (10µg/ml). Al termine dell’incubazione, i segmenti bronchiali sono stati montati in un bagno per organi isolati (10ml soluzione Krebs-Henseleit, pH 7.4; 37°C, 95%O2-5%CO2; leva isometrica; 4g tensione), collegato ad un sistema computerizzato per il rilevamento/amplificazione e registrazione degli effetti (PowerLab/400; Chart v.4.1.2). La risposta leiomiorilasciante a dosi cumulative di

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(-)isoprenalina HCl (ISO; 10-10–10-4M; Sigma Chemical Co., St. Louis, MO, USA) è stata saggiata sulla pre-contrazione indotta da carbacolina HCl (CARBA; 5,5x10-7M; Sigma Chemical Co., St. Louis, MO, USA). Gli effetti dell’ISO sono stati quantificati come % di riduzione del tono indotto da CARBA. Sulle curve dose-effetto costruite per i diversi gruppi sperimentali, i valori di efficacia (Emax) e di affinità apparente (pD2) dell’ISO sono stati calcolati mediante analisi della regressione non lineare (GraphPad Prism, v.3.0) e i risultati espressi come media±e.s. (su n preparati). La significatività delle differenze riscontrate tra i gruppi è stata valutata applicando il test t di Student per dati non appaiati (limite di significatività: P<0,05). RISULTATI – L’esposizione al cocktail pro-infiammatorio non modifica l’affinità e l’efficacia dell’ISO rispetto ai controlli [controlli: Emax= 79,22±4,92; pD2= 7,16±0,08. cocktail: Emax= 79,80±6,80; pD2= 7,01±0,07 (n=17)] (Figura 1a). L’affinità e l’efficacia non risultano modificate anche quando i segmenti bronchiali sono esposti al solo TNF-α [controlli: Emax= 79,30±8,78; pD2= 6,90±0,06. TNF-α: Emax= 81,94±9,49; pD2= 6,86±0,08 (n=7)] (Figura 1b). Al contrario, l’esposizione a LPS riduce in maniera significativa (P<0,05) l’efficacia della stimolazione -ADR (Emax= 66,74±7,39, pari all’87% circa dei rispettivi controlli: Emax= 76,61±6,98), senza modificare l’affinità (controlli: pD2= 6,91±0,05. LPS: pD2= 6,90±0,07) (n=9) (Figura 1c).

-11 -10 -9 -8 -7 -6 -5 -4 -30

25

50

75

100

controlli

cocktail

Log[M]

% r

ilasc

iam

ento

-11 -10 -9 -8 -7 -6 -5 -4 -3

0

25

50

75

100

controlli

TNFαααα

Log [M]

% r

ilasc

iam

ento

-11 -10 -9 -8 -7 -6 -5 -4 -3

0

30

60

90

120

controlli

LPS

**

Log [M]

% r

ilasc

iam

ento

ma

ssim

ale

del c

ontr

ollo

*

Figura 1: Regressione non lineare delle curve semilogaritmiche dose-effetto della isoprenalina nei bronchi trattati con (a) cocktail proinfiammatorio, (b) TNF-α, (c) LPS e nei rispettivi controlli (). (*P<0,05; t-Student; valori espressi come % del rilasciamento massimale dei corrispondenti controlli). CONCLUSIONI – Il riscontro che l’esposizione in vitro al cocktail pro-infiammatorio non modifica il rilasciamento β-mediato dei bronchi di cavallo suggerisce che la funzionalità del sistema β-ADR bronchiale di questa specie animale non è alterata in corso di infiammazione. Tale osservazione sembra in accordo con i risultati delle prove funzionali condotte da LeBlanc e coll.(4) su bronchi isolati da animali malati e permette di delineare ulteriori elementi di differenziazione tra le COPD dell’uomo e quelle del cavallo. I risultati delle prove condotte in presenza di solo LPS e di solo TNF, tuttavia, suggeriscono che, come descritto per altre specie animali(2), le singole sostanze pro-infiammatorie possono comunque modificare la funzionalità del sistema -ADR del bronco di cavallo, sia pure in maniera variabile da sostanza a sostanza. Pertanto, l’apparente mancanza di attività mostrata dal cocktail pro-infiammatorio potrebbe rappresentare la sommatoria degli effetti differenziati che le diverse sostanze esercitano separatamente e/o in sinergismo/antagonismo tra loro. Sono in corso studi volti a chiarire il meccanismo d’azione di tali agenti pro-infiammatori.

BIBLIOGRAFIA – 1) Robinson NE (1996) Br Vet J, 152, 283-306. 2) Shore SA (2002) J Allergy Clin Immunol, 110 (Suppl.6), S255-60. 3) Kottke C et al (2003) Proceedings of the 9th EAVPT International Congress in J Vet Pharmacol Ther, 26 (Suppl. 1), 179. 4) Leblanc PH et al (1991) Am J Vet Res, 52, 999-1003. 5) Giguere S et al (2002) Vet Immunol Immunopathol, 85, 147-58. 6) Pirie RS et al (2001) Equine Vet J, 33, 311-8. Si ringraziano il Dott. Pastore del Mattatoio Civico di Ruvo di Puglia (BA) ed il Dott. Manfredi dell’ALICA srl di Modugno (BA) per la gentile collaborazione nel prelievo dei polmoni di cavallo. Ricerca effettuata con fondi COFIN PRIN (2003) e FIRB (2001).

(a) (b) (c)

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EFFETTI DI UN NUOVO AGONISTA -ADRENERGICO SULLA MUSCOLATURA LI SCIA BRONCHIALE E SUL TESSUTO ADIPOSO SOTTOCUTANEO DI CAVALLO EFFECTS OF A NEW -ADRENERGIC AGONIST ON EQUINE BRONCHIAL SMOOTH MUSCLE AND SUBCUTANEOUS ADIPOSE TISSUE Caruso M., Zizzadoro C., Crescenzo G., Carofiglio V., *Nardelli V., Belloli C. Dip. Sanità e Benessere degli Animali, Valenzano, BA; *Dip. Chimica, IZS Puglia e Basilicata, Foggia. Parole chiave: lipolisi, broncodilatazione, lettera A, β−agonisti, cavallo. Key words: lipolysis, broncodilation, A compound, β−agonists, horse. SUMMARY - The bronchodilator and lipolytic effects of an illegal β-adrenergic (β-AR) agonist named A compound (AC), were investigated on equine bronchial preparations (BP) precontracted by carbachol or on subcutaneous adipose tissue (SAT). On BP, both ISO and AC elicited concentration-dependent relaxation but AC, compared to ISO (pD2=6.92±0.2; Emax=95.35±12.2), showed lower potency (pD2=4.49±0.2) and same efficacy (Emax=94.62±14.0). On SAT, ISO displayed a well related concentration–lipolytic effect (pD2=6.78±0.1; Emax=207.57±27.1) whereas AC elicited a significant lipolytic effect only at 10-6M. Results confirm that AC is a β-AR agonist with poor affinity for the β2-subtype and suggest a high density of β1-AR as causative factor for the high sensitivity to the β-AR drugs of the equine SAT. INTRODUZIONE - Con la denominazione Lettera A (LA) viene definita una molecola simile al clenbuterolo, identificata a partire da materiale sequestrato nel corso di programmi di farmacosorveglianza e fortemente sospettata di essere utilizzata a scopo fraudolento come agente di ripartizione (1). I risultati di saggi farmacologici in vitro indicano che la LA è un agonista ß1-adrenergico (ß-AR) selettivo (1). Nel corso di una sperimentazione condotta su un modello sperimentale messo a punto per studiare l’effetto lipolitico ß-AR mediato su tessuto adiposo sottocutaneo di bovino in vitro, il farmaco è risultato inefficace e apparentemente non in grado di legare i recettori ß-AR (2). Studi recenti dimostrano che il clenbuterolo è un potente agente di ripartizione nel cavallo, che risulta sensibile a trattamenti cronici con dosi (2.4 µg/Kg) da 40 a 400 volte inferiori a quelle necessarie in altre specie (0.1-1 mg/kg)(3). Sulla base di questi riscontri è stata condotta una sperimentazione su 2 modelli sperimentali allestiti da tessuti di derivazione equina (muscolatura liscia bronchiale e tessuto adiposo sottocutaneo) al fine di: 1) caratterizzare l’efficacia e la potenza ß-AR della LA in un tessuto bersaglio terapeutico del clenbuterolo, 2) indagare gli effetti lipolitici del farmaco su un modello sperimentale potenzialmente più sensibile alla stimolazione ß-AR, e 3) evidenziare eventuali aspetti comparativi sulla lipolisi ß-AR mediata in vitro nel cavallo e nel bovino. MATERIALI E METODI – Muscolatura liscia bronchiale (MLB): Preparazioni di segmenti bronchiali (bronchi di 10a-11a generazione), isolati da lobi caudali di polmoni di cavalli regolarmente macellati, sono state montate in bagno per organi isolati (10 ml soluzione Krebs-Henseleit, pH 7.4; 37°C; 95%O2-5%CO2) sospese ad una leva isometrica (4g tensione) collegata ad un sistema computerizzato per il rilevamento/amplificazione e registrazione degli effetti (PowerLab/400; Chart v.4.1.2). Sui preparati pre-contratti con carbacolina HCl (5.5 x10-7 M; Sigma Chemical Co., USA) è stata saggiata la risposta a dosi cumulative di (-) isoprenalina HCl (ISO: Sigma Chemical Co., USA; 10-10-10-4 M; n=4) o LA (10-10-10-3 M; n=4). I risultati sono stati espressi come % di riduzione del tono indotto da carbacolina. Tessuto adiposo sottocutaneo (TAS): Aliquote di 200 mg di TAS prelevato da cavalli regolarmente macellati, previa pre-incubazione per 30 min in piastre per colture cellulari multiwell (Falcon Becton Dickinson) in soluzione di Krebs Ringer modificata (pH 7.4) a 37°C in CO2 5% (Sanyo Gallenkamp PLC, UK), sono state incubate per 2 ore nelle stesse condizioni sperimentali, dopo trasferimento in nuovi pozzetti contenenti concentrazioni scalari (10-10-10-4M) di ISO (n=9) o LA (n=7), o il veicolo (Controllo). L’effetto lipolitico è stato valutato mediante analisi quantitativa del glicerolo liberato nel mezzo d’incubazione, con un

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kit commerciale (Glycerin/Glycerol enzymatic bioassay - Boehringer Mannheim) adattato alle esigenze sperimentali. I risultati sono stati espressi come g glicerolo/g di TAS. Analisi dei dati. Dall’analisi di regressione non lineare dei dati (GraphPad Prism, v.3.0.) sono stati calcolati i valori di potenza (pD2) ed efficacia (Emax) degli agonisti. La significatività delle differenze tra i gruppi è stata valutata con test t di Student per dati non appaiati (GraphPad Prism, v.3.0; P<0.05 limite di significatività). RISULTATI – La LA produce effetti leiomiorilascianti sulla MLB del tutto simili a quelli indotti da ISO (ISO: Emax=95.35 ± 12.2 % rilasciamento del tono; LA: Emax=94.62 ± 14.0 % rilasciamento del tono) ma mostra affinità apparente (potenza) per i recettori ß-AR significativamente inferiore (ISO: pD2=6.92 ± 0.2; LA: pD2=4.49 ± 0.2; P<0.001) (fig.1). Nella figura 2 è illustrato l’andamento della lipolisi dose-correlata indotta da ISO e da LA sul TAS di equino. Per entrambi i farmaci l’effetto raggiunge un massimale alla concentrazione 10-6M per poi ridursi alle concentrazioni più elevate. L’analisi della regressione della curva dell’ISO, considerando come massimale l’effetto conseguito al picco, permette di calcolare la potenza (pD2=6.78 ± 0.1) e l’efficacia (Emax=207.57 ± 27.1 g glicerolo/g di TAS pari ad un incremento del 186% rispetto al basale) dell’agonista. L’andamento delle curve della LA non permette di effettuare l’analisi di regressione dei dati, tuttavia, alla concentrazione 10-6M, la molecola produce costantemente un significativo effetto lipolitico (LA: Emax=116.34 ± 17.1 g glicerolo/g di TAS; lipolisi spontanea: Emax=72.48 ± 5.4 g glicerolo/g di TAS; P<0.05)

che risulta pari ad un incremento di circa il 60% dei valori dei controlli. Fig.1. Effetto leiomiorilasciante dell’Isoprenalina ( ) e della Lettera A (•) sulla musco-latura liscia bron-chiale di cavallo (medie ± e.s.).

Fig.2. Effetto lipolitico dell’Isoprenalina ( ) e della Lettera A (•) sul tessuto adiposo sottocu-taneo di cavallo (medie ± e.s.).

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI - Gli effetti indotti dalla LA sulla MLB di cavallo suggeriscono un’attività β-agonista di questa molecola caratterizzata da potenza significativamente inferiore a quella dell’ISO ma paragonabile a quella descritta in letteratura per la sua attività β2-selettiva su trachea isolata di cavia (pD2=4.93) (1). A differenza di quanto riferito per il bovino, la LA è in grado di promuovere una risposta lipolitica nel TAS di cavallo dove tuttavia l’agonista β-non selettivo ISO risulta meno potente ma più efficace (cavallo: pD2=6.78 ± 0.1 ed incremento del 186% della lipolisi rispetto al basale; bovino: pD2=7.62 ± 0.2 ed incremento del 60% della lipolisi rispetto al basale) (2). Questo risultato è in accordo con la segnalazione della specie equina come particolarmente sensibile agli effetti di ripartizione dei β-agonisti (3). La diversa risposta del TAS alla stimolazione β-AR nella specie equina e bovina potrebbe indicare una differente distribuzione dei sottotipi recettoriali β-AR con prevalenza di β1-AR caratterizzati da migliore efficienza di accoppiamento stimolo-risposta nel TAS di cavallo. Il peculiare andamento della lipolisi β-AR mediata osservato nel corso di questa sperimentazione può indicare inoltre la presenza sul TAS di equino di una popolazione recettoriale con funzioni opposte a quelle β-AR mediate e reclutata dall’agonista a concentrazioni sopra-massimali (recettori α2-AR). BIBLIOGRAFIA – 1) Mazzanti G et al (2003) Toxicology, 187, 91-99. 2) Caruso M et al (2004) Atti S.I.S.Vet, 132. 3) Kearns CF et al (2001) Journal of Applied Physiology, 91, 2064-2070. Si ringraziano il dott. G. Brambilla (Istituto Superiore di Sanità) che ha gentilmente fornito la Lettera A e i dott. T. Lillo (CIES s.r.l.-Santeramo-BA) e A. Pastore (Mattatoio Civico-Ruvo di Puglia-BA) per l’assistenza nel prelievo dei campioni. Finanziamenti: Ricerca Corrente 2002-Ist. Zooprofilattico Sperimentale Puglia e Basilicata (FG).

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RUOLO DEI RECETTORI B 1 DELLE CHININE NELLA RISPOSTA DOLOROSA IN RATTI A BASSA ESCREZIONE RENALE DI CALLICREINA ROLE OF B1 KININ RECEPTORS IN PAIN RESPONSE IN LOW KALLIKREIN WISTAR RATS Varoni M.V., Palomba D., Demontis M.P., Gianorso S., Loriga M., Anania V. (Dipartimento di Biologia Animale – Settore di Farmacologia – Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Sassari). Parole chiave: callicreina, chinine, dolore, recettori B1-B2. Key words: kallikrein, kinins, pain, B1-B2 receptors. SUMMARY – In this study we evaluated the role of B1 kinin receptors in thermal hyperalgesia in a rat strain inbred for low urinary kallikrein and in normal kallikrein Wistar rats. Our results show that there was a difference in pain threshold in the two strains in the basal state. After iv treatment with a selective B1 receptor antagonist there was a statistically significant increase in pain threshold in the normal kallikrein rats when compared to the low kallikrein rats. We think that the chronic reduction in renal kallikrein could have modified the kinin receptors expression and consequently the pain response. This confirms our hypothesis that B1 receptors may also contribute to acute pain response. INTRODUZIONE - Le chinine, potenti autacoidi, sono coinvolte primariamente nel processo infiammatorio e doloroso (1). Esse vengono prodotte per scissione enzimatica dalla callicreina e agiscono localmente, attraverso l’attivazione di due tipi di recettori: B1 e B2. Recenti dati depongono per un loro ruolo, oltre che locale, anche come mediatori cerebrali nel controllo dell’informazione nocicettiva. Non sono comunque ancora chiari ruoli e distribuzione topografica dei singoli recettori sia per quanto riguarda la nocicezione che per le altre funzioni modulate dalle chinine. Diversi autori ritengono che i recettori B2 siano di tipo costitutivo mentre i recettori B1 sono generalmente assenti nel tessuto normale ed inducibili a seguito di danni tissutali e/o agenti infiammatori, con prevalenza dei primi nel dolore acuto e dei secondi nel dolore cronico (2). Recenti ricerche hanno, però, evidenziato una risposta ipoalgesica nei topi knockout per i recettori B1 nella fase acuta della risposta allo stimolo da calore (3). E’ evidente che a tutt’oggi non è ancora chiara l’importanza dei singoli recettori nella risposta algesica, anche alla luce del fatto che quest’ultima si modifica a seconda della metodica praticata. L’utilizzo di un ceppo di ratti a bassa escrezione renale di callicreina (4) può rappresentare un’utile alternativa nello studio dell’attività nocicettiva, poiché la cronica presenza di bassi livelli di callicreina renale può aver determinato modificazioni dell’espressione dei recettori delle chinine e quindi della risposta a stimoli dolorosi di varia natura rispetto a ratti di controllo. Scopo del lavoro è quello di quantificare l’importanza dei recettori B1 in questo modello animale sia attraverso la risposta basale al dolore che previo trattamento con un antagonista recettoriale dei B1, a seguito di stimolo termico, mediante tecnica dell’hot plate. MATERIALI E METODI - Sono stati utilizzati 2 gruppi (n=8) di ratti Wistar maschi del peso di 280-320 g, uno con normale (NC) ed uno con bassa escrezione renale di callicreina (BC). In tutti i ratti è stata valutata la soglia del dolore con il test dell’hot-plate, sia basalmente che dopo somministrazione iv di un antagonista dei recettori B1. Il test misura i tempi di reazione dolorosa dell’animale, indicata principalmente da due comportamenti standardizzati quali la leccatura della zampa o il salto, a seguito di contatto delle zampe con una base metallica mantenuta a una temperatura costante di 52±0,4°C. Due giorni prima dell’esperimento in tutti i ratti, previa misurazione basale della soglia dolorifica, è stato impiantato, sotto anestesia eterea, un catetere in vena femorale per la somministrazione dell’antagonista. Il giorno dell’esperimento veniva somministrata iv la Lys-(des-Arg9 [Leu8]-Bradykinin (0,1 mg/100 µl) e la risposta all’antagonista veniva valutata a distanza di 60, 120 min e 24 h dalla somministrazione. Le differenze all’interno e tra i gruppi sono state determinate mediante il t-test di Student per dati appaiati e disappaiati e valori di P<0,05 sono stati considerati significativi.

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Ratti BC

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Grafico n°1 Grafico n°2 * = P<0,05 ** = P<0,005 RISULTATI – Il confronto dei tempi di reazione fra i due gruppi è risultato significativo sia in condizioni basali che dopo trattamento con l’antagonista, come evidenziato dal grafico n°1. Basalmente abbiamo ottenuto nei ratti NC un tempo di reazione di 6,5±0,7 sec, mentre nei ratti BC 8,0±0,8 sec con P<0,02. A seguito di trattamento con l’antagonista recettoriale i tempi si sono modificati: dopo un’ora abbiamo ottenuto 14,5±2,4 sec nei ratti NC e 9,6±1,4 sec nei ratti BC, P<0,002. Dopo due ore 14,7±3,9 sec nei ratti NC e 9,8±1,0 sec nei ratti BC, P<0,02. Infine a 24h di distanza i valori si sono riportati verso quelli iniziali, annullando le differenze (10,8±2,7 nei ratti NC contro 9,7±2,4 nei ratti BC, ns). Nel grafico n° 2 sono rappresentate sia l’andamento dell’attività antidolorifica in seguito a trattamento con l’antagonista recettoriale che le significatività del t-test di Student per dati appaiati confrontando le reazioni prima e dopo il trattamento all’interno dello stesso gruppo. CONCLUSIONI - In questo studio abbiamo valutato la risposta al dolore in due ceppi di animali fenotipicamente differenti per l’escrezione renale della callicreina. I nostri risultati, sia pure preliminari, hanno evidenziato un trend differente nei due ceppi. Già in condizioni basali la differenza è risultata significativa, confermando così nostri precedenti dati non pubblicati, in cui si era evidenziato il diverso comportamento degli animali a seguito di induzione del dolore utilizzando differenti metodiche di tipo termico e pro-infiammatorio. Peraltro l’utilizzo di questo modello di animali può offrire nuovi spunti ed opportunità per lo studio quali-quantitativo dei recettori delle chinine. Infatti i nostri risultati sottolineano anzitutto il coinvolgimento dei recettori B1 anche nel dolore acuto, confermando l’importanza di questi ultimi. Questo lascia aperto il campo delle ipotesi sui meccanismi dello stimolo doloroso, poichè vi è disaccordo con la specificità dei ruoli dei singoli recettori. Infatti, numerosi studi suggeriscono che i recettori B2 siano coinvolti nella fase acuta della risposta dolorifica, mentre i B1 nella fase cronica. Alternativamente questo potrebbe essere legato anche alla presenza di sottotipi di recettori non ancora identificati. Inoltre il differente comportamento di questo ceppo di ratti in risposta allo stimolo doloroso lascia supporre che la diminuzione cronica della callicreina renale sia in grado di modificare di per sé l’attività nocicettiva, suggerendo la possibilità di un’attivazione diretta del recettore da parte della stessa callicreina (5). BIBLIOGRAFIA – 1) Calixto JB et al (2000) Pain, 87, 1-5. 2) Hall JM and Morton IKM (1997) The pharmacology and immunopharmacology of kinin receptors. In: Farmer SG The handbook of immunopharmacology: the kinin system, Academic Press, London, 9-43. 3) Rupniak NMJ et al (1997) Pain, 71, 89-97. 4) Madeddu P et al. (1996) Kidney Int, 49, 1422-1427. 5) Hecquet C et al (2000) Mol Pharmacol, 58, 828-836.

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IDENTIFICAZIONE DEL RECETTORE PER I VANILLOIDI VR-1 I N COLTURE CELLULARI IDENTIFICATION OF VR-1 VANILLOID RECEPTOR IN CELL CULTURES Barbero R., Badino P., Cuniberti B., Miolo A.*, Odore R., Girardi C., Re G. Dipartimento di Patologia Animale, Sezione di Farmacologia e Tossicologia, Grugliasco (TO) *CeDIS, Innovet Italia, Rubano (PD) Parole chiave: infiammazione, dolore, vanilloidi, VR1, MCF-7. Key words: inflammation, pain, vanilloids, VR1, MCF-7. SUMMARY – Much evidence supports a role of the endocannabinoid system in regulating pain and inflammation. Nowadays a great deal of attention is being paid to the interaction between the endocannabinoid and the endovanilloid system. MCF-7 cells are a breast cancer cell line known to express functional cannabinoid receptors. The aim of the present study was to assess a specific binding method for the identification of the vanilloid receptor subtype 1 (VR1) in these cells. We demonstrated, for the first time, that MCF-7 cells express VR1 on their plasma membrane. The results disclose the way to the potential identification of this receptor on other epithelial animal cells, thereby opening up new perspectives for the control of pain and tissue inflammation. INTRODUZIONE - Lo studio del sistema degli endocannabinoidi ha riscosso negli ultimi anni molto interesse da parte della comunità scientifica internazionale in funzione dei potenziali effetti antinfiammatori ed antidolorifici (1). Esso comprende ligandi endogeni, loro specifici recettori (detti recettori per i cannabinoidi, CB) e sostanze ad effetto cannabimimetico, appartenenti alla classe delle ALIA-amidi, cioè N-acil-lipidi ad effetto ALIA (Autacoid Local Inflammation Antagonism) (2), come ad esempio la palmitoiletanolamide (PEA). Di recente, è stata formulata l’ipotesi secondo la quale gli endocannabinoidi sarebbero strettamente legati ad un altro importante sistema di regolazione endogena, quello degli endovanilloidi. Tale ipotesi è suffragata dal fatto che l’anandamide, cannabinoide endogeno, è attiva anche su uno dei principali recettori per i vanilloidi, il VR sottotipo 1 (VR1) (3); che la PEA è in grado di stimolare gli effetti VR1-mediati dell’anandamide; che CB e VR risultano co-espressi su cellule sia di tipo neuronale (4), sia di tipo epiteliale (5). In base a questi dati, si può ipotizzare che i due sistemi interagiscano su meccanismi di controllo reciproci implicati sia nell’infiammazione, sia nel dolore. La stimolazione del VR1, secondo quanto dimostrato in medicina umana, scatenerebbe meccanismi potenzialmente infiammatori come l'espressione della cicloossigenasi-2 (COX-2) ed il rilascio di interleukina-1β (IL-1β), interleukina-6 (IL-6), interleukina-8 (IL-8) e prostaglandina E2 (PGE2) (6,7). Poiché in Medicina Veterinaria, contrariamente all’effetto ALIA che ha ricevuto conferme cliniche (8) e sperimentali (9), il sistema degli endovanilloidi non è stato finora oggetto di studio, è stato programmato un progetto di ricerca finalizzato ad individuare l’espressione e la funzionalità del recettore VR1 su cellule epiteliali di animali d’affezione. A tale scopo, è stato inizialmente condotto uno studio pilota volto ad identificare il recettore VR1 su colture di cellule di origine epiteliale (MCF-7) derivate da carcinoma mammario umano, su cui sono già stati in precedenza identificati i recettori CB1 e CB2 (10). MATERIALI E METODI – Nel corso del presente esperimento è stata messa a punto una metodica di binding per l’identificazione del recettore VR1 su membrane cellulari. A tale scopo sono state utilizzate cellule appartenenti alla linea cellulare MCF-7 su cui sono già stati caratterizzati i sottotipi recettoriali per i cannabinoidi CB1 e CB2, ma sulle quali fino ad ora non esistevano segnalazioni relative all’espressione del VR1. Le cellule MCF-7, gentilmente fornite dalla Sezione di Farmacologia del Dipartimento di Scienze e Cliniche Biologiche, Ospedale S. Luigi Gonzaga di Orbassano dell’Università di Torino, sono state coltivate ed espanse presso il laboratorio di colture cellulari della Sezione di Farmacologia e Tossicologia del Dipartimento Patologia Animale dell’Università di Torino fino ad ottenere materiale sufficiente ad eseguire le prove di binding e conservate alla temperatura di -80°C fino al momento dell’analisi. I campioni sono stati quindi scongelati, risospesi in apposito tampone

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(KCl 5 mM, NaCl 5,8 mM, CaCl2 0,75 mM, MgCl2 2 mM, saccarosio 320 mM, HEPES 10 mM; pH 7.4) (11), sonicati e centrifugati a 3000 g per 10 minuti a 4 °C al fine di eliminare la frazione nucleica; le restanti membrane sono state ultracentrifugate a 105.000 g per 45 minuti a 4°C (12). Dopo aver eliminato il surnatante il restante pellet di membrane è stato risospeso nello stesso tampone e sonicato in modo da ottenere una sospensione omogenea su cui è stata valutata la concentrazione proteica utilizzando la metodica descritta da Lowry et al. (1951) (13). Le sospensioni di membrane cellulari così ottenute sono state successivamente diluite fino ad ottenere una concentrazione proteica pari a 1 mg/ml. Aliquote pari a 100 µl della sospensione di membrane sono state poste ad incubare in un bagno termostatato per 1 ora alla temperatura di 37°C con concentrazioni scalari (0,025-3,2 nM) di un ligando marcato altamente selettivo, la resiniferatossina ([3H]-RTX), agonista specifico ad alta affinità (14) per il VR1 per la quantificazione del legame totale. Il legame aspecifico è stato quantificato in presenza di 500 µl di resiniferatossina non marcata in eccesso (1 µM). Al termine dell’incubazione, la reazione tra ligando e recettore è stata bloccata ponendo i campioni in ghiaccio per circa 20 minuti, i campioni sono poi stati trasferiti in vials a cui sono stati aggiunti 4 ml di liquido di scintillazione. La misurazione, eseguita in quadruplo, è stata ottenuta tramite lettura dei campioni per 2 minuti per mezzo di un β-counter con un’efficienza 60%. I valori delle concentrazioni dei recettori VR1 e delle relative costanti di dissociazione (Kd) sono stati determinati mediante analisi di Scatchard utilizzando un programma computerizzato (Graph Pad Prism). RISULTATI – La determinazione è stata effettuata su di un substrato di partenza composto da 4 pool di circa 180 x 106 cellule dalle cui membrane sono state approntate 8 serie di Scatchard (n=8). I risultati ottenuti ci hanno permesso di evidenziare la presenza di recettori VR1 sulle membrane cellulari di cellule MCF-7 in concentrazioni pari a 1419 ± 192 fmol/mg di proteina (media ± SEM); le Kd sono risultate essere pari a 0,03 ± 0,004 nM (media ± SEM) con un coefficiente di correlazione lineare (r) compreso tra 0,9 e 1. CONCLUSIONI – La metodica di binding specifico, messa a punto nel presente lavoro, ha consentito di identificare, per la prima volta, il recettore VR1 sulle membrane di cellule MCF-7, linea cellulare di tumore mammario sulla quale non solo era stata dimostrata l’espressione dei recettori per i cannabinoidi, ma è stato anche evidenziato il cosiddetto effetto “entourage” della PEA, cioè la capacità di stimolare l’attività antiproliferativa e VR1-mediata dell’anandamide (15). L’individuazione del recettore VR1 e la messa a punto della metodica sono il primo importante passo per la potenziale identificazione del recettore VR1 su cellule epiteliali di specie di interesse veterinario, nonché per lo studio dei meccanismi di modulazione funzionale di tale recettore da parte di agonisti diretti e di cannabimimetici come la PEA o i suoi analoghi composti ALIA-amidici. Il coinvolgimento dei sistemi endocannabinoide ed endovanilloide in fenomeni come l’infiammazione ed il dolore attribuisce a queste ricerche notevoli potenzialità per quanto riguarda la terapia di diverse patologie che interessano ad esempio la dermatologia e l’odontostomatologia Veterinaria. BIBLIOGRAFIA - 1) Walker JM et al (2002) Chem Phys Lipids, 121, 159-172. 2) Levi-Montalcini R et al (1996) Trends Neurosci, 9, 514-520. 3) Di Marzo V et al (2002) Prostagland Leuk Essent Fatty Acids, 66, 377-391. 4) Di Marzo V et al (2002) Curr Opin Neurobiol, 12, 372-379. 5) Stander S et al (2004) Exp Dermatol, 13, 129-139. 6) Chang YH et al (2001) J Cell Biochem, 81, 715-723. 7) Kim CS et al (2003) Cell Signal, 15, 299-306. 8) Scarampella F et al (2001) Vet Dermatol, 12, 29-39. 9) Abramo F et al (2004) Vet Dermatol, 15,(suppl.1), 13. 10) Melck D et al (2000) Endocrinology, 141, 118-126. 11) Puntambekar P et al (2004) J Neurosci, 24, 3663-3671. 12) Chou MZ et al (2004) Biochemistry, 43, 2501-2511. 13) Lowry OH et al (1951) J Biol Chem, 193, 265-275. 14) Szallasi A et al (1999) Brit J Pharmacol, 128, 428-434. 15) De Petrocellis L et al (2002) Fundam Clin Pharmacol, 16, 297-302.

RINGRAZIAMENTI – Il presente lavoro è stato eseguito utilizzando fondi stanziati da Innovet Italia e dall’Università di Torino (ex 60%). Si ringrazia la Prof.ssa Silvia Racca per la gentile collaborazione.

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VALUTAZIONE DELL’ANDAMENTO CINETICO E DELL’EFFICACIA ANALGESICA DEL “FENTANYL PATCH” NEL CANE PLASMA PROFILE AND ANALGESIC EFFECT OF “FENTANYL PATCH” IN THE DOG Roncada P., Bellei E.*, Nigro V., Zaghini A., Joechler M.* Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale *Dipartimento Clinico Veterinario, Università di Bologna. Parole chiave: dolore, analgesia, fentanile, livelli plasmatici, cane. Key words: pain, analgesia, fentanyl, plasma levels, dog.

SUMMARY - The use of fentanyl patch in Veterinary Medicine represents a pain control system which generated a lot of interest in the last years. This transdermal drug delivery system was positioned immediately post-surgery on 7 dogs underwent column surgical procedures. All patients had a standardized anaesthesiological protocol. Plasma levels of fentanyl were analyzed at multiple time points throughout the study period by specific immunoenzymatic kit. At regular time intervals each animal was assessed for post-operative pain by using the “Glasgow Pain Scale” and physiological parameter recordings were obtained. The plasma concentrations (0.244-0.953 ng/ml) produce a good control of the post-operative pain and show a good correlation to the plasma levels of fentanyl able to control pain in humans. The results obtained showed furthermore mild/none opioid’s side effects.

INTRODUZIONE - I cerotti transdermici a base di fentanile sono da tempo utilizzati in medicina umana per il controllo del dolore cronico da cancro e negli Stati Uniti sono stati introdotti anche nella pratica veterinaria dal 1991. Si tratta di un sistema non invasivo, ben tollerato, facilmente applicabile e relativamente poco costoso; per questo offre un’alternativa interessante ai trattamenti tradizionali per il controllo del dolore anche negli animali (1). Lo scopo di questo lavoro è stato quello di descrivere la cinetica ematica del fentanile dopo applicazione di “fentanyl patch” valutando contemporaneamente i comportamenti dolorosi dell’animale tramite la “Scala del dolore Glasgow” in modo da evidenziare una possibile correlazione.

MATERIALI E METODI - Sono stati utilizzati 7 cani di età compresa fra i 3 e gli 8 anni, di peso compreso fra 6 e 26 kg, pervenuti al Dipartimento Clinico Veterinario, sezione Chirurgica, per essere sottoposti a interventi alla colonna vertebrale. Tutti i soggetti sono stati premedicati con glicopirrolato (0.01 mg/kg IM), buprenorfina (0.05 mg/kg IM) e midazolam (0.1 mg/kg IV). La scelta della buprenorfina come agente analgesico preempitivo era giustificata dalla durata del suo effetto analgesico teorico pari a 8-12 ore, presumibilmente sufficiente a proteggere il paziente fino all’insorgenza dell’effetto analgesico prodotto dal patch. L’induzione dell’anestesia è stata effettuata con propofol (4 mg/kg), mentre l’approfondimento e il mantenimento sono stati ottenuti con isofluorano in ossigeno puro. Al termine dell’intervento chirurgico e prima del risveglio, in ciascun soggetto è stato applicato un cerotto di fentanile (DUROGESIC®-Janssen-Cilag) di dosaggio variabile da 25µg/h/10cm2 a 75µg/h/30cm2 in relazione al peso dell’animale e mantenuto in situ per 72 ore. Da un catetere venoso, mantenuto nella vena cefalica dell’avambraccio, sono stati prelevati campioni di sangue (0,5 ml) alle scadenze sperimentali 0, 2, 4, 6, 8, 10, 12, 18, 24, 32, 40, 48, 60, 72 ore dall’applicazione del cerotto, 3 ore dopo la sua rimozione per 5 cani, e 3, 6, 8, 10, 12 ore dalla rimozione per 2 animali. Per la determinazione del fentanile nel plasma è stato utilizzato un kit immunoenzimatico specifico (Neogen® Fentanyl ELISA Kit, Diessechem, Milano). La valutazione del dolore è stata effettuata utilizzando la scala del dolore Glasgow, dalla quale sono state estrapolate quattro classi di dolore: nessun dolore: da 0 a 5 punti; dolore leggero: da 6 a 10 punti; dolore moderato: da 11 a 15 punti; dolore intenso: da 16 a 20 punti. La ricerca è stata eseguita nell'ambito del Sistema di Gestione della Qualità del Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale in conformità con le norme UNI EN ISO 9001:2000. Lo studio è stato condotto in ottemperanza con la legislazione Italiana relativa all'uso degli animali a fini sperimentali (D.L. 27/01/1992 n° 116).

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RISULTATI - Durante il periodo dello studio, cinque animali hanno mostrato dolore postoperatorio da assente a leggero; in un soggetto è stato ottenuto un punteggio di 11 e di 10, rispettivamente alla prima e alla seconda ora; in un altro paziente la scala del dolore si è mantenuta nel range di dolore da leggero a moderato fino alla 12a ora. In nessun soggetto sono stati riscontrati segni riferibili ad alterazioni avverse e a tossicità. Il fentanile risulta rilevabile nei campioni di plasma già a partire dalla 4a ora nel cane 5, fra l’8a e la 12a ora seguente l’ applicazione del patch nei cani 1, 2, 4 e 6, e solo a partire dalla 18a ora nei cani 3 e 7. Le concentrazioni ematiche mostrano un andamento analogo in tutti i cani; dopo il raggiungimento del plateau rimangono pressoché costanti per le 3 ore successive alla rimozione del cerotto, per poi diminuire a valori ancora rilevabili alla 84a ora. I livelli ematici di fentanile variano tra 0.143 ng/ml e 2.350 ng/ml. In un soggetto le concentrazioni plasmatiche di fentanile sono costantemente risultate molto più elevate rispetto a quelle riscontrate negli altri cani.

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI - Si ritiene utile sottolineare che per i primi 5 animali i prelievi venivano effettuati fino alla terza ora dopo la rimozione del cerotto. Dato che a questa scadenza sperimentale la concentrazione di fentanile rientrava nei valori di plateau, negli altri due animali i prelievi sono stati prolungati fino alla 84a ora al fine di verificare l’eventuale diminuzione delle concentrazioni dopo la rimozione del cerotto. Nell’ambito di questo studio preliminare va innanzitutto sottolineata la variabilità riscontrata sia in merito al tempo in cui la molecola è stata rilevata nel circolo sistemico, sia per quanto riguarda le sue concentrazioni. Tale variabilità può essere dovuta al differente spessore della cute e/o del tessuto adiposo in relazione alla razza, allo stato di nutrizione e all’età. Analogamente possono essere spiegate le concentrazioni più elevate riscontrate in uno dei cani. È ipotizzabile che, essendo quest’ultimo soggetto particolarmente magro, lo strato adiposo ridotto abbia consentito un maggiore passaggio del farmaco al torrente circolatorio, limitando l’effetto deposito del grasso. Il livello analgesico ematico (0.23-1.2 ng/ml) riportato nell’uomo (2), e accettato per il cane, è stato raggiunto e mantenuto in tutti i soggetti fino al momento della rimozione del cerotto. In tutti i soggetti la scelta terapeutica ha permesso di mantenere il livello analgesico desiderato, già indotto dall’oppiode somministrato in premedicazione. L’applicazione dopo l’intervento chirurgico è risultata efficace nell’alleviare il dolore degli animali, contribuendo pertanto al loro “benessere”. Tuttavia, i risultati di questa ricerca suggeriscono l’utilità, quando possibile, di applicare i cerotti 12 o 24 ore prima dell’intervento (3,4), in modo che al momento della pratica chirurgica siano già stati raggiunti i livelli ematici sufficienti per l’analgesia.

BIBLIOGRAFIA – 1) Housiaux N & Troncy E (2002) Point Vét, 225, 50-55. 2) Gilberto DB et al (2003) Contemporary Topics in Laboratory Animal Science, 42, 21-26. 3) Kyles AE et al (1996) Am J Vet Res, 57, 715-719. 4) Egger MC et al (1998) Vet Surgery, 27, 159-166.

Lavoro eseguito con fondi di Ricerca ex quota 60% dell’Università di Bologna (anno 2004 - assegnazione dott.ssa Roncada).

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BENESSERE ANIMALE ED INTERVENTI TERAPEUTICI NEL CAVAL LO: COMPORTAMENTO FARMACOCINETICO DI ELTENAC IN SOGGETTI IN ETA’ AVANZATA ANIMAL WELFARE AND THERAPY IN THE HORSE: AGE-RELATED PHARMACOKINETIC OF ELTENAC della Rocca G., Conti M.B., Di Salvo A., Malvisi J. Dipartimento di Patologia, Diagnostica e Clinica Veterinaria, Perugia Parole chiave: eltenac, farmacocinetica, cavallo, età avanzata Key words: eltenac, pharmacokinetics, horse, elderly SUMMARY – Non-steroidal anti-inflammatory drugs are commonly used in companion animals, often without proper knowledge about their pharmacokinetics. To optimize therapeutic effectiveness and minimize side effects, eltenac was administered i.v. to 5 old horses (> 18 years old) by single (0.5 mg/kg b.w.) and multiple (4,2 mg/kg/die) doses. At scheduled time points blood samples were collected and serum concentrations of eltenac were determined by HPLC. A two-exponential equation, used to estimate pharmacokinetic variables, best described serum concentrations versus time in all the horses examined. No accumulation of the drug occurred during the 5-day administration. Single and multiple treatment have not been followed by clinical or haematomorphological and biochemical changes, whereas endoscopic analysis have pointed out an increased hyperplastic status of gastric mucous membrane and, in some subjects, ulcerative lesions.

INTRODUZIONE - Le attuali conoscenze sull'impiego dei farmaci segnatamente alla specie equina sono alquanto limitate e molti composti vengono somministrati secondo posologie desunte da studi farmacologici e clinici effettuati in altre specie (cane soprattutto) o nell’uomo. Tale trasposizione non tiene conto delle differenze di sensibilità legate a fattori fisiologici quali la specie animale e la razza, né tantomeno, nell’ambito della stessa specie, di ulteriori fattori di variabilità come il sesso e l’età (1). Scopo di questa ricerca è stato quello di valutare il comportamento cinetico di un farmaco antiinfiammatorio non steroideo, l'eltenac, in cavalli anziani (età superiore a 18 anni), al fine di verificare se ed in che misura l’età degli animali sia in grado di modificare il destino del farmaco nell’organismo e di individuare eventuali differenze significative rispetto a quanto avviene in soggetti adulti in attività sportiva. Tale aspetto in particolare potrebbe portare alla definizione di protocolli terapeutici adeguati per soggetti più longevi nel rispetto dello stato di benessere animale.

MATERIALI E METODI - Il gruppo campione (5 soggetti, 4 femmine e 1 maschio) è stato individuato tra 9 cavalli di età compresa tra 18 e 25 anni, sulla scorta di un giudizio di sanità emesso in base ai risultati dell’esame clinico diretto, coprologico, emocromocitometrico e della determinazione di alcuni parametri relativi al profilo d’organo epatico, renale e muscolare, nonché del tenore di calcemia e fosforemia (Automatic Analyser, Hitaci 704, Roche). Prima dei trattamenti gli animali selezionati sono stati sottoposti ad esame endoscopico dello stomaco, che ha evidenziato in tutti i soggetti iperplasia della mucosa di entità variabile. Eltenac alla dose di 0.5 mg/kg (trattamento singolo) e di 4.2 mg/kg (trattamento protratto per 5 giorni) è stato somministrato per via endovenosa, utilizzando la preparazione commerciale autorizzata per la specie equina "Telzenac". Prima dell'inoculazione del farmaco ed a scadenze sperimentali prefissate, sono stati prelevati campioni di sangue da utilizzare per la determinazione analitica del farmaco, effettuata con metodica cromatografica (HPLC Beckman: Autosampler 507, Solvent module 126, UV Detector 166, Integrator System Gold Release 4.0). Durante il periodo di trattamento e nei giorni successivi, i soggetti sono stati sottoposti a monitoraggio clinico diretto e dei paramentri ematomorfologici e biochimico-clinici, al fine di valutare eventuali modificazioni a lungo termine imputabili all'azione del farmaco. A distanza di una settimana dal trattamento singolo e di 20 giorni dal termine del trattamento protratto è stato effettuato un nuovo controllo endoscopico in tutti i soggetti trattati.

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RISULTATI - Dall'analisi dei dati ottenuti si può evidenziare che, dopo somministrazione singola, la concentrazione sierica media di eltenac riscontrata alla prima scadenza sperimentale (5') è risultata pari a 3,25±0.95 µg/ml. Le concentrazioni plasmatiche del farmaco hanno presentato un decremento ad andamento curvilineo: 12 ore dopo la somministrazione, ultima scadenza sperimentale in cui il farmaco risultava titolabile, la concentrazione sierica media è risultata pari a 0.063± 0.007 µg/ml. La relazione tra tempi di prelievo e concentrazioni plasmatiche risulta ben descritta in tutti i soggetti da un’equazione biesponenziale. I valori medi di AUC, clearance plasmatica, volume di distribuzione allo steady state e tempo di emivita sono risultati rispettivamente pari a 5.32 hr*µg/ml (range: 4.67-6.34 hr*µg/ml), 95.12 ml/hr/kg (range: 78.87-103.70 ml/hr/kg), 322.66 ml/kg (range: 215.67-398.30 ml/kg) e 3.52 h (range: 3.36-3.94). L'andamento delle concentrazioni ematiche di eltenac dopo trattamento protratto ha mostrato come non si siano verificati fenomeni di accumulo del farmaco durante le successive somministrazioni, confermando quanto già osservato in seguito a trattamento singolo: dopo 24 ore dal trattamento e prima di una nuova somministrazione le concentrazioni sieriche del p.a. sono risultate infatti quasi sempre al di sotto del limite di quantificazione (50 µg/ml) o si sono attestate attorno a valori leggermente superiori. Sia dopo il trattamento singolo che in seguito a quello protratto gli animali non hanno mostrato sintomi ad andamento acuto-iperacuto correlabili alla somministrazione del farmaco. Le grandi funzioni organiche si sono mantenute nella norma ed i risultati dell'esame emocromocitometrico e delle determinazioni dei parametri biochimico-clinici non si sono differenziati in modo significativo da quelli ottenuti pre-trattamento. L'esame endoscopico dello stomaco eseguito a distanza di una settimana dal trattamento singolo ha permesso di evidenziare rispetto al controllo un rallentato svuotamento dello stomaco, nonchè aumento dello stato iperplastico della mucosa della parte non ghiandolare dello stomaco, particolarmente rilevante in 2 dei 5 soggetti trattati; in un soggetto erano inoltre presenti lesioni di tipo erosivo-ulcerativo a margini rilevati e frastagliati nella zona del fondo dello stomaco. L’endoscopia effettuata a distanza di 20 giorni dal termine del trattamento protratto ha evidenziato un ulteriore aumento dell'iperplasia della mucosa gastrica in tutti i soggetti trattati, particolarmente rilevante in un cavallo, in cui erano presenti anche una erosione a margini rilevati e frastagliati della grandezza di una moneta da un centesimo in prossimità del margo plicatus e due lesioni bottoniformi, lievemente eritematose ma non disepitelizzate, di circa 4-5 mm di diametro.

CONCLUSIONI - In medicina umana è opinione corrente che l'età avanzata possa rappresentare un ulteriore fattore di rischio per quanto attiene gli effetti collaterali da FANS rispetto al loro impiego in soggetti giovani. Un aumento dei rischi di reazioni avverse da farmaco in soggetti anziani potrebbe essere attribuito a variazioni del comportamento farmacocinetico collegato con l'età, sebbene gli studi condotti a tal proposito nell'uomo siano pochi e dai risultati discordanti (2). Non esistono in bibliografia riferimenti a studi eseguiti sui FANS in cavalli anziani. Uno studio farmacocinetico dell'eltenac allo stesso dosaggio impiegato in questa ricerca è stato effettuato da Dyke e collaboratori (3) in 6 cavalli tra gli 11 e i 18 anni di età. Comparando i parametri farmacocinetici da noi ottenuti con quelli di Dyke si evince che, a fronte di scarse variazioni per quanto riguarda l’area sotto la curva (5.32 contro 6.77 hr*µg/ml), differenze sono rilevabili a carico di clearance plasmatica (95.12 contro 73.8 ml/hr/kg), volume di distribuzione allo steady steate (322.66 contro 191 ml/kg ) e tempo di emivita (3.52 contro 2.36 h). I dati ottenuti risultano di difficile interpretazione se comparati con quelli di Dyke e collaboratori. Nel nostro esperimento il tempo di emivita è risultato superiore a quello riscontrato in cavalli più giovani, a suggerire un aumento, nei soggetti anziani, dei tempi di metabolismo e di eliminazione dell'eltenac. Ma, a contrastare l'ipotesi suddetta, anche la clearance plasmatica ha mostrato valori più elevati di quelli ottenuti in soggetti giovani. BIBLIOGRAFIA - 1) Merk & Co., INC (1995) - Fattori modificanti l’azione ed il destino dei farmaci. In: Il Manuale Merk Veterinario, 7a edizione, Merk & Co. Eds., Rahway, N.Y., USA. 2) Solomon D.H., (1997) Am. J. of Medicine, 102, 208-215. 3) Dyke T.M. et al. (1998) Am.J.Vet.Res., 59, 1447-1450

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CINETICA E BIODISPONIBILITA’ DEL NAPROXENE NEL CAVALL O SPORTIVO KINETICS AND BIOAVAILABILITY OF NAPROXEN IN THE RACE-HORSE Zonca A., Villa R., Cagnardi P.P., Barili P.A., Carli S. Dipartimento di Scienze e Tecnologie Veterinarie per la Sicurezza Alimentare, Milano (MI) Parole Chiave: naproxene, cavallo, cinetica, orale, biodisponibilità Key Words: naproxen, horse, kinetics, oral, bioavailability SUMMARY – The kinetics of naproxen (NSAIDs), orally (OS) administered at the daily dose of 10 mg.kg-1 repeated for 5 consecutive days, was investigated in 5 healthy race-horses. The kinetics was described by a monocompartimental model. The drug showed an elimination half-life of 6.48 hours (T1/2el); the peak concentration (mean Cmax = 38.62 µg.ml-1) was attained in about 3.25 hours (mean Tmax); the clearance (mean value) was 0.020 L.h-1.kg-1. The bioavailability (F = 89.31%) was calculated by comparing the oral AUC values and the intravenous AUC values (data reported in a previous paper). INTRODUZIONE - Il naproxene (NAP), antinfiammatorio non steroideo facente parte dei derivati dell’acido propionico, presenta struttura chimica e profilo farmacologico simili a quelli di ibuprofene e ketoprofene (1, 2). In Italia il farmaco è autorizzato per il solo impiego nell’uomo, sebbene in alcuni Paesi il suo uso sia consentito e diffuso tanto nell’uomo quanto negli animali. L’interesse per l’utilizzo del NAP in medicina veterinaria è andato rapidamente crescendo soprattutto nel cavallo sportivo (3, 4), tanto che già alla fine degli anni ’90, nel corso di analisi anti-doping, ne era stata accertata la presenza nelle urine di soggetti illecitamente trattati (5). Nell’uomo (2) il NAP è utilizzato a dosi comprese tra 3 e 10 mg.kg-1 somministrate ogni 12 ore per os. Pochi sono i dati relativi al comportamento cinetico di NAP nel cavallo (3). Scopo del presente studio è stato quello di definire la cinetica del NAP dopo somministrazione orale e di valutarne la biodisponibilità attraverso il confronto con i dati ottenuti dopo iniezione endovenosa (6). MATERIALI E METODI – Sono stati utilizzati 5 cavalli trottatori (tra i 4 ed i 10 anni di età, con un peso corporeo compreso tra 300 e 450 kg, clinicamente sani), gentilmente messi a disposizione da U.N.I.R.E. Nessuno dei cavalli selezionati era stato sottoposto, nei 30 giorni precedenti, a trattamenti farmacologici in grado di influenzare la cinetica del naproxene. I cavalli sono stati trattati per os con NAP sodico alla dose giornaliera di 10 mg.kg-1 ripetuta per cinque giorni consecutivi. Prima dei trattamenti gli animali sono stati sottoposti ad un prelievo di sangue (controllo = tempo 0) per verificare l’assenza di sostanze in grado di interferire con la metodica analitica scelta per la titolazione del NAP. Durante i 5 giorni di trattamento da ciascun cavallo sono stati raccolti campioni di sangue a tempi prefissati e compresi tra 30 minuti e 24 ore per il I giorno, tra 1 ora e 24 ore per il II, il III ed il IV giorno e tra 1 ora e 48 ore per il V ed ultimo giorno. Dal sangue raccolto è stato separato per centrifugazione (1500 g per 15 min) il siero che è stato conservato a -20°C fino al momento delle analisi. Le concentrazioni di NAP sono state determinate per via cromatografica (HPLC, con rivelatore UV/Vis; limite di quantificazione [LOQ] = 0.5 µg.mL-1). I dati ottenuti sono stati sottoposti ad analisi cinetica mediante WinNonLin Prof (Version 4.0.1, Pharsight, Ca, USA). RISULTATI - I profili cinetici di NAP sono stati sempre ben descritti da un modello aperto monocompartimentale. La Figura 1 evidenzia l’andamento delle concentrazioni sieriche del NAP nei 5 giorni di trattamento in ciascuno dei cavalli utilizzati; la Tabella 1 riporta i valori medi (± d.s.) dei parametri cinetici calcolati dopo la somministrazione orale e quelli, già pubblicati, ottenuti dopo iniezione endovenosa. Dopo somministrazione orale sono stati registrati valori di picco (Cmax) pari a 38.62 ± 2.64 µg.mL-1 (media ± d.s.) che sono stati conseguiti in un tempo (Tmax) di 3.25 ± 0.43 ore (media ± d.s.). L’emivita di eliminazione (T1/2el) è risultata pari a 6.48 ± 0.88 ore (media ± d.s.), mentre la clearance media è stata di 0.020 ± 0.002 L.h-1.kg-1. L’AUC è stata calcolata in 513.09 ± 65.16 µg.h-1.L-1 (media ± d.s.) e

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questo valore, confrontato con quelli conseguiti in precedenti studi (6), ha permesso di definire in circa il 90% la biodisponibilità (F) del naproxene nel cavallo sportivo. CONCLUSIONI - Sulla base dei risultati ottenuti si può concludere che il NAP somministrato per via orale presenta un comportamento cinetico che si può ritenere confrontabile con quelli di altri antinfiammatori non steroidei di più comune utilizzo nella specie equina.

Figura 1: Concentrazioni sieriche di naproxene dopo somministrazione orale ripetuta per 5 giorni alla dose di 10 mg.kg-1

0.10

1.00

10.00

100.00

0 20 40 60 80 100 120 140

Tempo (h)

Co

nce

ntr

azio

ni s

ieri

che

( µµ µµg

.ml-1

)

Tabella 1: Parametri cinetici dopo somministrazione orale ed endovenosa (6)

Endovena Orale

Parametri Unità Media ±D.S. Media ±D.S. C0 µg.mL-1 94.5 6.5 -- -- Cmax µg.mL-1 -- -- 38.62 2.64 Tmax h -- -- 3.25 0.43 K12 h-1 0.37 0.1 -- -- K21 h-1 0.6 0.2 -- -- T1/2α H 0.64 0.1 -- -- T1/2β H 6.95 0.4 -- -- T1/2el H -- -- 6.48 0.88 Vd L.kg-1 0.11 0.07 -- -- Vd(ss) L.kg-1 0.16 0.016 -- -- Cl L.h-1.kg-1 0.02 0.002 0.02 0.002 MRT (h) h 9.42 0.7 -- -- AUC µg.h-1.L-1 574.5 45.94 513.09 65.16 F % -- -- 89.31 --

BIBLIOGRAFIA - 1) Boothe DM (2001) The analgesic, antipyretic, anti-inflammatory drugs. In: Adams HR Veterinary pharmacology and therapeutics, 8th Ed, Iowa State University Press, 433-451. 2) Roberts LJ et al (2001) Analgesic-antipyretic and anti-inflammatory agents and drugs employed in the treatment of gout. In: Hardman JG et al The pharmacological basis of therapeutics, 10thEd, McGraw-Hill, 687-731. 3) Soma LR et al (1995) Am J Vet Res, 56, 1075-1080. 4) Frey HH et al (1981) Am J Vet Res, 42, 1615-1617. 5) Santi G (1998-99) Tesi di Laurea in “Chimica e Tecnologia Farmaceutiche”, Università di Milano. 6) Carli S et al (2004) Atti della Società Italiana delle Scienze Veterinarie (S.I.S.Vet.), vol.LVIII, Grado, 136.

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TOSSICOCINETICA DELL’IDROPRENE NEL POLLO TOXICOKINETICS OF HYDROPRENE IN CHICKEN Giorgi M., Cerri S., Attuali F., *Cacciuttolo E., Soldani G., *Mani P. Dipartimento di Clinica Veterinaria, *Dipartimento di Patologia Animale Università di Pisa (PI) Parole chiave: tossicocinetica, idroprene, pollo. Key words: toxicocinetic, hydroprene, chicken. SUMMARY - The aim of the present work was to develop and validate a new HPLC method to determine hydroprene (HYD) plasma concentrations in chickens. The LOQ and LOD for HYD were 0.04 µg/ml and 0.01 µg/ml, respectively. Recovery resulted 77 ± 8% (SE). HYD plasma concentration resulted under LOQ in all the withdrawal times after IP and PO administration, whereas a new peak was identified, as HYD acid, a metabolite, in both treatments. The metabolite concentration had a Tmax of 1.88 and 1.2 hours after IP and PO administration, respectively. Cmax were 1.93 and 3.04 µg/ml and T1/2 were 0.77 and 0.70 hours after IP and PO administration, respectively. Moreover, HYD metabolism in chicken microsomes was maximal after 40 min. Pharmacokinetics data and rapidity of metabolism development, suggest a rapid and extensive esterification of the parental compound. INTRODUZIONE - L’idroprene (HYD) è un insetticida appartenente alla classe dei regolatori della crescita degli insetti (IGRs). Si tratta di composti che alterano il bilancio ormonale degli insetti mimando gli ormoni giovanili naturalmente prodotti durante lo stadio larvale. In seguito all’esposizione, la crescita e lo sviluppo delle specie bersaglio risultano alterati: l’insetto rimane allo stadio di pupa non riuscendo a completare la sua metamorfosi oppure raggiunge lo stadio adulto ma non è in grado di riprodursi poiché la formazione dei genitali è anormale ed incompleta. Un segno caratteristico dell’esposizione è l’accartocciamento delle ali, le quali appaiono storte o malformate. Gli IGRs hanno un effetto a lungo termine: essi, infatti, non uccidono gli insetti viventi ma prevengono gli incrementi di una popolazione limitando la nascita della progenie. Soltanto gli insetti giovani sono vulnerabili; gli insetti adulti esposti continuano a vivere ed a riprodursi. L’HYD, attualmente commercializzato soltanto negli USA, è stato utilizzato con successo nelle aree urbane, soprattutto per il controllo di scarafaggi (Blatta orientalis e Blatta germanica) e acari (Dermanissus gallinae e Dermatophagoides farinae). Considerato il suo potenziale impiego nella lotta contro l’acaro rosso delle galline ovaiole (1), scopo di questo lavoro è stato quello di sviluppare e validare una nuova metodica HPLC per la determinazione e quantificazione dell’insetticida nel plasma di pollo e la successiva valutazione della sua tossicocinetica. MATERIALI E METODI – Sono stati utilizzati 20 polli di razza da carne, di età compresa tra le 6 e le 8 settimane e con un peso variabile tra 0,9 e 1,2 kg. In un preventivo studio pilota sono stati impiegati 5 polli: 3 polli sono stati trattati con 30 mg/kg di HYD per via orale, 1 pollo con 60 mg/kg per via IP e 1 pollo con 140 mg/kg per via IP. Per la sperimentazione a 5 polli è stata somministrata una dose di HYD di 140 mg/kg per OS, ad altri 5 polli la stessa dose è stata invece somministrata per via IP. Infine 5 polli sono serviti come gruppo di controllo. In tutti i casi, in seguito al trattamento, sono stati eseguiti prelievi di sangue (1 ml circa) dopo 10, 30, 60, 90, 120, 150, 180, 210, 240, 360, 480 e 24 ore. Il plasma ottenuto è stato sottoposto ad estrazione ed iniettato in HPLC e GC-MS. Inoltre, utilizzando soluzioni standard di HYD in concentrazione compresa tra 500 e 1 mM, sono state eseguite delle incubazioni con microsomi di pollo, ottenuti dai polli di controllo, secondo il metodo di Hogemann et al. (2) parzialmente modificato, per la valutazione del metabolismo epatico in vitro. RISULTATI – Il metodo HPLC sviluppato prevede l’utilizzo di una fase mobile costituita da CH3CN e H2O a pH 7 in rapporto 95:5. LOD e LOQ per l’HYD sono risultati rispettivamente 0,01 e 0,04 µg/ml. I recuperi ottenuti invece sono stati pari al 77 ± 8% (standard esterno). In seguito alla somministrazione di HYD PO e IP, in dosi di 30 e 60 mg/kg, non è stato possibile risalire alla sua concentrazione plasmatica poiché i valori erano al di sotto del LOQ.

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Aumentando la dose fino a 140 mg/kg abbiamo ottenuto risultati analoghi per l’HYD; tuttavia, ad un tempo di ritenzione inferiore rispetto a quello dell’insetticida, è stata evidenziata la presenza di un picco, assente nel plasma di controllo, la cui area variava in funzione del tempo intercorso dal momento del trattamento. L’ipotesi che si trattasse del picco di un metabolita formatosi rapidamente in vivo è stata confermata dai risultati ottenuti dalle incubazioni microsomiali: nei cromatogrammi corrispondenti, infatti, compare lo stesso picco ricavato dagli estratti plasmatici. Dall’iniezione in GC-MS di soluzioni standard di HYD ed estratti d’incubazioni microsomiali risulta che il metabolita è l’acido derivante dall’idrolisi del suo legame estereo. Visto il rapido metabolismo dell’insetticida è stata studiata la cinetica plasmatica del suo metabolita (Fig. 1).

O CH3

OCH3

CH3

CH3CH3

m/z 139

H

CH3CH3 OH

m/z 111

CH3

CH3 OH

CH

CH3 OH

O HH

H

CH3

m/z 83

OH

m/z 55

-OH H

CH3

m/z 79

CH3

CH3

CH3 CH3 OH

m/z 223

idroprene

H

CH3

OH

Figura 1. Frammentazione dell’HYD e del suo metabolita. La Cmax, pari a 1,93 e 3,04 µg/ml (rispettivamente dopo somministrazione PO e IP), si raggiunge dopo 1,88 e 1,2 ore. L’emivita è risultata inferiore ad 1 ora in entrambi i casi (0,77 h IP e 0,70 h PO). Inoltre gli studi in vitro hanno mostrato come la massima velocità di formazione dell metabolita si raggiunga dopo 40 min. CONCLUSIONI – Il metodo HPLC da noi sviluppato è risultato valido, semplice e sensibile ed ha permesso di ottenere recuperi sufficientemente elevati e buoni limiti di determinazione. Considerato il rapido ed esteso metabolismo dell’insetticida ad opera delle esterasi, esso può essere utilizzato per la determinazione e quantificazione del suo metabolita principale nel plasma di pollo. Infine, visto il potenziale uso dell’HYD in questa specie, il metabolita potrebbe essere usato come marker per valutare l’entità dell’assorbimento in seguito all’esposizione degli animali. BIBLIOGRAFIA – 1) Chauve C (1998) Vet Parasitol, 79, 239-245. 2) Hogemann R et al (1990) Arzneim Forsch./Drug Res, 40, 1159-1162.

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INTOSSICAZIONI IN MEDICINA VETERINARIA: CASISTICHE DE L LABORATORIO DI TOSSICOLOGIA DELLA FACOLTA’ DI MEDICINA VETERINARIA DI PISA NEL BIENNIO 2003-2004 VETERINARY MEDICINE INTOXICATIONS: CASES REPORTED BY THE LABORATORY OF TOXICOLOGY OF FACULTY OF VETERINARY MEDICINE OF PISA IN 2003-2004 YEARS Mengozzi G., Giorgi M., Rossellini M., Meucci V., Soldani G. Sezione di Farmacologia & Tossicologia, Dipartimento di Clinica Veterinaria,Università di Pisa, Pisa Parole chiave: tossicologia veterinaria, inibitori delle colinesterasi, metaldeide, rodenticidi ad azione anticoagulante, stricnina Key words: veterinary toxicology, cholinesterase inhibitors, metaldehyde, anticoagulant rodenticides, strychnine SUMMARY - The present report shows the results of the toxicological analyses performed from 2003 to 2004 by the Laboratory of Veterinary Toxicology, University of Pisa, Italy. 509 Samples have been investigated with a total of 728 analyses (244 specimes gave positive results). The toxicological analyses confirm the presence of several toxics with the following percentage: 51% cholinesterase inhibitors, 22% metaldehyde, 13% anticoagulant rodenticides, 8% zinc phosphide, 5% strychnine and 1% of other substances of minor toxicological interest. The cholinesterase inhibitors and the metaldehyde are the substances more largely detected in the specimens probably for their easy availability and high toxicity. INTRODUZIONE - Il Laboratorio di Tossicologia del Dipartimento di Clinica Veterinaria dell’Università di Pisa riceve annualmente numerose richieste di consulenza tossicologica che risultano pervenire da ambulatori veterinari, da enti statali e da privati cittadini. Le richieste provengono di norma dai territori di competenza del Laboratorio stesso (Centro Italia) e riguardano la ricerca di uno, due o più composti sospettati essere alla base dell’evento tossico. Negli ultimi anni sono risultati in aumento i fenomeni d’intossicazioni individuali e collettive in animali domestici e selvatici tanto che è stata emanata una legge regionale (n° 39, 2001) sull’utilizzo e detenzione di esche avvelenate. Nell’ambito del lavoro svolto dai centri di tossicologia, assumono notevole importanza la raccolta e la valutazione statistica dei dati ottenuti dalle analisi effettuate, che rappresentano un valido supporto diagnostico per il tossicologo e per il clinico. Il primo approccio allo studio e alla prevenzione delle intossicazioni in campo veterinario è rappresentato dall’elaborazione dei risultati delle analisi tossicologiche effettuate, per un periodo di tempo più o meno lungo, in un laboratorio di Tossicologia Veterinaria. Scopo della presente rassegna è stato quello di valutare, attraverso l’elaborazione dei dati analitici riferiti al biennio 2003-2004, l’incidenza dei reperti tossicologici positivi con particolare riferimento a rodenticidi ad attività anticoagulante (RAC), fosfuro di zinco (FZ), inibitori delle colinesterasi (IDC), stricnina (STR) e metaldeide (MET) verificati nel Laboratorio di Tossicologia del Dipartimento di Clinica Veterinaria dell’Università di Pisa. METODI DI ANALISI - La ricerca dei RAC è stata condotta con una metodica di cromatografia su strato sottile, seguita da lettura della lastra con luce ultravioletta (254 nm) (1). L’identificazione qualitativa del FZ è stata effettuata con un metodo che si basa sulla messa in evidenza della liberazione di fosfina dal contenuto gastrico dell’animale o da un’eventuale esca (2). Per la ricerca degli IDC è stata utilizzata come metodica di indagine la cromatografia su strato sottile (3). Per la ricerca della STR è stato utilizzato un metodo spettrofotometrico dopo estrazione con solventi dal campione in esame (4). La MET è stata determinata mediante indagine gas cromatografica (5). DATI EPIDEMIOLOGICI E CONCLUSIONI - Su un totale di 509 campioni, 275 sono stati inviati al laboratorio nel 2003. Il numero delle analisi eseguite su questi campioni è stato comunque più elevato data la necessità di continuare le ricerche allorché i primi esami avevano dato esito negativo. Sono state infatti eseguite 519 analisi nel 2003 e 453 nel 2004,

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per un totale di 972. Nei due anni presi in considerazione (2003-2004) sono stati ottenuti i seguenti risultati: positivi 244 (25%), negativi 728 (75%). Da un esame accurato dei dati, appare come gli IDC rivestano un ruolo di primaria importanza; in entrambi gli anni sono stati infatti oggetto del maggior numero di richieste e, con un 51% di risultati positivi, sono risultate le sostanze tossiche maggiormente responsabili di avvelenamenti. Si tratta in effetti di sostanze molto tossiche, facilmente reperibili in commercio, disponibili in varie formulazioni e acquistabili senza particolari limitazioni, elementi questi che le rendono particolarmente adatte per usi dolosi. Il riscontro di intossicazioni da MET è stato rilevante; questo tossico appare infatti al secondo posto (22%) nelle percentuali di positività del biennio. Non sono mancati casi di esche preparate a scopo doloso. I RAC con un 13% sono risultati al terzo posto: per queste sostanze sembrano più probabili intossicazioni accidentali visto il loro ampio utilizzo come rodenticidi; nella presente casistica le intossicazioni si sono spesso rivelate conseguenti a campagne di derattizzazione mal condotte o comunque dovute alla facilità con cui gli animali hanno avuto accesso alle trappole allestite. Il FZ con un 8% di campioni risultati positivi, è risultato il tossico al quarto posto, mostrando una frequenza abbastanza costante nei due anni con percentuali di positività comprese tra il 10% ed il 7%. Caso particolare è infine quello della STR, che su un totale di 173 campioni, è risultata responsabile soltanto di 11 intossicazioni, incidendo sul totale per il 5%. Per quanto riguarda le intossicazioni da STR la casistica rilevata suggerisce un quadro decisamente sovrastimato rispetto al suo effettivo pericolo; tuttavia nel 2003 è stato notato un aumento della presenza di questo tossico nelle esche. Sotto la voce “altro” vanno infine fatte rientrare altre sostanze quali paraquat, alfa-cloralosio, arsenico, fenotiazine, glicole etilenico e cianuri. È stata inoltre analizzata la provenienza dei diversi composti tossici e valutata l’incidenza che i vari campioni hanno avuto nel costituire il quadro appena descritto. In questa analisi è stato notato il ruolo di assoluta predominanza del cane nel totale dei casi risultati positivi rispetto alle altre specie animali: esso rappresenta infatti la specie animale sottoposta al rischio più elevato di intossicazione. Notevolmente più bassa è risultata invece l’incidenza di intossicazioni nel gatto, cavallo e bovino. È da notare poi come, oltre agli animali domestici, siano coinvolti nella casistica tossicologica anche animali selvatici (volpe) e vari volatili (storni, piccioni, passeri). Altro dato di rilievo appare anche la positività delle esche rinvenute accidentalmente che hanno rappresentato il 39,8% dei risultati positivi. Tra queste si è sempre potuta osservare una notevole eterogeneità nella loro preparazione. Sono state infatti rinvenute esche allestite nei modi più svariati: dalle esche classiche preparate con polpette di carne, pezzi di formaggio, colli di pollo, a quelle preparate con più di un tossico, quelle preparate con materiale non alimentare, quelle preparate con materiale contundente e quelle preparate in vivo. Sebbene tutte le esche abbiano dimostrato chiaramente il fine doloso, alcune di queste hanno destato particolare preoccupazione per la salute degli animali e dell’uomo, visto che sono state rinvenute in giardini pubblici e privati. E’ stato osservato anche che le intossicazioni risultano più frequenti nei mesi primaverili (marzo, aprile), nei quali aumenta il numero degli animali portati a passeggio e conseguentemente il numero delle persone da questi infastidite. Molto frequenti sono inoltre gli avvelenamenti nel mese di settembre quando si apre la stagione venatoria; in tale periodo i bocconi avvelenati sono spesso disseminati dagli stessi cacciatori per danneggiare i concorrenti o per sterminare i predatori naturali della selvaggina (volpi etc.). Bisogna infine sottolineare come l’azione di chi mette in atto determinati piani di intossicazioni dolose sia molto pericolosa, non solo per gli animali ma anche per l’uomo, ponendo infatti in serio pericolo la vita delle persone che possono entrare in contatto con i diversi tossici. A tale proposito va sottolineata la percentuale di frequenza con cui, in questi due anni, sono stati inviati al Laboratorio da parte delle forze dell’ordine campioni relativi a materiali sospetti reperiti in giardini pubblici e privati. BIBLIOGRAFIA- 1) Rengel I e Friedrich A (1993) Vet Res Commun, 17, 421-427. 2) Guale FG et al (1994) Vet Hum Toxicol, 36, 517-519. 3) Zoun P e Spierenburg TJ (1989) J Chromatogr, 462, 448-453. 4) Korany MA e Seif El-Din AA (1984) J Assoc Off Anal Chem, 67, 138-41. 5) Griffiths CJ (1984) J Chromatogr, 295, 240-7.

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FUSARIOTOSSINE E CELLULE DELLA GRANULOSA DI SUINO: EFFETTI IN VITRO SULLA PROLIFERAZIONE CELLULARE FUSARIOTOXINS AND PIG GRANULOSA CELLS: IN VITRO EFFECTS ON CELLULAR PROLIFERATION Caloni F.*, Ranzenigo G.°, Spicer L.J. § *Dipartimento di Scienze e Tecnologie Veterinarie per la Sicurezza Alimentare, Milano. °Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Milano. §Department of Animal Science, Oklahoma State University, USA. Parole Chiave: Deossinivalenolo, Tossina T-2, α-Zearalenolo, cellule granulosa di suino Key words: Deoxynivalenol, T-2 Toxin, α-Zearalenol, pig granulosa cells SUMMARY – Fusarium mycotoxins, like deoxynivalenol, T2-toxin and zearalenone, are common grain and foodstuffs contaminants. It is well known the endocrine disruptor effect of zearalenone in swine while a few information are reported on trichothecens and their possible negatively impact on pregnancy. The aim of this study was to evaluate the effects on cells proliferation of deoxynivalenol, T-2 toxin, and α-zearalenol, singularly or in combination on pig granulosa cells and associated also with IGF-1 (Insulin-Like Growth Factor-1) and FSH. T-2 toxin always inhibited cells number, while a synergic effct is hypotized in the association beween T-2 toxin and deoxinivalenol. α-zearalenol stimulate cells growth only in the presence of IGF-1 and FSH. INTRODUZIONE – Le Fusariotossine quali deossinivalenolo (DON), tossina T-2 (T-2), e zearalenone (2) sono micotossine prodotte da funghi del genere Fusarium. Gli effetti dello zearalenone, in diverse specie animali e nell’uomo come endocrine disruptor sono molto note, ed in particolare nel suino gli effetti sono correlati ad una sua bioattivazione in α-zearalenolo ( -ZEA). Poche informazioni riguardanti gli effetti a livello riproduttivo nel suino sono riportate invece per i tricoteceni: per il DON uno studio recente ha dimostrato effetti di questa micotossina sulla maturazione degli oociti (1), mentre per la T-2 studi in campo hanno dimostrato una correlazione tra questa micotossina e disturbi riproduttivi (2) nelle scrofe. Poiché spesso queste micotossine si trovano contemporaneamente nell’alimento scopo del presente lavoro è stato quello di valutare gli effetti di DON, T-2 e -ZEA singolarmente e in associazione con un metodo in vitro di cellule della granulosa di suino per valutare gli effetti sulla crescita cellulare. MATERIALI E METODI – Cellule della granulosa di suino sono state prelevate da follicoli ovarici di piccole dimensioni provenienti da animali dopo la macellazione, messe in coltura (3,4) e trattate con diverse concentrazioni di DON (0,01- 16,9 µM), T-2 (0,0006- 6,4 µM) e -ZEA (0,009-31,2 µM) (Sigma Chemical Co, St Luis, MO), sia singolarmente che in associazione. Cellule della granulosa sono state inoltre trattate con le singole micotossine a concentrazioni prestabilite (0,09 µM di -ZEA, 0,1 µM di DON e 0,06 µM di T2) in presenza di concentrazioni variabili (0, 3, 10, o 30 ng/mL) di IGF-1 (Insulin-Like Growth Factor-1, ricombinante umano; R&D Systems, Minneapolis, MN) ed FSH 30 ng/mL (Scripps Laboratories, San Diego, CA). Al termine del trattamento (96 ore) è stato calcolato il numero delle cellule presenti in ogni pozzetto tramite un Coulter counter (Model Zm, coulter Eletronics, Hialeah, FL). Gli effetti dei trattamenti e le loro correlazioni statistiche sono state analizzate tramite la procedura GLM del programma SAS. RISULTATI - Trattamento con DON Dopo trattamento con DON (0,01; 0,03; 0,1; 0,3; 1; 3,4; 16,9 µM) è stato notato un effetto stimolatorio sulla crescita cellulare delle cellule della granulosa di suino alle concentrazioni di DON fino a 0,1 µM (P<0,05) rispetto ai controlli, mentre a 0,3 µM non è stato più riscontrato questo effetto e a 3,4 e 16,9 µM il DON inibiva la proliferazione cellulare (P<0,0001). La T-2 (0,6 µM) è stata associata a concentrazioni di DON comprese tra 0,01 e 3,4 µM: è stata dimostrata una notevole inibizione della crescita cellulare (P<0,0001) a tutte le

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concentrazioni di DON ad esclusione di quella più elevata (3,4 µM ), dove l’associazione con la T-2 non determinava cambiamenti. Associando -ZEA (0,09 µM) non sono stati riscontrati differenze statisticamente rilevabili ad eccezione della scomparsa dell’effetto stimolatorio con DON 0,1 µM . Trattamento con T-2 La T-2 (0,0006; 0,002; 0,006; 0,06; 0,6; 6,4 µM) ha mostrato un effetto stimolatorio sulle cellule della granulosa di suino a 0,0006 µM (P<0.05), mentre nessun effetto rispetto ai controlli è stato rilevato per concentrazioni comprese tra 0,002 e 0,006 µM. Per valori di concentrazioni compresi tra 0,06, e 6,4 µM è stata riscontrata una notevole inibizione della proliferazione cellulare (P<0,0001). Associando 0,01 µM di DON a dosaggi molto bassi di T-2 (0; 0,0006; 0,002; 0,006), in primo luogo non è stato più riscontrato l’effetto stimolatorio della T-2 determinato a 0,0006 µM: il numero di cellule rimaneva invariato rispetto ai controlli e alle cellule trattate con DON. A 0,002 and 0,006 µM l’aggiunta di DON determinava un lieve aumento del numero di cellule. Associando 0,3 µM di DON ad altre concentrazioni di T-2 (0,006; 0,06; 0,6) a 0,006 µM la presenza di DON inibiva in questo caso in modo significativo il numero di cellule mentre a 0.6 µM di T-2, il DON mostrava una azione stimolatoria sulla crescita cellulare (P<0,05). Trattamento con � -ZEA Coltivando le cellule con -ZEA (0,009; 0,09; 0.9; 9,4 e 31,2 µM) non si sono evidenziate differenze statisticamente significative in relazione alla proliferazione cellulare, per concentrazioni comprese tra 0,009 e 9,4 µM, mentre un notevole effetto inibitorio è stato riscontrato alla concentrazione più elevata testata, 31,2 µM. Associando -ZEA (0,009, 0,09, 0,9, 9,4) a T-2 0,6 µM, la crescita cellulare veniva inibita drasticamente a qualsiasi concentrazione di -ZEA (P< 0,0001). Trattamento con DON, T-2 e a-ZEA in presenza di IGF-1 ed FSH La curva controllo mostrava una notevole azione stimolatoria sulla proliferazione cellulare in presenza di IGF-1 30 ng/ml (P<0,05) ed FSH (P<0,05). Il DON (0,1 µM) non mostrava effetti in presenza di IGF-1 ed FSH, la T-2 (0,06 µM) mostrava una notevole azione inibitoria (P<0,0001) mentre l’-ZEA (0,09 µM) mostrava un effetto stimolatorio in presenza di IGF-1 10 ng/mL ed FSH (P<0,05). CONCLUSIONI - Il DON, con un andamento dose-dipendente, mostra un effetto stimolatorio sulla cellule della granulosa fino a 0,1 µM, che scompare alla concentrazione di 0,3 µM. Associando però la stessa concentrazione di DON (0,3 µM) alla T-2 (0.6 µM) si manifesta una azione positiva sulla crescita cellulare. Questo è un aspetto molto interessante, e dimostrativo di un effetto sinergico tra le due micotossine. La T-2 infatti mostra sempre un potente azione inibitoria sulla crescita cellulare, anche in presenza di IGF ed FSH . Infine è da notare come l’effetto dell’-ZEA sulla proliferazione cellulare si evidenzi solo in presenza di IGF ed FSH. BIBLIOGRAFIA - 1) Alm H et al (2002) Toxicology in vitro, 16, 643-648. 2) D’Mello JPF et al (1999) Animal Feed Science and Thecnology, 80, 183-205. 3)Spicer LJ et al (1998) Endocrine, 9,153-161. 4) Spicer LJ et al (1993) Journal of Animal Science, 71, 1232-1241.

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ALTERAZIONE DI PARAMETRI INFIAMMATORI DOPO SINGOLA SOMMINISTRAZIONE DI OCRATOSSINA A NEL TOPO

ACUTE TREATMENT OF OCHRATOXIN A IN MICE ALTERS INFLAMMATORY PARAMETERS Ferrante M.C., Bilancione M., Iacono A.1, Esposito E.1, Meli R.1, Lucisano A. Dipartimento di Patologia e Sanità Animale, Dipartimento di Farmacologia Sperimentale (1) Università di Napoli Federico II Parole chiave: topo, ocratossina A, cicloossigenasi-2 (COX-2), proteina da shock termico 70, attività mieloperossidasica, perossidazione lipidica. Key words: mouse, ochratoxin A, cyclooxygenase-2 (COX-2), heat shock protein (hsp70), myeloperoxidase activity, lipid peroxidation. SUMMARY – The aim of this in vivo study was to assess the mechanisms by which the mycotoxin ochratoxin A (OTA) induces, after acute administration, toxic effects. Western blot analysis performed on lysates from peritoneal macrophages and kidney homogenates reveal an increase of COX-2 expression in OTA treated mice. In these animals hsp70 expression was decreased showing the lack of hsp70 protective effect. OTA increases lipid peroxidation in kidney and liver and polymorphonuclear leukocyte infiltration in duodenum. OTA also induces a significant increase in azotemia, azoturia and creatinuria values highlighting a functional kidney damage. This study suggests that the modifications of inflammatory parameters and lipid peroxidation induced by OTA are involved in its toxicity contributing to structural and functional tissue injury.

INTRODUZIONE – Le ocratossine sono micotossine prodotte da diverse specie di micromiceti del genere Aspergillus e Penicillium. Tali micotossine contaminano soprattutto cereali, prodotti del forno (pane), arachidi, fagioli, legumi in generale, caffè e mangimi, ma anche vino, birra, frutta secca ed erbe infusionali. L’ocratossina A (OTA) è il metabolita fungino più frequentemente rinvenuto in suddetti substrati. L’OTA si ritrova anche nelle carni di maiale e di specie avicole; sono stati ritrovati residui nelle uova e nel latte di bovina, come del resto anche in quello di donna, poiché tale molecola, nella forma non ionizzata, attraversa la barriera sangue-latte. All’ocratossina A sono attribuite proprietà epatotossiche, teratogene (1), immunotossiche ma soprattutto nefrotossiche e carcinogenetiche (2). E’ stato accertato, infatti, il suo ruolo determinante nell’eziologia della nefropatia micotossica dei suini e nella nefropatia endemica a carattere cronico che interessa le popolazioni rurali dei Paesi Balcanici (la cosiddetta BEN) (3), dove è stata riscontrata peraltro un’elevata incidenza di tumori del tratto urinario (urinary tract tumors o UTT). A tale proposito va sottolineato come recenti studi epidemiologici hanno indotto lo IARC ad inserire l’OTA nel gruppo 2B delle sostanze potenzialmente cancerogene. I meccanismi molecolari attraverso i quali l’OTA induce tossicità non sono stati ancora, del tutto, chiariti pertanto lo scopo di questa ricerca è stato quello di individuare alcuni dei possibili meccanismi attraverso i quali la micotossina determina effetti tossici nel topo dopo una singola somministrazione orale. In particolare, è stato valutato l’eventuale ruolo di modulazione dell’ocratossina A sull’espressione della cicloossigenasi-2 (COX-2) e della proteina da shock termico hsp70 (proteina con funzione citoprotettiva sintetizzata durante una condizione di stress cellulare) mediante analisi western blot; attraverso il saggio della malondialdeide è stata considerata l’azione di perossidazione lipidica indotta dalla micotossina e, tramite il saggio della mieloperossidasi, si è effettuata la determinazione dell’indice di reclutamento tissutale dei neutrofili. Inoltre, sono stati analizzati i parametri ematochimici ed urinari per rilevare un possibile danno renale. MATERIALI E METODI – Sono stati utilizzati topi maschi di razza albina del ceppo Swiss del peso medio di 37g. Gli animali sono stati stabulati a temperatura costante (22±1°C) con cicli di 12 ore luce-buio e con libero accesso all’acqua e al cibo. I topi sono stati divisi in gruppo trattati e controllo (6 animali per ciascun gruppo). Agli animali sottoposti al trattamento è stata somministrata per os una singola dose di OTA (10 mg/kg) sciolta in una

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soluzione di NaHCO3 0.1M pH 7.4 in un volume finale di 400 µl; gli animali di controllo hanno ricevuto il solo veicolo. Dopo 24h dal trattamento e, successivamente al prelievo di sangue, gli animali sono stati sacrificati e si è proceduto al prelievo dei macrofagi peritoneali e dei tessuti (fegato, rene, duodeno, ileo, colon). Sui lisati dei macrofagi e sugli omogenati di rene, fegato ed intestino sono state eseguite analisi western blot per valutare l’espressione della COX-2 e della hsp 70. Le proteine sono state separate mediante elettroforesi su gel di poliacrilamide all’8% in presenza di sodio dodecil solfato (SDS-PAGE). Le bande proteiche che avevano reagito con gli anticorpi coniugati alla perossidasi di rafano (HRP, horseradish peroxidase) venivano visualizzate su film ai raggi X mediante metodiche di chemiluminescenza. L’attività mieloperossidasica e l’entità della perossidazione lipidica nei tessuti in questione (valutata quantizzando la malondialdeide quale principale prodotto della perossidazione dei lipidi di membrana), sono state determinate adottando le metodiche già descritte rispettivamente da Mullane et al. e da Ohkawa et al. (4, 5). La creatinemia, l’azotemia, l’azoturia e la creatinuria sono state ricercate mediante le usuali tecniche di laboratorio. I dati raccolti sono stati, in seguito, sottoposti ad elaborazione statistica mediante l’analisi della varianza (ANOVA) ed i valori ottenuti sono stati confrontati mediante il Bonferroni t-test. Sono stati considerati significativi i valori con p<0.05. RISULTATI – Dall’analisi western blot eseguita sui lisati dei macrofagi peritoneali e su quelli di rene è risultato evidente come l’OTA induca un aumento dell’espressione della COX-2 negli animali trattati rispetto ai controlli e come determini una riduzione dell’effetto protettivo della hsp70. L’OTA, inoltre, induce un aumento significativo della perossidazione lipidica nei reni (43.21 ± 3.5 vs 23.62 ± 1.9 µM/mg di proteine tessutali, p<0.01) e nel fegato (38.32 ± 9.7 vs 14.73 ± 1.3 µM/mg di proteine tessutali, p<0.05) e determina un incremento significativo dell’infiltrazione dei polimorfonucleati nel duodeno (5.87 ± 1.9 vs 0.61 ± 0.1 U.MPO/mg di proteine tessutali, p<0.05). La micotossina determina, inoltre, un danno funzionale a carico del rene in quanto aumenta significativamente i valori sia dell’azotemia (73.95 ± 7.3 vs 42.72 ± 2.1 mg/dl, p<0.01) che dell’azoturia (8643 ± 691 vs 3926 ± 1261 mg/dl, p<0.05) e della creatinuria ( 58.92 ± 7.3 vs 30.36 ± 8.0 mg/dl, p<0.05) rispetto agli animali di controllo. CONCLUSIONI – In conclusione la capacità dell’ocratossina A di modulare il processo infiammatorio variando, tra l’altro, l’espressione di enzimi coinvolti nel processo infiammatorio stesso (ed alterando la composizione lipidica delle membrane e conseguentemente le funzioni cellulari ad esse correlate), suggerisce che tali enzimi abbiano un ruolo importante nella patofisiologia della micotossitosi e che ulteriori studi sulla modulazione farmacologica di questi enzimi potrebbero rappresentare un possibile e utile bersaglio terapeutico nel trattamento della tossicità dell’OTA. BIBLIOGRAFIA – 1) Wangikar PB et al (2004) Birth Defects Research (Part B), 71, 343-351. 2) Kamp HG et al (2005) Toxicology, 206, 413-425. 3) Vrabcheva T et al (2004) J Agric Food Chem, 52, 2404-2410. 4) Mullane KM et al (1985) J Pharmacol Methods, 16, 157-167. 5) Ohkawa H et al (1979) Anal Biochem, 95, 351-358.

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INDUCIBILITÀ ββββ-NAFTO-FLAVONE DIPENDENTE DEL CITOCROMO P450 1A NEL FEGATO E NEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE DI SUINO INDUCTION OF CYTOCHROME P450 1A BY ββββ-NAPHTO-FLAVON WITHIN PIG’S LIVER AND CENTRAL NERVOUS SYSTEM Zaghini A.*, Gervasi P.G.**, Chirulli V. **, Vaccaro E.**, Marvasi L.* *Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale, Università di Bologna; **Istituto di Fisiologia Clinica, Area della Ricerca CNR Pisa Parole chiave: Citocromo P450, CYP1A, suino, SNC. Key Words: Cytochrome P450, CYP1A, pig, SNC. SUMMARY – The expression of the cytochrome P450 1A (CYP1A) and some of its related activities (EROD and MROD) were investigated in liver (microsomes) and brain cortex, midbrain and cerebellum (microsomes and mitochondria) from pigs induced with β-naphtoflavone (BNF) and from untreated pigs. By RT-PCR analysis, using specific primers, it was demonstrated that mRNA of CYP1A1 is constitutively expressed in liver, and brain regions. Unlike liver, BNF had no apparent effect on expression pattern of this isoform in any brain regions. EROD and MROD activities were induced in the liver but not in the brain, where they resulted 3-4 fold higher in mitochondria than in microsomes. The lack of induction of the cerebral EROD and MROD by BNF suggests a different regulation of these brain enzymes. INTRODUZIONE – I citocromi P450 ricoprono un ruolo strategico nel metabolismo di composti endogeni (steroidi, citochine, acidi grassi, vitamina D, ecc.) e di xenobiotici quali farmaci e contaminanti ambientali. L’obiettivo di questa ricerca è stato quello di valutare l’espressione e l’inducibilità del citocromo 1A (CYP1A) nel fegato e nel SNC di suino, in seguito a trattamento con β-naftoflavone (BNF) poiché la letteratura è particolarmente carente su questi aspetti. La famiglia CYP1A ricopre un ruolo predominante nella detossificazione di idrocarburi poliaromatici, di bifenili-policlorurati planari e di alcune diossine come la 2,3,7,8-tetracloro-dibenzo-p-diossina (2,3,7,8-TCDD), come pure nell’attivazione di composti come l’aflatossina B1, il benzopirene, le amine aromatiche ed eterocicliche (1, 2). Diversi substrati, come i bifenili-policlurati “dioxin like”, mediante l’attivazione del recettore Ah (aryl hydrocarbon receptor) sono in grado di indurre l’espressione del CYP1A1, CYP1A2, CYP1B1; viceversa, altri substrati, come i fluorochinoloni, inibiscono l’attività del CYP1A. Nei pesci, la valutazione dell’induzione degli enzimi di questa famiglia viene anche utilizzata come indicatore biologico di contaminazione ambientale (3); inoltre, sembra sussistere una stretta correlazione tra l’esposizione a contaminanti ambientali e disfunzioni riproduttive e/o neoplasie in diversi mammiferi acquatici (4), situazioni nelle quali il CYP1A può essere alla base della formazione di metaboliti altamente reattivi e tossici. Nel SNC di diverse specie animali (uomo, ratto, trota, orata, salmone, coniglio) recentemente è stata dimostrata la presenza del CYP1A, mediante metodiche di RT-PCR (5). In ratto, trota ed orata è stata anche documentata l’inducibilità del CYP1A da parte di composti quali il 3-metilcolantrene ed il β-naftoflavone (6, 7, 8). MATERIALI E METODI – Per realizzare questo studio sono stati impiegati 8 suinetti, ibridi commerciali, destinati alla produzione del suino pesante, di 2 mesi di età. Gli animali sono stati suddivisi in due gruppi: gruppo di controllo (CON, N=4) e gruppo trattato con β-naftoflavone (BNF, 30mg/kg/die IP per 4 giorni, N=4). Dopo il trattamento gli animali sono stati sacrificati in accordo al D.Lgsvo 333 del 1998; da ogni animale sono stati prelevati, in sterilità, campioni dei seguenti tessuti: fegato, corteccia cerebrale, cervelletto e mesencefalo, dai quali sono state preparate le frazioni microsomiali, secondo i metodi classici. Nei campioni cerebrali si è proceduto inoltre alla preparazione dei mitocondri (centrifugazione differenziale e gradiente di Percoll). Su tutte le frazioni microsomiali e mitocondriali sono state infine valutate le attività etossiresorufin-O-deetilasi (EROD) e metossiresorufin-O-deetilasi (MROD) che rappresentano dei markers comunemente utilizzati per la famiglia 1A.

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RISULTATI – A livello epatico il contenuto medio (±DS) di citocromo P450 è risultato pari a 0,33±0,09 nmoli/mg di proteine nel gruppo di controllo e 0,62±0,11 nmoli/mg di proteine nel gruppo trattato con BNF, evidenziando l’effetto inducente determinato da quest’ultimo. 7,5 pmoli/mg proteine microsomiali (gruppo CON) e 9 pmoli/mg proteine microsomiali (gruppo BNF) sono le concentrazioni (valore singolo) di citocromo P450 riscontrate a livello cerebrale che sottolineano l’assenza di induzione. A conferma di questa osservazione ci sono le attività EROD e MROD microsomiali che sono risultate notevolmente indotte (15 e 13 volte rispettivamente) nel fegato ma non nel SNC. Nei mitocondri, le medesime attività erano 3-4 volte più alte di quanto osservato per i microsomi. Mediante RT-PCR si è evidenziata la presenza di CYP1A1 espresso costitutivamente a livello epatico ma non nel SNC, in questa sede ed in tutti i comparti cerebrali considerati l’espressione del CYP1A1 è stata osservata solo negli animali indotti con BNF. CONCLUSIONI – I dati ottenuti, anche mediante attività marker specifiche per l’isoforma CYP1A (EROD e MROD), indicano la presenza di CYP1A, non inducibile con BNF, a livello di SNC di suino. Si è inoltre confermato quanto osservato nel ratto relativamente alle attività CYP-dipendenti (EROD, MROD) dei mitocondri che, sempre nel SNC, risultano essere costitutivamente superiori rispetto a quelle proprie dei microsomi (9). Per la prima volta nel suino, le prove di RT-PCR hanno messo in evidenza la presenza del CYP1A1 in tutti i distretti cerebrali degli animali trattati con BNF, ma non negli animali di controllo. Si può quindi ipotizzare che a livello di SNC vi sia un aumento dell’RNA messaggero, in seguito ad un trattamento inducente con BNF, ma che a questo non faccia seguito una sintesi analoga di proteine enzimatiche e che ci possa essere quindi un meccanismo di controllo non presente negli altri distretti dell’animale, oppure che sia necessario un tempo di latenza superiore per poter ottenere un aumento significativo dell’enzima. BIBLIOGRAFIA – 1) Clemons JH et al (1998) Aquat Toxicol, 43, 179–194. 2) Omiecinski CJ et al (1999) Tox Sci, 48, 151-156. 3) Arinc E et al (2000) Pure Appl Chem, 72, 985–994. 4) Beland P et al (1993) J Gt Lakes Res, 19, 766–775. 5) Yun C et al (1998) Biochem Biophys Res Commun, 243, 808-810. 6) Dhawan A et al (1999) Mol Cell Biochem, 200, 169-176. 7) Ortiz-Delgado J et al (2002) Aquat Toxicol, 60, 269-283. 8) Chung-Davidson Y et al (2004) Aquat Toxicol, 43, 179–194. 9) Walther B et al (1986) Brain Res, 375, 338-344.

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METABOLISMO MICROSOMIALE EPATICO DEL BOLDENONE NEL VITELLO A CARNE BIANCA: RISULTATI PRELIMINARI IN CROMATOGRAFIA LIQUIDA (HPLC) LIVER MICROSOMES METABOLISM OF BOLDENONE IN VEAL CALVES: LIQUID CHROMATOGRAPHY (HPLC) PRELIMINARY RESULTS Merlanti R., Gallina G., Capolongo F., Dacasto M., Montesissa C. Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Agripolis, Legnaro, Padova Parole chiave: metabolismo, microsomi epatici, vitelli a carne bianca, boldenone, HPLC Key words: drug metabolism, liver microsomes, veal calves, boldenone, HPLC SUMMARY- The in vitro metabolism of 17β-boldenone (17β-bold), a synthetic anabolic steroid illegally used as a growth promoter in cattle, was studied in vitro by using microsomes prepared from the liver of 10 healthy veal calves. Sample analysis were performed with an HPLC coupled with an UV detector. At present conditions and in all microsome incubations, only a small amounts of two more polar putative metabolites were found; moreover, none of these was demonstrated to be Boldione (ADD). These preliminary results need to be confirmed by LC-MS/MS, to find the in vitro assays relationship to the in vivo situation in healthy veal calves. INTRODUZIONE- Il Boldenone (1,4-androstadien-17β-ol-3-one; 17β-bold) è uno steroide androgeno di origine sintetica, ottenuto in seguito alla deidrogenazione del testosterone. Nonostante il divieto d'impiego negli animali da reddito, imposto dalle Direttive CEE 96/22 e 96/23, il 17β-bold è utilizzato illegalmente in molte specie animali, incluso l’uomo per aumentarne le performance sportive (1, 2, 3) e nel bovino per le spiccate proprietà anaboliche (4). La presenza di 17β-bold di origine endogena è stata dimostrata nell’urina del suino, dell'uomo e del cavallo; in queste ultime due specie, il principale metabolita urinario del 17β-bold è il suo epimero 17α-bold (5). Nella specie bovina è tuttora in corso un dibattito scientifico riguardante le principali vie di biotrasformazione ed escrezione del 17β-bold e dei suoi metaboliti nonchè la possibile origine endogena del 17α-bold a partire da fitosteroli presenti nella dieta (6, 7). Scopo principale di questo lavoro è stato quello di separare gli eventuali metaboliti del Boldenone prodotti in vitro, a seguito di incubazioni con frazioni microsomiali epatiche di vitelli a carne bianca, mediante analisi degli estratti in cromatografia liquida (HPLC). MATERIALI E METODI - Sei vitelli maschi di razza Frisona Italiana (Gruppo A) e 4 vitelli maschi di razza Bruna Austriaca (Gruppo B), rispettivamente del peso medio di 219±19,7 e 245±25,5 Kg, sono stati macellati a circa 7 mesi di età. I microsomi epatici sono stati ottenuti in seguito ad omogenizzazione di 10 g di tessuto (lobo quadrato) e centrifugazione differenziale (8). Per lo studio di metabolismo in vitro sono state eseguite incubazioni con proteina microsomiale epatica (0,08 mg), 17β-bold 30 µM (Steraloids, USA), NADPH 1 mM e MgCl2 2,5 mM (concentrazioni finali in un volume pari a 400 µl) in agitazione a 37°C per 10 min. Al termine della reazione, le due repliche di ciascun incubato ed il bianco privo di NADPH, sono state estratte con diclorometano, portate a secco in corrente d’aria e riprese con 100 µl di una soluzione MeOH:H2O; (20:80; v:v). L’analisi in cromatografia liquida degli estratti è stata effettuata con HPLC Jasco accoppiato ad un rivelatore UV. La separazione è stata effettuata in gradiente con fase mobile composta da acqua, metanolo e acetonitrile, Colonna X-Terra MS C18 (30 x 150 mm, 5µm, Waters), a λ= 247 nm, con flusso pari a 0,5 ml/min e volume di iniezione 10 µl. RISULTATI - L’analisi in cromatografia liquida degli estratti dei microsomi epatici incubati con 17β-Boldenone, alle condizioni sopra riportate, ha consentito di evidenziare due picchi, che eluiscono prima del composto precursore e che si presuppone possano rappresentare metaboliti più polari del 17β-bold. Ipotizzando che i due composti siano dotati delle stesse

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caratteristiche di assorbimento in UV, la loro quantificazione è stata eseguita tramite l’equazione della retta di recupero del 17β-bold. In tutti gli incubati si rileva una maggior produzione del composto c rispetto al composto b, anche se l’entità complessiva di metabolizzazione del precursore, circa dell’ 1,09%, è piuttosto contenuta. Unica eccezione, è rappresentata dai tracciati cromatografici relativi agli estratti di un vitello del Gruppo A, in cui non si rileva la presenza dei due picchi. A riguardo occorre sottolineare come anche il contenuto totale di Citocromo P450 risulti essere inferiore rispetto alla media di gruppo. In Fig. 1 è riportato il tracciato cromatografico relativo all’analisi in HPLC di un estratto ottenuto dall’incubazione di microsomi epatici di vitello (Gruppo A) dove i picchi corrispondenti al 17β-bold, ai due composti più polari e allo standard interno sono identificati con le lettere a, b, c e S.I., rispettivamente. Fig. 1

CONCLUSIONI –Dai risultati preliminari qui riportati, non si rileva nei nostri incubati, la produzione di Boldione (ADD), come invece riscontrato da Van Puymbroeck e collaboratori (5) in un precedente studio di metabolismo in vitro condotto con microsomi epatici ed epatociti in coltura primaria di bovino. Successive analisi in cromatografia liquida accoppiata alla spettrometria di massa (LC-MS/MS) consentiranno l'identificazione delle masse e delle relative strutture dei due composti separati in HPLC. Alla luce dei risultati ottenuti, si potrebbe completare lo studio del metabolismo del Boldenone nel bovino, verificando la presenza di questi, ed altri eventuali metaboliti, nelle urine e nel fegato degli animali oggetto delle sperimentazioni finanziate nel biennio 2002-2003 dalla Regione del Veneto. La correlazione tra i risultati in vivo ed in vitro potrebbe portare alla definizione di marker utili per l’identificazione di trattamenti illeciti a garanzia del benessere animale e della salute del consumatore. BIBLIOGRAFIA -1) Williams TM et al (2000) Vet Pharmacol Therap, 23, 57-66. 2) Hagedorn HW et al (1997) Am J Vet Res, 58, 224-227. 3) De Brabander HF et al (2004) Food additives and contaminants, 21, 515-525. 4) Calvarese S et al (1994) Analyst, 119, 2611-2615. 5) Van Puymbroeck M et al (1998) Analyst, 123, 2681-2686. 6) Nielen MWF et al (2004) Journal of Chromatography B, 801, 273-283. 7) Song YS et al (2000) Arch Phar Res, 23, 6, 599-604. 8) Nebbia C et al (1996) Research inVeterinary Science, 60, 33-36. 9) Capolongo F et al (2004) LVIII° Convegno Nazionale SIS.Vet, Grado, File E. Ricerca eseguita nell’ambito dei Progetti finanziati dalla Regione del Veneto Biennio 2002-2003.

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IL 3,3’,4,4’,5-PENTACLOROBIFENILE (PCB126) MODULA L’E SPRESSIONE DELLA VITELLOGENINA NELLA SPIGOLA ( Dicentrarchus labrax) 3,3’,4,4’,5-PENTACHLOROBIPHENYL (PCB126) MODULATES VITELLOGENIN PROTEIN EXPRESSION IN THE SEA BASS (Dicentrarchus labrax) Meucci V.1,3, Intorre L.1,3, Pretti C.2,3, Di Bello D.2,3, Cognetti Varriale A.M.2,3, Gervasi P.G.4, Vaccaro E.4, Soldani G.1,3 1Dip. di Clinica Veterinaria, Sez. Farmacologia e Tossicologia; 2Dip. di Patologia Animale; 3AmbiSEN – Università di Pisa; 4Istit. di Fisiologia Clinica-CNR-Pisa.

Parole chiave: vitellogenina, policlorobifenili, ELISA Key words: vitellogenin, polychlorobiphenyls, ELISA SUMMARY - A wide range of chemicals released into the aquatic environment are capable to affect reproduction of both wildlife and humans. The aim of the present study was to evaluate the effects of PCB126 on vitellogenin (VTG) synthesis in the sea bass. The levels of VTG were analysed using immunochemical methods. PCB126 treatment in combination with E2 resulted in a dose- and time-dependent reduction of both plasma and mucus VTG levels, compared with E2 treatment alone. The present results suggest that PCB126 is antiestrogenic in vivo; this characteristic and its bioaccumulative behaviour make it a potential environmental antiestrogen in wildlife and humans. INTRODUZIONE - I distruttori o interferenti endocrini (EDs) sono composti capaci di indurre modificazioni della funzione riproduttiva di mammiferi, uccelli e pesci (1). Gli EDs sono un gruppo eterogeneo di composti chimici tra cui si annoverano contaminanti alogenati persistenti (DDT, diossine, PCB), pesticidi, sostanze di uso industriale, metalli pesanti, micotossine e prodotti di uso domestico. Alcuni PCB sono noti per produrre effetti tossici con gli stessi meccanismi delle "diossine" (PCB diossino-simili), a causa della loro similarità sterica con queste sostanze, in particolare i congeneri PCB-77, PCB-126 e PCB-169. Dei tre PCB diossino-simili, il 126 è quello comunemente trovato alle più alte concentrazioni nell’ambiente. Alcuni EDs possono legare con alta affinità il recettore per gli estrogeni come agonisti e iniziare i processi cellulari tipici degli estrogeni naturali o possono legare il recettore come antagonisti bloccando così i siti di legame per gli estrogeni endogeni (2). L’esposizione di pesci a estrogeni o antiestrogeni ambientali può essere valutata attraverso la misurazione della vitellogenina (VTG), una fosfoglicoproteina precursore delle proteine del tuorlo dell’uovo negli animali ovipari (3). Scopo di questo studio è stato valutare l’effetto del 3,3’,4,4’,5-pentaclorobifenile (PCB 126) sulla sintesi della VTG nel plasma e nel muco di spigole (Dicentrarchus labrax). MATERIALI E METODI - Sono stati utilizzati pesci maschi maturi del peso di 500±50 g. I pesci sono stati trattati per via ip con una singola dose di 17β−estradiolo (E2) (0,1, 0,5, 2,5 e 5 mg/kg) e PCB126 (10 e 100 µg/kg) da solo o in associazione con E2 (0,5 mg/kg). Pesci trattati con il solo veicolo (olio di mais) sono stati utilizzati come gruppo di controllo. Campioni di muco superficiale e sangue sono stati prelevati dopo 3, 7, 14 e 28 giorni dal trattamento. Il sangue è stato prelevato dalla vena caudale, raccolto in una provetta eparinizzata e centrifugato a 3000 rpm per 10 minuti; la porzione plasmatica è stata prelevata ed è stata conservata a -20°C fino al momento dell’analisi. Il muco superficiale è stato prelevato dalla coda utilizzando una spatola di plastica, omogeneizzato con tampone di omogeneizzazione, centrifugato ed il supernatante è stato conservato a -20°C fino al momento dell’analisi. L’induzione o l’inibizione della sintesi di VTG è stata valutata mediante analisi Western blot ed ELISA competitivo cattura-anticorpo utilizzando anticorpi omologhi anti-VTG di spigola. I risultati sono stati espressi come media ± errore standard e l’analisi statistica è stata effettuata mediante il Dunnett ed il Tukey-Kramer tests. Le differenze sono state considerate statisticamente significative per p<0,05.

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RISULTATI – L’analisi Western blot di campioni di muco e plasma di pesci trattati con E2 ha mostrato una banda relativa alla VTG (≈180 kDa). L’E2 ha mostrato di indurre in modo dose- e tempo- dipendente la sintesi di VTG sia nel plasma che nel muco di spigola, raggiungendo un massimo di induzione 14 giorni dopo il trattamento. Le analisi Western blot ed ELISA hanno mostrato che il PCB126 da solo non ha effetti significativi sui livelli di VTG di spigola. Il PCB126, somministrato in combinazione con l’E2 ha invece evidenziato un’attività dose-dipendente di tipo inibitorio sulla sintesi di VTG, dimostrando un’attività di tipo antiestrogenico nella spigola. In figura 1 è mostrato il grafico relativo all’induzione della sintesi di VTG plasmatica indotta dall’E2 (0,5 mg/kg) in funzione del tempo, mentre in figura 2 è mostrato l’effetto inibitorio del PCB126 sulla sintesi plasmatica di VTG indotta da E2.

0

1000

2000

3000

4000

5000

* *

**

** 3 giorni7 giorni14 giorni28 giorni

VT

Gµµ µµ g

/ml

Figura 1 Effetto dell’E2 sulla sintesi di VTG nel plasma di spigola, i dati sono espressi come media ± SEM (n=5); * significativamente differente dai controlli per p<0,05, ** significativamente differente dai controlli per p<0,01.

0

1000

2000

3000

4000

5000

6000

*

**

E2 0,5 mg/kg

PCB126 10 µg/kg+E2

PCB126 100 µg/kg+E2

VT

Gµµ µµ g

/ml

Figura 2 Effetto dell’PCB126 sulla sintesi di VTG indotta da E2 nel plasma di spigola, i dati sono espressi come media ± SEM (n=5); * significativamente differente dai trattati con E2 per p<0,05, ** significativamente differente dai trattati con E2 per p<0,01. CONCLUSIONI.- Questi risultati indicano che l’E2 induce la sintesi di VTG sia nel plasma che nel muco superficiale di maschi di spigola, suggerendo quindi la valutazione della presenza di questa proteina nel muco come biomarker non invasivo di esposizione a composti ad attività estrogenizzante. Il presente studio suggerisce inoltre che il PCB126 è antiestrogenico in vivo, e questo combinato con la sua persistenza ambientale e la capacità di bioaccumularsi ne fanno un potenziale antiestrogeno ambientale sia negli animali che nell’uomo. BIBLIOGRAFIA : 1) Goksøyr A et al (2003) Links between the cellular and molecular response to pollution and the impact on reproduction and fecundity including the influence of endocrine disrupters. In Lawrence A Impacts of marine xenobiotics on European commercial fish-molecular effects and population responses, Caldwell Publishers, London, UK. 2) Safe S and Krishnan V (1995) Arch Toxicol 17, 99-115. 3) Sumpter JP and Jobling S (1995) Environ Health Perspect 103, 173-178.

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PCBs E PESTICIDI OC IN CAMPIONI DI TONNO (TH UNNUS THYNNUS) DELLO STRETTO DI MESSINA PCBs AND OC PESTICIDES IN BLUEFIN TUNA (THUNNUS THYNNUS ) FROM THE STRAITS OF MESSINA 1Naccari F., 1Di Bella G., 1Licata P., 2Naccari C., 2Cristani M., 3Perugini M., 1Richetti A. 1Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria; 2Dipartimento Farmaco-Biologico - Università di Messina; 3Dipartimento Scienze degli Alimenti – Università di Perugia Parole chiave: PCBs, pesticidi organoclorurati, Thunnus thynnus, Stretto di Messina Key words: PCBs, organochlorine pesticides, Thunnus thynnus, Straits of Messina SUMMARY – The aim of this study is to assess the accumulation of OCs and PCBs in Thunnus thynnus and to elucidate the suitability of this species as a bioindicator for monitoring contaminations of these compounds in the marine ecosystems of the Straits of Messina. This investigation was conducted on fat, liver and muscle samples of 14 Thunnus thynnus collected during April 2004. Quantitative determination of OCs and PCBs in the various samples examined has carried out using GC-ECD and GC-MS. The results obtained show the presence of low concentrations (below MRLs) of p,p’-DDE and PCB congeners (138, 153 and 180) in all fat, liver and muscle samples of tuna fish caught in the Straits of Messina. INTRODUZIONE – Lo Stretto di Messina, lungo 20 miglia e largo 2-5 miglia, caratterizzato da differenti masse d’acqua che mettono in comunicazione il mar Ionio con il mar Tirreno (1), presenta lungo le coste una scarsa attività industriale e una media densità di popolazione. Lo scopo di questa ricerca è stato quello di determinare i livelli di PCBs e OCs in tonni pescati nello Stretto di Messina utilizzati come bioindicatori per il monitoraggio ambientale. Infatti, i tonni posti all’apice della piramide alimentare, per la loro longlife-span e l’elevato contenuto lipidico accumulano elevate concentrazioni di tali composti altamente liposolubili e scarsamente biodegradabili. MATERIALI E METODI – Le indagini sono state condotte su campioni (fegato, grasso e muscolo) di 14 tonni (Thunnus thynnus), di differente età e sesso (7 femmine di lunghezza 162-235 cm e peso 50-190 Kg e 7 maschi di lunghezza 162-195 cm e peso 55-101 Kg), pescati nel mese di Aprile 2004 nello Stretto di Messina. La determinazione quali-quantitativa di PCBs e pesticidi organoclorurati è stata effettuata mediante gascromatografia con rivelatori ECD ed MS (2). L’accuratezza e la ripetibilità del metodo sono stati determinati mediante prove di recupero su materiale standard certificato. RISULTATI – Le concentrazioni di PCBs e pesticidi OCs determinati nei campioni di fegato, grasso e muscolo dei tonni analizzati sono riportate in figg. 1 e 2. Tra i vari congeneri di PCBs sono stati riscontrati i PCB 138, 153 e 180 alle concentrazioni rispettivamente di 11 - 257 ng/g p.u. nel grasso, 0.96 - 72 ng/g p.u. nel fegato e 1.27 - 75 ng/g p.u. nel muscolo. Negli stessi campioni, relativamente ai pesticidi OCs ricercati, è stata rilevata la sola presenza di p,p’-DDE in concentrazioni rispettivamente di 31.73 - 659 ng/g p.u. nel grasso, 2.68 – 3944 ng/g p.u. nel fegato e 3.53 – 515 ng/g p.u. nel muscolo. CONCLUSIONI – I risultati ottenuti, che documentano la presenza di basse concentrazioni di PCBs e pesticidi OCs (al di sotto dei LMRs stabiliti dalla CE) in tutti i campioni di tonno esaminati, indicano una situazione non a rischio tossicologico per il consumatore di tali prodotti. Relativamente al contenuto di PCBs, il congenere 138 mostrava le concentrazioni piu’ elevate ed il congenere 180 piu’ basse rispettivamente in campioni di grasso, fegato e muscolo mentre il congenere 153 livelli intermedi in tutti i campioni rispettivamente di grasso, muscolo e fegato (3). La ricerca di pesticidi OCs, che ha permesso di determinare la sola presenza di p,p’-DDE, altamente stabile dal punto di vista chimico, indica una contaminazione pregressa piuttosto che recente (4). In conclusione, i risultati ottenuti suggeriscono che i tonni,

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pescati nello Stretto di Messina, si possono considerare dei buoni bioindicatori per il monitoraggio di PCBs e OCs nell’ ecosistema considerato.

FAT

0

20

40

60

80

100

PCB 138 PCB 153 PCB 180

ng

/g w

.w.

LIVER

0

5

10

15

20

PCB 138 PCB 153 PCB 180

ng

/g w

.w.

MUSCLE

0

5

10

15

20

25

PCB 138 PCB 153 PCB 180

ng

/g

Fig. 1 Concentrazioni (ng/g p.u.) di PCBs (congeneri 138, 153 e 180) in campioni di grasso, fegato e muscolo di Thunnus thynnus pescati nello Stretto di Messina

0

50

100

150

200

250

300

350

FAT LIVER MUSCLE

ng

/g

Fig. 2 Concentrazioni (ng/g p.u.) di p,p’-DDE in campioni di grasso, fegato e muscolo di Thunnus thynnus pescati nello Stretto di Messina BIBLIOGRAFIA – 1) Salvo F et al (1998) La Riv Sci dell’Alim, 27(1), 43-50. 2) Licata P et al (2003) Chemosphere, 52, 231-238. 3) Storelli MM et al (2004) Mar Pollution Bull, 48, 743-748. 4) Licata P et al (2004) Environ Intern, 30, 805-810.

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DDT E DERIVATI IN TESSUTI DI CARETTA CARETTA L. PROVENIENTI DAL MAR ADRIATICO LEVELS OF DDT AND DERIVATIVES IN TISSUES OF CARETTA CARETTA L. FROM ADRIATIC SEA Amorena M., Giammarino A., Guccione S+., Olivieri V°., Crescenzo G.* Lai O.R.* Perugini M. Dipartimento di Scienze degli Alimenti. Università degli Studi di Teramo. +Centro Studi Cetacei ONLUS work n. 102.°D.R Struttura Semplice Igiene e Controllo Veterinario Prodotti della pesca ASL Pescara. * Dipartimento di Sanità e Benessere degli Animali. Università degli Studi di Bari. Parole chiave: organoclorurati, Caretta caretta, Adriatico, spiaggiamenti Key words: organochlorines compounds, Caretta caretta, Adriatic Sea, stranding SUMMARY – We detected concentrations of organochlorines pesticides (OCs), particularly p, p’-DDE, p, p’-DDD, p, p’-DDT and o, p’-DDT) in tissues of 11 Pacific loggerhead sea turtles (Caretta caretta), coming from Central and Southern Adriatic Sea. All samples contained different concentrations of OCs, with DDE as the most representative compound. p, p’ -DDT, o, p’-DDT and p, p’-DDE compounds were detected only in specimens coming from Southern Adriatic Sea. DDT was not significantly different (p>0,01), but the concentrations levels of DDE and DDT among groups were significantly different (p<0,01) and lowest levels were found in turtles coming from Central Adriatic Sea. No correlation was detected between DDT and carapace length. INTRODUZIONE – Delle 5 specie di tartarughe marine presenti nel Mare Mediterraneo, Caretta caretta è l’ospite più abituale. Predilige le acque della Grecia, della Turchia e le coste dell’Africa del Nord, tuttavia non è rara in Adriatico, dove è la specie più ampiamente rappresentata (2,4). Le sue abitudini migratorie non rendono certo questo rettile marino un indicatore biologico ideale, tuttavia questa specie è sicuramente tra i maggiori indicatori di salute del mare e delle sue coste sotto il profilo del degrado e dell'inquinamento, a causa delle sue abitudini alimentari. Infatti, può spingersi a grandissima distanza dalle coste, sebbene di solito si trattenga presso le coste rocciose, le lagune, le grandi insenature e le foci dei fiumi, seguendo una dieta molto varia, costituita prevalentemente da meduse, ricci di mare, gamberi, granchi, molluschi, piccoli pesci, raramente organismi vegetali, e collocandosi pertanto all’apice della catena trofica marina (2,1). Attualmente Caretta caretta è considerata specie a rischio di estinzione, protetta in Italia dal DM 3 maggio 1989, presente in Appendice I CITES (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora), in Appendice I e II del CMS(Convention on the Conservation of the Migrator Species of Wild Animals), nella lista delle specie protette della convenzione di Barcellona (Convention on the Protection of the Mediterraneum Sea from Pollution), in Appendice II Convenzione di Berna e considerata ‘Threatened’ secondo l’U.S.A. Endangered Species Act (2). Molti degli habitat utilizzati dalla Caretta, soprattutto le regioni fluviali, estuarie e costiere, sono fortemente degradati dalle attività umane e tanto le acque quanto la catena trofica spesso contengono sostanze ad elevato potere tossico. Tra questi, destano maggiori preoccupazioni gli inquinanti dotati di stabilità e persistenza nell’ambiente, quali, ad esempio, i composti organoclorurati (OCs). Questi sono dotati di un elevato grado di lipofilia e tendono ad accumularsi facilmente nei tessuti adiposi degli animali, sebbene studi che pongano in correlazione le concentrazioni di inquinanti ed eventuali effetti patologici negli organismi marini siano scarsi e frammentari (5,7). In questo studio sono stati analizzati campioni provenienti da esemplari di Caretta caretta spiaggiati lungo le coste del Mar Adriatico per valutare la presenza dei DDT (p,p’-DDT, o,p’-DDT, p,p’-DDE e p,p’-DDD), pesticidi ampiamente utilizzati negli anni passati ed ancora presenti in ambiente acquatico a causa della loro elevata resistenza ai fenomeni degradativi ambientali. MATERIALI E METODI – I soggetti sono stati forniti dal Centro Studi Cetacei (5-11) e dalla Facoltà di Medicina Veterinaria di Bari (1-4). Per la maggior parte, si tratta di esemplari ritrovati morti in seguito ad incidenti di pesca o spiaggiamenti durante il biennio 2003-2004.

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Le analisi dei DDT sono state condotte su fegato, muscolo e tessuto adiposo; per gli esemplari 6 e 7 mancano le determinazioni relative al tessuto adiposo, pressoché assente (animali gravemente defedati). L’estrazione degli OCs è stata effettuata in ASE, con purificazione tramite aggiunta di acido solforico concentrato (3). Le determinazioni analitiche sono state effettuate in GC-MS ad IE (Shimadzu GC-MS QP 5000 con autoiniettore Shimadzu AOC-20i) con colonna capillare Zebron ZB-5 30m, 0.25mm ID, film 0.25µm. La lettura è stata condotta in SIM impostando uno ione diagnostico ed uno di conferma. La valutazione quantitativa è stata effettuata con il metodo dello standard interno (PCB 180 marcato). I dati ottenuti sono stati sottoposti ad analisi statistica mediante test A-NOVA. RISULTATI – Al fine di poter correlare le concentrazioni dei DDT con l’età delle tartarughe, nella tab. 1 vengono riportate le lunghezza in cm del carapace e le concentrazioni dei DDT (p,p’-DDT, o,p’-DDT, p,p’-DDE e p,p’-DDD) ritrovate nel fegato, muscolo e tessuto adiposo degli esemplari analizzati. Tabella 1 – Lunghezza in cm del carapace dei singoli soggetti e concentrazioni dei DDT(ng/g;) rilevati in fegato, muscolo e grasso. *Campioni non pervenuti. campione OCs 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Fegato DDT 659 710 241 151 nd nd nd nd nd nd nd DDE 515 1672 1439 846 388 1082 1437 427 399 295 344 DDD 344 471 195 133 nd nd nd nd nd nd nd

Grasso DDT 633 487 256 173 nd nd nd nd nd nd nd DDE 1776 1034 4032 772 444 np* np* 978 303 253 862 DDD 362 314 238 130 nd nd nd nd nd nd nd

Muscolo DDT 594 459 183 140 nd nd nd nd nd nd nd DDE 1726 922 2161 434 211 1149 1186 844 255 178 654 DDD 399 241 151 118 nd nd nd nd nd nd nd

Lunghezza carapace

51 31 45 23 45.5 30 36 38 36 70 58

CONCLUSIONI – Il DDE è stato l’unico composto ad essere riscontrato in tutti i campioni analizzati con una concentrazione media di 804 ng/g nel fegato, di 1162 ng/g nel grasso e di 884 ng/g nel muscolo. DDT e DDD sono stati ritrovati solo nelle tartarughe provenienti dalla Puglia. Non sono state evidenziate differenze statisticamente significative per quanto concerne i livelli di contaminazione da DDT e derivati tra fegato, muscolo e adipe (p>0,01). Nel confronto tra gruppi, i campioni provenienti dalle coste pugliesi sono risultati più contaminati rispetto ai soggetti provenienti dal litorale abruzzese, riportando una differenza statisticamente significativa sia nel confronto tra le concentrazioni del DDE che in quello sul totale dei DDT (p<0,01). Tali differenze potrebbero far presupporre differenti livelli di contaminazione nelle zone di pastura abituale degli animali provenienti dall’Adriatico meridionale rispetto all’Adriatico centrale, tuttavia dati relativi alla presenza di OCs nei sedimenti e nei molluschi campionati nelle zone costiere pugliesi mostrano concentrazioni minime o al di sotto della soglia analitica del DDT (6). Considerato lo stile di vita della Caretta caretta e le sue ampie migrazioni nel bacino del Mediterraneo, è possibile supporre che l’esposizione a tale contaminante si sia verificata alimentandosi in zone differenti dal luogo di spiaggiamento, prossime a Paesi nei quali la regolamentazione della produzione e dell’utilizzo del DDT è differente. Non è stata trovata una correlazione statisticamente significativa tra le concentrazioni dei DDT e del DDE nei singoli esemplari e la lunghezza del carapace. BIBLIOGRAFIA – 1) Corsolini S et al (2000) Marine Pollution Bulletin, 40, 952-960. 2) Ferri V et al (2000) Atti 3° Congresso nazionale S.H.I., Pavia. 3) Pastor MD et al (1993) Journal of Chromatography 629, 329-337. 4) Casale P et al (2004) The First Mediterranean Conference on Marine Turtles. Rome, 24-28 October 2001 5) Keller et al (2004) Environmental Health Perspectives 10, 1074-1079. 6) www.sidimar.ipzs.it, dati campagna 2003-2004. 7) Storelli M et al (2000) Bulletin Environmental Toxicology 481-488.

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DISTURBI DELL’ORGANIZZAZIONE GERARCHICA DEL CANE. DIA GNOSI E TERAPIA DI ALCUNI CASI CLINICI HIERARCHICAL DISORDERS IN DOGS. DIAGNOSIS AND THERAPY OF SOME CLINICAL CASES Osella M.C., Bergamasco L. Dipartimento di Patologia Animale e Dipartimento di Morfosiologia Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Torino, Grugliasco (TO) Parole chiave: cane, comportamento, disturbi gerarchici, diagnosi, terapia Key words: dog, behaviour, hierarchical disorders, diagnosis, therapy SUMMARY - There are two broad categories of hierarchical related disorders or sociopathies in dogs: aggression toward the owners and intraspecific canine aggression, that is aggressive behaviours directed toward household dogs. This paper reported on the results from consultations concerning both forms of sociopathies. The therapeutic plan included behavioural modification techniques based on learning theories, socio-environmental modifications, psychotropic drugs, castration. The goal was to propose a practical approach to intraspecific canine aggression, incorporating different information into a rational diagnostic and therapeutic plan. The complexity of intraspecific canine aggression and the need for protection of the potential victims (humans and dogs) means that specific treatment by professionals involved in behaviour therapy is necessary for the prevention of incidents. INTRODUZIONE - I disturbi comportamentali legati al comportamento aggressivo del cane rivestono notevoli implicazioni per il veterinario che si occupa di piccoli animali, che talora è piuttosto restio a deferire i casi a colleghi esperti della materia in quanto ritengono che un cane mordace sia genericamente e a priori pericoloso ed irrecuperabile. Nel presente lavoro si focalizza l’attenzione sui disturbi dell’organizzazione gerarchica del cane, che sono tra le patologie più frequentemente riscontrate in clinica comportamentale, definite anche come sociopatie (1). Nello specifico sono state considerate le sociopatie interspecifiche e quindi relativamente a disordini gerarchici nel binomio uomo-cane e le sociopatie interspecifiche concernenti una disregolazione gerarchica nel gruppo sociale canino. Lo scopo è di approfondire l’analisi clinica e comportamentale dei disturbi aggressivi, e di fornire strumenti diagnostici e terapeutici validi. MATERIALI E METODI - I casi sono stati selezionati nella popolazione di cani afferenti alle strutture dell’Ospedale Didattico Veterinario della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Torino per problemi comportamentali. In seguito ad un’accurata raccolta dell’anamnesi clinica e comportamentale i soggetti sono stati sottoposti ad esame clinico completo; qualora necessario sono state svolte indagini di laboratorio e/o esami collaterali. Sono stati richiesti consulti nell’ambito neurologico e neurofisiologico quando la diagnosi clinica destava perplessità, al fine di escludere i soggetti con aggressività indotta da alterazioni organiche. È stata quindi effettuata una valutazione comportamentale dei soggetti, mediante osservazione diretta dell’animale, esecuzione di appropriati test e compilazione di un questionario dettagliato. Dieci cani con diagnosi di disordine gerarchico o sociopatia intraspecifica e dieci con sociopatia interspecifica sono stati inclusi nel presente (T0) studio ; è stata quindi attuata una strategia terapeutica di tipo socio-ambientale (2), cognitivo-comportamentale (2, 3) e farmacologica (2, 3). I casi sono stati seguiti fino alla remissione della sintomatologia e comunque con un follow-up a 6 (T1) e a 12 mesi (T2). RISULTATI – Sui 10 casi selezionati per sociopatia intraspecifica solo un cane che aveva morsicato gravemente il proprietario (meticcio American Staffordshire, maschio, 2 anni) è risultato eccessivamente pericoloso ed impossibile da controllare ed è stato quindi sottoposto ad eutanasia; dei 10 casi scelti per la sociopatia interspecifica soltanto un cane è stato allontanato dal nucleo famigliare in cui viveva ed è stato adottato da un’altra famiglia che non aveva cani, in cui non ha ovviamente manifestato problemi. L’approccio clinico-comportamentale attuato è risultato globalmente molto soddisfacente, in quanto nessuno dei

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cani arruolati nello studio ha morsicato persone e/o altri cani nel periodo da T0 a T2. I segni tipici delle sociopatie interspecifiche ed intraspecifiche, connesse al raggiungimento delle prerogative sociali dello status sociale elevato, sono stati controllati nel 100% dei casi, in cui è sempre stata attuata una rigida e severa terapia socio-ambientale ed una rigorosa terapia cognitivo-comportamentale includente anche fasi attive di addestramento dei cani, mentre soltanto in 4 casi su 10 e in 3 casi su 10, rispettivamente per la forma intraspecifica ed interspecifica, è stata necessario un supporto farmacologico (antidepressivi, ansiolitici, stabilizzatori d’umore, antiandrogeni), ed in un caso su 10 e in due su 10 si è proceduto alla castrazione chirurgica. CONCLUSIONI - Il comportamento aggressivo canino è la prima causa di cessione o di eutanasia nell’ambito comportamentale; inoltre le conseguenze delle manifestazioni aggressive del cane possono essere molto gravi. Infatti, anche se fortunatamente le ferite sono di rado mortali, possono comunque causare danni importanti agli esseri umani, incluse lesioni invalidanti permanenti, oltre che determinare gravi conseguenze psicologiche sulle vittime, soprattutto per le categorie maggiormente a rischio come bambini, anziani e portatori di handicap. Anche quando l’aggressività è intraspecifica le sequele fisiche e psicologiche possono essere imponenti, oltre che determinare spesso scelte estreme nei proprietari. D’altro canto il presente lavoro suggerisce che una diagnosi corretta ed un approccio terapeutico adeguato possono non solo consentire la permanenza del cane o dei cani affetti da disordini gerarchici nell’ambito famigliare ma evitare che si verifichino o si ripetano eventi aggressivi con morsicatura. Il veterinario che acquisisce una competenza specifica nel settore della clinica comportamentale è in grado sia di affrontare in modo esaustivo anche casi particolarmente difficili e complessi sia di valutare il grado di pericolosità della singola situazione. BIBLIOGRAFIA - 1) Pageat P (1999). Pathologie du comportement du chien. Edition du Point Vétérinaire, Maison Alfort. 2) Askew HR (1996). Treatment of behavior problems in dogs and cats. Blackwell Science, Cambridge, USA. 3) Overall (1997). Clinical behavioral medicine for small animals. Mosby, St. Louis

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INDAGINE SUL COMPORTAMENTO DI CANI ADOTTATI PRESSO UN CANILE SANITARIO SURVEY ON BEHAVIOURS OF DOGS ADOPTED FROM A SANITARY SHELTER Papini R.°, Cottone A.°°, Ciceroni C.°°°, Giuliani G.°°°, Guidi G. ° °Dipartimento di Clinica Veterinaria, Pisa – °°Veterinario Libero Professionista – °°°ASL 10, Firenze Parole chiave: cane, canile, comportamento Key words: dog, shelter, behaviour SUMMARY - Behaviours of dogs adopted from a shelter and dogs from other sources were compared. Dogs from shelter were more likely to display fear towards other dogs, aggressiveness signs when corrected or punished, fear and aggressiveness towards unfamiliar people, mating behaviour towards owners, destructiveness and stealing of objects, playing or aggressiveness signs when stolen objects are recovered, stopping and inappropriate elimination when fearful, straying tendencies, licking themselves repeatedly, tail-chasing, sleeping wherever they want, and attention-seeking behaviours. INTRODUZIONE - I cosiddetti problemi comportamentali sono comuni nel cane (1, 2), possono essere una grave fonte di preoccupazione per i proprietari, e rappresentano una frequente causa d’abbandono (3). Molti cani, inoltre, possono sviluppare problemi comportamentali durante la loro permanenza in canile (4). Malgrado ciò, precise informazioni circa la prevalenza di problemi comportamentali presentati dai cani dopo la loro adozione sono ancora scarse in Italia. Pertanto la presente indagine ha esaminato la prevalenza dei comportamenti indesiderati segnalati dai proprietari di cani adottati presso un canile sanitario (CS). MATERIALI E METODI - Il CS della città di Firenze ospita 20-40 cani per periodi variabili. In casi di eccessivo affollamento i cani che hanno minori probabilità di adozione sono trasferiti al canile rifugio (CR) convenzionato. All’interno del CS i cani sono ospitati individualmente, ma trascorrono 2-3 ore al giorno in aree comuni di sgambatura in gruppi di 4-5 opportunamente costituiti per evitare aggressioni, gravidanze etc. In casi di necessità, esistono aree di sgambatura individuali. All’incirca una volta alla settimana, un gruppo di volontari porta i soggetti più tranquilli in passeggiata fuori dal canile. I potenziali proprietari possono osservare i cani attraverso la recinzione ma, durante la passeggiata esterna, hanno il permesso di interagire con i soggetti più tranquilli. Il maggior numero di cani viene adottato durante la permanenza presso il CS. Le adozioni effettuate presso il CR sono poche e i cani possono rimanere lì anche tutta la vita. Cento proprietari, tra coloro che avevano adottato un cane presso il CS dal gennaio 2003 al dicembre 2004 (n=50 per anno), sono stati selezionati a caso e contattati telefonicamente. Poiché in totale erano stati adottati 221 cani durante i due anni, abbiamo ritenuto che un campione di 100 proprietari potesse essere sufficientemente rappresentativo della popolazione in esame. Tutte le chiamate sono state effettuate durante la mattinata e mai nel fine settimana. Per ridurre al minimo errori attribuibili a idee preconcette, una spiegazione iniziale enfatizzava ai partecipanti che il nostro interesse risiedeva nella loro conoscenza del cane come proprietari e non nei possibili comportamenti indesiderati del cane stesso. Tramite un questionario opportunamente preparato, è stata condotta un’intervista con uno qualunque dei componenti adulti del nucleo familiare, purché fosse in grado di fornire le informazioni necessarie. Il questionario si componeva di un elenco di comportamenti realizzato in base ai tipici comportamenti del cane descritti in letteratura (5), oltre che di informazioni generali. Inizialmente venivano richieste informazioni circa sesso, castrazione o sterilizzazione, razza, età, peso e colore del mantello. Successivamente veniva presentato l’elenco dei comportamenti e veniva richiesto quale comportamento il cane fosse solito manifestare. Le risposte sono state indicate come “si” o “no”. Ad esempio, sono state incluse informazioni circa gli atteggiamenti verso l’uomo e gli altri cani, l’abbaiare, i comportamenti distruttivi, le paure, la tendenza a scappare e i comportamenti di richiesta di attenzione. Per un confronto con cani senza esperienza del canile, altri 50 proprietari sono stati contattati e interrogati allo stesso modo. I proprietari del gruppo controllo sono stati selezionati tra gli amici, i parenti, i vicini, i conoscenti, i colleghi e così via purché fosse assolutamente certo

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che il loro cane non fosse stato adottato da canile. L’intervistatore ha raccolto i dati usando un programma per personal computer (Microsoft Access) adattato allo scopo. E’ stato calcolato il numero e la percentuale di cani segnalati per presentare ciascuno dei comportamenti elencati. Le risposte dei due gruppi di proprietari sono state analizzate tramite il test del 2. A tutti gli intervistati è stato garantito l’anonimato. RISULTATI - Tutti gli intervistati erano ancora in possesso del cane adottato. Nessuno cane risultava essere morto o disperso. Tutte le interviste sono state condotte quindi con successo. Tra i cani adottati il problema comportamentale più comune è stato l’eccessivo abbaiare verso stimoli improvvisi e/o rumorosi (85%), mentre nel gruppo controllo è stato l’atteggiamento di paura (78%). Per ragioni di spazio riportiamo soprattutto le differenze statisticamente significative osservate tra i cani adottati. Un numero significativamente più alto di cani adottati è risultato essere in cura presso un veterinario per problemi comportamentali (9 vs 0%), aver seguito corsi di obbedienza (7 vs 0%), e essere portato a passeggio per circa un’ora (10 vs 2%), usando la museruola (8 vs 0%) perché obbligatorio per legge (5 vs 0%), mentre i cani del gruppo controllo erano tenuti più frequentemente sia in casa che fuori (0 vs 16%). In base ai nostri risultati, è più probabile che i cani adottati mostrino paura verso gli altri cani (25 vs 2%), reazioni aggressive se rimproverati verbalmente o puniti da un membro della famiglia (8 vs 0%), paura (9 vs 0%) e aggressività (36 vs 14%) verso estranei nel loro territorio, paura (14 vs 0%) e aggressività (37 vs 16%) verso estranei al di fuori del loro territorio, comportamento di monta verso i proprietari (20 vs 2%), distruzioni di oggetti (46 vs 14%), soprattutto se lasciati da soli (38 vs 18%) e verso oggetti di stoffa (21 vs 12%) o di legno (14 vs 2%), e furti di oggetti (27 vs 8%) che risultano danneggiati quando sono recuperati (20 vs 6%). Inoltre è più probabile che reagiscano giocando (14 vs 4%) o con atteggiamenti di aggressività (5 vs 0%) se un membro della famiglia prova a recuperare gli oggetti rubati, bloccandosi (18 vs 6%) e con eliminazioni inappropriate (7 vs 0%) quando sono spaventati. Presentano anche tendenza alla fuga quando il cancello o la porta vengono trovati accidentalmente aperti (10 vs 2%) ma mostrano di rientrare a casa dopo poche ore (21 vs 4%). In questo gruppo le eliminazioni inappropriate sono state segnalate talvolta (19 vs 0%) o frequentemente (11 vs 0%), con presenza di urine (13 vs 2%), feci (5 vs 0%) o entrambe (42 vs 16%) ritrovate in un angolo (20 vs 6%), disseminate (6 vs 0%) o in luoghi ben visibili (17 vs 0%), soprattutto se lasciati da soli (11 vs 0%) o non fatti uscire (11 vs 0%). Inoltre, un numero significativamente più alto si lecca ripetutamente (26 vs 14%), soprattutto alle zampe posteriori (6 vs 0%), si insegue la coda (48 vs 28%), dorme di notte e metà del giorno (30 vs 16%) dovunque voglia (43 vs 26%), e mostra comportamenti di richiesta di attenzione (70 vs 50%) cercando carezze (11 vs 2%) o contatto fisico (48 vs 30). In particolare, il 18% mostrava segni di aggressività intraspecifica (5 soggetti di 3 anni di età al momento dell’adozione, 5 di 2 anni, 4 di 1 anno, 2 di 4-5 anni, 1 di 10-12 anni e 1 di 6-12 mesi). Per il momento non è stato possibile stabilire un’eventuale correlazione tra prevalenza di comportamenti indesiderati e tempo di permanenza nella struttura. Nessuno dei proprietari ha indicato comportamenti indesiderati diversi da quelli elencati nell’indagine. CONCLUSIONI - La maggior parte dei proprietari dei cani adottati ha segnalato almeno un comportamento non gradito nel proprio cane. In particolare, si nota che un elevato numero di soggetti ha mostrato segni di aggressività in varie situazioni. Bisogna però considerare che il concetto di comportamento indesiderato può essere soggettivo, l’inesperienza o la possibile reticenza di una parte dei proprietari, e che alcuni comportamenti potrebbero essersi sviluppati dopo l’adozione o essere stati preesistenti all’ingresso in canile. Ad ogni modo, conoscere la prevalenza di comportamenti indesiderati presentati dai cani nelle famiglie adottive, può consentire di intraprendere misure preventive, ad esempio introducendo nei canili programmi di terapia comportamentale. Ciò ridurrebbe il numero di cani adottati con comportamenti indesiderabili e il rischio d’insuccesso delle adozioni, mentre accrescerebbe le possibilità per i cani spesso scartati e le soddisfazioni dei nuovi proprietari. Riteniamo che questi risultati possano aiutare il personale dei canili a fornire soggetti con le caratteristiche comportamentali che i potenziali proprietari preferiscono e quindi ad impiegare al meglio le proprie risorse. BIBLIOGRAFIA - 1) Vacalopulos A et al (1993) Appl Anim Behav Sci, 37, 84. 2) Salman MD et al (1998) J Appl Anim Welfare Sci, 1, 207-226. 3) Wells DL (1996) PhD Thesis 4) Jagoe A (1994) PhD Thesis 5) Hsu Y (2003) J Am Vet Med Assoc, 223, 1293-1300.

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L’UTILIZZO DEGLI ANIMALI NELL’INSEGNAMENTO SCIENTIFI CO: ANALISI NORMATIVA USE OF ANIMALS IN SCIENTIFIC EDUCATION: LAW ANALYSIS Fossati P., Pezza F. - Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Milano Parole chiave: animali, insegnamento, sperimentazione, protezione, normativa Key words: animals, education, experimentation, protection, law SUMMARY: - The Authors consider the sense of the employment of animals in scientific education, a practice included within regulations concerning the protection of animals used for experimental purpose. They analyse how educational needs can be consistent with the restrictive rules imposed by the law in force and to come. The employment of animals for surgical demonstrations is very different from the simple observation of them, even if both these practices involve animals and have educational value. According to this remark, the Authors think that a correct interpretation of the former legislation together with a revision of the rules to be settled should be required in order to allow the usage of animals for educational purpose, with reference to painless practices. INTRODUZIONE - Lo scopo didattico rientra tra le finalità scientifiche riconosciute che possono richiedere e giustificare l’utilizzo di animali. Una pratica dalla storia antica, collegata agli studi su organismi viventi. Questi hanno, nei secoli, affascinato scienziati, ma anche artisti e filosofi o grandissimi ingegni dagli interessi molteplici come Leonardo da Vinci (noto, tra l’altro, per le approfondite ricerche e le speculazioni sull’anatomia umana), guidati dall’intuizione della validità d’uso del modello animale a servizio della ricerca e della cultura. La concezione dell’animale come ‘strumento’ funzionale alle esigenze dell’uomo ha sostenuto, nel tempo, tale convincimento, facendone fondamentale presupposto alla creazione del binomio ‘animali-cultura scientifica’. Relazione dall’equilibrio controvertibile, ispiratrice di riflessioni filosofiche e ritenuta meritevole di interventi giuridici che hanno creato il complesso sistema dei principi di protezione e benessere animale. NORMATIVA - L’utilizzo di animali come modello per osservazioni, indagini e approfondimenti in materia di anatomia, fisiologia o, comunque, aspetti di biologia concretizza un’attività di ‘uso del vivente’ ai fini di studio che può ricondurre ad un concetto di ‘sperimentazione’. Tale definizione, infatti, può essere attribuita alla manipolazione di animali intesa sia come pratica di laboratorio sia come semplice dimostrazione a scopo educativo. La definizione dell’uso didattico dell’animale, in tal caso, non si distaccherebbe concettualmente dalla valenza puramente sperimentale, anche se i protocolli possono essere, nei due casi, fondamentalmente diversi. La normativa vigente riguardo all’utilizzo scientifico di animali è costituita dal D.L.vo 116/1992, di attuazione della Direttiva CEE n. 609/86 in materia di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici, recentemente integrato dalla Legge 189/04 che ne inasprisce gli aspetti sanzionatori. Dalle disposizioni del suddetto Decreto si evince il proponimento di assegnare carattere di eccezionalità alle ipotesi di liceità della sperimentazione animale. Essa, infatti, è ammessa solo qualora “non sia possibile utilizzare altro metodo scientificamente valido, ragionevolmente e praticamente applicabile, che non implichi l’impiego di animali. L’uso di animali per “esperimenti a semplice scopo didattico”. è inserito tra le disposizioni derogatorie come attività effettuabile solo previa autorizzazione ministeriale. Appare evidente la volontà di realizzare una tutela più efficace degli animali stessi mediante l’introduzione di restrizioni d’impiego, che viene limitato a “casi di inderogabile necessità e non sia possibile ricorrere ad altri sistemi dimostrativi” (art.8, comma 3). L’uso di animali a scopo didattico non è, dunque, sottratto alla regolamentazione applicata alla sperimentazione animale, pur non presentando univocità con essa. Tale intendimento trova conferma interpretativa nella circolare ministeriale del 14 maggio 2001, n.6 recante le direttive in ordine all’applicazione del Decreto 116/92, che puntualizza il riferimento degli obiettivi prioritari di tutela “particolarmente anche per l’utilizzo di animali a scopo didattico”. In essa si legge la raccomandazione d’uso di metodi alternativi. Recentemente, in proposito, è stata, inoltre, presentata una proposta di

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legge (pdl 5442 “Norme per la protezione di animali utilizzati per fini scientifici e tecnologici”) in base alla quale l’impiego di animali per la didattica sarebbe vietato senza possibilità di deroga. In realtà, in ambito didattico il ricorso agli animali quali modello può essere giustificato da necessità diverse di insegnamento e, parimenti, di apprendimento. I criteri di approccio sono differenti, in relazione al progetto educativo. Accanto ad esercitazioni sui processi di funzionamento di organi e apparati o ai percorsi di apprendimento delle tecniche chirurgiche, che impongono un intervento invasivo integrando gli estremi della pratica sperimentale come definita dal Decreto 116, esistono programmi formativi che, pur avendo l’animale come oggetto di studio, ne consentono il rispetto. La pura osservazione di animali nel loro contesto naturale ai fini di comprenderne le caratteristiche etologiche, ad esempio, guidata da un insegnante può essere di rilevante valore formativo e non foriera di sofferenze. Così l’applicazione delle tecniche d’indagine semeiologica veterinaria eseguita su di un soggetto sano, pur asservendolo alle esigenze dello studente non gli provoca dolore. Le esigenze della didattica, dunque, non possono, in ogni caso, essere assimilate a quelle della sperimentazione propriamente detta. E’ necessario, altresì, rilevare che nella nuova consapevolezza che disciplina il rapporto uomo-animale è ormai riconosciuto il diritto di quest’ultimo all’integrità sia fisica che psichica. Presupposto che trascende il concetto di sofferenza corporale, integrando una dimensione psicologica di percezione consapevole, ancora più evidente se suffragata da valutazioni analitiche specifiche, quali il rilevamento del battito cardiaco, della temperatura corporea, di parametri ormonali in grado di variare significativamente in caso di malessere psicologico (cortisolo endogeno). Un’interpretazione in tal senso (che ha certamente ispirato la succitata pdl 5442) escluderebbe, dunque, la presenza di animali sani in ogni Facoltà di Medicina Veterinaria, vincolando comunque all’uso di metodi alternativi in ambito didattico, anche qualora rimanesse unico riferimento normativo valido il Decreto 116/92. Acquisterebbe vigore, parimenti, la legge n. 413/93 “Norme sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale”, che già obbliga, di fatto, le strutture universitarie a fornire agli studenti l’opportunità di completare la propria istruzione evitando il ricorso ad animali come modelli. RICERCHE GIURISPRUDENZIALI - A gennaio 2005 il Ministero della Salute ha pubblicato i dati relativi al numero di animali impiegati in Italia per scopi scientifici. Tra il 2001 e il 2003 gli animali su cui sono stati eseguiti esperimenti sono stati ufficialmente 2.735.042. Di questi solo lo 0,30 % è stato adibito a scopi didattici. Il Tar del Lazio, accogliendo il ricorso della Lega antivivisezione, ha, recentemente, stabilito che non ci sono “ragioni scientifiche da giustificare, con sufficiente ragionevolezza, l'uso necessitato di animali vivi per esperimenti a scopo didattico su nuove tecnologie in chirurgia mininvasiva robotica”. Con Sentenza 11 giugno 2004, n. 166, la Corte Costituzionale ha, invece, dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge regionale dell’Emilia Romagna sulla vivisezione, sostenendo che “la tutela degli animali sottoposti a sperimentazioni a scopo scientifico e didattico, già sommariamente garantita dalla legge 12 giugno 1931, n. 924, recante «Modificazione delle disposizioni che disciplinano la materia della vivisezione sugli animali vertebrati a sangue caldo (mammiferi ed uccelli)», ha subito un sostanziale rafforzamento con il d.lgs. n. 116 del 1992 che, nel recepire la direttiva 86/609/CEE, ha sviluppato ampiamente i principi e gli obiettivi di quest'ultimo atto normativo mediante una disciplina analitica, fortemente restrittiva della stessa libertà di sperimentazione, a tutela degli animali coinvolti, e largamente affidata nella sua applicazione alle determinazioni, alle autorizzazioni ed ai controlli del Ministro della sanità e dell'Istituto superiore di sanità”. La sperimentazione a scopo didattico resta vincolata alla richiesta di autorizzazione. CONCLUSIONI - Alla luce delle più recenti interpretazioni giurisprudenziali, gli animali utilizzati a scopo didattico sono protetti come soggetti da esperimento. Qualora venisse approvata anche l’ultima proposta di legge in materia, le esigenze della didattica potrebbero essere soddisfatte solo da soggetti patologici, nell’espletamento della valutazione o del trattamento come caso clinico. La vigente normativa, infatti, esclude dall’ambito della sperimentazione animale le “pratiche cliniche”. Riteniamo, comunque, che l’utilizzo degli animali in attività didattiche che non infliggano in alcun caso dolore non rientri nell’ambito di applicazione del d. L.vo 116/92, e, a maggior ragione, non possa essere oggetto della definitiva esclusione prevista dalla pdl 5442.

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COLLARI AD IMPULSO ELETTRICO: COMMERCIALIZZAZIONE E LORO UTILIZZAZIONE SU ANIMALI DOMESTICI AI SENSI DELLA NORMATIVA VIGENTE PULSE COLLARS : THEIR MARKETING AND USAGE FOR PETS UNDER REGULATIONS IN FORCE G.C. Ruffo, P. Fossati, (Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Milano) Parole chiavi: maltrattamento, benessere animale, collari elettrici Key words: abuse, animal welfare, pulse collars SUMMARY. The Authors analyse the European legislation, introduced with the Legislative Decree 1.8.1998, nr. 333, as to animal welfare and animal protection during their slaughter, and the Italian Penal Code as to abuse against animals, introduced with Law 20.7.2004, nr. 189, with specific concern about the usage of pulse collars on the dogs. The Authors examine the legal aspects, the forensic veterinary matters, and the decisions of the Italian Court of Cassation dealing with the exact definitions and interpretation of the terms “cruelty”, “without necessity”, “injury” and “treatment” of animals included in the criminal offence, with concern about the usage of pulse collars on the dogs. INTRODUZIONE. Hanno destato scalpore nell’opinione pubblica le immagini di un reportage trasmesso in televisione, sull’addestramento di cani mediante collari ad impulso elettrico attivati da un telecomando da parte dell’addestratore per impartire gli ordini. Nella comunità scientifica l’utilizzo di tali strumenti sta destando perplessità e dubbi, soprattutto sotto i profili della risposta comportamentale e della probabilità di eventuali lesioni neurologiche a lungo termine sul cane. In questo dibattito si inserisce anche l’analisi della Medicina legale, in particolare, sulle implicazioni e le analogie legate all’utilizzo di tali strumenti in rapporto alla legislazione vigente che consente l’utilizzo di apparecchiature elettriche sugli animali da reddito e le problematiche connesse con la recente normativa sul maltrattamento degli animali introdotta con la Legge n. 189/2004. Il dibattito rimane aperto. DIRITTO. Le norme che consentono e disciplinano l’utilizzo di strumenti ad impulso o a scarica elettrica sugli animali sono contenute nel D.Lgs. n. 333/1998, in materia di protezione degli animali durante la macellazione, e che prevedono diverse tipologie di sistemi a scarica elettrica in funzione alla finalità di utilizzazione, quali, lo spostamento di animali ‘pigri’, lo stordimento degli animali destinati alla produzione di carne e l’abbattimento degli animali da pelliccia. L’accertamento della loro conformità ed idoneità nonché dello stato di funzionamento sono effettuati dal veterinario ufficiale. Per i bovini adulti ed i suini che rifiutano di muoversi, le scariche elettriche devono essere applicate soltanto ai muscoli posteriori e nel rispetto di specifiche condizioni. Non è specificata l’intensità della scarica elettrica. Tra i metodi consentiti per lo stordimento e l’abbattimento degli animali da carne, si prevede anche il ricorso all’elettronarcosi e all’elettrocuzione. Tra i sistemi di abbattimento diretto, è consentita l’elettrocuzione, subordinata ad autorizzazione da parte dell’autorità competente che fissa l’intensità e la durata della corrente utilizzata per risparmiare agli animali eccitazioni, dolori e sofferenze evitabili. Nell’elenco dei metodi ammessi per l’abbattimento degli animali da pelliccia, è compresa l’elettrocuzione seguita da arresto cardiaco, rinviando all’autorità competente la decisione di indicare il metodo di abbattimento più appropriato in rapporto alla specie animale, a condizione di risparmiare agli animali eccitazioni, dolori e sofferenze evitabili. Un ulteriore utilizzo in zootecnia di strumenti ad impulso elettrico riguarda la recinzione del fondo adibito al pascolo, mediante filo con passaggio di corrente a basso voltaggio, nelle zone di alpeggio o di transumanza, per evitare lo sconfinamento o la fuga di animali, laddove i confini non siano già delimitati da filo spinato. Se l’animale entra in contatto riceve una scarica elettrica e recepisce il comando di rimanere nell’area circoscritta. L’utilizzo non è vietato né espressamente disciplinato dal D.Lgs. n. 146/2001, che stabilisce l’obbligo dell’adozione di misure adeguate per garantire il benessere degli animali e affinchè non vengano loro provocati dolore, sofferenze o lesioni inutili, condiziona la costruzione di recinti alla mancanza di nocività dei materiali utilizzati. Per quanto riguarda il collegamento dell’utilizzo del collare ad impulsi elettrici con l’ipotesi di reato di maltrattamento previsto dall’art. 544-ter della Legge n. 189/2004, si analizzano le

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fattispecie relative al ‘cagionare una lesione ad un animale per crudeltà o senza necessità’ e la sottoposizione di animali a trattamenti che procurano un danno alla loro salute. La fattispecie di cui al co. 1 dell’art. 544-ter è un reato di dolo, in quanto il comportamento si sostanzia in una azione positiva. La norma non definisce la ‘lesione’ e subordina la punibilità dell’evento al fatto che l’agente agisca con comportamento malevolo nei confronti dell’animale, per ‘crudeltà’, o, nella seconda ipotesi, che venga a mancare l’elemento della ‘necessità’. Per la giurisprudenza anteriore alla L. n. 189/2004, ai fini della sussistenza dell’art. 727 C.p., dovevano essere necessari degli atti concreti di crudeltà, ossia l’azione di infliggere all’animale gravi sofferenze fisiche senza tuttavia avere un giustificato motivo. Se sotto il profilo giuridico la lesione di cui all’art. 544-ter è riconducibile esclusivamente alla sofferenza fisica, sembrerebbe da escludersi quella psichica dell’animale, peraltro non facilmente dimostrabile nel caso singolo se non clinicamente evidente o diagnosticata mediante il ricorso ad esami specifici (tac, risonanza magnetica, ecografia, ecc.) nel tempo. L’altro elemento che condiziona la sussistenza del reato è la ‘necessità’. La riforma lascia un notevole ‘buco interpretativo’ in quanto non è chiaro se l’azione avviene per uno stato di necessità dell’agente, e quindi dell’uomo, o se l’azione lesiva è posta in essere per realizzare una necessità dell’animale. Ipotizzando che la necessità riguardi uno stato particolare in cui si trova l’agente, recependo in tal modo le indicazioni della Cassazione, per le quali il concetto di necessità che consente la liceità di sottoporre un animale a fatiche eccessive o a tortura –nel caso ex art. 544ter la necessità che spinge il terzo a provocare una lesione ad un animale esclude la sussistenza dell’illecito- è determinato anche da bisogni sociali o da pratiche, generalmente adottate, di una determinata industria, di un mestiere o di uno sport, quando il fatto non sia espressamente vietato da una norma giuridica speciale o non eccede dal consentito. Nel co. 2 dell’art. 544-ter, non è facile indicare una definizione precisa di ‘trattamenti’, considerando che non esistono ancora né una indicazione fornita dalla dottrina, né una linea indicata dalla giurisprudenza. Neppure è individuabile la tipologia di danno procurata alla salute di un animale in conseguenza di un non ben definito ‘trattamento’. Esistono in medicina veterinaria una serie di definizioni di cosa si intende per trattamenti, e cosa si intende per trattamento in grado di procurare un danno alla salute di un animale, così come è compito delle scienze veterinarie definire il ‘danno’ e quando sussiste come tale. In ogni caso sull’animale il danno deve essere effettivo, reale, dimostrato, non presunto. CONCLUSIONI. Ci si chiede se l’utilizzo di un collare ad impulsi elettrici sul cane, integri la fattispecie del maltrattamento. E’ la finalità dell’utilizzo di tali strumenti che è determinante per consentire l’utilizzo medesimo di tali strumenti. Ad oggi, il collare elettrico viene di prassi utilizzato per i seguenti scopi: -addestramento del cane alla difesa; -richiamo nei cani da caccia in sostituzione del fischietto ad ultrasuoni; -addestramento particolare e specifico dei cani utilizzati per attività particolari; -addestramento del cane all’obbedienza -semplice, senza ulteriori finalità-; -addestramento dei cani all’aggressività verso terzi; -addestramento dei cani al combattimento. Le pratiche di addestramento di cani all’aggressività o al combattimento sono espressamente vietate dalla legge e, pertanto, è vietato anche il ricorso con qualsiasi mezzo o strumento. Dalle disposizioni esaminate in ambito specifico si evince che è consentito l’utilizzo di strumenti ad impulso elettrico. Le norme penali non trovano applicazione nei casi già previsti dalle leggi speciali in materia di caccia e di macellazione degli animali. In merito all’esistenza sul mercato dei ‘collari elettrici’ non esiste al riguardo alcuna normativa che ne vieti la commercializzazione, o che imponga caratteristiche tecniche particolari per i fini per i quali vengono utilizzati, nonché le modalità di utilizzo. Senza contare il fatto che potrebbero essere utilizzati non sugli animali e per altre finalità. Mancando ogni riferimento bibliografico sulla dannosità di tali strumenti, ed essendo carenti le indicazioni, allo stato attuale, non si può non concludere che è corretto ipotizzare l’esclusione in via generale della sussistenza della fattispecie in oggetto come maltrattamento, in attesa di una verifica in ambito scientifico relativa ad una effettiva dannosità ed esistenza di lesioni. Mentre in ambito giudiziario la valutazione dovrà rilevare, caso per caso, oltre all’effettiva dannosità, anche tutti gli elementi che hanno concorso all’evento lesivo.

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PROTEZIONE DEL BENESSERE DEGLI ANIMALI E SALUTE PUBBLI CA: IMPLICAZIONI PER IL FUTURO ANIMAL WELFARE’S PROTECTION AND PUBBLIC HEALTHY: FUTURE’S IMPLICATIONS Passantino A., Russo M., Di Pietro C.* (Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Messina; *Dottore di Ricerca in “Normative dei Paesi della CEE relative al benessere e protezione animale”) Parole chiave: benessere e protezione animale, zoonosi, salute pubblica, Unione Europea Key words: animal welfare and protection, zoonosis, public health, European Union SUMMARY - Some Authors recognize in the animal welfare one fundamental component for the quality of the products. That creates the requirement to follow in the time the conditions of welfare and the risks run from the animals in the breedings to the aim for guaranteeing the respect of determined conditions of production. On the basis of such considerations, the Authors emphasize that from part of the consumers the knowledge of the existing nexus between the welfare and the health of the animals grows more and more and, by extension, between animal welfare and safety of food; it would be, therefore, necessary that the issues of the animal welfare came mainly integrated in alimentary politics. In particular, the legislation would have to hold account of the impact on the quality and safety of food of the products of animal origin assigns you to the human consumption. INTRODUZIONE - La questione del benessere animale è piuttosto complessa e delicata in quanto va oltre la semplice tutela e salvaguardia della vita degli animali stessi, coinvolgendo aspetti e tematiche di più ampio respiro come l’etica, la salute pubblica, l’economia e la politica. Invero, nel sentire comune prende sempre più corpo l’idea secondo cui una buona protezione della salute degli animali contribuisce, direttamente ed indirettamente, alla salubrità e qualità dei prodotti alimentari e che il sistema normativo debba adeguarsi di conseguenza al fine di tutelare uno dei fondamentali valori costituzionali quale, appunto, la salute pubblica. E’, tuttavia, pur vero che la salvaguardia del benessere dell’animale destinato a produrre reddito risponde anche ad una esigenza economico – commerciale da non sottovalutare, con inevitabili risvolti di natura politica. Il benessere degli animali costituisce, quindi, un tema politico di pubblico interesse dalle molteplici sfaccettature, comprendente importanti dimensioni scientifiche, etiche, economiche e politiche, sia all’interno della Comunità Europea (CE) che nei Paesi Terzi. In risposta alla sempre più pressante richiesta dei consumatori, affinché gli animali destinati al consumo alimentare ricevano un trattamento finalizzato a garantirne il benessere con conseguente salubrità dei prodotti alimentari, la normativa Comunitaria si è costantemente ampliata negli ultimi anni. Questa tendenza sembra destinata ad intensificarsi, soprattutto alla luce del protocollo allegato al trattato di Amsterdam, che ha incoraggiato le istituzioni dell'UE ad adoperarsi ancora di più per migliorare la situazione in questo campo. PROTEZIONE DEL BENESSERE DEGLI ANIMALI - La definizione del concetto di protezione degli animali negli allevamenti varia da paese a paese e dipende dal contesto culturale, scientifico, religioso, economico e politico. In assenza di criteri comuni, gran parte delle norme in argomento riguarda le sempre più diffuse "cinque libertà" (1. Libertà dalla fame e dalla sete; 2. Libertà dal disagio; 3. Libertà dal dolore, da stimoli dannosi, lesioni e malattie; 4. Libertà di attuare modelli comportamentali normali; 5. Libertà dalla paura e dallo stress), che costituiscono dei criteri di riferimento per la produzione normativa in materia di benessere degli animali da allevamento, in quanto permettono di perseguire il rispetto degli animali allevati, migliorandone le condizioni di vita e, contestualmente, di salvaguardare ed incrementare le scelte industriali nel settore zootecnico. Alcune di queste “libertà” sono universalmente applicate dagli allevatori e rientrano nella competenza specifica del Medico Veterinario, altre, invece, non essendo di facile interpretazione, devono necessariamente essere recepite, al fine di chiarirne l’esatta portata e renderla uniforme, dalla normativa europea relativa al benessere degli animali da allevamento. Alla luce di questa mancanza di principi identici o simili, sarebbe auspicabile effettuare: - elaborazione di norme e direttive per la definizione di buone pratiche di cura degli animali;

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- prestazione di consulenza su determinati argomenti attinenti al benessere degli animali ai vari gruppi di portatori d'interesse ed ai vari operatori del settore, tra cui i paesi membri della CE, altre organizzazioni internazionali, l'industria e/o i consumatori;

- gestione di banche di dati internazionali sul benessere degli animali, comprendenti informazioni sulle legislazioni e le politiche nazionali, gli esperti internazionalmente accreditati in materia di benessere degli animali, esempi di buone pratiche, ecc.;

- definizione degli elementi essenziali di un'efficace infrastruttura nazionale per la tutela del benessere degli animali, compresi i dispositivi giuridico-legislativi e la messa a punto di una lista di riscontro per l'autovalutazione;

- allestimento e diffusione di materiale didattico-educativo a fini di sensibilizzare il pubblico almeno nei paesi membri dell'UE;

- promozione dell'inserimento della tematica del benessere degli animali in progetti di ricerca e, nei Paesi ancora sprovvisti, nei programmi di studio universitari e post-universitari di veterinaria;

- identificazione del fabbisogno di ricerca in tema di benessere degli animali e promozione della collaborazione fra centri di ricerca.

BENESSERE E SALUTE DEGLI ANIMALI: PARTE INTEGRANTE DELLA POLITICA DI SICUREZZA ALIMENTARE - È di fondamentale importanza tutelare il benessere e, conseguentemente, la salute degli animali, ciò principalmente al fine di garantire la sicurezza alimentare quale strumento di attuazione della salute pubblica (art. 32 Cost.). È scientificamente dimostrato che le condizioni estreme di allevamento possano rappresentare una fonte di malattie per gli animali. Alcune zoonosi, come la tubercolosi, la salmonellosi e la listeriosi, infatti, possono essere trasmesse agli esseri umani attraverso alimenti contaminati, provocando delle conseguenze di grave entità come ad es. casi di encefalite, aborti spontanei e molto altro ancora; appare chiaro, dunque, come tutto ciò evidenzi l’emergenza di un serio problema nel campo della salute pubblica. Per poter agire occorre avere un quadro corretto della situazione. È necessario un monitoraggio comunitario delle malattie veicolate dagli alimenti e delle zoonosi, introducendo prescrizioni armonizzate in materia di notifica. Le informazioni così ricavate aiuteranno la Commissione a fissare obiettivi e prendere misure più efficaci per ridurre la prevalenza delle zoonosi. Gli attuali programmi di eradicazione e di controllo delle malattie, come ad esempio quello per la tubercolosi e la brucellosi, dovrebbero essere portati avanti e se possibile rafforzati, soprattutto in quegli Stati Membri il cui status, per quanto concerne queste malattie, rimane problematico. Un'attenzione particolare dovrebbe essere consacrata al controllo dell'echinococcosi e della Brucella melitensis nelle regioni mediterranee.

CONCLUSIONI - Alla luce delle superiori considerazioni, è auspicabile che l'Unione Europea incoraggi sia gli sforzi intesi a studiare e meglio illustrare nel dettaglio i nessi tra benessere e salute degli animali e tra benessere degli animali e qualità e salubrità degli alimenti, sia quelli rivolti al riconoscimento degli stessi. Sarebbe pure necessario un approfondimento che consenta di orientare l'evoluzione della zootecnia moderna in modo tale che, in futuro, questa attività possa diventare più accettabile dal punto di vista sociale, senza arrecare detrimento alla salute degli animali e alla sicurezza dei prodotti. Nel frattempo, tutte le norme comunitarie vigenti in materia veterinaria dovrebbero integrare la dimensione del benessere degli animali e della salute pubblica. BIBLIOGRAFIA - 1) Fraser D. (2001) Journal of applied Animal Welfare Science, 4(3), 175-190. 2) Direttiva 98/58/CE del 20.7.1998 - GU L 221 del 8.8.1998, pagg. 23-27. 3) Brambell FWR (1965) Report of Technical Committee of Enquire into the welfare of Animals Kept under intensive Livestock Husbandry Systems. Cmnd 2836. HMSO: London, UK

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BENESSERE ANIMALE E DOMESTICAZIONE DI NUOVE SPECIE ANIMAL WELFARE AND DOMESTICATION OF NEW SPECIES

Oldani M., Pezza F. Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie,Università di Milano

Parole chiave: domesticazione, benessere animale, animali da compagnia Key words: domestication, animal welfare, companion animals

SUMMARY - The keeping of non-domesticated species as companion animals challenges the fields of animal welfare and relevant legislation. It is urgent to set out appropriate husbandry requirements and welfare measures for each species. Yet, in order to prevent unsuitable adoptions, it is also critical to go deep into the implications of the domestication process and into the concept of welfare. So too, it is essential to consider animals’ natural live from a systemic perspective, taking into consideration that every biological trait - behavioural patterns included - is the result of the evolutionary process of adaptation to a particular ecological context, and that they are related to each other.

INTRODUZIONE - L’attrazione verso animali che si discostano dai tradizionali domestici (uccelli e mammiferi esotici, rettili, anfibi, aracnidi, insetti) sta conoscendo una forte espansione, e per quanto sia messa in rapporto in modo sempre più netto con la dimensione dell’affezione, pone non soltanto il settore della conservazione faunistica, ma anche quello del benessere animale, e parallelamente quello legislativo chiamato a occuparsi della sua tutela, di fronte a sfide peculiari. Obbligando, in primo luogo, a una riflessione sulla legittimità e l’appropriatezza della familiarizzazione di queste nuove specie con l’uomo.

SULLA VIA DELLA DOMESTICAZIONE - Per l’insieme delle specie di recente introduzione in ambiente familiare la collocazione dentro o fuori la categoria dei domestici è difficilmente attuabile. Il termine domesticazione, infatti, non fa riferimento a un evento definito in base alla presenza o assenza di un’unica proprietà, ma a un processo costituito da una serie di graduali cambiamenti fenotipici e genotipici che prende avvio nel momento in cui una specie selvatica è sottoposta a pressioni ambientali diverse da quelle che ne hanno indirizzato il percorso evolutivo. Tra i nuovi animali di casa vi sono specie per le quali tuttora si attinge a popolazioni selvatiche, specie che da generazioni si riproducono in cattività, specie per le quali la pressione selettiva umana si è già spinta fino a interventi di selezione artificiale. È pur vero che, fatta eccezione per alcuni animali domesticati in epoca remota per altri scopi (cavia, coniglio, furetto), nessuno dei nuovi pet ha alle spalle un percorso lungo e articolato come quello che ha portato i domestici classici a discostarsi in modo netto dalle forme selvatiche progenitrici. È anche vero, come dimostrano il numero relativamente limitato di domesticazioni compiute con successo dall’uomo e le profonde differenze nella storia di animali di antica domesticazione come il cane e il gatto, che tale percorso non si realizza allo stesso modo e fino in fondo in tutti i casi. Ma tra le nuove specie, quelle per le quali il prelievo di esemplari in natura è ormai sostituito dall’allevamento sono verosimilmente già avviate lungo quel continuum di cambiamenti. Semmai, un elemento distintivo di queste recenti forme di domesticazione consiste nel fatto che per molte specie il processo di familiarizzazione con l’uomo non è stato innescato dai presupposti ritenuti determinanti nella domesticazione degli animali convenzionali. Per alcune è iniziato con un passaggio diretto alla condizione di cattività e alla pressione selettiva umana, con contrazione o eliminazione della fase preliminare di avvicinamento-affiliazione. Inoltre, se in alcuni di questi nuovi pet si possono riconoscere tratti morfologici e comportamentali favorenti (preadattamenti), altre sembrano contraddire tale principio. Tuttavia, poiché la zootropia ha, oltre che una componente biologica, una forte connotazione antropologica e culturale, è impossibile stabilire a priori che una qualsiasi specie non possa generare l’esperienza psicologica e la percezione sociale dell’affezione. Il punto, dunque, non è decidere se i nuovi animali da compagnia siano o meno domesticabili oppure se si prestino o meno ad acquisire lo status di pet, ma esaminare, ai fini della loro tutela, le implicazioni di questi moderni esperimenti di domesticazione.

PREVENIRE È MEGLIO CHE CURARE - Già nel 1987 la Convention for the Protection of Pet Animals del Consiglio d’Europa si riservava di scoraggiare la detenzione di esemplari di specie selvatiche come animali da compagnia, pur non entrando nel merito del fondamento logico di tale posizione. Più pragmaticamente, nel suo Report on the Welfare of Non-Domesticated Animals Kept for Companionship del 2003 il Companion Animal Welfare Council suggerisce che quello del benessere possa rappresentare un approccio valido anche alla questione della scelta delle specie detenibili in ambiente domestico, raccomandando che «al fine di evitare inutili

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sofferenze, un’accurata analisi dei potenziali costi e benefici in termini di benessere degli animali coinvolti venga condotta per ogni specie di cui non siano ancora stabilite le esigenze in condizioni di cattività prima che ne vengano prelevati esemplari in natura». Benché, allo stato delle cose, una raccomandazione come questa, che pure stabilisce la più essenziale delle priorità, suoni come un’espressione del “senno di poi”, essa ha certamente il merito di evidenziare come anche nel campo del benessere animale dovrebbe esserci spazio per un’applicazione del Principio di precauzione, sancito in materia di tutela ambientale agli inizi degli anni novanta.

DOMESTICAZIONE E BENESSERE - Tra i nuovi animali familiari vi sono specie molto diverse tra loro quanto a esigenze ambientali, plasticità comportamentale e abilità cognitive. Va da sé dunque che, dal punto di vista tecnico, la questione del benessere debba essere affrontata separatamente per ognuna delle specie coinvolte, attraverso la definizione di standard di volta in volta appropriati e di parametri idonei a valutarli, e quindi attraverso l’approfondimento delle relative conoscenze biologiche, veterinarie ed eco-etologiche. L’applicazione di tali conoscenze è la conditio sine qua non, ma per sua natura non dovrebbe essere strumentale a una prospettiva filosofica strettamente utilitaristica, che giustifichi qualsiasi utilizzo degli animali (nello specifico la detenzione di qualsiasi specie) qualora la condizione di assenza di maltrattamento (nello specifico la detenzione impropria rispetto alle esigenze dietetiche, ambientali e sociali della singola specie) sia soddisfatta. Allo stesso modo, le conoscenze scientifiche perdono parte della loro coerenza se inserite in un’ottica riduzionista. La questione dell’estensione dello status di pet a qualsiasi specie legalmente detenibile in ambiente domestico non può non chiamare in causa anche gli inquadramenti teorici che, andando oltre il concetto di benessere fisico e psicologico del singolo individuo, fanno riferimento alla “natura” della specie a cui esso appartiene. Il che in termini biologici significa guardare all’adattamento evolutivo nella sua complessità e in termini etologici guardare al comportamento come a un sistema.

LIBERTÀ E CONTRADDIZIONI - Se si considerano le prime tre delle “cinque libertà” invocate a tutela del benessere si può affermare che con una dieta adeguata, un ambiente fisico idoneo e cure veterinarie specifiche il benessere fisico di qualsiasi specie potrebbe essere sufficientemente garantito. Senza peraltro trascurare il rischio, spesso sottovalutato, connesso con eventuali interventi di selezione artificiale: tratti morfologici o comportamentali selezionati a scopo “estetico” possono rivelarsi controproducenti ai fini del benessere, anche in un contesto ambientale protetto com’è quello della cattività. Ma i dubbi maggiori insorgono nel confronto con le altre due libertà. Di fronte al requisito della libertà dal disagio emozionale ci si trova a fare i conti, per molti dei nuovi pet, con conoscenze di etologia cognitiva del tutto insufficienti a definire quali siano le condizioni che ne salvaguardano il benessere psicologico. Per non dire del fatto che, ancor prima di acquisire tali conoscenze, si potrebbe cadere nella tentazione di fare un ragionamento a parte per specie il cui sistema nervoso sia ritenuto troppo poco evoluto per consentire una qualsiasi forma di consapevolezza percettiva. Lo stesso concetto di libertà dallo stress, una volta che si arrivi a conoscerne gli indicatori fisiologici per le diverse specie, può essere fuorviante se non si tiene conto della funzione che lo stress svolge nell’economia complessiva dell’adattamento dell’animale. L’ultimo requisito di libertà, infine, quella di esibire il repertorio comportamentale tipico della specie, suona quasi come un’ingiunzione paradossale: tra i nuovi pet vi sono specie i cui adattamenti comportamentali (predazione, volo, vita arboricola) sono palesemente inconciliabili con la detenzione in ambiente domestico, e alle quali si può offrire, al massimo, la possibilità di “esercitare” singoli pattern comportamentali secondo modalità surrogate e al di fuori del loro contesto ecologico. Se questa può essere una soluzione pratica apprezzabile per far vivere gli animali già detenuti nelle condizioni meno limitanti possibili, deve essere chiaro che si tratta di un compromesso, che non soddisfa sostanzialmente il requisito in questione. A meno di non considerare il comportamento come una somma di pattern indipendenti tra loro e la “natura” di una specie come una somma di adattamenti che esistono semplicemente in funzione di se stessi.

CONCLUSIONI – Nella tutela delle nuove specie detenute in ambiente domestico il concetto di benessere è senz’altro un essenziale sistema di riferimento. Se adottato in un’ottica puramente applicativa, tuttavia, rischia di discostarsi dal corretto inquadramento teorico ed etico del problema. Una riflessione sulle implicazioni del processo di domesticazione e sul complesso significato adattativo delle esigenze eco-etologiche di questi animali si ritiene pertanto imprescindibile.

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VALUTAZIONE CLINICA DELLA LEISHMANIOSI CANINA IN AREA INDENNE: STUDIO RETROSPETTIVO IN 50 CANI NATURALMENTE INFETTI DA LEISHMANIA INFANTUM (1996-2004) CLINICAL CONSIDERATIONS ON CANINE LEISHMANIASIS IN NO N ENDEMIC AREA: A RETROSPECTIVE CLINICAL STUDY IN 50 DOGS NATURALLY INFECTED BY LEISHMANIA INFANTUM (1996-2004) Spada E.1, Proverbio D.1, Perego R.1 Tranquillo V.2 1Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Medica - Università degli Studi di Milano. 2Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna – Brescia. Parole chiave: cane, leishmaniosi canina, indagine clinica retrospettiva Key words: dog, canine leishmaniasis, retrospective clinical study SUMMARY – The medical records of 50 dogs diagnosed with naturally acquired canine leishmaniasis by means of indirect immunofluorescence assay (IFAT) and/or cytology were reviewed. The majority of the dogs were purebreds (36/50), male (33/50), large size (25/50), three to six years old (18/50) and they came or had stayed in endemic areas (37/50). Only 4 dogs living in Lombardia have never been in endemic areas. The most common clinical signs were lymphadenomegaly (29/50) and cutaneous lesions (37/50). In 8 dogs there were both endocrine, neoplastic and infective diseases. The most common clinical-pathological abnormalities were anemia, hypergammaglobulinemia, hypoalbuminemia, hyperproteinemia, decreased albumin/globulins ratio and mixed, glomerular and tubular, proteinuria. In this study, which was analysed by Kaplan-Meier method, the survival time was up to 70% 8 years after the diagnosis. INTRODUZIONE – La leishmaniosi canina è una patologia cronica sostenuta da un protozoo del genere Leishmania che può infettare numerosi mammiferi, tra i quali anche l’uomo. Nel bacino del Mediterraneo la malattia è presente in forma endemica. In Italia fino agli anni ’80 era limitata alle aree insulari e peninsulari, prevalentemente tirreniche, con distribuzione per lo più costiera (7), mentre nel corso degli anni ’90 sono stati descritti focolai nelle zone più interne e nell’Italia settentrionale (6). Sempre più spesso accanto alle forme classiche di malattia vengono segnalate forme atipiche e subdole in cui i sintomi e/o i segni clinici sono vaghi e poco caratteristici (1, 3). Scopo di questo lavoro è stato quello di analizzare il quadro clinico al momento della diagnosi di 50 cani affetti da leishmaniosi canina e di valutare l’eventuale valore prognostico di alcuni sintomi e/o alterazioni ematiche nei confronti del tempo di sopravvivenza. MATERIALI e METODI – In questo studio sono state valutate le cartelle cliniche al momento della diagnosi di leishmaniosi canina di 50 cani, visitati presso la Sezione di Clinica Medica del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie della Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano tra il 1996 e il 2004. La diagnosi di leishmaniosi è stata effettuata tramite ricerca di anticorpi con tecnica di immunofluorescenza indiretta (IFAT) (cut off > 1:80) e/o evidenziazione diretta del parassita in prelievi citologici linfonodali, splenici o cutanei (colorazione Giemsa). Tutti i cani (50/50) sono stati sottoposti ad esame obiettivo generale e particolare dell’apparato/i colpito/i, ad esame emocromocitometrico (45/50), ad esami biochimici quali protidemia totale (44/50), protidogramma (42/50), rapporto albumina/globuline (A/G) (41/50), urea (26/50), creatinina (43/50), ALT (36/50), ALP (18/50), VES (17/45) ed esame delle urine (18/50) con SDS-PAGE (15/50). Tutti i soggetti, ad eccezione di due, sono stati sottoposti a terapia antimoniale (Antimoniato di n-metilglucamina 100 mg/kg/die per via sottocutanea) dopo la diagnosi. Alcuni sintomi (sistemici, cutanei, oculari) ed alcune variabili di laboratorio (protidemia, rapporto A/G, globuli rossi, creatinina) sono stati considerati in un’analisi di sopravvivenza (≤ 1 mese, > 1 mese - ≤ 1 anno, > 1 anno - ≤ 2 anni e > 2 anni) di Kaplan-Meier utilizzando il Log-Rank test per il confronto tra curve (Venables e Ripley). Le analisi sono state eseguite con le funzioni survival del software R .

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RISULTATI – L’età dei soggetti era compresa tra 1 e 14 anni, con un valore medio di 5,7 anni. Il rapporto maschi:femmine è risultato di 2:1, con 33 maschi infetti rispetto a 17 femmine. La maggior parte dei cani era di razza (36/50) con prevalenza di boxer (6/50), pastore tedesco (4/50), labrador retriever (3/50) ed alano (3/50). La maggior parte dei soggetti proveniva o avevano soggiornato in zona endemica per leishmaniosi canina. 4 cani non avevano mai soggiornato in aree endemiche e vivevano il primo tra Milano e Bergamo, il secondo in provincia di Como (Sena Comasco, Cantù) e gli altri due in provincia di Pavia (Mortara e Gravellona Lomellina), mentre un quinto soggetto cane proveniva da uno dei focolai del Piemonte (Costa Vescovato - AL). Nella maggior parte dei casi il motivo della visita è stato la presenza di sintomi sistemici (32/50) e di alterazioni cutanee (32/50). All’esame obiettivo generale 29/50 cani presentavano linfoadenomegalia, 37/50 lesioni cutanee, le quali in 21/37 soggetti erano rappresentate da alopecia, in 24/37 da dermatite esfoliativa ed in 5/37 da lesioni ulcerative e nodulari. Solo 6/50 cani presentavano lesioni oculari. In alcuni soggetti era presente, al momento della diagnosi o era insorta successivamente, una patologia concomitante di natura neoplastica (3/50) (linfoma, plasmocitoma, carcinoma epatico), endocrina (2/50) (ipotiroidismo, ipercorticosurrenalismo) o infettiva (3/50) (piroplasmosi, ehrlichiosi e demodicosi). Per quanto riguarda i dati di laboratorio all’esame emocromocitometrico 6/45 cani presentavano leucopenia, 16/45 anemia, 21/45 riduzione dell’ematocrito, 13/45 trombocitopenia e la VES era aumentata in 14/17 soggetti, con un valore medio di 62,9. A livello di indagini biochimiche in 34/44 soggetti era presente iperprotidemia, con un valore medio di protidemia di 9,48 g/dl, mentre in un solo soggetto era presente ipoprotidemia; 37/41 cani presentavano ipoalbuminemia, mentre l’ipergammaglobulinemia era presente in 28/42; il rapporto A/G è risultato diminuito in 35/41 casi con un valore medio di 0,39. In 7/43 soggetti si riscontrava ipercreatininemia, mentre in 8/36 era presente un aumento della ALT. All’esame delle urine 15/18 soggetti presentavano proteinuria che, all’esame SDS-PAGE delle proteine urinarie, risultava essere di tipo misto in 6/15 soggetti, di tipo glomerulare in 4/15 e di tipo tubulare in 3/15. L’analisi di Kaplan-Meier ha mostrato un’elevata sopravvivenza per i soggetti del nostro campione (dopo 8 anni la probabilità di sopravvivenza era superiore al 70%) e, per quel che concerne le variabili prognostiche indagate alla data della diagnosi, è stata evidenziata una significativa riduzione della sopravvivenza nei soggetti con interessamento sistemico (Log Rank Test χ2= 5.3 on 1 degrees of freedom, p= 0.0211), sebbene anche in questi soggetti il tempo di sopravvivenza mediano dalla data della diagnosi sia stato di circa 5 anni.

CONCLUSIONI – I risultati del nostro studio ribadiscono l’espansione della malattia in aree indenni, anche se nella quasi totalità dei nostri pazienti si trattava verosimilmente di un forma di importazione. Infatti solo 4 cani non erano mai stati in zone endemiche e vivevano in aree ritenute indenni, ma, come dimostrato da un recente studio (6), estremamente vicine a zone rivelatesi popolate dal vettore della malattia. L’analisi del nostro campione ha fornito risultati pressoché sovrapponibili a quelli di studi analoghi effettuati in aree endemiche (2, 4, 5, 8). In 4 soggetti era presente una concomitante patologia di origine neoplastica divenuta clinicamente manifesta successivamente alla diagnosi di leishmaniosi. Sempre più spesso vengono descritte in letteratura (2) forme neoplastiche associate a leishmaniosi, ma resta ancora difficile chiarire quale possa essere il ruolo dell’infezione protozoaria nella loro patogenesi. Accanto agli esami specifici, vogliamo sottolineare l’utilità diagnostica di alcune alterazioni aspecifiche come l’iperprotidemia, le alterazioni del protidogramma, il diminuito rapporto A/G e l’ipoalbuminemia, che possono indurre il sospetto diagnostico, in particolare nelle aree non endemiche, nei casi clinici con sintomatologia atipica o nei soggetti che non sono stati in zona endemica. L’analisi statistica applicata ai tempi di sopravvivenza del nostro campione, ha evidenziato una prognosi quod vitam favorevole a medio/lungo termine e ha confermato, quale fattore prognostico negativo, la presenza di sintomi sistemici al momento della diagnosi. BIBLIOGRAFIA – 1) Blavier A. et al (2001) Vet Journal, 162, 108-120. 2) Ciaramella P. et al (1997) Vet Rec, 22, 539-543 3) Denerolle P. (1996) Prat Med Chir Anim Comp, 31,137-145. 4) Ferrer L. (1988) J Small Anim Pract, 29, 381-388. 5) Slappendel RJ (1988) Vet Quart, 10(1), 1-16. 6) Capelli G. et al (2004), Parassitologia, 46, 193-197. 7) Pozio E. et al (1985), Ann Parasitol Hum. Comp, 60(5), 543-553. 8) Koutinas AF. Et al (1999), J Am An Hosp Ass, 35,376-383.

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LEISHMANIOSI CANINA: INDAGINE SIEROLOGICA MEDIANTE IM MUNOFLUORESCENZA INDIRETTA (IFAT) IN 313 CANI RICOVERATI PRESSO IL CANILE SANITARIO DEL COMUNE DI MILANO CANINE LEISHMANIASIS: A SERO-EPIDEMIOLOGICAL SURVEY BY INDIRECT FLUORESCENCE ANTIBODY TEST (IFAT) IN 313 DOGS AT “CANILE SANITARIO” OF MILAN Perego R., Proverbio D., Spada E., Ferro E. (Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Medica - Università degli Studi di Milano) Parole chiave: cane, leishmaniosi canina, epidemiologia, immunofluorescenza indiretta Key words: dog, canine leishmaniasis, epidemiology, indirect fluorescence antibody test SUMMARY – Canine leishmaniasis (CanL) due to Leishmania infantum is a disease of great veterinary importance and a serious public health problem. In Italy, particularly on coasts and on islands, CanL is considered an endemic disease. Until the '80s Milan and northern Italy (with the exception of Liguria) were considered free from CanL. From the early '90s most of the new stable foci of CanL continued to appear in classical endemic area, while others started to develop in northern Italy (Veneto and Piemonte regions). The researchers of this area focused their attention on this fact. The investigation was conducted on 536 dogs, which were accepted at “Canile Sanitario” of Milan between 2002 and 2003. The aim of this investigation was to value seropositive rate of canine leishmaniasis by indirect fluorescence antibody test (IFAT). The investigation showed these results: 295 (94,2 %) negative dogs (< 1:40), 17 (5,4 %) border line (1:40 – 1:80 without clinical signs) and 1 (0,3 %) positive (≥ 1:40 with evident clinical signs or ≥ 1: 160). INTRODUZIONE – La leishmaniosi canina rappresenta in quasi tutto il mondo una zoonosi in costante aumento e diffusione. In Italia l’infezione sostenuta da Leishmania infantum è endemica lungo le coste e nelle isole, ma sempre più frequentemente viene diagnosticata in zone ritenute indenni, sia in animali che hanno soggiornato in zone a rischio, sia in soggetti che non hanno effettuato spostamenti territoriali (3). La recente segnalazione di focolai endemici nell’Italia settentrionale (1, 2, 5) ha attirato l’attenzione di ricercatori ed operatori sanitari anche nell’area milanese. Testimoni della crescente diffusione della leishmaniosi sono anche i risultati di una indagine sierologia effettuata presso la Sezione di Clinica Medica del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie della Facoltà di Milano su un campione di 536 cani che avevano soggiornato in zona endemica con un risultato di sieropositività al test IFAT per L. infantum del 17% (4). Alla luce di tali considerazioni è nato questo studio, il cui scopo è stato quello di valutare, tramite test IFAT, il tasso di positività sierologica alla leishmaniosi canina dei cani afferenti al Canile Sanitario del Comune di Milano. MATERIALI e METODI – In questo lavoro sono stati analizzati i sieri di 313 cani afferenti al Presidio Veterinario del Canile Sanitario di Milano. I prelievi sono stati effettuati durante un periodo di 14 mesi, da maggio 2002 a luglio 2003. In tutti i cani, con anamnesi muta, di entrambi i sessi, di razza ed età differente, al momento dell’ingresso in Canile sono stati effettuati una visita clinica ed un prelievo ematico. Sul siero ottenuto è stato effettuato il test di immunofluorescenza indiretta (IFAT) per Leishmania infantum, utilizzando il kit Leishmania Spot IF della Bio-Mérieux, che fornisce vetrini con antigene di L. infantum prefissato. I risultati sono stati valutati, secondo le direttive dell’Istituto Superiore della Sanità (I.S.S.), in base al titolo anticorpale ed alla presenza di sintomatologia clinica riferibile a Leishmaniosi canina (< 1:40 = negativo; ≥ 1:40 con evidenti segni clinici = positivo; 1:40 – 1:80 senza sintomi clinici evidenti = border line o dubbio; ≥ 1: 160 = positivo). I sieri risultati positivi o border line sono stati sottoposti ad elettroforesi sieroproteica, che, pur essendo un esame aspecifico, può rappresentare un valido supporto interpretativo in corsa di tale malattia. In base quindi alla lettura del tracciato elettroforetico i cani sono stati suddivisi in due ulteriori categorie: dubbi e compatibili con leishmaniosi canina.

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RISULTATI – Dei 313 cani sottoposti al test IFAT per leishmaniosi, 78 (24,9 %) avevano meno di un anno di età, 92 (29,4%) da 1 a 3 anni, 86 (27,5%) da 3 a 6 anni, 40 (12,8 %) da 6 a 9 anni e 16 (5,1 %) più di 9 anni. 93 (29,7 %) erano soggetti di razza e 220 (70,3 %) meticci, 195 (62,3 %) erano maschi e 118 (37,7 %) femmine, 70 (22,4) di piccola taglia (inferiori ai 10 kg di peso), 120 (38,3 %) di taglia media (da 11 a 25 kg) e 123 (39,3 %) di taglia grande (oltre 26 kg). 196 (62,6 %) cani erano a pelo corto, 88 (28,1 %) a pelo medio e 29 (9,3 %) a pelo lungo. Nessuno dei soggetti esaminati presentava segni clinici “classici” riferibili a leishmaniosi canina. In base ai risultati del test IFAT il campione è stato suddiviso in: 295 (94,2 %) soggetti negativi, 17 (5,4 %) border line e 1 (0,3 %) positivo (titolo pari a 1:+/- 5120). I sieri dei campioni border line e positivi sono stati rivalutati dopo l’esecuzione dell’elettroforesi sieroproteica e suddivisi in: 10 (55,6 %) soggetti con rapporto albumina/globuline (A/G) alterato ed ipergammaglobulinemia definiti “compatibili” con leishmaniosi canina e 8 (44,5 %) con rapporto A/G e protidogramma nella norma definiti “dubbi”. CONCLUSIONI – L’interpretazione dei nostri risultati riguardanti il test IFAT per leishmaniosi canina in base alle direttive dell’Istituto Superiore della Sanità (I.S.S.) evidenzia la presenza di 1 cane positivo e 17 cani border line. Nelle direttive dell’ I.S.S. si parla di sintomi clinici evidenti, ma il termine “evidente”, a nostro avviso, appare oggi di difficile interpretazione. Infatti accanto alla forma clinica definita “classica” vi sono sempre più numerose forme dette “atipiche” in cui ci può essere l’interessamento di qualsiasi organo od apparato senza la presenza dei sintomi ritenuti peculiari della malattia (6,7). Queste considerazioni ci hanno indotto ad approfondire l’indagine sui soggetti risultati positivi o dubbi al test IFAT mediante la valutazione della protidemia e del tracciato elettroforetico. Su 17 soggetti risultati dubbi, 9 hanno presentato un tracciato elettroforetico alterato compatibile con un quadro di leishmaniosi canina. Tali risultati devono essere approfonditi sottoponendo i soggetti “compatibili con la malattia” ad ulteriori accertamenti sia per verificare la reale presenza dell’infezione (ad esempio Polymerase Chain Reaction su midollo osseo) sia per escludere altre patologie, quali ad esempio l’ehrlichiosi o il mieloma multiplo, che possono dar luogo ad un quadro elettroforetico similare. Anche se il numero dei soggetti “sospetti” risulta esiguo, questo dato può essere considerato un campanello d’allarme, in quanto la provincia di Milano è un’area indenne per leishmaniosi. Ovviamente l’anamnesi muta dei soggetti non ci permette di valutare le possibili e più probabili, fonti di contagio quali, in prima istanza, il soggiorno o la provenienza da una zona endemica o, meno frequentemente, il trasporto fisico accidentale dei flebotomi da zone endemiche o la trasmissione per via transplacentare, iatrogena o coitale. In mancanza di dati precisi il mutamento del quadro epidemiologico della leishmaniosi che ha portato negli ultimi anni a numerose segnalazioni di focolai autoctoni in zone considerate non endemiche, quali Valle d’Aosta, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna (5) ed ai recenti casi autoctoni individuati a Brescia (Lombardia) e Arco (Trentino Alto Adige) (1), devono indurci a tenere anche il territorio milanese sotto stretta osservazione, controllando i cani che hanno soggiornato in aree endemiche, nell’intento di formulare diagnosi precoce ed instaurare interventi terapeutici mirati a ridurre la carica parassitaria di soggetti che possono rappresentare un serbatoio per la malattia e di sensibilizzare i proprietari affinché mettano in atto piani di profilassi adeguati quando si recano in zone endemiche con i loro cani. BIBLIOGRAFIA – 1) Capelli G et al (2004) Parassitologia, 46 (1-2), 193-197. 2) Mollicone E et al (2003) Parassitologia, 45(2), 85-88. 3) Rivò G et al (2000) Veterinaria, 14 (2): 61–64. 4) Spada E et al (2002) LVI Congresso SISVet, 289–290. 5) Ferroglio E et al (2002), 2emè Journée d’actualités sur les leishmanioses, 29–34. 6) Blavier A. et al (2001) Vet Journal, 162, 108-120. 7) Denerolle P. (1996) Prat Med Chir Anim Comp, 31,137-145.

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LEISHMANIOSI CANINA: VALUTAZIONE DEL LIQUIDO CEFALO- RACHIDIANO CANINE LEISHMANIOSIS: CEREBROSPINAL FLUID ANALYSIS Papa V*.; Di Tommaso M.*; Varasano V.;* Rocconi F.*; Valbonetti L.*; Polizzi D.°; Iorio R.**; Mariscoli M.* - * Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie; **Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate – Università degli Studi di Teramo; °Centro Referenza Nazionale Leishmania, I.Z.S. della Sicilia “A. Mirri” Parole chiavi: Leishmania, liquido cefalorachidiano, sistema nervoso centrale, IFI Key words: Leishmaniosis, cerebrospinal fluid, polimerase chain reaction, IFI SUMMARY – Twelve seropositive dogs to Leishmania infantum and three seronegative with neurological signs, underwent to physical and neurological exanimation, cerebrospinal fluid analysis. Polimerase chain reaction on CSF, bone marrow and whole blood were also performed. Cerebrospinal fluid analysis was not indicative of inflammatory processes of central nervous system or disruption of blood-brain barrier. PCR on CSF was positive in three dog without typical symptoms of leishmaniosis but with neurological signs, and in one of them it was the only positive test. We suppose that neurological signs and CSF alteration could be present before typical clinical manifestation of Leishmania or they could be the only clinical manifestation in L. Infantum infection. INTRODUZIONE - La leishmaniosi canina è una malattia protozoaria sistemica sostenuta da Leishmania spp. Accanto alle forme classiche ampiamente descritte in letteratura, nell’ambito delle cosiddette localizzazioni “atipiche”, è stato segnalato il coinvolgimento del sistema nervoso centrale (SNC) a seguito del ritrovamento di forme amastigote nel plesso corioideo di un cane che mostrava letargia e debolezza associati a linfoadenopatia generalizzata e lesioni cutanee diffuse(1). Nel 2004 è stato inoltre segnalato un granuloma intracranico ascrivibile a Leishmaniosi in un cane sieronegativo, in cui l’unica sintomatologia manifesta era di tipo neurologico(2). Il presente lavoro si propone di valutare il possibile coinvolgimento del SNC in corso di leishmaniosi mediante l’analisi del liquido cefalorachidiano (LCR) e polimerase chain reaction (PCR) su campioni di sangue, midollo osseo e LCR. MATERIALE E METODI - Trentacinque cani, provenienti dallo stesso canile, nel quale non si pratica alcuna terapia o profilassi anti-Leishmania, sono stati sottoposti a visita clinica e neurologica, esami emato-biochimici, protidogramma e ricerca sierologica degli anticorpi anti-Leishmania mediante test di immunofluorescenza indiretta (IFI). I criteri di inclusione allo studio erano positività all’IFI sul siero e/o sintomatologia neurologica. Questo permetteva di selezionare dal gruppo 15 soggetti dei quali: 12 per il titolo di anticorpi anti Leishmania infantum ≥ 1:80 e 3 perchè, pur sieronegativi, avevano mostrato segni neurologici quali crisi convulsive. Dei 12 soggetti sieropositivi 6 (6/12) erano sintomatici secondo la classificazione di Oliva(3) e quattro (4/6) presentavano segni neurologici. In tutti e 15 i soggetti facenti parte dello studio è stato prelevato sangue intero ed effettuati, in anestesia generale, il prelievo del LCR dalla cisterna magna e la sternomielocentesi. Dai campioni di midollo osseo sono stati allestiti strisci per la valutazione della presenza di forme parassitarie fagocitate. Il materiale residuato dalle siringhe della sternomielocentesi e un campione di sangue intero sono stati conservati per l’esecuzione della PCR quali e quantitativa. Sul LCR sono invece stati effettuati: valutazione dei caratteri fisici (colore e limpidezza), valutazione quantitativa e semi-quantitativa (Pandy test) del contenuto proteico, conta e morfologia cellulare, esame biochimico, IFI e PCR per L. infantum. I campioni sono stati processati presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, l’IFI è stata eseguita presso i laboratori della Sezione di Malattie Infettive del Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate dell’Università di Teramo, la PCR è stata eseguita presso il Centro di Referenza Nazionale Leishmania, I.Z.S. della Sicilia “A. Mirri”. RISULTATI E CONCLUSIONI – In tutti i campioni le caratteristiche fisiche del LCR sono risultate nella norma e il test di Pandy ha dato esito negativo. La componente cellulare del LCR rientrava nei range di normalità (< 5cell/µl) in tutti i soggetti e la conta cellulare

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differenziale ha messo in evidenza solo cellule mononucleate o una popolazione mista con polimorfonucleati inferiori al 5%. L’analisi biochimica sul LCR non ha evidenziato valori al di fuori dei range di riferimento ottenuti dalla letteratura (4,5), né si sono osservate variazioni significative fra i soggetti studiati. I dati riguardati le alterazioni cliniche, la sierologia, la PCR sul LCR, sangue e midollo osseo, la citologia midollare e il rapporto albumine/globuline sono riportati nella tabella seguente.

Sintomatologia

Sierologia

PCR LCR Sangue Midollo

Citologia

A/G

3 Assente + - - - - 1,24 4 Cheratite dimagrimento + - + + - 0,52 5 Lesioni cutanee + - + - - 0,22 6 Cervicotoracica + + - - - 0,99 7 Lesioni cutanee + - - - - 0,52 9 Dimagrimento alopecia + - + + + 0,17 10 Assente + - + - - 0,7 11 Assente + - + - - 0,72 14 Assente + - - - - 0,75 20 Crisi convulsive - + - - - 1 29 Assente + - - + + 0,94 30 Assente + - - - - 0,59 32 Lombosacrale + + + - - 0,99 33 Crisi convulsive - - + - - 1,01 35 Crisi convulsive - - + - - 0,9

DISCUSSIONE – L’esame del LCR non ha mostrato alterazioni riferibili a processi di natura infiammatoria a carico del sistema nervoso centrale e/o una rottura della barriera ematoencefalica. La PCR effettuata sul LCR ha evidenziato positività in tre soggetti con sintomatologia neurologica suggerendo che il parassita possa aver superato la barriera ematoencefalica coinvolgendo il tessuto nervoso. In un soggetto la PCR su LCR è stato l’unico esame a risultare positivo, facendo ipotizzare che le alterazioni neurologiche possano a volte essere le sole manifestazioni cliniche riscontrabili. In letteratura viene riportato un caso dove l’unica sintomatologia riscontrata nell’animale era riferibile ad una granuloma intracranico di origine parassitaria (2). Possiamo ipotizzare che le manifestazioni convulsive nel nostro soggetto possano essere correlate a reazione granulomatosa intracranica di piccole dimensioni, che può agire da focus epilettogeno. La valutazione tramite PCR sul LCR ha consentito inoltre di evidenziare come la diffusione della Leishmania nel SNC sia più frequente di quanto riportato in letteratura. Dai dati bibliografici si evince che lo sconfinamento del parassita oltre la barriera emato-encefalica sia un evento tardivo nella progressione della malattia (1). I nostri dati discostano da tali riscontri poiché la presenza del parassita è stata evidenziata anche in soggetti privi di alterazioni cliniche riferibili a leishmaniosi. L’impiego della PCR su campioni di LCR è una metodica non utilizzata nei lavori pubblicati in precedenza e ha permesso di identificare, con maggiore accuratezza, la presenza di L. infantum nel sistema nervoso. In base ai risultati ottenuti è ipotizzabile che la presenza di L. infantum nel SNC sia sottostimata. Riteniamo che la sintomatologia neurologica e le alterazioni del LCR possano, in alcuni casi, precedere l’insorgenza del quadro clinico classico o essere, come descritto da Guttadauro (2), l’unica manifestazione clinica riferibile alla malattia. L’esame del LCR in questi casi riveste un ruolo significativo ai fini diagnostici nel riconoscimento dell’eziologia parassitaria. BIBLIOGRAFIA – 1) N ieto CG et al.(1996) Vet Rec: 139(14):346-347. 2) Guttadauro S. (2004) Atti del Congresso internazionale sulla Leishmaniosi canina, Napoli 17-18 Aprile, 89. 3) Oliva et al. (1996) Veterinaria, 3:115-127. 4) Sorjonen DC. (1987) Am J Vet Res: 48:301. 5) Coles EH. (1980) Clinical biochemistry of domestic animals 3rd ed., Academic press, New York, p.719. 6) Garcia-Alonso M. et al. (1996) Parasite Immunol:18(11):539-46.

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REAL TIME PCR E IMMUNOFLUORESCENZA IN CAMPIONI DI UR INE DI CANI LEISHMANIOTICI CON DIFFERENTI SEGNI CLINICI REAL TIME PCR AND IFAT IN URINE SAMPLES OF DOGS WITH DIFFERENT CLINICAL SIGNS OF LEISHMANIOSIS Manna L.°, Viola E°, Foglia Manzillo V°., Vitale F.*, Reale S.*, Romano R.°, Muzj P°., Gravino A.E.° Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Napoli°, Istituto Zooprofilattico Sperimentale, della Sicilia Palermo*,. Parole chiave: cane, urine, Leishmania infantum, real-time PCR. Key words:dog, urine sample, Leishmania infantum, real-time PCR.

SUMMARY - Leishmania causes alterations in several organs and renal lesion in the dog. In this study urine samples were collected from 40 naturally infected dogs living in South Italy, where the disease is endemic. Ten of them had specific clinical signs related to glomerulonephritis or renal failure, ten had hematuria and 20 cutaneous lesions. Urine samples were collected for quantification of Leishmania infantum by real-time PCR and immunofluorescence antibody test (IFAT) was used to detect anti-Leishmania antibodies. An additional urine sample was collected from 1 healthy dog as control. Antibody detection in urine could be a noninvasive method for leishmaniosis diagnosis in dogs with hematuria and prognosis in dogs with glomerulonephropathies. It might be a useful tool for establishing appropriate diagnosis and prognosis and for leishmaniotic dog management. INTRODUZIONE - La leishmaniosi è una zoonosi causata da protozoi appartenenti al genere Leishmania. In Europa, Africa, Sud America, Medio Oriente e Cina la leishmaniosi viscerale nel cane e nell’uomo è sostenuta da L. infantum. I vettori della leishmaniosi sono flebotomi appartenenti al genere Phlebotomus (1). Le manifestazioni della malattia includono lesioni cutanee, perdita di peso, ematuria, lesioni oculari, epistassi, zoppia, insufficienza renale, diarrea (2). I cani leishmaniotici hanno alti livelli di immunoglobuline G anti-Leishmania nel siero (3) e i rilievi clinicopatologici includono anemia, ipoalbuminemia, iperglobulinemia, ipercreatininemia e proteinuria (4). Nella maggior parte dei casi, l’evoluzione mortale della leishmaniosi canina è causata dal coinvolgimento renale (5). La principale lesione renale in corso di leishmaniosi (5) è la glomerulonefrite. Tuttavia, la nefrite interstiziale, la nefropatia tubulare e l’amiloidosi glomerulare insieme con la glomerulonefrite sono state anche trovate in cani leishmaniotici (6). La patogenesi delle lesioni renali è principalmente attribuita alla deposizione di immunocomplessi, successivamente al danno glomerulare. A causa dell'importanza del danno glomerulare in corso di leishmaniosi canina, numerosi test, come il rapporto proteine/creatinina urinarie (U P/C) (7) e l’enzimuria (6), sono stati utilizzati per rilevare lesioni renali precoci al fine di stabilire la prognosi ed il trattamento appropriato. Studi recenti hanno rilevato anticorpi anti-Leishmania nell'urina di pazienti umani con leishmaniosi viscerale (8) e nell'urina di criceti infettati con L. donovani in associazione con glomerulonefrite (9). Lo scopo di questo studio è la valutazione di anticorpi specifici e della quota di DNA di L. infantum in campioni di urina e sangue di cani leishmaniotici in presenza o meno di lesioni renali conclamate MATERIALI E METODI – L’ indagine è stata condotta su campioni di urine provenienti da 40 cani affetti da leishmaniosi, nei quali la diagnosi è stata effettuata mediante IFI e confermata dalla PCR su biopsie linfonodali e sangue secondo metodiche descritte in precedenza (10). I cani, di razze differenti, avevano età tra 1 e 10 anni. In tutti sono stati effettuati gli esami biochimici di routine. Tutti i soggetti risultavano sieronegativi nei confronti di Ehrlichia canis, Rickettsia rickettsii, Leptospira, Borrelia burgdorferi, Babesia canis. Da ogni soggetto sono stati prelevati campioni di urina (10 cc), di sangue (10 cc) e di linfonodo (biopsia). I campioni di sangue e di linfonodo sono stati processati secondo le metodiche descritte in precedenza (10). Le urine sono state centrifugate a 3000 rpm per 10 min ed il surnatante è stato impiegato per determinare il rapporto proteine/creatinina urinarie (UP/C) mediante le metodiche convenzionali (7) e per valutare la presenza di anticorpi anti-Leishmania mediante immunofluorescenza (IFI). La specie IPT1 ZMON1 è stata usata come antigene fissato su vetrini microscopici multispot per

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testare diluizioni seriali di campioni di urine. Il valore cut-off per il controllo positivo era di 1:40. Il DNA è stato estratto dalle urine a partire dal pellet cellulare mediante kit Qiagen per valutare il livello di DNA target di L. infantum mediante real-time PCR. Come controllo negativo del test è stato utilizzato un campione di sangue e di urine di un cucciolo sano, proveniente da una zona indenne. Come controllo positivo è stato impiegato il DNA, estratto da una coltura di L..infantum (ZMON-1). La real-time PCR è stata effettuata impiegando i primers e le sonde specifiche per la L.infantum costruiti con l’ausilio del software FILE BUILDER (Applied Biosystems Cheshire). I test di real-time PCR sono stati condotti su ABI Prism 7000 sequence detection system. La miscela di reazione per un volume totale di 50µl è stata così costituita: 10 µl di DNA, 12.5 µl di “Universal Mastermix”(Applied Biosystems), 300 nM primer forward, 300 nM primer reverse, 200 nM sonda. I test di quantitativa assoluta sono stati eseguiti in triplicato ed il segnale ottenuto è stato comparato con quello registrato sugli stessi campioni, per il gene di riferimento GAPDH. RISULTATI - Nel nostro studio 10 cani, che hanno mostrato alti titoli anticorpali e significative quote di Leishmania nelle urine, presentavano segni di insufficienza renale. I 10 soggetti con ematuria mostravano titoli anticorpali nelle urine, ma non nel sangue. La quota di Leishmania nelle urine era inferiore a quella repertata nei soggetti con insufficienza renale. Nei rimanenti animali appartenenti al gruppo esente da insufficienza renale ed ematuria non sono stati rinvenuti anticorpi e quote di Leishmania nelle urine. L’ U P/C risultava significativamente aumentato nei soggetti nefropatici, moderatamente in quelli con ematuria e normale negli altri.

Tabella 1. Alterazioni di laboratorio più rilevanti su sangue e urine dei cani in esame CONCLUSIONI - Studi recenti hanno evidenziato che alti livelli di anticorpi nel sangue, in cani non proteinurici, non si associano ad anticorpi anti-leishmania nelle urine (11). Inoltre, si è osservato che un gran numero di cani leishmaniotici (il 46%) ha rapporti U P/C maggiori di uno (4). Tuttavia la contaminazione da parte del sangue dei campioni di urine può comportare un alterazione del valore dell’U P/C anche in assenza di danno glomerulare(11). In questo lavoro descriviamo per la prima volta la presenza di quote protozoarie nell’urina di cani leishmaniotici, determinate mediante Real-time PCR. I dati ottenuti dimostrano che i campioni di urine provenienti da soggetti nefropatici testati mediante IFI e real-time PCR contengono alti livelli di protozoi e di anticorpi specifici. Nei cani con ematuria, il tasso anticorpale nelle urine risulta alto, la quota protozoaria inferiore rispetto ai cani con insufficienza renale, ma pur sempre rilevante e molto vicina a quella ritrovata nel sangue. Risultavano negativi, invece, i test sierologici effettuati su sangue. Noi abbiamo supposto che nei cani con leishmaniosi associata a danno glomerulare, gli anticorpi anti-Leishmania ed il protozoo possono attraversare la barriera glomerulare e quindi essere rinvenuti nell'urina. Nei soggetti nei quali l’ematuria rappresenta il solo sintomo di malattia, si potrebbe supporre che la lesione sia localizzata a livello di vescica. Per cui in questi casi l’indagine sierologica sulle urine è da preferirsi rispetto a quella effettuata sul sangue. Dai nostri dati, inoltre, risulta particolarmente significativa la ricerca della quota protozoaria presente nelle urine, che potrebbe essere utile nel management del cane leishmaniotico dal punto di vista sia diagnostico che prognostico. BIBLIOGRAFIA - 1) Solbach W., et al. (2000). Adv.Immunol. 74, 275-317; 2) Koutinas A.F. et al, (1999) J Am Anim Hosp Assoc; 35(5):376-83. 3) Lanotte G. et al, (1979) Ann Parasitol Hum Comp; 54(3):277-95. 4) Koutinas A.F. et al (2001) Vet Parasitol; 98(4):247-61. 5) Poli A. et al (1991) Nephron.; 57(4):444-52. 6) Palacio J. et al, (1997) Vet Rec; 140(18):477-80. 7) Palacio J. et al (1995) Vet Rec. 25; 137(22):567-8. 8) Kohanteb J. et al, (1987) Trans R Soc Trop Med Hyg; 81(4): 578-80. 9) Sartori A. Et al, (1987) Parasite Immunol.; 9(1):93-103. 10) Manna L. et al, (2004) Vet Parasitol 125 (3-4):251-62. 11) Solano-Gallego L. et al, (2003) Clin Diagn Lab Immunol; 10 (5):849-55

N°animali IFI

(urine) Real-time PCR

(urine) U P/C

IFI (sangue)

real-time PCR (sangue)

10 (ins. renale) >1:160 >100/ml > 70 <1:160 >100 10 (ematuria) >1:80 >20/ml >5 neg <150 20 (les. cutanee) neg Nego <3/ml <1 >1:80 >200

N°animali IFI

(urine) Real-time PCR

(urine) U P/C

IFI (sangue)

real-time PCR (sangue)

10 (ins. renale) >1:160 >100/ml > 70 <1:160 >100 10 (ematuria) >1:80 >20/ml >5 neg <150 20 (les. cutanee) neg Nego <3/ml <1 >1:80 >200

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CONTROLLO DELLA LEISHMANIOSI CANINA MEDIANTE L’USO D I COLLARI IMPREGNATI DI DELTAMETRINA: STUDIO DEI FATTORI CONDIZIONANTI L’EVOLUZIONE DELLA MALATTIA THE CONTROL OF CANINE LEISHMANIASIS WITH DELTAMETHRIN-IMPREGNATED COLLARS: EVALUATION OF THE PROTECTIVE EFFECT AND INVESTIGATION ON THE FACTORS INFLUENCING THE DISEASE PROGRESS Foglia Manzillo V., Pagano A., Manna L., Gradoni L*., Maroli M*., Oliva G. Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Napoli;*Istituto Superiore della Sanità, Roma. Parole chiave: leishmaniosi, deltametrina, profilassi, cane. Key words: leishmaniasis, delthametrin, prophylaxis, dog. SUMMARY – The Authors evaluated the efficacy of individual protection against leishmaniasis by applying deltamethrin-impregnated protector bands (Scalibor) to a cohort of stray dogs living in a kennel sited in southern Italy. The study was carried out during two consecutive transmission seasons (2003-2004). A cohort of 120 dogs resulted IFAT seronegative was enrolled for the study. 60 dogs were collared with the Scalibor protector band and 60 dogs were left as control. A third group of 30 dogs, showing clinical signs of leishmaniasis, was enrolled to compare the clinical evolution of the disease with that of 12 collared dogs which acquired leishmaniasis during the study period. The difference in seroconversion rate between collared and control dogs was significant (P < 0.005), with an estimated protection against infection of 56% in the collared dogs. The clinical course of leishmaniasis in collared dogs seems to be more favourable when compared to that of dogs unprotected by collars. INTRODUZIONE – Negli ultimi anni, le strategie di controllo della leishmaniosi canina sono state rivolte soprattutto alla messa a punto di misure protettive contro la puntura degli insetti vettori della zoonosi, data la parziale inefficacia delle terapie farmacologiche e la mancanza di un vaccino. Risultati ottenuti in precedenti lavori [1-3] hanno dimostrato una discreta protezione individuale offerta da prodotti a base di deltametrina, sia in condizioni sperimentali che in studi di campo. Lo scopo del presente lavoro è stato quello di confermare l’efficacia protettiva dei collari impregnati con deltametrina, ma anche di valutare un possibile impatto di tale misura protettiva sull’evoluzione della malattia nei soggetti che avessero acquisito una leishmaniosi nonostante l’uso del collare. MATERIALI E METODI - Lo studio, iniziato a maggio del 2003, ha interessato un canile di Torre Annunziata (NA), uno dei tanti focolai endemici di leishmaniosi canina nell’area costiera vesuviana. All’inizio dello studio il canile ospitava circa 500 animali. La sperimentazione è stata protratta per un periodo di 20 mesi in modo da comprendere due stagioni di trasmissione consecutive, quella del 2003 e del 2004. Per lo studio sono stati arruolati 150 animali cosi suddivisi: (i) gruppo I: 60 cani sieronegativi per Leishmania

infantum da proteggere con collari impregnati di deltametrina [Scalibor® PB]; (ii) gruppo II: 60 cani sieronegativi per L. infantum, non collarati e da utilizzare come gruppo di controllo per l’infezione; (iii) gruppo III: 30 cani sieropositivi per L. infantum, da utilizzare come controllo di evoluzione della malattia in soggetti non collarati. I cani sieronegativi appartenenti ai primi due gruppi non mostravano alcun segno clinico di malattia nè alterazioni del profilo ematologico ed ematobiochimico; quelli del gruppo III avevano titoli anticorpali variabili da 1:160 a 1:5120, oltre a sintomi di malattia. Nel mese di maggio 2003, ai cani del gruppo I è stato applicato il collare protettivo, mantenuto fino ad ottobre 2003. I controlli clinici e sierologici sono stati eseguiti nei mesi di ottobre e dicembre 2003, marzo, giugno e ottobre 2004 e gennaio 2005. Nel mese di maggio 2004, ai cani del gruppo I è stato nuovamente applicato il collare. Il confronto tra i soggetti con collare, risultati positivi al termine della prova, e quelli del gruppo III è stato eseguito, oltre che sulla valutazione clinica, sul confronto statistico (analisi della varianza) tra i valori medi dei seguenti parametri: titoli anticorpali IFAT, ematocrito, globuli bianchi, piastrine, proteine totali, rapporto albumine/globulina, creatinina.

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RISULTATI – Alla prima valutazione (ottobre 2003) risultavano presenti nel canile 57 cani del gruppo I e 34 cani del gruppo II di controllo; i rimanenti animali di questo gruppo erano stati affidati o spostati in altri canili. Prima della seconda stagione di trasmissione (marzo 2004) risultavano presenti 44 cani del gruppo I e 34 del gruppo II. I test sierologici eseguiti in questa data sono risultati positivi in 5/44 cani del gruppo I (11,3%) e in 14/34 cani del gruppo II (41,1%); tale differenza è risultata statisticamente significativa (p<0.005). La protezione stimata è stata pari al 72,5%. (Tabella 1). Nel mese di maggio 2004 i soggetti del gruppo I (42 soggetti; 2 cani deceduti) sono stati di nuovo protetti con il collare; di questi, 5 erano quelli risultati positivi dopo la prima stagione di trasmissione. In questa seconda stagione, i cani del gruppo I erano 37. Nel follow-up del gruppo I, eseguito ad ottobre 2004, è stato possibile valutare solo 35 dei 42 soggetti protetti a maggio. Di questi, 4 erano i sieroconvertiti durante la stagione precedente e 7 dei 31 rimanenti (22,5%) sono risultati come nuovi sieropositivi. Alla stessa data, dei soggetti del gruppo II (controllo), risultavano presenti solo 26 dei 34 soggetti di partenza; di questi 26, 9 erano i positivi della stagione precendente (5 positivi erano nel frattempo deceduti) e 7/17 (41,17%) erano i nuovi sieroconvertiti. La differenza tra i due gruppi dopo la seconda stagione di trasmissione non è risultata statisticamente significativa. Al termine della sperimentazione, ovvero dopo le due stagioni di trasmissione, è risultato che la protezione stimata conferita dal collare è stata pari al 56% (Tabella 1). Il confronto dei dati riguardanti i cani protetti con collare che si sono infettati nel corso dello studio e i cani del gruppo III di controllo, ha messo in evidenza differenze statisticamente significative riguardanti il rapporto albumine/globuline e il valore ematocrito, oltre all’evidenziazione di quadri clinici nettamente più gravi nel secondo gruppo.

Tabella 1. Disegno dello studio e risultati.

Animali arruolati N. di cani Protezione stimata

Inizio Mag 03 120 sieronegativi(a)

Gruppo Protetti con collare

Controllo

Mag 03- Ott 03 60 60 Esame sierologico(a) 1a stagione Ott 03 - Mar 04 44 34 Cani sieropositivi e % 5 (11,3%) * 14 (41,1%) 72,5% 2a stagione Ott 04 - Mar 05 35 (- 4)** 26 (-9)** 7 (22,5%) 7 (41,7%) Tot. cani sieropositivi (%) - 12 (27,2%) 21 (61,7%) 56%

(a) Titolo IFAT soglia di 1:160; cani con IFAT = 1:80 erano arruolati come positivi se parassitologicamente + all’ago aspirato linfonodale/midollare.

* statisticamente significativo rispetto al gruppo controllo (p< 0.005) ** n. di cani sieropositivi dopo la prima stagione di trasmissione. CONCLUSIONI – I dati del presente studio in generale confermano quanto osservato in precedenza circa l’efficacia dei collari impregnati di deltametrina. La protezione stimata conferita dal collare è stata del 72,5% al termine della primo anno di studio. La protezione è stata ancora statisticamente significativa dopo due stagioni di trasmissione (56%). Quanto osservato è di particolare interesse se si considera che il gruppo di animali prottetto con collare era in presenza di un’elevatissima forza di trasmissione registrata nell’intera area vesuviana ed in particolare nel canile in osservazione, dove la sieroprevalenza per Leishmania supera il 30%. Particolarmente confortanti appaiono, infine, i dati riguardanti il decorso clinico dei soggetti che nonostante la protezione hanno sieroconvertito: titoli anticorpali bassi (≤ 160) in 7/12 soggetti e valori medi del profilo ematobiochimico nella norma, corrispondenti nella maggior parte dei casi a quadri clinici pauci/asintomatici. Il decorso clinico particolarmente favorevole nei cani del gruppo I potrebbe essere in relazione ad una minore carica antigenica [4] ricevuta dai soggetti protetti; ipotesi questa che meriterebbe senza dubbio maggiori approfondimenti. BIBLIOGRAFIA – 1) Killick-Kendrick R. et al (1997) Med Vet Entomol, 11, 105-111. 2) Maroli M. et al (2001) Med Vet Entomol, 15, 358-363. 3) Foglia Manzillo V. et al. Atti S.I.S.Vet LVI, 291-292. 4) London C.A. et al (1998) Vet Immunol Immunopath 63, 37-44.

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SINDROME DA MALASSORBIMENTO IN UN GATTO CON LEISHMANIOSI MALABSORPTION SYNDROME IN A CAT WITH LEISHMANIOSIS Britti D., Vita S., Aste A., 1Williams D.A., Boari A. Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo; 1GI Lab, Department of Small Animal Medicine and Surgery, Texas A&M University. Parole chiave: leishmaniosi, gatto, biopsia, PCR. Key words: leishmaniosis, cat, biopsy, PCR. SUMMARY – The Authors report a case of leishmaniosis in a 3 year-old, short haired, domestic cat with intermittent fever, partial anorexia, chronic vomiting, and weight loss. Abdominal palpation and ultrasonography demonstrated enlargement of mesenteric lymph nodes associated with a moderate increased thickness of the intestinal wall. Malabsorption syndrome was confirmed by hypoalbuminemia and low serum folate. Diagnosis of leishmaniosis was made on either a high IFAT titre for Leishmania infantum antibodies (1:320) and a positive qualitative and quantitative PCR for L. infantum (IPT1 ZMON-1 strain) on bioptic samples obtained from duodenum, jejunum, ileum, pancreas, mesenteric lymph node and bone marrow. This report suggests that leishmaniosis should be included in the differential diagnosis when evaluating cats from endemic areas presented with chronic gastrointestinal signs. INTRODUZIONE – La leishmaniosi felina è segnalata in diversi Paesi del Mediterraneo, Asia ed America.(1,2,3) Nel gatto la forma clinica più frequentemente riportata è quella cutanea, rappresentata soprattutto da ulcere crostose, noduli, alopecia simmetrica e cisti ematiche. (2,4,5,6,7,8) La forma viscerale è assai più rara e sono segnalati casi con interessamento epatico, linfonodale, midollare, splenico, gastrointestinale e oculare.(5,6,7,8,9) Dalla bibliografia da noi consultata, in Italia sono stati documentati solo 5 casi clinici di leishmaniosi felina, a localizzazione dominantemente cutanea, di cui 4 in Sicilia (10) ed 1 in Liguria.(8) Scopo del presente lavoro è descrivere il primo caso di leishmaniosi viscerale felina in Abruzzo, caratterizzatosi per una singolare localizzazione intestinale associata a malassorbimento. CASO CLINICO – Un gatto domestico a pelo corto, di 3 anni, maschio castrato è stato inviato a visita presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università degli Studi di Teramo per disoressia, dimagrimento, febbre intermittente e vomito presenti da 5 settimane. All’esame fisico il gatto mostrava scadente stato di nutrizione (3/9 BCS), letargia, disidratazione (8%) e febbre (39.7°C). Alla palpazione dell’addome era apprezzabile una massa epigastrica delle dimensioni di una nocciola, mobile, a superficie irregolare. La massa poteva ritenersi ascrivibile al pancreas, o ad un linfonodo mesenterico o ad una infiltrazione intestinale localizzata. Era inoltre apprezzabile un moderato ispessimento della parete dell’intestino. Gli esami di laboratorio evidenziavano marcata leucocitosi (45,4 x 109 cell/L; range 6,3-19,6 x 109 cell/L) con neutrofilia matura, linfociti attivati, macropiastrinemia, iperproteinemia (9,5 g/dl; range 5,8-8,0 g/dL) con ipoalbuminemia (2,2 g/dl; range 2,5-4,0 g/dl) e un significativo aumento delle globuline (7,3 g/dL; range 2,8-5,5 g/dL). Sul tracciato elettroforetico era evidente un picco della frazione gamma pari al 53,99% delle proteine totali. L’esame delle urine, comprensivo del rapporto urinario proteine/creatinina, era nella norma. Gli esami coprologico e sierologici per FIV, FeLV, Coronavirus ed Ehrlichia canis risultavano negativi, mentre il titolo anticorpale per L. infantum (IFI) era positivo (1:320). Per una più accurata valutazione del pancreas esocrino e della funzionalità intestinale, un campione di siero veniva inviato al Gastrointestinal Laboratory della Texas A&M University per la determinazione di folati, cobalamina, immunoreattività tripsino-simile felina (fTLI) e immunoreattività lipasica pancreatica felina (fPLI). Mentre i folati risultavano notevolmente al di sotto della norma (4,8 µg/dl; range 9,7-21,6 µg/dl), a significare la presenza di malassorbimento riferibile al tratto prossimale del tenue, la cobalamina, i valori di fTLI e fPLI rientravano negli intervalli di riferimento. L’ecografia addominale permetteva di ascrivere la massa epigastrica ad un linfonodo meseraico confermando la presenza di un ispessimento diffuso della parete intestinale associato ad alterazione dell’architettura del viscere. Durante la

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laparotomia esplorativa, che confermava i rilievi oggettivi clinico-ecografici, venivano effettuati un ago aspirato linfonodale e alcune biopsie di pancreas, duodeno, digiuno e ileo. Contestualmente veniva ottenuta dalla cresta iliaca una biopsia del midollo osseo. Tutti i campioni venivano sottoposti ad esami citologici, istologici e a PCR per L. infantum. I risultati documentavano la presenza di un processo flogistico cronico aspecifico a livello di midollo osseo associato ad una moderata enterite linfocitaria localizzata soprattutto al duodeno e all’ileo, mentre il linfonodo mesenterico mostrava un’iperplasia linfoide mista. Nei preparati citologici non era possibile evidenziare alcun parassita. La PCR, qualitativa e quantitativa, risultava positiva per il ceppo IPT1 ZMON-1 su tutti i campioni bioptici inviati. A seguito del rifiuto del proprietario ad utilizzare la meglumina antimoniato, il soggetto veniva trattato con allopurinolo per OS (15 mg/kg/BID) e sottoposto a terapia di sostegno. Dopo circa 15 giorni, e in conseguenza del peggioramento delle condizioni cliniche del soggetto, i proprietari decidevano per l’eutanasia non dando tuttavia l’autorizzazione alla necroscopia. CONCLUSIONI – In letteratura, le non frequenti descrizioni di casi clinici di leishmaniosi nel gatto riguardano soprattutto quadri clinici cutanei. Le forme viscerali rappresentano un’evenienza piuttosto rara e la localizzazione all’apparato gastro-intestinale è riportata solo in un caso (6) dove lesioni infiltrative venivano documentate a livello di stomaco e colon. Nel caso da noi presentato, i segni clinici, le analisi di laboratorio, l’ecografia addominale e l’esame istopatologico deponevano per una malattia infiammatoria cronica del piccolo intestino associata a malassorbimento con probabile proteino-dispersione intestinale. A conferma di questi due ultimi quadri disfunzionali enterici, deponevano il dimagrimento, l’ipoalbuminemia e i bassi valori dei folati sierici. Considerata la naturale resistenza del gatto nei confronti della carenza di folati (Williams, dati non pubblicati), nel nostro caso il basso valore dei folati sarebbe fortemente indicativo di lesioni infiltrative intestinali piuttosto gravi ed estese. Il sospetto clinico di leishmaniosi, confermato poi dalla sierologia e dalla biologia molecolare, era suggerito sia dall’alta prevalenza della leishmaniosi canina in Abruzzo sia dai reperti elettroforetici delle proteine sieriche (marcata iperproteinemia, ipoalbuminemia e iper-γ-globulinemia). Le modificazioni siero proteiche da noi osservate sono in accordo con i risultati di un nostro recente studio sull’elettroforesi delle proteine sieriche condotto su 25 gatti sieropositivi per L. infantum.(11) Nel gatto, la forma di leishmaniosi viscerale viene ritenuta espressione di una disfunzione immunitaria legata ad una alterata risposta cellulo-mediata come si può anche verificare in corso di stress o di infezione da FeLV o FIV.(5) La negatività sierologica per tali infezioni virali rilevata nel nostro caso, in accordo con la scarsa prevalenza di coinfezioni da FIV (13.9%) in soggetti sieropositivi per anticorpi anti-L. infantum nella regione Abruzzo,(12) sembra non supportare l’ipotesi che coinfezioni con virus immunosoppressivi favoriscano l’evoluzione della leishmaniosi felina. Un altro dato di interesse epidemiologico è l’identificazione di L. infantum quale responsabile dell’infezione. Questo a conferma che, nel gatto, il parassita responsabile è lo stesso della leishmaniosi umana e canina. Sulla base della bibliografia consultata, il caso clinico qui riportato rappresenta la prima segnalazione di Leishmaniosi viscerale nel gatto nella regione Abruzzo e la localizzazione intestinale associata a malassorbimento appare estremamente singolare. Pur nella consapevolezza della difficoltà oggettiva di dimostrare inconfutabilmente la correlazione fra la Leishmaniosi e le lesioni infiltrative intestinali, riteniamo tuttavia opportuno ribadire come la Leishmaniosi, in zone endemiche per la specie canina, dovrebbe essere sempre ricompresa nella diagnosi differenziale di gatti con segni non solo cutanei ma anche gastrointestinali cronici. BIBLIOGRAFIA – 1) Dunan S et al (1989) Bull Soc Fr Parasitol, 7: 17-20. 2) Bonfante-Garrido R et al (1991) Trans R Soc Trop Med Hyg, 85: 53. 3) Machattie C et al (1931) Trans R Soc Trop Med Hyg, 25: 103-106. 4) Craig TM et al (1986) Am J Trop Med Hyg, 35: 1100-1102. 5) Ozon C et al (1998) Vet Parasitol, 75, 273-277. 6) Hervás J et al (1999) J Feline Med Surg, 1, 101-105. 7) Pennisi MG (1999) 24th WSAVA Congress (Lyon – France). 8) Poli A et al (2002) Vet Parasitol, 106, 181-191. 9) Hervas J et al (2001) Vet Rec, 149: 624-625. 10) Pennisi MG (2003) Atti SISVet, LVII, 335-336. 11) Vita S, et al (2005) Atti SISVet LIX, inviato per la pubblicazione. 12) Boari et al. (2005) 3rd World Congress on Leishmaniosis, (Palermo - Italy).

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VALUTAZIONI DELLE PROTEINE TOTALI E DELLE FRAZIONI SI ERO PROTEICHE IN GATTI NATURALMENTE INFETTI DA LEISHMANIA INFANTUM – NOTA PRELIMINARE

EVALUATION OF TOTAL PROTEINS AND SERUM PROTEIN FRACTI ONS IN CATS NATURALLY INFECTED BY LEISHMANIA INFANTUM – PRELIMINARY STUDY

Vi ta S., Dalessandri A., Alfonzetti T.1, Britti D., Boari A. Dip. Scienze Cliniche Veterinarie, Università di Teramo; 1CReNaL, I.Z.S. della Sicilia.

Parole chiave : leishmaniasi, gatto, proteine totali, rapporto A/G, elettroforesi. Key words: leishmaniasis, cat, total protein, A/G ratio, electrophoresis.

SUMMARY – The aim of this study was to measure the TP, A/G ratio, and serum protein fractions for 22 cats positive to both IFAT titre and blood PCR for L. infantum (Group A) and to compare these data with those obtained for healthy cats (Group B). The results showed statistical differences between Group A and Group B for albumin, γ-globulins and A/G ratio (P<0.0001). After dividing Group A according to the IFAT titre, we compared 1:40 positive cats (n. 14) to Group B, exhibiting same statistical significance from overall Group A. Comparing 1:80 positive cats (n. 6) to Group B we obtained statistical differences for A/G ratio (P<0.0001), albumin (P=0.006), α1-globulins (P=0.047), α2-globulins (P=0.024) and γ-globulins (P=0.0002). Finally, we compared Group A asymptomatic cats (n.10) to Group B and we observed statistically significant differences for the A/G ratio (P<0.0001), γ-globulins (P<0.0001), and albumin (P=0.0002).

INTRODUZIONE – Nella Leishmaniosi canina, parametri laboratoristici quali le proteine totali (PT), il rapporto albumine/globuline (A/G) e le singole frazioni siero proteiche vengono da tempo utilizzati per il loro particolare significato diagnostico e per il valido indirizzo clinico fornito durante il monitoraggio della malattia.(1,2,3) In corso di leishmaniosi canina, le PT possono risultare fortemente o leggermente aumentate o addirittura normali a seconda del grado di diminuzione dell’albumina che spesso accompagna l’aumento di β- e γ-globuline. All’aumento di quest’ultime, attribuibile all’attivazione dei linfociti B,(3) consegue una inversione del rapporto A/G. L’ipoalbuminemia esprime la comparsa di proteino-dispersione glomerulare o intestinale(1) oppure una insufficiente sintesi epatica di solito evidente nelle fasi di cronicizzazione della malattia.(2) Riguardo le frazioni proteiche valutabili attraverso il tracciato elettroforetico, nella leishmaniosi canina è frequente l’aumento di β- e γ-globuline con comparsa di caratteristici picchi. In corso di leishmaniosi felina, alcuni Autori hanno osservato un aumento delle PT associato a iper-γ-globulinemia e ipoalbuminemia con inversione del rapporto A/G e variazioni delle frazioni α-globuliniche.(4,5,6,7,8) Secondo altri Autori, invece, nella leishmaniosi felina le modificazioni siero proteiche risultano assenti o più contenute rispetto a quanto avviene nel cane.(9,10) In letteratura, dai dati a nostra disposizione, vi è un solo studio riguardante il comportamento siero proteico in un gruppo di gatti PCR-positivi per L. infantum e positività per FIV.(11) Scopo del presente lavoro è di portare un contributo allo studio del comportamento delle PT e delle singole frazioni siero proteiche in gatti positivi per anticorpi anti-L. infantum.

MATERIALI E METODI – Lo studio è stato condotto su n. 25 gatti domestici (Gruppo A), 16 femmine e 9 maschi, età compresa tra 3 mesi e 16 anni, risultati positivi al test di immunofluorescenza indiretta (IFI) per anticorpi anti-L. infantum ai seguenti titoli: 40 (n.16); 80 (n.7); 160 (n.1) e 320 (n.1). Gli stessi soggetti erano positivi alla PCR qualitativa su sangue per L. infantum. Alcuni gatti erano clinicamente asintomatici (n.10), mentre gli altri presentavano quadri riferibili a insufficienza renale cronica (n.1), malattie virali respiratorie (n.4), malattia infiammatoria intestinale (n.1), dermatite allergica da pulci (n.1), modesta adenomegalia (n.5) e in tre soggetti erano presenti disoressia e dimagrimento. Il controllo negativo era costituito da n. 25 gatti (Gruppo B), 15 femmine e 10 maschi, età compresa tra 6 mesi e 15 anni, e di questi 19 gatti domestici, 4 siamesi, 2 persiani, clinicamente sani e risultati negativi al test IFI per Leishmania. Su ciascun campione di siero dei due gruppi sono stati determinati: livelli di PT e albumina, rapporto albumine/globuline (A/G) ed elettroforesi delle proteine. PT ed albumina sono state determinate con un analizzatore per biochimica clinica (Olympus AU400), mentre il tracciato elettroforetico, e relativo frazionamento

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proteico, con uno strumento automatico (Amplimedical Esprime72). I sieri del gruppo A e del gruppo B venivano testati per anticorpi anti-FIV e antigeni FeLV (SNAP Combo Plus®) e anticorpi anti-Coronavirus (IFI). I dati ottenuti sono stati sottoposti ad elaborazione statistica (test t di Student per dati non appaiati - software GraphPad Prism 4.03) con livello di significatività fissato per P<0.05.

RISULTATI – Tutti i gatti del Gruppo A e del Gruppo B risultavano negativi ai test per FIV, FeLV e Coronavirus tranne tre soggetti del Gruppo A (12%) che, positivi per FIV, venivano esclusi dalle successive elaborazioni statistiche. I risultati delle analisi effettuate sul siero dei due gruppi, espressi come valori medi ± ds e intervallo di confidenza al 95% (IC95%), sono riassunti in tabella. Dal confronto statistico tra i valori dei gatti sieropositivi per Leishmania (Gruppo A) e quelli sieronegativi (Gruppo B) è risultata un’elevata significatività (P<0.0001) per albumina, γ-globuline e rapporto A/G. La comparazione statistica tra i valori dei 14 soggetti positivi a titolo 40 con quelli del gruppo B ha mostrato significatività sovrapponibili a

quelle osservate tra il Gruppo A nella sua totalità e il Gruppo B. Dal confronto fra i 6 soggetti positivi a titolo 80 e i valori del Gruppo B, si sono registrate le seguenti significatività: rapporto A/G (P<0.0001), albumina (P=0.006), α1-globuline (P=0.047), α2-globuline (P=0.024) e γ-globuline (P=0.0002). Infine, comparando i valori del Gruppo B con quelli dei soggetti clinicamente asintomatici del Gruppo A (n.10), sono state ottenute significatività per i seguenti parametri: rapporto A/G e γ-globuline (P<0.0001), albumine (P=0.0002).

CONCLUSIONI – Dalle nostre indagini emerge come nei gatti naturalmente infetti da L. infantum, il comportamento delle PT, del rapporto A/G e del tracciato elettroforetico siero proteico, non è dissimile da quanto osservato nel cane con leishmaniosi.(1,2,3) In particolare, anche nella specie felina, la sieropositività sembra associata all’inversione del rapporto A/G riconducibile a ipoalbuminemia e iper-γ-globulinemia. Tale rilievo assume ancor più importanza essendo stato da noi osservato anche nei soggetti sieropositivi asintomatici. Dalla suddivisione del Gruppo A in base alle positività sierologiche è emerso come i 14 soggetti con titolo 40 ripropongono le stesse significatività del gruppo nel suo complesso mentre i 6 soggetti con titolo 80 fanno registrare in più un aumento significativo delle α1- (P=0.047) e delle α2-globuline (P=0.024). Considerando come l’aumento della frazione α-globulinica è generalmente associato a fenomeni di infiammazione acuta,(12) ne consegue che le variazioni riscontrate nei soggetti con diverso titolo anticorpale potrebbero dipendere da differenti stadi dell’infezione. Siamo tuttavia consapevoli che, essendovi solo una diluizione di differenza, i gruppi così formati potrebbero sembrare arbitrari. Per poter disporre di dati più definitivi, sarà necessario ampliare il campione dei sieropositivi, ottenendo gruppi più rappresentativi per titolo anticorpale e disporre di un follow-up di questi soggetti sul quale valutare le relazioni tra le modificazioni dei parametri considerati e il decorso dell’infezione. In conclusione, sulla base dei risultati ottenuti, riteniamo opportuno proporre, anche nella specie felina, l’utilizzo di questi parametri laboratoristici quale importante indirizzo di sospetto diagnostico nei confronti dell’infezione da L. infantum soprattutto nelle aree endemiche per leishmaniosi.

BIBLIOGRAFIA - 1) Ceci L, Petazzi F (1983) Atti SISVet, 37: 394-396; 2) Bizzetti M et al (1989) in La Leishmaniosi canina, Ed. SCIVAC; 43-59. 2) Ciaramella P, De Luna R (1999) ODV, 4: 13-25. 3) Bungener W, Mehlitz D (1977) Tropenmed Parasitol 28: 175-180. 4) Laurelle-Magalon C, Toga I, (1996) Prat Med Chir Anim Comp, 31, 255-261. 5) Hervas J et al (1999) Spain J Feline Med Surg, 1, 101-105. 6) Ozon C et al. (1998) Vet Parasit, 75, 273-277. 7) Pennisi MG (2002) Proc 2nd Int Canine Leishmaniasis Forum (Sevilla-Spain), 39-48. 8) Poli A et al (2002) Vet Parasitol, 106, 181-191. 9) Athias A (1991) Parasitología Clinica. Publicaciones Técnicas Mediterraneo. Santiago de Chile, 248-259. 10) Merchant SR, Taboada J (1995) Vet Clin North Am Small Anim Pract. 25: 999-1016. 11) Pennisi MG et al (2000) Atti SISVet, 54: 215-216. 12) Kaneko JJ (1997) in Kaneko JJ et al Clinical Biochemistry of domestic Animals 5th Ed. Academic Press, San Diego: 117-138.

PT

(g/dL) A/G Albumina

(g/dL) αααα1 1 1 1

(g/dL) αααα2 2 2 2

(g/dL) ββββ1 1 1 1

(g/dL) ββββ2222

(g/dL) γ γ γ γ

(g/dL)

Gruppo A 7,41 ± 0,99 (5,6 – 9,1)

0,64 ± 0,21 (0,4 – 1)

2,80 ± 0,55 (2,2 – 3,6)

0,13 ± 0,06 (0,05 – 0,2)

1,29 ± 0,42 (0,7 – 1,8)

0,42 ± 0,14 (0,3 – 0,7)

0,48 ± 0,15 (0,3 – 0,7)

2,31 ± 0,89 (1,2 – 3,8)

Gruppo B 6,88 ± 0,68 (5,8 – 7,8)

1,11 ± 0,16 (0,9 – 1,3)

3,59 ± 0,34 (3,1 – 3,9)

0,10 ± 0,02 (0,17 – 0,14)

1,25 ± 0,27 (0,9 – 1,7)

0,46 ± 0,17 (0,3 – 0,7)

0,45 ± 0,14 (0,3 – 0,6)

1,14 ± 0,38 (0,7 – 1,7)

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ARITMIA VENTRICOLARE E MORTE IMPROVVISA IN UN CUCCIOLO DI SETTER IRLANDESE CON UNA LUNGA FIBRA DI PURKINJE VENTRICULAR ARRHYTHMIA AND SUDDEN DEATH IN AN IRISH SETTER PUPPY WITH AN EXCESSIVELY LONG PURKINJE FIBER Porciello F., Moise N.S.*, Birettoni F., Lepri E., Balducci M., Fruganti G. Università degli Studi di Perugia, *Cornell University, Ithaca, New York Parole chiave: cane, aritmia ventricolare, morte improvvisa, fibra di Purkinje. Key words: dog, ventricular arrhythmia, sudden death, Purkinje fiber. SUMMARY - Young dogs with ventricular arrhythmias (VA) are uncommon. We describe a 3-month old Irish Setter presented with episodes of collapse. Twenty-four hour ECG (Holter) monitoring revealed frequent VA and ventricular tachycardia. The rate and morphology were similar to that of the German Shepherd (GS) with inherited VA. Echocardiographic examination was normal except for a thin hyperechoic structure (Purkinje fiber) traversing the LV chamber. Movement of the structure was profound with blood flow. The dog died suddenly in the morning. Necropsy confirmed the presence of an excessively long Purkinje fiber (Pf) in the left ventricle without other abnormalities. The Holter recording of this dog was compared to 7 non GS dogs less than 10-months of age with VA and normal echo except for 2 dogs with a long Purkinje fiber. The VA amongst these dogs was similar. Therefore, similar VA in non GS young dogs exists. The role of the long Pf is speculative. INTRODUZIONE – Le tachiaritmie d’origine ventricolare si riscontrano frequentemente negli animali da compagnia come reperti sia di miocardiopatie che di malattie non primitivamente cardiache (1). Tali aritmie sono peculiarmente da correlare alla morte improvvisa del pastore tedesco ed alla cardiopatia dei boxer e dei pinscher, possono associarsi a dilatazione e torsione gastrica ed a presenza di masse spleniche, nonché possono caratterizzare eventi sincopali ricorrenti. La tachicardia ventricolare è ereditaria in alcune famiglie di cani di razza pastore tedesco e comporta tendenza alla morte improvvisa, durante il sonno o quando l’animale riposa dopo momenti di attività motoria o di eccitazione (2). Tale aritmia ereditaria sembra non legata ad un gene autosomico recessivo ed al sesso, ma dipendente dall’età. Essa, infatti, si manifesta in animali di 4 - 18 mesi d’età, probabilmente a motivo della complessa interazione tra la maturazione anatomica e funzionale dei tessuti coinvolti e gli effetti della stimolazione neurovegetativa. In medicina umana, alcune varianti di tachicardia ventricolare polimorfa, associata a sincope e morte improvvisa, si verificano non solo in assenza di alterazioni cardiache strutturali, ma anche in presenza di intervalli QT normali e cicli di accoppiamento cortissimi tanto da rendere particolarmente elevato il rischio di fibrillazione ventricolare (1,3). Inoltre, sempre nell’uomo, la c.d. Tachicardia Ventricolare Sinistra Idiopatica (ILVT) è stata correlata alla presenza di falsi tendini (fibre di Purkinje) nel lume del ventricolo sinistro, quale substrato anatomico aritmogeno del “rientro” elettrico (3). Pertanto abbiamo ritenuto interessante segnalare un caso di aritmia ventricolare e morte improvvisa in un cucciolo Setter Irlandese con una lunga fibra di Purkinje pervenuto alla nostra osservazione. Esso, peraltro, rappresenta una rara analogia con quanto descritto nel pastore tedesco presso la Cornell University ed offre spunti per approfondimenti nel campo della patologia comparata della morte improvvisa di origine cardiaca. MATERIALI E METODI – Trattasi di un Setter Irlandese, femmina, di 3 mesi di età, condotto in visita a motivo di episodi sincopali ricorrenti almeno da un mese e mezzo. Le crisi si ripetevano fino a 6 volte al giorno, duravano pochi istanti, con parziale perdita di coscienza, e risolvevano spontaneamente. Il cane è stato sottoposto ad esame clinico diretto, elettrocardiografia standard, ecocardiografia, registrazione Holter 24h (strumento digitale Braemer DL700) e determinazione di parametri ematologici ed ematochimici di routine, nonchè degli elettroliti plasmatici e troponina sierica. Le registrazioni dell’attività elettrica cardiaca sono state confrontate con quelle ottenute presso la Cornell University sulla colonia di pastori tedeschi affetti dalla sindrome “morte improvvisa” e su 7 soggetti di razza diversa

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(2 Labrador, 3 Golden Retriever e 1 Weimaraner ed 1 Mastiff) mostranti tachiaritmia ventricolare idiopatica. Alla morte spontanea del soggetto sopraggiunta a 72 ore dal ricovero, hanno fatto seguito la necroscopia, il sezionamento del cuore e l’osservazione istologica ed istochimica di campioni di tessuto fissati in formalina neutra tamponata al 10%, routinariamente processati, e colorati con ematossilina-eosina, PAS e Van Gieson. RISULTATI – L’esame fisico ha consentito il rilievo di una deformità toracica caratterizzata da concavità delle regioni ventro-craniali di destra e accentuazione della convessità a sinistra e segni di aritmia cardiaca ad elevata frequenza. Questo disturbo del ritmo, in base ai rilievi ECGrafici ed Holter, è stato classificato come aritmia ventricolare polimorfa, alternata a bigeminismo extrasistolico ventricolare e brevi momenti di ritmo sinusale concentrati per lo più nelle ore serali (83492 i battiti sinusali totali/24h). Sono stati documentati, inoltre, brevi periodi di tachicardia ventricolare (264/24h), costituita da un massimo di 17 complessi con intervallo RR compreso tra 180 e 110 msec, in accorciamento progressivo e particolare incidenza durante le ore notturne (fig.1). I battiti ectopici totali sono risultati 98319/24h. L’esame ecocardiografico, accanto alle variazioni sempre diverse dei diametri camerali in relazione all’aritmia, ha evidenziato una struttura allungata, filiforme, che dall’endocardio apicale iperecogeno del muscolo papillare posteriore, attraversando il lume del ventricolo sinistro, raggiungeva l’endocardio settale del tratto di efflusso (fig.2). Tale struttura fluttuava nella camera ventricolare in relazione ai flussi ematici. Dei parametri di laboratorio sono risultati modificati dai limiti di riferimento quelli sierici di Calcio e Fosforo (rispettivamente pari a 5,24 e 8,8 mg/dl), Fosfatasi Alcalina (464 U/L), Creatina Chinasi (165 U/L) e Troponina I (1,48 ng/ml). Nel corso della nostra osservazione il cane ha presentato crisi sincopali anche in momenti di tranquillità. Nelle prime ore del mattino del secondo giorno di ricovero, il soggetto è stato rinvenuto morto. L’esame autoptico ha permesso di evidenziare all’interno del ventricolo sinistro una esile struttura cordoniforme di colore biancastro, lunga 3,5 cm, che si estendeva dalla porzione apicale del muscolo papillare posteriore al setto interventricolare, dove si inseriva circa 2 cm al di sotto della cuspide della semilunare aortica. Inoltre un cercine fibroso parallelo all’ostio valvolare, lungo circa 2 cm, è stato rinvenuto tra l’inserzione della corda e la valvola (fig.3). Istologicamente la corda appare delimitata da endocardio pavimentoso, al di sotto del quale si evidenzia un tessuto fibroso costituito da fasci compatti di fibre collagene con rari fibrociti. Immerse nello stroma fibroso si rinvengono cellule a margini ondulati non distinti, con ampio citoplasma debolmente acidofilo e nucleo centrale di forma ovale, riferibili per caratteri morfologici ed istochimici a miocardiociti. Le cellule tendono a disporsi in fila senza evidenza di dischi intercalari o striature citoplasmatiche. Le caratteristiche morfologiche di queste cellule sono compatibili con le fibre di Purkinje del tessuto di conduzione miocardico ed appaiono analoghe a gruppi di cellule osservate in sede subendocardica nel punto in cui la corda origina dalla parete cardiaca. CONCLUSIONI – La lunga fibra di Purkinje attraversante il lume del ventricolo sinistro depone per l’esistenza anche nel cane, come nell’uomo, di substrati anatomici dell’aritmia ventricolare idiopatica. Le registrazioni dell’attività elettrica cardiaca, peraltro, sono sovrapponibili a quelle osservate in pastori tedeschi affetti dalla sindrome “morte improvvisa” e nei 7 soggetti di razza diversa, tuttora in vita presso la Cornell University. Pertanto la tachiaritmia ventricolare idiopatica giovanile sembra essere presente in razze diverse dal Pastore Tedesco e colpire anche il Setter Irlandese, esitando in morte improvvisa.

fig.1 fig.2 fig.3 BIBLIOGRAFIA – 1) Braunwald E. (2004) Heart Disease: a Textbook of Cardiovascular Medicine, 7th Ed, W.B. Saunders Co. 2) Moïse NS (2000) J.Cardiac Electrophysiology 11:1342-1344. 3) R.K. Thakur et al. (1996) Circulation 93:497-501.

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RITMO IDIOVENTRICOLARE ACCELERATO NEL CANE: 9 CASI CLI NICI ACCELERATED IDIOVENTRICULAR RHYTHM IN 9 DOGS Guglielmini C., Diana A.*, Civitella C., Diana D.*, Luciani A., Cipone M.*, (Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo; *Dipartimento Clinico Veterinario, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna) Parole chiave: cane, sistema cardiovascolare, elettrocardiografia, aritmia cardiaca. Key words: dog, cardiovascular system, electrocardiography, cardiac arrhythmia SUMMARY - The clinical, electrocardiographic and diagnostic tests findings, and outcome of 9 dogs with accelerated idioventricular rhythm (AIVR) are described. Different systemic disorders including septicaemia of various origin, acute pancreatitis, lymphoblastic leukaemia, discospondilitis, and viper bite were diagnosed. One dog with seizures developed AIVR during anaesthesia to perform a CT scan. Elevated serum concentration of cTnI were found in all the five dogs in which this cardiac biomarker was determined. Conversion to sinus rhythm was obtained in all dogs following supportive therapy for the primary disorder. A specific antiarrhythmic drug (lidocaine) was employed in only 2 dogs. INTRODUZIONE – Il ritmo idioventricolare accelerato (RIVA) si definisce come un ritmo cardiaco ectopico caratterizzato dalla presenza di tre o più complessi ventricolari prematuri consecutivi che si verificano con frequenza superiore a quella di un normale ritmo ventricolare di scappamento (frequenza compresa tra 30 e 40 bpm), ma inferiore a quella tipica di una tachicardia ventricolare (TV).(2) Il RIVA consegue in genere ad alterazioni del miocardio ventricolare e l’aumentato automatismo delle fibre di Purkinje ne rappresenta il meccanismo elettrofisiologico d’innesco.(7) La differenza tra TV e RIVA è rappresentata dalla frequenza di scarica del focolaio ectopico.(2,7) Nell’uomo il limite superiore di frequenza cardiaca per differenziare un RIVA da una TV è fissato intorno a 110-120 bpm.(2) Nel cane, tale precisa demarcazione è difficile da stabilire, data l’estrema variabilità della frequenza cardiaca di base che caratterizza questa specie animale. Studi sperimentali, durante i quali un RIVA è stato provocato mediante inoculazione di formalina nel miocardio di cani sani, hanno indotto alcuni autori a stabilire un limite di frequenza ventricolare intorno a 180 bpm, al di sopra del quale si tratterebbe di TV anziché di RIVA.(3,9) Nei più autorevoli trattati di cardiologia veterinaria, il limite superiore viene fissato, invece, a frequenze più basse, comprese tra 110 e 160 bpm a seconda della taglia del soggetto.(1,4,6) Data la rarità di specifiche segnalazioni di casi di RIVA in letteratura canina, nella presente nota vengono descritti gli aspetti clinici e diagnostici collaterali di 9 casi di tale aritmia recentemente occorsi alla nostra osservazione. MATERIALI E METODI – Dalla revisione dei tracciati elettrocardiografici, eseguiti a riposo per almeno 2 minuti o secondo la tecnica Holter in cani sottoposti ad accertamenti clinici presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università di Teramo e il Dipartimento Clinico Veterinario dell’Università di Bologna durante il periodo gennaio 2001-dicembre 2004, sono stati selezionati i soggetti portatori di RIVA, definito in base alla presenza di tre o più complessi ventricolari consecutivi e frequenza compresa tra 60 e 140 al minuto. Di tali animali è stato ricavato il segnalamento, i riferimenti anamnestici, i rilievi clinici diretti e diagnostici collaterali, gli eventuali interventi terapeutici e il decorso clinico. RISULTATI – Su un totale di 423 cani sottoposti ad accertamenti elettrocardiografici durante il periodo in esame, 162 hanno presentato disturbi patologici di formazione dello stimolo e, fra questi ultimi, 69 soggetti (43%) sono risultati portatori di turbe del ritmo di origine ventricolare (extrasistolia ventricolare, TV e RIVA). In particolare, 9 cani hanno manifestato quale unica anomalia del ritmo un RIVA con frequenza cardiaca media pari a 109 ± 11complessi/minuto (range 65-135 complessi/minuto). In tutti i casi esaminati, i complessi ventricolari ectopici hanno presentato una morfologia a tipo blocco di branca destra (Figura 1). Le diagnosi definitive dei soggetti con RIVA hanno compreso: neuropatia centrale con

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setticemia (2 casi), stato setticemico per ferite da morso (1 caso) o secondario a terapia immunosoppressiva (1 caso), pancreatite acuta (1 caso), leucemia linfoblastica acuta (1 caso), discospondilite (1 caso), morso di vipera (1 caso); un ulteriore cane, sottoposto ad accertamenti diagnostici per crisi convulsive, ha presentato RIVA in corso di anestesia per esecuzione di una tomografia computerizzata. La leucocitosi neutrofila è risultata l’alterazione laboratoristica di più frequente riscontro nella nostra casistica (6 casi). Elevate concentrazioni sieriche di troponina cardiaca I (cTnI) sono state osservate nei 5 soggetti nei quali tale parametro è stato valutato: cTnI = 8,7±6,6 ng/ml (range 1,7-16,5 ng/ml, valore normale<0,7 ng/ml). In tutti i soggetti si è ottenuta cardioversione a ritmo sinusale entro 24-48 ore dalla diagnosi di RIVA. In soli 2 casi è stato utilizzato un farmaco antiaritmico di classe Ib (lidocaina), mentre in tutti gli altri casi la terapia ha compreso farmaci volti al trattamento del primitivo disturbo diagnosticato (antibiotici, fluidoterapia, ecc.). Figura 1: Monitoraggio Holter in un cane con ritmo idioventricolare accelerato associato a neuropatia centrale e setticemia. Gli ultimi tre complessi QRS rappresentano complessi ventricolari ectopici con una frequenza pari a120 bpm. CONCLUSIONI – Le aritmie di origine ventricolare sono di frequente riscontro in medicina canina e la loro malignità dipende dal grado di compromissione emodinamica che le caratterizza.(1,5) Il RIVA è un disturbo del ritmo cardiaco di natura benigna che insorge generalmente per coinvolgimento secondario del miocardio ventricolare. La nostra casistica conferma tale rilievo, dal momento che in ciascuno dei cani da noi osservati è stata ragionevolmente esclusa una malattia cardiaca primitiva. Tuttavia, l’innalzamento delle concentrazioni di cTnI, da noi osservato in tutti i soggetti nei quali tale biomarker di alterazione miocardica è stato valutato, suggerisce una probabile necrosi miocardica.(8) Stati setticemici di diversa origine e, più in generale, condizioni di neutrofilia ematica, sono stati da noi osservati con relativa frequenza in associazione con un RIVA. La risoluzione di tale forma di aritmia può avvenire spesso senza dover ricorrere a specifici trattamenti antiaritmici, come dimostrato anche dalla nostra casistica. Va sottolineato infine come, in analogia con quanto descritto nell’uomo, la morfologia dei complessi ventricolari in corso di RIVA indichi anche nel cane una localizzazione nel ventricolo sinistro quale sede d’origine del fenomeno aritmico (complessi QRS con morfologia a blocco di branca destra). BIBLIOGRAFIA – 1) COTE E., ETTINGER S.J. In: Textbook of Veterinary Internal Medicine, sixth ed. (2005), pp. 1040-1076. 2) GRIMM W., MARCHLINSKI F.E. In: Cardiac electrophysiology, from cell to bedside. Third edition. (2000), pp. 673-677. 3) ILVENTO J.P. et al. Am. J. Cardiol. (1982), 49:1909-1916. 4) KITTLESON M.D. In: Small animal cardiovascular medicine. (1998), pp. 449-494. 5) KNIGHT D.H. In: Kirk's Current Veterinary Therapy XIII ed. (2000), pp 730-733. 6) MOÏSE N.S. In: Textbook of canine and feline cardiology. Second edition. (1999), pp. 331-385. 7) OLGIN J.E., ZIPES D.P. In: Heart disease, A textbook of cardiovascular medicine. 6th edition. (2001), pp. 815-889. 8) OYAMA M.A., SISSON D.D. J. Vet. Intern. Med. (2004), 18: 831-839. 9) VASSALLE M. et al. Circ. Res. (1977), 41: 218-226.

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MONITORAGGIO HOLTER IN 22 CANI AFFETTI DA INSUFFICIEN ZA MITRALICA: DATI PRELIMINARI HOLTER MONITORING IN 22 DOGS WITH MITRAL REGURGITATION: PRELIMINARY RESULTS Crosara S.,(*) Santilli R.,(**) Savarino P.,(*) Zanatta R.,(*) Tarducci A.(*) (*) Dipartimento Patologia Animale, Torino; (**) Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate (VA) Parole chiave: Holter, elettrocardiogramma, mitrale, cane, aritmia. Key words: Holter, electrocardiogram, mitral valve, dog, arrhythmia. SUMMARY - Twenty-two dogs with mitral regurgitation and different class of heart failure (HF) were monitored with ambulatory ECG and Holter recording. The aim of this study was to evaluate the difference between the two techiniques in the diagnosis of concealed arrhythmias and to evaluate the presence of disrhythmias. The ECG showed serious arrhythmias in 6 dogs, whereas Holter monitoring detected them in 10 dogs. The mean frequency was higher during the ambulatory ECG registration. Holter monitoring showed that the higher heart rate occurred during activity or clinical exam. The frequency variability relative to the nycthemeral cycle was found in 14 dogs, most of them had mild HF. Holter monitoring showed to be an effective tool in dogs with mitral valve disease to diagnose concealed arrhythmias and to evaluate the heart rate during the rest, when the animal is not stressed. INTRODUZIONE – L’endocardiosi valvolare (degenerazione mixoide) è la causa più frequente di insufficienza mitralica nel cane, tuttavia vi sono poche segnalazioni in letteratura riguardo la presenza di aritmie in corso di patologia valvolare cronica in questa specie (1,2), mentre nell’uomo sono descritti disturbi del ritmo legati al prolasso valvolare (3,4,5). Nel corso di questo studio, condotto su cani affetti da insufficienza mitralica secondaria a patologia valvolare cronica, la diagnosi delle aritmie è stata ottenuta mediante il monitoraggio continuo Holter. L’elettrocardiogramma di superficie è infatti un utile strumento per la valutazione delle turbe di formazione e di conduzione dello stimolo, tuttavia trova dei limiti applicativi nella diagnosi delle aritmie parossistiche o nello studio della variabilità del ritmo, fornendo informazioni precise solo per il breve periodo della registrazione (6). Lo scopo di questo lavoro è stato valutare l’utilità della metodica Holter, confrontata all’ECG di superficie, nella diagnosi delle aritmie occulte e nel monitoraggio del ritmo e della frequenza cardiaca. Abbiamo, inoltre, valutato la variabilità del ritmo, relativamente ai cicli nictemerali, e l’eventuale presenza di aritmie che necessitino di una terapia farmacologica. MATERIALI E METODI - Presso il Dipartimento di Patologia Animale dell’Università di Torino sono stati sottoposti a esame ECG di superficie e a monitoraggio Holter 22 cani affetti da IM secondaria a patologia valvolare cronica. Tutti i cani erano di piccola-media taglia (15 meticci, 2 Yorkshire terrier, 2 Volpini, 1 Pastore Scozzese, 1 Cavalier King Charles Spaniel, 1 Cocker Spaniel), 15 maschi e 7 femmine, con peso medio di 10,3 Kg (± 4,8) ed età media di 11 anni (± 2,1). La diagnosi di IM è stata posta sulla base della visita cardiologica e di un esame ecocardiografico (apparecchio MEGAS GP – Esaote Biomedica, con sonde 5-3,5 mHz). Successivamente tutti i cani sono stati sottoposti ad esame ECG (elettrocardiografo modello P80 Powers – Esaote Biomedica) e ad esame Holter (registratore “Del Mar” modello “Aria” – Esaote Biomedica). L’esame ECG comprendeva la registrazione delle 6 derivazioni standard. Il monitoraggio Holter comprendeva la registrazione di tre derivazioni bipolari. Dopo l’applicazione del registratore, tutti i pazienti sono stati dimessi, ed ai proprietari è stata richiesta la compilazione di un diario delle principali attività del cane nel corso delle 24 ore successive. I tracciati Holter sono stati successivamente esaminati con un software specifico (Accuplus Holter Analysis System, Del Mar). Dalla valutazione del tacogramma che riporta le frequenze cardiache istantanee nel corso delle 24 ore di registrazione, si è valutata la variabilità della frequenza relativa ai cicli nictemerali. Si è considerata variabile una frequenza che presentasse una oscillazione almeno del 30% tra il giorno e la notte.

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RISULTATI - I cani presi in esame sono stati divisi in classi di insufficienza cardiaca secondo l’International Small Animal Cardiac Health Council (ISACHC) (7) come di seguito riportato: 5 cani in classe 1a, 2 in classe 1b, 12 in classe 2, e 3 in classe 3a. In tutti i cani è stato ottenuto un tracciato ECG di buona qualità. I risultati relativi all’ECG di superficie sono stati: frequenza cardiaca compresa tra 78 bpm e 240 bpm (148 ± 44.5 bpm), asse elettrico medio 73° (±13.4). Sette casi hanno evidenziato aritmie di origine sopraventricolare (2 fibrillazioni atriali, FA), 4 cani aritmie ventricolari, 13 cani non hanno evidenziato disturbi del ritmo. Per quanto riguarda l’esame Holter, si sono ottenute almeno 23 ore di registrazione in 19 cani. In tre soggetti sono state registrate 11, 17 e 19 ore. La media delle frequenze cardiache (FC) massime registrate è stata 197.8 bpm (±27.1); la media delle frequenze medie 108.8 bpm (±27.9); la media delle frequenze minime 66.4 bpm (±24.1). Le frequenze medie ottenute mediante esame Holter sono risultate più basse rispetto a quelle ottenute con l’ECG ambulatoriale. Quattordici cani hanno presentato normale variabilità della frequenza cardiaca dei cicli nictemerali, di questi, 7 appartenenti alla classe ISACHC 1, 6 alla classe 2 ed 1 alla classe 3. In 17 casi si sono evidenziate aritmie di origine sopraventricolare; di questi, 2 hanno presentato FA, 7 salve di tachicardia sopraventricolare (SVT), 1 sindrome del seno malato (SSS). In 14 casi si sono verificate aritmie di origine ventricolare; di questi, 5 cani hanno presentato bigeminismo ventricolare, 1 salve di tachicardia ventricolare (VT). Un cane ha presentato un blocco di branca destra (RBBB) intermittente. Sono stati messi a confronto i dati acquisiti mediante l’elettrocardiogramma di superficie e quelli della registrazione Holter. Dall’esame ECG 6/22 cani hanno presentato aritmie che potevano essere considerate clinicamente significative (2 cani con FA ed ectopie ventricolari, 2 con salve SVT, 1 con salve di VT ed 1 con numerose ectopie di origine ventricolare e sopraventricolare). Dai dati Holter, invece, 10/22 cani hanno presentato aritmie di origine sia ventricolare, sia sopraventricolare che sono state considerate clinicamente e prognosticamente significative per l’animale. CONCLUSIONI – L’analisi di questi dati preliminari evidenzia che i cani con IM possono essere frequentemente affetti da concomitanti disturbi del ritmo. La frequenza media nel corso delle 24 ore è risultata più bassa rispetto alla frequenza registrata nel corso della visita clinica quando l’animale è sotto stress; ciò può portare alla diagnosi errata di tachicardia sinusale in un soggetto che a riposo, in un ambiente a lui famigliare, presenta una frequenza assolutamente normale. Le frequenze massime registrate mediante l’Holter sono risultate più alte rispetto alla frequenza media degli ECG, ma è da sottolineare che tali rialzi coincidono con i momenti di attività fisica e con il momento dell’applicazione del registratore. L’esame della variabilità della frequenza ha evidenziato che tutti i cani in classe ISACHC 1 presentavano rilevanti oscillazioni relativamente ai cicli nictemerali, segno di un mantenuto equilibrio simpato-vagale; la variabilità era mantenuta anche in 6 cani in classe 2 ed in uno in classe 3a. Relativamente al riscontro di aritmie, come già descritto in letteratura, l’Holter possiede una maggior sensibilità e specificità nella diagnosi delle aritmie parossistiche, ciò sembra essere confermato dai nostri dati. Nessuno dei pazienti in classe 1 presentava aritmie clinicamente significative, mentre 2 cani in classe 3 e 6 in classe 2 hanno evidenziato disturbi del ritmo in grado di compromettere l’emodinamica cardiaca (es. FA) o indicativi di una prognosi peggiore (VT, SVT, frequenti ectopie ventricolari). L’esame Holter in corso di IM può risultare un utile strumento per la diagnosi delle aritmie occulte e per il monitoraggio della frequenza cardiaca; il suo utilizzo può inoltre migliorare il monitoraggio della terapia antiaritmica, nonchè permettere un controllo più accurato della frequenza cardiaca del paziente. BIBLIOGRAFIA - 1) Olsen LH et al (1999) J Vet Cardiology, 1(2): 7-16. 2) Haggstrom J et al (1996) J Small Anim Pract, 37(2): 69-75. 3) Schaal SF (2000), In Boudoulais H, Wooley CF: Mitral valve: Floppy mitral valve, Mitral valve prolapse, Mitral valvular regurgitation, ed. Futura, NY, 409-430. 4) Winkle RA et al (1975) Circulation, 52(1): 73-81. 5) Zuppiroli A et al (1994) Am Heart J, 128(5): 919-927. 6) Borgarelli M et al (1997) Veterinaria, 11(2): 5-15. 7) The International Small Animal Cardiac Health Council (ISACHC). Recommendations for the diagnosis and the treatment of heart failure in small animals, 1994.

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FUNZIONE SISTOLICA VALUTATA MEDIANTE ESAME ECOCARDIOG RAFICO IN CANI DI PICCOLA E GROSSA TAGLIA ECHOCARDIOGRAPHIC EVALUATION OF SYSTOLIC FUNCTION IN SMALL AND LARGE BREED DOGS Borgarelli M., Crosara S., Savarino P., Zanatta R., Cagnasso A. (Dipartimento di Patologia Animale), Grugliasco (TO) Parole chiave: cane, funzione sistolica, ecocardiografia Key words: dog, systolic function, echocardiography SUMMARY Echocardiographic systolic function of 17 normal small breed (SB) dogs (<15 Kg), were compared to those of a 32 normal large breed (LB) dogs (<20 Kg). M-mode measurements included left ventricular end-diastolic diameter (EDD) and left ventricular end-systolic diameter (ESD). From these, fractional shortening (FS), ejection fraction (EF), end-diastolic volume index (EDV-I) and end-systolic volume index (ESV-I) were obtained. B-mode ejection fraction (2D-EF) was obtained from left apical view. SB dogs had higher (p<0.05) FS (40.06+8.9% vs 27+7.3%) and EF (70.75+9.2% vs 56.85+10.2%), and lower ESV-I (21.18+13.9 vs 36.43+13.3 ml/m2).The EDV-I was not significant different. In LB dogs b-EF was higher (p<0.05) compared to EF (53.9+12.6 vs 67.1+8.0), whereas in SB the difference was not significant. B-EF was not significant different between groups. These results suggest that SB and LB dogs have a different contraction pattern, but a similar global systolic function. INTRODUZIONE – L’esame ecocardiografico rappresenta la metodica di riferimento per la valutazione non invasiva della funzione sistolica. Tuttavia, la maggior parte degli indici di funzione sistolica comunemente utilizzati, quali la frazione di accorciamento (FS), e la frazione di eiezione (EF) sono dipendenti dalla contrattilità intrinseca del miocardio, dallo stress parietale e dal pre e post carico (1,2). Altre variabili che possono influire sulle misure ecocardiografiche sono razza, età, peso e sesso (3). Recentemente l’indice di volume telesistolico (ESV-I) è stato proposto come indicatore più accurato della funzione sistolica, in quanto dipende solo dal post carico. Tuttavia, questo indice è ottenuto a partire dalle misure M-mode ed i valori normali proposti (30 ml/m2) sono riferiti ai valori di medicina umana e non sono mai stati testati in cani di razze e peso differenti (2). Infine, poiché i parametri descritti sono ottenuti dalle misurazioni mono dimensionali, essi risentono anche di eventuali disfunzioni della contrattilità regionale. Sotto questo aspetto il calcolo della EF mediante metodica B-mode (2D-EF), meglio rappresenta la reale funzione globale sistolica. Recentemente il nostro gruppo ha descritto che i cani di grossa taglia affetti da insufficienza mitralica, presentano più comunemente una disfunzione sistolica, rispetto a quelli di piccola taglia (4). Questa differenza potrebbe essere determinata da un deficit di contrattilità, da una differente modalità di contrazione o da entrambe. Lo scopo di questo studio è stato quello di comparare i valori di FS, EF, e ESV-I in due gruppi di cani, uno di piccola (SB) ed uno di grossa (LB) taglia. Inoltre, i valori di EF ottenuti dalle misurazioni M-mode sono stati comparati con quelli ottenuti mediante metodica B-mode sia all’interno dei singoli gruppi sia tra i 2 gruppi di studio, al fine di definire se esistano modalità di contrazione differenti. MATERIALI E METODI – Presso l’Ospedale Didattico della Facoltà di Medicina Veterinaria di Grugliasco, sono stati prospetticamente esaminati 49 cani di razza e taglia differente. I cani sono stati divisi in 2 gruppi in base al peso. Diciassette cani, di razze diverse (5 maschi e 12 femmine) e di peso inferiore a 15 Kg, sono stati inseriti nel gruppo di cani di piccola taglia (SB), mentre 32 cani di razze diverse (17 maschi e 15 femmine) e di peso superiore a 20 Kg, sono stati inseriti nel gruppo di cani di grossa taglia (LB). I cani sono stati considerati cardiologicamente sani sulla base di un esame clinico, di una pressione sistolica nella norma (<180 mmHg) e di assenza di segni ecocardiografici di patologia cardiovascolare. La pressione sistolica è stata misurata con la metodica Doppler utilizzando un sfigmomanometro Doppler Parke Medical Electronic modello 811-B, con sonda da 8.5 MHz. Tutti i cani sono stati sottoposti ad esame ecocardiografico M e B-mode, utilizzando un

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ecocardiografo ESAOTE Megas con sonde da 5-3.5 e 3.5-2.5 MHz. Utilizzando la proiezione parasternale destra asse corto sono state ottenute le misure M-mode del ventricolo sinistro in sistole (ESD) e diastole (EDD). Da queste sono state calcolate la FS e la EF. Utilizzando la formula di Teicholz sono stati infine calcolati il volume telediastolico e quello telesistolico, che sono stati poi indicizzati alla superficie corporea, ottenendo l’EDV-I e l’ESV-I. Utilizzando la proiezione apicale 4 camere sinistra ottimizzata per la massima lunghezza del ventricolo sinistro è stata infine calcolata la 2D-EF, utilizzando la metodica area-lunghezza. L’analisi statistica è stata eseguita mediante un software commerciale (GraphPadInStat). Entrambi i gruppi di cani presentavano una distribuzione normale dei dati come dimostrato dal Shapiro Wilk Normality test. I dati sono riportati come valori medi + la deviazione standard.I valori medi dei parametri considerati sono stati testati mediante test t-Student per dati non appaiati, con livello di significatività α<0.05 RISULTATI – L’età media del gruppo SB era di 8.7 anni (range 1-14), il peso medio 7.3 kg (range 3.5-13). Il gruppo LB presentava un’età media di 5.3 (range 1-9), ed un peso medio di 37.1 kg (range 21-67). Il gruppo SB era significativamente più vecchio (p <0.05). La tabella riporta i dati per quello che concerne le variabili M-mode e i valori di pressione per ciascun gruppo. I cani di piccola taglia presentano valori di pressione, FS e EF più elevati e valori di ESV-I minori rispetto ai cani di grossa taglia.

SB (n=17)

LB (n=32)

p

P sist (mmHg) 159.25 + 12.8 141.0 + 17.4 < 0.05

FS (%) 40.06 + 8.9 27 + 7.3 < 0.001

EF (%) 70.75 + 9.20 56.85 + 10.2 < 0.05

ESV-I (ml/m2) 21.18 + 13.90 36.43 + 13.30 < 0.001

EDV-I (ml/m2) 70.5 + 26.5 84.10 + 20.21 NS

SB, razze piccola taglia; LB, razze di grossa taglia; P sist, pressione sistolica; FS, frazione di accorciamento; EF, frazione di eiezione; ESV-I, indice del volume telesistolico; EDV-I, indice del volume telediastolico; PS, pressione sistolica

La 2D-EF è stata calcolata in 5 cani del gruppo SB e in 10 del gruppo LB. La 2D-EF nei cani del gruppo LB era significativamente minore rispetto a quella calcolata in asse lungo (53.9+12.6% vs 67.1+8.0% p< 0.05), mentre le due misure sono sovrapponibili nei cani SB (76.4 + 7.9% vs 71.8 + 8.9% p> 0.05). Non esistono differenze tra i valori di 2D-EF tra i gruppi SB e LB. CONCLUSIONI- I risultati di questo studio indicano che nei cani SB i valori normali di ESV-I sono minori rispetto a quelli della letteratura, mentre nei cani LB questi sono maggiori. Inoltre, le differenze riscontrate tra i valori di EF e di 2D-EF nei cani LB, evidenziano che questi possano presentare una modalità di contrazione differente rispetto ai cani SB. Deve essere ricordato che poiché anche la razza (5) rappresenta uno dei parametri che influenzano le misure ecocardiografiche, è possibile che differenze esistano anche all’interno dei gruppi quando si valuti il somatotipo, tuttavia nel nostro studio non esistevano prevalenze di razza nei 2 gruppi. Questi risultati suggeriscono che nei programmi di screening per malattie cardiovascolari quali la miocardiopatia dilatativa, la 2D-EF possa rappresentare un parametro più specifico rispetto alla FS o alla EF. Inoltre, il riscontro nei cani SB di ESV-I minori rispetto ai dati riportati in letteratura, dovrà essere considerato al momento della valutazione ecocardiografica della funzione sistolica in cani affetti da patologie cardiovascolari. BIBLIOGRAFIA – 1) Kittleson MD, et al. J Am Vet Med Assoc;184: 455-459,1984.2) Boon JA. In Boon JA ed. Manual of Veterinary Echocardiography. Baltimore Williams & Wilkins: 261-382, 1998. 3) Cornell CG et al. J Vet Intern Med; 18: 311-321, 2004. 4) Borgarelli M, et al. J Vet Cardiol, 6 (2), 25-31, 2004. 5) Morrison et al. J Vet Intern Med; 6: 220-224, 1992.

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DOTTO ARTERIOSO PERVIO NEL CANE ADULTO: 2 CASI PATENT DUCTUS ARTERIOSUS IN ADULT DOG: TWO CLINICAL CASES

Pittorru M., Locatelli C., Brambilla PG. Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Medica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano

Parole chiave: cane adulto, patologie congenite cardiache, dotto arterioso pervio. Key words: adult dog, congenital heart diseases, patent ductus arteriosus.

SUMMARY: 2 cases of patent ductus arteriosus (PDA) in adult dogs are reported. CASE 1: a serious volume overload which persisted for long time was detected; the patient was treated surgically, the ventricular dysfunction became progressively worse, he died 4 months after PDA closure. CASE 2: end systolic and diastolic volume indexes of the left ventricle were not significantly compromised, but there was a ductal aneurismal dilatation which would make the surgical resolution unsafe for the patient. The owners decided not to treat surgically the dog and a medical therapy was started. Atrial fibrillation was present: this arrhythmia is generally associated with a grave prognosis.

INTRODUZIONE - Il dotto arterioso pervio (PDA) è una delle patologie cardiache congenite più frequenti nel cane, associata a profonde alterazioni emodinamiche, ma suscettibile di correzione chirurgica. Si può rilevare in qualsiasi razza ed incrocio (1, 2). Sono più colpite le femmine rispetto ai maschi e l’età media al momento della diagnosi è 1-3,5 anni (2). Il sospetto diagnostico viene emesso sulla base del riscontro di un soffio cardiaco continuo, con punto di massima intensità craniale al focolaio polmonare (2). Se riconosciuto tardivamente il PDA è causa di morte nel 64% dei pazienti entro un anno dall’insorgenza di scompenso cardiaco sinistro (3). La prognosi dipende dalle dimensioni del dotto, ma anche dalla cronicità che condiziona l’irreversibilità della disfunzione ventricolare. La forma più frequente di PDA è con shunt sinistro-destro con conseguente sovraccarico volumetrico sinistro. I rilievi clinici e strumentali sono riconducibili ad insufficienza cardiaca sinistra (1,2). L’ecocardiografia 2D permette di visualizzare il PDA e di valutare le alterazioni secondarie al sovraccarico di volume quali aumento di EDVI (end diastolic volume index), ESVI (end systolic volume index), del rapporto atrio sinistro/radice aortica (ASx/Ao) e diminuzione della frazione di accorciamento (FS). Qualora la diagnosi avvenga in età adulta, il quadro ecocardiografico può essere confuso con una miocardiopatia dilatativa (2). L’esame Color Doppler ed il Doppler Continuo sono essenziali ai fini diagnostici in quanto permettono di evidenziare un flusso continuo, turbolento, retrogrado nell’arteria polmonare comune, con una velocità compresa tra 4 e 6 m/sec. La terapia è essenzialmente chirurgica (legatura del dotto). La terapia medica, invece, è unicamente volta a controllare gli eventuali sintomi conseguenti all’insufficienza cardiaca sinistra (2).

MATERIALI E METODI - Trattasi di due cani maschi, di razza Pastore Tedesco di 6 anni (CASO 1) e di 8 anni (CASO 2). CASO 1: Il paziente è stato riferito, all’anamnesi era riportata tosse, dispnea, astenia da qualche mese e presenza di fibrillazione atriale (FA). Alla visita clinica è stato rilevato un soffio continuo, di III-IV grado, localizzato cranialmente al focolaio della polmonare. L’ECG ha evidenziato ritmo sinusale (160 b/min) e complessi ventricolari prematuri (CVP). All’esame ecocardiografico in 2D si è rilevato un dotto di circa 10 mm di diametro ed un aumento del rapporto ASx/Ao di 2,30 (v.n. <1,6) (2); dalle misure effettuate sulle immagini M-mode si è poi calcolato un ESVI di 216,31ml/m2 (v.n. <30 ml/m2), EDVI di 384,01 ml/m2 (v.n. <100 ml/m2) e FS ai limiti inferiori della norma (23%) (v.n. 25-45%) (2). Il Color Doppler ha evidenziato un flusso turbolento, continuo, a partenza dall’aorta discendente e diretto in arteria polmonare principale. Il Doppler Pulsato ha rilevato un flusso transvalvolare aortico ad elevata velocità (2,5 m/s), in assenza di alterazioni del tratto di efflusso del ventricolo sinistro. È stata repertata anche una lieve insufficienza mitralica secondaria alla dilatazione dell’annulus valvolare. Sulla base del quadro clinico e strumentale è stata fatta diagnosi di PDA, in presenza di segni emodinamici di scompenso sinistro. Il paziente è stato trattato con diuretici ed ACE inibitori e sottoposto a legatura del dotto (1). CASO 2. Il soggetto è stato riferito per la valutazione di un’aritmia riscontrata in associazione alla comparsa di tosse, dispnea ed astenia. Alla visita clinica è stato rilevato un

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soffio continuo, di III-IV grado, localizzato cranialmente al focolaio della polmonare. All’esame ECG era presente FA ad elevata penetranza ventricolare (240 b/min); l’RX toracico ha rivelato un quadro riferibile ad edema polmonare. All’esame ecocardiografico in 2D si è evidenziato un dotto arterioso di circa 8 mm di diametro con grave dilatazione aneurismatica (circa 2 cm) ed un aumento del rapporto ASx/Ao (2,30), dalle misure effettuate in M-mode sono risultati un ESVI ed EDVI aumentati (ESVI 92,34 ml/m2 ed EDVI 156,34 ml/m2) ed una FS di 21% Al Doppler si è osservato un flusso turbolento, retrogrado, in arteria polmonare (velocità di 4,21 m/sec), che confermava la pervietà del dotto, ed una lieve insufficienza mitralica. Sulla base dei risultati clinici e strumentali è stato confermato il PDA. Il soggetto è stato posto sotto terapia diuretica e digitalica (1).

RISULTATI - CASO 1. Rivalutato dopo 2 e 4 mesi, all’auscultazione i toni erano puri; l’ECG al primo controllo mostrava ritmo sinusale (180 b/min), successivamente si sono evidenziati CVP multifocali, complessi atriali prematuri e lembi di tachicardia ventricolare parossistica.Esame ecocardiografico: dalle misure effettuate sulle immagini M-mode risultava un graduale aumento di ESVI (268,67 ml/m2 e 289,79 ml/m2) ed EDVI (396,03 ml/m2 e 408,78 ml/m2) ed una diminuzione di FS (16% e 14%), in 2D il rapporto ASx/Ao tendeva ad aumentare (2,51 e 2,61).A seguito della insorgenza di scompenso refrattario il cane è stato sottoposto ad eutanasia. CASO 2. Ricontrollato dopo 7 e 20 giorni, la sintomatologia era migliorata e, all’ECG persisteva la FA, la frequenza era diminuita a 170 e 160 b/min rispettivamente. I proprietari, informati sui rischi dell’intervento chirurgico, hanno preferito proseguire con un trattamento medico sintomatico. Al momento attuale il soggetto è vivo.

DISCUSSIONE – La bibliografia consultata è concorde nell’affermare che l’outcome è più favorevole nei pazienti sottoposti a chirurgia (1, 2, 3, 4, 6). Circa il significato prognostico della precocità dell’intervento, Van Israël et all. afferma che non sono evidenti differenze significative nei tempi di sopravvivenza dei pazienti sottoposti ad intervento in età differenti (prima di 6 mesi di vita, tra 6 e 12 mesi, tra 12 e 24 e sopra i 24 mesi) (4). Secondo altri Autori, invece, la terapia chirurgica deve essere effettuata il prima possibile per evitare alterazioni secondarie (ipertensione ed edema polmonare) (3, 6). In medicina umana è riportato come i pazienti sottoposti ad intervento per PDA dopo i 2 anni di vita presentino più comunemente una disfunzione ventricolare (5). Non abbiamo invece trovato alcun riferimento in bibliografia veterinaria circa l’influenza della disfunzione sistolica del ventricolo sinistro sulla prognosi. Entrambi i casi riportati presentavano sovraccarico volumetrico sinistro, più grave nel CASO 1. A nostro parere l’esito post-chirurgico infausto in questo paziente potrebbe essere essere giustificato dall’insorgenza di una miocardiopatia tachicardia-indotta (gravi fenomeni aritmici,EDV-I aumentato). Il CASO 2, invece, presentava ESVI ed EDVI minori: ciò rendeva più favorevole la prognosi post-chirurgica; tuttavia la grave dilatazione aneurismatica avrebbe potuto rendere la procedura rischiosa (lacerazione del dotto con importante emorragia intra o post-operatoria) (6).Si ricorda in fine che la FA è generalmente associata ad una prognosi infausta (4).

CONCLUSIONI – Il riscontro di PDA nell’adulto non è un’eventualità così rara, riteniamo che un motivo possa essere individuato in un’auscultazione talvolta poco scrupolosa e incompleta del cuore, soprattutto durante le visite di routine. La diagnosi di PDA nel cucciolo è invece molto importante, l’approccio chirurgico in giovane età rende infatti l’outcome quasi sempre favorevole (6). Negli adulti con PDA riteniamo necessaria una scrupolosa valutazione ecocardiografica (funzionalità ventricolare, presenza di dilatazione aneurismatica) per scegliere l’approccio terapeutico migliore. Negli stessi infine il PDA dovrebbe essere sempre preso in considerazione nell’ambito della diagnostica differenziale con una miocardiopatia dilatativa.

BIBLIOGRAFIA – 1) FOX PR, SISSON D, MOISE NS. (1999) Textbook of canine and feline cardiology; 505-512. Philadelphia, WB Saunders. 2) KITTLESON MD, KIENLE RD. (1998) Small animal cardiovascular medicine; 218-230. Mosby Inc. 3) CORTI LB, MERKLEY D, NELSON OL, WARE WA. (2000) J Am Anim Hosp Assoc, 36, 548-55. 4) VAN ISRAËL N, DUKES-McEWAN J, FRENCH AT. (2003) J Small Anim Pract, 44, 480-490. 5) SIWINSKA A, et Al. (2003) Eur J Echocardiography, Abstract S 68. 6) OLSEN D, HARKIN KR, BANWELL MN, ANDREWS GA. (2002) Vet Surg, 31, 259-265.

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VALUTAZIONE DELLA TROMBOMODULINA PLASMATICA (TM) IN GATTI AFFETTI DA CARDIOMIOPATIA PRIMITIVA A DIVERSO STADIO CLINICO PLASMA THROMBOMODULIN (TM) CONCENTRATION IN CATS WITH CARDIOMYOPATHIES Ciaramella P., Piantedosi D., Lindquist E1, Di Loria A., Cortese L., Skeels M1., Persechino A. Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Sezione di Clinica Medica – Università di Napoli Federico II; 1Sound Technologies Inc, Carlsbad, CA (USA) Parole chiave: gatto, cardiomiopatia, trombomodulina, sangue, coagulazione. Key words:cat, cardiomyopathy, thrombomodulin, blood, coagulation. SUMMARY: Thrombomodulin (TM) is a surface glycoprotein of endothelial cells, which neutralizes thrombin clotting activity and acts as a cofactor for thrombin-catalized activation of anticoagulant protein C. TM plasma levels was valued in 50 cats with primitive cardiomyopathy. The animals were divided in two groups according with their clinical condition: group I (n.25) asymptomatic animals and group II (n.25) symptomatic cats with clinical signs of congestive heart failure. A control group was also performed (n.17). Symptomatic cats showed lower plasma TM levels than observed in the other groups. These findings could indicate a possible suppression of protein C pathway and an hypercoaugalability condition. INTRODUZIONE- La trombomodulina (TM) è un proteoglicano di membrana dell’endotelio vasale, che presenta una elevata affinità nei confronti della trombina. Il complesso trombomodulina/trombina possiede un alto potere anticoagulante attraverso l’attivazione della proteina C, che a sua volta inattiva i fattori plasmatici Va e VIIIa della via intrinseca, impedendo, come fine ultimo, la formazione di ulteriori molecole di trombina(1). La trombomodulina è prodotta principalmente dalle cellule endoteliali ed in minor misura da linfociti, granulociti neutrofili e macrofagi. Diverse ricerche eseguite in animali da laboratorio ed alcuni trial clinici condotti in medicina umana hanno dimostrato che i livelli plasmatici di tale sostanza tendono a modificarsi in numerose patologie associate a disfunzione endoteliale. In particolare, negli ultimi anni il dosaggio plasmatico di tale proteina ha assunto un importante ruolo quale marker bioumorale, indicativo di una condizione di ipercoagulabilità in pazienti affetti da malattie cardiovascolari, spesso associate a fenomeni tromboembolici. Nelle cardiomiopatie primitive del gatto è ampiamente noto che vi è un aumentato rischio di formazione di trombi a livello atriale, con possibili complicazioni tromboemboliche sistemiche (STE). Attualmente pochi dati sono disponibili in merito allo studio di fattori plasmatici in grado di segnalare una condizione pro-trombotica in gatti con cardiomiopatia. Welles e coll.(2) hanno osservato un incremento plasmatico dei valori di antitrombina III ed una lieve riduzione dell’attività fibrinolitica in soggetti malati. Scopo del presente studio è quello di valutare le concentrazioni plasmatiche della trombomodulina in animali affetti da cardiomiopatia primitiva a diverso stadio clinico e in funzione delle dimensioni atriali, al fine di verificare se tale sostanza possa essere considerata, anche nel gatto, un valido marker predittivo di una condizione di ipercoagulabilità, al pari di quanto riportato in medicina umana. MATERIALI E METODI- I livelli plasmatici di trombomodulina sono stati valutati in 67 animali, di cui 36 affetti da cardiomiopatia ipertrofica (HCM), 12 con cardiomiopatia restrittiva (RCM), 2 con forme non classificate (UCM) e 17 soggetti sani (gruppo controllo) di età variabile tra i 4 e 7 anni. I gatti cardiopatici sono stati suddivisi in due gruppi di 25 soggetti ciascuno: il primo comprendente soggetti asintomatici mentre il secondo soggetti con segni clinici di insufficienza cardiaca congestizia (CHF) in classe ISACHC II-III. La diagnosi di cardiomiopatia primitiva è stata formulata sulla base dei rilievi clinici e dei reperti di laboratorio, elettrocardiografici, radiologici ed ecografici. Al fine di valutare una eventuale correlazione tra i tassi plasmatici di TM e le dimensioni atriali, gli animali cardiopatici sono stati altresì suddivisi in due gruppi, utilizzando un valore di cut-off per l’atrio sinistro (LA) uguale o maggiore di 1.35 cm in M-mode. Il dosaggio della trombomodulina è stato eseguito

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con tecnica ELISA, impiegando un kit commerciale della American Diagnostic Inc. (USA), sul quale sono state eseguite prove di riproducibilità e ripetibilità, al fine di una validazione nella specie felina. I dati ottenuti sono stati sottoposti ad elaborazione statistica mediante test di t-student e analisi della regressione lineare. RISULTATI - I livelli plasmatici medi di trombomodulina ottenuti nei gatti esaminati sono risultati pari a 5.11±1.2 ng/ml e 4.6±1.3 ng/ml, rispettivamente nei gatti sani e in quelli del I gruppo (asintomatici); nei gatti del II gruppo (sintomatici) i livelli plasmatici di TM sono apparsi più bassi (3.86 ± 1.2 ng/ml), statisticamente significativi sia rispetto a quelli osservati nei soggetti sani che a quelli degli animali asintomatici (Tabella).

I GRUPPO

(n=25)

II GRUPPO

(n=25)

SANI

(n=17)

Valori medi (ng/mL) 4.6** 3.86* 5.11

DS 1.3 1.2 1.2

*p<0.01 vs gruppo di controllo; ** p<0.05 vs I gruppo

Per quanto attiene la suddivisone degli animali in base alle dimensioni atriali, 22 gatti con LA inferiore a 1.35 (LA: 1.25±0.07 cm; LA/AO 1.22±0.1) hanno mostrato valori di TM di 4.7±1.3 ng/ml, mentre i restanti 28 gatti, con evidente ingrandimento atriale (LA: 1.87±0.3 cm; LA/AO 1.95±0.4), hanno evidenziato valori di TM 3.89±1.1 ng/ml (p<0.01vs sani; p<0.05 vs I gruppo); non è stata osservata una correlazione statisticamente significativa per l’analisi della regressione lineare tra TM e dimensioni atriali. DISCUSSIONI E CONCLUSIONI – Negli ultimi anni numerosi studi sperimentali e clinici hanno permesso di stabilire che la TM è un marker di danno o disfunzione endoteliale, che gioca, una volta legata alla trombina, un cruciale ruolo nel mantenere una normale fluidità ematica e nel prevenire la formazione di trombi. Come è noto, turbe tromboemboliche costituiscono una frequente complicazione nei gatti affetti da cardiomiopatie: le manifestazioni cliniche di tale disturbo si osservano in circa il 12% degli animali malati, percentuale che può raggiungere il 48% in sede autoptica. Per tale motivo risulta di fondamentale importanza per il clinico identificare precocemente una condizione di ipercoagulabilità che può sfociare nella formazione di trombi, con gravi vasculopatie distrettuali di tipo stenosante. I diversi livelli plasmatici di TM osservati nel nostro studio, più bassi nei pazienti sintomatici rispetto a quelli asintomatici e agli animali di controllo, potrebbero essere interpretati come una conseguenza di una disfunzione endoteliale, responsabile di una minore produzione di TM, che a sua volta potrebbe comportare una ridotta attivazione della proteina C, dotata, come è noto, di una potente azione anticoagulante. Alcuni studi condotti in vitro lasciano ritenere che tale riduzione possa essere legata all’azione negativa operata dal TNF alfa, una citochina pro-infiammatoria che risulta aumentata in modo significativo in pazienti umani con HCM e/o CHF (3,4). Per quanto riguarda la correlazione tra dimensioni atriali e TM, il nostro studio, mentre dimostra che i valori di TM sono statisticamente ridotti nei soggetti con ingrandimento atriale, non consente di evidenziare una correlazione lineare tra questi due parametri, a differenza di quanto riportato in medicina umana. Per quanto sopra esposto, si può ritenere che le concentrazioni plasmatiche di TM in gatti con cardiomiopatia primitiva possano essere influenzate sia dal grado di compromissione clinica del paziente sia dalle dimensioni della camera atriale sx. Sono comunque necessari ulteriori e più approfonditi studi volti a meglio definire il reale ruolo che l’endotelio vasale svolge nel determinare una condizione di ipercoaugulabilità, prima di poter ritenere tale sostanza un sicuro e valido marker umorale capace di svelare una condizione pro-trombotica nelle cardiomiopatie del gatto. BIBLIOGRAFIA - 1) Evan Sadler (1997) Thrombosis and Haemostasis, 78, 392-395. 2) Wells et al., (1994) Am J Vet. Res. 55, 619-627. 3) Penicka M et al., (2001) Can J Cardiol. 17, 777-784. 4) Chong et al.,( 2003) Q J Med 2003, 96, 253-267.

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APPLICAZIONE DEL MYOCARDIAL PERFORMANCE INDEX (MPI) NELLO STUDIO DELLA FUNZIONALITÀ VENTRICOLARE SINISTRA DEL CAVALLO MYOCARDIAL PERFORMANCE INDEX (MPI) USED TO STUDY THE LEFT VENTRICLE FUNCTIONALITY OF THE HORSE Fruganti A., Laus F., Porciello F.*, Rishniw M.** , Tesei B., Dipartimento di Scienze Veterinarie – Università degli Studi di Camerino, *Sezione di Medicina Interna – Dipartimento di Patologia, Diagnostica e Clinica Veterinaria – Università degli Studi di Perugia, ** Department of Clinical Sciences – Cornell University, Ithaca, New York. Parole chiave: cavallo, Myocardial Performance Index (MPI), ecocardiografia, Doppler. Key words: horse, Myocardial Performance Index (MPI), echocardiography, Doppler. SUMMARY – Considering that systolic and diastolic dysfunctions frequently coexist, a combining systolic and diastolic measure of the left ventricle function obtained with Doppler examination could be more indicative for cardiac dysfunctions, than a single systolic and diastolic valuation by B-mode or M-mode technique. In this contest the Myocardial Performance Index (MPI) obtained by spectral Doppler is proposed to estimate the left ventricle functionality of the horse, according to the method that C. Tei (6) described in the 1995 in humane medicine. INTRODUZIONE – L’ecocardiografia costituisce uno strumento di indagine non invasivo che fornisce anche al medico veterinario, attraverso la raccolta di informazioni di ordine anatomico e funzionale sulle strutture cardiache, un valido ausilio diagnostico e prognostico (4) con particolare riferimento all’individuazione di patologie cardiache in grado di determinare riduzione delle performance ventricolari. Le numerose ricerche relative all’argomento e la grande quantità di dati ottenuti hanno permesso non solo di riconoscere nella frazione di accorciamento, nella frazione di eiezione, negli ispessimenti frazionali del setto e della parete libera del ventricolo sinistro e nei volumi telesistolico, telediastolico e di eiezione del ventricolo sinistro, gli indici di performance ventricolare del cuore umano, ma anche di determinare i valori di riferimento per ognuno di essi. A tal riguardo, per quanto concerne il cavallo sportivo, occorre precisare che sono relativamente pochi gli studi effettuati e che i dati raccolti si riferiscono agli indici di funzionalità ventricolare desunti dall’esame ecocardiografico in applicazione mono e/o bidimensionale (3) (2) (5). Tuttavia è necessario puntualizzare che la metodica ecocardiografica monodimensionale permette una corretta valutazione dei volumi della camera ventricolare sinistra solo in assenza di discinesie e che la tecnica bidimensionale, pur consentendo l’appropriata quantificazione di questi stessi volumi in presenza di discinesie, richiede notevole esperienza da parte dell’operatore e l’uso di sonda ecografica capace di una profondità d’immagine tale da rendere possibile la visualizzazione bidimensionale dell’intera camera ventricolare sinistra. In tale contesto, con la presente nota si intende fornire un contributo allo studio della funzionalità ventricolare sinistra del cavallo, in particolare di quello atleta, valutata mediante l’indagine Doppler, utilizzando il calcolo del Myocardial Performance Index (MPI) secondo la metodica proposta nel 1995 da Tei (6) in medicina umana. MATERIALI E METODI – Un gruppo di 16 yearlings trottatori italiani, 9 femmine e 7 maschi, di 16 - 18 mesi d’età, è stato oggetto di valutazioni ultrasonografiche Doppler durante il periodo di allenamento, ogni 3 mesi, per 4 volte, sino al momento del debutto in gara. Ciascun animale, prima dell’indagine ultrasonografica, è stato sottoposto ad esame clinico diretto per escludere eventuali compromissioni non soltanto dell’apparato cardiocircolatorio, ma anche di altri apparati. Le valutazioni strumentali sono state eseguite sul cavallo posto in box, isolato dagli altri soggetti, per ridurre al minimo i condizionamenti di natura ambientale in grado di alterare i dati delle misurazioni ultrasonografiche. Ogni animale è stato esaminato non sedato, contenuto mediante lunghina e capezza, in stazione quadrupedale e in presentazione laterale sinistra. La superficie cutanea corrispondente alla finestra acustica è stata sottoposta a tricotomia, detersione, sgrassatura con alcool denaturato, e cosparsa di gel ecoconduttore. L’apparecchiatura ultrasononografica utilizzata è costituita dall’ecografo

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portatile Kontron “Vetson Color”, corredato di programma cardiologico per uso veterinario e di sonda settoriale meccanica da 3,5MHz capace di una profondità d’indagine di circa 24 cm e di permettere la rielaborazione spettrale del segnale Doppler. L’esame ecografico Doppler ad onda pulsata è stato condotto attraverso la finestra parasternale sinistra in corrispondenza del IV e del V spazio intercostali, a livello della regione immediatamente dorsale alla tuberosità olecranica. La sonda ecografica è stata posizionata in modo che il fascio di ultrasuoni permettesse di evidenziare in asse lungo il tratto di afflusso e successivamente quello di efflusso del ventricolo sinistro. Le immagini così ottenute hanno consentito l’allineamento tra la direzione di propagazione del segnale Doppler e quella dei rispettivi flussi mitralico ed aortico. In particolare il volume campione, corrispondente al punto di misurazione Doppler delle diverse velocità di flusso, posizionato nel ventricolo sinistro in prossimità dell’ostio mitralico, ha permesso di ottenere lo spettro Doppler caratterizzato dal susseguirsi di diversi flussi diastolici di riempimento della camera ventricolare sinistra. Su tale spettro Doppler, dopo adeguata correzione angolare, attraverso il sistema di misurazione dell’ecografo, è stato stimato l’intervallo di tempo intercorso tra i due punti del tracciato Doppler corrispondenti alla fine di un flusso mitralico precedente e all’inizio di quello immediatamente successivo (MCO = interval from cessation to onset of mitral flow). In un secondo momento, dopo aver ottenuto l’immagine bidimensionale del tratto di efflusso del ventricolo sinistro in aorta, il volume campione è stato posizionato a livello della radice aortica in prossimità dell’apertura delle cuspidi valvolari stesse. In tale modo è stato possibile ottenere lo spettro Doppler caratterizzato dal susseguirsi di diversi flussi sistolici aortici. Su tale tracciato Doppler, dopo adeguata correzione angolare, è stato quindi calcolato il tempo d’eiezione (ET = ejection time) considerando la durata di un singolo flusso aortico sistolico. Ottenuti i valori relativi a MCO e ET, per ogni singolo soggetto considerato, è stato calcolato MPI tramite l’applicazione della formula MPI = (MCO–ET)/ET, che deriva dalla formula MPI = (ICT+IRT)/ET, dove ICT = Isovolumic Contraction Time e IRT = Isovolumic Relaxation Time. CONCLUSIONI – L’indagine ecocardiografica Doppler finalizzata a valutare il MPI nel cavallo, avuto riguardo delle determinazioni effettuate in soggetti ed in tempi diversi, si è dimostrata una tecnica diagnostica ripetibile, non invasiva, di relativo basso costo e di facile esecuzione anche in trottatori di giovane età. Si puntualizza che è in corso la valutazione statistica intesa a comparare gli indici di funzionalità ventricolare sinistra ottenuti con metodica ecografica mono o bidimensionale con il MPI. Ritenendo che le disfunzioni sistoliche e diastoliche cardiache spesso coesistono, l’utilizzazione di un indice Doppler quale il MPI, in grado di stimare contemporaneamente la funzionalità ventricolare sistolica e diastolica, potrebbe, alla stessa stregua di quanto già osservato in medicina umana (1), rivelarsi anche nel cavallo, un parametro più indicativo di disfunzione cardiaca rispetto alle singole valutazioni di funzionalità sistoliche o diastoliche ottenute con le tecniche B-mode e M-mode. Tale metodica, quindi, potrebbe consentire una più semplice ed appropriata stima del potenziale atletico del cavallo sportivo.

BIBLIOGRAFIA – 1) Dujardin K.S. et al., Am. J. Cardiol. (1998), 82, 1071. 2) Ferro E., Barelli A. Ippologia (1994), 5, (2), 73. 3) Kuramoto K. et al., Bull. Equine Res. Inst. (1989), 26, 23 4) Pipers F. S., Hamlin R. L., J.A.V.M.A. (1977), 170 (8): 815. 5) Porciello F. et al. Am. College Intern. Vet. Med., procedings of 19° Annual Veterinary Medical Forum, Denver Colorado 23-26 May 2001, (2001),886, abstract n° 198. 6) Tei C., J. Cardiol. (1995), 26, 135.

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PIROPLASMOSI EQUINA: RILIEVI IN CAVALLI SICILIANI ED IN SOGGETTI CON SCARSO RENDIMENTO ATLETICO EQUINE PIROPLASMOSIS: INVESTIGATIONS IN SICILIAN HORSES AND IN HORSES WITH POOR PERFORMANCE Giudice E., Pagano I.S., Bosco V.R.F., Domina F. Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie – Università degli Studi di Messina Parole chiave: piroplasmosi, cavallo, scarso rendimento, T. equi e B. caballi, IFI. Key words: piroplasmosis, horse, poor performance, T. equi and B. caballi, IFAT. SUMMARY – Sicily is recognised as an endemic area for equine piroplasmosis, although real prevalence remains unknown. With the aim to demonstrate the occurrence of equine piroplasmosis in Sicily, antibodies to Theileria equi (Babesia equi) and Babesia caballi were determined in 63 sporting horses randomly selected and in 170 serum samples of horses with poor performance, using an indirect fluorescent antibody test (IFAT). Sixteen (25,40%) randomly selected horses and 66 (38,82%) horses with poor performance were positive for T. equi and/or B. caballi infections. These results indicate that equine piroplasmosis is diffused in Sicily and should be considered in horses that present poor performance, especially in endemic areas. INTRODUZIONE – La piroplasmosi è una delle più diffuse malattie parassitarie vettoriali e negli ultimi anni sta assumendo un interesse crescente come zoonosi emergente. Nonostante siano stati avviati progetti integrati internazionali per il controllo delle malattie trasmesse da zecche (1), le ricerche svolte sul territorio nazionale, e in particolare su quello siciliano, sono piuttosto limitate e poco si conosce circa la reale diffusione della piroplasmosi nelle diverse specie. In generale, le perdite economiche riferibili alla parassitosi sono legate alla mortalità, al calo delle produzioni e al costo sanitario per interventi terapeutici e profilattici. Nell’ambito dell’allevamento equino i maggiori danni sono rappresentati dall’interferenza con l’attività sportiva (2), in particolare in caso di competizioni internazionali. Nelle zone endemiche è più probabile che i cavalli contraggano un’infezione subclinica, rimanendo portatori cronici (3). In questi soggetti il grado di parassitemia è molto basso e il rinvenimento dei protozoi su striscio ematico è difficile. Pertanto, la ricerca degli anticorpi specifici nel siero è attualmente considerata la metodica diagnostica di scelta, specialmente quando gli animali devono essere importati in nazioni dove non è presente la malattia, ma lo è il vettore. MATERIALI E METODI – La nostra indagine è stata suddivisa in due parti: la prima, di natura epidemiologica, aveva il fine di definire la diffusione della piroplasmosi equina sul territorio siciliano, mentre la seconda, di natura retrospettiva, mirava alla ricerca degli anticorpi anti-B. caballi e anti-T. equi in un campione di sieri di cavalli siciliani, da sella e galoppatori, che presentavano scarso rendimento atletico. PRIMA PARTE – L’indagine epidemiologica è stata condotta, durante il periodo novembre 2003 – luglio 2004 su 63 cavalli allevati in Sicilia, scelti a caso all’interno di diverse scuderie. Gli animali erano 26 maschi, 37 femmine, di età compresa tra 6 mesi e 14 anni, di diversa razza e ad attitudine sportiva. La maggior parte dei soggetti era allevata in condizioni igieniche soddisfacenti. Ogni cavallo è stato sottoposto a visita clinica e a prelievo di sangue per gli esami sierologici ed ematologici; al momento venivano allestiti, inoltre, strisci di sangue per la formula leucocitaria e la ricerca di emoparassiti, previa colorazione con May Grünwald-Giemsa. I sieri, separati per centrifugazione, sono stati conservati a –20°C fino al momento della ricerca degli anticorpi verso T. equi e B. caballi, effettuata mediante immunofluorescenza indiretta (IFI), utilizzando due kit del commercio (FLUO Babesia equi e FLUO Babesia caballi, Agrolabo). I sieri sono stati diluiti a partire da 1:40 e considerati positivi i campioni che presentavano fluorescenza alla diluizione 1:80. Sul sangue intero, addizionato con EDTA, venivano valutati, mediante contaglobuli elettronico (Hemat8, Seac), i principali parametri ematologici. L’elaborazione statistica è stata effettuata mediante T di Student per dati non appaiati, raggruppando i soggetti in sieropositivi (T. equi e/o B. caballi) e sieronegativi; sono state considerate significative le differenze con p<0,05. SECONDA PARTE – La ricerca degli anticorpi anti-T. equi e anti-B.

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caballi è stata condotta su 170 sieri di cavalli siciliani, raccolti in occasione di diversi concorsi ippici, tra marzo 2002 e gennaio 2005. I campioni provenivano da animali allevati in buone condizioni igieniche, sottoposti a trattamenti antiparassitari periodici, apparentemente sani e che presentavano solo una diminuzione del rendimento atletico di vario grado. I sieri sono stati conservati a –20°C fino al momento della determinazione degli anticorpi. RISULTATI - PRIMA PARTE – Dei 63 cavalli controllati, 16 (25,40%) presentavano anticorpi verso T. equi e/o B. caballi: 13 (20,63%) per T. equi, 10 (15,86%) per B. caballi, 7 (11,11%) per entrambi i protozoi; 47 (74,60%) erano negativi. La maggior parte dei cavalli sieropositivi non mostrava alcuna sintomatologia, solo alcuni denunciavano disoressia, dimagramento e facile affaticabilità. All’esame emocromocitometrico solo un soggetto con infezione mista presentava anemia (RBC 3,52 x 10-6 cellule/mm3; HGB 7,90 g/dl; HCT 19,90%), già evidente all’esame clinico. In tutti gli altri cavalli, i parametri ematologici erano nella norma e il confronto statistico tra sieropositivi e sieronegativi non ha dimostrato differenze significative. L’esame citologico degli strisci ematici ha permesso di evidenziare la presenza di protozoi, in numero esiguo, solo nel cavallo con anemia. SECONDA PARTE – Dei 170 sieri esaminati, 66 (38,82%) erano positivi per uno o entrambi i parassiti: 52 (30,59%) per T. equi, 46 (27,06%) per B. caballi, 32 (18,82%) per entrambi; 104 (61,18%) erano negativi. CONCLUSIONI - La nostra indagine conferma la presenza della piroplasmosi equina sul territorio siciliano, con una discreta prevalenza (25,40%), maggiore per T. equi (20,63%) rispetto a B. caballi (15,86%) o alle infezioni miste (11,11%). Tale riscontro, seppur evidenziando una maggiore percentuale di positività, è in linea con quanto osservato in precedenti studi da Semproni e collaboratori (4), i quali hanno riscontrato, su 50 sieri di cavalli siciliani esaminati, una prevalenza alla fissazione del complemento (FdC) del 12% per T. equi, dell’8% per B. caballi e del 2% per le infezioni miste. Gli stessi Autori hanno evidenziato un fenomeno inverso nella maggior parte delle regioni italiane controllate, ad eccezione della Sardegna, in cui la situazione era simile a quella siciliana. I risultati da noi ottenuti sono molto vicini a quanto rilevato da Lillini e collaboratori (5), i quali hanno osservato, su 140 cavalli sportivi controllati, il 25% di positività verso T. equi. Quando le stesse ricerche venivano estese a cavalli allevati allo stato brado, la positività era tre volte maggiore (75%), come successivamente confermato da Ceci e collaboratori (3) in Puglia, dove ben l’88% dei cavalli controllati (FdC) mostrava anticorpi nei confronti della sola T. equi. I dati da noi ottenuti analizzando il campione di sieri di cavalli con scarso rendimento atletico evidenziano lo stesso comportamento del campione di riferimento, ma con percentuali sensibilmente superiori. La maggiore positività riscontrata induce a ritenere che la piroplasmosi possa svolgere un ruolo significativo nel determinare una riduzione delle prestazioni atletiche, in assenza di altri segni apparenti di malattia. Lo stato di portatore, infatti, è frequente nelle aree endemiche, in cui la maggior parte degli animali infetti manifesta al più una vaga sintomatologia di difficile attribuzione, fenomeno confermato anche dalle nostre osservazioni. Una diminuzione della performance dovrebbe pertanto far considerare sempre l’eventualità di un’infezione latente da T. equi e/o B. caballi. Le percentuali di sieropositività evidenziate nel presente studio, infine, devono essere analizzate criticamente, giacché le buone condizioni igieniche d’allevamento, unite ai trattamenti antiparassitari periodici, riducono sicuramente le possibilità d’infezione. Pertanto, è verosimile pensare che la prevalenza della piroplasmosi in Sicilia possa raggiungere livelli molto più elevati rispetto a quanto da noi osservato. In conclusione, si sottolinea la necessità di condurre indagini epidemiologiche su vasta scala che permettano di definire la reale prevalenza della piroplasmosi, indispensabile per l’allestimento di piani di controllo integrati. La sorveglianza attiva su tale parassitosi avrà ripercussioni favorevoli sia nell’ambito della sanità pubblica che sotto il profilo zoosanitario. In medicina equina, in particolare, potrà garantire non solo un miglioramento dello stato sanitario e delle capacità atletiche dei cavalli che vivono in zone endemiche, ma anche la possibilità di spostamenti internazionali degli animali, sempre più richiesti nell’allevamento equino. BIBLIOGRAFIA – 1) Jongejan F (1998) Parasitol Today, 14, 173-176. 2) Hailat NQ et al (1997) Vet Parasitol, 69, 1-8. 3) Ceci L et al (1993) Atti SISVet, 47, 1385-1389. 4) Semproni G et al (1987) Atti SISVet, 41, 1138-1141. 5) Lillini E et al (1981) Atti SIDI, 3, 85-90.

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EPATITE CRONICA ATTIVA NEL CAVALLO: UN CASO CLINICO

CHRONIC ACTIVE HEPATITIS IN THE HORSE: A CASE REPORT Farca A.M.*, Gandini M.*, Constable S.A.° - *Dipartimento di Patologia Animale, settore Clinica Medica, Grugliasco (TO); °SA Constable Veterinary Practice, Tyldesley, Manchester, UK

SUMMARY - Chronic Active Hepatitis (CAH) is an uncommon liver disease in horse. Its etiology is unknown, although some possible causes, related to those causing a similar syndrome in humans, have been proposed. Clinical signs are non-specific of liver disease, but sometimes are accompanied by non-hepatic symptoms including coronary dermatitis. In this report a case of CAH characterized by coronary dermatitis is described, along with the diagnostic, clinical and treatment features. Unfortunately, as often happens in equine liver disease, outcome wasn’t favorable.

INTRODUZIONE - L’epatite cronica attiva (ECA) nel cavallo è un’epatopatia cronica, progressiva e idiopatica caratterizzata da iperplasia biliare e danno epatocellulare associato. L’evoluzione della malattia è insidiosa ed è compatibile con un’insufficienza epatica progressiva i cui segni clinici sono caratterizzati da depressione, intolleranza all’esercizio, anoressia, ittero e febbre. In alcuni rari casi è riportata una dermatite coronaria esfoliativa. In questo scritto si riporta un caso di ECA in un cavallo caratterizzata principalmente da dermatite esfoliativa delle corone.

ANAMNESI - Il soggetto, un Welsh cob di 18 anni, fu riferito a visita clinica per un improvviso e acuto sanguinamento del margine coronario dei due piedi anteriori e di un posteriore (fig. 1, 2), unico sintomo riportato dal proprietario che riteneva il soggetto in condizioni “normali”, con comportamenti e appetito usuali. L’animale era stabulato durante la notte ma aveva accesso ad un ampio prato insieme ad altri cavalli durante il giorno. L’alimentazione consisteva in erba, fieno e cereali fioccati. Il soggetto era regolarmente vaccinato e sottoposto a profilassi antielmintica e, di recente, non aveva subito alcun trattamento farmacologico.

Fig. 1 - lesione arti anteriori Fig. 2 - dettaglio arto anteriore Fig. 3 - durante terapia ESAME CLINICO – Il cavallo è stato sottoposto a visita clinica, ad esami emocromocitometrici ed ematochimici, a biopsia cutanea a livello di una delle corone coinvolte, tramite punch bioptico da 4 mm, e a biopsia epatica tramite ago Tru-cat 14 G sotto controllo ecografico con sonda convex da 3,5 MHz. Il soggetto si presentava in buone condizioni, leggermente sovrappeso. La temperatura corporea, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, tempo di riempimento capillare erano normali. Le mucose e la sclera apparivano leggermente itteriche. Alla palpazione le corone coinvolte non risultavano dolenti e il soggetto si muoveva volentieri senza presentare segni di zoppia. Gli esami ematologici effettuati mostravano una leggera linfocitosi e anemia con ipoemoglobinemia; inoltre si rivelava un aumento delle globuline totali (42 g/lt, V.N.: 17-34 g/lt), della bilirubina totale (95,4 mmol/lt, V.N.: 10-40 mmol/lt) causato da aumento della bilirubina indiretta (88 mmol/lt) ed un consistente aumento degli Acidi Biliari Totali (39 mmol/lt, V.N.: 0-20 mmol/lt). Tutti gli altri parametri erano nella norma. L’esame istologico del campione di cute rivelava esfoliazione, epidermide ispessita con acantosi e ipercheratosi

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superficiale, infiltrazione cellulare infiammatoria perivascolare e interstiziale nel sottostante derma. L’infiltrato cellulare consisteva di cellule mononucleate, neutrofili ed eosinofili. L’esame istologico del tessuto epatico mostrava colangite, necrosi epatocellulare periportale, caratterizzata da bande di epatociti necrotici e cellule infiammatorie, ed infiltrato plasmacellulare. DIAGNOSI – Sulla base degli esami effettuati la diagnosi differenziale della dermatite fu rivolta verso: pemfigo fogliaceo, dermatite eosinofilica, dermatite da fotosensibilizzazione, dermatite autoimmune; gli esami ematochimici fecero supporre un danno epatocellulare ad eziologia ignota. In seguito all’esame istologico del tessuto epatico, fu emessa diagnosi di ECA, in grado di giustificare anche la dermatite esfoliativa. Il miglioramento dei sintomi riscontrato con la somministrazione di corticosteroidi, inoltre confortò la diagnosi di una patologia cutanea con componente immunomediata.

TRATTAMENTO E DECORSO – Il soggetto venne sottoposto a trattamento con prednisolone alla dose di 1 mg/kg, una volta al giorno, per os. Dopo pochi giorni si riscontrò un netto miglioramento dei sintomi cutanei (fig. 3). In seguito la dose fu ridotta gradualmente fino a 0,4 mg/kg per os. Purtroppo, dopo alcune settimane, nonostante la risoluzione dei sintomi cutanei, insorsero altri segni di insufficienza epatica, quali depressione e anoressia. Considerata la scarsa prognosi si optò, in accordo con il proprietario, per l’eutanasia del soggetto.

DISCUSSIONE - I disturbi epatici nel cavallo sono relativamente comuni e vari, ma si manifestano con sintomi molto generali di sofferenza metabolica quali depressione, perdita di peso, anoressia. Segni più specifici comprendono ittero, encefalopatia, fotosensibilizzazione. Per effettuare diagnosi di sofferenza epatica sono normalmente sufficienti esami ematochimici mirati, ma la biopsia epatica è senza dubbio un elemento importante per formulare diagnosi eziologica. Nel caso riportato, l’aumento della bilirubina, in particolare indiretta, è indice di sofferenza epatica senza colestasi. Le globuline possono essere aumentate in caso di infezione, infiammazione, alcune neoplasie o una risposta immune.Gli Acidi Biliari Totali Sierici in assenza di colestasi indicano una ridotta funzione epatocellulare. L’esame istologico della cute rivelava segni non specifici di infiammazione, mentre le lesioni istologiche del tessuto epatico si dimostravano caratteristiche dell’ECA. Le cause dell’ECA nel cavallo non sono conosciute. Una sindrome simile è presente nell’uomo ed è stata associata a disturbi autoimmuni, infezione da Virus dell’epatite B, epatite virale non-A e non-B, malattia di Wilson, allergia a farmaci (1). I pazienti umani colpiti mostrano segni extraepatici quali dermatiti, artriti e glomerulonefrite; sono presenti gammopatie monoclonali e l’esame istologico del tessuto epatico rivela infiltrati plasmacellulari, aree di necrosi e fibrosi. Nei cavalli con ECA può essere presente gammopatia monoclonale, anche se questo è un segno non specifico di disturbo epatico cronico (2). Occasionalmente, come nel caso riportato, gli equini con ECA mostrano un infiltrato epatico prevalentemente formato da monucleati e plasmacellule. La dermatite coronaria può rappresentare la manifestazione di un problema di tipo autoimmune, infatti, in seguito a somministrazione di corticosteroidi si è potuto osservare un netto miglioramento della sintomatologia. Concludendo, la diagnosi di ECA nel caso riportato è supportata dagli esami clinici, ematochimici ed istologici della cute e del tessuto epatico. Peraltro non è stato possibile, con gli strumenti in nostro possesso, risalire ad una diagnosi eziologica della patologia. La somministrazione di corticosteroidi per os si è rivelata efficace nel ridurre i sintomi causati dalla probabile componente immunomediata, purtroppo non di evitare la progressione della malattia.

BIBLIOGRAFIA – 1) Ockner RK (1985) Acute viral hepatitis. In: Wyngaarden JB et al Cecil textbook of internal medicine, WB Saunders, Philadelphia, 381. 2) Carlson GP (1989) Chronic active hepatitis in horses. Proceedings 7th American College of Veterinary Internal Medicine, 595

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PROTOCOLLO DIAGNOSTICO APPLICABILE IN ALLEVAMENTI DI CAVALLI CON ANAMNESI DI ADENITE DIAGNOSTIC PROTOCOL APPLICABLE IN HORSE BREEDINGS WITH HISTORY OF STRANGLES Laus F., Cerquetella M., Spaterna A., Beribè F., Cuteri V., Tesei B. Dipartimento di Scienze Veterinarie – Università degli Studi di Camerino (MC) Parole chiave: cavallo, adenite equina, portatori Key words: horse, strangles, carriers SUMMARY – The Authors describe a diagnostic approach used in a horse breeding where recurrent upper respiratory infections strangles-like occur. Nasopharyngeal swabs and guttural pouches lavages for citological and bacteriological assessement have been performed. No empyemas or chondroids were evident in guttural pouches and no Streptococcus equi has been isolated. For these reasons it’s possible to assert that no asymptomatic carriers were present in the breeding and endemic infection can be excluded. More investigations will be necessaries in order to verify the possible involvment of others Streptococcus species in the genesis of that kind of disease. INTRODUZIONE - Streptococcus equi subsp. equi (Streptococcus equi) è l’agente causale dell’adenite equina, malattia a diffusione mondiale caratterizzata da febbre, anoressia, tosse di entità variabile, scolo nasale purulento e linfadenite regionale, in particolar modo a carico dei linfonodi sottomandibolari e retrofaringei, che si presentano spesso caldi e dolenti con tendenza alla fistolizzazione. Il contagio avviene per contatto diretto o indiretto per mezzo di cibo, acqua o attrezzature contaminate (3). In popolazioni suscettibili la morbilità può raggiungere il 100% con tassi di mortalità contenuti entro valori dell’ 8-10% (2). Non infrequentemente l’introduzione di soggetti asintomatici, con malattia in incubazione o in fase convalescente, rappresenta la fonte d’infezione in un allevamento (5). Al di là della normale eliminazione del germe tramite le secrezioni nelle 4 settimane che seguono la malattia, alcuni soggetti possono veicolare e diffondere il batterio per periodi prolungati che, secondo alcuni autori, si protrarrebbero anche per 39 mesi (2). Tali portatori asintomatici sarebbero la causa della permanenza dell’infezione in una popolazione e quindi del carattere endemico che spesso essa assume. La localizzazione del germe nei soggetti portatori è motivo di indagine ormai da diverso tempo, ma solo recentemente sono state imputate le tasche gutturali quale possibile sito di infezione asintomatica, soprattutto in seguito alla formazione di empiema e, successivamente, di condroidi (1, 4). Peraltro anche se in genere si ritiene che per escludere l’eliminazione di S. equi da parte di un animale con malattia in fase convalescente o in incubazione sia sufficiente il reperto di tre tamponi nasofaringei negativi, effettuati ad intervalli settimanali, è stato accertato che, al fine di indagare la condizione di portatore asintomatico, il lavaggio delle tasche gutturali rappresenta uno strumento con una sensibilità quasi doppia rispetto a quella di un tampone nasofaringeo (45 vs 88%) (2). Obiettivo della ricerca è stato quello di accertare la presenza di soggetti portatori di S. equi in un allevamento, in cui si erano manifestati casi di malattia clinicamente riconducibile ad adenite, per mezzo di esami endoscopici e microbiologici, seguendo il protocollo diagnostico descritto da Newton e finora mai attuato a livello nazionale, nonché quello di accertare la corrispondenza tra presenza di lesioni nelle tasche, alterazioni citologiche ed effettiva condizione di portatore (1). MATERIALI E METODI - La prima fase della ricerca si è concentrata su una accurata raccolta dei dati anamnestici. Quindi 26 puledri di età compresa tra i 10 e i 16 mesi e 12 fattrici, sono stati sottoposti ad esame clinico diretto. Sui puledri sono stati eseguiti tamponi nasofaringei per tre volte a intervalli settimanali, utilizzando uno stick con punta ovattata inserito nelle narici attraverso il meato ventrale fino a raggiungere la faringe; l’induzione del riflesso della deglutizione indicava il corretto posizionamento dell’estremità del tampone. I campioni così ottenuti sono stati utilizzati per un esame colturale, che ha previsto una semina iniziale per 6/8 ore in brodo nutritivo antibiotato e arricchito di siero fetale e successivo trapianto in Agar nutritivo arricchito con 5% di sangue equino a cui veniva aggiunto

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supplemento selettivo per Streptococcus (Oxoid); colonie B-emolitiche riportabili a Streptococcus venivano successivamente identificate mediante prove sierologiche impiegando Slidex strepto – Kit (Oxoid) e prove biochimiche utilizzando la galleria Api 20 strep (bioMerieux). In tutti i cavalli, dopo sedazione con detomidina, al dosaggio di 20 g/Kg EV, si è proceduto quindi all’esecuzione dell’endoscopia delle tasche gutturali con videoendoscopio flessibile (Quasar Endoservice di 8,9 mm ∅). Oltre alle routinarie valutazioni morfologico-funzionali, è stato attuato un lavaggio delle tasche per mezzo dell’instillazione e successiva immediata aspirazione di 50 ml di soluzione salina sterile. Il liquido di lavaggio ottenuto dal flushing è stato suddiviso in due aliquote, di cui una utilizzata per un esame colturale impiegando la metodica di cui sopra, mentre l’altra, raccolta in due provette con e senza anticoagulante (EDTA), è stata destinata all’indagine citologica previa colorazioni differenziate (MGG e Papanicolau, rispettivamente). L’endoscopio è stato sterilizzato per immersione in una soluzione al 5% di glutaraldeide alla fine del lavaggio delle tasche gutturali di ogni cavallo, ma non tra una tasca e l’altra del singolo animale. RISULTATI - I dati anamnestici riferivano che 8 dei 26 puledri avevano presentato, circa 60 giorni prima del nostro intervento, sintomi respiratori di vario grado interessanti le alte vie, in alcuni casi associati ad ascessualizzazione dei linfonodi intermandibolari o retrofaringei e/o a segni di risentimento generale, quali febbre, anoressia e depressione del sensorio, in seguito al riscontro dei quali non era stato instaurato alcun protocollo terapeutico. Al momento della visita nessun soggetto presentava segni di affezione respiratoria. Da nessun campione è stato isolato S. equi, mentre 4 tamponi nasofaringei e 4 campioni ottenuti dal lavaggio delle tasche gutturali di cavalli diversi sono risultati positivi all’isolamento di S. equi subsp. zooepidemicus. Inoltre, dal tampone nasofaringeo di 16 soggetti è stato possibile isolare, ripetutamente, S. equisimilis. Le alterazioni endoscopicamente rilevabili delle tasche gutturali, presenti in 8 dei 38 cavalli, variavano da segni di lieve iperemia e/o edema mucosale a quelli di reattività linfatica a livello del pavimento del compartimento mediale. I risultati dell’esame citologico hanno permesso di suddividere i cavalli in 4 gruppi contrassegnati da un punteggio da 0 a 3 sulla base della predominanza di granulociti neutrofili (6): I gruppo (17 cavalli) punteggio 0: < 2 %; II gruppo (10 cavalli) punteggio 1: 2-5 %; III gruppo (4 cavalli) punteggio 2: 5-10%; IV gruppo (7 cavalli ) punteggio 3: > 10%. CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONI - L’assenza di quelle lesioni delle tasche gutturali che spesso accompagnano la condizione di portatore di S.equi, come l’empiema o la presenza di condroidi, ma soprattutto il mancato isolamento dello stesso germe da tutti i campioni raccolti, ci permette di concludere come l’allevamento in oggetto sia indenne da questo microrganismo. Peraltro, malgrado l’eliminazione di S. equi da parte dei portatori asintomatici sia a carattere intermittente, la raccolta di campioni in modo ripetuto nell’arco di circa un mese, dovrebbe aver escluso la possibilità di avere dei falsi negativi. I dati relativi ai risultati dell’esame citologico sono da considerarsi sicuramente in accordo con un quadro di gutturocistite per i cavalli appartenenti al gruppo IV, dove peraltro l’elevato numero di neutrofili era costantemente associato alla presenza di batteri intracellulari. E’ importante sottolineare come solo in alcuni di questi soggetti il reperto citologico di gutturocistite batterica abbia trovato correlazione sia con un’anamnesi di precedente infezione di tipo adenitico (4 su 8), che con lesioni evidenziabili endoscopicamente delle tasche gutturali (4 su 8), confermando come tale reperto sia da considerarsi aspecifico; questo a nostro avviso non contrasta con i dati bibliografici (1,2) in quanto gli isolamenti da noi ottenuti da queste strutture hanno riguardato solo Streptococcus zooepidemicus. Ci sembra infine rilevante porre l’attenzione sull’importanza dell’applicazione di questo protocollo diagnostico in quanto, sebbene siano necessarie ulteriori conferme, è possibile ipotizzare l’intervento anche di altre specie di streptococchi nel determinismo di una malattia di tipo adenitico. BIBLIOGRAFIA - (1) Fintl C., Dixon T.J.: Vet. Rec., 2000, 147, 480-484 - (2) Newton J.R., Wood J.L.N.: Vet. Rec., 1997, 140, 84-90 - (3) Reed S.M., Bayly W.M.: Equine Internal Medicine, W.B. Saundersw Company, Philadelphia, 1998. - (4) Verheyen K., Newton J.R.: Equine Vet J., 2000, 32(6):527-32 - (5) Wood J.L., Dunn K.: Vet. Rec., 1993, 133(15):375 - (6) Chiesa O.A., Vidal D., Domingo M., Cuenca R.: Vet. Rec., 1999, 144(13):346-9.

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FLORA MICOTICA CONGIUNTIVALE IN PULEDRI TROTTATORI SA NI: STUDIO PRELIMINARE OCCURRENCE OF FUNGI FROM CONJUNCTIVA OF HEALTHY FOALS: PRELIMINARY STUDY Sgorbini M.1, Barsotti G.1, Nardoni S.2, Marmorini P.3, Panzani D. 1, Corazza M.1 1Dipartimento Clinica Veterinaria (PI); 2Dipartimento di Patologia Animale (PI); 3libero professionista (PI). Parole chiave: puledro, occhi, flora congiuntivale, cheratocongiuntivite. Key words: foal, eyes, conjunctival flora, keratoconjunctivitis. SUMMARY - Our aim was to evaluate conjunctival fungal contamination at D0 and its evolution during the 1° month of life. Material/methods: both eyes of 38 foals were examined. Samples were taken from ventral conjunctival fornix with swabs, seeded and incubated. Results: fungi were isolated from 28,9% of foals at D0, 13,1% (D2), 21% (D7), 23,7% (D14), 15,8% (D28). Fungi recovered were: Penicillium sp.(30), Cladosporium sp.(11), Aspergillus sp.(9), Mucoraceae(3), Paecylomyces sp.(3), Trichosporon sp.(1) Rhodotorula sp.(1), Acremonium sp.(1). Penicillium sp. was isolated from 3 successive samples in 1 foal. Conclusion: foals were positive at D0 and the percentage of positivity was higher than the ones recovered at D2, 7, 14, 28. The isolation of the same specie of fungi in 3 or more successive samples were carried out only in 1 case, suggesting a fail of fungal colonization of the conjunctival fornix. Our results might suggest a casual contamination and not a colonisation of the eye. INTRODUZIONE – Gli equidi rappresentano la specie animale per la quale esistono gli studi più numerosi riguardanti la presenza di una micoflora congiuntivale in soggetti non affetti da patologie oftalmiche(1, 2, 3, 4, 5, 6). Nel cavallo alcuni elementi della normale micoflora congiuntivale possono divenire patogeni in esito a fattori predisponenti, soprattutto lesioni ulcerative traumatiche della cornea o improprio utilizzo di farmaci antimicrobici e/o antinfiammatori steroidei per uso topico(7). Si sviluppano così le cheratomicosi ulcerative che rappresentano delle gravi patologie corneali caratterizzate spesso da una rapida progressione; gli esiti di queste lesioni possono essere causa di perdita della funzione visiva dell’occhio coinvolto(3). Nel puledro, soprattutto nel periodo perinatale e in quei soggetti sottoposti a cure intensive, possono insorgere delle ulcere corneali sia di tipo infettivo (micotiche o batteriche) che di tipo primitivo come le erosioni corneali persistenti(3). Queste ultime inizialmente sono sterili, ma si possono complicare con infezioni secondarie da batteri o funghi. Lo scopo del presente lavoro è quello di stabilire l’eventuale presenza di miceti a livello del fornice congiuntivale di puledri sani al fine di evidenziare se alla nascita sia già presente una contaminazione e quale sia la sua evoluzione durante il primo mese di vita. Conoscere quale sia la micoflora congiuntivale dei puledri potrebbe essere importante per affrontare in maniera tempestiva ed agevole eventuali episodi di patologia corneale ad eziologia micotica. MATERIALE E METODI – Sono stati inclusi in questo studio 38 puledri trottatori, seguiti dal momento della nascita fino a 30 giorni di vita. Tutti i soggetti sono nati nello stesso allevamento e sono stati alloggiati dalla nascita e per tutto il periodo dello studio, insieme alla madre in box 4x4m con lettiera in paglia. I puledri sono stati considerati sani dal punto di vista oftalmologico sulla base di una visita oculistica completa, effettuata il giorno successivo alla nascita e ad un mese di vita; la visita ha escluso alterazioni degli annessi oculari e del segmento anteriore clinicamente diagnosticabili. I campioni sono stati ottenuti, da aprile a giugno 2004, inserendo nel fornice congiuntivale inferiore di entrambi gli occhi un tampone sterile, mantenuto in soluzione fisiologica addizionata con gentamicina al 5%; il tampone è stato inoltre fatto scivolare più volte sulla superficie della congiuntiva per ottimizzare la raccolta. I campioni sono stati prelevati alla nascita (G0), a 2 giorni (G2), ad 1 settimana (G7), a 2 settimane (G14) e a 4 settimane (G28) di vita. Il tampone congiuntivale è stato effettuato prima di qualsiasi altra manipolazione del neonato per evitare la contaminazione secondaria. Il materiale ottenuto è stato seminato su piastre Petri contenenti Sabouraud Dextrose Agar

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(SDA) e Malt Extract Agar (MEA) e posto ad incubare in termostato a 25 C°. Le piastre sono state controllate quotidianamente a partire dal 4° giorno post-incubazione (p.i.) e la lettura definitiva è stata fatta al 7° giorno p.i. L’identificazione delle colonie fungine é stata effettuata sulla base dei caratteri macro e microscopici delle colonie. L’identificazione dei funghi filamentosi è stata condotta a livello di genere; in caso di riscontro di aspergilli si è proceduto all’identificazione di specie, secondo quanto descritto in bibliografia(8). La specie di appartenenza è stata identificata anche in caso di isolamento di colonie di lievito sulla base di criteri morfologici e fisiologici (presenza di capsula e di attività ureasica, formazione di tubi germinativi, prove auxanografiche). Tutte le indagini sono state eseguite in duplicato. RISULTATI - L’esame colturale ha permesso di isolare colonie fungine dal 28,9% dei puledri a G0, dal 13,1% a G2, dal 21% a G7, dal 23,7% a G14 e dal 15,8% a G28. La percentuale di puledri positivi ad entrambi gli occhi è risultata: 13,1% a G0, 5,3% a G2, 5,3% a G7, 5,3% a G14, 10,5% a G28. Sono stati identificati i seguenti miceti: Penicillium sp. (30 isolamenti), Cladosporium sp. (11), Aspergillus sp. (9), Mucoraceae (3), Paecylomyces sp. (3), Trichosporon sp. (1) Rhodotorula sp. (1), Acremonium sp. (1). Nell’ambito del genere Aspergillus, sono state identificate le seguenti specie: A.versicolor (6), A.ochraceus (1), A. candidus (1) e A. terreus (1). Penicillium sp. è stato isolato 3 volte consecutive dallo stesso puledro (G2, G8, G14), 2 volte consecutive da un secondo puledro (G14 e G28), e 2 volte non consecutive da un terzo soggetto (G8, G28); Cladosporium sp. è stato isolato 2 volte consecutive in un puledro (G2, G8). CONCLUSIONI – La nostra indagine ha rilevato una contaminazione della congiuntiva nei puledri già al momento della nascita con una percentuale di positività superiore a quelle rilevate nei periodi successivi. I miceti isolati sono ampiamente distribuiti nell’ambiente: la loro presenza nel sacco congiuntivale a G0 potrebbe essere altresì causata da una contaminazione durante il passaggio nel canale del parto; tali elementi potrebbero rappresentare agenti secondari d’infezione in esito a fattori predisponenti. Confermata l’esistenza di miceti nel fornice congiuntivale dei puledri alla nascita, l’obiettivo futuro del nostro studio sarà quello di indagare la flora micotica eventualmente presente nel canale del parto, al fine di evidenziare una possibile relazione tra questa e la flora micotica congiuntivale dei neonati. Nei prelievi successivi a G0, l’isolamento di una stessa specie di fungo dallo stesso puledro in 3 o più campionamenti successivi si è verificato solo in un caso, suggerendo quindi l’assenza di una vera e propria colonizzazione fungina del fornice congiuntivale. Pertanto l’isolamento di funghi sembra essere una contaminazione casuale e non una vera e propria colonizzazione in considerazione dell’incostanza degli isolamenti e della variabilità delle specie identificate. BIBLIOGRAFIA 1) Andrew SE et al (2003) Vet Ophthalmol 6, 45-50. 2) Barbasso E et al (2002) Atti congresso annuale SOVI, ed. SCIVAC, 44-46. 3) Brooks DE et al (1999) Equine ophthalmology. In: Gelatt KN Veterinary Ophthalmology, 3rd ed, Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia 1053. 4) Moore CP et al (1988) Am J Vet Res, 49, 773-777. 5) Rosa M et al (2003). Vet Ophthalmol, 6, 51-55. 6) Samuelson DA et al (1984) JAVMA, 184, 1240-1242. 7) Andrew SE et al (1998) Eq Vet J, 30, 109-116. 8) Raper KB et al (1965) The genus Aspergillus, Williams and Wilkins Co, Baltimore, 657. RINGRAZIAMENTI – Si ringrazia i sig.ri Colatruglio, proprietari dell’allevamento “La Piaggia, Galleno (PI). Ricerca effettuata con fondi di Ateneo ex 60%

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SU UN CASO DI SARCOMA ISTIOCITICO DISSEMINATO IN UN CANE: ASPETTI CLINICI ED ISTOPATOLOGICI DISSEMINATED HISTIOCYTIC SARCOMA IN A DOG: CLINICAL AND HISTOPATHOLOGICAL FEATURES 1Antognoni M.T., 1Birettoni F., 2Sforna M., 2Mechelli L., 1Mangili V. Dip. ti di 1Pat. Diagnostica e Clinica Veterinaria e 2Sc. Biop. e Igiene Prod. Anim. e Alim. -Università degli Studi di Perugia Parole chiave: sarcoma istiocitico, neoplasia, cane Key words: histiocytic sarcoma, neoplasia, dog SUMMARY – The report describes a 9 years old, mixed breed dog affected by histiocytic sarcoma. Clinical findings included lethargy, tachicardia with sporadic premature beats and spleen, liver and lymph nodes enlargement. Blood works revealed leukocitosis, normocitic and normochromic anaemia and thrombocytopenia. Evaluation of the peripheral blood smear revealed large cells with basophilic cytoplasm and nucleoli as well as for the fine needle aspirates obtained from lymph nodes, bone marrow and spleen in which even multinucleated giant cells were present. Frequent mitotic figures, often bizarre, were detected. Echographic findings included peritoneal effusion, enlarged spleen with multiple hypoechoic nodules, enlarged hyperechoic liver and pleural effusion. 2 months after the diagnosis the dog was euthanized. Necropsy, histologic and immunohistochemical findings are described. INTRODUZIONE - Il sarcoma istiocitico (SI) è una malattia derivante da un disordine proliferativo delle cellule del sistema istiocitario, che si manifesta in forma localizzata (SIL) o disseminata (SID). Quest’ultima, in analogia alla forma neoplastica dell’uomo, era prima denominata istiocitosi maligna nel pastore bernese (1). I cani di razza pastore bernese, rottweiler, golden retriever e labrador presentano predisposizione alla neoplasia, in particolare gli adulti di sesso maschile (3,4). Il SID è una patologia a carattere multifocale, molto aggressiva, caratterizzata dalla presenza di formazioni nodulari neoplastiche in vari organi. Alcuni autori sono concordi nel riconoscere una sua origine multicentrica (1,4) con interessamento primitivo di milza, polmone e midollo osseo. Raro è il coinvolgimento cutaneo. In considerazione della bassa incidenza del SI nel cane (3), vengono qui descritti gli aspetti clinici, diretti e collaterali, nonché quelli anatomoistopatologici di un caso pervenuto alla nostra osservazione, peraltro in un soggetto di razza diversa da quelle sopracitate. MATERIALI E METODI – Trattasi di un cane meticcio (pastore tedesco x pastore belga), maschio, di 9 anni di età, che da circa una settimana mostrava sensorio depresso, predilezione al decubito sternale, anoressia e progressivo dimagramento. All’esame clinico diretto si rilevava pallore delle mucose apparenti, polso frequente ed aritmico, marcata epato-splenomegalia, nonché linfoadenomegalia sistemica. Il cane è stato ospedalizzato per 4 giorni e sottoposto a due prelievi ematici (P), ad indagini strumentali quali elettrocardiografia (ECG) ed ecografia addominale e toracica, nonché alla terapia di supporto. Il sangue è stato raccolto in provette vacutainer con e senza anticoagulante (EDTA-K e Na-eparina) per valutare i parametri emocromocitometrici (Genius-Vet, SEBIA) e quelli biochimico-clinici di routine (Hitachi 704 e kit Roche). L’osservazione microscopica è stata effettuata su strisci allestiti da sangue periferico, da buffy coat, nonché da agoaspirati linfonodali, midollari e splenici, sottoposti a colorazione con May Grunwald Giemsa (MGG) e a colorazioni citochimiche (kit Sclavo) quali -Naphtil Butirrato Esterasi (-NBE), Sudan Black (SB), Fosfatasi Alcalina (FA) e Naftol-AS-D Cloracetato Esterasi (NCE). Al momento della dimissione è stata prescritta una terapia antibiotica. Due mesi dopo, prima dell’eutanasia, sono stati effettuati un terzo prelievo ematico e la raccolta di campioni di liquido pleurico per l’esame citologico. E’ stata quindi eseguita la necroscopia. Sezioni istologiche di organi sono state colorate con ematossilina–eosina, PAS e Ziehl Nielsen e sottoposte ad indagine immunoistochimica per la ricerca di lisozima (kit Daco, Milano).

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RISULTATI – Si è osservata leucocitosi (tra 38.8 k/L e 83.8 k/ L), anemia (emazie tra 4.30 M/ L e 4.10 M/ L; emoglobina tra 9.5g% e 9.3g%; ematocrito tra 26.3% e 25.4%) normocitica, normocromica, di tipo iporigenerativo, nonché piastrinopenia (tra 152 k/L e 105 k/ L). L’osservazione degli strisci ematici ha evidenziato cellule mononucleate di grandi dimensioni con nuclei ovali, rotondi o di forme bizzarre contenenti nucleoli, diversi in numero e forma. Il citoplasma basofilo era abbondante, a volte, vacuolizzato, di aspetto granulare. Era presente fagocitosi di elementi eritroidi, anche a diversi stadi di maturazione, più evidente nell’ultimo campionamento in cui più marcata era anche l’anemia (eritrociti 3.20 k/L; emoglobina 7.7 g%; ematocrito 21.5%). La citologia degli agoaspirati e del versamento pleurico era rappresentata da elementi cellulari sovrapponibili a quelli appena descritti, figure mitotiche atipiche e cellule giganti multinucleate (3-7 nuclei) caratterizzate da anisocariosi, nucleoli prominenti e numerosi, citoplasma vacuolizzato con depositi di emosiderina e talora, inglobante elementi eritroidi. Solo la colorazione con -NBE ha dato esito positivo. I valori dei parametri biochimico-clinici modificati vengono riportati in tabella. Sporadiche extrasistoli sopraventricolari sono state evidenziate all’ECG. L’ecografia dell’addome ha mostrato lieve versamento peritoneale, modica epatomegalia e marcata splenomegalia con numerose aree ipoecogene “a grappolo” in particolare a livello del suo apice e presenti anche nei linfonodi aumentati di volume. Ulteriori controlli ecografici hanno evidenziato iperecogenicità diffusa del fegato con 3 noduli (diametro circa 1 cm) ipoecogeni intraparenchimali, piccole proliferazioni iperecogene all’interno della cistifellea, nonché aumento di volume dei linfonodi mediastinici craniali (diametro medio 2,5 cm) e raccolta liquida pleurica. La necroscopia mostrava linfoadenomegalia sistemica, noduli ben circoscritti, bianco-giallastri, disseminati in ambito splenico, epatico, renale e polmonare. L’esame istologico ha evidenziato un infiltrato di cellule istiocitoidi e cellule giganti multinucleate atipiche, che determinavano una grave disarchitettura dell’organo, con un indice mitotico elevato. Le cellule istiocitoidi mostravano una diffusa positività al lisozima. Tabella: risultati dei parametri biochimico-clinici P Urea

mg% PT g%

Bil.t. mg%

Bil.d. mg%

LDH U/L

GOT U/L

GPT U/L

AlP U/L

CK U/L

GGT U/L

Alb/Gl

1° 87 6.5 2.21 0.88 374 190 30 277 1345 4 0.62 2° 89 6.3 2.13 0.99 306 328 51 317 1415 6 0.60 3° 90 4.9 1.45 1.18 178 77 98 675 175 17 0.39

CONCLUSIONI – I rilievi clinici diretti ma soprattutto la peculiarità dei reperti citologici ed istologici hanno consentito di emettere diagnosi di SID, avvalorata anche dalla positività al lisozima e alla -NBE, considerati markers istiocitari (2). La prevalente risposta al lisozima degli elementi istiocitoidi rispetto alle forme multinucleate sarebbe correlata (Brown et al. 1994) alla scarsa differenziazione delle cellule coinvolte. Questa neoplasia, secondo alcuni autori (1,5) prenderebbe origine da cellule dendritiche indifferenziate ovvero istiociti capaci di attivare il sistema immunitario specifico. L’origine da cellule macrofagiche è invece ritenuta più rara, tanto da essere considerata una variante, denominata forma eritrofagocitica (5). Importante sottolineare come simili reperti citologici siano stati osservati e descritti anche nel nostro caso. E’ altresì interessante evidenziare il coinvolgimento peritoneale e pleurico, di raro riscontro bibliografico, nonché i reperti citologici del versamento pleurico stesso. Il crescente coinvolgimento del tessuto mieloide nel corso dei due mesi spiegherebbe l’aggravamento della piastrinopenia e dell’anemia, determinata, quest’ultima, anche dall’eritrofagocitosi. I parametri biochimico-clinici e quelli ecografici si sono modificati, attestando la crescente diffusione delle lesioni in organi già interessati ed il coinvolgimento di nuovi. Ciò confermerebbe l’aggressività e l’invasività del SID, come sottolineato anche da altri autori (1,3,5 ), i quali, pur disponendo di una casistica maggiore, riportano sempre esperienze di soggetti venuti a morte spontaneamente o sottoposti ad eutanasia.

BIBLIOGRAFIA – 1) Affolter VK, Moore PF, (2002) Vet Pathol, 39, 74-83. 2) Brown DE et al., (1994), Vet Clin Pathol, 23, 118-122. 3) Hayden DW et al., (1993) Vet Pathol, 30, 256-264. 4) Scott DW et al., (2001): Miller & Kirk’s, Small animal dermatology WB Saunders 6thEd, 1346-1357. 5) Valli VE et al., (2002) WHO Histological classification of haematopoietic tumors of domestic animals, Washington DC.

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VALUTAZIONE MEDIANTE PCR DELLA MALATTIA RESIDUA MINIM A IN 8 CANI AFFETTI DA LINFOMA PCR ASSESSMENT OF MINIMAL RESIDUAL DISEASE IN 8 LYMPHOMA-AFFECTED DOGS Calzolari C., Gentilini F., Agnoli C., Zannoni A.*, Peli A., Cinotti S., Famigli Bergamini P., Dipartimento Clinico Veterinario, *Dipartimento di Morfofisiologia Veterinaria e Produzioni Animali - Università di Bologna Parole chiave: linfoma, PCR, MRM, cane. Key words: lymphoma, PCR, MRD, dog. SUMMARY - A PCR assay was recently validated to detect B-Cell receptor and T-Cell receptor clonal rearrangements in canine lymphoid neoplasia. This study is aimed at evaluating the PCR tool for detecting Minimal Residual Disease (MRD) in canine lymphoma. Eight lymphoma-affected dogs who achieved complete remission (CR) following chemotherapy were included in this study. Lymph node cytological and biopsy samples of dogs at admission and after the induction phase of chemotherapy were analysed. PCR confirmed clonal rearrangements in all dogs at admission. Fifty percent of subjects showed positive PCR results in CR with clonal diversity between pre and post assays. Long term follow up is needed to establish the usefulness of PCR for assessing the length of disease free interval in this cohort of dogs. INTRODUZIONE - In medicina umana, l’utilizzo di tecniche molecolari nella valutazione delle patologie linfoproliferative sta assumendo sempre maggiore rilevanza. I saggi molecolari sono utilizzati con finalità diverse tra cui prevalente è la valutazione della malattia residua minima (MRM) (1) poichè le tecniche microscopiche non consentono di individuare una popolazione clonale inferiore all’1% del totale (2). Per incrementare la sensibilità delle indagini diagnostiche sono stati valutati diversi marker molecolari tra cui i riarrangiamenti dei geni delle immunoglobuline (segmenti genici V,D e J) e del T-cell receptor (TCRγ, segmenti genici V e J). Anche in medicina veterinaria è stato recentemente messo a punto un saggio PCR che consente l’identificazione di riarrangiamenti clonali BCR e TCRγ in grado di coadiuvare la diagnosi citologica e/o istologica delle malattie linfoproliferative del cane (3,4,5). Lo scopo del presente lavoro è di valutare l’utilità del saggio PCR nel rilevare la MRM del linfoma canino al fine di modulare in futuro il piano terapeutico ed ottenere remissioni più durature. MATERIALI E METODI - I campioni analizzati sono stati prelevati da otto cani affetti da linfoma multicentrico giunti in visita presso il Dipartimento Clinico Veterinario tra Aprile e Ottobre 2004. In tutti i casi la diagnosi di linfoma è stata ottenuta da campioni citologici in seguito utilizzati per l’estrazione di DNA e la successiva amplificazione mediante PCR. I soggetti in esame hanno ottenuto la remissione completa dei sintomi dopo essere stati sottoposti a trattamento antiblastico multifarmaco con una fase di induzione della durata di 19 settimane. Al termine della fase di induzione, sono stati prelevati campioni bioptici di linfonodi periferici tramite Tru-cut 18G non sottoposti ad esame istologico. IL DNA dai campioni citologici è stato ottenuto tramite raschiamento del materiale fissato e colorato e successiva estrazione con Kit commerciale (Qiamp DNA micro kit, Qiagen). Lo stesso Kit è stato utilizzato anche per l’estrazione dai campioni bioptici. I primer disegnati sui segmenti genici VDJ e il protocollo di esecuzione delle PCR sono stati ottenuti da bibliografia (3). Per la valutazione del BCR sono stati utilizzati due distinti bersagli (Ig H maior e Ig H minor) amplificati, in due distinte reazioni PCR, da 1 primer comune e da 1 primer bersaglio-specifico. Anche il TCR è stato amplificato utilizzando i primer riportati in letteratura (3). Per ogni campione è stato inoltre impiegato un controllo DNA positivo ottenuto da 2 primer diretti contro l’esone 1 del segmento genico Cµ, che codifica per la regione costante del BCR e del TCR. Ogni campione è stato quindi sottoposto a 4 reazioni PCR: IgH maior, IgH minor, Cµ, e TCR. I prodotti della PCR così ottenuti sono stati visualizzati con Etidio Bromuro dopo separazione elettroforetica, su gel di poliacrilamide al 6% (Novex 6% TBE gel, Invitrogen).

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RISULTATI - T utti i campioni dei soggetti all’ammissione sono risultati positivi all’esame PCR. In 3 casi è stata osservata una banda clonale BCR, in 2 casi 1 o più bande clonali TCR e nei restanti 3 casi erano presenti sia bande BCR che TCR (Fig 1A). Il 50% dei soggetti in remissione completa dopo induzione antiblastica sono risultati positivi a PCR. La maggior parte delle positività post-terapia, è stata frequentemente caratterizzata da evidenti diversità clonali rispetto all’ammissione, con comparsa di bande non visualizzate in precedenza (Fig1A). A differenza dei risultati all’ammissione, la maggioranza delle positività post terapia è stata ascritta a riarrangiamenti a carico del TCR. Al momento della stesura del presente lavoro, dei 3 soggetti che hanno presentato recidiva, 2 avevano PCR positiva al termine della fase di induzione ed 1 negativa. Un ulteriore soggetto con PCR negativa dopo la fase di induzione permane in remissione completa dopo 11 mesi dall’inizio della terapia. CONCLUSIONI – La malattia residua minima è caratterizzata dalla persistenza di un clone neoplastico frammisto ad una popolazione linfocitaria normale numericamente prevalente. Poiché i primer generici, come quelli da noi utilizzati, competono su sequenze presenti sia su linfociti neoplastici che normali, la sensibilità del saggio nel rilevare la popolazione blastica residua post terapia è significativamente ridotta. In medicina umana sono descritte strategie come ad esempio quella di disegnare primer paziente-specifici dopo sequenziamento del clone identificato al momento della diagnosi. Tale approccio consente di predire la guarigione con buona accuratezza. Al contrario la negatività al saggio generico ha un basso valore predittivo nel garantire la guarigione del paziente. Lo scopo di questa ricerca era quello di valutare la sensibilità del saggio PCR con primer generici nel rilevare un clone linfocitario residuo. Poiché in medicina veterinaria invariabilmente tutti i cani affetti da linfoma recidivano a distanza di tempo, la nostra ipotesi era che la negatività potesse predire remissioni più durature. Tuttavia, la mancanza di una valutazione diretta microscopica della presenza di tessuto linfoide nel materiale bioptico non ci ha consentito di accertare se le negatività alla PCR post terapia fossero inficiate dalla completa assenza di cellule linfoidi. La comparsa di recidive precoci in soggetti PCR negativi dimostra che si è verificata tale evenienza. Al fine di garantire l’adeguatezza del campione e di poter valutare l’attendibilità del saggio è quindi imprescindibile introdurre nel protocollo sperimentale l’osservazione diretta del campione prelevato, sia esso citologico o istologico. La contemporanea presenza di clonalità B e T è in accordo con studi precedenti (3). Tuttavia sembra interessante rilevare che dopo la fase di induzione si osserva spesso la scomparsa di clonalità BCR e la persistenza di clonalità TCR. Tale dato può essere cautamente interpretato come una maggior chemioresistenza dei cloni a cellule T già presenti al momento della diagnosi o comparsi durante l’evoluzione naturale della patologia o, infine, selezionati dallo stesso trattamento chemioterapico. In definitiva possiamo concludere che il protocollo sperimentale così come modificato sulla base delle risultanze di questo studio nonchè il completamento del monitoraggio dei casi esaminati potrà chiarire l’effettiva utilità di questo saggio nella gestione clinica dei cani affetti da linfoma. BIBLIOGRAFIA - 1) Rezuke WN et al (1997) Clin Chem 43, 1814-1823. 2) Campana D et al (1995) Blood 85, 1416-1434.3)Burnett RC et al (2003) Vet Pathol 40, 32-41.4)Vernau Wet al (1999) Vet Immunol Immunopathol 69, 145-164.5) Dreitz MJ et al (1999) Vet Immunol Immunopathol 69, 113-119.

Figura 1: A – positività all’indagine PCR pre e post chemioterapia antiblastica in 8 cani affetti da linfoma. B – esempio di analisi PCR relativo al caso n° 2. Corsia di sx – marker molecolare 100 e 200 bp

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CONFRONTO TRA ECOGRAFIA E CITOLOGIA DELLE LESIONI FOC ALI EPATICHE E DEL PARENCHIMA COMPARISON BETWEEN ULTRASONOGRAPHY AND CYTOLOGY OF LIVER FOCAL LESION AND PARENCHYMA IN THE DOG AND THE CAT Faverzani S.*, Chinosi S.*, Valenti P.*, Caniatti M.§ *Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Medica Veterinaria, Milano; § Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, Sezione di Anatomia Patologica e Patologia Aviare. Parole chiave: ecografia, citologia, fegato, lesione focale Key words: ultrasonography, cytology, liver, focal lesion SUMMARY – Ultrasonography is considered the gold standard technique for the detection of focal liver abnormalities even though rarely ultrasounds alone can specify the underlying pathology. In this paper the Authors compare the ultrasonographic features and the cytology of liver focal lesions and parenchyma in 27 dogs and 4 cats, in order to achieve a better definition of the underlying disease. The Authors point out the usefulness of the liver parenchymal cytology compared to the focal lesions cytology in order to assess the extension of the degenerative or neoplastic hepatic disease. INTRODUZIONE – L’interpretazione delle lesioni focali epatiche solo in base all’ecografia appare difficile, dal momento che i rilievi sono raramente patognomonici di un preciso quadro patologico. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di caratterizzare le lesioni focali epatiche, rilevate ecograficamente, sulla base dei reperti cito-istopatologici e clinici al fine di verificare eventuali correlazioni delle stesse con specifiche patologie. MATERIALI E METODI – Per questo lavoro sono stati selezionati retrospettivamente tutti i casi in cui fossero state evidenziate ecograficamente lesioni focali epatiche, nei quali fosse stato effettuato il prelievo citologico ecoguidato dalle lesioni e dal parenchima e per i quali la diagnosi fosse stata confermata dall’esame istologico condotto mediante biopsia ecoguidata della lesione, a seguito di laparotomia esplorativa od alla necroscopia. Sono stati così identificati 31 casi (27 cani e 4 gatti), per i quali sono stati presi in considerazione i seguenti aspetti ecografici: numero ed ecogenicità delle lesioni focali, ecogenicità del parenchima, presenza o assenza di epatomegalia. I rilievi ecografici sono stati classificati in 3 gruppi in relazione all’aspetto delle lesioni focali (ipoecogene, iperecogene e miste: quest’ultimo gruppo comprendeva tutti i casi di lesioni focali caratterizzate da differenti livelli di ecogenicità, ivi comprese le “target lesions”) e confrontati con i risultati dell’esame citologico del fegato. RISULTATI: Sono stati sottoposti a campionamento citologico 34 lesioni focali e tutti i parenchimi dei 31 soggetti. Il fegato appariva aumentato di volume in 15 casi con lesioni ipoecogene, in 9 casi con lesioni iperecogene e in tutti i 6 casi di lesioni miste. Negli altri soggetti era di normali dimensioni. Tabella I Ecogenicità parenchima

Ipo Iper Normo Tot. Ipo Iper Normo Tot. Ipo Iper Normo Tot.

Les. focali Singole Multiple Totale ipoecogene 1 1 1 3 0 9 4 13 1 10 5 16 iperecogene 0 1 4 5 0 2 5 7 0 3 9 12 miste 1 0 1 2 0 0 4 4 1 0 5 6 totale 2 2 6 10 0 11 13 24 2 13 19 34 Dei 16 casi con lesioni focali ipoecogene, è stata posta diagnosi di neoplasia in 5 soggetti. In 2 di questi le lesioni focali erano multiple (mastocitoma in lesione focale e nel parenchima; neoplasia indifferenziata nella lesione focale, reperti degenerativi a carico del parenchima), nei restanti casi singole (1 istiocitosi maligna e 2 linfomi sia nella lesione focale, sia nel parenchima). In 1 caso di linfoma il fegato era di normali dimensioni. In 4 dei 16 casi alla

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citologia si è riscontrato un quadro di tipo degenerativo, sia a carico delle lesioni focali sia a carico del parenchima. Dei restanti 7 casi, 6 presentavano concordanza citologica tra lesioni focali e parenchima (1 ematopoiesi extramidollare, 1 fibrosi, 1 leishmaniosi + steatosi, 1 stasi biliare, 2 normali). Nell’ultimo caso la lesione focale presentava un quadro di flogosi in un parenchima con stasi biliare. Tra i 12 casi con lesioni focali iperecogene, in 5 soggetti è stata diagnosticata una neoplasia. In 3 casi la lesione focale era singola (3 epatocarcinomi a carico della lesione focale, 2 steatosi ed 1 prelievo inconclusivo per quanto riguarda i parenchimi). In 2 soggetti sono state rilevate lesioni multiple (1 adenocarcinoma sia lesione focale, sia parenchima, 1 adenocarcinoma lesione focale mentre il parenchima è risultato inconclusivo). In 1 caso di epatocarcinoma il fegato era di normali dimensioni. 5 dei casi rimanenti presentavano un quadro di tipo degenerativo associato talvolta a flogosi; in 1 caso la lesione focale era singola ed il fegato di normali dimensioni. In 1 caso è stata posta diagnosi di fibrosi sia dalla lesione focale sia dal parenchima. I prelievi dell’ultimo caso del gruppo sono risultati inconclusivi ed il fegato era di normali dimensioni. Delle 6 lesioni focali miste, all’esame citologico 2 erano neoplasie (1 linfoma lesione focale e parenchima; 1 adenocarcinoma lesione focale e steatosi a carico del parenchima): in entrambi questi casi le lesioni apparivano con aspetto “a bersaglio”. Due casi presentavano un quadro degenerativo tossico sia a carico delle lesioni focali sia del parenchima. Le restanti 2 lesioni focali singole presenti in questo gruppo hanno fornito campioni inconclusivi sia dalle lesioni focali sia dal parenchima. Su 7 neoplasie epatiche (2 linfomi, 2 istiocitosi maligne, 1 carcinoma, 1 emangiosarcoma, 1 mastocitoma) realmente presenti nel gruppo delle lesioni ipoecogene, la citologia ne ha evidenziate 5. Su 8 lesioni neoplastiche (4 epatocarcinomi, 2 adenocarcinomi, 1 istiocitosi maligna, 1 npl indifferenziata) presenti nel gruppo delle lesioni iperecogene, la citologia ne ha diagnosticate 5. Nel gruppo delle lesioni miste la citologia è stata in grado di diagnosticare 2 delle 3 neoplasie effettivamente presenti (1 epatocarcinoma + mastocitoma, 1 linfoma, 1 adenocarcinoma). CONCLUSIONI - Il nostro lavoro ha evidenziato come lesioni focali singole siano risultate associate a patologie di natura neoplastica e come sia stato possibile associare la presenza di lesioni focali multiple anche a patologie degenerative, a carattere quindi non neoplastico. In accordo con quanto riportato in bibliografia(1), anche dal nostro studio è emerso che la numerosità delle lesioni non consente di discriminare tra lesioni benigne o maligne. In base alla nostra esperienza ed ai riscontri bibliografici(1), riteniamo che a fronte di una lesione focale iperecogena singola, l’ipotesi di un epatocarcinoma debba sempre essere presa in considerazione. Per quanto riguarda invece le lesioni focali ipoecogene singole o multiple, in letteratura non è riportata alcuna correlazione con una neoplasia (1); nel nostro campione 4 delle 5 neoplasie presenti nel gruppo delle lesioni focali ipoecogene erano associate a neoplasie a cellule rotonde. La steatosi è stata da noi osservata in fegati aumentati di volume con lesioni focali spesso multiple ed un parenchima anch’esso caratterizzato da aspetti di tipo degenerativo. In letteratura veterinaria non abbiamo potuto trovare riscontro di tale reperto ecografico, mentre la steatosi, come lesione focale, viene invece segnalata in medicina umana dove, nelle fasi precoci di tale patologia, è possibile identificare lesioni segmentali prevalentemente di aspetto iperecogeno(2). Il prelievo dal parenchima è risultato utile in quanto, in presenza di patologie di natura neoplastica, ha permesso di evidenziare un coinvolgimento dell’organo superiore a quanto suggerito dall’immagine ecografica, mentre, d’altro canto, ha permesso di associare la presenza di lesioni focali a patologie degenerative diffuse a tutto il parenchima. Riteniamo inoltre importante segnalare che il nostro lavoro ha confermato la sicurezza, ampiamente descritta in letteratura, del prelievo citologico ecoguidato, dal momento che in nessun caso sono state evidenziate complicanze post prelievo, pur avendo noi sottoposto ad esame citologico anche un emangiosarcoma (3). In questo caso possiamo concordare con la medicina umana in cui queste neoplasie vengono considerate campionabili (4,5). La nostra esperienza consente di affermare che sia sempre opportuno provvedere ad una valutazione citologica delle lesioni focali e del parenchima epatico prima di ricorrere a procedure più invasive. BIBLIOGRAFIA – 1) Nyland et al (2002) Liver. In: Nyland TG/Mattoon JS Small animal diagnostic ultrasound, 2 nd Ed, W.B. Sounders Company, Philadelphia, 207. 2) Cosgrove D, Mc Cready V.R. (1986) Ecografia fegato-milza-pancreas, Ed Piccin, 183-184. 3) Lèveillè R et al. (1993) Javma, 3, 413-415. 4) Gandolfi L et al (1983). Europ. J. Radiol., 3, 222-226. 5) Buscarini L et al (1990) Journal of Hepatology, 11, 344-348.

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VALUTAZIONE ULTRASONOGRAFICA DEGLI STRATI DELLA PARETE INTESTINALE NEL CANE: STUDIO PRELIMINARE ULTRASONOGRAPHIC EVALUATION OF THE BOWEL WALL LAYERS IN THE DOG: PRELIMINARY STUDY Chinosi S., Faverzani S., Scarpa P. Gianni F. Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Medica, Milano Parole chiave: ecografia, intestino, strati, spessore, cane Key words: ultrasonography, bowel, layers, thickness, dog SUMMARY - In this work the Authors report the results of the ultrasonographic measurement of the bowel wall layer’s thickness in 43 healthy dogs. The Authors find a decreasing thickness of the bowel wall proceeding from the duodenum to the colon. It seems to be related to the decreasing of the mucosal layer thickness: actually this layer decreases its size progressively, while the other layers (serosa, muscle and sub-mucosa) don’t show any change in their thickness. This preliminary results would be useful to identify normal range values for the bowel wall thickness in normal dogs.

INTRODUZIONE - La valutazione degli strati della parete intestinale può essere un valido ausilio nella diagnosi di alcune patologie del tratto gastroenterico del cane e del gatto(1,2,3). Scopo di questo lavoro è valutare gli spessori degli strati della parete intestinale del cane sano e verificare se questi variano in funzione della taglia e del tratto considerato.

MATERIALI E METODI - Sono state selezionate le cartelle di 43 pazienti esenti da segni palesi di gastroenteropatia e con un quadro ecografico intestinale nella norma. Le cartelle cliniche sono state suddivise in base alle classi di peso in 3 gruppi: < 20 Kg, tra 20 e 30 Kg e > a 30 Kg per i soggetti con immagini relative a duodeno e digiuno; in due gruppi: < 20 kg e > 20 kg per i soggetti con immagini relative al colon. Dalle 43 cartelle sono state estratte 86 immagini, suddivise in base al tratto intestinale rappresentato. Le immagini sono state ottenute con l’impiego delle sonde elettroniche: microconvex 5-7,5 MHz e lineare 7.5-10 MHz. Con programma dedicato è stata eseguita la misurazione sia dello spessore totale che dei singoli strati sulle immagini archiviate in computer. La maggior parte delle misurazioni è stata eseguita su immagini in sezione longitudinale. Le anse di duodeno e digiuno presentavano un contenuto di tipo mucoso, il colon presentava un pattern di tipo gassoso. Si sono calcolati i valori medi e le deviazioni standard dello spessore totale e dei relativi strati, nonchè la percentuale dei diversi strati sullo spessore totale e su quello ottenuto sottraendo lo spessore della mucosa. Infine, mediante l’analisi della varianza, sono stati valutati gli effetti sullo spessore totale e dei singoli strati in funzione del peso e della variazione di tratto esaminato.

RISULTATI - Dei 43 soggetti in esame, 29 (70,7%) pesavano meno di 20 kg, 5 tra 20 e 30 kg (12,2%) e 7 più di 30 kg (17,1%). Per 2 soggetti non è stato possibile risalire al peso. Delle 86 immagini, 43 rappresentavano il duodeno (50%), 31 il digiuno (36%) e 12 il colon (14%). I valori medi e percentuali relativi agli spessori dei singoli strati e della parete in toto di duodeno e digiuno nelle classi di peso sono riportati in tabelle 1, quelli relativi al colon in tabella 2. Le percentuali relative allo spazio occupato da sottomucosa, muscolare e sierosa nella parete dei tre tratti intestinali considerati, ricalcolate dopo aver sottratto allo spessore totale medio il valore ottenuto per la mucosa, sono state: per il duodeno 35,3%, 32%, e 32,7%; per il digiuno 35,4%, 32,6% e 32%; per il colon 38%, 32% e 30 %. La significatività dell’effetto della variazione del peso sullo spessore totale della parete e dei singoli strati è riportato in tabella 3. La significatività dell’effetto del passaggio tra i tratti intestinali sullo spessore totale della parete e dei singoli strati calcolata sul totale dei soggetti è riportata in tabella 4.

CONCLUSIONI - Sono stati eseguiti diversi studi in merito alla misurazione dello spessore complessivo della parete intestinale ed in alcuni casi è stato preso in considerazione sia il peso del soggetto, sia il tratto intestinale esaminato; nessuno, tuttavia, ha preso in considerazione lo spessore dei singoli strati della parete(4,5,6). Il nostro campione presentava un numero di soggetti non equamente suddiviso nelle diverse classi di peso ed un numero limitato di

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immagini relative al colon; per questo i soggetti di quest’ultimo gruppo sono stati suddivisi solo in due classi di peso. Questi motivi potrebbero spiegare la non significatività statistica di alcuni risultati. I valori medi dello spessore di duodeno e digiuno ottenuti sono vicini a quelli riportati da Delaney (6). L’analisi della varianza effettuata sul totale dei soggetti mette in evidenza un effetto del peso sull’aumento dello spessore della parete intestinale in toto e della mucosa vicino alla significatività per quanto riguarda il duodeno, tratto per cui avevamo il maggior numero di immagini. Per digiuno e colon, a fronte di un aumento progressivo dei valori medi con l’incremento delle classi di peso, non si sono ottenuti valori statisticamente significativi. In accordo con la letteratura, abbiamo rilevato una diminuzione dello spessore totale della parete intestinale passando da duodeno a digiuno, da digiuno a colon. La diminuzione totale della parete sembrerebbe imputabile prevalentemente alla diminuzione dello spessore della mucosa ed in parte a qulla dello spessore della sierosa nel colon. Infatti, osservando le medie relative della mucosa, possiamo rilevare come il suo spessore all’interno della parete si riduca gradualmente, mentre rimane pressoché costante per gli altri strati, ad eccezione della sierosa nel colon. Situazione rilevabile anche osservando le percentuali di sottomucosa, muscolare e sierosa una volta sottratto lo spessore della mucosa dallo spessore totale. In conclusione, il nostro lavoro vuole essere uno studio preliminare e gettare le basi per un lavoro successivo volto a stabilire dei valori di riferimento per la valutazione accurata della stratificazione intestinale e migliorare la diagnosi precoce delle patologie enteriche.

< 20kg 20-30 kg > 30 kg Media totale Tabella 1 Mm % mm % mm % mm %

Mucosa 2.35±0.54 61.2 2.75±0.14 64.6 2.82±0.10 63.3 2,45±0.50 62 Sottomucosa 0.52±0.11 13.5 0.58±0.06 13.6 0.61±0.16 13.7 0.53±0.11 13.4 Muscolare 0.48±0.14 12.5 0.47±0.05 11 0.52±0.03 11.6 0.48±0.12 12.2 Sierosa 0.49±0.10 12.8 0.46±0.08 10.8 0.51±0.10 11.4 0.49±0.09 12.4

Duo

deno

Spessore tot. 3.84±0.63 4.26±0.14 4.46±0.17 3.95±0.58 Mucosa 2.12±0.47 58.6 2.38±0.21 62.5 2.50±0.13 61.5 2.20±0.44 59.4 Sottomucosa 0.53±0.12 14.6 0.49±0.12 12.9 0.59±0.05 14.5 0.53±0.12 14.3 Muscolare 0.49±0.13 13.5 0.48±0.04 12.6 0.51±0.03 12.5 0.49±0.11 13.3 Sierosa 0.48±0.09 13.3 0.46±0.01 12 0.47±0.01 11.5 0.48±0.08 13

Dig

iuno

Spessore tot. 3.62±0.60 3.81±0.27 4.07±0.15 3.70±0.56

< 20kg > 20 kg Media totale Tabella 2 mm % mm % mm %

Mucosa 1.26±0.40 48.1 1.54±0.24 54.2 1.34±0.38 50 Sottomucosa 0.50±0.07 19.1 0.51±0.04 18 0.51±0.06 19 Muscolare 0.45±0.12 17.2 0.39±0.10 13.7 0.43±0.12 16 Sierosa 0.41±0.09 15.6 0.40±0.10 14.1 0.40±0.09 15 Spessore tot. 2.62±0.41 2.84±0.10 2.68±0.36 Duodeno Digiuno Colon Duodeno

-digiuno Duodeno -colon

Digiuno -colon

P=0.08 P=0.248 P=0.293 Mucosa P=0.044 P=0.000 P=0.000 P=0.219 P=0.533 P=0.824 Sottomucosa P=1.000 P=0.567 P=0.604 P=0.816 P=0.947 P=0.464 Muscolare P=0.736 P=0.230 P=0.149 P=0.734 P=0.932 P=0.876 Sierosa P=0.650 P=0.050 P=0.011 P=0.068 P=0.333 P=0.396 Spessore tot. P=0.091 P=0.000 P=0.000 Tabella 3 Tabella 4 BIBLIOGRAFIA - 1) Diana A et al (2003) Vet Radiol Ultrasound 44(5), 566-569. 2) Spohr A et al (1995) J Small An Pract 36, 79-82. 3) Penninck (2002) Gastrointestinal tract. In: Nyland TG/Mattoon JS Small animal diagnostic ultrasound, 2 nd Ed, W.B. Sounders Company, Philadelphia, 207. 4) Penninck DG et al (1989) Vet Radiol 30(6), 272-276. 5) Lamb CR et al (1995) Vet Radiol Ultrasound 36(2), 139-145. 6) Delaney F et al (2003) Vet Radiol Ultrasound 44, 577-580

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HELICOBACTER SPP. IN CANI DA LAVORO DELL’ESERCITO ITALIANO: OSSERVAZIONI PRELIMINARI HELICOBACTER SPP. IN DOGS OF THE ITALIAN ARMY: A PREMISE Marchesi M.C.*Tarabbo M., **Capuccini S., Passamonti F., ***Rucco G., Rueca F., Dip. Patologia, Diagnostica e Clinica Veterinaria, **Dip. Scienze Biopatologiche ed Igiene delle Produzioni Animali ed Alimentari – Università degli Studi di Perugia -* Med. Vet. Libero Professionista –Roma-***Centro Studi e Ricerche di Sanità e Veterinaria -Roma - Parole chiave: cane, Helicobacter spp., endoscopia, rischio zoonosico Key words: dogs, Helicobacter spp., endoscopy, zoonosic risk SUMMARY – The discovery of pathogenetic role of Helicobacter spp., as Helicobacter pylori in the human gastroduodenal diseases, has favoured more studies about this topic. Such kind of microorganisms may colonize stomach in dogs, sometimes causing gastric disorders (hypertrofic/atrophic gastritis). The Authors refer about their personal reports concerning 9 clinically healthy dogs of the Italian Army. All of the animals showed signs of chronic gastritis and Helicobacter spp. was found in the mucosal biopsies, even isolated in five dogs. The narrow relationship men-dogs justifies fear for zoonosic risks. INTRODUZIONE – Lo stomaco dei monogastrici, uomo compreso, è stato a lungo considerato un ambiente sterile, poiché si riteneva che le secrezioni endoluminali acide impedissero la sopravvivenza di microrganismi. Ricerche effettuate negli animali e nell’uomo (4) hanno dimostrato che germi spiraliformi, specializzati, possono sopravvivere in tale habitat colonizzandolo. Tale condizione si è rivelata importante poiché ha portato a riconoscere germi del genere Helicobacter tra le cause di gastrite nell’uomo: in particolare, H. pylori interviene nella patogenesi di gastrite, dispepsia, ulcere gastroduodenali, carcinoma e linfoma gastrico (3). Nello stomaco del cane sono state riscontrate diverse specie di germi del genere Helicobacter, quali Flexispira Rappini, H. felis ed H. heilmannii (4) tuttavia non sono riportati in letteratura casi di infezione spontanea da H. pylori. L’incidenza dell’infezione aumenta in condizioni di sovraffollamento (3) ed è compresa tra 72-90% nei soggetti sintomatici (vomito), tra 67-100 % in quelli clinicamente sani (6); i germi si localizzano nel fondo, cardias e corpo dello stomaco (2), la loro presenza può associarsi a forme di gastrite cronica prevalentemente linfoplasmacellulare (3, 6). Deve essere tuttavia sottolineato che il ruolo eziopatogenetico di Helicobacter spp. nel cane. permane ancora non chiaro. Indubbiamente, l’azione patogena di Helicobacter nell’uomo e la sua diffusione anche in cani asintomatici giustificano l’interesse per l’eventuale rischio zoonosico, dovuto alla stretta convivenza tra uomo e cane. Tale interesse, inoltre, è suffragato dalla descrizione anche nell’uomo di casi di gastrite sostenuta da H. Heilmanni (4). Abbiamo, quindi, ritenuto degno di nota riferire quanto osservato in 9 cani da lavoro appartenenti ad una stessa colonia: in 5 dei quali è stato isolato Helicobacter spp., allo scopo di fornire un ulteriore contributo casistico. MATERIALI E METODI - Le osservazioni si riferiscono a 9 cani dell’Esercito Italiano: 8 Pastori Tedeschi ed 1 Pastore Belga Malinois; 5 femmine e 4 maschi di età compresa tra 4-9 anni, clinicamente sani, che sono stati sottoposti, previa anestesia generale, a gastroscopia associata a prelievi bioptici della mucosa di corpo, fondo ed antro. I campioni di mucosa sono stati impiegati per allestire in doppio preparati per esami istologici e batteriologici, al fine di classificare le lesioni istopatologiche presenti, isolare Helicobacter spp. verificandone anche la localizzazione mediante colorazione di Leung e Gibbon (Alcian yellow Toluidine blue). Per l’esame batteriologico la biopsia è stata subito sottoposta ad omogeneizzazione con 0.5 ml di soluzione salina sterile per 15”(10.000 rpm), quindi, seminata per spatolamento su un terreno selettivo ed uno non selettivo con aggiunta di antibiotici (Pilori selective agar + 5% sangue di montone, chocolate agar + 1% isovitalex - Biomérieux). Le piastre sono state incubate a 37°C in condizioni di microaerofilia (10% CO2, 5% O2) al 100% di umidità per 7 giorni. Le colonie sviluppatesi sono state sottoposte a colorazione di Gram e, per evidenziare i flagelli, a colorazione di Leifson modificata; alle prove di catalasi, ossidasi, ureasi, fosfatasi alcalina, idrolisi dell’ippurato e riduzione dei nitrati.

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RISULTATI – L’esame endoscopico rilevava in 8 cani segni di gastrite cronica ipertrofica ed in 1 di gastrite cronica atrofica. In Tabella 1 sono riportati i risultati dell’esame istologico e batteriologico. ID A:CORPO B:ANTRO C:FONDO LESIONI ISTOL

grado quant. Grado quant. grado quant. fibrosi flogosi

ES.BATTER. Helicobacter spp.

1 3 2 materiale scarso 3 2 + -/+ +++

2 4 3 0 3 1 A-C -/+

B+++

A follicolo linf. B+

3 4 1.5 0 4 1.5 -/+ ++

4 0 0 0 3 1.5 A-C+ A-C+

5 1 0.5 0 1 2 +

6 4 1.5 0 materiale insuf. A++

7 1 1 1 2 1 1.5 A+++ A++ ++

8 3 0.5 1 2 3 3 A++ B+++

A+ ;B+ C++/edema

+++

9 0 0 1 1.5 3 1 A-C+ A-C+ ++

Tabella 1: Grado di colonizzazione, 0 colonizzazione non evidente; 1 colonizzazione muco superficiale; 2 colonizzazione muco superficiale e fossette gastriche; 3 colonizzazione muco superficiale, fossette gastriche e lumi ghiandolari; 4 colonizzazione cellule parietali (1). Quantità (valutazione ottica quantitativa), 0 assenti; 0.5 rari; 1 scarsamente presenti; 1.5 moderatamente presenti; 2 presenti; 3 abbondantemente presenti (1). Fibrosi (in base al numero di strati presenti): +1 strato; ++ 2 strati; +++ 3 strati (1). Flogosi (presenza di cellule infiammatorie):+/- scarsa; + moderata; ++ media; +++ marcata; presenza di follicoli linfatici (1).

CONCLUSIONI – Le nostre osservazioni, seppure riferite ad un numero limitato di casi, sono in accordo con quanto riportato in letteratura. I rilievi endoscopici di gastrite cronica ipertrofica/atrofica sono da ritenere compatibili con un’infezione da Helicobacter spp.: tale germe può infatti indurre processi flogistici cronici mediante numerosi fattori di patogenicità, quali la morfologia spiralata, la mobilità, nonché la capacità di produrre ureasi e mucinasi (2, 3). Conseguente all’infezione da Helicobacter può essere il rilievo di un follicolo linfatico nel caso 2, in accordo con l’esistenza di una gastrite cronica associata ad infiltrazione linfoplasmacellulare (1). Per quanto concerne le sedi di localizzazione di Helicobacter, anche nel nostro caso il fondo ed il corpo dello stomaco hanno mostrato il grado di colonizzazione maggiore, diversamente da quanto descritto nell’uomo. L’osservazione di germi riferibili ad Helicobacter in tutti i soggetti e l’isolamento di Helicobacter spp. in 5 di essi potrebbe essere correlata all’elevata densità di cani presenti nel centro di addestramento, che avrebbe favorito la trasmissione dell’infezione (3). I soggetti da noi osservati, inoltre, pur presentando segni endoscopici ed istologici di gastropatia, erano asintomatici, come riferito anche da altri Autori (5). Da quanto esposto emerge una considerazione degna di nota: sebbene non sia stata ancora accertata la possibilità di una trasmissione dal cane all’uomo, il potenziale rischio zoonosico da Helicobacter spp.non dovrebbe essere trascurato. Tale ipotesi potrebbe essere suffragata anche dalla descrizione in medicina umana di casi di gastrite sostenuta da H. heilmannii, germe questo più volte isolato anche dal cane (4). Occorrono, pertanto, studi epidemiologici “comparati” volti alla tipizzazione degli Helicobacter isolabili dallo stomaco dei cani che vivono in colonie e di quelli eventualmente presenti in quello dei loro proprietari/conduttori. BIBLIOGRAFIA – 1) Happonen I. et al (1998), JAVA, 213(12), 1767-1774; 2) Happonen I. (1999) Thesis: Canine and feline gastric helicobacters: diagnosis and significance in chronic gastritis. Helsinki,. 3) Neiger R e Kenneth WS (2000), J. Vet. Intern. Med., 14(2), 125-133; 4) Scanziani E et al (1997), Veterinaria, 11(4), 35-39; 5) Simpson K et al (2000), J. Vet. Intern. Med., 14(2), 223-7; 6) Bo Wiinberg et al ( 2005), J. Vet. Intern. Med., 19, 4-14 .

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COLITE ULCERATIVA ISTIOCITARIA (HUC) DEL CANE: REPERTI CLINICI, ISTOLOGICI E APPROCCIO TERAPEUTICO IN QUATTRO CASI HISTIOCYTIC ULCERATIVE COLITIS (HUC) IN FOUR DOGS: CLINICAL, HYSTOLOGICAL FINDINGS AND MANAGEMENT De Majo M., Pugliese M., Bonanno G., De Domenico A., Galia S., °Mazzullo G. Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie; °Dipartimento di Sa.Pu.Vet.-Sez.Pat.Gen.Anat.Pat. - Università di Messina. Parole chiave: cane, colite, ulcerativa-istiocitaria, terapia. Key words: dog, colitis, histiocytic-ulcerative, therapy. SUMMARY – Canine histiocytic ulcerative colitis is characterized by colonic inflammation with predominantly periodic acid Schiff (PAS)-positive macrophages. Four dogs with histologically confirmed HUC were treated as primary therapy with prednisone and/or sulfasalazine but, in two cases, only a switch to antibiotic therapy, doxycycline and a combination of enrofloxacin, metronidazole and amoxicillin, resulted in a resolution of the diarrhea. To evaluate the long-term clinical and histological efficacy of antibiotic therapy of HUC further studies are needed. INTRODUZIONE - La colite istiocitaria ulcerativa, forma di Inflammatory Bowel Disease considerata per molti anni esclusiva del cane di razza Boxer, è stata episodicamente osservata anche in altre razze; essa colpisce prevalentemente soggetti giovani di entrambi i sessi. Descritta per la prima volta nel 1965 negli USA (1), è stata successivamente segnalata anche in Italia sempre nel Boxer (2,3). Il quadro clinico è caratterizzato da una grave forma di diarrea cronica con ematochezia, presenza notevole di muco, tenesmo, dimagrimento e ispessimento intestinale. La diagnosi viene effettuata attraverso l’evidenziazione istopatologica di macrofagi PAS-positivi a livello di mucosa e sottomucosa del colon. La terapia, basata sull’utilizzazione di farmaci ad azione antibiotica, antinfiammatoria e immunosoppressiva nonché sulle modificazioni della dieta e l’integrazione con fibre, non dà spesso risultati confortanti (4). Recentemente, si sono avuti buoni esiti sia clinici che istopatologici con la somministrazione di enrofloxacin da solo o in associazione a metronidazolo e amossicillina (4,5). Nella presente nota vengono segnalati quattro casi di HUC, anche in razze diverse dal Boxer e, di tre di essi, sono riportati gli esiti terapeutici. MATERIALI E METODI – Quattro cani con diarrea cronica del grosso intestino sono stati riferiti, nel periodo marzo 2004 – gennaio 2005, per ulteriori accertamenti. In tabella sono riportati il segnalamento dei quattro soggetti, la durata e l’entità dei sintomi.

Caso 1 2 3 4 Razza West-Highland T. CKCS Boxer Meticcio

Età (mesi) 9 5 9 22 Sesso M M F F

Peso (Kg) 5.7 6.7 20 13 Durata sint (mesi) 1 1 3 2 Perdita peso (Kg) 1 - - 2

Appetito Capriccioso Buono Buono Capriccioso Diarrea ++ +/- ++ ++

Frequenza ++ + ++ ++ Ematochezia +++ + +++ +++

Muco + + ++ ++ Tenesmo ++ - ++ +

Legenda: CKCS – Cavalier King Charles Spaniel; Durata sint – durata sintomatologia; - assente; +/- intermittente; + lieve; ++ moderato; +++ grave. In tutti i soggetti sono stati effettuati: esame clinico, profilo generale, emocromo, es. parassitologico delle feci. I soggetti sono stati sottoposti ad esame colonscopico

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(videoendoscopio EPK-1000, Pentax) con effettuazione di 3-5 prelievi bioptici per ogni tratto; sezioni istologiche di 3-4 µ venivano colorate con Ematossilina-Eosina e PAS. I criteri per la valutazione istopatologica comprendevano: architettura e aspetto generale dei tessuti osservati, tipologia e distribuzione delle popolazioni infiammatorie presenti. Dopo la diagnosi di HUC, oltre alla modificazione della fonte proteica alimentare, nei casi 1,3 e 4 è stata prescritta una terapia della durata di due mesi con prednisone (1 mg/kg/BID per due settimane e successivamente a scalare) e sulfasalazina (15 mg/kg/BID per tre settimane poi SID per altre cinque settimane), mentre nel caso 2 è stata somministrata solo sulfasalazina. Nel caso 1, dopo 60 giorni, la terapia è stata sospesa dal veterinario curante per la somministrazione di doxiciclina (10mg/kg/SID) a seguito della positività al test IFAT per Ehrlichia canis; nel caso 3, dopo 15 giorni, abbiamo somministrato una associazione di enrofloxacin (5 mg/kg/SID), metronidazolo (10 mg/kg/BID) e amossicillina (20 mg/kg/BID) per un mese. Un soggetto, risultato positivo per Giardia spp., è stato trattato efficacemente con terapia specifica.

RISULTATI - Nei casi 1 e 4 venivano riferiti anche borborigmi associati a flatulenza. La palpazione dell’addome, nei casi 3 e 4, permetteva di apprezzare un ispessimento delle anse intestinali senza però evocare dolore. Gli esami di laboratorio non mostravano in tre casi alterazioni degne di rilievo; il caso 1 mostrava pancitopenia con anemia microcitica. L’esame endoscopico rilevava in tre casi iperemia con aspetto nodulare della mucosa e ulcerazioni facilmente sanguinanti localizzate in tutto il colon (Fig.1), il caso 2 mostrava un quadro macroscopico meno grave, caratterizzato da lieve irregolarità superficiale della mucosa, piccole e rare erosioni e lieve presenza di muco a livello del colon discendente.

Fig.1 Caso n.1-Quadro endoscopico Fig.2: (PAS)-Sezione di una biopsia del colon

In tutti i casi osservati i quadri istopatologici erano sovrapponibili e caratterizzati, sebbene con grado variabile, da: infiltrazione di macrofagi PAS-positivi (Fig.2) che, a volte, davano separazione tra le cripte, ipersecrezione ghiandolare con accumulo di muco, aspetti ulcerativi a carico dell’epitelio mucosale e fibrosi (ad esclusione del caso 2). Nel caso 1, il protocollo terapeutico con prednisone e sulfasalazina per 60 giorni ha comportato una attenuazione dei sintomi con notevole riduzione delle lesioni ulcerative e, al controllo istologico, evidenziazione di un infiltrato linfo-plasmacellulare e rari macrofagi; la sintomatologia è scomparsa dopo una settimana dall’inizio della terapia con doxiciclina e oggi, dopo 10 mesi, l’animale è clinicamente sano. Nel caso 2, la terapia con sola sulfasalazina ha comportato la totale scomparsa della sintomatologia. Nel caso 3, non essendosi rilevato alcun miglioramento dei sintomi clinici dopo 15 giorni, si è deciso di passare alla terapia antibiotica che, dopo una settimana, si è mostrata risolutiva. Ad oggi, dopo venti giorni dalla fine della terapia, è stato segnalato un unico episodio di diarrea con ematochezia. Del caso 4 non si hanno informazioni precise sul follow up.

CONCLUSIONI – Nei soggetti con forma lieve di HUC si conferma che la terapia con sulfasalazina può sortire una risposta clinica soddisfacente. In due degli altri casi riportati, per quanto il periodo di follow up sia ancora limitato, si segnala una maggiore efficacia clinica della terapia antibiotica rispetto a quella con prednisone e sulfasalazina. Degna di nota è anche la coesistenza di HUC e Ehrlichiosi e la completa scomparsa dei sintomi dopo terapia con doxiciclina. Vista l’esiguità complessiva dei soggetti trattati esclusivamente con antibiotici (4,5), risulta necessaria l’analisi di un maggior numero di casi e con controlli più lunghi. BIBLIOGRAFIA - 1) Van Kruingen et al. (1965) Pathol.Vet., 2, 521-544. 2) Boari et al., (1999) Proc. 24th WSAVA. 3) Boari et al. (2002) Atti SisVet, 239-240. 4) Hostutler RA et al. (2004) J Vet Intern Med, 18, 499-504. 5) Davies DR (2004) Aust Vet J, 82, 58-61.

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BRONCOPNEUMOPATIA EOSINOFILICA SU BASE ALLERGICA NEL CANE ALLERGIC EOSINOPHILIC BRONCHOPNEUMOPATHY IN THE DOG Cerquetella M., Beribè F., Fruganti A., Marini C., Rossi G., Spaterna A. Dipartimento di Scienze Veterinarie – Università degli Studi di Camerino (MC) Parole chiave: apparato respiratorio, broncopneumopatia eosinofilica allergica, cane. Key words: respiratory system, allergic eosinophilic bronchopneumopathy, dog. SUMMARY – In the present work three cases of allergic eosinophilic bronchopneumopathy in the dog are described. Relevant care has been posed in describing the diagnostic plan, especially the cytological and histological investigations performed on bronchoalveolar lavage fluid, bronchial brushing and bronchial biopsy samples. This disease is considered to be rare and sometimes it’s not even included in the differential list for bronchopneumopathies, for this reason clinical investigations necessary for its identification are not performed and the disease is further underestimated. INTRODUZIONE – La broncopneumopatia eosinofilica del cane è una malattia riconducibile ad un meccanismo di ipersensibilità di tipo I (1) nei confronti di allergeni inalati, farmaci, ma anche di parassiti, funghi e batteri (2). La patologia è caratterizzata da un infiltrato eosinofilico che può interessare l’albero bronchiale (bronchite eosinofilica) e/o il parenchima polmonare (polmonite eosinofilica) e si manifesta tipicamente con tosse che può essere associata a scolo nasale e difficoltà respiratoria (3). La possibilità di osservare 3 casi riconducibili a questa malattia, a fronte della rarità dei relativi riscontri bibliografici, ha motivato il presente lavoro, anche allo scopo di descrivere l’iter diagnostico seguito. OSSERVAZIONI PERSONALI – Caso 1: Siberian Husky, maschio, di 8 anni. Caso 2: Alaskan Malamute, maschio, di 14 mesi. Caso 3: meticcio, maschio, di anni 7. In tutti e tre i casi l’anamnesi riferiva che da un tempo variabile da 6 (caso 1 e 2) a 10 mesi (caso 3) era presente tosse, per la quale erano già stati effettuati ripetuti trattamenti antibiotici con solo transitori miglioramenti. All’esame clinico diretto erano rilevabili segni di dispnea associati a rantoli crepitanti a piccole e medie bolle in corrispondenza di tutti i campi polmonari. Sulla base dei reperti clinici sono stati eseguiti esami collaterali di laboratorio e strumentali. Il sangue venoso è stato processato per indagini emocromocitometriche e per la determinazione dei principali parametri di funzionalità dei vari organi ed apparati, nonché per una sierodiagnosi per Dirofilaria immitis. Su siero è stato inoltre eseguito un test ELISA per il dosaggio delle immunoglobuline della classe E (IgE) specifiche per allergeni stagionali ed ambientali. Il sangue arterioso è stato utilizzato per una valutazione emogas-analitica. Esami copro-microscopici sono stati ripetutamente effettuati mediante tecnica di flottazione. Le radiografie toraciche hanno previsto proiezioni latero-laterale e dorso-ventrale. L’indagine endoscopica (fibroscopio da 6 mm ∅) ha consentito il prelievo sia di campioni citologici, mediante lavaggio broncoalveolare (BAL) e brushing bronchiale, che bioptici; sul BAL è stato effettuato anche un esame colturale per batteri e funghi. Le biopsie sono state fissate in formalina tamponata al 10%, incluse in paraffina e sezionate a 3 µm di spessore. I risultati delle indagini ematologiche hanno permesso il rilievo di modificazioni, rispetto ai limiti di riferimento (4-5), rappresentate nel caso 2 da neutrofilia (13.2 103/µL), eosinofilia (4.31 103/µL) e da iperprotidemia (8,5 g/dl) per increzione di β- e γ-globuline, mentre nel caso 1 da eosinofilia (5.24 103/µL). Le sierodiagnosi per filariosi sono risultate negative, così come tutte le valutazioni copromicroscopiche. In tutti i cani sono stati riscontrati livelli di IgE elevati (EA units 551-3000) per allergeni ambientali, acari in particolare. L’emogasanalisi non ha evidenziato modificazioni rispetto ai valori di riferimento (5). Radiologicamente è stato possibile apprezzare in tutti i casi un’accentuazione della trama bronchiale. In sede endoscopica la mucosa bronchiale appariva in tutti i soggetti uniformemente iperemica ed edematosa, per estesi tratti ricoperta da muco denso e giallastro. L’esame citologico eseguito sul BAL ha evidenziato in tutti i soggetti una buona cellularità costituita principalmente da eosinofili (50,3%±16,1%), neutrofili (22,1%±11,1%) e macrofagi (12,7%±7,4%) con qualche

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piccolo linfocita (6,4%±2,1%) su di un fondo mucoso eosinofilico; nei casi 1 e 2 un’elevata % di neutrofili presentava segni di degenerazione cellulare e batteri di forma cocco-bastoncellare in sede intracitoplasmatica. Lo stesso esame eseguito a partire dal materiale prelevato con il brushing ha, invece, permesso di rilevare in tutti i soggetti un’abbondante popolazione cellulare di tipo misto, costituita da cellule cilindriche con ciglia ben conservate e nel caso 1 anche da altre in preda a fenomeni di displasia e metaplasia squamosa, con nuclei di ridotte dimensioni e abbondante citoplasma azzurro chiaro; completava il quadro un copioso infiltrato costituito da eosinofili e linfociti. L’esame colturale è risultato negativo nel caso 3, mentre ha consentito l’isolamento nel caso 1 di Pseudomonas aeruginosa e nel caso 2 di streptococchi -emolitici. L’esame istologico dei prelievi bioptici ha confermato l’infiltrazione eosinofilica, caratterizzata da addensati di tali cellule in sede sub-epiteliale ed in transcitosi epiteliale; tale reperto era associato nel caso 1 ad una iperplasia/displasia a carico della mucosa bronchiale ed alla presenza di tessuto linfoide associato al bronco (BALT) in aspetto attivato, mentre nei casi 2-3 ad una bronchite iperplastica cronico-attiva con cellule epiteliali e strutture ghiandolari annesse in preda a processi di ipertrofia/degenerazione idropica. In tutti i soggetti era anche evidenziabile una condizione di edema sub-epiteliale, a localizzazione talora estesa a livello del connettivo peribronchiale. Da quanto esposto si può evidenziare innanzi tutto come due dei tre cani in oggetto fossero di razza nordica a conferma che tali razze sembrerebbero particolarmente predisposte nei confronti di questa patologia (2). Tutti e tre i soggetti presentavano una sintomatologia di tipo respiratorio, segnatamente bronchiale, ma solo un completo iter diagnostico ha consentito di inquadrarne il meccanismo patogenetico. L’aumento degli eosinofili circolanti riscontrato nei casi 1 e 2, anche se in accordo con una condizione allergica non deve essere considerato indicativo di questa malattia, sia perché in corso di broncopneumopatia allergica può anche mancare (2), come peraltro riscontrato nel caso 3, sia perché come è noto può associarsi ad altri tipi di patologie. Anche la neutrofilia e l’increzione delle frazioni globuliniche (caso 2), condizioni che trovano giustificazione nella complicanza batterica secondaria e/o nella flogosi cronica bronchiale, sono da considerarsi aspecifiche. L’indagine endoscopica, oltre a permettere una visualizzazione diretta delle alterazioni bronchiali, ha consentito l’effettuazione di vari campionamenti risultati determinanti ai fini diagnostici. A questo riguardo va sottolineata l’importanza di eseguire contestualmente sia il BAL che il brushing al fine di ottenere, come nel caso 1, maggiori indicazioni circa lo stato della mucosa bronchiale. I risultati dell’esame citologico lasciano considerare la presenza di una bronchite eosinofilica (% di eosinofili notevolmente superiore ai limiti di riferimento pari a 6±5 (6)) con, nei casi 1 e 2, superinfezione batterica secondaria (neutrofili degenerati) (6). In tutti i casi l’esame istologico dei campioni bioptici ha confermato la condizione di bronchite a sfondo allergico, a motivo del riscontro di un infiltrato eosinofilico mucosale, e soprattutto di edema interstiziale a prevalente localizzazione sub-epiteliale; quest’ultimo reperto è sempre associato a fenomeni di ipersensibilità di tipo I, anche se non patognomonico, potendo riscontrarsi anche nelle parassitosi, che peraltro nei nostri casi sono state escluse sulla base dei rilievi clinici e laboratoristici. Un dato interessante è rappresentato dagli alti livelli di IgE specifiche nei confronti degli acari, ma il limitato numero di animali e l’assenza di riferimenti bibliografici non permette di esprimere considerazioni in merito. Nei casi da noi osservati i riscontri clinici e radiografici supportati da quelli citologici ed istologici hanno orientato la nostra diagnosi più verso una condizione di broncopatia eosinofilica piuttosto che di polmonite eosinofilica, anche se non è stato possibile differenziare con certezza le due forme non avendo potuto effettuare, per mancato consenso da parte dei rispettivi proprietari, una biopsia polmonare. Riteniamo infine che il motivo per cui questa malattia sia poco documentata nel cane vada imputato al fatto che spesso non viene diagnosticata; andrebbe, invece, sempre considerata in presenza di broncopneumopatie, anche a motivo che una precoce diagnosi ed un adeguato trattamento possono limitare in maniera significativa i conseguenti processi di cronicizzazione. BIBLIOGRAFIA – 1) Day MJ (2002) Allergologia e Immunologia clinica del cane e del gatto, Ed. UTET, Torino. 2) Clercx C et al (2000) J Vet Intern Med, 14(3), 282-291. 3) Clercx C et al (2002) J Vet Intern Med, 16(3), 229-237. 4) Feldman BF et al (2000) Schalm’s Veterinary Hematology–5thed., Lippincot W.&W., Baltimora. 5) Kaneko JJ (1997) Clinical Biochemistry of Domestic Animals–5thed., Academic Press, San Diego. 6) Andreansen CB (2003) Vet Clin North Am: Small Anim Pract, 33, 69-88.

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STUDIO SULLA POSSIBILE ASSOCIAZIONE TRA DERMATITE AT OPICA E SVILUPPO DI MICOSI FUNGOIDE NEL CANE INVESTIGATION OF A POSSIBLE ASSOCIATION BETWEEN ATOPIC DERMATITIS AND DEVELOPMENT OF MYCOSIS FUNGOIDES IN DOGS Santoro D., Di Loria A., Marsella R1., Ciaramella P. Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Sezione di Clinica Medica – Università di Napoli Federico II; Veterinary Medical Theaching Hospital - Dermatology Service – Università della Florida. Parole Chiave: Micosi Fungoide (MF), dermatite atopica (AD), cane Key words: Mycosis Fungoides (MF), atopic dermatitis (AD), dog SUMMARY: A possible association between canine atopic dermatitis (AD) and development of mycosis fungoides (MF), has been investigated in this study. 106.000 records of patients came from Dermatology Service – University of Florida (USA) and from Section of Internal Medicine of University of Naples Federico II (Italy) were evaluated between 1991 and 2004. 21 dogs with clinical and histological diagnosis of MF were identified. 5/21 (23.8%) patients with MF had history of AD. Statistical analysis (2 – test and Odds Ratio tests) showed that the probability of developing MF in dogs with AD is 35.6 times higher than non-atopic dogs. INTRODUZIONE – Nell’ambito delle affezioni neoplastiche a carattere linfoproliferativo del cane, riveste un’indubbio interesse, anche sul piano comparato, il linfoma cutaneo extranodale, una neoplasia maligna piuttosto rara, la cui incidenza si aggira intorno allo 0.8% di tutte le forme di linfoma(1). Istologicamente, si riconoscono due forme: la forma epiteliotropica, caratterizzata da una popolazione cellulare di tipo T, e quella non epiteliotropica, o linfoma a larghe cellule, con citotipo non ancora ben definito. Quella epiteliotropica, nota anche come micosi fungoide (MF), è la forma più comune di linfoma cutaneo. Essa è caratterizzata da due varianti: la prima ha localizzazione esclusivamente epidermica, mentre la seconda presenta anche coinvolgimento ematoperiferico (sindrome di Sezary). La MF colpisce generalmente animali anziani, senza una evidente predisposizione di razza e sesso. I segni clinici sono quanto mai vari, ma quelli di più frequente riscontro comprendono: eritroderma pruriginoso, macule, placche, noduli ed eritema, depigmentazione ed ulcerazione delle mucose(1). Negli ultimi anni, in medicina umana, è stato ipotizzato che alcune malattie quali l’atopia e/o la psoriasi predispongano i soggetti colpiti verso forme neoplastiche come la MF. In particolare l’associazione tra MF e dermatite atopica (DA) è stata riportata in numerosi pazienti, ma non sempre è stato possibile dimostrare una chiara correlazione tra queste due malattie (2-3) . In medicina veterinaria non ci risulta siano state effettuate indagini in tal senso. Lo scopo della presenta ricerca è quello di verificare una eventuale associazione tra MF ed altre patologie cutanee nella specie canina, attraverso una indagine retrospettiva, in collaborazione con il Veterinary Medical Theaching Hospital (VMTH) – Università della Florida (USA). MATERIALI E METODI - L’indagine epidemiologica ha interessato 106.000 schede cliniche di animali portati a visita nel periodo compreso tra il 1991 ed il 2004 presso il Dermatology Service dell’Università della Florida e presso la Sezione di Clinica Medica del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università di Napoli, Federico II. Sono stati estrapolati tutti i casi conclamati di MF, la cui diagnosi era basata sulle manifestazioni anatomo-cliniche (prurito, eritroderma, placche rotondeggianti, noduli ed ulcerazioni delle mucose o del giunto muco-cutaneo), sui reperti istologici caratteristici (accumuli di cellule linfocitarie neoplastiche a livello cutaneo con spiccato epiteliotropismo, [microascessi di Pautrier]) e citologici (cellule ematiche con nucleo convoluto cerebriforme). Per ogni paziente con MF sono stati presi in considerazione: la razza, il sesso, l’età, il tempo di insorgenza del linfoma, i trattamenti terapeutici effettuati ed infine la presenza di altre patologie cutanee associate (allergiche e non). Nei casi di DA la diagnosi è clinica stata fatta seguendo le direttive diagnostiche riportate da DeBoer e coll (2001)(8). I risultati sono stati sottoposti ad elaborazione statistica utilizzando il 2 –test (P<0.001), per valutare una

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eventuale associazione tra MF e patologie cutanee. E’ stato anche effettuato l’Odds Ratio (OR) test per verificare la possibile correlazione e predisposizione per la MF di animali con altre patologie cutanee. RISULTATI – Su 106.000 schede cliniche controllate, 21 riportavano un quadro clinico riferibile a MF. L’età media di insorgenza del linfoma è stata di 8.9±3.2 anni; non si è osservata una predisposizione di razza, mentre si è evidenziata una predisposizione di sesso: 8 maschi (38.1%) e 13 femmine (61.9%). Per quanto concerne le terapie praticate, un solo animale con cheratocongiuntivite secca aveva ricevuto ciclosporina per uso topico. Mentre altri due erano stati trattati, per breve tempo, con glicocorticoidi (prednisolone). Dei 21 cani con MF, 5 [23.8% (C.I.: 5.6 - 42%)] presentavano manifestazioni cliniche di DA, la cui diagnosi era stata effettuata in media 4.4±4 anni prima dello sviluppo del linfoma. L’elaborazione statistica dei dati ottenuti (tabella), ha permesso di rilevare un 2 di 102.36 P<0.001) ed un OR di 35.6. Tali risultati indicano una associazione statisticamente significativa tra la DA e lo sviluppo di MF ed, inoltre, che cani atopici hanno una possibilità 35 volte maggiore, rispetto ai cani non atopici, di sviluppare tale neoplasia cutanea. Tabella: 2 – test

MF No MF

Totali

DA

5 922 927

No DA

16 105057 105073

21 105979 106000

CONCLUSIONI –. Negli ultimi anni sono state avanzate diverse ipotesi patogenetiche per spiegare il coinvolgimento della dermatite atopica nello sviluppo della MF. Dal punto di vista immuno-fenotipico, sia nel cane che nell’uomo alla base di tali dermatopatie vi è un coinvolgimento di elementi cellulari simili, quali CD3+, CD8+, CD4-/+, CD45RA-, αβTRC+, δγTRC+, CD1a+ e CD1c+; unica differenza è la presenza nella DA canina di una popolazione cellulare di tipo CD4+ piuttosto che di CD4- (4-5). E’ ipotizzabile che, al pari di quanto riportato nella DA dell’uomo, la stimolazione antigenica cronica ad opera di batteri adesi allo strato corneo, possa determinare la liberazione di tossine batteriche che, a loro volta, inducono uno squilibrio immunitario soprattutto a carico dei linfociti T, con possibile trasformazione in senso neoplastico di tali cellule(6). Accanto a tale ipotesi, recentemente, sono stati riportatati alcuni interessanti studi genetici che hanno messo in evidenza modificazioni simili a carico del gene bcl2, in pazienti umani sia con DA che in corso di MF(7) . In conclusione, le nostre indagini rappresentano il primo studio in medicina veterinaria che dimostra una correlazione tra DA e MF nella specie canina. Ulteriori e più approfonditi studi, soprattutto di carattere immunologico e genetico, sono necessari al fine di poter meglio definire il coinvolgimento della DA nel meccanismo patogenetico della MF in questa specie animale.

BIBLIOGRAFIA - 1) Griffin et al., Small animal dermatology, 6th edition, WB Saunders Co, Philadelphia, pp. 1333 – 1340 . 2) Van Haselen., et al. (1999) Br J Dermatol, , 140, 704-707. 3) Mehrany K., et al. Br J Dermatol, 2003, 149; 1013-1017. 4) Moore., et al. (1994) Am J Pathol, , 144; 421-429. 5) Olivry et al. (1997) Am J Dermatopatho., 99, 477-486 6) Girardi M., et al. N Engl J Med, 2004, 350; 1978-88. 7) Breuckmann., et al. (2002) Photodermatol Photoimmunol Photomed, 18, 217-222. 8) DeBoer DJ et al., (2001) Vet Immunol Immunopathol. 81, 271-276.

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PECULIARITA’ CLINICO-DIAGNOSTICHE DELLA DEMODICOSI DEL CANE: DESCRIZIONE DI UN CASO CLINICO CLINICAL AND DIAGNOSTIC FEATURES OF CANINE DEMODICOSIS: A CASE REPORT Di Pietro S., Pugliese M., Gruppillo A., De Majo M. Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie (ME) Parole chiave: cane, demodicosi, aspirato linfonodale, linfoadenopatia, alopecia Key words: dog, demodicosis, lymph node aspirate, lymphadenopathy, alopecia SUMMARY - Canine demodicosis is a skin diseases caused by Demodex canis. The presence of adult or larval parasites in internal organs and glands is known. In this study we describe a clinical case about a dog showing lymphadenopathy and the presence of two erythematous and alopecic patches on the neck caused by demodectic mite. A lymph node aspirate from the right popliteal lymph node was performed and it showed the presence of a larva of Demodex canis. The aim of this research was to underline that the routine use of the lymph node aspirate, as not invasive diagnostic technique, can represent a useful tool to a precise diagnosis in the cases of supposed canine demodicosis characterized by reaction of lymph nodes and poor clinical signs on the skin. INTRODUZIONE – La demodicosi canina rappresenta una delle più comuni malattie cutanee riscontrabili nella pratica clinica. E’ sostenuta da Demodex canis, acaro specie-specifico e componente comune della fauna cutanea del cane, che si riscontra solitamente nei follicoli piliferi e nelle ghiandole sebacee; tuttavia, è nota la presenza di forme adulte e larvali di D. canis in organi e ghiandole interne di animali affetti da demodicosi generalizzata (1,2,3,4,5,6,7). I segni clinici associati a demodicosi possono essere estremamente variabili in relazione alla presenza di forme localizzate o diffuse e possono comprendere perdita di pelo, arrossamento cutaneo, papule e pustole pruriginose ed accompagnarsi spesso ad infezioni batteriche intercorrenti. Nelle forme di malattia generalizzata è possibile rinvenire linfoadenomegalia sistemica. La diagnosi solitamente viene effettuata tramite scarificazioni profonde della cute e visualizzazione diretta degli acari al microscopio; in alcuni casi può essere necessaria una biopsia cutanea per la conferma (8). La terapia eziologica prevede l’uso di specifici trattamenti demodicidi, per via topica o sistemica (8,9). In particolare, sono in itinere diverse indagini volte ad analizzare alcuni protocolli terapeutici caratterizzati da massima efficacia e minimi effetti collaterali. CASO CLINICO – Cane di razza dobermann, femmina, di 8 mesi di età, portato a visita nel mese di febbraio del 2004 con un’anamnesi di letargia, febbre ed iperplasia dei linfonodi popliteo ed inguinale della regione destra da circa due settimane. Trattato con terapia antibiotica a base di amoxicillina e acido clavulanico prima e lincomicina dopo, il soggetto aveva presentato solo una parziale remissione della sintomatologia clinica in quanto i linfonodi interessati permanevano nelle stesse condizioni: iperplasia, consistenza sodo-elastica e facile spostabilità. Alla visita clinica si apprezzavano moderata disidratazione, temperatura corporea di 39°C, presenza di due aree alopeciche delle dimensioni di una moneta nella regione del collo, con cute arrossata, oltre al notevole aumento di volume dei linfonodi popliteo ed inguinale destri. In particolare, il popliteo, delle dimensioni di una grossa noce, era apprezzabile vistosamente all’ispezione. Non essendo facile addivenire ad una diagnosi clinica si richiedevano alcuni esami di laboratorio nell’intento di escludere un ipotetico interessamento emo-linfatico. Gli esami ematologici (emocromo completo di formula e VES) ed ematochimici (profilo epatico e renale) non evidenziavano alcuna alterazione degna di nota; l’esame delle urine non rilevava alcun parametro anormale; l’esame sierologico IFAT per la ricerca di anticorpi anti-Leishmania spp. dava esito negativo. L’animale veniva sottoposto, quindi, a raschiato cutaneo a livello delle aree alopeciche e successivamente veniva eseguito un ago-aspirato sottile dai linfonodi che mostravano reattività (popliteo destro). L’esame microscopico del materiale prelevato per scarificazione metteva in evidenza la presenza di un esemplare adulto di acaro, più o meno integro, identificato come Demodex

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canis, così come l’ago-aspirato linfonodale consentiva di rilevare forme larvali di D. canis (Fig. 1 e 2). L’animale, sulla base della diagnosi eseguita, veniva trattato con ivermectina iniettabile alla dose di 400 µg/Kg s.c. ogni 15 giorni per due somministrazioni consecutive, associata ad applicazioni topiche settimanali di triclorfon (Neguvon®) in soluzione al 2% per un mese. Al termine della terapia, il controllo clinico evidenziava scomparsa delle aree alopeciche cutanee e riduzione dei linfonodi esplorabili alle dimensioni normali. Inoltre, l’aspirato linfonodale non consentiva di rilevare alcuna forma parassitaria. Ai successivi controlli, effettuati a 30 e 60 giorni dal termine della terapia, le condizioni di salute dell’animale erano ottimali. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI – La presenza di Demodex canis, a diversi stadi di sviluppo, all’interno dei linfonodi è nota in letteratura. Frequentemente i parassiti sono stati riscontrati a livello dei linfonodi mandibolari e prescapolari, verosimilmente quale espressione della localizzazione primaria degli acari a livello delle regioni cutanee della testa. Tuttavia, non è occasionale il rinvenimento di parassiti in altri distretti linfonodali. Alcuni Autori riportano le diverse tecniche utilizzate per l’estrazione e l’osservazione degli esemplari di Demodex spp. dai tessuti parassitati includendo, per quanto riguarda i linfonodi, la biopsia seguita dall’osservazione microscopica di sezioni istologiche e l’esame anatomo-patologico dopo asportazione post-mortem (5). Le suddette tecniche diagnostiche, sebbene forniscano un elevato grado di attendibilità nell’accertamento della presenza di D. canis in particolari tessuti, sono caratterizzate da eccessiva invasività o possono essere eseguite solo dopo la morte del paziente. Tuttavia, così come riportato nel presente lavoro, è possibile l’evidenziazione del parassita a livello linfonodale attraverso l’esecuzione di una metodica sicuramente meno invasiva delle precedenti, quale l’ago-aspirato sottile, che non ha alcuna controindicazione e può essere eseguita in qualsiasi condizione di visita clinica. L’aver individuato il parassita all’interno del linfonodo in un cane con un coinvolgimento cutaneo alquanto modesto, ci ha indotto a ritenere la condizione clinica contingente come una forma per lo meno inconsueta di demodicosi generalizzata e ci ha spinto ad intraprendere una terapia eziologica, contrariamente a quanto riportato in letteratura relativamente alla possibilità di non trattare le forme di rogna demodettica nei cuccioli con un numero limitato di aree cutanee interessate. Inoltre, il rinvenimento del parassita in un linfonodo reattivo e lontano dalla sede della lesione cutanea sottolinea, a nostro avviso, l’importanza dell’applicazione routinaria dell’ago-aspirato linfonodale quale ulteriore strumento a disposizione del clinico per un’eventuale precisazione diagnostica anche nei casi in cui si sospetta una demodicosi canina, associata a reattività linfonodale ma con scarsi segni clinici cutanei. In conclusione, la peculiarità clinico-diagnostica del caso in esame si propone come obiettivo di inserire nel diagnostico differenziale delle linfoadenopatie anche le alterazioni in corso di demodicosi, non solo quale evento reattivo ma anche quale espressione di un effetto diretto del parassita. BIBLIOGRAFIA – 1) Bowman DD (2003), Georgis’ Parasitology for Veterinarians, 7th Ed., Saunders, Missouri, USA, 68-70. 2) Casarosa L (1980), Parassitologia degli animali domestici, 2th Ed., Medico Scientifiche, Torino. 3) Cordero del Campillo M et al (2000), Parasitologia Veterinaria, Mcgraw Hill, Madrid, Espana, 702-711. 4) El-Gindy H (1952), J Am Vet Med Assoc, 121 (906), 181-182. 5) French FE (1964) Cornell Vet, 54, 271-290. 6) Scott DW (1979), Vet Clin North Am, 9 (1), 79-92. 7) Nutting WB (1976), Cornell Vet, 66, 214-231. 8) Mueller RS (2004), Veterinary Dermatology, 15, 75-89. 9) Tarpataki N et al (2004), Veterinary Dermatology, 15 (Suppl. 1), 41-69. Si ringrazia il Prof. Salvatore Giannetto per la gentile collaborazione.

Fig. 1 – Raschiato cutaneo: cefalo-torace (freccia) di esemplare adulto di D. canis

Fig. 2 – Ago-aspirato linfonodale: larva di D. canis

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VALUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ DELLE METALLOPROTEINASI D I MATRICE 2 E 9 NEL LIQUIDO CEREBROSPINALE DI CANI CON PATOLOGIE NON INFIAMMATORIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE EVALUATION OF MATRIX METALLOPROTEINASES 2 AND 9 ACTIVITY IN CEREBROSPINAL FLUID OF DOGS WITH NON-INFLAMMATORY DISEASES OF CENTRAL NERVOUS SYSTEM Turba M.E., Gentilini F.*, Gandini G.*, Mastrorilli C.*, Bernardini C., Forni M., Dipartimento di Morfofisiologia Veterinaria e Produzioni Animali, *Dipartimento Clinico Veterinario – Università di Bologna Parole chiave: metalloproteinasi di matrice, liquido cerebrospinale, cane, zimografia. Key words: matrix metalloproteinases, cerebrospinal fluid, dog, zymography. SUMMARY – Matrix metalloproteinases (MMP) 2 and 9 are enzymes known to degrade several protein components of the extracellular matrix. In humans, increased concentrations of these enzymes have been demonstrated in the cerebrospinal fluid (CSF) of subjects affected by many neurological conditions, including brain tumours; nevertheless comparative data in dogs are completely lacking. Aim of this study was to investigate these molecules in CSF of dogs diagnosed with CNS neurological diseases. Higher activity of MMP was revealed in dogs with space-occupying lesions and disk herniation in comparison to dogs with idiopathic epilepsy. Our data resulted similar to human founding, where MMPs have been recognised to play a key role on blood-brain-barrier breakdown. INTRODUZIONE – Le metalloproteinasi di matrice (MMP) 2 e 9 sono enzimi coinvolti nella degradazione della matrice extracellulare (ECM) con azione proteolitica specifica per il collagene di tipo IV e la gelatina. Le MMP risultano coinvolte in numerosi processi fisiologici caratterizzati dal rimodellamento della ECM nonché in processi patologici infiammatori, degenerativi e neoplastici. Nelle lesioni neoplastiche del sistema nervoso centrale (SNC) l’espressione di MMP è correlata alla invasività e alla capacità metastatizzante della neoplasia e la misurazione della concentrazione nel liquido cerebro-spinale (LCS) riveste un ruolo diagnostico e prognostico rilevante nell’uomo (1). E’ stato dimostrato che la MMP2 risulta costitutivamente espressa nel LCS di cani clinicamente sani; tuttavia, nessuno studio ha valutato nel cane la concentrazione delle MMP2 e 9 nel LCS in corso di patologie neurologiche (2). Lo scopo del presente lavoro è stato quello di valutare retrospettivamente, mediante analisi zimografica, l’attività delle MMP2 e 9 nel LCS di cani con patologie neurologiche del SNC di tipo non infiammatorio con particolare riferimento alle lesioni occupanti spazio. Tale attività è stata confrontata con quella rilevata nei LCS di 2 differenti gruppi rappresentati da soggetti affetti da epilessia idiopatica e da ernia discale. MATERIALI E METODI – Nel presente studio sono stati analizzati 37 LCS di cani pervenuti presso il Dipartimento Clinico Veterinario nel periodo 1999–2003. Sono stati inclusi tutti i campioni (n=20) di soggetti per i quali era stata emessa diagnosi tomografica (n=18) o mielografica non compatibile con ernia discale (n=2), di lesione occupante spazio (LOS) intracranica (n=13) o midollare (n=7). Per 8 di questi campioni era disponibile la conferma neuropatologica di lesione neoplastica del SNC. Sono stati inoltre analizzati 11 LCS di soggetti con epilessia idiopatica (EI) e 6 di soggetti con ernia discale (ED). Tutti i campioni sono stati prelevati dalla cisterna magna con l’eccezione di 2 campioni del gruppo LOS e 3 del gruppo ED prelevati dal sito lombare. Immediatamente dopo il prelievo è stata effettuata la conta cellulare; i campioni sono stati centrifugati e il sopranatante è stato sottoposto alla misurazione delle proteine totali (Pt) (metodica del Rosso Pirogallolo) e della albumina (metodica immunoturbidimetrica) (3) e infine conservato a –80°C fino all’analisi zimografica. Quest’ ultima è stata eseguita impiegando un sistema commerciale (Novex Zymogram Gelatin gel, Invitrogen) parzialmente modificato prolungando il tempo di incubazione a 24 ore (2). Le MMP2 e 9 sono state identificate utilizzando uno standard di riferimento di peso noto. Le bande corrispondenti alla MMP2 sono state quantificate, in Unità Arbitrarie (UA), mediante l’impiego di un sistema computerizzato di analisi di immagine. Le bande corrispondenti alla

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MMP9 sono risultate di intensità inferiore al limite di sensibilità del sistema e pertanto sono state valutate in cieco da 2 diversi operatori; la concordanza delle risultanti letture è stata verificata mediante analisi statistica (Inter-rater agreement Kappa). La proporzione di LCS con presenza di MMP9 nei diversi gruppi è stata confrontata mediante test del X2 o di Fisher Exact test. Per MMP2, conta cellulare, Pt ed albumine, i dati ottenuti sono stati confrontati tra i 3 gruppi con test U di Mann-Whitney e, all’interno di ciascun gruppo, sono stati correlati mediante test Spearman R. Sono stati considerati significativi i risultati associati a p < 0.05.

RISULTATI – La concentrazione della albumina e la conta cellulare sono risultate significativamente più elevate nei gruppi LOS ed ED rispetto al gruppo EI. Analogamente, sono risultate più elevate le concentrazioni delle Pt, sebbene tale differenza sia risultata significativa solo nel confronto LOS contro EI (Fig.1 B,C).La banda MMP2 è stata evidenziata in tutti i campioni con intensità

significativamente più elevata nelle LOS e, in ordine decrescente, nelle ED e nelle EI (Fig.1A). La valu-

tazione soggettiva della presenza della MMP9 è risultata attendibile con coefficiente Kappa ± SE di 0,873 ± 0,59. Anche in questo caso, la MMP 9 è risultata presente in una proporzione di LCS significativamente maggiore nei gruppi LOS ed ED rispetto a EI (Fig.1D). Infine nel gruppo LOS il valore di MMP 2 è risultato correlato significativamente solo con la concentrazione di Pt (R=0.51). CONCLUSIONI – Nei gruppi LOS e ED gli incrementi concomitanti di Pt, albumina, conta cellulare e MMP riflettono la probabile presenza di un’alterazione della permeabilità della barriera emato-encefalica (BEE) e della barriera emato-LCS. La contaminazione ematica dovuta al prelievo deve essere considerata come una possibile evenienza soprattutto in corso di LOS; la centrifugazione dei campioni prima del congelamento rappresenta, ad ogni modo, una corretta prassi al fine di escludere dalla valutazione le MMP di natura leucocitaria. In letteratura umana (1) è descritto un ruolo chiave svolto dalle MMP sull’integrità della BEE e sulle conseguenti modificazioni nella composizione del LCS. La valutazione dell’albumina sembra essere una valido parametro per evidenziare il danno di barriera, anche più sensibile delle Pt che nel caso di ED ed EI non hanno rivelato differenze significative. La minore attività MMP2 e 9 associata alla mancanza di modificazioni della composizione del LCS nel gruppo EI ulteriormente avvalora le precedenti considerazioni. Il presente lavoro dimostra, in analogia con quanto riscontrato nell’uomo, che nelle neoplasie del SNC del cane si assiste ad una modificazione dell’attività metalloproteinasica e che tale valutazione potrebbe essere vantaggiosamente inserita nel protocollo analitico del LCS. E’ altresì evidenziato l’intervento delle MMP in corso di patologie a carico del disco intervertebrale, così come accade nell’uomo (4). BIBLIOGRAFIA – 1) Friedberg MH et al (1998) Cancer, 1, 923-930. 2) Bergman RL et al (2002) Am J Vet Res, 63, 1359-1362. 3) Gentilini F et al (2005) J Vet Diagn Invest, 17, 179-183. 4) Goupille P et al (1998) Spine, 23, 1612-1626.

Figura 1: Box-plot delle concentrazioni di MMP2 (A), Albumina (B) e Pt (C); (D) percentuale di soggetti con attività MMP9 rilevabile per ciascun gruppo. Le differenze significative sono indicate da lettere diverse.

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VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI DELLA INSUFFICIENZA RENALE CRONICA NELLA FORMA LIEVE E GRAVE SULLA MINERALIZZAZIONE SCHELETRICA IN 2 CANI DI RAZZA BOXER BONE MINERAL DENSITY IN 2 BOXER DOGS AFFECTED BY MODERATE TO END-STAGE CHRONIC RENAL FAILURE Zotti A.1, Caldin M.2, Vettorato E.1, Ferrari V.1, Cavicchioli L.3, Bernardini D.1 1)Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Legnaro (PD); 2)Clinica Veterinaria“San Marco”, (PD); 3)Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria, Legnaro (PD). Parole chiave: cane, insufficienza renale, densità ossea, radiologia, densitometria a raggi-X Key words: dog, chronic renal failure, bone mineral density, radiology, DEXA SUMMARY – The study was performed on two Italian boxer dogs (1 male and 1 female) both affected by chronic renal failure. Blood and urine samples of each subject were analysed three times during the course of the disease; parathormone levels were also assessed for the female patient. At the same time the T12-L2 spine trait of each dog was radiographed and scanned using a dual-energy X-ray absorptiometry (DEXA) device. Whilst our DEXA findings suggested that bone density was not diminished by moderate chronic renal insufficiency, a decrease of 5-7% was observed in the end-stage of the disease. On the contrary no radiographic changes were detetected during the whole study period. INTRODUZIONE – In medicina umana sono da tempo conosciuti e studiati gli effetti della insufficienza renale cronica (IRC) sul metabolismo osseo e in particolare sulla mineralizzazione scheletrica. Una riduzione della densità minerale ossea (BMD) associata ad IRC è stata descritta come risultato dell’alterazione dell’equilibrio acido-base e dell’omeostasi Vit.D–Paratormone (PTH) in pazienti affetti da IRC in forma lieve (non sottoposti a dialisi) (2,4). L’acidosi metabolica cronica, quindi l’utilizzo dell’osso come sistema tampone, unitamente alla ridotta produzione di 1-25-diidrossicolecalciferolo da parte del rene insufficiente, vengono infatti indicate come condizioni predisponenti nei confronti della osteodistrofia renale (2-4). Nelle forme lievi di IRC la concentrazione sierica del fosforo si mantiene normale grazie all’aumento compensatorio dell’escrezione dei fosfati da parte dei nefroni funzionanti; nel momento in cui la filtrazione renale crolla al di sotto del 20% (forma grave), l’iperfosfatemia non più compensata induce una proporzionale insorgenza dell’iperparatiroidismo secondario (2-4). Gli stessi meccanismi, ma non gli effetti sulla mineralizzazione ossea, sono descritti anche nella letteratura medico-veterinaria (3). La mancanza di studi clinici sugli effetti della IRC a carico della mineralizzazione scheletrica in medicina canina è probabilmente da ascriversi a due distinti fattori: 1) la limitata accuratezza diagnostica della radiologia tradizionale che impedisce una oggettiva valutazione del grado di mineralizzazione; 2) la estrema eterogeneità di taglia/peso corporeo delle diverse razze che richiede la determinazione di specifiche curve di mineralizzazione fisiologica. In tale ottica sono stati recentemente determinati - tramite densitometria a raggi X (DEXA) - i dati di riferimento di BMD (g/cm2) del tratto vertebrale T12-L2 in relazione a sesso, età e peso corporeo nel cane di razza Boxer (5). L’obiettivo del presente lavoro è di quantificare mediante radiologia tradizionale e DEXA le variazioni di densità ossea a carico del tratto spinale T12-L2 in due cani boxer affetti da IRC durante l’evoluzione della malattia dalla forma lieve alla grave. MATERIALI E METODI – Lo studio è stato condotto su due cani di razza boxer (soggetto A; femmina, età 24 mesi, peso 24 Kg - soggetto B; maschio, età 26 mesi, peso 32 Kg). In ogni cane è stato effettuato un esame emato-biochimico e delle urine in tre momenti diversi: [1] all’insorgenza della sintomatologia; [2] durante la fase di stabilizzazione, in assenza di manifestazione clinica (due mesi dopo [1] per il soggetto A; tre mesi dopo [1] per il soggetto B; [3] al momento dell’eutanasia (in entrambi i casi due mesi dopo [2]). Sul soggetto A è stato testato anche il PTH (Immulite PTHintatto, Medical Systems SpA, Genova, Italy). Per tutto il periodo compreso tra [1] e [3] entrambi i cani sono stati alimentati con la medesima dieta

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commerciale (Renal Phase 2, Eukanuba vet diets). Contestualmente a ciascun prelievo ogni soggetto è stato prima sottoposto a radiografia toraco-addominale, per valutare eventuali anomalie e/o alterazioni di densità a carico dei corpi vertebrali (T12-L2), e successivamente ad esame densitometrico del medesimo tratto vertebrale. Le radiografie e le scansioni DEXA sono state eseguite sempre dallo stesso radiologo e sono state condotte sull’animale anestetizzato posizionato rispettivamente in decubito laterale destro e ventro-dorsale. La durata di ciascun esame densitometrico è stata di 5-6 minuti dipendentemente dalle dimensioni del soggetto. Il densitometro utilizzato (Hologic QDR-1000, Hologic Inc, Waltham, MA, USA) è stato sempre preventivamente calibrato mediante utilizzo dell’apposito “phantom” (Hologic Calibration Phantom, Hologic Inc., Waltham, MA; USA). Successivamente al periodo [3] ognuno dei due animali è stato soppresso su richiesta dei proprietari a causa del brusco aggravamento delle condizioni di salute. Sui reni di entrambi è stato eseguito l’esame istopatologico. RISULTATI – Gli esami del sangue e delle urine effettuati in corrispondenza dei periodi [1], [2] e [3] sono sempre stati suggestivi di IRC confermata, in entrambi i casi, all’esame istopatologico (quadri di glomerulonefrite membrano-proliferativa con nefrite interstiziale cronica). Soltanto nel periodo [3] si è registrato in entrambi i soggetti un deciso aumento della fosfatemia (sogg. A: 40,0 mg/dL; sogg. B: 46,7 mg/dL – val. rif.: 2,6/6,2) concomitante a una condizione di ipocalcemia (sogg. A: 4,98 mg/dL; sogg. B: 5,21 mg/dL – val. rif.: 9/11,3). Analogamente, l’analisi del PTH (soggetto A) ha evidenziato un considerevole aumento (170,07 pg/mL - val. rif.: 0,10/1,10 pg/mL) in corrispondenza del medesimo periodo [3]. Le indagini radiografiche non hanno mai evidenziato alterazioni significative della radiodensità ossea. Le indagini densitometriche eseguite al periodo [1] hanno fornito esiti comparabili con i valori fisiologici riportati in bibliografia per entrambi i soggetti (sogg. A: T12 = 0,856 g/cm2; T13 = 0,872; L1 = 0,912; L2 = 0,943; sogg. B: T12 = 0,938; T13 = 1,008; L1 = 1,037; L2 = 1,089). Le densitometrie al periodo [2] non hanno fornito variazioni significative della BMD in relazione al coefficiente di variazione (CV) strumentale (sogg. A: T12 = -2,1%; T13 = +1,49%; L1 = -0,55%; L2 = -0,63%; sogg. B: T12= +2,88%; T13= -1,4%; L1= +2,12%; L2= +2,57%; CV = 2,5-3,5%). Al contrario, le analisi densitometriche al periodo [3] hanno evidenziato riduzioni di BMD significative in relazione al CV strumentale (sogg. A: T12 = - 7,25%; T13 = -12,85%; L1 = -5,05%; L2 = -5,84%; sogg. B: T12 = -6,84%; T13 = -5,56%; L1 = -7,24%; L2= -6,16%; CV = 2,5-3,5%). CONCLUSIONI – La tecnologia DEXA è attualmente considerata in campo umano il “gold standard” diagnostico per la valutazione di ridotte variazioni percentuali del contenuto minerale scheletrico contrariamente alla radiologia tradizionale, soggettiva e operatore/strumento dipendente, che consente valutazioni di riduzioni di BMD pari almeno al 30-35% della massa ossea totale. Tuttavia, al fine di evitare gravi errori interpretativi, la valutazione dei dati densitometrici deve avvenire in relazione a sesso, età e peso corporeo dei pazienti (1); tale indicazione è stata recentemente accolta anche in campo medico-veterinario (5). Il presente lavoro costituisce, al meglio delle conoscenze degli autori, il primo studio volto a quantificare gli effetti della IRC a carico della mineralizzazione scheletrica nel cane. I due animali oggetto della nostra indagine sono stati valutati radiograficamente e densitometricamente all’insorgenza clinica della malattia e sono risultati normali sia dal punto di vista radiografico che da quello densitometrico. L’evoluzione nella forma lieve (compensata) della IRC non ha parimenti portato alcuna variazione radiografica/densitometrica a carico del tratto di colonna considerato, mentre il passaggio alla forma grave (scompensata) ha portato rapidamente alla riduzione della BMD pari al 5-7% in entrambi i soggetti. Tale alterazione non è risultata visibile radiograficamente in virtù della minore sensibilità della radiologia tradizionale rispetto alla DEXA. La contestuale analisi radiografica del cranio facciale potrebbe essere utile, nel proseguimento degli studi, per valutare eventuali precoci segni di demineralizzazione a carico delle arcate dentarie. BIBLIOGRAFIA – 1) Chi-yuan HSU et al (2001) Kidney Int. 61, 1814-1820. 2) Lemann J Jr. Et al (1966) J Clin Invest 45, 1608-1614. 3) Osborne CA, Finco DR (1995) “Canine and feline nephrology and urology”, Williams & Wilkins, Baltimore. 4) Pitts TO et al (1988) J Clin Endocrinol Metab 67, 876-881. 5) Zotti A et al (2004) J Vet Med A 51, 254-258.

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RADICALI LIBERI DELL’OSSIGENO E POTENZIALE ANTIOSSIDA NTE BIOLOGICO NEL CANE IN RELAZIONE ALL’ETA’ AGE-RELATED CHANGES OF FREE RADICALS OXYGEN AND BIOLOGICAL ANTIOXIDANT POTENTIAL IN DOGS Marchetti V., Pasquini A., Luchetti E., Cardini G. – Dipartimento di Clinica Veterinaria, Pisa

Parole chiave: cane, età, radicali liberi, antiossidanti Key words: dogs, age, free radicals, antioxidants

SUMMARY – Free radicals gained a huge attention in the last years for their function in ageing and in degenerative, inflammatory and neoplastic diseases. The Biological Antioxidant Potential (BAP) is able to interfere with the toxic potential of Reactive Oxygen Species (ROS) by several mechanisms. We tested 192 healthy dogs with ROM’s test and 165 of these also with BAP test. Dogs were divided into three age groups: group A under 18 months, group B from 18 months to 6 years, group C from 6 to 9 years. The results were analyzed with ANOVA (JMP) test to show possible statistically (p<0,05) and highly (p<0,01) significant differences among groups. Distribution of ROM’s and BAP values was evaluated by calculating media, median, kurtosis and skewness for each group; reference ranges were determined. BAP show to increase during all life, while ROM decrease during ageing, differing from human trend. These age-related differences must be considered during evaluations of data from ROM and BAP analyses.

INTRODUZIONE – La crescente attenzione per i radicali liberi è in relazione al ruolo che essi svolgono nei processi fisiologici, parafisiologici come l’invecchiamento ed in quelli patologici, siano essi degenerativi, infiammatori o neoplastici. I “ROS” (Reactive Oxygen Species), fisiologicamente prodotti dal metabolismo aerobico, hanno un potenziale tossico contrastato dalle sostanze antiossidanti, endogene e esogene. Il sistema di difesa antiossidante, intracellulare ed extracellulare, agisce rimuovendo i radicali liberi (Scavengers: es. glutatione perossidasi-GSH), bloccando le reazioni radicaliche a catena (Chain breakers: es. tocoferoli), sequestrando ioni metallici (es. transferrina) o smorzando l’attività ossidante dell’ossigeno singoletto (Quenchers: es. superossido dismutasi-SOD)(1). In medicina umana è assodato il ruolo dei ROS nel processo di invecchiamento, espressione di un progressivo danno ossidativo cellulare(2). Alcuni studi hanno cercato di correlare i livelli dei ROS e dell’attività antiossidante all’età. Secondo alcuni l’efficienza del sistema antiossidante è ridotta nei neonati(3), mentre i livelli di malondialdeide sembrano aumentare con l’età (4) parallelamente ad enzimi come la catalasi e la GSH(4,5); altri Autori, in studi su pazienti pediatrici (0-16 anni), non hanno evidenziato variazioni significative della SOD e della GSH correlabili all’età(5). I risultati discordanti possono trovare una spiegazione nelle differenze geografiche, alimentari, legate al sesso, a fattori poco verificabili quali consumo di alcool o fumo, nonché alla metodologia diagnostica(6). L’assenza di studi in tal senso in medicina veterinaria, rende necessaria la verifica di una eventuale correlazione dei livelli di ROS e della barriera antiossidante con l’età del paziente, per adottare adeguati valori di riferimento e consentire una corretta interpretazione delle eventuali alterazioni di questi valori, sia nei diversi stati parafisiologici che nelle patologie.

MA TERIALI E METODI – Sono stati selezionati 192 cani risultati sani alla visita clinica ed agli esami emato-biochimici di base, di taglia medio-grande, sesso ed età diversi, alimentati con mangime commerciale secco e soggetti ad un tipo di attività sovrapponibile. Per ciascun soggetto è stato raccolto un campione di sangue, immediatamente separato ed il siero congelato entro le 2 ore dal prelievo; su tutti i campioni è stato eseguito il d-ROM’s test (Reactive Oxygen Metabolites) (Diacron International, Grosseto, Italia), per la determinazione dei radicali idroperossidi, e su 165 anche il BAP test (Biological Antioxidant Potential) (Diacron International, Grosseto, Italia). Entrambi i test sono stati eseguiti con spettrofotometro SEAC Slim (Calenzano, FI, Italia). I risultati ottenuti sono stati suddivisi in tre gruppi in base all’età: gruppo A, cani fino a 18 mesi; gruppo B, cani da 18 mesi a 6 anni; gruppo C, cani con età compresa fra i 6 ed i 10 anni (tabella 1).

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Tabella 1 – Numero di campioni per ogni gruppo di età. Gruppo A

<18mesi Gruppo B

>18mesi e <6anni Gruppo C

>6anni e <10 anni d-ROM’s 54 53 77

BAP 31 57 77 I valori ottenuti suddivisi nei tre gruppi sono stati analizzati applicando il test ANOVA (JMP), al fine di evidenziare una differenza tra i 3 gruppi statisticamente significativa per p<0,05 e altamente significativa per p<0,01. E’ stato eseguito un test di normalità per verificare la distribuzione dei valori relativi ai d-ROM’s e al BAP, calcolando il coefficiente di curtosi, il coefficiente di skewness, la media, la mediana e la deviazione standard. Sono stati quindi individuati per ciascun gruppo di età gli intervalli di riferimento con il metodo dei percentili.

RISULTATI – Nei d-ROM’s, esiste una differenza altamente significativa tra i valori del gruppo dei cani con età superiore ai 6 anni e gli altri due, tra i quali invece non si evidenzia una differenza statisticamente significativa. Osservando i dati relativi al BAP si nota che l’attività antiossidante è decisamente più elevata (p<0,01) nei soggetti con età superiore ai 6 anni rispetto agli altri gruppi, ed è significativamente più bassa (p<0,05) nei cani con età inferiore ai 18 mesi rispetto ai cani adulti (gruppo B) (Tabella 2). Tabella 2: Valori medi ±±±± deviazione standard dei d-ROM’s e del BAP Gruppo A Gruppo B Gruppo C d-ROM’s (U.CARR) 72,1±8,6 76,2±8,2 61,1** ±13,2 BAP (µmoli/l) 2137*±779 2534±761 2955** ±715 *differenza significativa p<0,05; **differenza altamente significativa p<0,01 In tabella 3 sono riportati i dati relativi alla distribuzione e gli intervalli di riferimento. Tabella 3: Distribuzione e intervalli di riferimento di d-ROM’s e BAP

curtosi skewness media mediana Intervallo di riferimento d-ROM’s -0,6 -0,002 72,1 70,5 54,2-88,6 Gruppo A

BAP -1,2 0,4 2137 1901 1148-3701 d-ROM’s 0,25 -0,09 76,2 76,2 56,2-92,2 Gruppo B

BAP -0,4 -0,2 2534 2751 1122-3965 d-ROM’s 2,7 1 61,1 60 37,9-93,0 Gruppo C

BAP 0,01 0,15 2955 2942 1446-4454 CONCLUSIONI – Per quanto ogni specie animale presenti comportamenti metabolici propri e ci possano essere differenze anche in relazione alla metodologia diagnostica, confrontando i dati ottenuti con quelli riportati nell’uomo, si evidenzia un parallelismo sull’andamento del BAP, con incrementi statisticamente significativi con l’avanzare dell’età. Viceversa la significativa riduzione della concentrazione dei ROM nei cani anziani e l’incremento, sebbene non statisticamente significativo, negli adulti, rappresentano un andamento peculiare che potrebbe essere attribuito al modus vivendi decisamente diverso del cane anziano rispetto all’adulto e al giovane. E’ altresì vero che la variabilità interindividuale legata alle abitudini di vita, all’alimentazione, ai fattori microambientali, ecc., che condiziona fortemente tali valori nell’uomo, è decisamente minimizzabile nella popolazione canina da noi considerata. I nostri risultati confermano l’esistenza nel cane di modificazioni significative dei livelli di BAP e ROM’s correlabili all’età, da tenere in considerazione nell’interpretazione clinica di questi.

BIBLIOGRAFIA – 1)Iorio EL (2004) Il d-Roms test e la valutazione globale dello stress ossidativo. 2a ed. italiana, Pistoia, Diacron International. 2)Finkel T, Holbrook NJ (2000) Oxidants, oxidative stress and the biology of ageing. Nature, 408,239-247. 3)Buonocore G et al (2002) Oxidative stress in preterm neonates at birth and on the seventh day of life. Pediatric Research, 52,46-49. 4)Inal ME et al (2001) Antioxidant enzyme activities and malondialdehyde levels related to aging. Clinica Chimica Acta, 305,75-80. 5)Casado A. et al (2003) Age-correlated changes of the erytrocytes catalase activity in the Spanish population. Gerontology, 49,251-254. 6)Gaeta LM et al (2002) Determination of superoxide dismutase and glutathione peroxidase activities in blood of healthy pediatric subjects. Clinica Chimica Acta, 322,117-120.

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LA DETERMINAZIONE DEI RADICALI LIBERI DELL’OSSIGENO (d-ROM’s TEST) E DEL POTENZIALE ANTIOSSIDANTE BIOLOGICO (BAP TEST) NEL SIERO: INTERVALLI DI RIFERIMENTO NELLA SPECIE CANINA FREE RADICALS OXYGEN (d-ROM’s TEST) AND BIOLOGIAL ANTIOXIDANT POTENTIAL (BAP TEST) ASSESSMENT IN SERUM: DOG’S REFERENCE RANGES Cardini G. (1) , Pasquini A. (1), Luchetti E. (1), Marchetti V. (1), Voltini B. (2) – (1) Dipartimento di Clinica Veterinaria, Pisa; (2) Dipartimento di Produzioni Animali, Pisa. Parole chiave: cane, radicali liberi, antiossidanti Key words: dog, free radicals, antioxidants SUMMARY – Oxidative stress is a condition of the living organism induced by the presence of large amount of free radicals and other reactive substances, due to an excessive production of them or to a reduced effectiveness of the physiological antioxidant systems. The d-ROM’s (Reactive Oxygen Metabolites) test and the BAP (Biological Antioxidant Potential) test are valued applied in human species. The aim of this study is to assess reference ranges in dog’s serum for d-ROM’s and BAP tests. Both the d-ROM’s and BAP tests showed good within-run precision (CV respectively of 3,7% and 6,4%), good between-run precision (CV respectively of 1,9% and 8,1%) and rather good linearity (r respectively of 0,95 and 0,96). The accuracy is good for d-ROM’s test (92,13%; 106,45%) and acceptable for BAP (114,02%; 106,41%). INTRODUZIONE - L’interesse clinico per i radicali liberi ha acquisito in questi ultimi anni un’attenzione sempre maggiore, in relazione alle crescenti informazioni sul ruolo che essi svolgono nei processi metabolici, fisiologici e patologici (1,2,3). I radicali liberi innescano reazioni di ossido-riduzione responsabili della formazione di altri complessi molecolari, tra cui i metaboliti reattivi dell’ossigeno (ROM), provvisti, a loro volta, di capacità ossidante nei confronti delle molecole che costituiscono le varie strutture cellulari, compreso il DNA (1,3,4). I ROM svolgono un importante ruolo nel normale metabolismo cellulare e vengono prodotti massivamente in particolari stati reattivi dell’organismo (patologie croniche, infiammatorie, degenerative o neoplastiche) o in seguito all’azione di alcuni fattori ambientali (attività fisica intensa, farmaci, sostanze tossiche) (1,2,3,4). L’organismo si protegge dai danni determinati dai radicali liberi con la produzione di sostanze ad azione antiossidante (3,4). E’ l’instaurarsi di uno squilibrio tra la presenza di radicali liberi e la capacità antiossidante dell’organismo che determina una condizione di stress ossidativo (2,4,5,6). In medicina umana tra i test per indagare lo stato ossidativo sono disponibili il d-ROM’s (Reactive Oxygen Metabolites, Diacron International) ed il BAP (Biological Antioxidant Potential, Diacron International). Il primo è utilizzato per la determinazione dei radicali idroperossidi, che possono essere misurati in modo semplice ed immediato ed il secondo per la determinazione del potenziale biologico antiossidante basato sulla capacità ferro-riducente del siero (1,2,3,4). Nel cane non esistono invece sufficienti esperienze nell’esecuzione dei test d-ROM’s e BAP e quindi diviene necessario, per un proficuo utilizzo di tali esami ed una corretta interpretazione degli stessi, procedere ad una serie di prove preliminari atte a validarne l’uso nella specie canina e individuarne gli intervalli di riferimento specifici (5). MATERIALI E METODI – E’ stata preliminarmente eseguita una prova su 10 sieri per valutare la durata di conservazione del campione destinato alla determinazione dei d-ROM’s (Diacron International, Grosseto, Italia) effettuando il test subito dopo il prelievo (gruppo A), dopo 24 ore di refrigerazione (4° C) (gruppo B) e dopo congelamento (-18° C) eseguito entro 3 ore (gruppo C). E’ stato quindi calcolato il CV (Coefficiente di Variazione) medio dei dati appartenenti ai gruppi A e B ed ai gruppi A e C. Successivamente, sono stati raccolti 115 campioni di siero di cani Labrador, sia maschi che femmine, omogenei per alimentazione ed attività fisica e di età compresa tra 1 e 5 anni. I soggetti sono risultati sani alla visita clinica e con esami ematobiochimici nella norma. Su tutti i sieri, è stato eseguito il d-ROM’s test e su 88 anche il BAP test (Diacron International, Grosseto, Italia). Entrambi i test sono stati eseguiti con lo spettrofotometro Slim SEAC (Calenzano, FI, Italia). Sono state eseguite prove

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di precisione intra ed intersaggio, di linearità, di accuratezza e sono stati calcolati gli intervalli di riferimento specifici per il cane (1,2,6). Poiché per i d-ROM’s viene segnalata la possibilità di eseguire il test sia con metodo endpoint che con quello cinetico, 10 campioni sono stati analizzati con entrambi i metodi ed i risultati sono stati comparati tra loro calcolando il coefficiente di regressione r. Per valutare la linearità delle due metodiche, d-ROM’s (metodo cinetico) e BAP, un campione di siero (250U.CARR e 2200 µmoli/l) è stato diluito 1:1, 1:2, 1:4, 1:8 e 1:16 con acqua bidistillata, sono state effettuate le letture e quindi calcolato il coefficiente di regressione r, correlando i risultati ottenuti con i valori attesi relativi alla diluizione. Sono state quindi eseguite le prove di precisione per entrambi i test. La precisione intersaggio e intrasaggio è stata valutata calcolando il Coefficiente di Variazione (CV) sui risultati ottenuti rispettivamente da 2 letture consecutive su 80 campioni e dalla lettura di 4 campioni ripetuti per 5 volte. L’accuratezza è stata determinata tramite studi di recupero, utilizzando pool di sieri a valore noto dell’analita. È stato eseguito un test di normalità per verificare la distribuzione dei valori relativi ai d-ROM’s e al BAP, calcolando il coefficiente di curtosi, il coefficiente di skewness, la media, la mediana e la deviazione standard (SD). Sono stati quindi individuati gli intervalli di riferimento con il metodo dei percentili. RISULTATI – Il CV (17%) relativo ai dati appartenenti ai gruppi A e B dimostra una differenza significativa tra i campioni freschi e quelli refrigerati, mentre il valore di CV (3,2%) relativo ai dati appartenenti ai gruppi A e C indica che i campioni congelati possono essere utilizzati alla stregua di quelli freschi. Il coefficiente di regressione r, calcolato correlando i risultati ottenuti dal metodo endpoint con quelli ottenuti con il metodo cinetico, è risultato pari a 0,7, dimostrando una buona accuratezza. Per le prove di linearità, il coefficiente di regressione r è risultato pari a 0,95 per i d-ROM’s e 0,96 per il BAP, evidenziando un’ottima linearità per entrambi i parametri. La precisione intersaggio è risultata buona sia per il d-ROM’s che per il BAP test con un CV rispettivamente di 3,7% e 6,4%. Il CV calcolato per la valutazione della precisione intrasaggio è risultato pari a 1,9% per il d-ROM’s test e 8,1% per il BAP test. Le percentuali di recupero calcolate per valutare l’accuratezza sono risultate 92,13% e 106,45% per i d-ROM’s e 114,02% e 106,41% per i BAP. Nella tabella 1 sono riportati i dati relativi alla distribuzione e gli intervalli di riferimento per entrambi i parametri. Tabella 1: Distribuzione e intervalli di riferimento di d-ROM’s e BAP Analita

unità di misura curtosi skewness media mediana SD Intervallo di riferimento

d-ROM’s U.CARR -0,3 -0,08 73,9 73,6 8,78 56,4 – 91,4 BAP µmoli/l -1,4 -0,2 2334 2435 659 1224,1 – 3279,3 CONCLUSIONI - Le prove eseguite confermano la possibilità di utilizzo dei test d-ROM’s e BAP nella specie canina. L’immediata congelazione del siero, considerando la stabilità relativa dei metaboliti degli idroperossidi, è da ritenersi fondamentale, per ottenere risultati attendibili e quindi clinicamente interpretabili. Sono stati quindi calcolati gli intervalli di riferimento per entrambi i parametri. Al fine di ottimizzare l’utilizzo di questi esami e quindi individuare soggetti in condizioni anche di lieve stress ossidativo, è auspicabile aumentare la casistica e considerare eventuali variazioni in base all’età, alla razza, al sesso ed all’alimentazione. BIBLIOGRAFIA -1)Cordara R (2002) La valutazione dello “stato ossidativo” nella pratica clinica. Biochimica Clinica, 26(5-6):415-18. 2)Iamele L et al. (2002). Evaluation of an automated spectrophotometric assay reactive oxygen metabolites in serum. Clin Chem Lab Med 40(7):673-76. 3)Trotti R, et al (2002) Performance and clinical application of a new, fast method for detection of hydroperoxides in serum. Panminerva Med. 44(1):37-40. 4)Iorio EL (2003). La valutazione globale dello stress ossidativo. Atti 53° Congr Naz AIPAC Pesaro 155-159. 5)Baskin CR et al. (2000). Effects of dietary antioxidant supplementation on oxidative damage and resistance to oxidative damage during prolonged exercise in sled dogs. AJVR, 61(8): 886-91. 6)Farver TB (1997) Concepts of normality in clinical biochemistry in Kaneko J, Harvey J, Bruss M. Clinical Biochemistry of Domestic Animals, Academic Press Vth Ed.

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OSSERVAZIONI SUI PRINCIPALI PARAMETRI DELL’EMOGRAMMA IN GRAVIDANZA E LATTAZIONE NELLA CAGNA. RISULTATI PRELIMINARI EVALUATION OF SOME HEMOGRAM PARAMETERS DURING PREGNANCY AND LACTATION OF THE DOG. PRELIMINARY RESULTS Gavazza A., Rota A., Viani P., Vannozzi I., Lubas G. Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa Parole chiave: cagna, gravidanza, lattazione, emogramma. Key words: dog, pregnancy, lactation, hemogram. SUMMARY – In 16 female dogs belonging to several breeds (2 giant, 7 medium, and 7 small size) the complete blood count, including plasma total protein and fibrinogen concentrations, has been evaluated during pregnancy and lactation with 7 different and well apart blood collections. A mild normocytic normochromic anemia has been documented. Modifications on count of total leukocytes (decreased at 20 days of pregnancy and during lactation), neutrophils (increased at 40 and 60 days of pregnancy), eosinophils (increased at 60 days of pregnancy), and monocytes (increased at 60 days of pregnancy and 2 days after whelping) have been noted. No variation has been observed for platelet counts. Fibrinogen concentration was increased at 40 and 60 days of pregnancy and 2 days after whelping and total protein values were decreased during lactation. INTRODUZIONE - In medicina umana, numerose organizzazioni sanitarie raccomandano di effettuare ripetuti esami ematologici durante la gravidanza poiché si verificano importanti modificazioni. Nella specie canina, i valori di riferimento per i risultati dell’emogramma sono generalmente riferiti ai soggetti adulti e non prendono in considerazione le modificazioni che avvengono in gravidanza e in lattazione. Gli studi presenti in letteratura riguardanti queste situazioni fisiologiche e l’emogramma sono scarsi e assai datati, spesso incompleti e riferiti a poche razze (1,2,4,6,7,8). Scopo del lavoro è stato quello di valutare le eventuali modificazioni dell’emogramma in un gruppo di cagne di razze diverse durante la gravidanza e la lattazione. MATERIALI E METODI - Lo studio ha incluso 16 cagne, clinicamente sane, i cui proprietari, a conoscenza dello scopo dello studio, avevano fornito il loro consenso ai prelievi ematici. Gli animali, di età compresa tra i 22 ed i 59 mesi (35.7 ± 15.6), appartenevano a razze di taglia gigante (2 Terranova), media (1 Pastore Tedesco, 3 Collie, 3 Border Collie) e piccola (1 Welsh Corgi Pembroke, 5 West Highland White Terrier ed 1 Jack Russel Terrier). Durante lo studio i soggetti alloggiavano presso i proprietari e sono stati alimentati con Purina Proplan® o Excellence®, integrate durante le ultime 2-3 settimane di gravidanza e la lattazione con Purina Puppy® (n=14) o con dieta casalinga (n=2). Dal proestro all’inizio del diestro il ciclo è stato seguito mediante strisci vaginali (colorati con Diff-Quik®, Dade Behring SPA, MI) eseguiti a giorni alterni. Come giorno dell’ovulazione è stato considerato quello che precedeva di sei giorni il primo giorno di diestro citologico. Le femmine sono state accoppiate durante l’estro citologico con monta naturale o inseminazione. Sono stati raccolti i dati relativi alla data del parto ed al numero di cuccioli nati. Sono stati previsti 7 prelievi ematici per ogni soggetto: durante il proestro, 20, 40 e 60 giorni post-ovulazione, e 2, 20 e 40 giorni post-partum. L’emogramma è stato eseguito da sangue in EDTA con un contaglobuli ad impedenza elettrica (GeniusVet, SEAC, Calenzano, FI) per determinare i seguenti parametri: conta eritrociti (RBC), leucociti (WBC), piastrine (PLT), emoglobina (Hgb), ematocrito (Hct), MCV, MCHC. La formula leucocitaria e la stima piastrinica sono state eseguite su striscio ematico colorato con Diff-Quik®. E’ stato inoltre determinato il valore plasmatico delle proteine totali (PPT) e del fibrinogeno (precipitazione a 56°C) con tecnica refrattometrica (9,10). Sui dati raccolti è stata effettuata l’analisi statistica (Minitab 12.1, Minitab Inc., State Coll., USA): analisi della varianza con GLM per l’effetto del momento del prelievo e della taglia del soggetto; “Paired t-test” di Student per ciascun parametro sulla differenza tra i valori del proestro e quelli degli altri momenti fisiologici.

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RISULTATI - Tutti i soggetti sono risultati clinicamente sani durante lo studio e la gravidanza si è conclusa con un parto eutocico in 15/16 cagne, mentre un soggetto di piccola taglia è stato sottoposto a taglio cesareo ed i prelievi effettuati da quel momento sono stati quindi eliminati dallo studio. La durata della gravidanza dalla data presunta di ovulazione, presa come riferimento per i prelievi, è stata di 62,6±1,6 giorni (n=16) ed il numero di cuccioli nati, nati vivi e svezzati è stato rispettivamente per i 3 gruppi di taglia di 5,9±2,1, 5,6±2,3 e 5,2±2,4. La natimortalità e la mortalità neonatale sono risultate nella norma (5). Dal punto di vista ematologico, il risultato più evidente è stata la diminuzione significativa, rispetto al proestro, di RBC e Hct, presente dal 20° giorno di gravidanza al 40° giorno di lattazione. Anche l’Hgb diminuiva progressivamente nel periodo di studio, ma la differenza rispetto al proestro era significativa solo a partire dal 40° giorno di gravidanza. La taglia delle cagne non è risultata influenzare significativamente né questi parametri né l’MCV o l’MCHC, sui quali non è stato evidenziato nessun effetto significativo. Sul numero dei WBC totali e dei neutrofili (NEU) era invece evidente un effetto significativo del momento del prelievo. La conta WBC era, infatti, significativamente inferiore al 20° giorno di gravidanza che nel post-partum ed in lattazione. In proestro, al 40° ed al 60° giorno di gravidanza rispettivamente 4/16, 9/16 e 4/15 soggetti avevano una conta WBC superiore all’intervallo di riferimento. Queste variazioni sono da ascrivere principalmente ai NEU, con un trend simile a quello dei WBC. Il “paired t-test” indicava un aumento significativo degli eosinofili (EOS) al 60° giorno di gravidanza rispetto al proestro e inoltre 5/15 soggetti avevano una conta di EOS superiore all’intervallo di riferimento. Nel numero dei linfociti (LIN) è possibile osservare un decremento graduale dal 40°-60° giorno seppure statisticamente non significativo. I monociti (MON) aumentavano significativamente al 60° giorno di gravidanza e nell’immediato post-partum. Il numero medio delle PLT durante la gravidanza e la lattazione non si è mai modificato in modo significativo. Non sono state osservate differenze statisticamente significative riguardo alla taglia dei soggetti per i parametri dei WBC e PLT. Sulle PPT era presente un effetto sia del momento del prelievo sia della taglia e la loro concentrazione era significativamente inferiore durante la lattazione (25% dei soggetti) che nel proestro. E’ possibile comunque osservare una progressiva diminuzione delle PPT durante la gravidanza, seppure statisticamente non significativa. Infine, il fibrinogeno è aumentato significativamente al 20° e 40° giorno di gravidanza e nell’immediato post-partum. CONCLUSIONI – In questo studio preliminare condotto su un ridotto numero di soggetti appartenenti a razze di taglia diversa, durante la gravidanza e la lattazione, sono state caratterizzate alcune variazioni dell’emogramma tra cui una lieve anemia normocitica normocromica unitamente ad un decremento delle PPT. Questa osservazione è probabilmente correlata all’effetto dell’emodiluizione causato dall’aumentate dimensioni del letto vascolare uterino e dallo spostamento dei fluidi dal comparto extravascolare al vascolare (1,3,6). In numerosi soggetti è stato possibile constatare al 40° ed al 60° giorno di gravidanza un numero di WBC superiore all’intervallo di riferimento, seppure questo aumento fosse meno marcato di quanto riportato in letteratura (2). Un aumento significativo di EOS e MON è stato rilevato al 60° giorno come già descritto da Doxey (7). Il numero delle PLT è rimasto invariato nel tempo al contrario di quanto riportato da Doxey (8) che segnalava un aumento in gravidanza o di quanto descritto nel 6% delle donne nell’ultima fase della gravidanza in cui è osservata una trombocitopenia (3). Il fibrinogeno, come già segnalato, è un sensibile indicatore di gravidanza che aumenta intorno alla 5° settimana di gestazione (11). L’individuazione di modificazioni costanti dell’emogramma durante la gravidanza e la lattazione può permettere una migliore valutazione di queste analisi e può essere di ausilio per monitorare (così come avviene nella donna) lo stato di salute della cagna e dei feti. BIBLIOGRAFIA - 1) Allard RL et al (1989) Comp Anim Pract, 19, 3-6. 2) Andersen AC (1958) Vet Med, 53, 135-156. 3) Beutler E et al (2001) Williams Hematology 6th ed, MacGraw-Hill, NY, 408-9, 1512-3. 4) Cairoli F et al (1980) Clin Vet, 103, 267-283. 5) Christiansen J (1987) La riproduzione nel cane e nel gatto, Edi-Ermes MI, 201. 6) Concannon PW et al (1977) Biol Reprod, 16, 517-526. 7) Doxey DL (1966) J Small Anim Pract, 7, 77-89. 8) Doxey DL (1966) J Small Anim Pract, 7, 375-385. 9) Lubas G et al (1999) Veterinaria, 13, 43-55. 10) Pasquini A et al (1998) Veterinaria, 12, 21-28. 11) Vannucchi CI et al (2002) Anim Repr Sc, 74, 87-99.

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IMPIEGO DELL’ESAME ULTRASONOGRAFICO IN UN CASO DI NEF RITE INTERSTIZIALE CRONICA NELL’IGUANA COMUNE (Iguana iguana) ULTRASONOGRAPHIC EXAMINATION IN A CASE OF CHRONIC INTERSTITIAL NEPHRITIS IN GREEN IGUANA (Iguana iguana) Gaio C., Zucca E., Avallone G.*, Ferro E. Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Medica, Milano; *Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, Sezione di Anatomia Patologica Veterinaria e Patologia Aviare, Milano Parole chiave: iguana, ecografia, nefropatia Key words: iguana, echography, nephropathy SUMMARY – Ultrasound examination is a noninvasive diagnostic procedure that is well tolerated by reptile patients; it doesn’t require chemical restraint of the patient and allows visualization of most of the organs of the coelomic cavity. A green iguana (Iguana iguana) was referred with a history of anorexia and loss of weight. An abdominal mass in the posterior abdominal region could be palpated. Haematology, blood biochemistry, radiographic and echographic examinations were performed. Echographic examination was the only diagnostic procedure able to identify the mass as the extremely enlarged kidneys. The histologic examination performed on post-mortem samples has diagnosed a diffuse interstitial nephritis with massive fibrosis. INTRODUZIONE – L’applicazione dell’esame ecografico quale ausilio diagnostico nella medicina dei rettili ha avuto negli ultimi anni ampia diffusione. Tuttavia la letteratura presente è riferita per lo più a casi clinici isolati, mentre rari sono i lavori relativi all’anatomia ecografica normale(1,2,3,4,5). L’esame ecografico costituisce una procedura diagnostica non invasiva e ben tollerata dai pazienti; essa non necessita di contenimento farmacologico e non presenta nessuna controindicazione. CASO CLINICO – Presso la Sezione di Clinica Medica Veterinaria del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università degli Studi di Milano, è stata sottoposta ad esame clinico un’iguana comune (Iguana iguana) di sesso maschile, di 3 anni di età, la cui anamnesi denunciava anoressia e dimagramento da circa 1 mese. All’esame clinico, il paziente presentava dimagramento e moderata disidratazione. Alla palpazione dell’addome era apprezzabile la presenza di una massa di consistenza duro-elastica che occupava i quadranti addominali caudali per una lunghezza di circa 4 cm cranialmente all’ingresso del bacino. Il paziente è stato sottoposto ad un prelievo di sangue; sul campione sono stati eseguiti l’esame emocromocitometrico mediante un emocitometro di Neubauer, secondo la metodica di Natt&Herrick, ed esami ematochimici di base (ac. urico, urea, calcio, fosforo, proteine totali) mediante apparecchiatura automatica Cobas Mira (Roche). Gli esami ematologico ed ematochimico hanno fornito i seguenti risultati: Hct 22%; RBC 35000/mm3; WBC 13200/mm3; Ac. urico 0,4 mg/dl; Urea 2 mg/dl; Ca 7,8 mg/dl; P 3,5 mg/dl. Tali parametri risultano nella norma(6), ad eccezione della conta dei globuli rossi e bianchi(/). Il paziente è stato inoltre sottoposto ad esame radiografico in proiezione sagittale e laterale. L’esame radiografico ha permesso di evidenziare la presenza di un’area uniformemente radiopaca, di forma pressoché bilobata, che si estendeva cranialmente al bacino occupando spazio bilateralmente per circa 4 cm. L’esame ultrasonografico è stato eseguito, ponendo il paziente non sedato in decubito dorsale, mediante l’impiego di un apparecchio portatile (FalcoVet – ESAOTE) e di una sonda lineare da 8.0 MHz. Scansioni sagittali e trasverse sono state ottenute a livello della finestra acustica prepubica(5). L’esame ecografico della regione prepubica, in scansione sagittale, ha permesso di evidenziare la presenza, sia sul lato destro sia sul lato sinistro dell’addome, di due masse parenchimatose simmetriche, di aspetto omogeneo ed iperecogeno, nella compagine delle quali erano evidenti piccole strutture tubulari ipoecogene; ognuna di queste masse appariva inoltre formata da una porzione di maggiori dimensioni (diametro dorso-ventrale 1,23 cm), posta più cranialmente e dorsalmente rispetto alla seconda e con margine craniale arrotondato, e da una seconda porzione di dimensioni più ridotte (diametro dorso-ventrale 0,76 cm), posta più caudalmente e ventralmente. Le masse si estendevano cranialmente al bacino in cavità

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addominale per circa 4 cm. Mediante scansione trasversale è stato possibile riconoscere due strutture distinte e simmetriche di forma pressoché triangolare e di dimensioni simili (1,42x1,05 cm e 0,88x1,45 cm). A causa di un peggioramento delle già scadenti condizioni cliniche, il soggetto è deceduto ed è stato sottoposto ad esame necroscopico; campioni di tessuto renale, epatico, e cardiaco sono stati prelevati per l’esecuzione di un esame istologico. L’esame necroscopico ha permesso di rilevare che le masse addominali palpabili, riconoscibili nei radiogrammi e meglio caratterizzate mediante esame ultrasonografico, corrispondevano ai reni; entrambi i reni apparivano estremamente aumentati di volume raggiungendo la lunghezza totale di 11 cm, si spingevano con il polo craniale ben oltre l’ingresso del bacino, occupando i quadranti posteriori della cavità addominale e, come già evidenziato dall’esame ultrasonografico, apparivano formati da due subunità sovrapposte e connesse, una di dimensioni nettamente inferiori rispetto all’altra. Macroscopicamente i reni apparivano di aspetto piriforme, di consistenza duro-elastica, di colore ocra, costellati da focolai puntiformi giallo-biancastri; le stesse caratteristiche erano osservabili sulla superficie di taglio. Le sezioni istologiche sono state sottoposte a colorazione con ematossilina-eosina. L’esame istopatologico, eseguito sul tessuto renale, ha rilevato la presenza di una nefrite interstiziale cronica, con marcato aumento della matrice connettivale e grave e diffusa dilatazione cistica dei tubuli. CONSIDERAZIONI – L’ultrasonografia si è rivelata uno strumento diagnostico di estrema utilità nella caratterizzazione della massa addominale palpabile in questo soggetto. A differenza di quanto era infatti ipotizzabile sulla base dell’esame clinico e dell’esame radiografico, l’esame ecografico ha permesso di definire esattamente le dimensioni e la forma della massa, nonché di stabilire che si trattasse in realtà di due strutture distinte e simmetriche; tali reperti, inoltre, hanno dimostrato un’esatta corrispondenza con i reperti anatomo-patologici. In base alla conoscenza della collocazione anatomica dei reni, di norma localizzati interamente in cavità pelvica(5,8), e dell’aspetto ecografico normale(1,5), è stato inoltre possibile ipotizzare che i reperti ultrasonografici del soggetto in esame fossero compatibili con nefromegalia associata ad alterazione strutturale del parenchima. Una delle peculiarità di questo caso clinico è rappresentata dai risultati delle analisi di laboratorio che non erano suggestivi di patologia renale, ma piuttosto di una forma infiammatoria generica. L’esame ultrasonografico si è rivelato decisivo nella formulazione dell’ipotesi diagnostica; tuttavia, solo l’esame autoptico e l’esame istologico hanno permesso di formulare la diagnosi definitiva. Un’altra particolarità è costituita dall’aumento di volume dei reni, condizione che sembra essere comune in caso di nefrite interstiziale nei rettili, contrariamente a quanto generalmente si verifica nei mammiferi(9). Sebbene i riferimenti disponibili in letteratura circa l’impiego dell’esame ecografico nei rettili ed i parametri normali di riferimento per i diversi organi risultino piuttosto scarsi, questa metodica diagnostica - non invasiva, ben tollerata anche da parte di soggetti particolarmente debilitati, di semplice esecuzione - permette di ottenere immagini diagnostiche di numerosi organi e dimostra di poter essere introdotta nei protocolli diagnostici anche nelle specie non convenzionali. BIBLIOGRAFIA : 1) Sainsbury AW et al (1991) J Zoo Wildl Med, 22, 421-433. 2) Delogu M et al (1992) Atti XLVI Congresso SISVet, 2187-2189. 3) Isaza R et al (1993) Vet Rad Ultrasound, 34, 445-450. 4) Schildger BJ et al (1996) Berl Münch Tierärztl Wschr, 109, 136-141. 5) Dati personali, 2004. 6) Finkelstein A et al (2003) J Herp Med Surg, 13, 5-9. 7) Divers SJ (1997) Proc Ass Rept Amph Vet, 4th Ann Conf, 5-11. 8) Hochleitner C et al (2004) Proc Ass Rept Amph Vet, 11th Ann Conf, 41-44. 9) Zwart P (osservazioni personali).

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VALUTAZIONE QUALITATIVA DELLA PROTEINURIA NEI RETTIL I : METODO E PROSPETTIVE THE QUALITATIVE ASSESSMENT OF PROTEINURIA IN REPTILES: METHODS AND PERSPECTIVES Scarpa P., Gaio C., Rossi T.*, Baggiani L. Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Medica (MI), * Libero Professionista (MI) Parole chiave: nefropatia, proteinuria, SDS-PAGE, rettile Key words: nephropathy, proteinuria, SDS-PAGE, reptile SUMMARY: Renal disease is a frequent finding in reptiles. Diagnosis can be difficult because clinical signs and blood biochemistry alterations are not specific. The aim of the present study is to assess the reliability of urinary polyacrylamide gel electrophoresis (SDS-PAGE) in detecting early kidney disease in reptiles. Twentyfour reptiles (4 terrapins, 13 tortoises, 5 iguanas, 2 snakes) were included in this study. Plasma uric acid, calcium and phosphorus were assessed and the Solubility Index (SI) was calculated. SDS-PAGE was performed on urine samples by precasted gradient gels (ExcelGel 8-18, Amersham Pharmacia, Biotech). Marked electrophoretic bands have been detected in urine samples from both healthy and symptomatic patients with low plasmatic uric acid and low SI. These preliminary results are suggestive of the reliability of SDS-PAGE in the early detection of nephropaties. INTRODUZIONE - Nei rettili, le nefropatie sono di frequente riscontro e possono conseguire ad alimentazione non corretta, disidratazione, infezioni batteriche od impiego di farmaci nefrotossici. Inoltre, l'aspecificità e la tardività relativa ai segni clinici ed alle alterazioni dei parametri di laboratorio pongono serie difficoltà diagnostiche. L'invasività della biopsia renale, sebbene tale tecnica resti il “gold standard” per confermare la presenza di una lesione renale, in animali di dimensioni spesso ridotte pone evidenti ostacoli. L'esame delle urine, benchè le peculiarità anatomiche e fisiologiche dei rettili ne abbiano limitato la diffusione e l'utilizzo, è stato recentemente rivalutato ai fini della diagnosi di nefropatia (1,2). La determinazione quantitativa della proteinuria resta, però, poco attendibile sia per le fisiologiche variazioni della concentrazione urinaria sia per la impraticabile raccolta delle urine delle 24 ore. Ulteriori limiti sono dati dall'impossibile utilizzo della creatinina quale indicatore della velocità di filtrazione glomerulare e dall'inadeguatezza del rapporto proteinuria/creatininuria calcolato sul singolo campione di urine, contrariamente a quanto accade in altre specie (3). Scopo del nostro studio è stato quello di verificare il possibile utilizzo di un metodo di elettroforesi su poliacrilamide (SDS-PAGE), per la valutazione qualitativa della proteinuria nei rettili, al fine di poter accedere ad una diagnostica precoce, specifica e non invasiva. MATERIALI E METODI - Il campione è costituito da 24 rettili: 13 Testudo hermanni, 4 Trachemys scripta, 5 Iguana iguana e 2 serpenti (Boa constrictor e Python regius). Su ogni soggetto sono stati effettuati prelievi di sangue e di urina (attraverso cistocentesi, cateterismo, minzione spontanea). Sono state determinate le concentrazioni di ac.urico, calcio e fosforo plasmatici. E' stato calcolato l'indice di solubilità (IS) (Ca x P plasmatici) quale indizio della mineralizzazione del parenchima renale. Sui campioni di urina è stato eseguito l'esame chimico-fisico (Combur Test, Roche). Sul surnatante è stata determinata la concentrazione delle proteine urinarie attraverso il metodo colorimetrico al Blue Coomassie (Protein Test, Alfa Wasserman). Il surnatante è stato addizionato con sodio azide e congelato a –25°C. Allo scongelamento, i campioni sono stati sottoposti a desalificazione (Microcon YM-3, Millipore Corporation). Sui campioni così desalificati e concentrati è stata nuovamente determinata la proteinuria. L'SDS-PAGE è stato eseguito mediante Multiphor II System (Amersham Pharmacia Biotech). Sono stati utilizzati gel precostituiti di poliacrilamide a gradiente di concentrazione (ExcelGel SDS Gradient 8-18, Amersham Pharmacia Biotech). I campioni sono stati diluiti con un tampone riducente. Quale standard di riferimento è stato adottato un pool di proteine a peso molecolare (PM) noto (BenchMarkTM Protein Ladder, Invitrogen). Sono state utilizzate le seguenti condizioni di corsa: 50mA, 30W, 600V ed eseguita una

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colorazione con Blue Coomassie. L'interpretazione delle corse elettroforetiche è stata visiva o gestita attraverso specifico software di analisi (TotalLab, Amersham Pharmacia Biotech). I risultati sono stati quindi suddivisi in base allo stato clinico degli animali (soggetti clinicamente sani o con sintomi quali dimagrimento, disidratazione, anoressia/disoressia, o riferibili a patologie metaboliche, quali la Metabolic Bone Disease MBD, etc.), alla presenza di elevata uricemia (>3 mg/dl), di proteinuria marcata (>20 mg/dl), di bande elettroforetiche assenti, poco visibili o marcatamente visibili e di un IS superiore alla norma (>55) (4). RISULTATI – Le bande sono risultate marcatamente visibili in 14 campioni, mentre appena rilevabili in 10 campioni. Alle bande proteiche più frequentemente riscontrate nei campioni esaminati, sono stati attribuiti PM attorno ai 68-70 kDa e 27-30 kDa (sovrapponibili rispettivamente ad albumina e α1-microglobulina). Nei tracciati si è osservata la prevalenza di proteine di medio e basso PM, mentre la presenza di proteine con PM >70 kDa si è verificata solo in 3 casi (gruppo sintomatici: 1 soggetto con ac.urico normale e 2 con ac.urico aumentato). La distribuzione dei rilievi è schematizzata nella tabella di seguito riportata.

CLINICAMENTE SANI = N. 6 SINTOMATICI = N. 18

� � � � AC. URICO ���� AC.URICO ����AC.URICO ����AC.URICO 5 1 9 9

����UP ����UP ����UP ����UP ����UP ����UP ����UP ����UP 5 -- 1 -- 6 3 3 6

EF - EF + EF - EF + EF - EF + EF - EF + EF - EF + EF - EF + EF - EF + EF - EF + 3 2 -- -- -- 1 -- -- 6 -- -- 3 1 2 -- 6

Ca x P (4 campioni)

Ca x P Ca x P Ca x P Ca x P (6 campioni)

Ca x P (3 campioni)

Ca x P (2 campioni)

Ca x P (4 campioni)

�5 �2 �1 �1 �3 �1 -- -- Nd -- �1*

-- -- �1

nd �1

-- �3

Legenda: �AC.URICO = ac.urico plasmatico <3 mg/dl; �AC.URICO = ac.urico plasmatico >3 mg/dl; �UP = proteinuria <20 mg/dl; �UP = proteinuria >20 mg/dl; EF - = bande elettroforetiche assenti o poco visibili; EF + = bande elettroforetiche marcate

Ca x P: � = < 55; � = >55; nd = non determinato. Sono state effettuate 19 determinazioni su 24 campioni.

La presenza di uricemia elevata, associata a compromissione dello stato clinico, è suggestiva di nefropatia: nel gruppo dei pazienti sintomatici, il rilievo di evidenti bande elettroforetiche anche in soggetti con modesta proteinuria sembra avvalorare tale dato. In tale sottogruppo, la presenza di un campione di urina con pattern elettroforetico negativo si verificava in concomitanza di una gravissima gastroenterite protozoaria in grado di determinare a sua volta l’elevata uricemia. Nei pazienti sintomatici, ma con uricemia nella norma, la presenza di elettroforesi urinarie significative si osservava solamente nei campioni caratterizzati da una proteinuria >20 mg/dl. I soggetti clinicamente sani presentavano uricemia normale nella quasi totalità dei casi. Segnaliamo il riscontro di bande elettroforetiche evidenti nelle migrazioni di 2 campioni di urina caratterizzati da bassa proteinuria; uno di questi apparteneva ad 1 soggetto che era stato affetto da MBD, in grado di determinare lesioni renali secondarie. Solo 1 soggetto clinicamente sano presentava elevata uricemia: anche in questo caso la modica proteinuria risultava concomitante ad evidenti bande elettroforetiche. Il riscontro di bande marcate nei tracciati elettroforetici di soggetti con IS >55 sembra quindi confermare la validità dell'SDS-PAGE nella diagnosi di nefropatia. L’evidenza di bande nei soggetti con IS <55 invece, ne fa supporre la validità ai fini di una diagnosi precoce. L'eccezione rappresentata dal dato asteriscato, è riferita ad iniziale MBD, in cui l'aumento di IS precede la mineralizzazione. CONCLUSIONI - I risultati ottenuti suggeriscono la possibilità dell’impiego dell’SDS-PAGE su campioni di urina di rettile per l’evidenziazione precoce del danno renale. E’ stato infatti possibile rilevare bande proteiche marcate nell'urina di soggetti con uricemia normale ed in campioni caratterizzati da una concentrazione proteica assai modesta La presenza di tracciati elettroforetici significativi in concomitanza di un IS <55 sembra avvalorare tale dato. Data la preliminarietà dello studio, sarà tuttavia necessario seguire il follow up dei soggetti considerati e correlare i risultati con i riscontri istopatologici. BIBLIOGRAFIA – 1) Gibbons PM et al. (2000), Proc. 7th A.R.A.V. Conference. 161-168. 2) Kölle P. et al. (2002), Proc. 9th A.R.A.V., 115-117. 3) Finco D (1995) Urinary protein loss. In: Osborne CA et al, Canine and Feline Nephrology and Urology, Williams & Wilkins, Media PA, 211. 4) Divers SJ (1997) Proc. Ass. Rept. Amph. Vet., 4th Ann Conf, 5-11.

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TOMOGRAFIA A COERENZA OTTICA (OCT) NEL CANE E NEL GAT TO: ASPETTI MORFO-STRUTTURALI E REPERTI CLINICI DEL FUNDUS OCT IN THE DOG AND CAT: MORPHO-STRUCTURAL PATTERN AND CLINICAL FEATURES OF FUNDUS Pugliese A., Trombetta C.J.*, Bonanno G., Freno M.C.*., Nasso S.*, Di Pietro S., Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie (ME), *Dipartimento delle Specialità Chirurgiche, U.O.C. di Oftalmologia (ME) Parole chiave: cane, gatto, fundus, retinopatie, OCT Key words: dog, cat, fundus, retinopathies, OCT SUMMARY – In this study we report the first results about the use of the optical coherence tomography (OCT) of retina in dogs and cats. OCT was performed on healthy subjects and on subjects affected by corioditis and retinitis. OCT showed that retina has a normal total thickness of 150-170µ, with higher values in the tapetal part than the nontapetal part, without variation of thickness at the retinal central area. In the retinal area affected by corioretinitis the OCT showed a reduction of thickness and an increase of reflectivity caused by the pigment accumulated. INTRODUZIONE – L’esame clinico della retina si è arricchito negli ultimi anni di nuove metodiche diagnostiche, in grado non solo di fornire immagini strutturali di elevata risoluzione ma principalmente di consentire uno studio più articolato e per niente invasivo delle diverse entità nosologiche. Una delle tecniche più innovative in tal senso è la tomografia a coerenza ottica (OCT) che, attraverso scansioni retiniche assimilabili ad una biopsia in vivo e con un potere di risoluzione pari a 7,5µ, consente di esaminare la microanatomia delle strutture oculari: basti pensare, in termini di paragone, alla risoluzione spaziale degli ultrasuoni che si attesta intorno a 150 µ (1,2). Le immagini tomografiche delle strutture oculari vengono ottenute effettuando, in successione, scansioni molto rapide, assiali o longitudinali, dell’occhio che possono essere osservate in bianco e nero o a colori. Dal momento che in letteratura sono presenti scarsi riferimenti bibliografici relativi all’applicazione della metodica OCT in medicina veterinaria (3), abbiamo ritenuto interessante intraprendere un programma di ricerca sull’impiego di questa tecnica diagnostica non invasiva negli animali. Nel presente lavoro vengono riportati i risultati preliminari dell’OCT della retina nel cane e nel gatto, sia in animali sani, reperti di riferimento, che in alcune patologie del distretto posteriore. MATERIALI E METODI – Oggetto della presente indagine sono stati n°4 gatti di razza europea, di età compresa tra 2 e 5 anni, 3 maschi e 1 femmina, e n°4 cani di razza diversa e di età variabile tra 3 e 6 anni, di sesso maschile, tutti in buone condizioni di salute e senza alcuna lesione a carico del distretto oculare posteriore, come evidenziato dalla precedente visita clinica e dall’esame specialistico dell’occhio. Ancora, sono stati inseriti nel gruppo campione un gatto europeo, maschio, di circa un anno di età con visus assente, affetto da corioretinite bilaterale pregressa e risultato positivo per Toxoplasma gondii (IFI) ed un cane di razza Dalmata, di 8 anni, di sesso femminile, con una anamnesi di ipoacuità visiva ed alterazioni dei nervi cranici ipsilaterali, colpito anch’esso da corioretinite bilaterale pregressa, di probabile origine infettiva. Gli animali oggetto di studio, previa anestesia generale e locale della superficie oculare, sono stati sottoposti inizialmente ad un esame del fundus tramite oftalmoscopia indiretta, con lente Heine a 20 D, ed oftalmoscopia a scansione laser (Heidelberg HRA), ottenendo immagini a luce aneritra ed infrarossa della superficie oculare posteriore. Uno dei gatti è stato sottoposto ad angiografia a fluorescenza (F.A.) ed al verde di indocianina (I.C.G.A.), inoculando per via endovenosa rispettivamente 0.5 ml di fluoresceinato sodico al 20% e 5 mg di I.C.G. diluita in 1 ml di solvente. Successivamente gli stessi soggetti sono stati sottoposti ad esame OCT, utilizzando il modello 3 della Zeiss. Sono state eseguite scansioni lineari orizzontali e verticali passanti per la regione del tapetum lucidum e del tapetum nigrum. Inoltre, è stata eseguita una mappa di spessore utilizzando il programma di acquisizione “Fast Macular Thickness”, seguita dall’analisi “Macular

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Thickness Analysis”. La regione papillare è stata, altresì, esaminata mediante i programmi di acquisizione “Fast Optic Disc” e “RNFL Thickness” ed analizzata mediante i programmi di analisi “Optic Nerve Head” e “RNFL Thickness Analysis”. RISULTATI – L’esame oftalmoscopico indiretto del fundus ha permesso di evidenziare la presenza o meno di lesioni a carico delle strutture retiniche negli animali esaminati. In particolare, nel gatto affetto da retinocoroidite bilaterale si potevano apprezzare lesioni multiple focali di aspetto maculoso notevolmente pigmentate, a testimonianza della fase ormai inattiva dell’infiammazione. Anche nel cane le aree di corioretinite, in numero ridotto, si presentavano molto ben delimitate con riflesso dorato e pigmentazione centrale, indice di una fase pregressa della malattia. L’esame oftalmoscopico del fundus, a luce aneritra, non ha permesso di ottenere in tutti i soggetti esaminati una buona qualità di immagini a causa dell’eccessiva reflettività del tapetum lucidum. All’esame a luce infrarossa la retina ha presentato un aspetto microgranulomatoso a livello della regione tappetale, con una maggiore omogeneità del tapetum nigrum. L’esame F.A. ed I.C.G.A., effettuato in uno dei gatti esaminati, ha permesso di ottenere immagini di alta qualità della vascolarizzazione retinica e coroideale. In questo stesso soggetto non sono state evidenziate fluorescenze patologiche in tutte le fasi angiografiche, in accordo con quanto evidenziato all’esame oftalmologico. Per quanto concerne l’esame OCT, tale metodica ha permesso di valutare l’organizzazione stratificata della retina. Lo strato delle fibre nervose, l’epitelio pigmentato e la coriocapillare sono altamente riflettenti, con una ulteriore densa banda iperriflettente localizzata profondamente a livello della regione tappetale, in corrispondenza del complesso EPR/coriocapillare. A livello del tapetum nigrum tale strato si presenta più sottile e con ridotta reflettività. Gli strati plessiformi interno ed esterno possiedono una reflettività intermedia, a loro volta però più riflettenti degli strati nucleari interno ed esterno. Lo strato dei fotorecettori mostra una reflettività minima. I vasi sanguigni retinici vengono identificati, in generale, attraverso un aumentata reflettività zonale, oltre che dalla riduzione della stessa a livello dell’epitelio pigmentato e della coriocapillare. I grossi vasi coroidali appaiono come spazi vuoti. La retina presenta uno spessore totale medio pari a 150-170 µ, con valori più elevati nella porzione tappetale rispetto alla regione non tappetale, senza alcuna variazione a livello dell’area centrale, contrariamente a quanto osservato nell’uomo. Inoltre, negli animali da noi esaminati non è stata evidenziata alcuna variazione morfologica attribuibile alla regione maculare, struttura quest’ultima più evidente nella specie felina. Nei soggetti affetti da lesioni a carico della retina e della coroide, l’OCT ha permesso di evidenziare nella sede interessata una riduzione dello spessore della retina neurosensoriale, con alterazione della regolare stratificazione. Inoltre, si è osservata iperreflettività del complesso EPR/coriocapillare secondaria a proliferazione cicatriziale di pigmento. CONCLUSIONI – I risultati del presente studio dimostrano la possibilità di applicare la tecnica OCT anche in medicina veterinaria, consentendo di acquisire immagini ad alta risoluzione della retina e del nervo ottico nel cane e nel gatto. In particolare, i parametri valutati nel corso dell’esame tomografico della retina nei soggetti normali, riferiti specificatamente ai valori di spessore e di reflettività retinica, possono essere considerati come dati di riferimento per lo studio delle diverse patologie retiniche, quali le malattie degenerative, vascolari o infiammatorie. L’utilizzo dell’OCT nei soggetti con lesioni corioretiniche ha permesso un approfondimento clinico di tali entità nosologiche sicuramente maggiore e difficilmente ottenibile con le comuni tecniche di indagine oculare. È auspicabile, quindi, un utilizzo sempre più frequente di tale procedimento analitico che consenta una più precisa valutazione clinica della singola patologia, non soltanto dal punto di vista diagnostico ma soprattutto in ambito prognostico, quale strumento di monitoraggio a seguito di terapie specifiche. Nell’ambito dell’oftalmologia comparata, l’OCT applicata agli animali può costituire un elemento innovativo di particolare importanza nello studio e nella ricerca di alcune entità nosologiche che possono affliggere l’umana specie. BIBLIOGRAFIA – 1) Schuman JS et al (1995) Arch Ophthalmol, 113, 586-596. 2) Dawson WW et al (1996) Invest Ophthalmol Vis Sci, 37, S1152. 3) Brooks DE (1999) Ocular imaging In: Gelatt KN Veterinary Ophthalmology, 3rd Ed., Lippincott W&W, 467-482.

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PRESENZA DEL LISOZIMA NEL FILM LACRIMALE DEL GATTO: DATI PRELIMINARI LYSOZYME PRESENCE IN THE TEAR FILM OF CATS: PRELIMINARY DATA Rampazzo A., Pregel P., Cannizzo TF., Aresu L., Della Donna L., Peruccio C. Dipartimento di Patologia Animale, Grugliasco (TO). Parole chiave: gatto, lisozima, film lacrimale. Key words: cat, lysozyme, tear film.

SUMMARY- The presence of lysozyme in the tear film of the cat has never been defined clearly. The purpose of this study was to determine whether cat’s tears contain lysozyme or not. Tear samples were collected from 30 cats. SDS-PAGE electrophoresis and immunoblotting were used to investigate the presence of lysozyme in the tear film. With these techniques its presence could not be ascertained. Later an immunohistochemical study was performed on the lachrymal gland, accessory lacrimal gland and conjunctival epithelium of 3 cats. This technique showed staining of lysozyme granules in the ocular adnexa. Given the positive results, more samples will be examined by immunohistochemistry.

INTRODUZIONE - Il film lacrimale costituisce una prima linea di difesa dell’occhio nei confronti dei vari microrganismi patogeni. Studi recenti hanno dimostrato che uno dei componenti del film lacrimale, il lisozima, non ha solo proprietà antibatteriche, come risaputo da tempo, ma anche antivirali.1 In medicina umana diversi studi hanno riportato un minore contenuto di lisozima nelle lacrime di soggetti affetti da cheratite herpetica se paragonati con soggetti sani o soggetti affetti da cheratite di natura non herpetica.2 I gatti sono frequentemente affetti da herpesvirus felino 1, che causa interessamento del tratto respiratorio superiore e oculare. La composizione del film lacrimale del gatto non è stata studiata approfonditamente fino ad oggi. Un precedente studio aveva ipotizzato l’assenza del lisozima nelle lacrime dei gatti.3 Lo scopo di questo studio è di determinare la presenza o meno del lisozima nelle lacrime di gatto. MATERIALI E METODI - Sono stati raccolti campioni di liquido lacrimale da 30 gatti presentati all’Ospedale Veterinario di Torino per ragioni diverse da malattie oculari. Le lacrime sono state prelevate tramite tamponi sterili. In seguito a centrifugazione dei tamponi, le lacrime sono state raccolte in provette da biologia molecolare e congelate a –20°C. Il pattern proteico delle lacrime dei gatti è stato determinato in elettroforesi SDS-PAGE. Inoltre si è utilizzato l’immunoblotting per verificare la presenza del lisozima. Infine le ghiandole lacrimali principali e accessorie di 3 gatti sono state sottoposte a immunoistochimica per la rilevazione della presenza di lisozima. RISULTATI - L’elettroforesi SDS-PAGE ha permesso di ottenere un pattern elettroforetico delle lacrime del gatto, ma non di mettere in evidenza il lisozima. Anche mediante immunoblotting non è stato possibile evidenziare la presenza del lisozima nelle lacrime del gatto. Al contrario, attraverso metodica immunoistochimica è stato possibile riscontrare positività delle cellule acinari della ghiandola lacrimale principale, debole positività delle medesime cellule nella ghiandola lacrimale accessoria e, infine, marcata positività delle cellule dell’epitelio congiuntivale. CONCLUSIONI - L’elettroforesi SDS-PAGE è risultata utile per analizzare il pattern proteico delle lacrime di gatto, ma non per accertare l’eventuale presenza di lisozima nelle stesse. La metodica di immunoblotting ha fornito un analogo risultato. Al contrario, in immunoistochimica si è potuta evidenziare la presenza di lisozima nella ghiandola lacrimale principale, accessoria e nell’epitelio congiuntivale. Probabilmente la concentrazione di lisozima presente nelle lacrime è troppo bassa per essere rilevata tramite metodiche

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elettroforetiche, oppure tale proteina non viene preservata durante il raccoglimento del campione con la metodica utilizzata nel presente studio. Considerati i risultati positivi ottenuti con l’immunoistochimica, si intende continuare questo studio e analizzare con tale metodica un maggiore numero di soggetti. BIBLIOGRTAFIA - 1) Steinrauf LK et al (1999) Biochem Biophys Res Commun. 266: 366-370. 2) Saari KM et al. (1983) Graefe’s Arch Clin Exp Ophthalmol. 221: 86-88. 3) Stades FC et al (1976) Tijdschr Diergeneeskd. 20: 1141-4.

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INTOSSICAZIONE DA ENDOSULFAN IN UNA MANDRIA DI BOVINE DA LATTE: ASPETTI CLINICI CLINICAL SIGNS OF ENDOSULFAN POISONING IN A HERD OF DAIRY COWS Conti M.B., Marchesi M.C., *Leonardi L., Rueca F., Dip. Patologia, Diagnostica e Clinica Veterinaria – Sezione Medicina Interna - *Dip. Scienze Biopatologiche ed Igiene delle produzioni Animali ed Alimentari – Università degli Studi di Perugia Parole chiave: endosulfan, organoclorurati, bovine da latte, intossicazione Key words: endosulfan, organochlorine, dairy cows, poisoning SUMMARY – The Authors describe the clinical features observed in a herd of dairy cows during an acute poisoning caused by endosulfan. Neurological signs, mainly characterised by mydriasis, sialorrhea, tremors, ataxia and aggression rapidly appeared after the ingestion of maize silage contaminated by this organochlorine. Five animals died in a few hours, after showing dyspnea and clinical signs of pulmonary oedema. A poisoning was suspected on the basis of the clinical signs and their evolution as well as the hystopathologic findings; diagnosis was made by demonstrating endosulfan in maize silage and in ruminal contents obtained from died cows. PREMESSA - L’endosulfan è un organoclorurato, attivo contro numerosi fitofagi di diverse colture e nei confronti di alcuni acari ed eriofidi. Viene utilizzato per trattamenti di colture frutticole, vinicole, orticole, cerealicole, foraggere, forestali, floricole ed ornamentali, nonché per la preparazione di esche avvelenate per insetti del terreno. In commercio sono disponibili oltre 20 tipi di preparazioni contenenti dal 4,7 al 32,9% di endosulfan. DESCRIZIONE DEL CASO - L’episodio di intossicazione pervenuto alla nostra osservazione ha riguardato un allevamento di 350 frisone italiane in lattazione. Come di consueto il personale aveva dato inizio alla distribuzione dell’alimento con il sistema del piatto unico, prima alle manze ed in successione agli animali in asciutta, bovine prossime al parto ed ai tre gruppi di produzione. Dopo circa 30-40 minuti il Medico Veterinario aziendale osservava tuttavia l’insorgenza di segni neurologici di tipo eccitativo in alcune manze e bloccava la distribuzione dell’unifeed prima che raggiungesse i gruppi in produzione. Nel frattempo tale sintomatologia si manifestava anche in altre manze e nella maggior parte degli animali in asciutta, comportando la morte di quattro soggetti. Il quadro sintomatologico era caratterizzato da irrequietezza, tremori muscolari, movimenti abnormi delle orecchie, fotofobia, deambulazione incerta e risposte esagerate alle stimolazioni acustiche e tattili, che rendevano inopportuno il loro avvicinamento. Alcuni soggetti presentavano scialorrea, movimenti di masticazione a vuoto, digrignamento dei denti, meteorismo ruminale, respiro frequente (60’), superficiale e discordante, midriasi, atassia locomotoria, movimenti di retropulsione utilizzando la recinzione come guida. A tali segni talora si sostituivano movimenti di maneggio, manifestazioni di aggressività, caduta a terra seguita da tentativi infruttuosi di rialzarsi. Cinque soggetti venivano a morte al termine di questa fase, mentre negli altri si assisteva alla remissione della sintomatologia in 6 – 8 ore. Il Medico Veterinario aziendale, dopo aver constatato la presenza di una frattura del bacino conseguente alla caduta a terra, sottoponeva ad eutanasia 2 bovine in asciutta. In 7 manze che avevano superato la fase acuta venivano prelevati campioni di sangue per la determinazione dei parametri ematologici (Vacutainer® con potassio EDTA), emogasanalitici (direttamente in campo con analizzatore portatile AVL OPTI CCA) e del profilo biochimico-clinico su emosiero (ottenuto subito per centrifugazione e conservato a 4°C fino al momento dell’analisi, avvenuta dopo 4-6 ore). Nei 4 soggetti venuti a morte per primi venivano asportati in campo fegato, reni e milza. Gli organi ed un campione di insilato di mais, che presentava un intenso odore acre, sono stati conferiti all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche per la ricerca di piombo, cadmio e pesticidi. Tale laboratorio prevede la ricerca con tecnica gascromatografica di circa 100 diverse molecole di pesticidi, ma non ne effettua, in caso di sospetto di avvelenamento acuto, l’analisi quantitativa. Tre animali sono stati ricoverati per accertamenti ed eventuale terapia presso la Sezione di Medicina Interna del Dipartimento: una bovina, che

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mostrava decubito permanente, ipereccitabilità, risposta abnorme agli stimoli, midriasi, tremori muscolari diffusi, disidratazione del 5-7% e segni di insufficienza circolatoria periferica, è stata sottoposta ad eutanasia ed esame necroscopico; le altre due, dopo un campionamento di sangue per emocromocitometrico, emogasanalisi e profilo biochimico-clinico, sono state sottoposte ad infusione di soluzioni idro-elettrolitiche, complessi polivitaminici ed antibiotici. I risultati degli esami ematologici ed ematochimici, sovrapponibili negli animali ricoverati ed in quelli in allevamento, espressi come valore medio ± deviazione standard, erano caratterizzati da: aumento di ematocrito (35.8±8.0%), numero di eritrociti (8.34±1.97 x 106/µl) e contenuto di emoglobina (12.2±2.5 g/dl), neutrofilia assoluta (12.3±5.0 x 103/ l); valori sierici di glucosio prossimi al limite superiore di riferimento od al di sopra di questo (80.7±31.6 mg/dl); incremento dei livelli sierici di acidi grassi non esterificati (1076±439 mg/dl), ß-idrossibutirrato (1.02±0.43 mmol/l), creatinfosfochinasi (1910±1250 U/l), transaminasi glutammico-ossalacetica (767±921 U/l) e –piruvica (200±246 U/l), nonché di magnesio (4.07±1.62 mg/dl); diminuzione della calcemia (6.94±1.06 mg/dl) e fosforemia prossima ai livelli superiori di riferimento od al di sopra di questi (8.7±3.7 mg/dl). L’emogasanalisi ha rivelato tendenza all’alcalosi metabolica, tranne in 2 animali, tra quelli sottoposti a campionamento in azienda, nei quali era presente acidosi metabolica. L’esame anatomopatologico della bovina sottoposta ad eutanasia ha permesso di evidenziare: congestione poliviscerale; costipazione prestomacale; enterite muco-catarrale; epatopatia degenerativa steatosica; edema polmonare bilaterale; linfoadenite emorragica, petecchie emorragiche a carico della regione epicardica di sinistra; assenza di lesioni macroscopiche nel sistema nervoso centrale. L’esame istopatologico ha consentito di rilevare: steatosi epatica a piccole gocce associata a necrosi prevalentemente di tipo centrolobulare; numerosi epatociti colpiti da ipertrofia e mostranti inclusioni citoplasmatiche di forma sferoidale di natura lipoproteica; aree di linfoadenite emorragica a carico dei linfonodi epatici; aree diffuse di necrosi dei tubuli renali, caratterizzata da presenza di ampie zone degenerativo-necrotiche a carico degli epiteli, associata a congestione vasale e glomerulare. Nel campione di insilato raccolto in allevamento e nel contenuto ruminale della bovina sottoposta ad eutanasia è stata accertata la presenza di Endosulfan-alfa ed Endosulfan-beta. Tutti i soggetti venuti a morte di età superiore ai 24 mesi sono stati sottoposti a test rapido per la Encefalite Spongiforme Bovina, risultato negativo. CONCLUSIONI – La sintomatologia osservata è in accordo con quella ascrivibile alle forme acute di intossicazione da organoclorurati e peraltro sovrapponibile alle descrizioni presenti in bibliografia (1, 2, 3). Endosulfan, infatti, prolungando la fase di caduta del potenziale di azione, permette la depolarizzazione completa della membrana nervosa anche in risposta a stimoli di bassa intensità; le stimolazioni periferiche di tipo tattile od acustico vengono quindi amplificate nel SNC, causando tremori muscolari e fascicolazioni generalizzati. L’aumento di ematocrito, emoglobina e del numero degli eritrociti sono correlabili alla disidratazione; i risultati delle determinazioni su siero di sangue sono in accordo con una risposta allo stress ed all’aumentata richiesta energetica per le modificazioni glico-lipidiche, nonché alla tossicità acuta di endosulfan a livello epatico, confermata anche dai reperti anatomoistopatologici. L’aumento delle quote sieriche di creatinfosfo-chinasi è motivato dall’abnorme attività muscolare; le modificazioni del quadro minerale sono invece giustificate dall’azione del tossico sull’equilibrio del calcio, che si accumula all’interno della cellula inducendo rilascio di magnesio per mantenere l’osmolarità del sangue, nonché dall’insorgenza di lesioni renali. Anche i risultati dell’esame anatomopatologico si allineano con quanto riportato in letteratura (1, 3). Il sospetto di intossicazione acuta, avanzato sulla base dei segni clinici e dei dati laboratoristici, ha trovato conferma nel rilievo di endosulfan nell’insilato aziendale e nel contenuto ruminale della bovina sottoposta ad esame anatomopatologico: l’eventuale presenza di endosulfan negli organi ma non nel materiale alimentare avrebbe infatti giustificato un accumulo cronico del tossico, ma non l’episodio acuto osservato. Per le modalità di insorgenza delle manifestazioni e per il rilievo del tossico in un’area definita della trincea del silomais è stata avanzata l’ipotesi che l’evento fosse di natura dolosa. BIBLIOGRAFIA – 1) Smith R.A. e Tramontin R.R. (1995) Vet. Hum. Toxicol., Oct; 37 (5), 470-471. 2) Kelch W.J. e Kerr L.A. (1997) Vet. Hum. Toxicol., Feb; 39 (1), 29-30. 3) Mor F., Ozmen O. (2003) Vet. Hum. Toxicol. Dec, 45 (6), 323-324.

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RANGE DI RIFERIMENTO DI ALCUNI PARAMETRI EMATOLOGICI ED EMATOCHIMICI IN CAPRE GIRGENTANE PLURIPARE: STUDIO PRELIMINARE REFERENCE RANGES OF SOME HEMATOLOGICAL AND HEMATOCHEMICAL VALUES IN GIRGENTANA GOATS: A PRELIMINARY STUDY Vazzana I.1, Arcigli A.1, Vicari D.1, Lutri L.2, Ferrantelli V.1 1.Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia “A. Mirri”, Palermo. 2. Istituto Zootecnico Sperimentale della Sicilia. Parole chiave: Capra Girgentana, parametri ematologici, parametri ematochimici Key word: Girgentana Goat, hematological values, hematochemical values SUMMARY – Basic haematological and haematochimical estimations were made on 50 Girgentana goats (female, 4-5 years old). The study was conducted during April 2004 and was carried out at the Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia “A. Mirri”. The blood were collected from the external jugular vein by a vacutainer tube with and without EDTA. Erythrocite counts, packed cell volume, haemoglobin concentration, mean corpuscular haemoglobin, mean corpuscular haemoglobin concentration and total leukocyte counts were estimated. The percentage of neutrophils, eosinophils, basophils, monocytes and lymphocytes were determined from differential counts of leukocytes. ALT, AST, LDH, -GT, CK, K, Na, calcium, phosphorus, creatinine and urea were measured in the serum. INTRODUZIONE - Nella Regione Sicilia il patrimonio caprino ammonta a circa 250 mila capi, la maggiore concentrazione degli allevamenti si ha nelle aree interne e nelle province di Palermo e Messina. Le razze e le popolazioni geneticamente più omogenee rappresentano solo una minima parte del patrimonio caprino regionale, caratterizzato invece da una forte eterogenicità (1) . Le capre di razza Girgentana rappresentano un patrimonio zootecnico di alto valore genetico ma purtroppo negli ultimi anni ha subito un decremento così forte da suscitare un interesse nazionale che mira alla salvaguardia e alla valorizzazione della stessa. In materia di salvaguardia si rende sempre necessaria una corretta gestione delle popolazioni faunistiche che tenga conto, prima di tutto, del rispetto e del benessere animale. A tal fine abbiamo voluto valutare le condizioni di salute di un piccolo gruppo omogeneo di capre Girgentane mantenute nella zona collinare di Belmonte Mezzagno (Pa) – circa 400 mt slm. MATERIALI E METODI - L’indagine è stata condotta su 50 capre Girgentane, femmine, di età compresa fra 4 e 5 anni, di 38 Kg di peso medio, in discrete condizioni nutrizionali e senza segni clinici di patologie. I soggetti venivano alimentati al pascolo con un integrazione di 150 gr di mais mattina e sera. Tutti i soggetti erano in fine lattazione. I soggetti sono stati sottoposti a prelievo di sangue dalla vena giugulare esterna con sistema vacutainer utilizzando provette con e senza EDTA. I campioni di sangue intero, reso incoagulabile con l’aggiunta di EDTA, sono stati analizzati mediante contaglobuli automatico (Cell-Dyn 3700 Abbott). I sieri ottenuti dopo centrifugazione (3500 g/min X 15 min) delle provette senza EDTA sono stati analizzati con metodo spettrofotometrico (Konelab 20 Dasit). Dai campioni sono stati determinati i seguenti parametri: globuli rossi (RBC), globuli bianchi (WBC) con formula leucocitaria, ematocrito (HCT), emoglobina (Hb), volume corpuscolare medio (MCV), emoglobina corpuscolare media (MCH), concentrazione media dell’emoglobina corpuscolare (MCHC), urea, creatinina, CK, LDH, GOT/ALT, GPT/AST, -GT, fosforo, calcio, sodio, potassio. RISULTATI - Nelle tabelle 1 e 2 vengono riportati i valori medi, con le rispettive deviazione standard, dei parametri ematologici ed ematochimici in esame. CONCLUSIONI - I valori dei parametri biochimico-clinici sono risultati sovrapponibili a quelli riportati in letteratura (2,3), tranne che per le transaminasi epatiche. In riferimento a questi ultimi, peraltro sovrapponibili a quelli osservati da Stelletta et al.(4) su un gruppo di

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Girgentane mantenute a stabulazione presso l’Istituto Zootecnico Sperimentale della Sicilia, si avanza l’ipotesi di una correlazione, in assenza di patologie in atto ed in presenza di un regime dietetico controllato, in termini di caratteristica di razza, fermo restando che gli stessi dovranno essere supportati da ulteriori indagini. Gli elevati valori di LDH e CK riscontrati sono verosimilmente riconducibili alle manipolazioni da cattura e contenimento degli animali. Per quanto concerne i valori emocitometrici, a tutt’oggi non riportati in letteratura, non risulta possibile alcun raffronto. I risultati ottenuti mostrano la notevole omogeneità del gruppo in esame e permettono di tracciare un quadro preliminare di alcuni valori ematologici e biochimico-clinici delle capre Girgentane. Inoltre si ritiene opportuno proseguire queste indagini al fine di ottenere dei range di riferimento specifici, che consentano di valutare strategie innovative per il miglioramento igienico-sanitario e del benessere animale, stante la precaria situazione in termini numerici oltre che in termini di utilizzazione di questa razza. Tale studio potrà consentire di meglio definire le condizioni essenziali di allevamento e quindi di meglio caratterizzare un sistema produttivo nell’ottica di migliorarne qualitativamente le produzioni. TABELLA 1 – Valori medi e relative deviazioni standard di alcuni parametri

ematologici in capre di razza Girgentana. PARAMETRI UNITA’ MISURA MEDIA DEVIAZIONE

STANDARD WBC K/µL 10,1 ± 2,8 Neutrofili % 4,6 ± 1,8 Linfociti % 4,2 ± 1,4 Monociti % 0,8 ± 0,4 Eosinofili % 0,4 ± 0,2 Basofili % 0,1 ± 0,1 RBC M/µL 14,6 ± 1,3 Hb g/dl 8,8 ± 0,7 HCT % 44,8 ± 9,9 MCV fL 30,3 ± 6,2 MCH pg 6,1 ± 0,4 MCHC g/dl 20,4 ± 6,6

TABELLA 2 – Valori medi e relative deviazioni standard di alcuni parametri ematochimici in capre di razza Girgentana.

PARAMETRI UNITA’ MISURA MEDIA DEVIAZIONE STANDARD

Calcio mg/dl 9,6 ± 0,5 Fosforo mg/dl 5,1 ± 1,3 ISE K. mmol/l 7,3 ± 1,2 ISE Na mmol/l 135,6 ± 1,7 GOT/AST U/l 103,5 ± 14,4 GPT/ALT U/l 24,2 ± 5,1 -GT U/l 25,7 ± 6,2

Creatinina mg/dl 0,8 ± 0,1 Urea mg/dl 32,5 ± 6,7 CK U/l 213.5 ± 34.8 LDH U/l 768.5 ± 111.9

BIBLIOGRAFIA – 1) Russo G. (2003), Il Chirone, 5-6. 2) Ducan and Prasses’s (2003) Clinical Pathology, 338-342. 3) Kaneko et al. (1997) Clinical Biochemistry of Domestic Animals, 890-895. 4) Stelletta C. et al. (2004), Sipaoc 2004, 327. Si ringraziano per la cortese collaborazione i tecnici di laboratorio biomedico Rubino G. e Orefice T.

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FOCOLAIO DI LINFADENITE CASEOSA (CLA) IN UN ALLEVAMEN TO CAPRINO IN SICILIA. CONSIDERAZIONI SU UNA PATOLOGIA DIMENTICATA CASEOUS LYMPHADENITIS (CLA) OUTBREAK IN A GOAT HERD IN SICILY. CONSIDERATIONS ON A NEGLECTED DISEASE Ferrantelli V.1, Percipalle M.1, Lena A.2, Mancuso I.1, Vicari D.1 1.Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia “A. Mirri”, Palermo. 2.Veterinario Libero Professionista. Parole chiave: capra, ascessi, pseudotubercolosi, linfonodi. Key words: goat, abscesses, pseudotuberculosis, lymph glands. SUMMARY – The following paper reports a clinical outbreak of caseous lymphadenitis (CLA) in a goat herd in Sicily. The animals were referred to veterinary advice with an history of subcutaneous swellings related to abscesses developing within superficial lymph nodes. Parotid/retropharingeal, supramammary and precrural lymph nodes were mostly affected. Antibiotic therapy proved ineffective with abscesses recurring overtime after rupturing and draining purulent discharge. Abscessed lymph node samples were submitted for microbiological examination. Microscopic evaluation of bacterial colonies and routine biochemical tests carried out on pure cultures yielded a positive result for Corynebacterium pseudotuberculosis. Since the condition can be regarded as a lifelong infection, prevention remains the main objective to prevent further spreading to uninfected herds. INTRODUZIONE – La linfoadenite caseosa (CLA), meglio nota come pseudotubercolosi, è una patologia cronica e ricorrente a carattere suppurativo sostenuta da coccobacilli Gram positivi, aerobi ed anaerobi facoltativi, appartenenti alla specie Corynebacterium pseudotuberculosis. Colpisce prevalentemente ovini e caprini, nei quali provoca la formazione di ascessi a carico dei linfonodi superficiali (forma cutanea) e viscerali e degli organi interni (forma viscerale). Benché le due forme di malattia possano colpire indistintamente pecore e capre, queste ultime tendono a manifestare più frequentemente la forma cutanea (piogranulomi a carico dei linfonodi del collo e della testa) (1, 2). Occasionalmente anche bovini, equini e l’uomo possono essere interessati (3, 4, 5). L’infezione si realizza attraverso il contatto tra soluzioni di continuo di cute e mucose, generalmente di origine traumatica, ed il materiale proveniente dagli ascessi, benché il microrganismo sia in grado di penetrare anche attraverso la cute integra (6). La trasmissione dell’infezione può compiersi anche per inalazione di aerosol infetto eliminato da soggetti portatori di ascessi polmonari. La malattia è generalmente introdotta nel gregge da un portatore asintomatico, proveniente da un allevamento infetto (7). Con la presente segnalazione di un focolaio di CLA in un allevamento caprino della provincia di Agrigento, si intende richiamare l’attenzione su una patologia a torto negletta e sottovalutata da allevatori e veterinari, ma responsabile di danni economici tali da imporre, in alcuni paesi europei, l’adozione di programmi di controllo ed eradicazione. MATERIALI E METODI – Nell’autunno del 2004 un numero consistente di capre (45/150), di razza Saanen e Camosciata delle Alpi, provenienti dal Piemonte e dalla Lombardia e presenti nell’allevamento siciliano da 3 anni, stabulate a posta fissa su lettiera permanente, ha

manifestato la comparsa di neoformazioni sottocutanee sferiche od ovoidali, a livello delle regioni di mammella, collo, testa e grassella. Le lesioni esordivano in forma di noduli del diametro di 0,5 cm, che nell’arco di 2-3 mesi evolvevano a masse ascessuali delle dimensioni di 10 cm, fredde, indolenti e di consistenza fibrosa. Nella maggior parte dei casi, gli ascessi si rinvenivano a carico dei linfonodi prescapolari, parotidei, sopramammari e precrurali esclusivamente nei soggetti adulti di entrambi i sessi. Gli animali, in buono stato di nutrizione,

manifestavano grattamento delle aree cutanee interessate dagli ascessi, i quali successivamente esulceravano, lasciando defluire abbondante materiale purulento giallastro ed inodore. Si è proceduto al campionamento del contenuto degli ascessi tramite agoaspirato,

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previa tricotomia e disinfezione della superficie cutanea. L’impiego di antibiotici (tilosina e tilmicosina) per via generale ed infiltrazione locale non ha dato esito positivo e gli ascessi, spontaneamente regrediti in seguito all’ulcerazione, hanno recidivato regolarmente. L’esame colturale è stato eseguito presso il laboratorio Attività di Assistenza Territoriale Interprovinciale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia. I campioni pervenuti, testati per la ricerca di Corynebacterium spp, Staphylococcus spp e Streptococcus spp, sono stati seminati in Agar sangue, in MSA (mannitol salt agar) e in TKT (Tallio acetato - cristalvioletto tossina). Le piastre sono state incubate a 37°C in aerobiosi per 18-24 h, mentre alcune piastre di agar sangue sono state incubate in microaerofilia (5 % di CO2) per un periodo di 5gg, per la ricerca di Corynebacterium spp. RISULTATI - L’esame delle piastre incubate in microaerofilia ha messo in evidenza lo sviluppo di colonie grigiastre, friabili, emolitiche, con tipica morfologia a margini irregolari ed anelli concentrici a partire da un centro papilliforme. Gli esami microscopico e tintoriale

hanno consentito il rilievo di microrganismi Gram+, difteroidi con caratteristica configurazione a ideogrammi cinesi, ascrivibili al genere Corynebacterium. La determinazione di catalasi ed ossidasi e della mobilità hanno permesso di confermare l’appartenenza al genere. Il profilo biochimico, valutato con sistema miniaturizzato (API Coryne), ne ha confermato l’appartenenza alla specie C. pseudotuberculosis.

CONCLUSIONI - La CLA costituisce, per l’impresa zootecnica ovi-caprina, una patologia devastante dal punto di vista economico. Le perdite più significative sono correlabili sia al deprezzamento del vello, per la presenza degli esiti delle lesioni ascessuali, che alla riduzione delle produzioni (carne e latte), quando la patologia si manifesta nell’insidiosa forma viscerale. Quest’ultima è una delle cause principali di sequestro e distruzione delle carcasse di pecore nei macelli di molti paesi. Al pari delle altre regioni dove l’allevamento ovi-caprino è tradizionalmente radicato, anche in Sicilia la malattia può essere considerata endemica. Ciononostante, eventi morbosi caratterizzati da sintomatologia marcata e da alta prevalenza percentuale sono abbastanza rari dal momento che la diagnosi della malattia è occasionale e generalmente consegue al rilevamento delle tipiche lesione nei linfonodi viscerali, soprattutto mesenterici e mediastinici, in sede di macellazione. Nel caso oggetto di questa segnalazione, il focolaio epidemico che ha colpito animali selezionati e di relativamente recente introduzione nell’allevamento, potrebbe essere correlato alla scarsa adattabilità al micro ed al macro ambiente locale, in riferimento non solo alle caratteristiche pedoclimatiche e manageriali dell’allevamento, ma anche alla specificità della flora patogena. Questa, infatti, negli animali indigeni, o già stabilmente adattati, non è in grado di determinare quadri morbosi eclatanti, ma eventualmente soltanto entità subcliniche. Le condizioni intensive dell’allevamento potrebbero, inoltre, aver svolto un ruolo decisivo nella rapida diffusione dell’infezione tra gli animali confinati in box, talora in promiscuità con ovini, che tuttavia non hanno evidenziato sintomi di CLA. Si sottolinea la necessità di adottare programmi di controllo e di eradicazione di tale patologia, piuttosto che interventi terapeutici: lo stato di infezione può, infatti, considerarsi persistente e durare per tutta la vita dell’animale, anche in assenza di manifestazioni morbose. Un ultimo dato da non trascurare è la potenziale pericolosità della malattia per l’uomo. La CLA è, infatti, una zoonosi che interessa prevalentemente coloro che, a vario titolo, hanno contatti con carcasse o animali infetti (allevatori, operatori dei macelli, veterinari), ma anche i consumatori di latte crudo infetto (8). BIBLIOGRAFIA – 1) Ashfaq MK et al (1979) Vet Med, 74, 1161-1165. 2) Holstad G (1986) Acta Vet Scand, 27, 584-597. 3) Doherr MG et al (1999) Am J Vet Res, 60, 284-291. 4) Hommez J et al (1999) J Clin Microbiol, 37, 954-957. 5) Peel MM et al (1997) Clin Infect Dis, 24, 185-191. 6) Smith MC et al (1994) Subcutaneous swellings. In: Cann C Goat Medicine, Lea & Febiger, 45-63. 7) Schreuder BEC et al (1986), Vet Q, 8, 61-67. 8) Goldberger AC et al (1981), Am J Clin Pathos, 76, 486-490. Si ringraziano per la collaborazione i tecnici Failla N., Galati N., Calato R. e Colletta D.

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DIAGNOSI E TRATTAMENTO DI UNA FISTOLA PARODONTALE PERIORBITALE NEL CANE DIAGNOSIS AND TREATMENT OF PERIODONTAL FISTULA IN DOG Vullo C., Tambella AM., Dini F., Scrollavezza P. Dipartimento di Scienze Veterinarie – Università degli Studi di Camerino (MC) Parole chiave: cane, fistola parodontale, tessuto periorbitale, estrazione. Key words: dog, periodontal fistula, periorbital tissue, extraction. SUMMARY – Recurrent suborbital (facial) swelling generally indicates a periapical abscess of the upper fourth premolar tooth (carnassial tooth) and occasionally of the right maxillary first molar or the right maxillary third premolar, which results from a coronal slab fracture with pulpal exposure, apical extension of a deep periodontal pocket, or concussive disease of the root apex. This condition is seen as a swelling or draining tract below the medial canthus of the eye. Radiographs are essential to good diagnosis. If the tooth or teeth are not salvageable, extraction is indicated along with appropriate debridement, irrigation and closure of the socket. The purpose of this work was to describe uncommon case in dog showing acute ophthalmic inflammation secondary to diffusion of periapical abscess of the left maxillary fourth premolar. INTRODUZIONE – Le fistole del cavo orale sono causate il più delle volte da patologie dentali (malattia parodontale) o dal loro trattamento (tecnica di estrazione errata), ma possono anche derivare da traumi, ustioni elettriche, complicanze di fratture della mascella, asportazione di masse non neoplastiche a carico del palato duro, oppure da complicanze del trattamento chirurgico di neoplasie mascellari (1). Esse vengono distinte in fistole del processo alveolare o parodontali o odontogeniche e fistole del palato duro: entrambe possono mettere in comunicazione la cavità orale con quella nasale (2). In particolare, le fistole del processo alveolare si sviluppano in seguito ad una infezione dell’endodonzio o del peridonzio: il processo infettivo può per diffusione progredire attraverso i tessuti che offrono una minore resistenza (connettivale e muscolare). I casi che si riscontrano più frequentemente riguardano la fistola sottorbitale in caso di infezione del carnassiale superiore, la fistola oronasale quando l’infezione interessa il canino superiore e la fistola mentale nel caso in cui l’infezione coinvolga il canino inferiore. In particolare, quando il processo parodontico o endodontico interessa il quarto premolare superiore (numero 208 secondo il Sistema Triadan), essendo tutte le radici situate in posizione immediatamente ventrale al seno mascellare, l’infiammazione delle stesse (ascesso periapicale) può diffondere per erosione in questo recesso e, se non viene trattata, causare una tumefazione della regione zigomatica, ventralmente all’occhio, che poi si aprirà all’esterno attraverso una fistola (3). Per tale motivo, in tutti i casi in cui è presente lo sbocco di un tragitto fistoloso a livello della cute immediatamente ventrale al canto mediale dell’occhio, in prima istanza bisogna sospettare un problema dentale (4) e in particolare una frattura coronale tipo slab complicata (con esposizione pulpare), una progressione in senso apicale di una tasca parodontale o un trauma concussivo dell’apice radicolare (5). Si può verificare, più raramente, che un ascesso periapicale si sviluppi in corrispondenza della radice mesiale del primo molare mascellare (numero 209 secondo il Sistema Triadan) o di quella distale del terzo premolare mascellare (numero 207 secondo il Sistema Triadan), determinando il medesimo quadro clinico (6). E’ pertanto sempre consigliabile effettuare un esame di tutti e tre i denti, possibili responsabili del processo patologico. Scopo del nostro lavoro è stato quello di segnalare una eventualità piuttosto rara nell’evoluzione di una fistola parodontale, ovvero il coinvolgimento secondario dei tessuti periorbitali dell’occhio omolaterale. MATERIALI E METODI – Il caso clinico riguardava una femmina, sterilizzata, incrocio setter inglese, di anni 10. L’anamnesi riferiva la presenza, da circa 2 mesi, di una imponente flogosi a carico della regione periorbitale sinistra con abbondante scolo oculare. L’esame clinico evidenziava una grave blefarocongiuntivite che impediva al soggetto la completa apertura dell’occhio omolaterale. Il processo flogistico aveva inoltre determinato una

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scontinuazione della rima palpebrale inferiore. All’esame del cavo orale, orientato in particolare verso l’arcata mascellare destra, si rilevava una grave parodontopatia (grado IV su IV) a carico del 208. Si è quindi deciso di procedere ad un esame radiologico della bocca, sotto sedazione (medetomidina 20µg/kg IM) del soggetto, in proiezione obliqua destra a bocca aperta e all’esame parodontale con sonda tipo Marquis. La radiografia metteva in evidenza delle aree di radiotrasparenza in corrispondenza delle radici mesiale e distale del 208, verosimilmente riconducibili a granulomi apicali, mentre il sondaggio circumferenziale dello stesso dente rilevava la presenza di una profonda tasca parodontale (6 mm) in corrispondenza della radice distale. Dopo esame clinico generale ed ematologico (emocromocitometrico e parametri routinari per la funzionalità epatorenale), l’animale è stato indotto con propofolo (2 mg/kg IV) e l’anestesia mantenuta con isofluorano in miscela di ossigeno. Un adeguato piano analgesico è stato garantito dall’utilizzo del butorfanolo (0,2 mg/kg IM), in fase pre e postoperatoria. Il trattamento ha previsto l’estrazione non chirurgica del 208, data la grave parodontite, utilizzando una leva di tipo Bain, previa sindesmotomia del legamento parodontale e successiva alveoloplastica con fresa a pera numero 330 montata su turbina, al fine di rimodellare l’osso alveolare. La specillazione, eseguita su tutti gli alveoli radicolari del dente estratto, evidenziava la presenza di un tragitto fistoloso che metteva in comunicazione l’alveolo radicolare distobuccale con il canto mediale dell’occhio omolaterale. Dopo accurato lavaggio con ripetute irrigazioni di soluzione fisiologica e clorexidina 0,12%, si è preferito non suturare il sito chirurgico, per garantire un drenaggio della parte fino alla completa cicatrizzazione. Si è quindi proceduto all’estrazione di altri denti e infine all’ablazione e lucidatura di quelli residui. Il soggetto è stato sottoposto a terapia antibiotica con una associazione di amoxicillina e acido clavulanico ogni 12 ore per 10 giorni e alla applicazione di una pomata oftalmica a base di cloramfenicolo per lo stesso periodo. Il follow-up eseguito dopo 1, 2 e 4 settimane, ha evidenziato una rapida regressione della lesione orbitale fino alla completa remissione della lesione. RISULTATI – Le aree di radiotrasparenza apicali in corrispondenza di tutte e tre le radici del IV premolare superiore di sinistra ha permesso di attribuire il processo flogistico ad una parodontopatia di grado IV del medesimo elemento, escludendo il possibile coinvolgimento degli altri denti interprossimali. Radiologicamente infatti era ben visibile una perdita ossea verticale superiore al 50% e una recessione dell’inserzione epiteliale in direzione apicale oltre la cresta dell’osso alveolare (tasca infraossea). L’estrazione del dente è stata eseguita con minimo traumatismo a carico dell’osso alveolare già compromesso. L’utilizzo del butorfanolo ha garantito un piano analgesico ottimale. DISCUSSIONI E CONCLUSIONI – La presenza di una tumefazione o di una soluzione di continuo in corrispondenza della zona ventrale al canto mediale dell’occhio, deve sempre indurre il sospetto di un coinvolgimento primario della cavità orale, sebbene raramente altre cause non dentali possono determinare un quadro clinico simile (ferita da combattimento, corpo estraneo, frattura del mascellare e sequestro osseo, neoplasia nasale o mascellare). L’esame radiologico rappresenta in tal senso un mezzo diagnostico fondamentale, per formulare una diagnosi di certezza, valutare l’eventuale struttura dentale interessata e stabilirne il tipo di lesione. La combinazione di un processo parodontico-endodontico a carico del dente interessato obbliga alla scelta radicale, ovvero alla estrazione, con assenza di recidiva e completa guarigione del soggetto. BIBLIOGRAFIA – 1) Smith MM et al (2003) J Vet Dent, 20, 8-17. 2) Bojrab MJ et al (2004) Riparazione delle fistole oronasali. In: Tecnica Chirurgica, 1 Ed it, 1, 109-113. 3) Boyd JS (2001) Testa e collo. In: Anatomia clinica del cane e del gatto, 2 Ed it, 37. 4) Lewandowsko B et al (1997) Pol Merkuriuz Lek,120-121. 5) Harvey CE et al (1993) Carnassial abscess. In: Small animal dentistry, 1 Ed, 162. 6) Vestrate FJM (1999) Veterinary Dentistry, 1 Ed, 145-146.

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TRAPIANTO PEDUNCOLATO EXTRA ADDOMINALE DEL GRANDE OMEN TO NELLA TERAPIA CHIRURGICA DI UNA FERITA CRONICA COMPLICATA IN UN CANE EXTRA ABDOMINAL OMENTAL PEDICLE GRAFT FOR THE RECONSTRUCTION OF A CHRONIC, NONHEALING, COMPLICATED WOUND IN A DOG Tambella Adolfo Maria, Zeira Offer, Dini Fabrizio, Vullo Cecilia, Scrollavezza Paolo. Dipartimento di Scienze Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Camerino. Parole chiave: omento, trapianto, ferita, chirurgia, cane Key words: omentum, graft, wound, surgery, dog SUMMARY – The authors present a case of chronic nonhealing wound, in the frontal-nasal region of a dog, complicated by the bone and soft tissue loss and complete visualization of the floor of the left nasal cavity and the frontal sinus. This lesion resulted refractory to the primary treatment of suture and to the following pedicle skin graft. A combined ometal pedicle graft and pedicle skin flap has been performed, with remarkable profit, on the damaged area. INTRODUZIONE – Sin dai primi del 1900 il grande omento è stato utilizzato in svariate tecniche chirurgiche. L’omento ha caratteristiche immunogene, angiogeniche ed adesive che lo rendono fondamentale per incrementare l’apporto vascolo-linfatico dei tessuti danneggiati, favorendone così la ricostruzione (1, 2). L’omento è molto ricco di plessi vasali ematici e linfatici, ha grande mobilità ed elevate capacità antinfettive, di assorbimento e di aderenza. Grazie alle sue proprietà, l’omento può essere impiegato in chirurgia per ottenere emostasi, per la neovascolarizzazione di strutture disvitali, per riempire spazi morti cavitari e per fornire un drenaggio linfatico. Infatti, può essere applicato nella cavità addominale, ma può anche essere esteriorizzato, lasciandolo in connessione ad un peduncolo vascolare; ancora, può essere distaccato e reimpiantato in un sito extraddominale, utilizzando tecniche di anastomosi microvascolare (1), anche se i risultati ottenuti dai diversi autori con quest’ultimo metodo risultano contrastanti (3, 4). I primi impieghi extra addominali dell’omento sono stati riferiti nel 1930. Lo sviluppo di particolari tecniche di allungamento hanno contribuito ad aumentare le possibilità d’impiego extra addominale dell’omento (2). Le tecniche di allungamento descritte nel cane da Ross e Pardo (5) hanno dato un nuovo impeto ad ulteriori sperimentazioni riguardo l’uso extra addominale dell’omento.Le particolari caratteristiche dell’omento lo rendono utile nella chirurgia ricostruttiva cutanea, specialmente in animali che presentano ferite senza alcuna tendenza alla guarigione. Quando viene isolato dallo stomaco, basandosi sul peduncolo gastroepiploico destro o sinistro esso può raggiungere, in molti casi, le regioni ascellari o inguinali. Utilizzando dei particolari metodi di allungamento nel cane è possibile estenderlo fino a raggiungere il garretto o il gomito, ed anche oltre. MATERIALI E METODI - Gli autori presentano un caso di ferita da morso cronica senza alcuna tendenza alla guarigione, presente da circa 3 mesi nella regione frontale e nasale di un cane, complicata dallo sfondamento delle ossa nasale e frontale sinistre, con evidente perdita di sostanza e completa esteriorizzazione e visualizzazione del pavimento della cavità nasale sinistra e del seno frontale omolaterale (foto 1). Il cane oggetto di studio, meticcio, femmina, di taglia medio-grande, di 10 anni di età, veniva presentato con un quadro anamnestico caratterizzato, oltre che dalla lesione già descritta, da patologie ricorrenti quali congiuntiviti, sinusiti croniche con presenza di abbondante essudato, nonché faringiti, tonsilliti, tracheobronchiti, la cui origine veniva interpretata come propagazione di processi infettivi secondari alla persistenza della lesione traumatica. Alla visita clinica sono state evidenziate blefarite e lieve cheratite monolaterali. Tale lesione risultò refrattaria sia al trattamento primario di sutura, effettuato dal medico veterinario curante, sia al successivo trapianto cutaneo a lembo peduncolato, eseguito presso la nostra clinica, nonostante la terapia antibiotica preventiva ed il rispetto delle norme di chirurgia plastica. Trascorse 2 settimane dal

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primo infruttuoso intervento plastico, sull’area lesionata è stato praticato un trapianto peduncolato del grande omento associato ad un trapianto cutaneo a lembo di avanzamento simile, quest’ultimo, a quello effettuato in prima istanza (6). E’ stata effettuata una laparotomia paracostale sinistra per accedere all’omento, in modo da creare il lembo. Per estendere la lunghezza del peduncolo omentale è stata utilizzata una tecnica in due tempi secondo Ross e Pardo (5). Il foglietto dorsale dell’omento è stato liberato dai suoi vasi epiploici e dalle connessioni vascolari alla milza e al pancreas. Ciò ha consentito di raddoppiare immediatamente la lunghezza dell’omento disponibile (foto 2). Un’incisione a forma di “L” invertita ha permesso poi di allungare ulteriormente l’omento per un’estensione sufficiente a raggiungere la lesione. Il peduncolo allungato è stato poi fatto progredire nel sottocute grazie ad una pinza angiostatica DeBakey, fino al sito della lesione. La breccia laparotomica, dopo parziale sutura della stessa, è rimasta di dimensione tale da impedire lo strozzamento del lembo omentale. Dopo opportuna preparazione della sede d’impianto, l’omento è stato collocato delicatamente all’interno della ferita e fissato ai tessuti circostanti con polyglactin 910 usp 4/0. E’ stato quindi possibile apporre al di sopra dell’omento, con punti staccati in poliammide usp 2/0, il lembo peduncolato derivante dalla cute della circostante regione frontale, opportunamente preparato allo scopo. Non è stato ritenuto necessario applicare alcun sistema di drenaggio supplementare. L’assistenza e i trattamenti postoperatori sono stati identici a quelli praticati in seguito al primo intervento plastico, tra cui disinfezione locale 2 volte al giorno, applicazione di pomata antibiotica-cicatrizzante a base di cloramfenicolo e collagenasi, pomata antibiotica oftalmica e terapia antibiotica a base di enrofloxacin 5mg/kg/24h e cefalessina 15mg/kg/12h RISULTATI – La laparotomia paracostale sinistra ha consentito un buon accesso per la mobilizzazione e l’allungamento dell’omento. Tale accesso presenta il vantaggio, rispetto alla celiotomia mediana, di non dover necessariamente ricorrere ad un secondo intervento chirurgico al fine di amputare l’omento e riparare il difetto della parete addominale (2). Nella prima settimana post-intervento si è manifestato un lieve edema localizzato nella regione toracica laterale sinistra, sede di passaggio sottocutaneo del trapianto omentale, risoltosi in pochi giorni con la somministrazione di 40 mg di bromelina/8 ore. Il cane è stato sottoposto a visite di controllo a distanza di 1 settimana, 1 mese e 3 mesi dall’intervento. Il follow up, seppur di medio-breve termine, ha consentito di verificare la completa adesione dell’impianto omentale e cutaneo e quindi una completa guarigione (foto 3). Il tessuto trapiantato, compresi i suoi margini, non ha mai mostrato segni di ischemia, né, tantomeno, di infezione.

CONCLUSIONI - Nel particolare caso clinico, il trapianto peduncolato del grande omento si è dimostrato di eccellente efficacia nella riparazione di una ferita cronica e complessa, sia per la localizzazione anatomica, sia per la tipologia della lesione, non tendente alla guarigione. Ulteriori lavori saranno necessari per confermare i risultati ottenuti e soprattutto per determinare con precisione le effettive indicazioni di impiego del trapianto extraddominale del grande omento.

foto 1 foto 2 foto 3 BIBLIOGRAFIA – 1) Liebermann-Meffert D. Surg Clin North Am. 2000 Feb;80(1):275-93, xii. 2) Bright RM. WSAVA-FECAVA-HVMS World Congress Scientific Proceedings, Rhodes-Greece, October 6-9, 2004. 3) Shen YM, Shen ZY. Chin J Traumatol. 2003 Apr;6(2):81-5. 4) Roa DM, Bright RM, Daniel GB, McEntee MF, Sackman JE, Moyers TD. Vet Surg. 1999 Nov-Dec;28(6):456-65. 5) Ross WE, Pardo AD. Vet Surg. 1993 Jan-Feb;22(1):37-43. 6) Lascelles BD, White RA. Vet Surg. 2001 Jul-Aug;30(4):380-5.

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VALUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ DI SCAFFOLDS DI PCL CON O SENZA CELLULE STROMALI MESENCHIMALI IN DIFETTI CREATI NEL FEMORE DI CONIGLIO EVALUATION OF PCL SCAFFOLDS ACTIVITY WITH OR WITHOUT STROMAL CELLS IN A RABBIT FEMUR DEFECT MODEL Spinella G., Valentini S., Pinna S., Saviano P., Capitani O., Savarino L.*, Ciapetti G.*, Baldini N.*, Ambrosio L.°, Netti P.°, Causa F.° - Dipartimento Clinico Veterinario, Ozzano Emilia–Bologna - * Laboratorio di Fisiopatologia degli Impianti Ortopedici, Istituti Ortopedici Rizzoli, Bologna - ° Centro Interdisciplinare di Ricerca sui Biomateriali, Università “Federico II”, Napoli Parole chiave: poli-ε-coprolattone (PCL), cellule stromali mesenchimali (MSC), femore, coniglio. Key words: poli-ε-coprolactone (PCL), mesenchymal stromal cells (MSC), femur, rabbit. SUMMARY - Poli-ε-coprolactone (PCL) is a biodegradable polymer which promotes active bone formation. Efficient bone regeneration could be obtained by supplementing a 3/D PCL scaffold with bone marrow stromal cells (BMSC). Authors evaluate PCL scaffolds efficency, alone or seeded with autologous BMSC, to promote bone repair in monolateral segmental defects (3 mm wide and 7 mm long) created in the proximal left femur of New Zealand white rabbits. Both models seem to be appropriate but in different ways: PCL scaffolds show a bone formation at the scaffold-bone interface, whereas the presence of BMSC stimulates new bone formation also into the macropores of the scaffold. INTRODUZIONE – L’ultimo decennio è stato caratterizzato da un crescente interesse nei confronti dei biomateriali ad uso ortopedico al fine di identificare il materiale idoneo a consentire un fisiologico ripristino della struttura ossea, in analogia con quanto si verifica in presenza di allo- o autotrapianti. Il materiale ideale dovrebbe essere completamente riassorbibile in tempi prevedibili e, al contempo, fornire un sostegno tridimensionale per la formazione di nuovo osso. Il poli-ε-caprolactone (PCL) è un polimero biodegradabile dotato di buone caratteristiche fisiche e ben tollerato dall’organismo ospite: la sua presenza produce infatti minime reazioni infiammatorie (1). Scopo del presente lavoro è valutare l’attività di scaffolds di PCL impiantati in difetti creati nel femore di coniglio e confrontarla con quella di scaffolds di PCL con aggiunta di cellule mesenchimali stromali (MSC), che si ritiene possano migliorare il processo di guarigione favorendo i fenomeni angio- ed osteogenici. MATERIALI E METODI – Gli scaffolds tridimensionali sono stati ottenuti dissolvendo pellets di poli-ε-caprolactone (PCL)(Sigma Aldrich, MW 65kDA) in N-N-dimetilacetamide mantenendo la soluzione a 58°C per 3 ore. L’aggiunta di particelle di NaCl (300-500 µm) in rapporto 9:1 ha garantito la macroporosità dell’impianto. Dopo estrazione da solvente mediante etanolo, i campioni sono stati immersi in acqua distillata per eliminare eventuali contaminanti, quindi si è provveduto a forgiare scaffolds di 3x7 mm. Le cellule stromali sono state isolate dal midollo osseo di femore di coniglio ed espanse in vitro per raggiungere una quantità sufficiente all’utilizzo in vivo; dopo caratterizzazione del fenotipo osteoblastico sono state immesse negli scaffolds di PCL mediante camera a perfusione. Sono stati esaminati 3 gruppi di conigli New Zealand : ciascun gruppo è costituito da 5 soggetti maschi di peso compreso tra 3 e 3,5 Kg. Ogni soggetto è stato sottoposto ad induzione (ketamina 10 mg/Kg IM e medetomidina 0,2 mg/Kg IM): dopo 10 min. è stato somministrato butorfanolo tartrato (0,11 mg/Kg IM) seguito da mantenimento dell’anestesia con maschera facciale e miscela ossigeno isofluorano 3-4. Si è incisa la cute in corrispondenza del trocantere del femore sinistro. Mediante dissezione smussa si sono separati i mm. paramerale e gluteo superficiale, quindi si è scollato il margine caudale del m. gluteo medio e lo si è retratto cranialmente per esporre l’aspetto latero-caudale del trocantere. In questa sede si è creato un difetto (3x7 mm) in corrispondenza della porzione più distale della cresta del

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trocantere. Nel gruppo 1, il difetto non è stato colmato da alcun materiale; nel gruppo 2, il difetto è stato colmato da scaffold di PCL fissato in sede da riposizionamento e sutura del m. gluteo medio. Analogo sistema di fissazione è stato utilizzato nei soggetti del gruppo 3, dove il difetto osseo è stato colmato da PCL con cellule mesenchimali stromali. Nel periodo post-operatorio, i conigli sono stati sottoposti a periodici controlli clinici ed esame radiologico a 7 e 30 giorni. I controlli clinici non hanno rilevato segni di intolleranza all’impianto. L’esame radiologico a 7 giorni ha evidenziato il distacco del centro osseo secondario del femore in un solo soggetto. Il controllo radiografico a 30 giorni ha mostrato una reazione periostale da scarsa a modesta nei tre gruppi. A 30 giorni P.O. i soggetti sono stati sacrificati ed i femori disarticolati ed asportati. Sezioni (5-10 µm) dell’estremità prossimale del femore, preventivamente decalcificata e inclusa in OCT per non alterare la struttura degli scaffolds, sono state allestite al criostato e colorate con ematossilina-eosina, Giemsa e May-Grumwald-Giemsa. L’esame istologico è stato effettuato ponendo particolare attenzione a: 1) reazione all’interfaccia osso/scaffold, 2) neovascolarizzazione, 3) valutazione del tessuto neo-formato a livello delle macroporosità dello scaffold, 4) presenza di reazione infiammatoria all’impianto. RISULTATI Gruppo 1: a 30 giorni dall’intervento il difetto non è più evidenziabile e il tessuto osseo appare completamente riparato. Gruppo 2: negli scaffolds di PCL senza cellule l’osso si accosta all’impianto, che solo raramente viene incapsulato da una guaina di tessuto fibroso. Il tessuto osseo all’interno delle porosità dell’impianto è scarsamente presente anche se si osserva un tentativo di vascolarizzazione. Gruppo 3: quando all’impianto di PCL vengono addizionate cellule stromali, l’osso riempie le macroporosità dell’impianto stesso in maniera cospicua e mostra anche un discreto grado di vascolarizzazione. Sia nel gruppo 2 che nel gruppo 3 si osservano osteoclasti strettamente aderenti al PCL, ma non è ancora stata dimostrata la loro capacità di riassorbire il materiale. In alcuni dei casi esaminati è stata rilevata una lieve reazione infiammatoria, caratterizzata dalla presenza di mast-cells peri-implantari. CONCLUSIONI - Risultati preliminari indicano che sia gli scaffolds di PCL che quelli di PCL-MSC sono efficaci nel promuovere la neoformazione di tessuto osseo, seppure con modalità differenti. In linea di massima, il solo PCL ha promosso una scarsa neo-formazione ossea, soprattutto nelle porzioni limitrofe allo scaffold, anche se era presente una discreta attività osteoblastica accompagnata peraltro da una minima reazione infiammatoria. L’aggiunta di MSC ha invece evidenziato una maggiore proliferazione ossea e vascolare nei macropori dello scaffold. In conclusione, anche se entrambi i modelli si sono dimostrati appropriati, la presenza delle cellule stromali stimola, o perlomeno accelera, la neo-formazione di tessuto osseo che sostituisce il materiale in via di riassorbimento. Anche negli scaffold di PCL senza cellule, comunque, il materiale dimostra un’ottima biocompatibilità. BIBLIOGRAFIA – 1) Lowry KJ et al (1997 ) J.Biomed.Mater.Res. (USA), Sep.15,36 (4), 536-541.

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VALUTAZIONE COMPARATIVA DELL’ACCURATEZZA DELLA METODICA OSCILLOMETRICA E DI QUELLA DIRETTA PER IL MONITORAGGIO DELLA PRESSIONE ARTERIOSA IN CORSO DI ANESTESIA NEL CANE COMPARATIVE EVALUATION OF THE ACCURACY OF THE OSCILLOMETRIC AND DIRECT METHODS FOR ARTERIAL BLOOD PRESSURE MONITORING DURING ANAESTHESIA IN DOGS Valerio F., Mariscoli M., Petrizzi L. Dip. di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo

Parole chiave: cane, pressione arteriosa oscillometrica, pressione arteriosa diretta accuratezza, anestesia Key words: dog, oscillometric blood pressure, direct blood pressure, accuracy, anaesthesia. SUMMARY – The study was designed to determine the accuracy of an oscillometric monitoring device. Measurements obtained during normotension and hypotension and at 2- and 1-minute intervals were compared. Data from 20 anesthetized dogs showed that diastolic arterial pressure (DAP) and mean arterial pressure (MAP) were accurate during normotension and hypotension (mean ± SD difference from direct values, ≤ 5 ± 8 mm Hg) at 2-minute intervals. Systolic arterial pressure (SAP) was underestimated (-5,7 ± 9,5 mm Hg) during normotension and was accurate but not precise (2,1 ± 12 mm Hg) during hypotension. The overall accuracy in normotension and hypotension suggests that the blood pressure monitoring device tested may be useful in dog anaesthesia. INTRODUZIONE – La disponibilità di misurazioni accurate, ripetibili e con brevi tempi di risposta è essenziale per un sistema di monitoraggio della pressione arteriosa (PA). Il rapido riconoscimento delle alterazioni pressorie e la verifica continua delle misure terapeutiche può contribuire sensibilmente alla riduzione della morbilità perioperatoria. Obiettivo dello studio è quello di valutare l’accuratezza e la precisione di un sistema di monitoraggio della PA oscillometrica rispetto la metodica diretta (Agilent CMS, Philips) in funzione dell’intervallo pressorio (normotensione vs ipotensione) e del tempo di ripetizione (2 minuti vs 1 minuto). MATERIALI E METODI - Sono stati studiati 20 cani, 10 femmine e 10 maschi, di età compresa tra 0,5 e 12 anni (5,3 ± 3,9) e peso corporeo variabile da 14 a 50 Kg (25,2 ± 9,7), di razze diverse, sottoposti ad anestesia per finalità chirurgiche. Gli animali sono stati anestetizzati con un protocollo a base di fentanil o remifentanil in infusione continua ed isofluorano in ventilazione controllata. La PA è stata misurata con la tecnica oscillometrica a livello dell’avambraccio ad intervalli di tempo di 2 e 1 min. La pressione diretta è stata misurata in modo continuo attraverso un catetere inserito nell’arteria metatarsale dorsale. Nell’intervallo di normotensione (PA media diretta > 60 e < 120 mm Hg) sono state confrontate 120 coppie di misurazioni (10 casi) con tempo di ripetizione di 2 min e 60 coppie (5 casi) con tempo di ripetizione di 1 min. In ipotensione (PA media diretta < 60 mm Hg) sono state confrontate 46 coppie di misurazioni (5 casi) con tempo di ripetizione di 2 min. I dati sono stati analizzati con il metodo di Bland e Altman (1) modificato per valutare la concordanza tra le due metodiche. Sono stati calcolati il bias (media delle differenze) come misura dell’accuratezza, la precisione (DS delle differenze) e i limiti di agreement (bias ± 2DS) per le pressioni sistolica (SAP), diastolica (DAP) e media (MAP). Un valore negativo del bias (PA indiretta – PA diretta) indica che la tecnica oscillometrica sottostima quella diretta e viceversa. RISULTATI –La metodica oscillometrica ha fornito misurazioni della PA con valori < 5 ± 8 mm Hg (bias ± DS) rispetto la metodica diretta per la DAP e MAP nell’intervallo di normotensione (MAP diretta 78 ± 8 mm Hg) ed ipotensione (MAP diretta 50 ± 6 mm Hg) con tempo di ripetizione di 2 min. All’aumentare della PA la metodica oscillometrica sottostima il valore misurato direttamente. La MAP e la DAP sono risultati i parametri meno influenzati dalla metodica di misurazione. Con un tempo di ripetizione di 1 min, la metodica

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oscillometrica ha fornito valori > 5 ± 8 mm Hg e ha costantemente sottostimato la metodica diretta. I dati sono riportati in tabella I. CONCLUSIONI – L’ipotensione rappresenta una delle complicazioni perioperatorie di più frequente riscontro nel paziente veterinario (2). Accuratezza, precisione, disponibilità di rilievi continui e rapidi tempi di risposta rappresentano requisiti fondamentali per il monitoraggio della PA e degli interventi terapeutici. La metodica diretta fornisce una stima della PA centrale più adeguata ed in modo continuo, ma presenta vari gradi d’invasività. Sebbene misuri la grandezza fisica pressione, questa viene comunemente assunta come gold standard per la valutazione delle performances delle metodiche non invasive basate invece sul flusso. L’accuratezza e la precisione del metodo oscillometrico sono risultate in accordo con gli standards dell’AAMI, Association for the Advancement of Medical Instrumentation (3) (differenza media ± 2DS dai valori diretti, ≤ 5 ± 8 mm Hg) per DAP e MAP in normotensione ed ipotensione con tempo di ripetizione di 2 min. La SAP ha restituito un’accuratezza negli standards AAMI solo in ipotensione con tempo di ripetizione di 2 min. I dati rilevati hanno fornito una stima più adeguata della PA diretta rispetto a quelli forniti da altri due sistemi di monitoraggio in condizioni di campionamento e analisi statistica confrontabili (4). In un altro studio Sawyer et al. (5) hanno riscontrato una accuratezza minore da parte di un altro monitor a livello di siti diversi di campionamento quali il metacarpo, metatarso e tibia. Analogamente ai due studi citati (4, 5) il monitor da noi valutato ha fornito una stima più accurata e precisa della pressione diretta nell’ipotensione rispetto alla normotensione. La SAP misurata direttamente in arterie periferiche può risultare sovrastimata a causa dell’aumento dell’impedenza e la risposta dinamica del sistema di trasduzione (catetere, tuberia, trasduttore) influenza sensibilmente il rilievo diretto (6). Inoltre insieme alla PA anche le resistenze vascolari agiscono come determinanti il flusso sanguigno e contribuiscono alle differenze tra le due metodiche. Infine, l’algoritmo di calcolo implementato dal monitor oscillometrico misura la MAP e deriva SAP e DAP e può risultare non adeguato in tutti gli stati emodinamici (3). La riduzione dell’intervallo di ripetizione da 2 ad 1 minuto ha diminuito l’accuratezza soprattutto della DAP con aumento del bias, della DS e dei limiti di agreement. Una successione troppo ravvicinata di fasi di insufflazione della cuffia potrebbe non consentire un regolare e costante ripristino del volume vascolare nell’arto sede del rilievo della pressione oscillometrica (6). Un tempo di ripetizione di 2 minuti, pur non offrendo misure continue e in tempo reale come la metodica diretta, sembra garantire una migliore accuratezza e soprattutto ripetibilità del rilievo ad un tempo di risposta ragionevolmente breve. Allo scopo di valutarne l’impiego nella molteplicità delle situazioni cliniche è necessario verificare le performances del sistema anche nell’intervallo di ipertensione ed in funzione di altri siti di campionamento. Tabella I – Differenze tra i valori pressori misurati con metodo oscillometrico e con metodo diretto.

Tempo ripetizione/range pressorio Pressione Bias Precisione Limiti di agreement Avambraccio/2 min Sistolica -5,7 9,5 13,3 -24,7 Normotensione Diastolica -3,7 7,5 11,3 -18,7 120 coppie di rilievi (10 casi) Media -2,5 5,9 9,4 -14,4

Avambraccio/2 min Sistolica 2,1 12 26,1 -21,9 Ipotensione Diastolica -2,5 5,9 9,2 -14,3 46 coppie di rilievi (5 casi) Media 0 5,1 10,2 -10,2

Avambraccio/2 min Sistolica -3,6 10,8 18 -25,1 Totale normotensione-ipotensione Diastolica -3,4 7,1 10,8 -17,6 166 coppie di rilievi (15 casi) Media -1,8 5,8 9,8 -13,4

Avambraccio/1 min Sistolica -7,7 9,2 10,8 -26,2 Normotensione Diastolica -11,7 10,3 9 -32,4 60 coppie di rilievi (5 casi) Media -9,2 5,8 2,3 -20,8

Bias = Media delle differenze tra le pressioni misurate con il metodo indiretto e diretto. Precisione = DS della media delle differenze. Limiti di agreement = Media delle differenze ± 2 DS. I dati sono espressi in mm Hg.

BIBLIOGRAFIA – 1) Bland JM et al (1986) Lancet 1, 307-310. 2) Gaynor JS et al (1999) J Am Anim Hosp Assoc 35, 13-17. 3) Pedersen KM et al(2002) J Am Vet Med Assoc 221, 646-650. 4) Grosenbaugh DA et al (1998) Am J Vet Res 59, 205-212. 5) Sawyer DC et al (2004) Vet Anaesth Analg 31, 27-39. 6) Darovic OG (2002) Hemodynamic monitoring. Invasive and noninvasive clinical application. 3th ed. W B Saunders, Philadelphia.

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ESPERIENZE PERSONALI NELL’UTILIZZO DELL’ASSOCIAZIONE TI LETAMINA/ZOLAZEPAM NELL’ANESTESIA DEL CAMMELLO BACTRIANO (Camelus bactrianus) PERSONAL EXPERIENCES IN THE USE OF ASSOCIATION TILETAMINE/ZOLAZEPAM FOR ANAESTHESIA OF BACTRIAN CAMEL (Camelus bactrianus) Mauthe von Degerfeld M., Bianco S., Quaranta G. (Dipartimento di Patologia Animale – Grugliasco – TO) Parole chiave: cammello bactriano, anestesia, tiletamina/zolazepam, alotano. Key words: bactrian camel, anaesthesia, tiletamine/zolazepam, halothane. SUMMARY – The bibliography regarding Camelidae anaesthesia and especially the Bactrian camel is poor. Five juveniles Bactrian camels (Camelus bactrianus) received i.m. 3 mg/kg of a commercial association of tiletamine/zolazepam (Zoletil 100), dissolved at 200 mg/ml, which seems to induce an adeguate immobilization in 6±2 min . Two of these, in order to undergoing surgery, after intubation were allowed to breathe Halothane/O2. All animals were clinically checked during anaesthesia. Induction, maintenance and recovery features as well as side effects are reported. These experiences show that this anaesthetic method is suitable for anaesthesia of Bactrian camel. INTRODUZIONE – Il Cammello bactriano è un Camelidae originario dell’Asia centrale, dove viene utilizzato come animale da reddito. In Italia e in altre parti del mondo è diffuso, anche per le sue notevoli doti di resistenza a situazioni ambientali avverse, come soggetto da esposizione, in parchi e giardini zoologici. Morfologicamente, presenta la caratteristica delle “due gobbe”, quindi è il Camelidae che, comunemente, viene denominato “Cammello”. Pur essendo un animale di indole mansueta, se non è avvezzo ad un contatto diretto con l’uomo, mal tollera il contenimento fisico e manualità anche di semplice tipo diagnostico, dalle quali si difende con dolorosi morsi e/o “sputi” di materiale mericico. Un contenimento farmacologico in grado di garantire un buon piano anestetico/analgesico risulta pertanto importante anche al fine, eventualmente, di effettuare manovre dolorose e/o chirurgiche. MATERIALE E METODI – Cinque cammelli bactriani (Camelus bactrianus) di sesso maschile, di età compresa tra i 12 e i 24 mesi, di peso stimato tra i 120 e i 150 Kg, da sottoporre a manualità diagnostiche/chirurgiche di vario tipo, hanno ricevuto per via i.m., a livello dei muscoli del collo, l’associazione commerciale tiletamina/zolazepam (Zoletil 100:Z), diluita a 200 mg/ml. Il calcolo della posologia è stata effettuata “a stima” e facendo riferimento a tabelle relative ai range di peso. A 2 soggetti, che dovevano essere sottoposti a manualità chirurgiche, previa intubazione orotracheale, è stato erogato alotano (A) veicolato in O2 puro, tramite un circuito circolare. Per prevenire e controllare fenomeni di rigurgito, a tutti i soggetti è stata introdotta e mantenuta in situ, fino al sollevamento della testa, una sonda gastro-esofagea. Tutti i pazienti sono stati controllati clinicamente durante lo svolgimento dell’anestesia e nelle fasi del risveglio. I valori di frequenza respiratoria (FR) e cardiaca (FC), saturazione in O2 dell’emoglobina (SpO2), pressione arteriosa indiretta (SAP, DAP, MAP) sono stati registrati tramite monitor multiparametrico (Nihon Kohden – mod.BSM4103K): dopo 5’ dall’inoculazione, ad intervalli di 10’ in corso d’anestesia, nelle fasi di risveglio. Sono stati pure annotati il momento di raggiungimento del piano anestesiologico adeguato e gli effetti collaterali occorsi nella fase induttiva, durante il mantenimento ed il risveglio. I dati ottenuti sono stati sottoposti ad analisi statistica descrittiva. RISULTATI – Posologia: sono stati inoculati per l’induzione in media 3 mg/Kg di Z. La comparsa di tremori, movimenti e l’incremento dei valori dei parametri vitali, indicava il momento (in media ogni 34±10 min) per subentrare con la dose di mantenimento (1 mg/kg e.v), nei soggetti sottoposti ad anestesia totalmente iniettabile. Induzione: subito dopo l’inoculazione i.m. l’animale inizia ad avere movimenti di barcollamento e di ciondolamento

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del collo; senza manifestazioni eccitatorie, assume il decubito sternale e, in media in 6±2 min quello laterale. Dopo aver atteso ancora qualche minuto, ci si può cautamente avvicinare e l’animale può essere manipolato. Inserimento sonda orotracheale: nonostante il buon grado di miorilassamento, che facilita l’apertura del cavo orale, la manualità, effettuata tramite identificazione e abbassamento manuale dell’epiglottide, non è risultata particolarmente agevole per la conformazione anatomica dell’oro-faringe, la prominenza della base della lingua e la notevole lunghezza del velo palatino; impossibile l’utilizzo del laringoscopio o dell’inserimento alla “cieca”. Completamento dell’induzione: dall’inizio dell’erogazione di A, il piano anestesiologico richiesto, valutato in base alla perdita del riflesso palpebrale, è stato raggiunto in un tempo relativamente lungo (media: 30±21 min). Concentrazioni di anestetico: le concentrazioni medie di A erogato, sono state pari a 2,7±0,4%. Monitoraggio clinico: la FC ha subito un lieve incremento rispetto ai valori ritenuti fisiologici per tale specie(5,6) con range di 65÷134 batt/min; valori più elevati nei soggetti trattati solo con Z (media: 95±14,8 batt/min). La FR è rimasta compresa in un range di 17÷34 atti/min, con valori medi inferiori (21±3,8 atti/min) nei soggetti trattati con solo Z. La SpO2 è rimasta in media sempre attorno al 99%. SAP, DAP, MAP hanno avuto range rispettivamente di: 71÷164; 34÷123; 53÷143 mmHg; i valori medi inferiori si sono sempre riscontrati nei soggetti sottoposti ad A (rispettivamente: 102±10,7; 43±6,4; 69±7,4 mmHg). Risveglio: in media dopo 7±5,7 min dalla fine dell’erogazione di A è ricomparso il riflesso palpebrale, mentre l’estubazione è stata possibile in tempi più protratti (anche superiori a 40’). Effetti collaterali:sono da segnalare marcati dondolamenti del collo all’induzione e nistagmo in fase di risveglio. Un soggetto ha presentato profusa scialorrea, peraltro risoltasi spontaneamente. CONCLUSIONI – La bibliografia relativa all’anestesia dei Camelidi in generale è piuttosto scarsa; in particolare non si sono trovate segnalazioni sull’uso nel Cammello bactriano dello Z, utilizzato, per contro e a posologie lievemente superiori rispetto quelle qui utilizzate, in altri Camelidi(2,3). Alla luce dell’esperienza acquisita, la somministrazione di Z non solo garantisce un’induzione discretamente rapida, anche in confronto a quella segnalata da altri(5,6) con protocolli a base di dissociativi, ma, grazie alla presenza della benzodiazepina, offre un grado di miorisoluzione sufficiente a consentire le manualità necessarie, compresa l’introduzione della sonda orotracheale, possibile, inoltre, anche a 30’ dalla sua inoculazione. L’induzione è risultata molto “dolce”; i marcati movimenti di dondolamento del collo, già segnalati con altri protocolli(4,5,6), non hanno ingenerato traumatismi. L’introduzione del tubo endotracheale in laringe, guidata manualmente, seppur richiede, soprattutto nei soggetti di giovane età e dimensioni ridotte, una certa abilità dell’operatore e mani piccole, è certo meno indaginosa della tecnica dell’intubazione retrograda dopo tracheotomia, riportata da Mazzi (2000). L’azione stimolante delle cicloesamine sul cuore e, come in altre specie, anche sul respiro, segnalata nel Dromedario a seguito di ketamina(6), è probabilmente all’origine dell’incremento dei parametri vitali anche dopo Z. Pure l’erogazione dell’A pare indurre, sempre nel Dromedario(5), incremento dei parametri cardiorespiratori; qui, invece, è risultata aumentata, seppur lievemente, solo la FR. I valori pressori sono rimasti sempre entro range ritenuti fisiologici in corso di anestesia dei grossi animali; l’ottimale percentuale di SpO2 indica l’assenza di fenomeni di ipossia. Non si segnalano, forse per la routinaria introduzione della sonda gastroesofagea, i fenomeni di meteorismo o rigurgito tanto temuti e spesso segnalati nei Camelidi(2,4,5,6). Il risveglio, seppur protratto, non ha esacerbato le manifestazioni eccitatorie segnalate in altre specie dopo Z. L’esperienza maturata porta a consigliare il protocollo proposto per la gestione anestesiologica del cammello bactriano. BIBLIOGRAFIA - 1) Anderson D.E.: Proc 37th Annual AABP , Sept.2004, 118-125. – 2) Fowler M.E.: “Camelidae” in Fowler M.E. & Miller R.E, “Zoo and Wild Animal Medicine” 5th edition” di Saunders. ed., St. Louis (2003), cap.60, 612-625. - 3) Mazzi A.: Elementi di anestesia degli animali esotici e selvatici. Calderini Edagricole, Bologna (2000), 143-145. 4) Peshin P.K. et al.: JAVMA (1980), 177, (9), 875-878. – 5) White R.J. et al.: Vet.Rec. (1986), 119, 615-617. 6) White R.J. et al.: Vet.Rec. (1987), 120, 110-113.

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IMPIEGO DEL GEL PIASTRINICO IN MEDICINA VETERINARIA: SVILUPPO DI METODICHE DI LABORATORIO ED APPLICAZIONI CLINICHE USE OF PLATELET GEL IN VETERINARY MEDICINE: DEVELOPMENT OF LABORATORY PREPARATION AND CLINICAL APPLICATION Del Bue M.1, Riccò S.1, Bertani C.1, Palumbo Piccionello A.1, Conti V2., Merli E2., Ramoni R.2, Grolli S2. *Dipartimento di Salute Animale, §Dipartimento di Produzioni Animali, Biotecnologie Veterinarie, Qualità e Sicurezza degli Alimenti, Università degli Studi di Parma Parole chiave: gel piastrinico, fattori di crescita, piaghe. Key words: platelet gel, growth factor, sores. SUMMARY - The use of platelet gel is a new effective clinical approach for the therapeutic treatment of different types of lesions in human medicine. In the present work we report the methods for the preparation of platelet gels in several animal species (dog, cat, bovine, horse and sheep) and some preliminary applications in the field of veterinary medicine and surgery. Platelet gels could be easily obtained in all the species considered, and a particular efficacy of their therapaeutical applications was observed in the treatment of skin lesions. The simplicity of platelet gel preparation protocols and the encouraging results obtained in our preliminary therapeutic treatments suggest the possibility of a wider application of this approach in the field of veterinary medicine. INTRODUZIONE - L'interesse ad aumentare la velocità di riparazione e rigenerazione dei tessuti di origine mesodermica, ha portato negli ultimi anni alla messa a punto di una nuova tecnica di bioingegneria tissutale basata sull'impiego di emocomponenti per la preparazione del cosiddetto “gel piastrinico”(1). Questo, come indica il nome, è costituito da un coagulo gelatinoso di fibrina che funge da supporto meccanico e funzionale per una elevata concentrazione di piastrine preparate da sangue precedentemente prelevato dal paziente stesso. Si tratta, quindi, di un emocomponente autologo da applicarsi in situ come intervento terapeutico per stimolare e accelerare i naturali processi di guarigione dei tessuti al fine di ottenere una riduzione dei tempi di convalescenza (2). Le piastrine mantenute nel coagulo fungono da serbatoio e fonte di rilascio di diversi fattori di crescita in grado di esercitare una azione di stimolo sulla attività metabolica e replicativa di diversi altri tipi cellulari, tra cui fibroblasti, osteoblasti, cellule endoteliali, coinvolte nei processi di riparazione e guarigione delle lesioni tissutali. Diverse evidenze sperimentali hanno dimostrato che i granuli citoplasmatici delle piastrine (in particolare i granuli ) contengono oltre a fattori della coagulazione, diversi fattori di crescita coinvolti nei processi di rigenerazione e guarigione dei tessuti. Tra questi, in particolare, è stata dimostrata la presenza di platelet-derived growth factor (PDGF) con le isoforme predominanti -AB e –C, transforming growth factor ß (TGF-ß), vascular endothelial growth factor (VEGF), basic fibroblast growth factor (bFGF), platelet-derived epidermal growth factor (PDEGF), insulin-like growth factor-1 (IGF-1) (3). Il gel piastrinico è in sostanza un concentrato di piastrine che viene posizionato in situ sul focolaio di lesione. In seguito alla attivazione e alla degranulazione delle piastrine, sono rilasciate, in maniera simile a quanto avviene fisiologicamente, elevate concentrazioni di fattori di crescita, chemochine ed altri metaboliti bioattivi. Questi, in seguito alla azione chemiotattica sulle cellule del sistema immunitario, alla stimolazione degli elementi cellulari coinvolti nei processi rigenerativi (fibroblasti, osteoblasti) e della angiogenesi, contribuiscono ad una più rapida riparazione dei tessuti. L’impiego del "gel piastrinico" può essere associato alla contemporanea applicazione di osso autogeno spugnoso e corticale, oppure di particelle di matrice ossea (di sintesi o di cavallo deantigenata), fornendo così diversi vantaggi. Infatti, mentre l'impiego di osso o di membrane di acido jaluronico facilita il processo di conduzione, il gel piastrinico attiva il processo di rigenerazione e riparazione della parte lesa (4). Recentemente, nel campo della medicina umana è stato dimostrato che il gel piastrinico può essere applicato in moltissimi campi e i risultati più interessanti si sono avuti: nella chirurgia maxillofacciale, nella riparazione di cartilagine e tendini, nella chirurgia ortopedica e di

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ricostruzione dell’osso (ritardi di consolidazione, pseudoartrosi, necrosi ischemiche, osteolisi, ecc), nelle ulcere cutanee (da decubito e/o diabetiche), nella chirurgia dell’occhio (ulcere corneali) e in altri campi (2, 5, 6). Lo scopo del presente lavoro è la messa a punto di metodiche di laboratorio per la preparazione, a partire da prelievi di sangue autologo, di gel piastrinici da applicarsi in diverse specie animali da affezione o di interesse zootecnico, quali cane, equino, bovino, ovino. Infine sono presentati alcuni casi clinici in cui il gel piastrinico è stato utilizzato in campo veterinario, settore in cui sono ancora scarse le segnalazioni di applicazione di questa metodica. MATERIALI E METODI - PREPARAZIONE DEL GEL PIASTRINICO: Il gel piastrinico è stato preparato partendo dal protocollo proposto da Sacchi e collaboratori nel caso del plasma umano (7). Il sangue prelevato, dopo trattamento con anticoagulante (9 vol. di sangue + 1 vol di Na-citrato 3.8 % p/v) viene centrifugato per 20’ applicando campi gravitazionali variabili a seconda della specie considerata: cane 130 xg, bovino e cavallo 350 xg, pecora 170 xg. Da ogni provetta vengono prelevati il buffy coat ed il primo strato di eritrociti (circa 2 mm) che sono quindi sottoposti ad una seconda centrifugazione di 15’ a 650 xg. Il sovranatante di colore paglierino, denominato plasma povero di piastrine (PPP), viene quindi separato dal pellet di colore rosso, o concentrato piastrinico (CP), che viene a sua volta risospeso mediante diluizione in due volumi di PPP. Le due sospensioni piastriniche vengono poste in piastre petri sterili e la formazione del coagulo si ottiene in un tempo di 3-5 minuti a seguito dell’aggiunta di batroxobina (10U/10 ml sangue di partenza) e 0,5 ml di calcio gluconato 10% p/v ogni 10 ml di sangue iniziale. I coaguli vengono quindi applicati in situ entro un periodo di tempo non superiore ai 60’ dalla loro preparazione. APPLICAZIONI CLINICHE: sono state trattate con questa metodica lesioni cutanee con perdite di sostanza, fratture comminute, osteotomie correttive e rotture tendinee. Il protocollo impiegato è diverso per le lesioni esterne, nelle quali l’applicazione del gel piastrinico viene ripetuta ogni 3-4 giorni, rispetto alle lesioni scheletriche, nelle quali il trattamento è eseguito solo al momento dell’intervento. RISULTATI - PREPARAZIONE DEL GEL PIASTRINICO. E’ stata messa a punto la metodica per la preparazione di gel piastrinico in diverse specie animali. Per ognuna sono stati determinati i tempi e le velocità di centrifugazione adatte ad ottenere il miglior incremento di concentrazione delle piastrine. APPLICAZIONI CLINICHE: I risultati ottenuti in seguito all’applicazione del gel piastrinico sono stati sempre positivi ed una particolare efficacia è stata evidenziata nel caso di piaghe indolenti. A questo proposito è in corso una valutazione sull’efficacia di questi trattamenti utilizzando come modello ovini in cui sono state indotte lesioni cutanee sperimentali in parte trattate mediante applicazione del gel piastrinico in parte tenute come controllo. CONCLUSIONI: I risultati molto positivi fin qui ottenuti, sono sovrapponibili a quelli riportati in letteratura umana. Questo ci ha indotto a segnalare la metodica che è semplice da applicare, economica e non richiede particolari attrezzature, se non una centrifuga da laboratorio. Un limite può dipendere dalla taglia del paziente, dal momento che il gel ottenuto corrisponde, come volume, a circa un nono del prelievo iniziale. Negli animali di piccola taglia si presenta quindi la necessità di ricorrere a donatori per ottenere le quantità adeguate di gel piastrinico. BIBLIOGRAFIA: 1) Anitua E. et al. (2004) Thromb. Haemost, 91, 4-15. 2)Whitman D.H. et al. (1997) J Oral Maxillofac Surg, 55, 1294-1299. 3) Rendu F. et al. (2001) Platelets, 12, 261-273. 4) Anitua E. (1999), Int J Oral Maxillofac Implants, 14, 529-535. 5) Bhanot S. et al. (2002) Facial Plst Surg, 18, 27-33. 6)Margolis D.J. et al (2001), Diabetes Care, 24, 483-488. 7) Sacchi M.C. (2000), in: Il gel piastrinico in chirurgia orale ed implantare - il manuale. S.E.B., 17-34.

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ESAME RADIOGRAFICO DELLA COLONNA VERTEBRALE CONDOTTO IN 20 CAVALLI SPORTIVI CON “BACK PAIN” RADIOLOGICAL EXAMINATION OF VERTEBRAL COLUMN IN THE HORSE WITH BACK PAIN Romagnoli N., Spadari A. (Dipartimento Clinico Veterinario, Bologna) Parole chiave: cavallo, esame radiografico, colonna vertebrale, back pain. Key words: horse, radiological examination, back region, back pain. SUMMARY – Back pain is an uncommon pathology of locomotor system in the horse (2.3%). The radiological examination of the thoracolumbar region of a horse with a potential back problem is important in order to perform a diagnosis. Twenty horses with “back problem” were evaluated with radiological examination in standing position using the score proposed by Jeffcott (5) for the spinous processes lesions and the score created by Denoix (4) for the bodies and intervertebral joints. Lesions in the spinous processes and/or in the bodies of vertebrae were found in 15 patients. The most common radiographic lesions in the spinous processes were type 1(8/20) and type 3 (3/20) and in the intervertebral joints were type 4 (5/20), type3 (4/20) and type 1 (2/20). The radiological examination allowed an accurate diagnosis and a specific treatment. INTRODUZIONE – Nel cavallo sportivo le patologie muscolo-scheletriche del tratto toraco-lombare della colonna vertebrale rappresentano solo il 2.3 % delle patologie dell’apparato locomotore accertate nel cavallo (2); i principali segni clinici sono: dolore (“back pain”) (1), alterazioni nell’andatura e/o calo di rendimento (1). In bibliografia sono presenti rassegne numericamente importanti che descrivono le alterazioni radiografiche a carico dei processi spinosi (5-6) e le correlazioni esistenti tra lesioni e sintomatologia clinica. Per quanto riguarda i processi articolari delle articolazioni intervertebrali, la letteratura si presenta invece carente nella descrizione delle alterazioni patologiche e sulla loro importanza dal punto di vista clinico. I principali quadri patologici sono riferibili a “kissing spine” e artrosi a carico delle articolazioni intervertebrali (3,4). La loro identificazione e documentazione è assai difficoltosa principalmente per gli spessori e l’ampiezza della regione. La diagnostica collaterale fa riferimento agli esami radiografico, ultrasonografico, termografico e scintigrafico (2). L’esame radiografico della colonna toraco-lombare (T3-L3) del cavallo in stazione quadrupedale prevede l’esecuzione di 5 radiogrammi, di cui tre per i corpi vertebrali e le articolazioni intervertebrali e due per i processi spinosi (1). Scopo del lavoro è quello di apportare un contributo casistico sull’esame radiografico della colonna vertebrale eseguito su 20 cavalli da salto che presentavano calo di rendimento e sintomatologia riferibile a “back pain”. MATERIALI E METODI – Sono stati inclusi nello studio 20 cavalli (10 maschi castrati, 2 stalloni e 8 femmine), di età compresa fra i 4 e i 16 anni e del peso compreso fra 350 e 560 kg utilizzati per il salto ad ostacoli. I soggetti sono stati inviati per un esame radiografico della regione toraco-lombare della colonna vertebrale a causa di sintomatologia riferibile a “back pain”; criterio necessario per l’inclusione dei soggetti nello studio è stata l’assenza di zoppia agli arti e patologie metaboliche o cardio-circolatorie. L’esame radiografico è stato quindi condotto a livello di regione toraco-lombare, con i pazienti mantenuti in stazione quadrupedale e sedati con detomidina (0.01 mg/kg). L’esame è stato eseguito secondo la procedura descritta da Ross (1): sono state utilizzate per i processi spinosi una cassetta 20x40 senza griglia con distanza focale 100 cm; per la regione toracica una cassetta 35x43 con griglia ratio 12:1 focalizzata 150 cm con schermi e pellicole asimmetriche; per la regione lombare una cassetta radiografica 35x43 con griglia ratio 8:1 e distanza focale 100 cm. Al momento dell’esecuzione dei radiogrammi sono stati posizionati dei marker di piombo in tre punti equidistanti del tratto toraco-lombare della colonna, per poter successivamente identificare la vertebra e la sede della patologia.

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L’analisi dei radiogrammi, eseguito sempre dallo stesso operatore, ha previsto la valutazione di forma, dimensioni e trabecolatura ossea dei processi spinosi e articolari; le lesioni a carico dei processi spinosi sono state classificate secondo il “grade” di Jeffcott (5) (1-5 in ordine crescente di gravità) mentre quelle a carico delle articolazioni intervertebrali, secondo la classificazione proposta da Denoix (4) (1-8 partendo dal tipo 1 per artrosi lievi sino al tipo 8 per fratture a livello di articolazione intervertebrale). RISULTATI – L’esame radiografico è stato possibile in tutti i pazienti, così come la valutazione dei radiogrammi. Tuttavia, in due soggetti, rispettivamente del peso di 560 e 520 kg, i notevoli spessori della regione hanno reso difficoltosa l’interpretazione delle immagini. Sono state rilevate lesioni a carico del tratto toraco-lombare della colonna vertebrale in quindici casi sui venti considerati (15/20-75%). In particolare a livello di processi spinosi l’analisi dei radiogrammi ha permesso di evidenziare in tre casi (3/20-15%) lesioni tipo “kissing spine” e in otto casi (8/20-40%) reazioni periostali, di cui in tre cavalli (3/8-38%) a livello toracico e in cinque (5/8-72%) a livello lombare. I tipi di anomalie radiografiche più frequenti a carico dei processi spinosi sono stati il tipo 3 (3/20-15%) e il tipo 1 (15/20-85%). Le lesioni artrosiche a carico delle articolazioni intervertebrali sono state osservate solo tra T18 e L3: i tipi più diffusi risultano il tipo 4 ( 5/20- 25%), il tipo 3 (4/20-20%) e il tipo 2 (2/20-10%); nei cinque pazienti, le cui lesioni rientravano nel tipo 4, le proliferazioni dorsali interessavano le articolazioni fra tre vertebre (T18-L2). DISCUSSIONE E CONCLUSIONI – L’utilizzo di questo protocollo ha consentito l’esecuzione di un esame radiografico standardizzato che ha permesso, nella nostra casistica, di evidenziare in almeno 15 casi (15/20-75%) una o più lesioni a carico del tratto toraco-lombare della colonna vertebrale. La sede più frequente delle lesioni (T18-L3) coincide con le osservazioni ottenute nel centro CIRALE (8 ). Dal follow up attualmente disponibile, la terapia mirata sembra aver prodotto esito favorevole nell’80% dei pazienti trattati, a conferma della corretta diagnosi di sede. La procedura diagnostica radiografica non si è dimostrata invece adeguata per la valutazione del tratto L4-L6 per la sovrapposizione delle ali dell’ileo: per questo motivo in cinque casi, in cui radiograficamente non è stata evidenziata alcuna lesione toraco-lombare, non è stato possibile escludere una patologia localizzata a livello di queste ultime tre vertebre. In conclusione l’esame radiografico della colonna vertebrale rappresenta un efficace mezzo diagnostico per l’evidenziazione di lesioni anche a carico delle articolazioni intervertebrali. BIBLIOGRAFIA 1) Ross MW, Sue Dyson SJ. (2003) Diagnosis and Management of Lameness in the horse; ed. Saunders Philadelphia. 2) Turner TA, (2003) Proceeding of 49th convention of the American Association of Equine Practioners . 3) Jeffcott LB (1979), Vet. Radiol., 20, 135-139; 4) Denoix JM (2003)Thoracolumbar spine Diagnosis and Management of Lameness in the horse; ed. Saunders Philadelphia. 5) Jeffcott LB(1980), Eq Vet J, 12(4), 197-210. 6) Ranner W, Schill W, Gerards H.(1999), Tirarztl Prax Ausg G Grosstiere Nutztiere, 27(2), 12-127. 7) Erichsen C; Eksell P; Roethlisberger KH; Lord p; Johnston C (2004), Eq. Vet. J. 36(6), 458-465. 8) Denoix JM, (2003) Personal communication - CIRALE, Dozule Caen, France,

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