seneca dialoghi

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Lucio Anneo Seneca. I DIALOGHI. Introduzione, traduzione, prefazioni e note di Aldo Marastoni. Prima edizione marzo 1979. Proprietà letteraria riservata Rusconi Libri S. p.A., Milano. Su concessione Rusconi Libri. INDICE. Introduzione ad una lettura critica dei "Dialoghi" di Seneca, di Aldo Marastoni: pagina 4. DELLA PROVVIDENZA: pagina 83. DELLA COSTANZA DEL SAPIENTE: pagina 126. DELL'IRA: pagina 178. Libro primo: pagina 196. Libro secondo: pagina 238. Libro terzo: pagina 296. A MARCIA, della consolazione: pagina 367. DELLA VITA FELICE: pagina 438. DELL'OZIO: pagina 504. DELLA TRANQUILLITA" DELL'ANIMO: pagina 526. DELLA BREVITA" DELLA VITA: pagina 591. AD ELVIA, SUA MADRE, della consolazione: pagina 644. A POLIBIO, della consolazione: pagina 703. [Le note sono alla fine di ogni capitolo]. INTRODUZIONE ad una lettura critica dei "Dialoghi" di Seneca. "Nil minus est hominis occupati quam vivere: nullius rei difficilior scientia est. Professores aliarum artium vulgo multique sunt quasdam vero ex his pueri admodum ita percepisse visi sunt ut etiam praecipere possent: vivere tota vita discendum est et quod magis fortasse miraberis tota vita discendum est mori". "Nulla tanto sfugge al controllo dell'uomo impegnato quanto il vivere; davvero non c'è realtà che sia più difficile da conoscere. Esistono folle intere di maestri delle altre arti e si sono visti dei bambini impararle al punto di poterle anche insegnare; l'arte di vivere si deve continuare ad impararla durante tutta la vita, anzi, e questo forse ti stupirà di più, per tutta la vita si deve imparare a morire". Brev. 7,3. Seneca scrittore e missionario. Il vasto spazio che la composita figura di Seneca copre, con la sua varia produzione, nella letteratura latina del Primo secolo dopo Cristo e l'indiscussa fortuna di cui egli godette presso gli scrittori dell'Occidente cristiano e in tutto il Medioevo, lo propongono contemporaneamente all'attenzione degli studiosi di letteratura e di storia del pensiero. La sua prosa e il suo stile sono stati spesso criticati, ma egli rimane, forse, lo scrittore romano dal quale è più facile estrarre una pagina esemplare. Delle sue tragedie, s'è persino messa in dubbio l'autenticità, tanto lontane parvero dalla serena pensosità delle prose e, in particolare, delle "Epistole". Eppure furono le sole opere che l'antichità salvò dal totale naufragio del teatro latino imperiale. Circa trent'anni dopo la morte di Seneca, Quintiliano gli dedicò una pagina della sua "Institutio", nella quale volle contemporaneamente riequilibrare suoi precedenti giudizi di merito e ribadire alcune riserve. (1) Ricordò quattro raccolte di opere di Seneca: orazioni, carmi, epistole, dialoghi, ed osservò che la sua prosa piaceva ai giovani, che la trovavano tanto lontana dalla prosa degli antichi, cioè dei classici. Ma anche quei giovani, mentre si vantavano d'imitarlo, s'allontanavano da lui tanto, quanto egli s'era allontanato dai predecessori. Di questi ultimi, secondo Quintiliano, Seneca non aveva ereditato né la minuziosa diligenza dell'indagine, né la puntigliosa esattezza nel citare le fonti; inoltre, non s'era curato di architettare l'orazione che, troppo spesso, si spezzettava in brevi massime da estrarre o si gonfiava dei difetti che piacciono. Seneca, così egli conclude, avrebbe potuto aspirare a molto di più: ottenne quel che aveva voluto. Quintiliano, in fondo, vide giusto, ma vide poco. Rilevò nell'opera di Seneca i sintomi evidenti dell'esaurirsi della classicità. Ma, da uomo che viveva del sogno scolastico di ripristinare quella figura d'oratore che fosse insieme vero sapiente, irreprensibile maestro di costumi, dotto ed eloquente, non seppe andare a fondo. Pur riconoscendo che nemmeno gli antichi avevano saputo realizzare o rintracciare nella storia un solo esemplare di quell'uomo ideale, restituì loro il vanto esclusivo della diffusione della sapienza. Ogni filosofo contemporaneo gli sapeva d'asocialità, di presunzione e di vizio (2), che s'esternavano anche

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Dialoghi (lat. Dialogi o Dialogorum libri XII) è conosciuto un insieme di opere del filosofo latino Lucio Anneo Seneca

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Lucio Anneo Seneca.I DIALOGHI.

Introduzione, traduzione, prefazioni e note di Aldo Marastoni.Prima edizione marzo 1979.Proprietà letteraria riservata Rusconi Libri S. p.A., Milano.Su concessione Rusconi Libri.

INDICE.Introduzione ad una lettura critica dei "Dialoghi" di Seneca, di Aldo Marastoni: pagina 4.DELLA PROVVIDENZA: pagina 83.DELLA COSTANZA DEL SAPIENTE: pagina 126.DELL'IRA: pagina 178.Libro primo: pagina 196.Libro secondo: pagina 238.Libro terzo: pagina 296.A MARCIA, della consolazione: pagina 367.DELLA VITA FELICE: pagina 438.DELL'OZIO: pagina 504.DELLA TRANQUILLITA" DELL'ANIMO: pagina 526.DELLA BREVITA" DELLA VITA: pagina 591.AD ELVIA, SUA MADRE, della consolazione: pagina 644.A POLIBIO, della consolazione: pagina 703.

[Le note sono alla fine di ogni capitolo].

INTRODUZIONE ad una lettura critica dei "Dialoghi" di Seneca."Nil minus est hominis occupati quam vivere: nullius rei difficilior scientia est.Professores aliarum artium vulgo multique sunt quasdam vero ex his pueri admodum ita percepisse visi sunt ut etiam praecipere possent: vivere tota vita discendum est et quod magis fortasse miraberis tota vita discendum est mori"."Nulla tanto sfugge al controllo dell'uomo impegnato quanto il vivere; davvero non c'è realtà che sia più difficile da conoscere.Esistono folle intere di maestri delle altre arti e si sono visti dei bambini impararle al punto di poterle anche insegnare; l'arte di vivere si deve continuare ad impararla durante tutta la vita, anzi, e questo forse ti stupirà di più, per tutta la vita si deve imparare a morire".Brev. 7,3.

Seneca scrittore e missionario.Il vasto spazio che la composita figura di Seneca copre, con la sua varia produzione, nella letteratura latina del Primo secolo dopo Cristo e l'indiscussa fortuna di cui egli godette presso gli scrittori dell'Occidente cristiano e in tutto il Medioevo, lo propongono contemporaneamente all'attenzione degli studiosi di letteratura e di storia del pensiero.La sua prosa e il suo stile sono stati spesso criticati, ma egli rimane, forse, lo scrittore romano dal quale è più facile estrarre una pagina esemplare.Delle sue tragedie, s'è persino messa in dubbio l'autenticità, tanto lontane parvero dalla serena pensosità delle prose e, in particolare, delle "Epistole".Eppure furono le sole opere che l'antichità salvò dal totale naufragio del teatro latino imperiale.Circa trent'anni dopo la morte di Seneca, Quintiliano gli dedicò una pagina della sua "Institutio", nella quale volle contemporaneamente riequilibrare suoi precedenti giudizi di merito e ribadire alcune riserve. (1) Ricordò quattro raccolte di opere di Seneca: orazioni, carmi, epistole, dialoghi, ed osservò che la sua prosa piaceva ai giovani, che la trovavano tanto lontana dalla prosa degli antichi, cioè dei classici.Ma anche quei giovani, mentre si vantavano d'imitarlo, s'allontanavano da lui tanto, quanto egli s'era allontanato dai predecessori.Di questi ultimi, secondo Quintiliano, Seneca non aveva ereditato né la minuziosa diligenza dell'indagine, né la puntigliosa esattezza nel citare le fonti; inoltre, non s'era curato di architettare l'orazione che, troppo spesso, si spezzettava in brevi massime da estrarre o si gonfiava dei difetti che piacciono.Seneca, così egli conclude, avrebbe potuto aspirare a molto di più: ottenne quel che aveva voluto.Quintiliano, in fondo, vide giusto, ma vide poco.Rilevò nell'opera di Seneca i sintomi evidenti dell'esaurirsi della classicità.Ma, da uomo che viveva del sogno scolastico di ripristinare quella figura d'oratore che fosse insieme vero sapiente, irreprensibile maestro di costumi, dotto ed eloquente, non seppe andare a fondo.Pur riconoscendo che nemmeno gli antichi avevano saputo realizzare o rintracciare nella storia un solo esemplare di quell'uomo ideale, restituì loro il vanto esclusivo della diffusione della sapienza.Ogni filosofo contemporaneo gli sapeva d'asocialità, di presunzione e di vizio (2), che s'esternavano anche

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nell'indifferenza all'apprendimento dell'arte del bel dire.Riconosce, è vero, che Seneca trattò pressoché tutto lo scibile umano e che, pur poco attento in materia di filosofia, risultò egregio censore dei vizi (3).Ma, sconcertato dal contrasto tra la sua figurazione statica dell'oratore e la dinamica, che pareva talora contraddittoria, della molteplice presenza di Seneca nella letteratura del tempo, non solo non ne intuì la profonda vitalità del pensiero, ma se ne lasciò sfuggire la componente più valida ed attraente, che pure emergeva nitida: la missionarietà.Seneca parla a qualcuno e per qualcuno.Il lettore medievale ne raccolse le sentenze, ne rielaborò il pensiero e vi si rispecchiò. In Virgilio, aveva voluto riconoscere l'ispirato profeta della nuova era, in Seneca, identificò lo scopritore e codificatore del sustrato umano del messaggio cristiano.Legger Seneca significava riconoscere, nel profondo del proprio io, l'insieme di quelle esigenze e risposte che ancor meglio evidenziavano la ricchezza interiore e la provvidenzialità storica della rivelazione cristiana.Ma, a parte questa appropriazione, sotto molti aspetti indebita, che il lettore medievale fece del patrimonio senecano, egli aveva colto, fin dal suo primo avvicinarsi allo scrittore, la sua missionarietà.Seneca parla a se stesso, in primo luogo, e per se stesso, nella sottile e laboriosa ricerca delle ragioni profonde del vivere umano e del contrasto tra la condizione storica dell'uomo e la validità delle sue aspirazioni più sublimi.Poi parla agli amici, ai "comites", sia che essi ancora abbisognino d'un avviamento propedeutico al filosofare, sia che già abbiano percorso lunghe tratte del periglioso cammino.Infine, egli parla agli incoscienti e alla folla.Il missionario sa ascoltare ed ascoltarsi.Il suo discorso non può restar prigioniero degli schemi letterari del "dialogo" di modello platonico o ciceroniano, o degli ormai altrettanto tradizionali schemi dell""epistola" e del trattato teoretico.Il discorso, per lui, è anche soliloquio: l'avversario, l'obiettore, è talora lui stesso, che deve appurare l'inconsistenza razionale d'una speciosa parvenza o d'una ipotesi attraente, o vuol comprovare la validità d'una intuizione.Se invece il discorso è colloquio, la maieutica socratica, pur bene appresa e frequentemente utilizzata, rivela il proprio limite.L'interlocutore, Lucilio o Sereno che sia, o la dotta matrona, non deve esser condotto per mano nei meandri dell'analisi d'un vero già noto al maestro in tutti i suoi aspetti, e diligentemente comunicato al discepolo.Quest'ultimo dev'essere avviato e incoraggiato alla riflessione su alcuni principi e capisaldi, ora contenutistici, ora metodologici.Egli stesso dovrà evincerne una sua elaborazione del cammino verso la virtù.Non era neppure possibile ricalcare l'impianto ciceroniano del "dialogo" o del trattato, riportando il discorso a livello d'accademia, introducendo esclusivamente interlocutori già morti e, spesso, già consacrati alla storia, e riprendendo il dire con l'elogio del precedentemente detto o trasformando il dialogo in consenso di esperti che s'alternano nell'esporre.E c'è un terzo destinatario del discorso missionario: la folla o, meglio, i tanti che possono ritrovare se stessi ed uscire dall'anonimato, per avviarsi alla sapienza.Verso costoro, Seneca è apostolo più ardente e deciso di quanto non appaia dal costante riaffiorare del suo reciso disprezzo verso le folle anonime.Egli crede che qualcuno, che tanti, possano esser scossi.Non ritiene che valga la pena, con quei soggetti, di insinuare il dubbio o di giocare di sottigliezza.Debbono esser costretti a fissare lo sguardo sul vuoto desolato che la vita del tempo produce negli animi, incapaci di ritrovare se stessi, quello che la frenetica attività dell'Urbe crea, dietro le parvenze del vivere civile (4).Il procedere per antitesi d'estremi, il contrapporre morte e vita, sapienza e stoltezza, eternità e contingenza, è tipico di tutti gli apostoli di quell'epoca, che scesero tra le folle, da Paolo di Tarso ad Apollonio di Tiana.Meglio, è proprio di chi, scenda o non scenda ad arringare le folle, creda nella divulgabilità universale del messaggio o ne sottolinei l'aristocraticità dei contenuti, accetta la missionarietà come impegno religioso.Seneca rimase un aristocratico del sapere, e ciò lo distingue, anzi lo contrappone agli apostoli del suo tempo.Lo avvertì anche l'ignoto falsario delle "Epistole di Seneca a Paolo", che tentò di stabilire un contatto tra il filosofo e il Paolo epistolografo, studioso e intellettuale, e lasciò in ombra il Paolo predicatore sulle piazze, nei trivi e nelle basiliche.Giustamente la critica d'oggi (5) procede all'analisi delle forme letterarie di Seneca prosatore, sulla base della fondamentale distinzione tra gli orizzonti del suo impegno missionario.Seneca intonò la forma letteraria alla precedente scelta degli uditori del suo discorso.Seneca tragico.Il giudizio s'attaglia anche alla tragedia senecana, purché si premetta che l'opzione per il genere letterario sublime e teatrale ricollegava il filosofo a un ben diverso filone di tradizione.Il dramma delle passioni e il conseguente scadimento umano erano già entrati, ed in tutta solennità di forme, nella poesia neoterica d'estrazione epicurea e stoica, ma pareva segnare un limite critico all'ordinata normativa, ascetica e raziocinante, che caratterizzava quelle filosofie liberatorie.Il confinare i protagonisti nella zona del paradivino o del parastorico significava, prima di tutto, sottrarli all'area della progettabilità umana.Se, in primo piano, codesto poetare sembra allinearsi entro il processo d'ascesa dell'umanità dall'irrazionale preistorico al razionale storico, in realtà esso denuncia di che lacrime grondi e di che sangue, e quali incognite comporti, sempre ed

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in ogni tempo, per l'uomo, l'essere uomo.Il turbinare delle passioni e il conseguente scadere dell'essere umano nell'irresponsabile, si tratti di un essere mitico come Ercole o parastorico come Agamennone, innocente come Ciris ed Edipo o perverso macchinatore di delitti come Medea e Tantalo, riafferma il misterioso, drammatico permanere della bipolarità benemale e par smentire l'ottimismo del raziocinare liberatorio.Ragione e volontà non bastano: la storia è anche sofferenza, perdita, duro prezzo pagato dall'uomo alla malignità dell'uomo, all'interno d'una insondabile economia, nella quale opera una forza estraprovvidenziale che non si riesce a rappresentare, se non quale maledizione divina.Quel poetare, farcito d'immagini elaborate e di figurazioni difficili a decifrarsi, anche per il più provveduto lettore del tempo, quello sforzo di far rivivere il patologico attraverso un graduale trasferimento di emozioni, è certamente consono alle regole della "poetica del sublime", teorizzata in quegli anni, ma non basta a spiegare il Seneca tragico.Al lettore, viene troppo spontaneo il raffronto con Lucano, il prediletto nipotepoeta, che lavora a fianco dello zio e, con lui, accanto a Nerone, e si traduce nella domanda: esistette una poetica degli Annei? Esistette certamente un'attenta distribuzione dei sustrati razionali, ora lasciati in sottofondo, ora rilanciati con la pura e semplice denuncia della loro sopraffazione (Seneca non è Euripide, Lucano non è Lucrezio), ma sempre presupposti.Ad essi s'affianca la lirica rappresentazione del mondo degli affetti, che si ritrova nei cori e, per contrasto, la violenza dell'orrido e del ripugnante, inscenato sullo sfondo dell'oscurarsi dell'umanità.Soltanto tre tragedie di Seneca ("Hercules furens", "Medea", "Hercules Oetaeus") si risolvono in serena catarsi: le altre, e sono le più numerose, lasciano il protagonista solo con la sua sofferenza e la sua colpa.Il precedente ciceroniano.Seneca è, cronologicamente, il secondo grande scrittore romano di filosofia dopo Cicerone.Non poteva ignorare l'impostazione data dall'Arpinate al discorso filosofico e nemmeno sarebbe stato comprensibile o accettabile un suo intervento in campo filosofico, che prescindesse totalmente dall'opera del predecessore.La sua produzione, però, mentre da un lato si ricollega a quella di Cicerone, dall'altro se ne stacca decisamente, acquistando quella ricchezza di contenuti differenziati che fa di lui il più rappresentativo ed originale pensatore romano.Presso gli studiosi degli ultimi decenni, i due uomini hanno condiviso la stessa sorte.Essendo portatori d'un immenso materiale di documentazioni e testimonianze su opere filosofiche greche, oggi irrimediabilmente perdute, furono letti per molto tempo, e quasi esclusivamente, in chiave filologica, quali fonti di un pensiero altrui che si voleva ricostruire organicamente e assegnare all'originaria paternità.Minor attenzione, in genere, è stata dedicata alla natura e ai caratteri della loro sintesi, alla ricerca della loro originalità, troppo spesso relegata nella sbrigativa denominazione di eclettismo con ispirazione stoica.Quest'ultima indagine, verso la quale puntano oggi l'attenzione validi studiosi, presenta le sue incognite.Persistono le incertezze sugli esatti contenuti delle fonti alle quali i due uomini attinsero; inoltre, essi adottarono un linguaggio già mediato da altri.Si nota, è vero, nei due scrittori, una diversa frequenza del ricorso a termini tecnici, ma il loro lessico e il loro linguaggio appartengono ad un "habitus" espositivo intermedio, comune a tutte le scuole, tanto comune che, per molti anni, ebbe successo e credibilità il parlare di "koiné", filosofica o culturale, dell'età imperiale.Dall'insieme, è però possibile isolare punti di riferimento abbastanza precisi, per inquadrare le due personalità.Per noi, che ci occupiamo soltanto di Seneca, resta opportuno e doveroso indicare che cosa Seneca accolse, che cosa rielaborò o abbandonò del suo illustre predecessore.In primo luogo, i due autori si ritrovano sul terreno comune della romanità.Intendiamo, con questo termine, una particolare versione dell'umanesimo e del filosofare per l'uomo che, se attinge o utilizza dati del messaggio greco, li rivede, suddistingue e ridimensiona, sulla base di esperienze ed esigenze tipicamente romane.La romanità di Cicerone è contraddistinta dall'opzione primaria per il problema morale e dal modulo di collocazione della moralità entro una filosofia della storia.Sarebbe eccessivo assegnare al solo Cicerone, o a Cicerone e Seneca, il merito o la colpa d'aver tentato di fare della morale una disciplina autonoma, svincolandola definitivamente dall'umile funzione di ultimo capitolo delle varie sintesi speculative.Ma l'opera dei due uomini contribuì moltissimo alla separazione.Questa impostazione del discorso morale è maggiormente accentuata in alcuni trattati dell'Arpinate, quali il "De republica" e il "De legibus", mentre di altri, quali il "De finibus", le "Tusculanae disputationes" e il "De officiis", sembra meglio riconoscibile l'ascendenza greca.Ma anche in questi, il movente ciceroniano del filosofare emerge quale intento di fare dell'uomo il cosciente operatore di una precisa esperienza storica, la medesima entro cui s'è formata ed è maturata la repubblica romana.Anzi, l'analisi storica, seppure espressa in termini di "repubblica", ruota di fatto attorno ad un modello "urbano", a una traduzione della socialità in un preciso sistema di leggi ed istituzioni: quello proprio dell""Urbs" per antonomasia.La romanità di Cicerone, come peraltro quella di Livio, Virgilio e Tacito, potrebbe ridursi alla sostituzione del concetto teoretico di "pólis" con quello storico di "urbs".Il solo Cicerone però, tra i nomi che ricordammo, tentò di costruire un sistema morale organico.Ebbene, se collocassimo il soggetto della moralità ciceroniana in un'esperienza storica diversa da quella romana repubblicana, se gli togliessimo la possibilità di rispecchiarsi nel "mos maiorum" e nel sistema romano di "leges et instituta", se, in altri termini, gli sottraessimo la sua "urbanità culturale", lo vedremmo smarrirsi, anche se in cambio gli

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concedessimo tanta sapienza e "politicità", quanta ne esibiscono i dotti interlocutori delle "Tusculanae" e del "De republica".Per Cicerone, è inconcepibile un "sapiente" che non sia oratore e uomo di Stato, ma tale nell'ambito della repubblica romana.Perché il romano non è apostolo solitario, non va a predicare il suo verbo personale: va a trapiantare altrove le sue "leges" e i suoi "instituta", la sua "urbanità".Cicerone, chiamato a dettare i presupposti teoretici e metodologici del suo filosofare, evincerà, dalla fruttuosità operativa dei "maiores", la convinzione che il loro "mos" sia fattore di stabilità dei principi, valido quanto qualunque teoresi, e che, di conseguenza, si possa enunciare, anche ad un popolo privo di vocazione speculativa, l'imperativo primario dell'impegno morale.Anzi, l'imperativo universalizzante: se il sapere è di pochi, il dovere è di tutti.Deve, dunque, esser possibile, metodologicamente, risalire all'origine dell'impegno morale, partendo dai due soli presupposti della volontà d'azione e della sua concreta finalizzazione storica.Certo, Cicerone narrerà, al venire del suo turno, la consuntaparabola, cara anche allo stoicismo, del passaggio dell'uomo da vita biologica a vita logica.Essa, però, è soltanto la parabola più accettabile, e non vale più d'un'altra.Anzi, il sistema di Zenone uscirà sovvertito dalla rielaborazione ciceroniana Nello stoicismo tradizionale, la moralità dell'azione non costituiva categoria a sé stante: l'azione era buona o cattiva a seconda che risultava, o meno, conforme a natura.Moralizzare l'azione significava scoprire questo suo collocarsi nella naturalità.In fondo, non è l'azione l'oggetto primo dell'analisi del moralista: lo è la sua compatibilità con l'esegesi del concetto di natura, intesa come sistema ordinato, e perciò razionale, di fatti cosmologici e fisici aventi anche quegli sbocchi teologici che vanno sotto il nome di provvidenzialità e di fatalità.In Cicerone, una volta superata la pregiudizialità del sapere rispetto all'operare, si affievolirà o scomparirà del tutto il rapporto ascendente tra azione particolare e razionalità universale.L'uomo agirà ponendosi in rapporto con se stesso, in quanto capace di scegliere, di determinarsi ad agire con fini propri, in contesto con altri agenti.Le cause dell'agire risultano affatto secondarie, rispetto agli scopi dell'azione e ai limiti posti dall'impegno della convivenza con gli altri.La razionalità pura, quella stoica tradizionale, per intenderci, potrà ormai fornire all'agente motivi di preferibilità della sua azione, ma quest'ultima dovrà esser valutata soprattutto sulla base dei suoi intenti e dei suoi risultati pratici, della sua utilità, non pragmatistica né egoistica, beninteso, ma rapportata all'operare degli altri agenti, all'interno della realtà storica istituzionalizzata.Ne conseguiranno il laborioso tentativo ciceroniano di appurare il concetto di "utile", quale dignità morale dell'azione, e di "decorum", dignità morale dell'agente e il suo continuo oscillare tra l'identificazione dei precetti morali con le leggi dello Stato ("aequitas") e lo sconfinamento nella zona superiore dei valori ("iustitia"), alla ricerca d'una integrazione, se non sapienziale, almeno assennata, della normativa della legge. L'azione morale è anche diventata oggetto: s'è giuridicizzata.La speculazione filosofica è finita in secondo piano: non pare sussista alcun motivo necessitante a ricercare una metafisicità o una trascendenza, da cui l'agire attinga le sue supreme giustificazioni.Anche il "Sogno di Scipione" rimane "somnium", una parabola, un modo di collocarsi entro la gloriosa storia d'una vitale repubblica.Nella preferenza data alla moralità rispetto alla sapienza, non può dunque vedersi la pura e semplice accentuazione di un possibile sviluppo dello stoicismo tradizionale, ma una precisa scelta di Cicerone, un dato eclettico, se si vuole, debitamente finalizzato.Posto a paragone con i contemporanei, quali furono i pitagorici Nigidio Figulo e Varrone, o l'epicureo Lucrezio, Cicerone si contraddistinguerà per aver ridotto il vivere dell'uomo medio ad una raffinata tecnica di raffronto tra legge e storia.Per lui, natura ed arte, ben distinte in Varrone e Lucrezio, tendono a identificarsi, come il suo "decorum" volle essere la riedizione, in chiave morale, del "kalón" estetico.

La nuova antropologia senecana.Quando Seneca intraprese la sua nuova attività di filosofo, l'esperienza storica del principato che, se non altro, allontanava definitivamente lo spettro delle guerre civili (6), era già comunemente accettata.Ciò rendeva culturalmente anacronistico l'anelito alla restaurazione degli istituti repubblicani, che aveva animato la produzione di Cicerone e che trovava, a sprazzi, nel sottofondo aristocratico e politicizzato di Roma, attivi operatori di minoranza.A sua volta, la dottrina dello Stato romano "urbanizzato", per Seneca, non è scaduta: è acquisita.Il discorso politico più diffuso e banale si è ormai arenato sul tema della persona e delle doti del principe.La dizione "Romana pax" ha, in Seneca (7), un'accezione tutta augustea e imperiale: abbraccia l'insieme delle istituzioni garantite dal buon governo del principe, incompatibile con le guerre civili, ma compatibilissimo con le guerre esterne.Al problema politico, il filosofo non dà maggior peso di quello che darebbe a qualunque altro problema scientifico.Seneca può così ricuperare un concetto di storicità ben più arioso di quello ciceroniano, non più condizionato né

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dall'esperienza storica repubblicana né dal relativo modello istituzionale.Egli riporta in primo piano l'uomo come agente, e non gli attribuisce la presunzione d'esser facitore del mondo e di se stesso, ma la condizione d'umile e avveduto interprete d'una realtà molteplice, spesso contraddittoria, dalla quale non può lasciarsi travolgere.Al concetto ciceroniano di "res publica", Seneca sostituisce quello ellenistico di "oikouméne", il mondo in quanto sede di uomini: anche Persiani, Germani e Sciti hanno una loro umanità, se per tale s'intende, elementarmente, una necessità e un modo di convivere con la natura.Quest'ultima acquista la configurazione di "cosmo", sia cosmo astronomico e sferico, che cosmo concettuale, ordine e razionalità.L'uomo dovrà vedersi, contemporaneamente, quale cittadino della "città grande", il mondo, e della "città piccola", lo Stato (8).Va da sé che gli impegni derivanti dalla cittadinanza "grande" sono prioritari e normativi rispetto all'attiva convivenza nella "città piccola".E non si pongono in discussione leggi e istituti di città "piccole": si valuta esclusivamente il comportamento morale dei cittadini per verificarne la compatibilità o meno con la presenza fattiva del sapiente.Nel secolo in cui tutte le filosofie si presentano quali antropologie, il filosofare di Seneca non poteva non imperniarsi sull'uomo e non tradursi, a sua volta, in antropologia.Nel discorso, così ampliato, rimangono due componenti romane di ascendenza ciceroniana, ovviamente rivedute e ridimensionate.Anche per Seneca, la prima operatrice è la volontà dell'uomo (9), anche per Seneca il concetto di virtù non è ricavato da quello di sapienza, ma se ne stacca e si esalta, quale dinamicità del cammino verso la meta sapienziale.Soltanto sul traguardo, i due termini ridiverranno convertibili.Da Cicerone, Seneca riprende l'invito rivolto all'uomo a ricercare all'interno del proprio io la determinazione all'agire morale e i traguardi proposti alla moralità.Ma il discorso di Seneca è impostato su altre basi.Poiché il problema della forma istituzionale politica è soltanto uno dei tanti problemi scientifici, esso presume nel soggetto, come tutti i problemi consimili, esclusivamente il primordiale possesso di vocazione sapienziale (10).Su quest'ultima, Seneca imposterà il suo tentativo di rendere il fatto morale relativamente autonomo da quello sapienziale, e s'esprimerà in termini di distinzione tra "sapienza" e "amore della sapienza" (11) o con il ricorso alla distinzione, equivalente, tra la figura ideale del sapiente e quella storica dell'aspirante alla sapienza.La dotazione iniziale dell'uomo, o la sua innata vocazione al sapere, è talvolta giustificata teologicamente: l'uomo è d'origine divina; tutti gli uomini condividono la medesima nobiltà di vocazione al sublime (12), talvolta è dedotta dalla constatazione di compresenza nell'uomo di ignoranza e passionalità, da un lato, e sete di sapere e di purificazione, dall'altro.Per completare il superamento dell'orizzontalità predominante nella concezione ciceroniana, Seneca rielaborerà il concetto di libertà.Cicerone aveva conosciuto soltanto i due poli estremi della libertà umana: il libero arbitrio, inteso quale capacità individuale di scelta e autodeterminazione, e la libertà politica, com'era garantita dall'ordinamento repubblicano.Per Seneca, il concetto di libertà dev'essere identificato all'interno dell'antitesi materiaspirito, quale conquista progressiva di spiritualità.E poiché la meta del cammino è la definitiva liberazione dell'anima dalle "catene del corpo" (13), non è possibile avviarsi alla virtù, se non si sono, dapprima, debellate le passioni.Anche Seneca approda, come Cicerone, nel sovvertimento del rapporto sapienzamoralità.Se l'itinerario morale è ascendente e la vocazione umana è vocazione sapienziale, la sapienza può esser soltanto punto d'arrivo, non di partenza, della moralità.Seneca non sa esattamente se collocare quel traguardo nella storia o fuori di essa.Per lui è teoricamente possibile, ed alcune sue pagine lo affermano chiaramente, che l'uomo possa arrivare a porsi gli ultimi problemi del sapere anche sulla terra.Affermazioni come: la virtù non chiede altro che la virtù (14) sembrano chiuse ad ogni sbocco estrastorico, e par possibile all'uomo rispondere, durante la sua vita terrena, alla lunga serie di quesiti sulla natura e sul cosmo, enumerati in "Ot." 4,2 e 5,8.Altrove (15), anche Seneca colloca nella seconda vita la possibilità di risposta ai più raffinati quesiti sulla natura.Ma dovunque sia collocato l'esito, per Seneca non si opera perché si è sapienti: si diventa sapienti operando.

Gli intermediari e la religio senecana.Seneca si proclama stoico di stretta osservanza e rivendica il diritto di interpretare, con metro personale, il messaggio stoico, anche dissentendo, seppure parzialmente, dai più recenti maestri dello stoicismo e da alcuni stoici contemporanei.Si suol cogliere, quale indizio di codesta sua autonomia, la diversificazione del suo atteggiamento nei confronti di Epicuro e dell'epicureismo. Al maestro, Seneca dà atto di serietà d'impegno e d'irreprensibile onestà di vita (16).Contro la filosofia del piacere e le degradazioni cui l'hanno condotta i suoi volgari seguaci, egli utilizza l'intera topica, ormai consueta, della polemica stoica.Seneca identifica abitualmente la tradizione stoica nell'insegnamento dei tre grandi maestri, Zenone, Cleante e Crisippo:

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lo considera un tutt'uno e vuol riportarlo all'originaria freschezza e semplicità.Le sue riserve s'appuntano più volentieri sui maestri di più recente memoria, su Panezio, ben raramente citato e utilizzato, e su Posidonio, che nomina, è vero, accanto a Crisippo e definisce attento coglitore dei valori dell'umano vivere (17): ne utilizza, ad esempio, l'affermazione che le arti liberali sono "libere", perché si occupano della virtù.Ma Seneca non condivide con Posidonio né la propensione al filosofare ad ogni costo, né la cura di spezzettare l'insegnamento in norme pratiche.Questo atteggiamento, come separa Seneca dagli intermediari dello stoicismo tradizionale, così lo contrappone alle scelte del contemporaneo Musonio Rufo.Esso rientra, e questo ci sembra un aspetto qualificante dell'autonomia senecana, nell'ambito di una pregiudiziale di rispetto per la vocazione di ciascuno a predisporre il proprio cammino verso la virtù, a tener conto, autonomamente e concretamente, della propria indole, fattore non modificabile (18), e delle situazioni pratiche dell'agire.Negli scritti di Seneca, si colgono anche espressioni affatto inconciliabili con lo stoicismo, che certamente risentono dell'influsso di correnti spiritualistiche, quali furono il pitagorismo e la media accademia, o comunque apertamente professanti la trascendenza, come l'aristotelismo.Il problema dell'identificazione dei singoli mediatori è ancora aperto.Se, tra i pitagorici possiamo elencare Varrone e la scuola dei Sestii, è ancora a livello di attendibile congettura, nell'ambito della media accademia, la proposta del nome di Eudoro d'Alessandria (19); incertezze ancor maggiori incontra chi voglia identificare i portatori del nuovo aristotelismo.Seneca non assistette passivamente al riemergere delle due grandi categorie, dello spirito e della trascendenza, che caratterizzò la filosofia di quel secolo e tanto largamente influì sul pensiero dei secoli successivi.La sua pregiudiziale opzione per lo stoicismo, la saldezza della sua adesione ad esso, la sua peculiare esegesi della razionalità gli impedirono di far propri, senza riserve, quei valori.Ma, nel fondo della sua anima, viveva una religiosità, un'apertura ad accogliere istintivamente, senza mediazioni critiche, tutto ciò che risponde ad una esigenza profonda.Se quei valori, per lui, non possono essere ripensati e dimostrati né, tanto meno, innestati nel sistema stoico, essi peraltro non compaiono nelle sue opere per pura e semplice adozione di un linguaggio di moda.Seneca accentua, è noto, e anche in ciò s'allontana dallo stoicismo tradizionale, la contrapposizione animacorpo.Ma il suo esprimersi in termini di contrasto tra virtù e carne (20), non può non ricondurci ad un misticismo di matrice platonica.Alla medesima matrice, risale il ripetuto incoraggiamento: Dio ti è vicino, è dentro di te.Uno spirito sacro risiede in noi ed osserva e tiene segnate le nostre azioni buone e cattive (21) Non siamo, certamente, all'esplicita demonologia medioplatonica (22), né abbiamo quanto basta per annoverare Seneca tra gli spiritualisti.E" uomo che crede in quanto afferma perché lo sente rispondere ad una sua esigenza, che, peraltro, non analizza.Parimenti, egli non soltanto difende apertamente l'immortalità dell'anima e ne imbastisce una dimostrazione fisica "per somiglianza", ben collocabile nell'ambiente stoico (23), ma anche si chiede, con i platonici e i pitagorici, se l'anima non deriva dal fuoco astrale e dallo spirito divino (24), e parla dell'ingresso dell'anima nell'aldilà con l'immagine mistica, o gnostica, della "seconda nascita" (25).Infine, e ciò dimostra il carattere fideistico, non teologico, della sua "religio", egli detta così la "regula credendi": Il primo culto degli dèi è credere negli dèi, nella loro bontà, e sapere che governano il mondo (26).Il suo credere, in fondo, è una purezza di cuore quale Anneo Cornuto, altro illustre stoico contemporaneo, aveva istillato nel giovane poeta Persio.Ma è una fede, che la "ratio" di Seneca non vuol dotare di alcun supporto.Il metodo.Il filosofare è definito, anche nello stoicismo, quale retto uso della ragione.Il termine "ragione" è però equivoco, polivalente.Seneca professa una razionalità superiore, data come sussistente, che s'identifica con Dio o con il cosmo.Essa infatti è esprimibile anche come "ordine", "ordo", termine più tecnico, al quale, nel discorso morale corrisponde, a sua volta, la parola "virtù".La razionalità strumentale è invece la somma della dialettica e della retorica.Quest'ultima, accolta dagli antichi come strumento di esplicazione e comunicazione del logico, introduce nel loro argomentare forme paralogiche, non accette alla moderna sensibilità critica.La molteplice attività di scrittore e studioso condusse Seneca ad interessarsi ampiamente di scienze naturali.Sappiamo che egli non poté realizzare il suo desiderio di compilare una sintesi dell'umano filosofare, nella quale quelle scienze sarebbero entrate come "filosofia naturale" (27), ma più volte egli postulò la necessità d'addurre l'esatta conoscenza dei fenomeni fisici, quale premessa dello studio sulla razionalità del cosmo.Il suo interesse per la scienza non è, dunque, un semplice allineamento col rifiorire contemporaneo dello studio delle scienze naturali: risponde a inderogabili esigenze metodologiche.Seneca, come peraltro la scienza del tempo, ignora, o quasi, il metodo induttivo, ma fa largo uso della deduzione.Nelle questioni fisiche, il passaggio dal dato osservato alla deduzione avviene mediante il processo dialettico: con quel processo, Seneca interpreta, ad esempio, nelle "Naturales quaestiones", i terremoti e, nel "De ira", la fisiologia, la sintomatologia e la patologia della passione.Ma quando la problematica investe, contemporaneamente, molteplici sviluppi del filosofare, Seneca premette al processo dialettico altre scelte, ritenute ugualmente valide dal mondo antico, ma mutuate dalla retorica, più atte quindi a

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costruire un sistema omogeneo e coerente, che a garantirne criticamente la validità. a) L'ANALOGIA.Nel mondo antico, molto sensibile alla coerenza interna del discorso, l'analogia è regolarità, ubbidienza a una legge.Attinge la sua validità dal presupposto che la razionalità sia ordine, retta distribuzione di parti, ricorrenza di modelli identici, nei vari livelli del discorso.Il proemio dell'attuale Libro Primo delle "Naturales quaestiones" segna, in apparenza, la traccia di un "itinerarium mentis in Deum".Ma l'uomo senecano, che contempla la terra, realtà piccina e caduca, il cui possesso è conteso da dissennati mortali intenti esclusivamente a combattersi, s'è levato d'un balzo alla sommità del cielo.Osservando il cosmo, osserva se stesso e scopre, per analogia, d'essere un microcosmo inserito in un macrocosmo.Come nel cosmo grande si notano un agente supremo, Dio, un'attività mediatrice, la natura operante, e un livello infimo d'inerzia, la materia, così nell'uomo si configurano, allo stadio sommo, la razionalità, a livello intermedio, l'anima, ed a livello infimo, la materia.Proseguendo il discorso (28), Seneca annoterà che la parte migliore di noi è l'anima, mentre Dio è tutta anima, ma l'osservazione appartiene ad altro sviluppo, e il termine "anima" è ivi inteso come "razionalità".Nell'analogia trovano spiegazione, non giustificazione, alcune aporie della terminologia senecana e, talvolta, la equivocità stessa del suo linguaggio.Il raffronto tra le "Epistole" 106 e 65 (29), permette di rintracciare un'altra versione dell'analogia cosmica tripartita.Dio, ivi, è azione, pura attività, la materia è inerzia, pura passività.Tra i due estremi opera un fattore prevalentemente dinamico, che non è però l'attività pura: la corporeità.Tanto discussa, soprattutto per la sospetta inclusione di materialità, la corporeità di Seneca, della quale è partecipe anche l'anima umana, vuol dare evidenza al concetto di dinamicità fisica o temporale.Anche le note antitesi senecane rimangono esclusivamente tali, se considerate singolarmente, ma si rivelano risultati di procedimento analogico, se considerate per gruppi o per serie: razionalitàirrazionalità, ad esempio, e ordinecaos, oppure, virtùvizio e libertàschiavitù.b) L'ASTRAZIONE COME SEMPLIFICAZIONE.Il procedimento astrattivo senecano non è completo: non sfocia, di norma, in un concetto e non ne postula l'universalità.E" soltanto, ed in ciò rimane consono ai criteri metodologici propri dell'antico stoicismo e dell'epicureismo, un sussidio per concentrare l'attenzione su un solo aspetto della realtà presa in esame: sull'aspetto che si ritiene più atto agli sviluppi del discorso.Ne deriva, prima di tutto, un limite astrattivo.Poiché il discorso liberatorio di Seneca si risolve in una ascesa dal temporale al nontemporale, per il filosofo, abitualmente, basterà astrarre dalla temporalità od occasionalità del fatto esaminato, oppure, rovesciando il procedimento, dichiarare il fatto non degno d'attenzione, appunto perché confinabile nel temporale o nell'occasionale.Merita d'essere assunto a categoria morale ciò che conserva sufficiente "pensabilità", dopo che s'è fatta astrazione dalla temporalità.Ulteriori approfondimenti dell'analisi dell'atto, per lo più, mancano perché pregiudizialmente ritenuti non necessari.Accade quindi che il termine, non analizzato, venga chiamato a dar ragione di se stesso, come in "Ep." 89,8: La ricerca della virtù non può passare che attraverso la virtù.Altrove, molte voci saranno date per equipollenti, soltanto perché sottratte al limite del temporale, del provvisorio.Si veda, ad esempio, la pagina di "Naturales quaestiones" 2,45,2, in cui sono elencate le possibili denominazioni di Dio (fato, provvidenza, natura) e che ispirò una delle più vive pagine di Tertulliano (30).Dall'incompletezza dell'astrazione senecana derivano le maggiori difficoltà che s'oppongono al tentativo dello studioso d'oggi di esporre sistematicamente il pensiero del filosofo.Non è possibile, ad esempio, dire se il Dio di Seneca s'identifica con il mondo o si distingue, e in che modo, da esso, poiché tutte le denominazioni proposte sono sufficientemente pensabili, nessuna è ben delimitata, esattamente definita.c) LE ANTITESI.Seneca è stato presentato come l'uomo delle antitesi (31), biografiche le une (professante virtù e vizioso), metodologiche le altre (antidialettico e dialettico, ad esempio).Altre antitesi sembrano contrassegnare i contenuti del suo pensiero: ora egli afferma che non è giusto riversare sui tempi la colpa del dilagare dei vizi, perché l'uomo è vizioso per natura; ora, che tutti gli uomini, ricchi o poveri, schiavi o liberi, nobili o volgo, sono ugualmente saggi.Oppure: che tutti gli uomini sono peccatori, reali e potenziali, e che a tutti la filosofia insegna a ben vivere e, soprattutto, a ben morire.Queste ultime antitesi sono meglio assegnabili alla dialettica di Seneca che ai contenuti del suo pensiero.Egli teme e detesta la riduzione della logica ad esercizio dialettico e vuol continuamente fornire gli estremi entro i quali, a vario livello, il filosofare può porsi come mediazione assennata.Già si accennò all'utilità di vedere, nei gruppi di antitesi senecane, altrettante serie di analogie.Ma in tali serie non entrerebbero tutte le antitesi: talvolta, dietro le apparenze, si scopre la carenza di antiteticità.Seneca si limita a prospettare, a paragone d'un dato storico problematico, un postulato prelogico o sovralogico, non contraddittorio con la realtà esaminata.d) I POSTULATI.In "Ep." 94,38, Seneca polemizza con Posidonio.

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Il maestro greco sostiene che, alle leggi, non dovrebbero giustapporsi dei prologhi che ne chiariscano gli intenti.Per Posidonio, la legge è legge e basta, una norma imperativa che domanda ubbidienza, senza spiegazioni.Seneca sostiene che il chiarimento e l'esortazione sono sempre utili; egli però li colloca a livello intermedio, didattico e psicologico, non probativo, e lascia intatta la postulazione di decreti sommi e assoluti, che debbono essere validi anche per gli stolti.Al postulato, Seneca ricorre anche ogniqualvolta il dato sperimentale denuncia il limite del conoscibile.Alla domanda: perché Giove, con il suo fulmine, colpisce anche i buoni?, Seneca risponde schematizzando due piani di razionalità: quella umana, verificabile, e quella divina, razionale quanto l'umana, ma insondabile (32).La seconda è meramente postulata, collocata in un indefinibile "sovrarazionale".e) GLI SCHEMI.Fedele al suo programma di fornire al discepolouditore i capisaldi di partenza e d'arrivo del cammino morale, Seneca si preoccupa del pericolo insito nella mediazione: essa non deve divenire fine a se stessa.Ritiene dunque che il richiamo ai valori sia prioritario, al punto di giustificare l'espunzione dal filosofare di tutte le mediazioni tecniche di cui vive l'umana e quotidiana esperienza.Ne consegue il suo "habitus" di ridurre a schemi essenziali i precetti relativi ai vari settori del filosofare, schemi che comportano l'abolizione dell'intermedio.In tema di religiosità, ad esempio, una volta affermato il dovere primordiale di credere, delimita il più possibile, e degrada a superstizione, le forme mediatrici della ritualità (33).Così egli dichiara impossibile analizzare tutte le situazioni e formulare mille regoluzze dell'agire (34), anzi, giunge a porre in caricatura Posidonio per aver ammesso che le "artes", le varie invenzioni tecnologiche, fungessero da mediatrici tra l'uomo e la natura (35).Questa è una schematizzazione che potrebbe elencarsi tra le antitesi.Altre, che intendono premunire il discepolo dal pericolo di naufragare nella dialettica, sconfinano nel semplicismo metafisico.Per lui, ad esempio, il problema della causalità si riduce all'identificazione di un agente da contrapporre all'opera (36).Le analisi di Aristotele o di Platone, proponenti quattro o cinque cause, peccano per eccesso e, paradossalmente, per difetto.E aggiunge (37), unificando causa e ragion sufficiente, che la sola causa esistente è il principio razionale producente, cioè Dio.La medesima riduzione allo schema semplicissimo di "operanteoperato" si ripete in una definizione di sapienza: conoscenza di tutto il reale, umano e divino.Poiché qualcuno aggiunge: e delle cause dell'umano e del divino, Seneca ribatte che la postilla è superflua, perché le cause dell'umano e del divino sono insite nel divino (38).Non sembra avvertire che l'incasellare nel divino il problema della causalità non significa affrontarlo.

Tra fisica e metafisica.Seneca condivide la configurazione cosmica sferica e tripartita che fu accettata dalla maggior parte delle scuole filosofiche dell'antichità: il mondo è un insieme sferico, composto di tre zone concentriche, delle quali l'esterna è la sfera celeste, l'intermedia è la sfera aerea, sede dei fenomeni meteorologici, l'infima e centrale è la terra, la parte più pesante e più inerte.Su tale configurazione si modellavano, ed è noto, anche i numerosissimi schemi tripartiti del sapere (sommomedioinfimo), che riproponevano l'equivalenza tra razionalità e ordine.Altri problemi cosmologici, in Seneca, rimangono marginali e accessori, rispetto al vero e proprio problema fisico: è prevalentemente dialettico, ad esempio, il chiedersi se il cosmo confini con il nulla o se sono ipotizzabili altri cosmi (39).Quando la medesima ipotesi è prospettata come possibile successione di nuovi mondi al dissolvimento dell'attuale, è evidente che l'autore si limita a dare per scontato che tali nuovi mondi ubbidirebbero alle leggi della razionalità e dell'ordine.Infine, la prospettiva dell'annientamento finale apocalittico (40) rimane un espediente, inteso a conferire al mondo una soggezione al dinamismo provvidenziale, più accettabile di quella che si potrebbe attribuire ad un cosmo eterno.Non è di per sé cosmologica, è meramente geologica, la discussione abbozzata in "Ot." 4,2, e ripresa in "Nat. quaest." 6,24, sulla compattezza o meno della materia terrestre.In Seneca, e nel suo presumibile discepolo, autore del poemetto "Aetna", non s'imposta un discorso contrapponente gli estremi "corpo" e "vuoto": ci si limita a cercare la spiegazione di fenomeni endogeni.Sappiamo che non è possibile ricostruire organicamente una metafisica senecana.E" però possibile estrarre alcune "valenze metafisiche" del suo pensiero, più sovente presenti in forma d'antitesi, talora in forma di complementarietà, attorno alle quali si snoda il suo studio della natura.Dobbiamo però, ancora una volta, tener conto dell'equivocità del linguaggio di Seneca: anche i termini "Deus", "ratio", "ordo", "tempus", "natura" sono da lui usati in accezioni diverse.Il concetto senecano di "essere" si rivela più vicino all'ordine logico che a quello metafisico.Potrebbe dirsi che, per Seneca, è essere tutto ciò che è proficuamente pensabile.E, con "proficuamente", intendiamo: "con utilità del pensante uomo".Ciò comporta l'attribuzione aprioristica all'essere della caratteristica interna della razionalità, mal definita, però.

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In essa si riscontrano, a seconda dei casi, i caratteri di "pensabile", "esemplare", "produttivo".Il pensabile è tale esclusivamente in ordine a future deduzioni.Ne deriva, da parte del filosofo, l'uso promiscuo dei termini Dioragioneordine, per enunciare il supremo grado astrattivo di essere, contrapposto al nullacaos, inteso, a sua volta, come "non pensabile".Il raffronto tra l'uso senecano di corporeo e di "noncorporeo" conferma che la concezione dinamica di "corporeità" apre la via alle successive deduzioni logiche, mentre la concezione statica di "incorporeità" è soprattutto esemplare, e dà luogo alla possibilità di raffronti analogici, o con gli esistenti che cadono sotto la quotidiana esperienza, o con quelli la cui esistenza è affermata per deduzione.Al polo opposto, Seneca colloca la materia, che potrebbe dirsi "meramente enunciata".E" certamente diversa dal nullacaos, esiste, è "qualcosa", ma nulla la qualifica, perché totalmente passiva, inerte, improduttiva.Essa ci permette di distinguere una seconda componente essenziale della fisica senecana e neostoica: la "qualità", intesa da Seneca eminentemente come capacità operativa.Se Seneca negal'operatività alla materia, se ne deve dedurre che, per lui, sono distinguibili e separabili il "qualcosa" e il "quale", ma che il "qualcosa" non merita considerazione, se la compresenza del "quale" non lo rende o logicamente o esemplarmente, o dinamicamente, produttivo.Il sommo grado del "quale", in Seneca, prende il nome di "natura".La contrapposizione tra essere e nonessere, che assume, in morale, la denominazione antitetica di "benemale", divide verticalmente tutto il cosmo senecano e ne contrassegna le stratificazioni intermedie.La provvidenza, ad esempio, è concepita operante esclusivamente sul versante "esserebene morale", non sul versante "non esseremalepeccato".La fatalità o provvidenzialità è in tangenza con la linea scelta dall'operante, qualora ne derivi o la situazione favorevole, ottimale per l'agire ("kairós") o, almeno, un movente all'esercizio della virtù (prova, sofferenza); è invece cieca "sors", fortuna avversa, con aspetto prevalente di irrazionalità e imprevedibilità, quando non si riesce a cogliere il nesso tra il suo agire e l'ordine provvidenziale.Nel versante "bene" si collocano, di conseguenza, anche l'affermazione: gli dèi non possono nuocere (41), la soggezione di Dio al fato, intesa come coerenza di Dio con se stesso (42), e la raffigurazione della vita futura, quale conoscenza e tranquillità (43).A livello intermedio e infimo, l'essere di Seneca è contrassegnato dalla temporalità e storicità, ridotta a forme di sperimentabilità.Il tempo è nostro afferma Seneca (44).Il "tempo" è talvolta presentato come il contorno delimitante l'oggetto iniziale dell'indagine, altrove è l'intera vita umana, quale occasione di approfondimento del conoscere.Seneca si disperde volentieri in superflue catalogazioni delle occasioni temporali (giorno, mese, anno, epoche della vita), per ribadire il concetto di tempooccasione di conoscenza.Ma appunto perché il tempo è essenzialmente limite e contorno, esso finisce col divenire ostacolo allo sbocco verso la vera conoscenza.Già si osservò che l'astrazione, per Seneca, si risolve nel prescindere dalla categoria tempo. Di fatto, gli estremi del suo procedere sono il conoscibile, cioè il temporale, e il conosciuto, cioè l'atemporale.

L'antropologia e la Psicologia.Ne deriva, ed è questo il primo aspetto dell'antropologia senecana, il sovvertimento dell'impianto ciceroniano di filosofia della storia.S'è già detto dell'economia e degli sbocchi del discorso ciceroniano.Seneca ne rovescia addirittura l'ottica.Lo Scipione ciceroniano, ad esempio, si presenta dotato di quel bagaglio di imprese militari ("virtus") e di fama ("gloria"), che lo rende immortale.E" già personaggio, figura emblematica, prestata occasionalmente al tempo fittizio del dialogo, con le sole connotazioni che le sono divenute proprie dopo la sua uscita dal tempo.E" figura "classica", già definita, equilibrata e perfetta, che deve confermare l'estratemporalità delle dottrine esposte.Per Seneca, storia significa primariamente cronaca, realtà sperimentata in tutti i suoi aspetti.Il suo uomo è concreto; non può non accettare in partenza, insieme con la propensione all'infinito, la realtà delle sue passioni, dei suoi limiti e dei suoi difetti.Sapersi uomini nella provvisorietà e nel limite è la prima presa di coscienza storica.Sopravvive, nel discorso senecano, la figura dell'uomo ideale, incarnata in Socrate o in Catone, ma con doppia riserva: di credere che l'uomo esemplare non è mai esistito sulla terra, e forse non esisterà mai, e che vale la pena di perdonare a Socrate la pederastia e a Catone l'ubriachezza.Una vera e propria dottrina del conoscere, una gnoseologia, in Seneca non c'è.Riportato l'uomo nel tempo e nella concretezza, egli ne delinea una psicologia, della quale sono componenti basilari, tendenzialmente opposte, ma conviventi, la "opinio" e la "ratio".La prima è una putatività tendenzialmente passiva, timorosa dell'ignoto, matrice dell'umano soffrire.Dalla putatività dell'ingiuria, sgorga l'ira; da quella del pericolo, il timore: è pagina esemplare, in merito, il racconto

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senecano d'un viaggio, punteggiato di inconsistenti timori, attraverso la buia galleria di Posillipo (45).La putatività di mali durevoli o definitivi, come la povertà, l'esilio, la schiavitù, la morte, provoca una sofferenza che permane anche dopo la mediazione della "ratio" (46).La putatività è dunque il riverberarsi nella psiche del senso dell'umana fragilità e del timore dell'ignoto.In più, l""opinio" tende a dilatare il pericolo e ad ingigantire il timore (47).La "ratio", di contro, è fattore rasserenante, illuminante, giustificante.In sede psicologica, propedeutica quindi alla morale, essa ha il compito di fornire all'uomo ciò che riporta alla giusta proporzione il temere e il soffrire, dilatati dalla "opinio", sebbene non possa abolirli.Il suo procedere, nel caso, consiste soprattutto nel ricondurre dentro l'alveo della legge di natura le deviazioni dell""opinio".Allo scopo, Seneca formula un postulato metodologico: non è possibile conoscere se stessi, se non si conosce il mondo (48).Seneca fa proprio l'ampliamento delle competenze dell'animo ("nous"), già proposto dalla scuola stoica.Coinvolto nel "páthos" e ancorato verso l'alto, alla razionalità, l'animo ha il compito di farsi guida dell'uomo ("hegemonikón"), per condurlo costantemente dalle incertezze dell""opinio" all'equilibrio e alla serenità dello spirito.

La morale: volontà e coscienza.La psicologia di Seneca vuol essere una descrizione essenziale delle possibili reazioni dell'uomo di fronte alla realtà.La sua morale vuol condurre l'uomo ad una accettabile convivenza con la realtà stessa, una convivenza che salvaguardi il primato dell'umano sul nonumano.Basata su premesse psicologiche, la morale di Seneca avrà quale ambiente preferenziale, non però esclusivo, l'io, l'interno dell'io.Seneca, tanto prodigo nei suoi scritti di esemplificazioni e di descrizioni, non evita la casistica, ma non vuole che essa sposti l'asse della moralità dall'agente all'azione.Confinato fuori della storia, se non abolito, il concetto di perfezione e il modello di perfetto sapiente, Seneca riconoscerà, in se stesso e nell'uomo, non solo l'aspirazione alla sapienza, ma un innato, irrefrenabile bisogno di muoversi verso essa: Come la fiamma balza verso l'alto, e non le è possibile né giacere e lasciarsi deprimere, né fermarsi, così il nostro animo è in movimento, ed è tanto più agile ed attivo, quanto maggiore è il suo impeto (49).L'impostazione del problema morale non può risolversi che nell'evidenziare, tra i fattori della moralità, quelli che appartengono specificamente all'agente umano.Seneca attribuisce la qualifica di umano a quel soggetto per il quale la razionalità non è soltanto intrinseco carattere dell'essere: è anche capacità di coscienza, di affinamento, di acquisto.Per converso, il nonumano è, per lui, l'oggetto, il fatto, in quanto non è razionale (l'istintivo, l'imprevedibile, il fortuito), o condivide la razionalità cosmica per mera e statica esemplarità.La moralità è dunque un insieme, contrassegnato da esperienze iniziali, intermedie e finali, che Seneca però non ama vedere in successione cronologica: egli ben conosce il contemporaneo emergere nell'esperienza umana della sintomatologia dei tre stadi.Principi, intenti e aspirazioni somme, nell'agente senecano, si confrontano continuamente con le esperienze apparentemente più contraddittorie.Vivere moralmente deve quindi ridursi, in versione elementare, al saper riconoscere la positività del proprio intento, anche quando tutto sembra smentirla.L'agire morale è, primariamente, determinazione della volontà.Di questa, ancora una volta, Seneca si limita a constatare la presenza fattiva e la validità intrinseca, ma rifugge dal formulare una definizione.Preferisce descriverne gli aspetti salienti, senza temere di sconfinare nel postulato dogmatico o nell'illusione ottimistica.Per volontà, Seneca intende l'impulso innato ad agire per il bene.E" impulso, perché egli non crede possibile dimostrarne o descriverne l'origine.Non potrai presentarmi nessuno, egli scrive a Lucilio che sappia dirmi come ha cominciato a volere. (50) Che tale impulso meriti il nome di volontà soltanto se è orientato al bene, è dato implicito in tutto il discorso senecano.La determinazione al male, infatti, non è per lui, propriamente, frutto di volontà, ma conseguenza di fattori quali lo smarrimento, la passione, l'inerzia, la crudeltà.La possibilità di giudizio morale dell'atto cattivo viene ricuperata mediante la psicologia: anche quei fattori coinvolgono l'animoguida ("hegemonikón") e comportano perciò responsabilità morale.Analogamente, l'affermazione che gli dèi non possono nuocere, perché non possono voler nuocere (51), sembra riposare maggiormente sull'inscindibilità del rapporto tra volontà e bene, che non sulla contrapposizione entitativa tra il concetto di divinità e quello di male (52).Ne consegue l'attribuzione aprioristica alla volontà del carattere di fattore etico autonomo e sufficiente: Per essere buono, che cosa ti occorre? Il volere (53).Potrebbe sembrare che ci s'accontenti del minimo d'impegno, ma Seneca professa una componente "graziosa" e largitoria del volere: il beneficio.Tutto il trattato "Dei benefici", il più ricco di minuziose casistiche, si basa sul presupposto che il volere debba spontaneamente riversarsi sugli altri, in largizione gratuita di bene.Se esaminata come fattore cosciente e razionalmente operante, fuori quindi del dogmatismo del postulato iniziale, la

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volontà assume l'aspetto di intenzionalità e chiama in causa la coscienza.Dobbiamo annotare che il concetto di coscienza, nella Roma di Seneca, s'era allontanato dall'originaria significazione greca di "visione d'insieme", di panoramica della realtà morale ("syneídesis").Ne era stato accentuato, anche puntando sulla pregnanza del termine latino "conscientia", l'aspetto di "vedere con", con se stessi, ovviamente, in funzione dell'assunzione di responsabilità.Seneca afferma che ogni crimine, indipendentemente dalla sua esecuzione, è già tale, moralmente, al maturare dell'intenzione di compierlo (54).E, per converso, che il proposito di dedicarsi al bene è già lodevole, anche indipendentemente dai risultati raggiunti (55).Ma egli avverte la diversa dimensione delle due affermazioni.Il bene è molto più impegnativo del male: l'intento del bene non può correre il rischio d'esaurirsi nella formulazione del proposito.Perciò egli circonda la volontàintenzionalità di un "habitus animi", un contesto di virtuosità, indispensabile perché la volontà rimanga tale, cioè volta al bene.E le prescrive d'orientarsi verso le leggi universali della razionalità, che egli chiama decreta, espressione dei valori morali sommi (56).Il volere e l'eticità hanno quindi anche un riferimento obiettivo, esterno all'io.Ciò che Seneca esclude, è che tale riferimento possa esaurirsi nell'analisi dei singoli atti, senza aprirsi alla contemplazione dei valori: nemmeno Dio si cura di atti singoli degli uomini (57).Alla coscienza, Seneca assegna, in primo luogo, il compito di giudice, restitutore della giustizia.Anche la coscienza è un fatto innato, inevitabile.Il malvagio, lo scellerato colpevole di delitti ne sarà punito soprattutto da quel senso di timore, terrore, ripugnanza a rientrare in se stesso, che la coscienza fatalmente fa seguire al delitto (58).L'uomo buono, invece, sa parlare con la propria coscienza per scoprire gli intenti più profondi e i moventi più reconditi del proprio agire (59).L'esaminarsi è tirare un bilancio, fermare il tempo.Pronunciare un giudizio su se stessi, è anticipare il giudizio definitivo che sarà emesso dalla morte (60).La coscienza non è soltanto giudice del male: l'impianto morale senecano è prevalentemente costruttivo.L'impegno a fare il bene è il vero dovere dell'uomo.Il suo colloquio con la coscienza gli procurerà soprattutto i suggerimenti pratici, l'avvedutezza del fare il meglio.

La libertà come acquisto.Nella Roma del Primo secolo dopo Cristo, lo stoicismo è più diffuso dell'epicureismo.Professarsi epicureo significava anche vantare, o presumere, una perfezione già raggiunta a livello morale e sapienziale (61) oppure a livello sociale ed economico.Nella sua versione più volgare, l'epicureismo era la filosofia degli arrivati, una scelta che comportava il diritto di ignorare l'altra metà del mondo (62).Lo stoico, invece, accetta serenamente di vivere in qualunque condizione, purché moralmente qualificata.Accanto ad un nobile epicureo, non sapremmo come collocare uno schiavo epicureo; la storia annovera, tra i maestri dello stoicismo, lo schiavo Epitteto, accanto all'imperatore Marco Aurelio.E" l'aspetto più sorprendente della vitalità diffusiva del messaggio stoico, ma non ne è l'essenziale: la sua vera vitalità è da ricercarsi nel carattere di educazione, di "paideía", che conferiva all'adesione a quella filosofia il tono di umiltà e di impegno.Lo stoicismo fu, fin dalle sue origini, educazione all'acquisto e al godimento della libertà interiore; la versione senecana ravvivò la fredda ascetica di Zenone e Crisippo con la visione ottimistica del vivere umano e ne ampliò gli orizzonti, mediante una descrizione più credibile della presenza dell'uomo nella società.La libertà senecana presuppone, infatti, fiducia nella vita.Negli scritti di Seneca, non si trovano lirici inni alla gioia di vivere: codesta è una dimensione irreale, poetica, che Seneca ignora e che la Roma del tempo avrebbe immediatamente qualificato forma di evasione.Le sue tragedie sembrano, addirittura, ridurre la vita a dramma.Semmai, in Seneca, si ritrova la concezione religiosa del vivere, inteso quale dono di Dio (63).Per Seneca, liberarsi non è evadere, è convivere.Nelle sue pagine sono ricorrenti i temi del vizio, dell'umana sofferenza, dei condizionamenti e limiti di cui la vita fisica, la legge del morire, i beni materiali e addirittura le convenienze sociali aggravano l'animo: il filosofo prende le mosse da constatazioni realistiche.Ma quelle stesse constatazioni sono assunte a giustificazione della fiducia e dell'impegno ad accettare, di cui egli pervade tutto il suo insegnamento.Seneca ricorre spesso a similitudini ispirate alla vita militare e alle gare atletiche, ed è naturale: per lui, "libertà" significa, prima di tutto, disposizione a combattere, a misurarsi, sostenuti dalla fiducia che è possibile vincere o che, almeno, varrà la pena di essersi battuti.Significa credere che la vittoria è frutto della serietà della preparazione e della perseveranza nella lotta.Dall'osservazione realistica di tutti gli aspetti dell'umana esperienza, Seneca ricava il primo suo "valore" morale: vale la pena di vivere.

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Dal riassetto culturale, deriva la versione, non più spontanea, ma acquisita criticamente, dell'ottimismo e della fiducia senecani.Egli detesta i filosofi che menano vanto del loro filosofare, quei cinici, ad esempio, che ostentano squallore e povertà.Per contro, in certi suoi brani, egli sembra sconfinare in fredde, apatiche definizioni di tranquillità dell'animo, che denotano sprezzante orgoglio e mero senso di superiorità.Il suo atteggiamento, il comportamento che risalta dall'insieme delle sue opere, è ben diverso: è sinceramente vissuto, cosciente, umile, equilibrato.La cultura, intesa come criticità dell'apertura dell'animo all'interpretazione del reale, comprova l'enunciazione di un secondo principio metodologico o "valore" morale: ogni esperienza, al di là della sua giacitura storica, è trasformabile in acquisto.Spetta alla capacità elaborativa dell'uomo renderla tale.Il "distacco" di Seneca non è né freddo disprezzo, né vanto di perfezione.E" signorilità, padronanza, libertà da condizionamento.L'incoscienza e la passività si risolvono, in ultima analisi, in un rifiuto di prendere atto del reale, motivato dal timore di doverne perdere, o abbandonare, qualche componente.A volte, quel timore si nasconde dietro il nobile paravento della regola ascetica.La vita, allora, si trasforma in un tormento che è fine a se stesso ed è difforme dalla natura (64).E" tutto il contrario della libertà.La pace dell'anima, che Seneca cerca e suggerisce, consiste nell'acquistarsi una vera capacità di scelta.Ma non esistono, nell'esperienza umana, scelte veramente pure, astratte da qualsiasi contesto storico.Il processo liberatorio s'attua, via via che ci si sente in grado di trasformare in scelta, in accettazione serena, ogni situazione ed esperienza.Così Seneca elabora, ma anche abolisce, il concetto stoico di "indifferenti" ("adiáphora").A lui, non importa troppo che essi siano tali, o meno, per natura: gli importa che diventino tali, in quanto umanizzati e signoreggiati.Il discorso non si limita all'ambito del rapporto tra l'animo e la ricchezza o la carriera o, in versione contraria, la povertà, la malattia, la morte.Investe l'io, la capacità di sopportare se stessi, di riconoscere le proprie manchevolezze morali, reali o possibili che siano.Il "siamo tutti peccatori" proclama una pazienza che è comprensione e che, senza sacrificare i diritti della coscienza, riafferma che nemmeno la compresenza del male è motivo sufficiente a spegnere la fiducia dell'uomo nella validità dell'esperienza e nella possibilità di trasformarla in acquisto di bene.La condizione comune di peccabilità e mortalità, conviventi con l'aspirazione al bene, diviene, in Seneca, fattore accomunante.Egli non rifiuta di prendere atto che la socialità vanta ideali sublimi ed enuncia altrettanto sublimi valori, quali il senso della giustizia, il rispetto all'inviolabilità dell'individuo, il riconoscimento della funzione mediatrice della saggezza.Non rifiuta la classica socialità di stampo analogico, modellata sulla divina armonia del mondo.Ma non vuole proiettare nel mito della socialità un uomo sprovveduto e presuntuoso: non è possibile costruire una socialità che non si fondi sulla capacità di comprensione dei comuni limiti umani.Sul sottofondo dello spontaneo, invece, l'uomo si riconosce aperto ai suoi simili attraverso l'insieme degli affetti.I rapporti con i familiari e l'apertura all'amicizia sono insieme squisita donazione e fiduciosa attesa di corrispondenza.All'estremo opposto, al vertice metafisico, la meditazione sulla natura e su Dio aprono l'uomo ad una grandiosa visione d'insieme che configura la moralità sociale, da un lato, come superamento dell'egoismo, dall'altro come superamento della riduzione del fatto morale a semplice osservanza della legge.La nostra società è paragonabile alle pietre di volta d'un arco: sarebbe il crollo, se non si sostenessero, affiancate le une alle altre. (65) E: Non basta che una cosa sia morale, perché essa renda buoni i costumi (66).Nulla dunque, ed è il terzo canone dell'educazione senecana alla libertà, è valido, se non è tale anche per gli altri.

Conclusione.La morale liberatoria di Seneca può apparire una ascetica od una spiritualità, soprattutto a chi dedichi maggior attenzione a ciò che ricollega il filosofo agli altri rappresentanti della sua scuola e all'utilizzazione medievale dei suoi scritti, che non a ciò che caratterizza il suo ampio, personale ripensamento dello stoicismo.Dell'ascetica dei predecessori, di Posidonio in particolare, Seneca ripudia la riduzione della moralità a normativa d'esercizio.I suoi ammiratori medievali ebbero mano libera nel trasporre la sua filosofia sul terreno della spiritualità, alla quale potevano fornire premesse, sussidi e finalità squisitamente religiose.E" innegabile che lo stoicismo di Seneca muove, in parte, da premesse religiose, utilizza mediazioni religiose e legge, talora, in chiave religiosa le sue mete ultime.Ma già si osservò che la sua religiosità è fatto concomitante e complementare, e che egli non volle farne la componente fondamentale del suo filosofare.L'attenzione alla storicità, la perseverante ricerca di giustificazioni razionali e, soprattutto, lo sforzo costante di porre la filosofia quale mediatrice critica tra l'uomo e il reale, ci inducono a non dar corso ad alcun tentativo di trasformare il pensiero senecano in abbozzo o configurazione d'una spiritualità.

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Seneca si propose, e il suo sforzo riuscì solo in parte, di riportare lo stoicismo a vero livello filosofico, di contrapporre una precisa teoresi ai molteplici tentativi contemporanei di tradurre lo stoicismo in ascetica o in normativa morale spicciola.Purtroppo la sua lunga ricerca e la sua copiosa produzione non bastarono ad arrestare il processo di senescenza della scuola nella quale egli credette.Dopo la vasta utilizzazione del suo insegnamento da parte del Medioevo, la costante fortuna di cui godette nel Rinascimento e nel mondo moderno e contemporaneo, Seneca rimane il pensatore che seppe dare una risposta alla più profonda esigenza morale: quella del ricupero dei valori o del superamento del puro legalitarismo.La sua incrollabile fiducia nella positività dell'intento morale, l'aver relegato in secondo piano la valutazione dei risultati, l'aver saputo resistere tanto alla tentazione di sfiducia sgorgante dal fatto del peccato, quanto a quella d'avvolgersi in ottimismi ciechi, infine la sua attenta valutazione dei fattori morali di volontà, coscienza e libertà, conferiscono al suo discorso morale la vitalità che tutti i tempi gli riconobbero.E altrettanta vitalità gli derivò dall'aver aperto all'uomo, attraverso la sua lettura del fatto morale, una nuova possibilità di riconoscersi religiosamente.ALDO MARASTONI.

NOTE.Nota 1.Quintiliano, "Inst." 10,1,125-131.Nota 2.Quintiliano, "Inst.I prooem." 14-16.Nota 3.Ivi, 10,1,128-129.Nota 4.Seneca, "Tranq." 12,4-6.Nota 5.A. Traina, in Belfagor (1964), pp. 625 ss.Nota 6.Tacito, "Hist." 1 1.Nota 7. "Prov." 4,14.Nota 8.Seneca, "Ot." 4,1.Nota 9.G. Reale, "Storia della filosofia antica", IV, Milano 1978, p.Nota 10.Seneca, "Ep." 90,5 ss.Nota 11.Cioè "filosofia": "Ep." 89,14.Nota 12.Seneca, "Ep." 44.Nota 13.Seneca, "Helv." 11,6-7; "Ep. 65,21; 95,30.Nota 14. "Vita" 8,4.Nota 15. "Pol." 9,3.Nota 16. "Vita" 13, 2-3.Nota 17. "Ep." 104,22.Nota 18. "Ira" Il,19.Nota 19.G. Reale, "op. cit." IV p. 313.Nota 20."Virtuscaro: Ep." 90,10.Nota 21. "Ep." 41,2; in parallelo, si veda il concetto di virtùfiliazione divina, in "Prov." 1,5.Nota 22.Apuleio, "De deo Socratis" 15.Nota 23. "Ep." 56,8.Nota 24. "Ot." 5,5.Nota 25. "Ep." 102,24.Nota 26. "Ep." 96,30.Nota 27. "Ep." 89,9.Nota 28. "Nat. quaest.I prooem." 14.Nota 29, In particolare, "Ep." 65,23.Nota 30. "Apologetico" 17.

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Nota 31.M. Pohlenz, "Die Stoa.Geschhichte einer geistlichen Bewegung", I, Gttingen 1977 (4), pp 303-305.Nota 32. "Nat. quaest." 2,46.Nota 33. "Ep." 96,48.Nota 34. "Ep." 94,14-15.Nota 35. "Ep." 90,7 ss.Nota 36. "Ep." 65,4.Nota 37.Ivi, 23.Nota 38. "Ep." 89,5.Nota 39. "Ot." 5,6.Nota 40. "Mare." 24,6; "Nat. quaest." 3,30.Nota 41. "Ira" Il,27,2.Nota 42.Ubbidisce sempre, dopo aver comandato una volta per tutte: "Prov." 5,8.Nota 43. "Pol." 9,3.Nota 44. "Ep." 1,3.Nota 45. "Ep." 57,1-6.Nota 46. "Ep." 82,4.Nota 47. "Ep." 54,14: una affezione alle vie respiratorie ha fatto temere a Seneca la morte.Nota 48. "Mare." 11,3 ss.Nota 49. "Ep." 39,3.Nota 50. "Ep." 37,5.Nota 51. "Ira" Il,27,2.Nota 52. "Ep." 95,48-50.Nota 53. "Ep." 80,4.Nota 54. "Const." 7,4.Nota 55. "Vita" 20,1.Nota 56. "Ep." 95,57.Nota 57. "Ep." 95,50.Nota 58. "Clem." 1,13,3; "Ep." 97,15.Nota 59. "Ira" IlI,36,3; "Ep." 28,10.Nota 60. "Ep." 26,6.Nota 61.Come il suicida Diodoro: "Vita" 19,1.Nota 62. "Prov." 4,1.Nota 63. "Ep." 95,50.Nota 64. "Ep." 5,4.Nota 65. "Ep." 95,53.Nota 66. "Ep." 121,1.

NOTIZIA.CRONOLOGIA DELLA VITA DI SENECA.4 (?) avanti Cristo.Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova, da famiglia di ceto equestre.E" il secondo dei tre figli (Tac., "Ann." 16,17) di Lucio Anneo Seneca, retore, e della sua sposa Elvia.Il futuro filosofo è ancora in tenera età, quando la famiglia si trasferisce a Roma.Giovinetto, frequenta nell'Urbe filosofi di varia professione: lo stoico Attalo e i pitagoricisestiani Sozione e Papirio Fabiano.Quest'ultimo è anche oratore e retore.Dedicatosi con entusiasmo a severe pratiche ascetiche ("Ep." 108,13-14), Seneca è indotto dal padre ad interrompere gli studi.E" malato.16-19 dopo Cristo.Si reca in Egitto, presso una zia materna, sposata al prefetto Gaio Galerio.Ivi la malattia s'aggrava ed egli è premurosamente curato dalla zia.Rimpatria, forse nel 31, con la zia.Inizia la sua carriera di oratore e di uomo politico.Con l'appoggio della zia, ottiene la questura ("Helv." 19,2).Sale al trono Caligola, che detesta l'eloquenza di Seneca (Sveton., "Calig." 53), e manifesta la sua volontà di mandarlo a morte, per averlo sentito perorare con successo una causa in Senato.Ma una cortigiana convince l'imperatore che la malferma salute ben presto avrebbe portato Seneca alla tomba (Dio

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Cass., 59,19).Compone la "Consolazione Ad Marciam".Claudio è proclamato imperatore.Accusato, da Messalina, di adulterio con Giulia Livilla, Seneca viene esiliato in Corsica (Dio Cass., 60,8; 61,10).Nella solitudine, compone le "Consolazioni Ad Helviam matrem" e "Ad Polybium" e i tre libri "De ira".Torna dall'esilio.Per volere d'Agrippina, è nominato pretore e precettore del giovinetto Domizio Enobarbo, il futuro Nerone (Tac., "Ann." 12,8; Dio Cass., 60,32, 61,3; Sveton., "Nero" 7).Compone il "De constantia sapientis" ed il "De brevitate vitae".Insieme con il prefetto del pretorio, Sesto Afranio Burro, è consigliere di Nerone, novello imperatore.Compone per lui un discorso ai soldati e l'elogio funebre di Claudio, da recitarsi in Senato (Tac., "Ann." 13,2-3; Dio Cass., 61,3).Per Nerone, e forse anche per Britannico, scrive il "De clementia".E" di questo periodo anche l""Apocolocyntosis".Circolano voci ostili nei suoi confronti, ed egli tenta di confutarle nel "De vita beata".Un certo Publio Suillo l'accusa formalmente di arricchimento illecito, ma Seneca vince il processo e Suillo viene esiliato.La polemica nei suoi riguardi prosegue: chi lo vede porre un freno allo strapotere d'Agrippina (Tac., "Ann." 14,2; Dio Cass., 61,3-4) e chi lo dice ganzo dell'imperatrice (Dio Cass., 61,10).Molti lo rimproverano d'ambizione e di lusso smodato.Suscitano stupore le sue immense ricchezze avute in gran parte in dono da Nerone, e il possesso di case più sontuose e di giardini più vasti di quelli imperiali (Tac., "Ann." 14,51-52).Gli si rimprovera anche di poetare e d'assecondare le ambizioni poetiche di Nerone.Compone le "Tragedie".Nerone fa uccidere Agrippina.Il misfatto, secondo Dione Cassio (61,10), sarebbe stato architettato da Seneca.Secondo Tacito, Seneca e Burro, interpellati da Nerone, non appena fallì il piano originario dell'imperatore, gli consigliarono una decisa prosecuzione dell'impresa (Tac., "Ann." 14,7).S'intrecciano altri giudizi contrastanti sulla sua condotta: Dione Cassio lo elogia per aver posto freno alla follia omicida di Nerone (61,18), ma l'accusa di esosità nei confronti dei Britanni (62,2).Si colloca in questo periodo la composizione del "De tranquillitate animi".Muore, di malattia o di veleno, Afranio Burro.Seneca che da qualche tempo vive ritirato, intuisce d'esser detestato da Nerone.Gli offre pertanto tutti i suoi beni (Dio Cass., 62,25) e si dimette (Tac., "Ann." 14,53).Si dedica ad una intensa attività letteraria e compone il "De beneficiis", le "Naturales quaestiones", le "Epistulae ad Lucilium", il "De providentia" ed il "De otio".Viene scoperta la congiura antineroniana ordita da Pisone.Antonio Natale, uno degli indiziati, fa anche il nome di Seneca.Il filosofo, presago del peggio, rientra dalla Campania e sosta in una sua casa del suburbio, dove lo raggiunge la comunicazione della condanna a morte.Si uccide, tagliandosi le vene (Tac., "Ann." 15,56 e 60-64; Dio Cass., 62,25; Sveton., "Nero" 35).

OPERE DI SENECA.Diamo l'elenco delle opere di Seneca, ordinandole secondo la prassi editoriale più diffusa e indicandone sommariamente le edizioni più note e accessibili.I numeri romani, che precedono i titoli dei "Dialoghi", corrispondono a quelli comunemente usati in luogo dei titoli nelle citazioni sommarie; la sigla posta tra parentesi dopo il titolo corrisponde all'abbreviazione che adotteremo nelle nostre citazioni.Dialoghi.I. "De providentia, ad Lucilium" ("Prov.").Il. "De constantia sapientis, ad Serenum" ("Const.").IlIIVV. "De ira, ad Novatum libri IlI" ("Ira").VI. "Ad Marciam, de consolatione" ("Mare.").VII. "De vita beata, ad Gallionem" ("Vita").VIII. "De otio, ad Serenum" ("Ot.").IX. "De tranquillitate animi, ad Serenum" ("Tranq.").X. "De brevitate vitae, ad Paulinum" ("Brev.").XI. "Ad Helviam matrem, de consolatione" ("Helv.").XII. "Ad Polybium, de consolatione" ("Pol.").Altre opere morali."De clementia, ad Neronem" ("Clem.").Ed.C. Hosius, Lipsiae 19152; F.

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Préchac, Parigi 1961(2)."De beneficiis, ad Helvium Liberalem, libri VII" ("Ben.").Ed.C.Hosius, Lipsiae 19152; F. Préchac, tomi III, Parigi 1961(2).Altre opere dedicate a Lucilio."Ad Lucilium Epistulae morales" ("Ep.").Ed.O. Hense, Lipsiae 1914(2); A. Beltrami, tomi III, Roma 1931(2); F. Préchac (con traduz.di H. Noblot), tomi IIV, Parigi 1957-1964; L. O. Reynolds, tomi III, Oxonii 1965."Naturalium quaestionum, ad Lucilium, libri VII" ("Nat. quaest.").Ed.A.Gerke, Lipsiae 1907; P. Oltramare, tomi III, Parigi 1961(2).4. "Apocolocyntosis o Ludus de morte Claudii" ("Apocol.").Ed.W. H.D.Rouse, LondraCambridge 1956; R. Waltz, Parigi 1961(2).Tragedie."Hercules furens"; "Troades"; "Phoenissae"; "Medea"; "Oedipus"; "Agamennon"; "Hercules Oetaeus"; "Thyestes"; "Phaedra"; "Octavia": di quest'ultima, che rievoca il ripudio d'Ottavia da parte di Nerone, è ancora discussa l'attribuzione a Seneca.Ed.G.Richter, Lipsiae 1902; U. Moricca, tomi IIII, Augustae Taurinorum 1946-1958(2); G. Viansino, tomi IIII (il primo contiene i "Prolegomena"), Augustae Taurinorum 1965; L. Hermann, tomi III, Parigi 1961-1964.Epigrammi.Sono una settantina, di discussa autenticità.Ed.Ae.Baehrens, in "Poetae Latini Minores", IV, Lipsiae 1886.Opere perdute."Orazioni": alla raccolta allude Quintil., "Inst. or." 10,1,129. "Epistole": la collezione delle "Epistole a Lucilio" è mutila dell'ultimo libro.Si ha la notizia di altre "Epistole" di Seneca, in particolare di "Epistole a Novato"."De vita patris": il libro, dedicato alla memoria del padre, è ricordato in una titolazione del Cod.Vaticano Palatino 24 s. I frammenti furono raccolti dallo Studemund (Bresì.Philol.Abhandl., 1888)."Elogio di Messalina": lo scritto è indirettamente ricordato da Dione Cassio (61,10), ma l'indicazione è forse sommaria ed inesatta."De situ Indiae", ricordato da Servio ("Aen." 9,30) e da Plinio ("Nat.hist." 6 index; 6,60)."De situ et sacris Aegyptiorum": è citato da Servio ("Aen." 6,154)."Moralis philosophiae libri": ricordato più volte da Seneca nelle "Lettere a Lucilio"."De officiis": è citato dal grammatico Diomede ("Gramm.Lat.", Keil, 1,336,14)."Exhortationes": ne fa memoria Lattanzio ("Div.Instit." 1,7,13)."De immatura morte": fu utilizzato da Lattanzio ("Div.Instit." 3,12,11)."De superstitione": è citato dal grammatico Diomede ("Gramm.Lat.", Keil, 1,379,19) e da sant'Agostino ("Civ.Dei" 6,10)."De matrimonio": con questo scritto, il giovane Seneca iniziò la sua attività letteraria.E" ricordato da san Gerolamo, "Adv.Jovinian" 1,46."De fortuitis", o "De remediis fortuitorum ad Gallionem fratrem" (Tertulliano, "Apol." 50): forse non si trattò di un vero e proprio scritto di Seneca, ma d'una raccolta di massime estratte da sue opere.Ne rintracciò i frammenti O. Rossbach (Bresì.Philol.Abhandl., 1888)."Quomodo amicitia continenda est", o "De vera amicitia", o "De amicitia": ne raccolse i frammenti lo Studemund

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(Bresì.Philol.Abhandl., 1888)."De motu terrarum": opera giovanile, citata da Seneca in "Nat.quaest." 6,4,2."De lapidum natura": è citato da Plinio in "Nat. hist." 36 index."De piscium natura": è citato da Plinio in "Nat. hist." 9 index e 9,167."De forma mundi": è citato da Cassiodoro nel "De artibus ac disciplinis liberalibus" (Migne, PL 70,1216).Le testimonianze sulle opere perdute di Seneca e i frammenti superstiti sono raccolti da F. Haase, in L. Annaei Senecae, "Opera quae supersunt", IlI, Lipsiae 1878(2), pp. 418 ss.Opere spurie."Epistolae Senecae ad Paulum, quae vocantur".Lattanzio ("Div.Instit." 6,24) chiama Seneca ignaro della vera religione ed aggiunge che sarebbe divenuto vero cultore di Dio, se qualcuno glielo avesse mostrato, ed avrebbe certamente disprezzato Zenone e Sozione, se avesse incontrato una guida alla vera sapienza.Ed.Cl.W. Barlow, Horn 1978.Non ricordiamo, in questa sede, gli "excerpta" medievali di massime senecane, spesso rielaborate e ampliate fino a dar origine a specifici trattati, indebitamente attribuiti al filosofo.

BIBLIOGRAFIA.EDIZIONI.Opere, eccetto le tragedie.L.Annaei Senecae, "Opera quae supersunt", recognovit F. Haase, IIII Lipsiae 1852-1853 (ristampata a Lipsia 1874-1878).Dialoghi: edizioni complete.L.Annaei Senecae, "Dialogi", recensuit M. C.Gertz, Kopenhagen 1886.L.Annaei Senecae, "Dialogi", edidit E. Hermes, Lipsiae 1905.Sénèque, "Dialogues", Tome I: "De ira", Texte établi et traduit par A.Bourgery Paris 1951; Tome Il: "De la vie heureuse", "De la brièveté de la vie", Texte établi et traduit par A. Bourgery, Paris 1955; Tome IlI: "Consolations", Texte établi et traduit par R. Waltz, Paris 1950; Tome IV: "De la Providence", "De la constance du sage"; "De la tranquillité de l" me", "De l'oisiveté", Texte établi et traduit par R. Waltz, Paris 1950.

Dialoghi: edizioni parziali.Sénèque, "De constantia sapientis", par A. Grimal, Paris 1953.L.Annaei Senecae, "De Providentia; De constantia sapientis", Testo, commento e traduzione a cura di G. Viansino, Roma 1968.L.Anneo Seneca, "La Provvidenza", Introduzione, testo, traduzione e note a cura di E. Andreoni, Roma 1971.L.Annaei Senecae, "Dialogorum libri IlI, IV, V" ("De ira"), recensuit G. Viansino, Augustae Taurinorum 1963.L.Anneo Seneca, "Dell'ira - Libri IlI", Introduzione, testo, traduzione e note a cura di A. Bortone Poli, Roma 1977.L.Annaei Senecae, "Dialogorum liber VI, Ad Marciam, De consolatione", Texte latin publié par Ch.Favez, Paris 1928.L.Anneo Seneca, "La consolazione a Marcia", Introduzione, testo traduzione e note a cura di A. Traglia, Roma 1965.L.Annaei Senecae, "Dialogorum libri VI - XI - XII" ("Consolationes)", recensuit G. Viansino, Augustae Taurinorum 1963.Sénèque, "Sur le bonheur", par A. Grimal, Paris 1969.L.Annaei Senecae, "Dialogorum libri IX - X" ("De tranquillitate animi", "De brevitate vitae"), recensuit L. Castiglioni, Augustae Taurinorum 1946.Seneca, "Della tranquillità dell'anima, Della brevità della vita", Testo, traduzione e note a cura di L. Castiglioni, Brescia 1968 (rist.).

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L.Annaei Senecae, "De brevitate vitae, Ad Polybium, Ad Helviam", edidit J. D.Duff, Cambridge 1915.Seneca, "La brevità della vita", con una antologia di pagine senecane sul tempo, Testo, traduzione e commento a cura di A. Traina, Torino 1973(2).L.Anneo Seneca, "Consolazione a Polibio", Introduzione, testo, traduzione e note a cura di M. Ceccarini, Roma 1973.L.Anneo Seneca, "Consolazione a mia madre Elvia", Introduzione, traduzione e note a cura di M. Salanitro, Roma 1971.Seneca, "Operette morali", vol.I: "Della Provvidenza"; "Della costanza del saggio"; "Della tranquillità dell'anima"; "Dell'ozio"; vol.Il: "Dell'ira"; "Della clemenza", Testo, traduzione e note a cura di R. Del Re, Bologna 1971.L.Annaei Senecae, "De constantia sapientis", Introduzione, testo e commento a cura di F. Minissale, Messina 1977.Traduzioni senza testo a fronte.Seneca, "Dialoghi", tradotti da N. Sacerdoti, vol.III, Firenze 1971.Tradizione manoscritta.W.Studemund, in O. Rossbach, "De Senecae philosophi librorum recensione et emendatione", Breslauer philol.Abhandl.Il, 3, 1888.D.Nardo, "I Dialoghi di Seneca a Montecassino", in Atti e Memorie Accad.Patav.Sc., 86, terza (1973-1974), pp. 207-224.LESSICI.Non compaiono in questo elenco lessici e concordanze di opere singole non comprese tra i "Dialoghi".A. Pittet, "Vocabulaire philosophique de Sénèque" (AC), Parigi 1937 (cfr. del medesimo autore, "Notes sur le vocabulaire philosophique de Sénèque", in Rev.Et.Lat. [1934], pp. 72-87).Sotto il patrocinio dell'Università di Liegi, L. Delatte ed E. Evrard pubblicarono a L'Aia i seguenti "Indices verborum" di singoli "Dialoghi": "De constantia sapientis", 1966."Consolatio ad Marciam", 1964."De brevitate vitae", 1968."Consolatio ad Polybium", 1962."Consolatio ad Helviam", 1963. Con i tipi delle Presses Universitaires de France, L. Grimal stampò a Parigi, e non senza polemiche con i sopraricordati Delatte ed Evrard, le seguenti "L.Annaei Senecae, Operum moralium concordantiae": "De providentia", 1969."De constantia sapientis", 1966."Ad Marciam, De consolatione", 1965."De vita beata", 1969."De brevitate vitae", 1967.Sulle due serie, tuttora incomplete, si veda E. Pasoli, "Alcune recenti concordanze" in Vichiana, I n. s. (1972), pp. 135-138.R.Busa, A. Zarnpolli, "Concordantiae Senecanae", Tomus III, HildesheimNew York 1975.Per ricerche tematiche è molto utile A. L.Motto, "Guide to the Tought of Lucius Annaeus Seneca", Amsterdam 1970. (I lemmmi tematici sono in inglese.)

RASSEGNE BIBLIOGRAFICHE.T. A.Fabricius, I. A.Ernesti, "Bibliotheca Latina", IT, Lipsiae 1773, pp. 101 ss.F. L.A.Schweiger, "Bibliographisches Lexicon der gesamten Literatur der Rmer", Il, Lipsia 1834 (rist. anast., Amsterdam 1962), pp. 906 ss.W.Engelmann, E. Preuss, "Bibliotheca Scriptorum Classicorum" (17001878), Il, Lipsia 1880-1882, pp. 573 ss.R.Klussmann, "Bibliotheca Scriptorum Classicorum" (1878-1896), Il, 2, Lipsia 1909-1913 pp. 184 ss.

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F.Schlee (1889-1896) in Jaresbericht Fortschr.Klass.Altert., 113, pp.159-164.S.Lambrino, "Bibliographie de l'Antiquité Classique" (1896-1914), Parigi 1951, pp. 531 ss.R.Pichon, "Les travaux récents sur la chronologie des oeuvres de Senèque", in Journ. des Savants, 10 n. s. (1912), pp. 212-225.F.Levy, (1913-1921), in Jaresb.Philol.Ver. (1921), pp. 103-106.J.Marouzeau, "Dix années de bibliographie classique" (1914-1924), Parigi 1927-1928, pp. 339 ss.J.Marouzeau, "L'année philologique", 1924 ss.V.D'Agostino, "Seneca filosofo studiato in Italia dal 1910 al 1930", in Convivium, 3 (1931), pp. 395 ss.N. I.Herescu, "Bibliographie de la Littérature Latine", Parigi 1943, pp.248 ss.V.D'Agostino, "Orientamento bibliografico su Seneca filosofo e tragico" (1930-1952), in Riv.Studi Class., 1 (1952), pp. 47 ss.C.Cupaiuolo, "Gli studi su Seneca nel triennio 1969-1971", in Boli.St.Lat:, 2 (1972), pp. 278 ss.Sulle traduzioni italiane di opere di Seneca, si veda F. Federici, "Degli scrittori latini e delle loro opere, Notizie raccolte dall'ab.F. F.", Padova 1840, pp. 94 ss. e 184.

PRINCIPALI STUDI E MONOGRAFIE.Biografia e cronologia delle opere.R.Waltz, "Vie de Sénèque", Parigi 1909.H. W.Kamp, "A Critical Biography of L. Annaeus Seneca", Illinois 1931.F.Préchac, "La date de naissance de Sénèque", in Rev.Et.Lat., 15 (1937), pp. 66-67.H.De la Ville de Mirmont, "La date du voyage de Sénèque en Egypt", inRev.Philol., 33 n. s. (1909), pp. 163-178.P.Faider, "Sénèque en Egypt", in Bull.Inst.Fran.Archéol.Orient.du Caire, 30 (Mél.V. Loret), Il Cairo 1931, pp. 83-87.G. W.Clarke, "Seneca the Younger under Caligola", in Latomus, 24 (1965) pp. 62-69.K.Drr, "Seneca bei Tacitus", in Gymnas, 51 (1940) pp. 42-61.Th.Birt, "Senecas Trostsschrift an Polybius und Bittschrift an Messalina", in Neue Jahrb., 27 (1911) pp. 596-601. Ph.Fabia, "Sénèque et Néron", in Journ. des Savants, 8 n. s. (1910) pp. 260 ss.L. W.

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Friedrich, "Burrus und Seneca Reichsverweser unter Nero", in Berl.Philol.Woch. (1914), col. 1342-1344.E.Kstermann, "Untersuchungen zu den Dialogschriften Senecas", in Sitzungsber.Berl.Akad., 12 (1934) pp. 684 ss. (cfr.H. Dahlmann, in Gnomon, 13 [1937], pp. 666 ss.).F.Giancotti, "Il posto della biografia nella problematica senechiana".I: "Dall'esilio al Ludus de morte Claudii", in Rendic.Acc.Naz.Lincei, Class.Sc. morali, storiche e filos., 8 (1953) pp.52-68; Il: "Da quando e in che senso Seneca fu maestro di Nerone", ivi, pp. 102-118; IlI: "Seneca antagonista d'Agrippina", ivi, pp. 238262; IV,1: "Sfondo storico del De clementia", ivi, 9 (1954), pp.329-334; IV,2-4: "Il De clementia", ivi, pp. 587-609; IV,5: "Struttura del De clementia", ivi 10 (1955), pp. 36-61; V: "Sopra il ritiro e la ricchezza di Seneca", ivi, 11 (1956) pp. 105-119.A.Giancotti, "Cronologia dei "Dialoghì di Seneca", Torino 1957.W.Just, "L.Annaeus Seneca", in Altertum, 12 (1966), pp. 223-233.P.Treves, "Il giorno della morte di Seneca", in "Studia Florentina A.Ronconi oblata", Roma 1970, pp. 507-524.

Studi generali.C.Martha, "Les moralistes de l'Empire Romain", Parigi 1872(3).D.Bassi, "Seneca morale: studi e saggi", Firenze 1914.F.Holland, "Seneca", Londra 1920.C.Marchesi, "Seneca", Messina 1920.F.Russo, "Seneca", Catania 1921.P.Faider, "Etudes sur Sénèque", Gent 1921.A.Bourgery, "Sénèque prosateur", Parigi 1922.A.Bailey, "La vie et les pensées de Sénèque", Parigi 1929.U.Knoche, "Der Philosoph Seneca", Francoforte s. M., 1933.V.Capocci, "Chi era Seneca?", Torino 1955.I.Lana, "L.Anneo Seneca", Torino 1955.P. Grimal, "Sénèque, sa vie, son oeuvre, sa philosophie", Parigi 1957(2)."Actas del Congreso Internacional de Filosofia, en commemoracion de Seneca, en el XIX centenario de su muerte", 2 voli., Madrid 1965-1966.M.Pohlenz, "Die Stoa", I, Gttingen 1978(5), pp. 303-327; Il, 1972(4), pp. 152-161.G.Reale, "Storia della filosoha antica", IV: "Le scuole dell'età imperiale", Milano 1978, pp. 78-97.

I Dialoghi: aspetti letterari.C.Buresch, "Consolationum Graecarum Romanarumque historia critica", Lipsia 1886.

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E.Albertini, "La composition des ouvrages philosophiques de Sénèque", Parigi 1923.L.Castiglioni, "Studi intorno a Seneca prosatore e filosofo", in Riv.Fil.Istr.Class., 2 n. s. (1924), pp. 350-382.V.D'Agostino, "Quintiliano X,1,29 e i dialoghi di Seneca", in Convivium, 5 (1933), pp. 71-75.H.Dahlmann, "Studien zu Senecas Consolatio ad Polybium", in Hermes (1936), pp. 374-375, e (1937), pp. 301-316.R.Kassel, "Untersuchungen zur griechischen und rmischen Konsolationsliteratur", Monaco 1958.P.Grimal, "Le plan du De brevitate vitae", in "Studi in onore di L.Castiglioni", Firenze 1960, pp. 407-419.A.Traina, "Lo stile drammatico di Seneca filosofo", in Belfagor, XIX, 6 (1964), pp. 625-643 (riedito in volume, con note, Bologna 1974).K.Abel, "Seneca, De brevitate vitae, Datum und Zielsetzung", in Gymnasium, 72 (1965), pp. 308-327.K.Abel, "Bauformen in Senecas Dialogen.Fnf Structuranalysen: Dial.6,11; 12,1 und 2", Heidelberg 1967.C.Vico, "Considerazioni sulla Consolazione a Marcia di Seneca", in Giorn.It.Filol. class., 22 (1969), pp. 137-145.S. J.Boal, "Senecà s Dialogues", in Hermathena, 114 (1972) pp. 65-69 (sul "Dell'ira").A. L.Motto, J. R.Clark, "Dramatic Art and Irony in Senecà s De providentia", in Antiq.Class., 42 (1973), pp. 25-35.Il pensiero di Seneca e le sue fonti.F.Ramorino, "Il carattere morale di Seneca", in Atene e Roma (1907), pp.115-121.E.Howald, "Die Weltanschauung Senecas", in Neue Jahrb., 35 (1915), pp. 353-360.P.Gegenmller, "Vernunft und Affekt in der Philosophie Senecas", in Neues Jahrb. f. Paedag. (1927), pp. 641-657.M.Gentile, "Etica e metafisica nel pensiero di Seneca", in Riv.Fil.Neoscol. (1931), pp. 479-483.M.Gentile, "I fondamenti metafisici della morale di Seneca", Milano 1932.A. D.Leeman, "Senecà s Plans for a Work moralis philosophia and Their Influence on His Later Epistels", in Mnemosyne 6 (1953), pp.307-313.W.Richter, "Seneca und die Sklaven", in Gymnasium, 56 (1938), pp.196-218.G.Busch, "Fortunae resistere in der Moral des Philosophen Seneca", in Antike und Abendland,10 (1961), pp. 131-154 K. Abel, "Poseidonios und Senecas Trostsschrift an Marcia (dial. 6, 24, 5 ss.)", in Rhein.Mus., 107 (1964), pp. 221-260 P. Boyancé, "L'humanisme de Sénèque", in "Actas del Congreso" cit., Madrid 1965-1966, I, pp. 229-245.E.Evrard, "Animus et fortuna dans les trois consolations de Sénèque", in "Actas del Congreso" cit., Madrid 1965-1966, Il, pp. 149156.P.

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Grimal, "Sénèque et la pensée grècque", in Bull.Ass.Budé (1966), pp. 317-330.M.Laffranque, "Sénèque et le moyenstoicisme", in "Actas del Congreso" cit., Madrid 1965-1966, Il, pp. 185-195.G.Scarpat, "La lettera 65 di Seneca", Brescia 1965(2).P.Grimal, "Nature et limites de l'éclectisme philosophique de Sénèque", in Les Etud.Class., 38 (1970), pp. 3-17.La fortuna di Seneca.R. M.Gummere, "Seneca the Philosopher and His Moderne Message", londra 1922.Cl. W.Barlow, "Seneca in the Middle Ages", in Class.Weekly, 35 (1942), pp.275 ss.H.Hagendahl, "Latin Fathers and the Classics", Gtenborg 1958.W.Trillitzsch, "Seneca im literarischen Urteil der Antiken.Darstellung und Sammlung der Zeugnisse", voli.III, Amsterdam 1971.A. M.

AVVERTENZA EDITORIALE.Presentando i "Dialoghi" di Seneca in questa nuova traduzione, ne abbiamo conservato l'ordine, anacronistico e illogico, nel quale essi si succedono nel Codice Ambrosiano C 90 inf, scritto alla fine del secolo Decimo o all'inizio dell'Undicesimo.Le condizioni stesse del testo ci permettono di stabilire che il "corpus" dei "Dialoghi" di Seneca si formò, con quella denominazione e disposizione, in epoca molto più remota, certamente non posteriore alla fine del periodo letterario classico.Il codice infatti è deturpato da lacune insanabili, in seguito alle quali è venuta meno, talvolta, anche la distinzione tra opera e opera.Il "Della vita felice", ad esempio, e il "Dell'Ozio" sono stati trascritti di seguito, come fossero un'opera sola.Dunque, anche l'originale, dal quale fu trascritto il Codice Ambrosiano, aveva risentito dell'ingiuria del tempo; anche i "Dialoghi" di Seneca, come altri capolavori della classicità latina, furono dimenticati per qualche periodo e sostituiti da estratti o antologie.D'altra parte, numerose incertezze e mende minori del testo contenuto nell'Ambrosiano risalgono certamente all'esemplare, e lasciano con ciò stesso intendere che quel libro, prima d'esser dimenticato, fu attentamente letto, studiato, chiosato.Ristabilire la successione cronologica dei "Dialoghi" o riunirli in gruppi, per affinità tematiche, è oggi impresa relativamente facile.Ma abbiamo preferito conservare all'insieme la sua indecifrabile architettura e fornire al lettore, nelle brevi introduzioni alle singole opere, le notizie relative alla cronologia, all'occasione, al dedicatario e all'impianto di ciascuna unità.Purtroppo, da oltre un secolo a questa parte, non è stata pubblicata alcuna edizione critica dell""Opera omnia" di Seneca prosatore.Edizioni parziali, pregevoli e accurate, di opere o gruppi di opere hanno veduto la luce anche in questi ultimi anni.Ancor più numerose le edizioni e gli studi approfonditi su opuscoli o estratti: singole epistole, ad esempio, o dialoghi singoli staccati dal "corpus", o libri isolati delle "Questioni naturali".Ma l'ultima edizione critica dell'intero Seneca è ancora quella di F. Haase, Lipsia 1852-1853.Per quanto riguarda i "Dialoghi", all'edizione dello Haase seguì quella di M. C.Gertz (Kopenhagen 1886).Le edizioni attuali mantengono ancora la divisione in capitoli e paragrafi adottata dai due editori citati, i quali peraltro sovvertono l'ordine di successione dei due ultimi opuscoli, e collocano in penultima sede lo scritto "A Polibio" ed in ultima quello "Ad Elvia".L'ordine attuale fu ristabilito dal medesimo Haase nella ristampa dell'edizione (Lipsia 1874) e mantenuto da E.Hermes, nella sua edizione lipsiense del 1905.La nostra traduzione è stata condotta sul testo stabilito da R. Waltz e A. Bourgery, quale si legge nei quattro volumi dell'edizione parigina 1950-1955.S'è tenuto conto anche di altre edizioni parziali, ma s'è preferita quell'edizione integrale, perché relativamente recente, completa, stabilita con criteri omogenei e facilmente reperibile dal lettore che voglia risalire all'originale.Nelle citazioni per ragioni di leggibilità, si sono usati due numeri arabi separati da virgola: il primo indica il capitolo, il secondo il paragrafo.

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Soltanto nel "Dell'ira", i due numeri arabi sono preceduti da un numero romano: (I, Il, IlI), indicante il libro.Al traduttore delle opere di Seneca, come del resto allo studioso, si presentano in primo luogo problemi di lessico.Lo scrittore era restio all'uso di termini tecnici, propri del linguaggio filosofico greco. Ma, per lui, non si poneva in primo piano, come s'era posto per Lucrezio, il problema della povertà del latino, scarsamente idoneo ad esprimere l'astratto, ma il proposito di eliminare a favore d'un dettato piacevolmente leggibile e contenutisticamente valido anche per i non iniziati, quanto di tecnico era ancora rimasto nel linguaggio di Cicerone.Leggiamo in "Tranq". 2,3: Non è necessario ricalcare le loro [dei Greci] parole o prenderle a prestito nella forma originaria: basta designare con un nome la realtà di cui si tratta, perché la parola deve rendere la forza espressiva, non l'aspetto esteriore, del termine greco.Osserviamo che, nel luogo citato Seneca s'accinge a tradurre direttamente da un originale greco, altrove egli tradusse indirettamente, tentò cioè d'esprimere in latino concetti greci già divenuti fissi in un linguaggio tecnico che ben conosceva.La sua scelta fu retorica, tale e quale l'avevano fatta i retori (cfr.Quintiliano, VI,2,8 ss.).Essa presentava i suoi bravi inconvenienti: scartata l'ipotesi di inserire grecismi nel dettato latino, i grammatici ufficiali del tempo potevano offrire, in alternativa, la sola tecnica del "calco linguistico", consistente nel sostituire alla parola greca la voce latina di radice corrispondente.Ma Seneca sapeva benissimo che molti termini greci non sarebbero risultati ricalcabili, o perché mancava la parola latina corrispondente, o perché essa, nell'uso, s'era fissata su significati ben diversi (v. esempi in "Ira" I,4,3).Fatta l'opzione per una corrispondenza concettuale e non lessicale, non rimaneva che d'accettarne gli inconvenienti (cfr.M.Pohlenz, "Die Stoa", Il, p. 155, nota a 5,309 su "pathosaffectus") e rimediarvi o con un adeguato contesto, o con il discreto uso della sinonimia.E, al traduttore, non resterà che ricorrere al contesto letterario e a quello culturale senecano, per rendere con la maggior fedeltà possibile concetti e voci dell'autore.Non ci sarà difficoltà, ad esempio, a rintracciare dietro il "senecano impetus", detto in senso psicologico, il greco "hormé" e a tradurre con "impulso".Ma Seneca usa abitualmente "animus", rarissime volte "anima", perché a lui ben poco interessa la contrapposizione "nouspsyché": i fatti psicologici moralizzabili implicano sempre una compresenza attiva del "nous", agente egemonico, il solo degno d'attenzione.Il traduttore deve conservare "animo", anche ove sembra che lo scrittore l'abbia usato impropriamente: non è il caso di sovrapporre una pretesa acribia del traduttore alla voluta genericità dello scrittore.Risulta invece monotono e povero, ad esempio, il linguaggio dei passi cosmologici.Ove il contesto senecano tende ad evidenziare un aspetto (cosmologico, antropologico, teologico) della molteplice pregnanza del termine, il traduttore asseconderà l'autore.Ove invece la polivalenza semantica è insita nell'immobilità del linguaggio antico, altro non resterà che rispettare il testo, ed aggiungere fuori testo una notarella esplicativa.L'intonazione del discorso senecano dei "Dialoghi" è incostante.Lo scrittore passa dalla stringatezza estrema delle argomentazioni dialettiche al tono semplice, amabile, cordiale, e talora pungente, del conversare.Lo spezza con la solennità media delle sentenze e l'apre all'invettiva o alla declamazione, quando divaga nelle esemplificazioni, a seconda che punta l'occhio sul costume o sui grandi del passato.Gli espedienti usati sono tra i più semplici che la scuola del tempo suggerisse.S'è voluto seguire lo scrittore, rispecchiandone le tonalità, rispettandone il periodare breve e semplice e, soprattutto, l'atmosfera di parlato.Sarebbe già tanto, se il lettore ritrovasse vivi nella traduzione il Seneca che conversa e il Seneca delle pagine immortali.Talvolta la dizione dello scrittore rimane piatta o complanare: il concetto che egli vuol esprimere è talmente intrecciato con il contesto discorsivo, che si stenta a coglierne il rilievo a prima lettura.Abbiamo dunque preposto, ai singoli capitoli, e stampato tra parentesi quadre, dei brevi titoli, indicativi del contenuto, oppure riportanti al filo conduttore del dialogo, o segnalanti la presenza di sviluppi secondari e meramente esplicativi.Delle "Prefazioni" ai singoli dialoghi, qualcosa già s'è detto.Aggiungiamo ora che le notizie letterarie, cronologiche e occasionali, o relative al dedicatario, impegnano la prima parte di quei brevi scritti.Ad essa seguono l'indicazione del problema trattato, una sua breve collocazione nel contesto filosofico senecano e uno schema dei punti focali della trattazione e della sua precisa trama.Infine, quando è parso necessario od opportuno, si sono aggiunte dilucidazioni su punti oscuri o discutibili e valutazioni critiche del pensiero esposto.Le pagine della "Introduzione" al volume vogliono invece esporre al lettore dei "Dialoghi" il contesto del pensiero e della problematica del grande scrittore.A. M.

DELLA PROVVIDENZA.Perché accadono disgrazie agli uomini buoni, nonostante ci sia la provvidenza.

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"Bonus tempore tantum a deo differt, discipulus eius aemulatorque et vera progenies"."L'uomo buono differisce da Dio soltanto perché si trova nel tempo, ma è suo discepolo, suo emulo, suo vero figlio".(1,5)

PREFAZIONE.Il titolo e la problematica dell'opuscolo.Al titolo più lungo e appropriato del dialogo, la tradizione volle giustapporre un titolo breve, "Della provvidenza", che gode di una indiscussa giustificazione metodologica.Il discorso sulla provvidenza, intesa come razionalità finalizzata e immanente nell'insieme del cosmo (tutto è ordine nel mondo, perché ragione vuole che tutto sia ordine), risaliva alla prima Stoá e la caratterizzava, contrapponendola alle scuole filosofiche precedenti.Nella Roma di Seneca, quel discorso non soltanto era condiviso e serbato sostanzialmente intatto dagli stoici, ma godeva della notorietà che gli aveva conferito la forbita prosa di Cicerone.Nel libro secondo "Sulla natura degli dèi", il grande oratore aveva largamente attinto dallo scritto "Sulla provvidenza" di Posidonio, l'illustre rappresentante dell'ultima Stoá, del quale aveva anche ascoltato le lezioni.Ma già alla prima Stoá s'era prospettata la ricorrente obiezione che s'insinua in ogni tentativo d'estendere il concetto di provvidenza dal piano fisico a quello morale: si deve dare una risposta al problema del male e, specificamente, alla presenza del male morale nella realtà umana.Era toccato a Crisippo, lo smaliziato dialettico succeduto a Cleante nella direzione della Stoá, nel 232 avanti Cristo, il compito di riaffrontare il tema della provvidenza con un trattato che godette di ottima fortuna.A Roma, quell'opera era stata ammirata, criticata e utilizzata da Cicerone, quale fonte del suo trattatello "Sul fato".Con la parola "fato", Cicerone traduceva il termine greco "heimarméne", usato da Crisippo per esprimere l'ineluttabile, che era tale appunto perché razionale e immanente: era insomma ancora un modo di rappresentare come forza operante quel Dioragioneordine del quale non si riusciva a cogliere la trascendenza.Era parso a Crisippo che il problema del male fisico fosse superabile con relativa facilità, mediante un geniale, seppure per noi non convincente, artificio dialettico: contrapporre le "cause principali" dell'ordine cosmico, immuni da qualunque difetto, alle "cause prossime" dei singoli eventi (Cic, "Fat." 41; cfr Sen., "Prov." 5,7): soltanto l'economia operativa di queste ultime comportava la presenza di difetti, quali la malattia o la morte, necessari "per concomitanza" (Gell., "Noct." 7,1,9-13; SVF Il,1170 Arnim).Crisippo spostava il problema, illudendosi di risolverlo; ma dovette (riferiamo un giudizio di Cicerone) faticare e sudare, senza riuscire a districarsi nella questione (Cic., "Fat." fr. 1, p. 582 Orelli (2)), quando tentò d'affrontare il problema della compatibilità tra male morale e provvidenza.Con ulteriore sforzo dialettico, egli affermò che tutte le azioni umane rientravano nella "heimarméne," ma vi rientravano, diciamo, per tangenza, in quanto si verificava sempre una coincidenza tra l'esito dell'ineluttabile concatenazione delle cause fisiche e l'effetto della responsabile scelta della volontà umana.Basterebbe rileggere Aulo Gellio, 7,2,11 (SVF Il, 1000 Arnim), per constatare che già gli antichi avevano giudicato Crisippo più abile nell'eludere il problema che nel tentarne una soluzione.A noi interessa cogliere, per ora, la netta contrapposizione, che Crisippo segnò, tra il concetto di provvidenzialità e quello di male morale.In sede storica, rimane rilevante che, dopo Crisippo, nella Stoá e altrove, si continuò a considerare improponibile qualsiasi tentativo di far rientrare il male morale in una economia divina provvidenziale.Meritano un cenno i due discorsi o libri "Sulla provvidenza" di Filone Giudeo, che precedono di pochi anni il trattatello di Seneca e presentano con esso suggestive analogie.Anche Filone, che peraltro ha un preciso concetto di trascendenza divina, prende le mosse dalla provvidenza cosmica, anch'egli esclude che Dio possa odiare la creatura ed ammette che si serva della sventura per educare i buoni; ritiene che il saggio possa bastare a se stesso e sentirsi superiore a tutti i mali fisici e alla morte, adduce esempi tratti dal comportamento delle popolazioni primitive, afferma il valore catartico delle pubbliche calamità.Le coincidenze però rimangono meramente topiche: così doveva essere ordinato il discorso, per poter organicamente corrispondere alle esigenze culturali del tempo.Le simpatie di Filone per il linguaggio stoico ci sono note ma, prima di configurare la dipendenza di Seneca da Filone, si dovrebbero superare le insormontabili divergenze tra i due uomini su problemi di fondo, quali il rapporto tra Dio e il mondo e, soprattutto, il rapporto tra l'uomo e Dio.

Analisi di struttura.L'opuscolo di Seneca, dedicato al dotto discepolo Lucilio, che gli fu fedele compagno anche negli ultimi tristi anni, ruota attorno al quesito enunciato nel suo vero titolo: perché accadono disgrazie agli uomini buoni, nonostante ci sia la provvidenza.Dando per accettata, in chiave stoica, una provvidenza d'ordine fisico, Seneca ripropone il tentativo d'estendere l'indagine al piano morale e articola il discorso all'interno dei due limiti estremi già sostanzialmente dettati da Crisippo: a) le disgrazie: nel termine, ritroviamo la netta contrapposizione tra male fisico e male morale.Quest'ultimo, poiché chiama in causa l'integrità morale del soggetto, rimane escluso dalla compatibilità con qualsiasi ordinamento provvidenziale; b) gli uomini buoni: se non i sapienti, quanto meno gli aspiranti alla sapienza, impegnati a tradurre la propria vita in itinerario verso la virtù.

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Scrivendo dall'esilio la "Consolazione ad Elvia" (anno 42 o 43), Seneca s'era detto impegnato a salvaguardare la serenità del suo spirito dalla doppia sciagura che l'aveva colpito: l'esilio e l'infamia.La medesima doppia sciagura è ipotizzata ai danni dell'uomo buono, protagonista ideale del dialogo "Della provvidenza" (3,2).Nelle "Questioni naturali" (anno 63?), leggiamo lo schema di un trattato sulla provvidenza cosmica, steso seguendo il più ortodosso canone stoico (2,45-46).Ad una argomentazione cosmologica, parallela a quella contenuta nel primo capitolo del nostro dialogo, Seneca fa seguire un quesito: perché Giove colpisce i buoni?, e dichiara il proposito di trattare altrove l'intero argomento.Seneca, dunque, ritiene particolarmente urgente finalizzare ai problemi morali il discorso sulla provvidenza, collocandolo nel contesto di un trattato sistematico di filosofia morale.La figura del sapiente in lotta contro la sventura ricompare spesso in Seneca.Al di là dei possibili raffronti con le coincidenze dei vari discorsi, l'aver egli qui specificamente affrontato il tema della provvidenzialità e validità eticopedagogica della sventura per il sapiente, annovera il dialogo "Della provvidenza" tra le opere attendibilmente collocabili nell'ultimo e più maturo periodo di produzione del filosofo.Rileviamone i punti fondamentali.1) C. 1: Tra gli uomini buoni e gli dèi, c'è un'amicizia il cui punto d'incontro è la virtù...L'uomo buono differisce da Dio soltanto perché si trova nel tempo, ma è suo discepolo, suo emulo, suo vero figlio (1,5).Da parte di Dio, quell'amicizia si esplicita in severa attività educativa, consona ai classici canoni della "paideía" (1,6).2) C. 2: il concetto stoico di "esercizio", altrove visto da Seneca come autoeducazione ad un egocentrico distacco dal contingente, diviene volonterosa risposta alla provvidenza educatrice di Dio, uno spettacolo degno d'essere guardato da un Dio intento alla sua opera (2,8).3) Cc. 3-4: l'accettazione forte e cosciente della sventura arricchisce l'uomo e ne fa l'equilibrato conoscitore di se stesso e della reale condizione umana: L'esser sempre felici e trascorrere la vita senza che nulla mai ti roda l'animo, è ignorare l'altra metà del mondo (4,1).4) C. 5: l'accettazione della sventura provvidenziale inserisce l'uomo nell'unico spazio che gli rimane disponibile, per costruirsi una vita responsabile, tra la zona del fatale incognito e quella del contingente spicciolo, apparentemente casuale.La provvidenza moralmente intesa è dunque, secondo Seneca, la possibilità offerta all'uomo di trarre profitto morale, per sé e per gli altri, dalla contingenza (5,7).Seneca tentò d'animare, mediante l'introduzione di una paternità divina, la fredda prassi stoica dell'esercizio della virtù ("áskesis"; "exercitatio").Riuscì nell'intento? Dobbiamo rispondere no, un no che non vuol limitarsi a rimproverare scarsa persuasività alla dialettica del dialogo.E" vero anche che Seneca non seppe districarsi dalle preoccupazioni letterarie: imitando, forse, la maniera di Demetrio cinico, con il quale aveva avuto recenti e riverenti contatti (3,3), egli ricorse troppo spesso all'artificio retorico di ribattere il quesito proposto, in forma sostanzialmente invariata (sette volte nei sei capitoli, a 2,1; 3,2; 4,8; 5,3 e 9; 6,1 e 6), quasi per interrompere la piattezza delle divagazioni colloquiali o per ridar fiato all'enfasi oratoria delle perorazioni; ancora: con troppa acquiescenza egli confidò che l'addurre esempi tratti dalla storia potesse supplire emotivamente alle carenze teoretiche.Infine, risulta artefatta e inconcludente la prosopopea finale, nella quale si concede la parola a Dio.Non vogliamo insistere sulle perplessità imputabili all'incerta fisionomia letteraria del dettato: il suo costante oscillare tra la pretesa eloquenziale e la ricerca dell'efficacia dialettica finisce col sottrarlo a quello spiccio e amabile conversare medio che caratterizza tanta produzione dello scrittore.Seneca ha cercato invano una prosa sublime, avvincente. commovente.L'aporia teoretica di fondo dell'opuscolo.Il vero limite del dialogo coincide con l'intrinseco limite del sistema stoico.E" impossibile tentare una teologia, quando ci si confronta con il Dio dell'antica Stoá, con una fredda "ratio", una dinamica pura di cui non si sa o non si vuole cogliere l'esatta collocazione nel mondo, nella realtà, nella storia.Un Dio del quale s'esita, in fondo, a dire se veramente è causa dei fatti o se serve unicamente a postularne la razionalità.Un Dio presentato quale anima di un corpo, senza precisare se ne è distinta o lo trascende.Soprattutto, non è possibile dare a questo Dio un volto paterno.In realtà, è proprio la mancanza del senso della trascendenza che rimpicciolisce il Dio e lo disanima.Il rapporto uomoDio rimane instaurabile soltanto sul terreno della virtù, quasicché il male morale non appartenesse alla realtà umana e non invocasse un'economia divina.Ne consegue che anche il bene ricade, in ultima analisi, esclusivamente sull'uomo, è opera dell'uomo, d'un uomo che rimane solo nella pur eroica costruzione dell'umanesimo stoico.Il Diopadre opera dapprima quale avveduto programmatore d'una severa educazione, ma, quando il progetto si traduce in storia, in vita vissuta, non sa esser altro che compiaciuto spettatore della bravura del suo pupillo, in attesa dell'esito delle ripetute prove.A questo Dio manca la possibilità d'essere buono, all'uomo quella di fondare sulla fiducia la fermezza del suo proposito.Ne deriveranno sviluppi sconcertanti o sconfortanti.Sconcerta, infatti, il proposito dell'uomo di emulare Dio, almeno quando esso si traduce nella preghiera di Demetrio (5,5), che sfiora il sacrilegio di presunzione: se fossi stato preavvertito, o dèi, avrei saputo prevenirvi.

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E sconforta l'indifferenza con la quale Dio suggerisce all'uomo il suicidio, una fuga dignitosa dalle difficoltà, non un aiuto.L'infelicissimo paragone tra la morte del suicida e quella dell'animale sacrificato sembra sottolineare che quel Dio sa suggerire all'uomo la meccanica della morte, non la dedizione del sacrificio.

DELLA PROVVIDENZA.1. [Provvidenza fisica e provvidenza morale.] [1] Mi hai chiesto, o Lucilio (1), per qual motivo dovrebbero accadere tanti mali agli uomini buoni, se il mondo fosse governato da una provvidenza.Il quesito si potrebbe affrontare più adeguatamente nel contesto di un'opera in cui dimostrassimo che la provvidenza governa l'universo e che Dio ci assiste.Ma, dato che mi chiedi di svellere una piccola parte dal tutto e di limitarmi a rispondere ad una interpellanza, senza toccare l'argomento della lite (2), farò una cosa non difficile: assumerò la difesa degli dèi.[2] E" superfluo, al momento, spiegare che una costruzione tanto imponente non si regge senza chi la custodisca e che non deriva da impulso fortuito l'armonioso ruotare delle stelle.Ciò che si muove a caso, finisce di regola nel disordine e ben presto arriva a cozzare, mentre queste rapide rotazioni proseguono senza inciampi, sotto l'impero di una legge eterna, trascinando tanti esseri in terra ed in mare e tante fulgide stelle che splendono in bell'ordine.E questo non è un ordine che si possa attribuire a materia vagante: elementi che si sono uniti per caso, non possono librarsi in un sistema così organico, all'interno del quale il peso immenso della terra resta immobile ed osserva il cielo che le fugge rapido attorno, i mari riforniscono d'acqua le terre, penetrandone le cavità e perciò non risentono dell'apporto dei fiumi (3), da semi minutissimi nascono esseri smisurati.[3] Neppure quei fenomeni che sembrano meno conoscibili e prevedibili (mi riferisco alle piogge ed ai nembi, allo scoccare e cadere dei fulmini, alle lave incandescenti che si riversano dai crateri dei vulcani, alle scosse di terremoto ed a tutti gli altri fenomeni che si verificano in quella parte movimentata dell'universo che circonda immediatamente la terra) (4), neppure quelli, sebbene siano imprevedibili, accadono senza una ragione.Hanno anch'essi cause specifiche, non meno di quei fenomeni che ci stupiscono perché accadono fuori della loro sede consueta, come lo zampillare di acque calde in mezzo ai flutti o l'emergere di nuove ed estese isole nell'immensità del mare.[4] In realtà, chi osserva le spiagge restar scoperte al recedere dei marosi e, poco dopo, le vede rapidamente ricoprirsi, può credere che le onde, fluttuando alla cieca, ora si ritraggano e si raccolgano in se stesse, ora prorompano in veloce corsa, alla riconquista della loro sede primitiva.Esse invece crescono a ritmo periodico e s'avvicendano ad ore e giorni stabiliti, più alte o più basse secondo l'attrazione dell'astro lunare, al comando del quale l'Oceano trabocca.Ma tutto questo ci riserviamo di trattarlo a suo tempo, soprattutto perché tu, sulla provvidenza, non avanzi obiezioni, ma esterni un disappunto.[5] Voglio rimetterti in buoni rapporti con gli dèi, dimostrandoti che essi sono ottimi con gli ottimi.La natura, infatti, non ammette mai che il bene nuoccia ai buoni.Tra gli uomini buoni e gli dèi, c'è un'amicizia il cui punto d'incontro è la virtù.Ma che dico, amicizia? E" un vincolo, una quasi parità: l'uomo buono differisce da Dio soltanto perché si trova nel tempo, ma è suo discepolo, suo emulo, suo vero figlio, e quel padre meraviglioso, esigente in fatto di virtù, lo educa con durezza, come usano i padri severi.[6] Dunque, se vedrai uomini buoni e graditi agli dèi tribolare, sudare ed arrampicarsi sul ripido, e uomini cattivi godersela e nuotare nel piacere, rifletti che a noi piace vedere nei nostri figli la modestia ed in quelli dei nostri schiavi la sfacciataggine: i nostri li teniamo sotto severa disciplina mentre, di quelli, incoraggiamo la sfrontatezza.La stessa cosa ti sia chiara su Dio: non blandisce l'uomo buono: lo mette alla prova, lo irrobustisce, lo rende degno di sé.

2. [L'avversità è un esercizio di virtù.] [1] Allora, perché capitano tanti guai ai buoni? Ad un uomo buono, non può accadere nulla di male: i contrari non si mescolano mai.Come tutti i fiumi, tutte le piogge che cadono dal cielo, tutto il fluire delle sorgenti curative non muta la salsedine del mare e nemmeno l'attenua, così l'assalto dell'avversità non piega la costanza dell'uomo forte: egli mantiene la sua coerenza e valuta tutto l'accaduto secondo le sue prospettive, perché è realmente più forte di ogni evento esterno.[2] Con ciò non dico che sia insensibile, ma che è superiore e, abitualmente sereno e tranquillo, sa ergersi contro quanto lo assale.Vede in ogni avversità un allenamento.D'altra parte, esiste un uomo, degno di questo nome e proteso all'onestà, che non si prospetti una giusta fatica e non sia pronto al dovere, mettendo in conto il rischio? Per quale uomo, proteso all'azione, non è un tormento l'inattività? [3] Quegli atleti che hanno cura del loro vigore, li vediamo battersi con tutti gli avversari più forti ed esigere dagli allenatori coi quali si preparano alla gara, l'impegno di tutte le forze: accettano colpi e maltrattamenti e, se non trovano adeguati gli avversari singoli, si battono contemporaneamente contro molti.[4] Una virtù priva d'avversario si snerva: tutta la sua grandezza e la sua forza emergono, quando essa mette in mostra la sua capacità di sopportazione.Devi renderti conto che agli uomini buoni spetta di fare altrettanto: non temere vicende dure e difficili, non lamentarsi

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del destino, vedere di buon occhio tutto quello che accade e volgerlo al proprio bene.Nella tua sopportazione, non importa il "che cosa", ma il "come".[5] Non vedi quanto è diversa la permissività dei padri da quella delle madri? I padri ordinano ai figli d'alzarsi presto e di affrontare i loro impegni, non li lasciano riposare nemmeno in giorno di festa, spremono loro il sudore e, talvolta, le lacrime; le madri invece se li coccolano in seno, li vogliono tenere sotto la loro ombra, non li vogliono mai vedere tristi, piangenti, affaticati. [6] Verso i buoni, Dio ha animo di padre, li ama con fortezza e dice: Fatiche, dolori, disgrazie li tengano in attività: così conquisteranno la vera forza.Gli animali (5), messi a pastura nell'inattività, si indeboliscono e vengono meno non solo in seguito ad uno sforzo ma, dato il loro eccessivo peso, anche per un qualunque movimento.Una felicità che non ha mai subito colpi, non resiste a nessun urto; chi invece ha dovuto combattere continuamente contro le disgrazie, fa il callo alle offese, non cede a nessuna sventura e, anche se cade, continua a combattere in ginocchio.[7] Ti meravigli, se quel Dio che predilige i buoni, anzi li vuole ottimi ed eminenti in tutto, assegna loro una sorte che li costringe a tenersi in esercizio? Io non mi stupisco, se talvolta Dio si lascia prendere dalla voglia di osservare uomini grandi in lotta con qualche calamità. [8] Ogni tanto, ci piace vedere un giovinetto intrepido che aspetta, spiedo in pugno, l'assalto della belva e sostiene senza paura il balzo del leone (6): lo spettacolo è tanto più gradito, quanto più è nobile colui che si esibisce.Non sono di questo genere le imprese che possono attirare l'attenzione degli dèi: questi sono divertimenti puerili, che accontentano la frivolezza degli uomini.Eccoti uno spettacolo degno d'esser guardato da un Dio intento alla sua opera, una coppia di combattenti (7) degna di Dio: un uomo, messo a lottare con la sorte avversa: se la sfida l'ha lanciata lui, tanto meglio. [9] Non vedo, voglio dire, quale spettacolo più bello abbia Giove sulla terra, quando voglia dedicargli attenzione, che il mettersi ad osservare Catone (8) che, dopo più d'una disfatta dei suoi partigiani, nondimeno s'erge ritto tra le rovine dello Stato. [10] Anche se tutto sembra dire è finito sotto il dominio di un solo uomo e le terre sono presidiate dalle legioni, i mari dalle flotte ed i soldati di Cesare assediano le porte (9), un Catone ha donde uscire: gli basterà una sola mano per aprirsi un ampio varco verso la libertà.Questa spada, pura ed innocente anche in tempo di guerra civile, compirà finalmente buone e nobili imprese, e darà a Catone quella libertà che egli non poté dare alla patria.Esegui, animo mio, l'opera progettata da tanto tempo, sottraiti alle vicende umane.Petreio e Giuba (10) si sono già scontrati, ed ora giacciono morti, l'uno per mano dell'altro.E" stato un patto di morte nobile e coraggioso, ma non adeguato all'elevatezza dei miei sentimenti. Per un Catone è ugual vergogna chiedere ad altri la morte o la vita. [11] Io sono certo che gli dèi hanno guardato con grande gioia i momenti in cui quell'uomo, così risoluto vindice di se stesso, provvide a salvare gli altri, organizzò la ritirata di chi voleva fuggire, dedicò allo studio anche l'ultima notte, si conficcò la spada nel petto incontaminato e, spargendo le proprie viscere, liberò con le sue mani un'anima santissima, indegna d'esser profanata dal ferro (11). [12] Voglio illudermi che la sua prima ferita sia stata imprecisa e poco efficace per questo motivo: agli dèi non poteva bastare guardar Catone una sola volta.Ne trattennero e richiamarono il coraggio, perché si esibisse nel momento più difficile.Davvero ci vuole più animo per cercare la morte la seconda volta che la prima! E perché non dovevano guardare volentieri il loro pupillo che se ne andava, uscendo di scena con tanto esemplare dignità? La morte consacra quelli il cui morire strappa l'elogio anche di chi ne resta atterrito.

3. [L'avversità giova ai buoni ed a tutto il genere umano.] [1] In seguito, proseguendo il mio discorso, dimostrerò in che misura non sono dei mali quelli che ci sembrano esserli.Al momento, ti enuncio questi temi: gli eventi, che tu qualifichi difficoltosi, avversi, abominevoli, si risolvono, in primo luogo, a favore di quelli stessi che ne sono colpiti; in secondo luogo, a favore di tutto l'insieme umano, del quale gli dèi si curano più che dei singoli; in più accadono a soggetti disposti ad accettarli: se non li accettassero, meriterebbero d'esser rovinati.Aggiungerò che codesti fatti, governati dalla legge del destino, accadono ai buoni in forza di quella stessa predestinazione che li ha voluti buoni.Poi ti convincerò a non compiangere mai un uomo buono, perché può esser ritenuto misero, ma non può esserlo davvero.[2] L'enunciato più difficile, tra tutti quelli che ti ho proposti, sembra essere il primo: questi fatti, dei quali abbiamo orrore e paura, giovano a quelle stesse persone cui accadono.Giova loro mi chiedi l'esser cacciati in esilio e ridotti in miseria, fare i funerali ai figli o alla moglie, esser bollati d'infamia, ridotti all'impotenza? Se ti meraviglia che fatti del genere giovino a qualcuno, deve anche meravigliarti che certi malati vengano curati con il ferro e con il fuoco, oppure con la fame e la sete.Ma se rifletterai tra te e te che a qualcuno, per guarirlo, vengono raschiate e asportate ossa, vengono estratte vene o amputate certe membra che non potrebbero restare unite al corpo senza provocarne la rovina totale, mi permetterai anche di provarti che certi mali cadono a favore delle persone che li subiscono, tanto a favore, per Ercole, quanto altri fatti, peraltro lodati e desiderati, danneggiano chi se ne diletta, e sono paragonabili alle indigestioni, alle ubriacature ed a tutti quei disordini che conducono alla morte attraverso il piacere.[3] Tra i molti meravigliosi aforismi del caro Demetrio (12), c'è anche questo, che ho udito poco tempo fa e ancora mi

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risuona e vibra nell'orecchio: Nessun essere mi pare più infelice dell'uomo che non ha mai subìto una disgrazia.Perché quell'uomo non ha mai avuto modo di mettersi alla prova.Ammesso che tutto sia sempre andato secondo i suoi desideri, o che l'esito li abbia addirittura prevenuti, bisogna dire che gli dèi si sono fatti un cattivo concetto di lui: quello di un uomo non reputato capace di vincere almeno una volta la malasorte, la quale si tiene ben lontana da tutti i più vigliacchi, come se dicesse: Per quale motivo dovrei prendermi costui come avversario? Deporrà subito le armi.Non è il caso di impegnare con lui tutto il mio potere: una leggera minaccia, e sarà sconfitto.Non se la sente di guardarmi in faccia.Debbo cercarmi attorno e trovare un altro con cui lottare.Mi vergogno di attaccar briga con un uomo già rassegnato alla sconfitta.[4] Il gladiatore giudica vergogna l'esser messo a combattere con un avversario più debole, perché sa che non c'è gloria nel vincere chi si lascia battere senza lottare.Altrettanto fa la sorte: si sceglie come degni antagonisti i più forti.Certuni li ignora per disdegno, assale invece tutti i più risoluti ed i più fieri, per poter spiegare contro di loro la sua potenza.Sperimenta il fuoco con Muzio, la povertà con Fabrizio, l'esilio con Rutilio (13), la tortura con Regolo, il veleno con Socrate, la morte con Catone.I grandi esempi, li mette in luce solo la sventura.[5] E" infelice Muzio, quando immerge la destra nel fuoco dei nemici, ed esige, lui da se stesso, il castigo del suo errore? Una mano bruciata che mette in fuga quel re che non aveva saputo cacciare con le armi? Dunque? Sarebbe stato più felice, se si fosse scaldata la mano sul seno dell'amante? [6] E" infelice Fabrizio che, non appena libero dagli impegni di Stato, vanga il suo campicello? Lui, che combatte contemporaneamente la guerra contro Pirro e contro la ricchezza? Lui, vecchio e reduce dal trionfo, che cena vicino al fuoco, con quelle stesse radici e verdure che ha cavato ripulendo il campo? Dunque? Sarebbe più felice, se si imbottisse il ventre di pesci provenienti da lidi lontani e di uccellaggioni esotiche, se stuzzicasse la pigrizia del suo stomaco riluttante con i molluschi dell'Adriatico e del Tirreno, se guarnisse di enormi piramidi di frutta la selvaggina di grossa taglia, la cui cattura è costata la vita a tanti cacciatori? [7] E" infelice Rutilio, quando i giudici che gli hanno inflitto la condanna sono continuamente costretti a giustificarsi di fronte alla storia? Lui che ha accettato con maggior serenità d'animo d'esser strappato alla patria che di rinunciareall'esilio? Lui che è stato il solo a rifiutare qualcosa al dittatore Silla e che, richiamato in patria, non solo non tornò, ma fuggì più lontano? Se la vedano disse quei disgraziati che sono stati sorpresi in Roma dalla tua felice (14) era! Guardino i fiumi di sangue nel foro, le teste dei senatori sulla fontana di Servilio (che era diventata l'obitorio delle proscrizioni di Silla), le masnade di carnefici vaganti per tutta Roma e i cittadini romani uccisi in massa, a migliaia, dopo il giuramento, anzi, in applicazione del giuramento.Guardino questi spettacoli, coloro che non possono andare in esilio. [8] Allora? E felice Silla perché, quando scende nel foro, gli fanno strada con le spade, perché si fa mostrare le teste degli ex consoli e fa pagare dal questore, a spese dello Stato, la taglia di quelle stragi? Eppure tutto questo è opera della medesima persona che ha proposto la legge Cornelia (15) [9] Veniamo a Regolo.Quanto lo danneggiò la sorte, facendo di lui un modello di lealtà, un modello di pazienza? I chiodi gli perforano la cute e, dovunque appoggia il corpo stremato, riceve nuove ferite.Gli occhi sono sbarrati in perpetua veglia: quanto più soffre, tanto maggiore sarà la sua gloria.Vuoi sapere in che misura non è pentito d'aver valutato a questo prezzo la virtù? Guariscilo e mandalo in senato: ripeterà il parere di prima. [10] Credi forse più felice Mecenate (16) che, ansioso per i suoi amori e mortificato dai quotidiani rabbuffi della bisbetica moglie, ha bisogno, per addormentarsi, dell'armonioso e dolce suono di musiche lontane? S'addormenti pure con il vino, si distragga con il fragore delle acque ed inganni con mille voluttà l'incalzare delle sue preoccupazioni: resterà sveglio sulle piume, come Regolo sul patibolo.Ma, per Regolo, è di sollievo il sopportare tormenti per l'onestà e, dalle sue sofferenze, può volgere lo sguardo al motivo di esse.Mecenate, snervato dal piacere e fiaccato dalla troppa felicità, è tormentato più dai motivi della sua sofferenza che dalla sofferenza stessa. [11] I vizi non sono diventati padroni dell'umanità a tal punto che resti dubbio, nell'ipotesi che sia concesso a ciascuno di scegliersi un destino, se nascerebbero più uomini aspiranti ad esser come Regolo o come Mecenate.Oppure, se salta fuori qualcuno che osi dire che preferirebbe nascer Mecenate a nascer Regolo, anche se non lo confessa, costui di fatto aspirava a diventare una Terenzia (17).[12] Pensi che sia stato trattato male Socrate, perché bevve quel veleno, propinatogli dallo Stato, come fosse una medicina di immortalità e disputò sulla morte, finché essa non sopravvenne? Ci si è comportati male con lui, perché gli si raggelò il sangue e, col diffondersi graduale del freddo, gli si spense la vita nelle vene? [13] Quanto è più invidiabile di quelli che sono serviti in calici tempestati di gemme, mentre un cinedo (18), educato a subire tutto, privato della virilità o di sesso equivoco, gli versa e scioglie la neve nel calice d'oro! Costoro potranno misurare nel vomito la qualità del bevuto e sentirsi tornare tristemente in bocca il sapore della bile; Socrate beve il suo veleno in serenità e gioia.[14] Già si è detto a sufficienza nei riguardi di Catone, e tutti saranno concordi nel riconoscere che gli è toccata in sorte una felicità perfetta, dal momento che la natura lo ha prescelto per riservargli il suo terribile urto: E" gravoso aver nemici potenti? Opponiamolo contemporaneamente a Pompeo, Cesare e Crasso.E" umiliante esser sorpassati nella carriera da chi vale meno? Sia posposto a Vatinio (19).

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E" preoccupante esser coinvolto in guerre civili? Combatta in tutto il mondo per la buona causa, e l'insuccesso eguagli la sua ostinazione.E" crudele darsi la morte? Lo faccia.Con questo, che cosa otterrò? Che tutti sappiano che non possono esser questi i mali, se io ne ho giudicato degno Catone.

4. [L'esser sempre felici è ignorare l'altra metà del mondo.] [1] La prosperità può ben cascare addosso al plebeo ed all'uomo della strada, ma è caratteristico dell'uomo grande il costringere alla resa le disgrazie e le paure dei mortali.Invece, l'esser sempre felici e trascorrere la vita senza che nulla mai ti roda l'animo, è ignorare l'altra metà del mondo. [2] Sei un uomo grande? Come posso saperlo, se la fortuna non ti offre la possibilità di manifestare la tua virtù? Sei sceso nell'arena dei giochi olimpici, ma non c'era nessuno oltre te: porti la corona, ma non hai vinto.Non mi congratulo, come si fa con un uomo forte, ma come con un neoconsole o un neopretore: hai una onorificenza in più. [3] Potrei dire altrettanto anche ad un uomo buono, se nessuna situazione di una certa difficoltà gli ha dato modo di manifestare la sua forza d'animo: Ti giudico miserabile, perché non sei stato mai miserabile.Hai attraversato la vita senza imbatterti in un avversario: nessuno saprà di che cosa saresti stato capace, neppure tu.Per conoscere se stessi, è necessario mettersi alla prova: nessuno ha mai conosciuto le proprie forze, se non cimentandosi.Perciò alcuni sono andati volontariamente incontro a disgrazie che tardavano a venire ed hanno cercato l'occasione di far risplendere una virtù già destinata a finire nell'ombra. [4] Gli uomini forti, oso dire, talvolta godono dell'avversità, proprio come i soldati forti godono della guerra.Ricordo che, ai tempi dell'imperatore Tiberio, ho sentito io stesso il mirmillone (20) Trionfo lamentarsi della scarsa frequenza dei giochi: Che bella età va sciupata!.La virtù è avida di pericolo, pensa alla meta, non alle sofferenze che affronterà, perché anche le sofferenze fanno parte della gloria. Gli uomini d'armi si gloriano delle ferite e mostrano con orgoglio il sangue che fluisce fuori della corazza: alle stesse imprese hanno partecipato quelli che tornano illesi dal combattimento, ma si fa più attenzione a chi torna ferito.[5] Dico che Dio provvede, caso per caso, a quelli che vuole siano i più degni d'onore, ogni qual volta offre loro la possibilità concreta di fare qualche cosa con forza e coraggio, e ciò presuppone che la situazione presenti delle difficoltà: penso, ad esempio, ad un pilota nella tempesta o ad un soldato in battaglia.Come posso sapere che coraggio avresti contro la povertà, se nuoti nella ricchezza? Come posso sapere quale costanza avresti contro l'ignominia, l'infamia e l'odio del popolo, se invecchi tra gli applausi, se ti accompagnano la simpatia indistruttibile ed il favore spontaneo di chi propende in qualche modo per te? Come posso sapere con quale equilibrio sopporteresti la perdita dei tuoi figli, se vedi vivi tutti quelli che hai messo al mondo? Ti ho sentito consolare altri: ti avrei conosciuto a fondo, se tu avessi consolato te stesso, se ti fossi proibito di dolerti.[6] Vi scongiuro, non spaventatevi di codeste vicende che gli dèi immortali vi affondano nell'animo come pungoli: la calamità è occasione di virtù.Si possono dire miseri, ed a ragion veduta, quelli che intorpidiscono nell'eccesso di prosperità e che un'inerte bonaccia tiene prigionieri, come su un mare troppo calmo.Qualunque incidente risulterà inatteso: gli eventi spietati colpiscono più a fondo chi non ha esperienza; il giogo pesa sui colli delicati; la recluta impallidisce al pensiero della ferita, mentre il veterano guarda impassibile il suo sangue, perché sa di aver vinto tante volte spargendo sangue.[7] Dunque costoro, quelli che Dio apprezza ed ama, li irrobustisce, li mette alla prova, li allena, mentre quelli con i quali sembra indulgente e remissivo, li riserva, deboli, alle future disgrazie.Ma sbagliate, se pensate che qualcuno sfugga alla regola: anche chi è stato felice a lungo riceverà la sua parte: chiunque sembra esonerato, è soltanto un rimandato.[8] Allora, perché Dio colpisce tutti i migliori, o con le malattie, o con i lutti, o con altri guai? Perché anche negli accampamenti le imprese pericolose sono ordinate ai più forti: il comandante manda truppe sceltissime a tendere al nemico gli agguati notturni, ad esplorare la strada, ad espugnare un fortino.Nessuno, di quelli che escono, dice: Il generale mi ha fatto torto, ma: Ha stima di me.Altrettanto deve dire chi si trova a sopportare ciò che fa piangere i timidi e gli ignavi: Dio ci ha ritenuti degni di sperimentare su noi la capacità di sopportazione della natura umana.[9] Fuggite le delizie, fuggite la prosperità snervante, che imbeve l'anima e l'addormenta in una specie di perenne ubriachezza, se non capita qualche incidente a ricordarle la sorte dell'uomo.Chi ha sempre avuto i vetri che lo riparano dagli spifferi, chi ha sempre avuto i piedi intiepiditi da scaldini continuamente rinnovati, chi ha avuto sale da pranzo sempre riscaldate da tubature disposte sotto il pavimento ed attorno ai muri (21), costui non sarà sfiorato senza pericolo dalla prima corrente d'aria. [10] E poiché nuoce tutto ciò che va fuori misura, è quanto mai pericolosa l'intemperanza nella felicità: turba il cervello, evoca nella mente vane fantasie, getta molta nebbia nello spazio che separa il falso dal vero.Perché non dovrebbe essere più soddisfacente sopportare una continua infelicità, mobilitando la virtù, che crepare di infinito e smodato benessere? Si soffre meno a morire di fame: di indigestione, si scoppia.[11] Gli dèi seguono, con gli uomini buoni, lo stesso metodo degli educatori con i loro discepoli: fanno lavorare di più i più promettenti.Pensi che gli Spartani abbiano in odio i loro figli, perché ne mettono alla prova il carattere con una fustigazione

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pubblica? Sono i loro stessi padri che li esortano a sopportare con forza i colpi dei flagelli e li pregano di esporre, già laceri ed esanimi, le loro piaghe a nuovi colpi (22). [12] C'è da stupirsi allora, se Dio espone a dure prove gli spiriti nobili? Non è mai facile dar prova di virtù.La sorte ci flagella e ci piaga? Sopportiamo: non è crudeltà, è una gara che ci renderà tanto più forti, quanto più spesso la affronteremo.Quelle parti del corpo che l'esercizio tiene in continuo movimento, sono le più robuste.Dobbiamo essere esposti alla malasorte, per risultarne irrobustiti contro i suoi stessi attacchi: a poco a poco, ci farà forti quanto lei, e la frequenza del rischio ci darà il disprezzo del pericolo. [13] E" così che i marinai si fanno un fisico che resiste e sopporta il mare, è così che i contadini si fanno le mani callose.Con la pazienza, l'anima arriva a disprezzare il male che sopporta; che cosa essa possa produrre in noi, lo saprai, se osserverai quanto fornisca la fatica ai popoli privi di tutto ed irrobustiti dalla loro povertà.[14] Osserva i popoli confinanti con la pace romana (23): parlo dei Germani e dei nomadi che s'incontrano nella regione dell'Istro (24).Sono oppressi da un inverno che non finisce mai, da un cielo nemico, sono nutriti grettamente da una terra sterile, si riparano dalla pioggia sotto fasci di erbe o di rami, scorrazzano su paludi indurite dal gelo, catturano fiere per nutrirsi. [15] Ti sembrano miseri? Non c'è miseria in ciò che l'abitudine ha trasformato in seconda natura: a poco a poco, diventa piacevole quello che, all'inizio, era dettato da necessità.Non hanno altra casa o altra residenza, di quella che la stanchezza mette a loro disposizione per un giorno; il vitto è povero e bisogna procurarselo di propria mano, il clima è orribilmente iniquo, i corpi sono nudi.Tutto questo, che a te sembra disgrazia, per tanti popoli è la vita.[16] Ti stupisci allora, se i buoni sono scossi perché diventino forti? Non c'è albero solido e robusto, se il vento non lo colpisce di frequente: quel tormento lo rende più compatto e gli abbarbica più saldamente a terra le radici: sono fragili gli alberi che crescono in valli solatie.E" nell'interesse dei buoni che, per rendersi immuni dal terrore, si trovino spesso di fronte ad esperienze spaventose e debbano sopportare con animo sereno ciò che non è male, se non per chi lo sopporta male.5. [L'utilità dell'esercizio dei buoni e la preghiera di Demetrio.] [1] Ora aggiungi: giova a tutti che i migliori siano, per così dire, sotto le armi ed in servizio attivo.L'intento di Dio e quello dell'uomo sapiente coincidono: dimostrare che tutte le cose che il volgo desidera e tutte quelle che teme non sono di per sé né dei beni né dei mali.Ma ci si convincerà che siano dei beni, se Dio li concederà soltanto agli uomini buoni, e dei mali, se li infliggerà soltanto ai cattivi. [2] La cecità sarà detestabile solo nel caso in cui nessuno perda gli occhi, tranne chi merita che gli siano cavati: diventa dunque ammissibile la cecità di un Appio e di un Metello (25).Le ricchezze non sono un bene: ecco perché può averle anche Elio, il lenone, e gli uomini, dopo aver deificato il denaro nei templi (26), possono vederlo anche nel postribolo.Dio non ha un modo più efficace di mettere alla berlina l'oggetto dei nostri desideri, che il concederlo agli uomini più turpi e stornarlo dai buoni.[3] Ma non è giusto che un buono sia mutilato, trafitto, incatenato, mentre i cattivi se la spassano, integri nel corpo, liberi e pieni di spocchia.Che vuoi dire? Non è ingiusto che uomini forti impugnino le armi, passino le notti nell'accampamento, montino di guardia alla palizzata con le bende ancora sulle ferite, mentre in città non corrono nessun pericolo gli invertiti che fanno commercio della loro impudicizia? E che? Non è ingiusto che vergini delle più nobili famiglie (27) si alzino di notte a compiere i sacri riti, mentre le scostumate si godono i sonni più tranquilli? [4] La fatica mobilita i migliori.Il senato prolunga spesso le sue sedute per l'intera giornata (28): intanto tutti i buoni a nulla, nel Campo (29), si distraggono dal loro dolce oziare, si seppelliscono nelle osterie o ammazzano il tempo in qualche circolo (30).Accade altrettanto nell'immensa repubblica umana: i buoni faticano, si impegnano, si lasciano impegnare, e ben volentieri.Non si fanno trascinare dalla sorte: la seguono e ne sanno tenere il passo.Se conoscessero la meta, sorpasserebbero.[5] Ricordo d'aver udito anche queste coraggiose parole di Demetrio, uomo di eccezionale fortezza: Io posso, o dèi immortali, lamentarmi di voi su questo solo punto: non mi avete fatto conoscere in anticipo la vostra volontà.Certamente mi sarei posto io per primo nella concreta situazione nella quale mi trovo ora, dopo la vostra chiamata.Volete prendervi i miei figli? Li ho messi al mondo per voi.Volete una parte del mio corpo? Prendetela; non è una gran promessa: presto ve lo lascerò tutto.Volete il mio respiro? Perché dovrei frapporre indugio a che voi riscuotiate quanto mi avete prestato? Vi restituirò ben volentieri tutto ciò che reclamerete. [6] Allora? Avrei fatto più volentieri un'offerta che una riconsegna.Che bisogno c'era di portar via? Avreste potuto ricevere.Ma neppure ora porterete via, perché non si strappa una cosa se non a chi la trattiene.Io non mi sento costretto, non soffro contro volontà, non sono schiavo di Dio, ma mi sento d'accordo con lui; tanto più perché so che tutto si svolge secondo una ben precisa legge, promulgata per l'eternità.[7] Il destino ci conduce e la prima ora del nostro nascere ha designato per ciascuno il tempo a sua disposizione.Ogni situazione dipende da un'altra situazione; le vicende private e pubbliche sono trascinate da una lunga concatenazione d'eventi.Bisogna dunque sopportare tutto con fortezza, perché i fatti singoli non sono, come crediamo, degli incidenti, ma degli

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avvenimenti.E" stato stabilito da tempo per quali motivi dovrai godere o piangere e, nonostante che la vita di ciascuno sembri contrassegnata da sorti molto diverse, il conto totale dà un risultato solo: noi, esseri contingenti, riceviamo cose contingenti. [8] Allora, perché sdegnarcene? Perché lamentarcene? Siamo stati partoriti per questo.La natura faccia l'uso che crede del nostro corpo, dato che le appartiene.Noi, sereni e forti di fronte a tutto, pensiamo che non muore nulla di quello che compete a noi.E che cosa compete all'uomo buono? L'offrirsi al destino.E" grande consolazione sentirsi ghermiti insieme con l'universo: qualunque sia la forza che ha stabilito che vivessimo e morissimo così, essa vincola, con altrettanta ineluttabilità, anche gli dèi.Una corsa inarrestabile trascina parimenti l'umano ed il divino.Il creatore e governatore del tutto ha scritto i fati di suo pugno, ma li segue; ubbidisce sempre, dopo aver comandato una volta per tutte.[9] Eppure, perché Dio fu tanto ingiusto, nel distribuire il destino, da assegnare ai buoni povertà, ferite ed acerbi lutti? L'artista non può cambiare la materia.Il primo patto è questo: certe cose non possono esser separate da certe altre cose: sono loro connesse e formano un essere solo.Le personalità insignificanti, destinate al sonno o ad una veglia molto simile al sonno, sono un tessuto di elementi inerti.Per fare un uomo, che debba essere nominato con rispetto, ci vuole un ordito più resistente.E non camminerà in pianura: dovrà salire e scendere, sentirsi sbattuto dai flutti e pilotare la nave nella tempesta, dovrà tenersi in rotta contro la sorte avversa.S'imbatterà in tante difficoltà ed asprezze, ma dovrà esser lui ad ammorbidirle ed appianarle. [10] Il fuoco prova l'oro, la sventura l'uomo forte.Guarda a quale altezza deve arrampicarsi la virtù, e vedrai che il suo itinerario non è privo di rischio (31):

E" ripido il tratto iniziale che, al sorger del giorno, affatica i cavalli ancor freschi.Nel mezzo del cielo, a tal punto s'innalza che il mare e la terra, talora, io stesso non oso guardare: mi prende il timore ed in petto un vile spavento s'insinua.Ma l'ultima parte discende, e vuole una guida sicura.Allora anche Teti (32), dal fondo del mare che sempre m'accoglie, è presa dall'ansia, temendo che io debba precipitare.

[11] Udito questo, il magnanimo giovanetto esclamò: Voglio questo viaggio, salgo: vale la pena farlo, a rischio di una caduta.Il padre non smette di intimorire quell'anima gagliarda:

Se vuoi tenere la strada, senz'essere indotto in errore, diritto il cammino rivolgi di contro alle corna del Toro, all'arco d'Emonia (33), alle fauci irose del truce Leone.

Dopo queste parole, disse: Il cocchio mi è stato concesso, aggioga.Tutto questo, che dici per spaventarmi, mi eccita.Voglio arrivare lassù, dove anche il Sole ha paura.I vili e i pigri si tengono al sicuro; i virtuosi camminano sulle vette.

6. [Il suicidio, estrema risorsa.] [1] Eppure, per qual motivo Dio permette che qualche male accada ai buoni? A dir vero, non è lui a permetterlo: allontana da loro tutti i mali, i misfatti, le infamie, i pensieri malvagi, le ambizioni smodate, la libidine cieca, l'avarizia che agogna ai beni altrui.Li protegge personalmente e li libera, ma c'è chi pretende da Dio anche questo, che si riduca a custodire i bagagli degli uomini buoni? Loro stessi dispensano Dio da questa incombenza: disprezzano le cose esterne.[2] Democrito (34) buttò via le ricchezze, poiché le considerava una soma per una mente saggia.Perché dunque ti meravigli, se Dio permette che accada all'uomo buono ciò che talora l'uomo buono vuole che gli accada? I buoni perdono i figli.Perché no, se, talvolta, li debbono uccidere? (35) Sono cacciati in esilio.Perché no, se, talvolta, lasciano spontaneamente la patria, per non tornare più? Sono uccisi.Perché no, se, a volte, sono loro stessi ad uccidersi? [3] Ma perché subiscono certe dure esperienze? Perché insegnino agli altri a soffrire: sono nati per essere d'esempio.Pensa dunque che Dio dica: Che motivo avete di lagnarvi di me, voi, che avete scelto la rettitudine? Ho disseminato i falsi beni attorno ad altri e ne ho illuso le menti vuote, come con lungo e fallace sogno.Li ho agghindati d'oro, argento e avorio, ma dentro, non c'è nulla di buono.[4] Costoro, che tu scambi per felici, se li osservi non dall'aspetto esterno, ma da quanto non appare, sono esseri meschini, gretti, turpi, ben rifiniti in superficie come le pareti delle loro case.Non è questa la felicità sostanziosa e genuina: è una crosta, ed anche sottile.Perciò, finché è loro possibile tenersi in piedi e mostrarsi quali vogliono apparire, brillano e la danno ad intendere, ma, non appena accade qualcosa che li sconcerta e smaschera, allora emerge tutta la spessa ed autentica sporcizia che si

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nascondeva sotto un falso splendore.[5] A voi ho dato dei beni genuini e duraturi, che risulteranno tanto più belli e grandi, quanto più attentamente li si prenderà in considerazione e li si esaminerà sotto ogni aspetto.Vi ho messi in condizione di disprezzare ciò che incute timore e di aver in uggia ciò che è oggetto d'ambizione.Di fuori, non siete brillanti: i vostri beni sono proiettati verso l'interno: allo stesso modo, il cielo disprezza ciò che gli è esterno e si compiace di contemplare se stesso.Tutti i vostri beni li ho riposti dentro di voi: la vostra felicità consiste nel non aver bisogno d'esser felici.[6] Ma accadono tanti fatti tristi, orribili, insopportabili...Dato che non avrei potuto sottrarvi a codeste esperienze, vi ho armato l'anima contro tutto.Sopportate da forti.In questo, potete passare avanti anche a Dio: egli è esente dalla sopportazione del male, voi siete superiori alla sopportazione.Disprezzate la povertà: nessuno vive tanto povero, quanto lo era al momento della nascita.Disprezzate il dolore: o ve ne libererete, o libererà voi.Disprezzate la morte: essa segna o la vostra fine o il vostro trasferimento.Disprezzate la sorte: non le ho dato nessun dardo capace di ferire l'anima.[7] La mia prima preoccupazione è stata di far sì che nessuno potesse trattenervi contro voglia: l'uscita è sempre aperta (36).Se non volete combattere, potete fuggire.Per l'appunto, tra tutte le esperienze che volli vi fossero inevitabili, non ne ho resa nessuna più accessibile della morte.Ho posto la vita su un pendio: precipita.Fate un po'"di attenzione, e subito vedrete quanto sia breve e sgombra la strada che conduce alla libertà.Non ho messo tanti ostacoli all'uscita, quanti ce ne sono sull'ingresso, sennò la sorte avrebbe un illimitato dominio su di voi, se l'uomo impiegasse tanto a morire, quanto a nascere. [8] Ogni momento, ogni luogo vi insegni quanto sia facile ricusare la natura e ributtarle in faccia il suo dono.Anche tra gli altari e le solennità stesse dei riti sacrificali che si celebrano per implorare la vita, imparate a conoscere la morte: tori di grossa taglia cadono ad una piccola ferita, animali di grande vigore si abbattono al colpo di una mano d'uomo.Una lama sottile spezza la giuntura del collo e, una volta recisa l'articolazione che congiunge il capo al collo, quell'animale enorme crolla. [9] La vita non è nascosta in profondità e non c'è bisogno di estrarla con il ferro, non c'è bisogno di affondare la ferita fino a mettere a nudo i precordi: la morte è a portata di mano.Non ho nemmeno designato luoghi precisi per queste ferite: è aperta qualunque strada tu preferisca.La morte propriamente detta, il momento della separazione dell'anima dal corpo è troppo breve, perché se ne possa cogliere l'assoluta istantaneità.Sia che un cappio vi strozzi la gola o che l'acqua vi tolga il respiro, sia che vi fracassiate la testa buttandovi contro il duro suolo o che interrompiate l'alternarsi del respiro, aspirando esalazioni di combustione (37), qualunque mezzo usiate, il risultato è rapido.E non arrossite? Voi temete per tanto tempo una cosa che si compie all'istante.

NOTE.Nota 1.Gaio Lucilio Iuniore, più giovane di Seneca d'una decina d'anni, aveva avuto umili natali in Pompei (Sen., "Ep." 49,1, 70,1).Intraprendente, colto ed ambizioso, costruì sulle sue doti e sulle molte amicizie (ivi, 19,3) la sua carriera, che inaugurò come cavaliere sotto Caligola e condusse, quale procuratore della Sicilia (ivi, 31,9), sotto Nerone.Seneca lo converti dall'epicureismo allo stoicismo, ne lodò la prosa ed i versi ("Nat. quaest.", 4 praef. 14) e gli dedicò, oltre a questo dialogo, le "Questioni naturali" e le 124 "Epistole".Alcuni studiosi recenti lo suppongono autore del poemetto "Aetna".Ignoriamo se sopravvisse a Seneca o ne condivise la sorte.Nota 2.Da esperto giurista, Seneca mutua spesso il linguaggio del foro.Nota 3.Tra gli antichi, era condivisa da alcuni, confutata da altri, l'ipotesi che il mare alimentasse, attraverso canali sotterranei, le sorgenti dei fiumi (Lucan., "Phars.", 10,247 ss.).Nota 4.L'aria, sede dei fenomeni meteorologici, con i quali venivano connessi i fenomeni geologici e geofisici, in quanto causati o alimentati da circolazione d'aria (Sen., "Nat. quaest." 5,15; "Aetna" 171-172).Nota 5. "Animali": termine generico: forse Seneca allude agli uccelli che venivano rinchiusi al buio, immobilizzati e ingrassati per le mense (Sen. "Ep." 122,4).Nota 6.Nel circo, s'intende, nel quale ormai si esibivano anche i rampolli delle famiglie nobili.Nota 7.Altra allusione al circo: si tratta di gladiatori.

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Nota 8. "Marco Porcio Catone Uticense", pronipote del Censore, divenne comandante supremo delle forze pompeiane, dopo la sconfitta di Farsalo e la morte di Pompeo (48 avanti Cristo).Le sue truppe furono sconfitte a Tapso nel 46 avanti Cristo.Rifugiatosi in Utica, si diede la morte per non arrendersi a Cesare.Seneca e il suo nipote Lucano contribuirono notevolmente a fare dell'Uticense l'emblema delle libertà repubblicane.Nota 9. "Porte": di Utica Nota 10. "Marco Petreio", già legato di Pompeo in Spagna dal 54 al 49 avanti Cristo.Giuba era re della Numidia e di fede pompeiana.Secondo l'apocrifo cesariano "La guerra d'Africa" (circa 94), nel durissimo duellosuicidio cadde il solo Petreio.Giuba si fece uccidere da uno schiavo.Nota 11.I ripugnanti particolari del laborioso suicidio sono ricordati anche da Plutarco ("Cato", 70,6).Nota 12. "Demetrio": filosofo cinico, professava in Roma già al tempo di Caligola.Fu ascoltato e ammirato da Seneca, che lo ricorda con particolare frequenza nelle sue opere più tarde ("Nat. quaest.", 4 praef. 7; "Ep." 20,9; 62,3; 67,14; 91,19).Demetrio assistette, fino agli ultimi momenti, Trasea Peto, una delle più illustri vittime della crudeltà di Nerone (Tac., "Ann." 16,34).Nota 13.Ai personaggi già consacrati dalla tradizione, quali Muzio Scevola, Fabrizio, Attilio Regolo, Seneca accosta P. Rutilio Rufo, oratore e giurisperito, ingiustamente esiliato da Silla.Sull'episodio, cfr.Val.Max. 2,10,5; Sen., "Benef." 6,37,2.Nota 145. "Felice": ironia su Silla, che s'era soprannominato "Felix".Un orrendo quadro delle sue stragi si legge in Lucano, "Phars." 2,139 ss.Nota 15.La severa "Lex Cornelia" sugli omicidi e gli avvelenamenti, proposta da Silla nell'81 avanti Cristo.Nota 16.Di "G.Cilnio Mecenate", il noto amico di Augusto e protettore di illustri poeti, Seneca ricorda spesso l'effeminatezza ("Ep." 19,9; 92,35; 101,10-13; 114,4-8; 120,19).Nota 17. "Terenzia": la chiacchierata moglie di Mecenate.Nota 18. "Cinedo": giovane schiavo, esperto nello stuzzicare la lascivia dei convitati.Nota 19. "Publio Vatinio", politicante di parte cesariana, ma a volte vicino a Pompeo, tutti odiò e da tutti fu odiato.Lo detestarono nei loro scritti Catullo (14,3; 53,2); Cicerone ("Orat. in Vatinium"; "Phil." 10,13) e Seneca ("Const." 2,1; "Ep." 118,4; 120,19).Nota 20.Il "mirmillone" era un gladiatore detto anche Gallo, perché equipaggiato con armi di foggia gallica.Combatteva con spada corta, grande scudo ed un caratteristico elmo fregiato da un cimiero a foggia di pesce ("mórmylos").A quel cimiero alludeva la strofetta cantata dal reziario, che affrontava un mirmillone con rete e tridente: Non te cerco, cerco il pesce; perché fuggi, Gallo?.Tiberio aveva notevolmente ridotto la frequenza degli spettacoli, per evitare che il popolo ne approfittasse invocando provvedimenti di clemenza (Sveton., "Tib." 47).Nota 21.Seneca enumera le più recenti e raffinate tecniche edilizie.Anche i vetri alle finestre erano una novità (cfr. "Ep." 90,25).Nota 22.La pubblica fustigazione, praticata annualmente a Sparta con solennità rituale, davanti all'ara di Artemide "Orthia", provocava talora la morte (Plutarch., "Instit.Lacon." 40; Cic., "Tusc." 2,46).Nota 23.L'espressione "pace romana", se adibita, come in questo caso, in senso storico e concreto, significava l'insieme del dominio territoriale romano in quanto caratterizzato dalla diffusione delle tradizioni, del costume, delle leggi e delle istituzioni romane.Nota 24. "Istro": uno dei due nomi del Danubio, che i poeti romani chiamarono appunto "il fiume dai due nomi".L'inclemenza del clima in quelle regioni e la povertà delle loro popolazioni, sono luoghi comuni nella letteratura del tempo, certamente non scevri da esagerazioni: cfr. "Ira" I, 11,3.Nota 25. "Appio Claudio Cieco", costruttore della via Appia e dell'acquedotto Appio, fu censore nel 312 avanti Cristo.Nel 280, dissuase i senatori dall'accettare le proposte di pace di Pirro.Sulla figura di "L.Cecilio Metello", s'intrecciano storia e leggenda.Console nel 251 avanti Cristo, vincitore d'Asdrubale nel 250, fu Pontefice Massimo nel 243.Avrebbe perduto l'uso degli occhi nel 241, quando, incendiatosi il tempio di Vesta, ne trasse dalle fiamme il Palladio

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(Liv., "Epit." 19; Cic., "Scaur." 48; Plin., "Nat. bist." 7,141).Nota 26.Allusione al culto della dea Pecunia (August., "Civ.Dei" 4,21; Arnob., 4,9).Nota 27.Le Vestali.Nota 28.Sui limiti dell'orario dell'attività del senato, cfr. "Della tranquillità dell'animo", 17,7.Nota 29.Al "Campo Marzio", osservando gli esercizi degli atleti o discutendo di politica.Nota 30.Si designavano come "circoli" anche ritrovi non culturali o comunque futili.Nota 31.Seneca cita Ovidio ("Metam." 2,63 ss.).Apollo Sole tenta di dissuadere Fetonte dal porsi alla guida del suo cocchio.Nota 32.La canuta "Tethys", mitica sposa di Oceano, non l'avvenente Nereide, madre d'Achille ("Thetis") Nota 33.La costellazione del Sagittario, detta anche Centauro.L""Emonia" è la Tracia, mitica patria dei biformi arcieri.Nota 34. "Democrito": il noto filosofo d'Abdera avrebbe speso l'intero suo patrimonio in viaggi di studio (Laert.Diog., 9,35-36, 39).Nota 35.Si allude a quei padri romani, in particolare a Lucio Giunio Bruto, fondatore della repubblica, e a Tito Manlio Torquato, che, nell'esercizio del loro ufficio, dovettero condannare a morte i propri figli.Nota 36.Cfr. l'apologia del suicidio, condotta con topica parallela, in "Ira" IlI, 15,3-4.Nota 37.Così ho tradotto, con il Waltz (Parigi 1950) le parole "haustus ignis".Non credo che Seneca, nel contesto d'un discorso inteso a dimostrare che il suicidio è facile e rapido, abbia voluto rievocare il leggendario inumano suicidio di Porcia, la figlia di Catone Uticense, che avrebbe trangugiato carboni accesi (Val.Max., 4,6,5; Plutarch., "Brut." 53; Dio Cass., 47,49: Mart., 1,42).

DELLA COSTANZA DEL SAPIENTE.Il sapiente non subisce né ingiuria né offesa."Nulla virtus est, quae non sentias perpeti."

"Non è virtù sopportare quello che non ti fa soffrire".(10,4)

PREFAZIONE.Il destinatario dell'opuscolo.Conosciamo meglio l'itinerario spirituale di Anneo Sereno, il cortigiano e funzionario di Stato che Seneca convertì dall'epicureismo allo stoicismo, che non la sua biografia.Tacito ne annota il nome in una sola occasione ("Ann." 13,13), senza degnare il personaggio d'un pur breve profilo: con sbrigativo sdegno, lo fa muovere sullo sfondo del più anonimo e amorale servilismo.Sereno s'era finto amante di Atte, la liberta favorita di Nerone, per mascherare la tresca che il giovane imperatore manteneva dopo le nozze con Ottavia.Soltanto da Plinio, e per inciso ("Nat. hist." 22,96), sappiamo che Sereno fu anche "prefetto dei vigili", il corpo di guardia notturna che Augusto aveva istituito per prevenire gli incendi e i crimini: la prestigiosa carica fu coperta anche da Ofonio Tigellino (Tac., "Hist." 1,72).Ma Plinio nomina Sereno per ricordare ai lettori che il veleno dei funghi ha mietuto vittime illustri.Anche la memoria, una sola, che gli dedica Seneca nelle "Epistole" (63,14-15), è misurata, cauta, quasi elusiva.Il filosofo confessa d'aver pianto la morte del "carissimo" Sereno, tanto più giovane di lui, ma si preoccupa maggiormente di rimproverare a se stesso le smodate manifestazioni di quel dolore, che di rievocare la figura dello scomparso.Gli aveva dedicato tre dialoghi, di livello e tono diversi, perché la fisionomia spirituale dell'amico e discepolo era via via profondamente mutata: "Della costanza del sapiente"; "Della tranquillità dell'animo"; "Dell'ozio".I tre scritti punteggiarono le tappe del cammino d'un uomo che passa da un epicureismo puntiglioso, convivente con l'ambigua attività del cortigiano, alla discussione, in chiave stoica, del quesito se lasciare o meno la vita pubblica, per rispondere alla vocazione contemplativa.Ed è forse più esatto dire che Sereno passò da una sostanziale sfiducia nella filosofia al cercare in essa il quieto porto della sua movimentata esistenza.

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Nessuna fonte esterna, nessun sicuro indizio ci permette di distribuire con maggior esattezza i tre dialoghi nel lungo arco d'anni che intercorse tra la morte di Caligola (41 dopo Cristo) e quella di Anneo Sereno (63 o 64).L'opinione più diffusa tra gli studiosi è che il primo incontro tra Seneca ed il suo più giovane amico, l'incontro dal quale, dopo breve tempo, derivò lo scritto "Della costanza del sapiente", sia avvenuto a corte, all'inizio dell'impero di Nerone (anno 54).Non manca però chi, come R. Waltz (ediz., Parigi 1950, IV, p. 33), tenta di far risalire la data del dialogo ai primi anni dell'esilio di Seneca (41-42 dopo Cristo) e chi, come G. Viansino (prefaz. all'edizione, Roma 1968, p. 11), vuol restringere ulteriormente i tempi del faticoso cammino di Sereno e suggerisce di datare il dialogo all'anno 58.I limiti speculativi della trattazione.A prima lettura, il dialogo rivela due limiti appariscenti: a) la distinzione tra ingiuria ed offesa, che vorrebbe essere basilare e ripartisce il discorso in due sezioni, è giuridica, non filosofica.L'ingiuria è caratterizzata semplicemente dalla concomitanza di un oggettivo danno dell'ingiuriato, che manca affatto nell'offesa, che neppure le leggi hanno ritenuta degna d'alcuna punizione (10,1); b) nella prima sezione, l'esposizione si mantiene su un piano più propriamente propedeutico alla filosofia, che non decisamente filosofico; nella seconda, essa si riduce ad una "sintomatologia della sapienza", un caso particolare di quella "fenomenologia della morale" che in Roma, ad opera soprattutto di Cicerone, aveva sostituito la vera e propria speculazione filosofica (G. Reale, "Storia della filosofia antica", IlI, Milano 1976, p. 556).Politicamente, i tempi di Cicerone erano ormai lontani e risultava storicamente inattuale il suo tentativo di fare della filosofia l'ultimo baluardo d'una tradizione istituzionale ed il principio animatore in vista d'un rilancio della presenza operante del cittadino nello Stato repubblicano.Ma restava viva, del suo messaggio, l'opzione per una morale media, capace di conferire dignità di virtù alla vita dell'uomo storico, anche se privo di specifiche attitudini speculative.Egli aveva scritto: Non penso che la filosofia non possa essere appresa su testi greci e da maestri greci, ma sono sempre stato convinto che noi Romani abbiamo sempre saputo scoprir tutto con maggior saggezza dei Greci o che, comunque, abbiamo saputo migliorare le loro scoperte ("Tusc." 1,1).Al Romano spetta professare, sia nella vita pubblica che nel suo "otium", una saggezza pratica: la storia della sua città gli offre una vasta scelta di nomi e d'esempi; egli vivrà una saggezza appetibile a tutti, un buon senso qualificato dall'avveduta scelta d'alcune virtù e ancora capace di produrre una grande storia, punteggiata da figure d'eroi (P. Boyancé, "Etude sur le Songe de Scipion", Limoges 1936, p. 174).Non è indispensabile, dunque, collocare, alla maniera greca, il discorso morale nel contesto d'una esegesi delle grandi leggi dell'universo e del sottile studio della mente umana; non che tale studio sia vuoto di senso, ma è una conoscenza destinata a rimanere monca, finché non si traduca in morale media, in concreto rapporto con una comunità umana storica (Cic., "Off." 1,153-154; "Leg." 1,28).La formazione culturale di Sereno era storicoletteraria, non filosofica.Nulla, nel dialogo, lascia intendere che egli conosca direttamente e a fondo le opere di Epicuro.Seneca ne cita una sola massima: Di rado la sorte ha la meglio sul sapiente (15,4; sener, "Epicurea", p. 74, XVI): Sereno poteva ben conoscerla attraverso Cicerone, che l'aveva citata e commentata almeno tre volte ("Fin." 1,63; 2,89; "Tusc." 5,26).Crisippo doveva essere per Sereno poco più d'un nome, e Seneca lo citerà soltanto per inciso (17,1).Infine, il ricorso al sillogismo non valica mai i limiti della dialettica spicciola, familiare a chiunque avesse frequentato le lezioni di un retore.L'epicureismo di Sereno sembra più professato che vissuto, fideistico, acritico.Una moda? Da lui comunque il filosofare è concepito come ricerca di autonomia dell'individuo nel turbinare della storia.E ha lasciato anche su di lui le sue tracce la tradizionale diffidenza romana per la teoresi greca.

Analisi di struttura.La dosata maieutica di Seneca seppe scoprire in Sereno: a) l'aspirazione, fondamentalmente sincera, ad una pace dello spirito che fosse, quanto meno, assenza di turbamento; b) il dubbio, se non la sfiducia, su una delle più ottimistiche proposizioni di Epicuro: nelle dimensioni del reale c'è spazio per la felicità dell'uomo (G. Reale, "op. cit.", IlI, p. 174).Ma questa proposizione contiene il presupposto d'ogni filosofare.La crisi di Sereno, che apparentemente si collocava tra l'epicureismo e lo stoicismo, era in realtà uno stato di sfiducia nella validità stessa del filosofare.Se le obiezioni antistoiche di Sereno sono acrimoniose, e risulta invece moderata e ovattata la critica di Seneca all'epicureismo, lo si deve all'aver Seneca intuito che non si giocava una partita tra scuole: la posta in gioco era la validità stessa del filosofare; c) un concetto ancor grezzo di equilibrio morale.Sereno conosce genericamente l'autodeterminazione morale ("autàrcheia") e l'apatia intesa come risultante da un processo di totale isolamento dell'io.Ma è altrettanto convinto che il male colpisca inesorabilmente l'uomo e che sia illusoria ogni programmazione d'un domani moralmente valido.Ed ecco le risposte di Seneca.1) Cc. 3-7: convenendo con Sereno che la virtù non può essere ridotta alla quotidiana pazienza, ispirata dal buon senso (3,2), Seneca prospetta la necessità di prendere atto criticamente di un primo fattore storico, obiettivo: la stoltezza ha

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cancellato l'innocenza dal vivere umano (4,3).E un fattore esterno all'uomo sapiente, e tale deve rimanere.Siamo ancora sul terreno comune epicureostoico, ma Seneca sta insinuando nel fideismo epicureo la razionalità stoica: non è possibile non constatare che uomini ideali sono già esistiti nella storia e che altri potranno esisterne (7,1).2) Cc. 7-9: l'apatia rischia di ridursi ad inaccettabile insensibilità, se la si risolve in puro e semplice individualismo.E" necessario rintracciarne il fondamento razionale, che si ricollega alle radici stesse della moralità delle azioni.Quest'ultima si evince primieramente dalla loro volontarietà e intenzionalità, un fattore bastevole per contrapporre l'uomo al fatto storico e alle sue conseguenze materiali (7,4).Ma l'uomo non può rendersi ragione delle sue scelte operative, se non si ispira ad un valore esterno, a lui superiore: avanzare tra le vicende umane con intento divino (8,3).Seneca ha già condotto l'allievo entro il terreno stoico e potrà specificare che appunto in quel collocarsi in posizione vicina, o quasi uguale, a quella degli dèi (8,2) consiste la sapienza capace di sottrarre l'uomo al fortuito (c. 9); 3) Cc. 10-19: sono i capitoli della seconda sezione.La sapienza si manifesta come magnanimità.Seneca intende questa virtù in chiave eminentemente psicologica e ne fa una "maturità".Il sapiente non è insensibile al male (10,4), ma sa compatire l'infantilismo degli irriflessivi (c. 11), esser superiore ai loro giudizi di lode o biasimo (c. 13), alla banalità del quotidiano (c. 14).La magnanimità non ignora il senso dell'umorismo e dell'autoironia (cc. 17-19).Rilievi critici sulle digressioni dell'opuscolo.Un'ultima annotazione ci pare doverosa su questo dialogo, la cui linearità rende superflue ulteriori note di merito.L'esposizione di Seneca è introdotta, interrotta e conclusa da tre digressioni storiche.La prima, relativa alla figura ricorrente di Catone Uticense (c. 2), completa il quadro della preparazione filosofica di Sereno, che già s'era delineato.Sereno è giunto alla filosofia attraverso la letteratura e, in particolare, conosce l'epicureismo attraverso le più vive pagine di Lucrezio.Il discorso di Seneca su Ercole e sulle sue mitiche fatiche e la connessa contrapposizione tra mito, storia e concreto impegno morale, riprendono e riassumono un notissimo passo lucreziano (5,22-54).Addirittura sconcertante può risultare l'episodio di Stilpone di Megara (5,6; 6,1-7), soprattutto per l'inumana professione d'apatia fatta pronunciare al personaggio, che troppo emerge dal contesto in forza dell'amplificazione eloquenziale del dettato.Ciò che dovrebbe costituire una prima e inaccettabile presentazione del concetto di autarchiaapatia, finisce col nascondere al lettore i successivi sviluppi e la stessa umanizzazione del concetto proposto.Siamo costretti a rintracciare la vera posizione di Seneca nelle "Epistole a Lucilio".Anche Epicuro, precisa ivi Seneca, aveva criticato l'inumanità dell'apatia stilponiana, e aggiunge: Tra noi e loro c'è questa differenza: il nostro sapiente sa vincere ogni disagio, ma ne soffre ("Ep." 9,3).Piuttosto posticcia sembra la digressione su Caligola (c. 18), altro personaggio ricorrente nella prosa di Seneca.Alla corte di Nerone è d'obbligo adulare la saggezza e mitezza del nuovo principe, contrappuntandola con esempi di dissennatezza tirannica.Nel trattato "Della clemenza", che accompagnò con funzione di panegirico l'inizio del principato di Nerone e sancì, dopo l'esperienza della "Consolazione a Polibio", il costume di rivolgersi in termini d'apoteosi anche ad imperatori viventi, Seneca immise una trasparente allusione a Caligola, emblema della più squallida e dissennata tirannia ("Clem." 2,2,2).

DELLA COSTANZA DEL SAPIENTE.1. [Severità della dottrina stoica.] [1] Credo di poter dire a ragion veduta, o Sereno, che tra gli stoici e tutti gli altri che fanno professione di sapienza intercorre tanta differenza quanta ce n'è tra le femmine e i maschi: i due gruppi contribuiscono in misura uguale al vivere insieme, ma una delle due parti è nata per ubbidire, l'altra per comandare.Tutti gli altri sapienti usano modi cortesi e blandi e si comportano, più o meno, come quei medici che fanno parte della servitù di casa (1), i quali non prescrivono le cure migliori e più rapide, ma quelle che garbano al malato.Gli stoici, che adottano un procedere virile, non si curano che esso si prospetti gradevole a chi lo intraprende, ma che ci liberi al più presto e ci conduca a quella vetta che supera talmente ogni portata di dardo, da ergersi al di sopra della sorte.[2] Ma si dirà il sentiero sul quale ci invitate, è ripido e dirupato.Ebbene, si arriva forse alle vette attraversando pianure? E non è neppure così scosceso come qualcuno crede.Soltanto il primo tratto presenta sassi e rupi e sembra impraticabile, come per lo più sembrano scoscesi e compatti i costoni a chi li guarda da lontano, quando la distanza inganna la vista, ma poi, man mano che ci si avvicina, tutto quello che l'occhio incerto aveva sovrapposto e confuso, a poco a poco, si dipana e quelle pareti, che da lontano sembravano ripide, diventano dolci declivi.

2. [Il sapiente di fronte all'ingiuria: l'esempio di Catone.] [1] Qualche tempo fa, caduto il discorso su Marco Catone (2), mostravi sdegno, tu che non tolleri le ingiustizie, perché i suoi contemporanei capirono poco Catone, perché lo relegarono più in basso dei Vatini (3), sebbene emergesse sopra i Pompei ed i Cesari, e ti sembrava intollerabile che gli fosse stata strappata di dosso la toga nel foro, quando stava per parlare contro una certa legge e che, trascinato dalla

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squadraccia di un partito sedizioso dai Rostri fino all'arco di Fabio, avesse dovuto sopportare gli insulti, gli sputi e tutte le altre angherie di una folla imbestialita.[2] Allora io ti risposi che avevi ragione a sdegnarti per la causa della repubblica, dato che Publio Clodio (4) da una parte, Vatinio dall'altra, e con loro tutti i peggiori, la mettevano in vendita e, presi dalla loro cieca cupidigia, non si rendevano conto che, vendendola, vendevano anche se stessi.Ma per la persona di Catone, ti dissi di non darti pensiero, perché nessun sapiente può ricevere né ingiuria né offesa, e gli dèi ci avevano dato Catone come un modello di uomo sapiente, meglio definito che non l'Ulisse e l'Ercole che sono stati dati alle età primitive.Questi ultimi vennero dichiarati sapienti dagli stoici, nostri predecessori, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure. [3] Catone non combatté con le belve, che lasciamo inseguire ai cacciatori ed ai contadini, non diede la caccia ai mostri con il fuoco ed il ferro, e non capitò a vivere in tempi in cui si poteva credere che il cielo posasse sulle spalle di un gigante, ma quando era già stata bandita la creduloneria degli antichi e il mondo era perfettamente scaltrito.Dichiarata guerra all'ambizione, il male dai mille aspetti, ed a quella smisurata brama di potere, che neppure la spartizione del mondo fra i triumviri (5) poteva saziare, si eresse, lui solo, contro i vizi di una città degenerata, che stava affondando per il suo stesso peso, e ritardò la caduta della repubblica, per quanto era possibile farlo con una sola mano, fino al momento in cui, travolto dal crollo, volle essere partecipe del disastro che aveva cercato di impedire.Così morirono insieme le due realtà che sarebbe stato nefando separare: né infatti Catone sopravvisse alla libertà, né la libertà a Catone.[4] Pensi che un uomo del genere sia stato raggiunto dall'ingiuria del popolo, quando gli fu tolta la pretura o la toga, o quando il suo santo capo fu asperso di sozzi sputi? Il sapiente è al sicuro e non può essere raggiunto né da ingiurie, né da offese.

3. [Lo stoico non è soltanto un paziente: è un forte.] [1] Mi pare di vederti dentro, tutto fuoco e bollore.Stai per sbottare: Questa è roba che toglie ogni credibilità a quanto insegnate.Promettete grandi cose, tali che non si possono desiderare e nemmeno credere (6), poi, dopo aver detto parolone, dopo aver detto che il sapiente non può essere povero, confessate che spesso non ha una casa, uno schiavo, il cibo; dopo aver detto che il sapiente non può essere pazzo, ammettete che può impazzire, dire parole insensate, osare ciò cui lo costringe la violenza della sua malattia; dite che il sapiente non può essere schiavo (7), e non negate che può esser messo in vendita e costretto ad ubbidire a comando ed a prestare al suo padrone servigi da schiavo.Così, pieni di spocchia, scendete a dire le stesse cose che dicono gli altri, cambiandone soltanto i nomi. [2] Sospetto che qualcosa del genere entri anche in questa tesi, che pure,a prima vista, è bella e meravigliosa, secondo cui il sapiente non può ricevere ingiuria né offesa.Ma c'è una bella differenza tra il porre il sapiente al di sopra dello sdegno e porlo al di sopra dell'ingiuria.Infatti, se vuoi dire che saprà sopportare serenamente, non ha nessun privilegio e gli è toccata in sorte una virtù comunissima, che s'impara dalla frequenza stessa delle ingiurie: la pazienza.Se, invece, mi dimostri che non riceverà ingiurie, cioè che nessuno tenterà di fargliene, pianto tutti i miei affari e mi faccio stoico.[3] Ebbene, io non mi sono proposto di fregiare il sapiente di parole onorifiche fittizie, ma di porlo in quel luogo in cui non sia possibile nessuna ingiuria.Che significa? Che non ci sarà nessuno che lo stuzzichi, lo assalga? Al mondo, non c'è nulla di tanto sacro che non trovi un sacrilego.Ma non per questo le cose divine sono meno in alto, dacché esiste chi brama attaccare, anche se destinato a non toccarla neppure, una grandezza posta molto oltre le sue forze.L'invulnerabilità non consiste nel non essere colpiti, ma nel non restare feriti: ti farò riconoscere il sapiente sulla scorta di questo contrassegno.[4] E" dubbio forse che ispira più fiducia una forza che non si lascia vincere, che una che non viene assalita? Di forze non messe alla prova, si può dubitare, ma è giusto ritenere saldissima quella tenacia che rintuzza tutti gli assalti.Sappi, dunque, che il sapiente è meglio qualificato se l'ingiuria non gli nuoce, che se non gli viene fatta.Ed io definirò forte quell'uomo che non si lascia soggiogare dalle guerre od atterrire dall'avvicinarsi dell'esercito nemico, non quello che fruisce di ottusa tranquillità, tra popoli ignavi. [5] Confermo, dunque, che il sapiente non è soggetto ad alcuna ingiuria.Pertanto, non importa quanti dardi gli siano scagliati contro, perché è impenetrabile a tutti.Come la durezza di certe pietre resiste al ferro, come l'acciaio non si lascia segare, incidere, limare, ma ricaccia da sé gli attrezzi, come certi corpi non possono essere consumati dal fuoco, ma conservano la propria consistenza e forma anche in mezzo alle fiamme, come certi scogli, prominenti verso l'alto mare, frangono i flutti, senza mostrare alcuna traccia della violenza che li flagella da tanti secoli, così è solida l'anima del sapiente e raccoglie la forza occorrente per essere tanto sicura da ingiuria, quanto le cose che ho citate ora.

4. [La superiorità del sapiente.] [1] Che vuoi dire? Che non ci sarà nemmeno una persona che tenti di fare ingiustizia al sapiente? Ci proverà, ma essa non riuscirà mai a raggiungerlo, giacché ha frapposto troppa distanza fra sé e le cose spicciole perché una forza nociva possa spingere la sua prepotenza fino a lui.Anche quando i potenti, eccelsi per la loro sovranità e forti del servilismo dei sudditi, tenteranno di nuocere, i loro

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attacchi si esauriranno a livello tanto inferiore a quello della sapienza, quanto quei dardi che, scagliati da corde o da macchine, prima balzano in alto a perdita d'occhio, ma poi ricadono, senza aver raggiunto il cielo. [2] Ancora: pensi che, quando quel re dissennato (8) oscurò il giorno con un nembo di dardi, una sola freccia abbia colpito il sole? O che, quando calò catene in alto mare, fosse possibile cogliere Nettuno? Come gli esseri celesti sfuggono alla mano dell'uomo e gli dèi non subiscono danno da coloro che distruggono i templi o fondono le statue, così tutto ciò che è fatto contro i sapienti con arroganza, insolenza, orgoglio, è sforzo vano.[3] Ma non converrebbe di più che non esistesse nessuno con l'intenzione di farlo? Tu auspichi una cosa difficile alla genia umana: l'innocenza.Che le offese non si facciano, è problema che riguarda chi è disposto a farle, non chi le sa sopportare qualora gli si facciano.Anzi, forse la sapienza mostra meglio la sua forza restando tranquilla tra gli assalti, come la perfetta sicurezza mette in piena luce un comandante, forte di armi e uomini, in terra nemica.

5. [La natura dell'ingiuria e l'esempio di Stilpone.] [1] Distinguiamo, o Sereno, se sei d'accordo, tra ingiuria ed offesa.La prima è più grave per natura, la seconda è più leggera ed è molesta solo ai permalosi; non danneggia gli uomini, ma li affligge.Essi però sono talmente dissennati e superficiali che c'è tra loro chi la ritiene la cosa più tormentosa.Così puoi trovare uno schiavo capace di preferire le frustate agli schiaffi, o di giudicare più sopportabili la morte e le verghe che le parole offensive. [2] Siamo arrivati a tale assurdità, che non ci tormenta soltanto il dolore, ma anche l'idea di soffrire, come fanno i bambini che si spaventano di un'ombra, di una maschera deforme o di un volto sfigurato, o cominciano a piangere se odono parole di suono sgradevole, vedono muovere le dita o altro da cui essi, vittime dell'impulso sbagliato, rifuggono per inesperienza.[37 L'ingiuria si propone specificamente di infliggere del male a qualcuno.Ma la sapienza non concede spazio al male: per essa, infatti, è male soltanto l'infamia, e questa non può entrare là dove si sono già insediate la virtù e l'onestà.Dunque, se non c'è ingiuria dove non c'è male (9), non c'è male dove non c'è l'infamia e l'infamia non può raggiungere chi è dedito all'onestà, l'ingiuria non raggiunge il sapiente.Infatti se l'ingiuria è il subire un male, ma il sapiente non subisce alcun male, nessuna ingiuria tocca il sapiente.[4] Ogni ingiuria segna una menomazione di colui che ne subisce l'attacco, e nessuno può ricevere una ingiuria, senza uscirne danneggiato in qualche modo, o nella dignità, o nella persona, o nei beni esterni.Il sapiente però non può perdere nulla: ha riposto tutto dentro se stesso, non ha affidato nulla alla fortuna, conserva i suoi beni al sicuro, è contento della virtù (10), che non ha bisogno dell'aiuto del caso e che, perciò, non può né crescere, né diminuire.Di fatto, tutto ciò che è stato sviluppato fino al sommo grado, non ha la possibilità di crescita, e la sorte non può togliere se non quello che ha dato.Ma essa non dà la virtù, dunque nemmeno la può togliere, perché la virtù è libera, inviolabile, immutabile, inconcussa e talmente temprata contro le disgrazie, che non si lascia piegare né, tanto meno, vincere: osserva con occhio imperturbato il prepararsi di eventi terribili, ma nulla cambia del suo volto, dure o favorevoli che siano le esperienze che le si prospettano. [5] Dunque, il saggio non perderà nulla di cui debba sentire la perdita; suo unico possesso è la virtù, ma da essa non potrà mai venire escluso.Di tutto il resto, usa in precario: e chi si commuove, se perde una cosa che non gli appartiene? Dunque, se l'ingiuria non può intaccare per nulla il patrimonio del sapiente, in quanto, salva la virtù, è salvo tutto il suo avere, al sapiente non può esser fatta ingiuria.[6] Demetrio, che fu soprannominato il Poliorcete (11), aveva conquistato Megara.Il filosofo Stilpone (12), al quale aveva chiesto se avesse perduto qualche cosa, gli rispose: Nulla; i miei beni sono tutti con me.Eppure il suo patrimonio era stato saccheggiato, il nemico gli aveva portato via le figlie, la sua patria era finita sotto il dominio straniero ed il re, circondato dall'esercito vincitore in armi, lo stava interrogando dall'alto del suo seggio. [7] Ma gli annientò la vittoria e gli provò di essere, dopo la presa della città, non solo invitto, ma anche indenne.Perché aveva con sé i veri beni sui quali non si può porre mano.Quei beni che venivano portati via, saccheggiati e spartiti, non li giudicava suoi, ma avventizi e soggetti all'arbitrio della sorte: perciò non li aveva amati come suoi.E" instabile ed incerto il possesso di tutto ciò che ci viene dal di fuori.

6. [Ancora su Stilpone.] [1] Domandati ora se è concepibile che, ad un uomo di questa statura, possano fare ingiuria un ladro, un calunniatore, un vicino rissoso o qualche ricco, onnipotente perché vecchio e senza figli, dopo che la guerra, i nemici e quel generale, che era maestro nell'esimia arte di espugnare la città, non gli hanno potuto togliere nulla.[2] Tra spade che luccicavano da ogni parte e soldataglia scatenata nel saccheggio, tra il fuoco, il sangue e le stragi d'una città in distruzione, tra il fragore dei templi che crollavano sopra i loro dèi, per un solo uomo ci fu la pace.Non hai motivo di giudicare presuntuosa la mia promessa: se non ti basta la mia parola, ti esibirò un garante.Per te, è quasi incredibile che si trovino, in un uomo, tanta fermezza o tanta magnanimità, ma egli ora si fa avanti e prende la parola: [3] Non puoi mettere in dubbio che chi è nato uomo sia in grado di innalzarsi sopra le vicende umane, che possa guardare serenamente i dolori, i danni, le piaghe, le ferite, i grandi rivolgimenti di situazioni, che lo

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circondano minacciosi, che sappia accogliere pacatamente l'avversità e moderatamente la prosperità e, senza piegarsi all'una o fidare nell'altra, rimanga sempre coerente tra esperienze opposte e non si creda padrone d'altro che di se stesso.[4] Eccomi: sono pronto a darvi la prova che, ad opera di questo distruttore di città, le mura vacillano, è vero, sotto i colpi dell'ariete, le torri più alte sprofondano improvvisamente nei cunicoli e nelle fosse sotterranee (13) ed i bastioni (14) d'assedio raggiungono il livello delle difese più alte, ma che è impossibile inventare un congegno capace di sconvolgere l'anima sodamente fondata.[5] Sono appena sfuggito al crollo della mia casa e, mentre splendevano tutt'attorno gli incendi, mi sono sottratto al fuoco attraversando pozze di sangue; ignoro la sorte delle mie figlie, peggiore, forse, di quella della città.Sono solo e vecchio, mi vedo attorno soltanto nemici, ma affermo che il mio patrimonio è integro: mantengo ed ho tutto quello che ho sempre avuto di mio. [6] Non pensare che io sia il vinto e tu il vincitore: la tua fortuna ha sconfitto la mia.Dove siano i beni caduchi, quelli che cambiano padrone, non lo so; ciò che davvero fa parte dei miei beni è con me e rimarrà con me.[7] Guarda: i ricchi hanno perduto il loro patrimonio, i libidinosi i loro amori, le loro femmine con le quali amoreggiavano a tutto danno del loro buon nome; gli ambiziosi hanno perduto la loro curia, il foro (15) ed i luoghi appositamente riservati all'esercizio pubblico dei vizi; gli usurai hanno perduto quei registri sui quali un'avarizia illusa di gioia, sogna ricchezze: io invece ho tutto, integro e intatto.Dunque, formula il tuo quesito a costoro, che piangono e si lamentano, che, per salvare il denaro, oppongono corpi inermi a spade snudate, a coloro che fuggono, davanti al nemico, carichi di fagotti. [8] Convinciti, caro Sereno: l'uomo perfetto, colmo di virtù umane e divine, non perde nulla.I suoi beni sono circondati da difese robuste ed insuperabili.Non puoi paragonare con esse le mura di Babilonia, ove Alessandro è riuscito ad entrare, o quelle di Cartagine e di Numanzia, che furono prese dalla medesima mano (16), non il Campidoglio o la sua rocca, che serbano un'orma del nemico (17).Le mura che difendono il sapiente, sono a prova d'incendio e di assalto, non presentano brecce, sono eccelse, inespugnabili, alte quanto gli dèi.

7. [E" possibile non subire l'ingiuria.] [1] Non puoi ripetermi la solita obiezione, che questo nostro sapiente non lo si trova da nessuna parte.Noi non stiamo inventando una falsa nobiltà dell'indole umana o concependo l'immagine grandiosa di qualcosa che, in realtà, non esiste.Questo uomo, tale e quale lo stiamo delineando, lo abbiamo concretato e lo concreteremo ancora, magari di rado, un solo esemplare in un lungo arco di secoli, perché non nascono tutti i giorni quegli esseri straordinari che superano il livello del banale e del quotidiano.D'altra parte, penso che proprio Marco Catone, ricordando il quale demmo inizio a questa discussione, forse superi il nostro modello ideale.[2] Poi, è indispensabile che ciò che ferisce sia più forte di ciò che subisce la ferita.La malvagità non è più forte della virtù: dunque il sapiente non può esserne ferito.L'ingiuria contro i buoni è tentata soltanto dai cattivi: i buoni sono in pace tra di loro.Ma se non può restar ferito altri che il più debole, se il malvagio è più debole del buono ed il buono non può temere ingiuria, se non da chi è del partito opposto, l'ingiuria non cade sull'uomo sapiente.Non c'è bisogno di ricordarti che non esiste altro buono che il sapiente.[3] Se Socrate così obietti è stato condannato ingiustamente, ha ricevuto ingiuria.A questo punto, dobbiamo renderci conto che può accadere che qualcuno mi faccia ingiuria senza che io la riceva, come nel caso in cui uno deponga nella mia casa di città un oggetto che mi ha rubato nella casa di campagna: egli ha fatto un furto, ma io non ho subìto perdita. [4] Uno può diventare malfattore, senza aver inflitto del male.Se uno sta con sua moglie, pensandosi con la moglie altrui, sarà adultero, anche se la donna non è adultera.Uno mi dà il veleno, ma quello, mescolato con il cibo, perde tutta la sua forza: egli, dando il veleno, si è reso colpevole di delitto, anche se non ha nuociuto.Non è meno assassino quel tale la cui arma è stata neutralizzata dalla resistenza del mio vestito.Tutti i delitti, anche prima dell'esecuzione materiale, sono già completi negli elementi costitutivi di colpa.[5] Alcune cose sono di natura tale, e collegate tra loro con rapporto tale, che la prima può essere senza la seconda, mentre la seconda non può essere senza la prima.Cercherò di chiarire quanto sto dicendo.Posso muovere i piedi senza correre, ma non posso correre senza muovere i piedi.Posso trovarmi in acqua e non nuotare ma, se nuoto, non posso non trovarmi in acqua. [6] E" di questo genere anche la cosa che stiamo trattando: se ho ricevuto un'ingiuria, certamente mi è stata fatta, ma, se mi è stata fatta, non è detto che io l'abbia ricevuta.In realtà, possono interporsi tanti fattori che tolgono di mezzo l'ingiuria: un caso qualunque può abbattere la mano che mi si tende contro o deviare i dardi già scagliati.Allo stesso modo, un fatto qualunque può respingere o intercettare a metà corso le ingiurie di ogni specie, sicché risultino fatte, ma non ricevute.

8. [Le ingiurie della fortuna e la morte.] [1] Inoltre, la giustizia non può subire nessuna ingiustizia, perché i contrari non

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si combinano.Ma l'ingiuria non può esser fatta, se non con l'ingiustizia: dunque l'ingiuria non può esser fatta al sapiente.E non ti meravigliare, se nessuno può fargli ingiuria: non è neppure possibile che qualcuno gli rechi un utile.Al sapiente, infatti, non manca nulla che gli possa esser dato a mò di dono, mentre il malvagio non è in grado di offrire al sapiente alcuna cosa degna di lui: dovrebbe infatti avere, prima di dare; ma non ha nessuna cosa che, trasferita al sapiente, possa dargli soddisfazione.[2] Dunque, nessuno può nuocere o giovare al sapiente, poiché le realtà divine non hanno bisogno di giovamento e non sono soggette ad offesa: il sapiente è situato in posizione vicina, o quasi uguale, a quella degli dèi: se prescindiamo dalla sua condizione mortale, è simile ad un dio.Mentre si sforza di tendere a quelle altezze sublimi, ordinate, imperturbabili, ruotanti con regolarità ed armonia, serene, benevole, esistenti per il bene di tutti (18), salutari per se stesse e per gli altri, non avrà mai nessuna cupidigia banale e nessun rimpianto. [3] Colui che, basandosi sulla ragione, avanza tra le vicende umane con intento divino, non è in alcun modo esposto all'ingiuria.Pensi che io parli soltanto delle ingiurie che gli vengono fatte dagli uomini? Non è esposto nemmeno a quelle della sorte, la quale, in tante battaglie che ha ingaggiate con la virtù, non è mai uscita vittoriosa dal campo.Se noi accettiamo con animo equilibrato e calmo quel tal male, il maggiore di tutti, oltre il quale non hanno più nulla da minacciare le leggi oppressive ed i tiranni più crudeli, quello in cui la sorte esaurisce il suo potere, se sappiamo, cioè, che la morte non è un male, e perciò nemmeno un'ingiuria, sopporteremo tanto più facilmente gli altri mali, i danni e le sofferenze, le ignominie, i cambiamenti di sede, le perdite dei cari, le separazioni, quelle vicende, insomma, che non possono sommergere il sapiente, neppure se lo assediano tutte assieme, e che ancor meno possono scoraggiarlo con attacchi singoli.E se egli sa sopportare con senso di misura gli attacchi della sorte, quanto meglio sopporterà quelli dei potenti, nei quali riconosce gli strumenti della sorte!

9. [Bisogna porsi al di sopra del fortuito.] [1] Egli dunque sa accettare tutto, come accetta i rigori dell'inverno e le intemperie, le febbri, le malattie e tutto l'altro che gli può accadere, e non giudica nessun uomo con tanto ottimismo da credere che quel tizio abbia fatto anche una sola cosa con il senno, che è la prerogativa del sapiente.Da tutti gli altri, non vengono azioni assennate, ma frodi, insidie e sregolati impulsi dell'animo, che egli annovera tra le eventualità.Tutto il fortuito infuria attorno a noi, anche l'ingiuria.[2] Pensa inoltre che si aprono possibilità immense d'ingiuriarci a quelle iniziative che vengono prese per metterci in pericolo, come il subornare un delatore, il muoverci false accuse, lo stuzzicare contro di noi l'odio dei più potenti e tutti gli altri modi di uccidere che sono praticati nella cosiddetta società civile.E ingiuria usuale anche il far perdere a qualcuno un guadagno o un successo ambìto da tempo, lo stornargli un'eredità ricercata con fatica o la protezione d'una casata prodiga.Da queste attività, il sapiente rifugge, perché non sa vivere per le speranze o per i timori.[3] Aggiungi poi che nessuno subisce un'ingiuria senza risentirne: chi le avverte, ne resta turbato, mentre è immune da turbamento l'uomo che si è sottratto all'errore, che sa governarsi, darsi una profonda e tranquilla serenità.Quando l'ingiuria raggiunge l'uomo comune, lo sconvolge e lo eccita immediatamente; invece il sapiente è esente dall'ira che s'accende al pensiero dell'ingiuria, ma non potrebbe essere esente dall'ira, senza esserlo anche dall'ingiuria, in quanto sa che non gli può esser fatta.Perciò è sempre tanto di buon animo e tanto lieto, perciò è sempre sostenuto da gioia costante.E" tanto alieno dal cedere ai colpi degli eventi o degli uomini, che l'ingiuria gli è addirittura utile, per mettere alla prova se stesso e saggiare la propria virtù.[4] Assecondiamo, vi prego, questo intento ed assistiamo con benevola attenzione allo spettacolo del sapiente che si sottrae all'ingiuria.Non stiamo togliendo nulla alla vostra sfacciataggine, alla furia delle vostre passioni, alla cieca temerità ed alla superbia: rivendichiamo questa libertà al sapiente, senza intaccare i vostri vizi.Non ci diamo da fare per rendervi impossibile la pratica dell'ingiuria, ma perché egli possa lasciar cadere tutte le ingiurie senza vendicarsene, e se ne difenda con la pazienza e la magnanimità.[5] Così, nelle gare sacre (19), i più hanno ottenuto la vittoria fiaccando con l'ostinata pazienza i colpi dell'avversario.Il sapiente, credimi, è della tempra di coloro che, con lungo e costante esercizio, hanno conseguito la forza di sopportare e fiaccare ogni violenza nemica. 10. [L'offesa è una semplice molestia di carattere estrinseco.] [1] Poiché abbiamo esaurita la trattazione della prima parte, passiamo alla seconda, nella quale dimostreremo l'inconsistenza dell'offesa con alcune argomentazioni specifiche e molte generali.L'offesa è da meno dell'ingiuria, è cosa di cui possiamo più lamentarci che vendicarci e che neppure le leggi hanno ritenuta degna d'alcuna punizione. [2] Il risentirsene deriva dalla bassezza di un animo che si rinchiude in se stesso a motivo di una parola o di un fatto disonorevoli: Quello là, oggi, non mi ha ricevuto, eppure riceveva altri (20), e: Ha trascurato insolentemente le mie parole, o le ha derise davanti a tutti, e: Non mi ha assegnato il letto di mezzo, ma il più basso (21), ed altre simili bazzecole, che non saprei qualificare, se non come lagne di uno schizzinoso.Di solito, ci cade chi è avvezzo agli agi ed al benessere, mentre non ha tempo di badarci chi ha in vista guai più grossi.[3] Quando hanno troppo poco da fare, gli uomini deboli per natura, effeminati e resi insolenti dall'assenza di vere

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ingiurie, si lasciano eccitare da codeste bagattelle, la cui consistenza nasce soprattutto da un errore di interpretazione.Perciò colui che si sente toccato da un'offesa, dimostra di non avere né senso della misura, né carattere.E" fuori dubbio che costui si considera sottovalutato e che questo stato di amarezza presuppone un certo grado di meschinità nell'animo che s'avvilisce e s'abbatte.Il sapiente, invece, non si sente mai disprezzato: è conscio della sua grandezza, non notifica a se stesso che qualcuno può tanto contro di lui e non si cura di vincere queste che non chiamerei disgrazie, ma molestie dell'animo, perché non le avverte nemmeno. [4] Sono ben altri i guai che colpiscono il sapiente, anche se non lo abbattono: la sofferenza fisica, l'invalidità, la perdita di amici e figli, le sventure della patria avvampata dalla guerra.Queste cose, lo ammetto, fanno soffrire il sapiente: non gli vogliamo imporre l'insensibilità della pietra o del ferro.E non è virtù sopportare quello che non ti fa soffrire.Allora? Certo riceve dei colpi, ma, ricevendoli, li controlla, li guarisce, non li lascia trapelare. Queste bagattelle, invece, non le avverte neppure, e non mobilita contro di esse la sua consueta virtù, allenata a sopportare le sventure, ma o non le degna di uno sguardo o le giudica risibili.

11. [Il vero rimedio contro le offese è la magnanimità.] [1] Inoltre, dato che le offese, per lo più, le fanno i superbi, gli insolenti, gli insofferenti del proprio benessere, il sapiente dispone, per respingere questo contegno presuntuoso, della più bella tra tutte le virtù: la magnanimità.Essa sa passar sopra a tutti i fatti di quella levatura, come fossero vane immagini di sogno, visioni notturne, prive di consistenza e di verità. [2] Contemporaneamente, pensa a questo: tutti costoro sono troppo in basso, per avere il coraggio di disprezzare esseri tanto superiori.La parola "contumelia", ossia offesa, deriva da "contemptus" (22), ossia disprezzo, perché nessuno bolla con ingiuria di quel genere altra persona, se non quella che disprezza.E nessuno disprezza chi è più grande o migliore di lui, anche quando gli fa quelle azioni che fanno abitualmente gli spregiatori.Di fatto, anche i fanciulli colpiscono i genitori sul volto, ed il pargolo tante volte spettina la mamma e le strappa i capelli o le sputa addosso, oppure scopre le sue vergogne davanti alle persone di casa e dice senza riguardo parole oscene: eppure non chiamiamo offesa nessuno di questi atti.Perché? Perché chi li fa non è in grado di metterci disprezzo. [3] Per il medesimo motivo, ci diletta la parlantina dei nostri schiavi, oltraggiosa verso i padroni, l'insolenza dei quali, dopo aver cominciato dal padrone, s'arroga il diritto di colpire anche gli ospiti, anzi, quanto più uno schiavo è spregiato e canzonato, tanto più libera ha la lingua.Allo scopo, sono in vendita fanciulli procaci, la cui impudenza viene perfezionata ed aggiornata da un maestro (23), che sanno vomitare offese studiate: eppure non le chiamiamo offese, ma arguzie.Che razza di incoerenza è questa? Le stesse cose ora ci dilettano, ora ci offendono; quella detta dall'amico, si chiama maldicenza, quella detta dallo schiavo è una battuta di spirito.

12. [L'offesa tradisce l'immaturità.] [1] Il criterio che noi adottiamo con i fanciulli, il sapiente lo adotta con tutti, perché tutti, anche dopo la gioventù, al tempo dei capelli bianchi, conservano un po'"di infantilismo.Hanno forse fatto un solo passo avanti costoro, che hanno animo malato e pregiudizi ben aumentati, e si distinguono dai fanciulli solo per le dimensioni e l'aspetto del corpo, mentre, in tutto il resto, non sono meno smarriti ed incerti, desiderosi di piaceri che non sanno scegliere, trepidanti, capaci di fermarsi soltanto per paura, non per loro scelta? [2] Certo, non si può dire che ci sia qualche differenza tra costoro ed i fanciulli, se i fanciulli sono avidi di gettoni, noci e monetine, costoro, invece, di oro, argento e città; se i fanciulli gestiscono tra di loro le magistrature ed imitano la pretesta, i fasci ed il tribunale, e costoro fanno sul serio il medesimo gioco nel Campo, al foro e nella curia (24); se i fanciulli, sulle spiagge, innalzano con la sabbia modellini di case e costoro, occupandosi di sovrapporre, come facessero gran cosa, pietre, pareti e tetti, sono giunti a stravolgere in un pericolo per l'integrità fisica (25) quello che è stato inventato per difenderla.Dunque i fanciulli e coloro che sono in età avanzata incorrono nel medesimo errore, che però comporta conseguenze diverse e più gravi.[3] Ha ragione allora il sapiente di prendere come battute le offese di costoro, e di correggerli talvolta, con il rimprovero o il castigo, come fanciulli, non perché ha ricevuto ingiuria, ma perché quelli l'hanno fatta e debbono smettere di farne.Si domano così anche le bestie, con il bastone, e non ci arrabbiamo con esse, se non si lasciano cavalcare, ma le battiamo, perché il dolore sconfigga la loro caparbietà.Vedrai dunque risolta anche l'obiezione che ci viene contestata: se il sapiente non riceve né ingiuria né offesa, come mai punisce chi gliela fa?.Non vendica se stesso, ma corregge quelli.

13. [Il senso del distacco.] [1] Perché, dunque, non credere che questa fermezza d'animo competa al sapiente, quando ti è possibile constatare la stessa cosa in altri, sebbene dettata da motivo diverso? Quale medico se la prende con un frenetico, quale si offende degli insulti di un febbricitante al quale ha proibito l'acqua fredda? [2] Il sapiente ha verso tutti quelle disposizioni che il medico ha verso i suoi pazienti, dei quali non disdegna di toccare le vergogne, se hanno bisogno di cure, o di osservare le deiezioni e gli escrementi, o di subire le escandescenze, quando li prende la furia del delirio.Il sapiente sa che tutti costoro, che incedono in toga e porpora, hanno soltanto la cera della salute, e non li considera

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altro che degli ammalati che non sanno controllarsi.Perciò non si irrita, nemmeno se, in forza della malattia, sono trascesi ad offendere il medico, e con la stessa indifferenza con cui non dà peso ai loro elogi, non lo dà alle loro mancanze di rispetto.[3] Come non avrebbe motivo di compiacersi delle espressioni di rispetto di un mendicante, e non giudicherebbe offesa che un uomo dell'infima plebe non gli ricambi il saluto, così non si compiacerà della stima che gli tributano molti ricchi (sa infatti che non sono per nulla diversi dai mendicanti, anzi sono più miserabili: quelli hanno bisogno di poco, questi, di molto); ed ancora, non si impressionerà se il re di Media od Attalo di Pergamo (26), al suo saluto, tirano diritto, senza una parola e con aria arrogante.Sa che la loro condizione non è più invidiabile di quella di chi deve sorvegliare i pazzi ed i malati, tra i molti schiavi di una casa. [4] Dovrò forse avermela a male, se non mi ricambia il saluto un trafficante del tempio di Castore, che compra e vende la peggiore merce umana ed ha la bottega zeppa di schiavi della più bassa specie? No, almeno penso.Che ha di buono uno che, sotto di sé, non ha altro che dei cattivi? Dunque, come non ti curi della cortesia o scortesia di un tipo come quello, così anche di quella di un re: Hai per sudditi i Parti, i Medi, i Battriani (27), ma li governi con la paura e, a causa loro, non ti è mai consentito di allentare l'arco, e sono pessimi, venali e sempre in cerca di un nuovo padrone.[5] Non si lascerà dunque turbare dalle offese di nessuno: anche ammesso che, tra loro, siano tutti diversi, il sapiente li stima tutti uguali, perché stolti nella stessa misura.Infatti, se si abbasserà, anche una sola volta, al punto di lasciarsi turbare da una ingiuria o da una offesa, non potrà mai essere sereno; ora la serenità è il bene che contraddistingue il sapiente.E non farà lo sbaglio, riconoscendo che gli è stata fatta un'offesa, di dare importanza a chi gliel'ha fatta: con ciò sarebbe inevitabile che, come ci si ritiene offesi dall'altrui disprezzo, si debba gioire dell'altrui considerazione.

14. [ Banalità del quotidiano.] [1] C'è chi sragiona al punto da ritenere possibile l'offesa da parte di una donna.Che importa il rango della donna cui fanno visita, il numero dei suoi lettighieri, il peso dei suoi orecchini (28), l'ampiezza della sua sedia? E un essere costantemente irriflessivo e, se non ha una cultura ed una vasta erudizione, primitivo ed incapace di controllare l'istinto.Alcuni non sopportano d'esser stati urtati dal parrucchiere e si dicono offesi dai dinieghi di un portinaio, dall'arroganza di un annunciatore, dalla boria di un maestro di camera (29).Quanto fragorosamente si dovrebbe ridere di queste inezie, quanto dovrebbe compiacersi chi mantiene la sua tranquillità e la confronta con la disordinata insipienza altrui! [2] E che? Il sapiente non entrerà da una porta custodita da un portinaio intrattabile? Se avrà tra mano un affare inderogabile, ci proverà, ed ammansirà quel tizio, chiunque sia, come si ammansisce un cane ringhioso, buttandogli del cibo, e non rifiuterà di spendere qualcosa per varcare la soglia, ricordando che, anche per passare certi ponti, si paga un pedaggio.Allo stesso modo, darà qualcosa a quel tipo, chiunque sia, che, per mestiere, fa visite in cambio di regalucci: sa comperare quel che è in vendita.E" un pusillanime chi si compiace d'aver dato una risposta secca ad un portinaio, di avergli spezzato la bacchetta, di aver raggiunto il padrone e di avergli chiesto la frusta per lo schiavo.Chi si mette in lite, si mette in condizione di avversario e, se ha vinto, vuol dire che è sceso sullo stesso piano.[3] Ma che deve fare il sapiente, quando si piglia un ceffone? Quello che fece Catone, quando fu percosso sul volto (30).Non proruppe in escandescenze, non si vendicò dell'ingiuria e nemmeno la perdonò: disse che non gli era stata fatta.Ignorando l'ingiuria, fu più magnanimo che se l'avesse perdonata.Non è il caso di trattenerci a lungo su questo: chi non sa, infatti, che il sapiente non condivide per nulla il giudizio comune sulle cose che sono ritenute buone o cattive? [4] Non sta a considerare che cosa gli uomini stimino vergogna o miseria; non percorre le strade percorse dal popolo, ma, come le stelle ruotano in senso inverso al moto del cielo (31), così egli procede in direzione contraria all'opinione comune.

15. [La magnanimità non conosce casistiche.] [1] Smettete dunque di obiettare: Ma il sapiente non si sentirà ingiuriato, se lo percuoteranno, se gli caveranno un occhio? Non si sentirà offeso, se nel foro sarà accompagnato dalle grida impudenti degli sfacciati, se, invitato a tavola da un grande, sarà fatto coricare all'ultimo posto e mangiare vicino agli schiavi assegnati ai servizi più umili, se dovrà subire una qualunque altra molestia, fra quante si possono escogitare contro un nobile ritegno? [2] Episodi del genere, per quanto aumentino in numero e gravità, saranno sempre della medesima specie: se non lo offenderanno le inezie, non lo offenderanno nemmeno i fatti gravi; se non lo offenderanno i pochi casi, nemmeno lo offenderanno i molti.In verità voi costruite un modello di magnanimità sulla base della vostra inettitudine e, una volta stabilito fin dove possa giungere la vostra capacità di sopportazione, segnate il limite di pazienza del sapiente un tantino più in là.Ma egli è stato posto dalla sua virtù in ben altra parte del mondo, che non ha nulla a che spartire con voi.[3] Metti in campo, tutte insieme, le situazioni più pesanti e tutto l'insopportabile, aggiungi ciò che non vogliamo né udire né vedere: non si sentirà sommerso dal loro cumulo e, come resisterà agli episodi singoli, così resisterà al tutto.Chi dice che, per il sapiente, una cosa è sopportabile ed un'altra è insopportabile, e rinchiude la magnanimità entro confini prestabiliti, razzola male: la sorte ci sconfigge, se noi non sappiamo sconfiggerla in tutto.[4] Non pensare che questo sia rigore stoico: Epicuro, che voi prendete come patrono della vostra inerzia e credete maestro di mollezza, indolenza e ricerca del piacere, dice: Di rado la sorte ha la meglio sul sapiente (32).

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Che massima ha enunciato, quasi da uomo! Basta che tu voglia pronunciarti con più energia, e la metterai fuori causa del tutto.[5] La casa del sapiente è così: piccola, senza arredi superflui, senza rumore, senza cerimoniale, non custodita da portinai che suddividono la folla con astio mercenario; ma da quell'ingresso, spalancato e libero da portinai, la sorte non passa: sa che per lei non c'è posto, là dove non c'è nulla di suo.

16. [Epicurei e stoici di fronte all'ingiuria: l'autocontrollo.] [1] Se anche Epicuro, tanto indulgente verso il corpo, sa opporsi all'ingiuria, che cosa può sembrare incredibile, o valicante i limiti della natura umana, nella nostra dottrina? Egli dice che le ingiurie possono esser sopportate dal sapiente, noi, che non esistono. [2] Non si può nemmeno dire che questo ripugni alla natura: noi non diciamo che non sia spiacevole subire percosse e spintoni ed essere mutilati di qualche membro; diciamo però che queste non sono ingiurie; non neghiamo il dolore che comportano, ma la loro qualifica di ingiuria, che non si può ammettere, compatibilmente con la virtù.Vediamo quale dei due discorsi è più vicino al vero: tutti e due, infatti, concordano nel disprezzo dell'ingiuria.Vuoi sapere che differenza c'è tra essi? La stessa che c'è tra due gladiatori molto forti, uno dei quali si comprime la ferita e resta sul posto, l'altro, volgendosi al popolo che grida, fa segno che non è nulla e rifiuta la sospensione del combattimento (33). [3] Non credere che sia grande il nostro dissidio: il vero punto in esame, il solo che ci riguarda, è raccomandato concordemente dalle due scuole, ed è il disprezzo delle ingiurie e di quelle che vorrei chiamare le ombre ed i sospetti di ingiurie, le offese, per disdegnare le quali, non è necessario che un uomo abbia la sapienza, ma quel poco di autocontrollo che gli basta per dire: Questi fatti che m'accadono, li merito, o no? Se li merito, non si tratta di offesa, ma di giustizia; sennò, deve vergognarsene chi mi sta facendo ingiustizie.[4] Poi, in che cosa consiste ciò che viene chiamato offesa? Uno ha scherzato sulla mia testa liscia, sulla mia vista debole, sulle mie gambe stecchite o sulla mia bassa statura: ma che offesa è udire quello che tutti vedono? Se una cosa è detta di fronte ad una sola persona, ridiamo; di fronte a molti, ce ne sdegniamo, e non lasciamo liberi gli altri di ripetere quanto noi stessi, abitualmente, diciamo sul nostro conto.Ci piacciono gli scherzi misurati, ci adirano quelli esagerati.

17. [Umorismo ed autoumorismo.] [1] Crisippo narra di un tale che s'era adirato, perché un tizio l'aveva chiamato "montone marino" (34).In senato, abbiamo visto piangere Fido Cornelio, il genero di Ovidio Nasone, quando Corbulone (35) lo chiamò "struzzo spennacchiato": resse a fronte alta altri insulti che ferivano i suoi costumi e la sua vita, ma davanti a questo, tanto insensato, crollò in lacrime.Tanto debole diventa l'animo, quando se ne va la ragione! [2] Che dire del fatto che ci sentiamo offesi, se qualcuno ci imita la parlata, l'andatura, se rifà un nostro difetto fisico o di pronuncia? Come se quelle cose diventassero più note quando altri le imitano, che quando noi le facciamo! C'è chi non vuole sentir parlare di vecchiaia, di capelli bianchi e degli altri segni di un'età cui si desidera arrivare.Ad altri scotta la critica alla loro povertà che, in realtà, rimprovera a se stesso chiunque cerca di nasconderla.Ma per togliere ogni risorsa agli insolenti ed a quelli che fanno dello spirito offendendo, non c'è che prevenirli di nostra iniziativa: non si è mai esposto al ridicolo chi ha cominciato con il ridere di se stesso.[3] Si legge nella storia che Vatinio (36), uomo nato per essere deriso e detestato, fu un canzonatore di se stesso spiritoso e mordace: scherzava moltissimo sui suoi piedi e sulle cicatrici della sua gola; così era riuscito a sottrarsi ai frizzi dei nemici, che erano più numerosi delle sue malattie, e, soprattutto, a quelli di Cicerone.Ciò che ha potuto costui con l'impudenza, dopo aver disimparato il pudore a furia di insultare, perché non deve poterlo fare chi ha raggiunto qualche risultato negli studi liberali e nel culto della sapienza? [4] Aggiungi che è un modo di vendicarsi il togliere, a chi ha offeso, la soddisfazione dell'offesa fatta.Commentano, di solito: Povero me, credo che non abbia capito.Fino a questo punto, il vantaggio dell'offesa consiste nella reazione e nello sdegno di chi la subisce! E poi, una volta o l'altra, riceverà la pariglia, e verrà fuori chi vendica anche te.

18. [Digressione: Caligola, offensore pesante.] [1] Gaio Cesare (37) che, tra gli altri vizi di cui abbondava, era insolente, provava un gusto straordinario nel ferire tutti con qualche oltraggio, pur essendo un tipo che offriva parecchi spunti alla derisione: aveva tutto quel pallore schifoso che attestava la pazzia, quegli occhi così biechi e nascosti sotto una fronte da vecchia, quella testa ripugnante, pelata e cosparsa di capelli che parevano accattati.Aggiungi un collo assediato dalle setole, gambe troppo sottili, piedi enormi.Non finirei più, se volessi ricordare, ad una ad una, le insolenze che rivolse ai suoi genitori, ai nonni ed a tutti i cittadini dei due ordini; racconterò quelle che provocarono la sua uccisione.[2] Aveva, tra gli amici di prima udienza, Valerio Asiatico (38), uomo animoso e capace a mala pena di sopportare serenamente le offese fatte agli altri.A costui, durante un banchetto, che è come dire in una piazza gremita, a voce ben udibile, rinfacciò come si comportava sua moglie a letto.Santi dèi! Un marito deve sentire questa roba! La sfacciataggine è giunta al punto che, non dico ad un ex console, non dico ad un amico, ma direttamente al marito, l'imperatore racconta il proprio adulterio e la relativa delusione! [3] Invece il tribuno militare Cherea (39) aveva un modo di parlare che non rispecchiava certo il suo valore: una intonazione languida che, se non avessi conosciuto le sue imprese, t'avrebbe anche fatto pensar male.

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Quando chiedeva la parola d'ordine, Gaio gli dava a volte "Venere", a volte "Priapo", continuando a rinfacciare effeminatezza a questo militare in armi, lui, vestito di trasparente, in sandali ed anelli d'oro.Lo ridusse così ad usare la spada, per non dover più chiedere parole d'ordine.Fu lui il primo dei congiurati che levò il braccio, lui che gli tagliò netto il collo, d'un colpo solo.Poi gli furono vibrate addosso tante spade, da ogni parte, a vendetta di ingiurie pubbliche e private, ma il primo, che si mostrò uomo, fu colui che non sembrava tale. [4] Eppure il medesimo Gaio prendeva tutto come offesa: è normale che i più propensi ad offendere siano incapaci di sopportare.Si adirò con Erennio Macro che l'aveva salutato chiamandolo Gaio, e non la passò liscia un primipilo che l'aveva chiamato Caligola: era il nome con cui lo chiamavano di solito, perché era nato nell'accampamento ed era stato allevato dalle legioni, e non fu mai più caro ai soldati, sotto altro nome; ma "Caligola" era diventato per lui insulto ed offesa, da quando aveva messo gli stivali.[5] Potrà, dunque, essere un sollievo questo: anche se la nostra indulgenza rinuncerà alla vendetta, ci sarà qualcuno che punirà lo sfacciato, il superbo e l'ingiurioso: chi ha questi vizi, non li esaurisce mai in un solo uomo ed in una sola offesa.

19. [Consigli conclusivi.] [1] Ripensiamo agli esempi di coloro di cui lodiamo la pazienza, come Socrate, che accettò di buon animo, sorridendo, tanto i frizzi che gli rivolgevano nelle commedie, messe in scena davanti a tutto il pubblico, quanto l'acqua sudicia con cui l'innaffiò la moglie Santippe.Ad Antistene (40) rimproveravano d'avere una madre barbara, della Tracia: rispose che anche la madre degli dèi era dell'Ida.[2] Non è il caso di arrivare alla rissa o di mettersi le mani addosso.Bisogna allontanarsi e, qualunque di queste cose ci abbiano fatta gli sprovveduti (perché non possono esser fatte che da sprovveduti), bisogna trascurarla, e tenere nello stesso conto gli onori e le ingiurie del volgo, senza dolerci di queste o godere di quelli. [3] Altrimenti, per timore o nausea delle offese, lasceremo cadere molte iniziative, necessarie all'assolvimento dei nostri compiti pubblici o privati e, a volte, non affronteremo situazioni determinanti per la nostra salvezza, oppressi dalla donnesca preoccupazione di dover ascoltare qualcosa che ci contraria.Talvolta magari, adirati contro i potenti, scopriremo il nostro sentire con libertà intemperante.La libertà non consiste nell'intolleranza: è sbagliato.La libertà consiste nel porre l'animo al di sopra delle ingiurie, e nel renderlo capace di attingere solo da se stesso i motivi di soddisfazione, e di separare da se stesso tutti i fatti esterni, per non dover trascorrere una vita inquietata dal timore delle risa di tutti, delle parole di tutti.Chi c'è, infatti, che non sia in grado di offenderci, se chiunque è capace di farlo? [4] Ma il sapiente e colui che aspira alla sapienza useranno rimedi diversi.Al praticante, che ancora si regola sul giudizio del pubblico, deve essere ben chiarito che si troverà inevitabilmente in mezzo ad ingiurie ed offese: tutte le offese risulteranno più leggere a chi le ha previste.Quanto più uno si distingue per nascita, nome, patrimonio, con tanta maggior fortezza deve comportarsi, ricordando che le truppe scelte stanno in prima linea.Le offese, le parole oltraggiose, le ignominie e tutti gli altri affronti, li sopporti come si sopportano il grido dei nemici, i dardi spossati dalla traiettoria troppo lunga, i sassi che grandinano sull'elmo senza ferire.Le ingiurie invece, cioè i colpi che si infliggono ora sulle armi, ora nel petto, le sostenga senza abbattersi, senza neppure cedere d'un passo.E se ti senti incalzare e spingere dalla violenza nemica, è tuttavia vergogna ritirarsi: difendi la posizione che la natura ti ha assegnato.Chiedi qual è questa posizione? Quella di un uomo.[5] Il sapiente invece ha un aiuto diverso, contrario a questo: voi, di fatto, state facendo la guerra, egli ha già ottenuto la vittoria.Non ribellatevi al vostro bene e, in attesa di raggiungere il vero, nutrite questa speranza nella vostra anima, accogliete i retti dettami e coltivateli con la vostra approvazione e la vostra volontà: che esista un essere invincibile, che esista l'uomo contro il quale la sorte non può nulla, giova alla civile convivenza del genere umano.

NOTE.Nota 1.Tra gli schiavi delle famiglie facoltose si trovavano anche medici pedagoghi e filosofi.Ma è possibile che qui Seneca alluda a liberti o a "clienti": anche questi ultimi vantavano un'appartenenza in senso lato alla "domus".Nota 2. "Catone Uticense": cfr. "Della provvidenza", nota 8.Nota 3.Si tratta, in realtà, del noto violentissimo "Vatinio" (cfr."Della provvidenza", nota 19) che, nel 55 avanti Cristo, ottenne la pretura battendo Catone con l'appoggio di Pompeo.L'episodio che segue non ci è noto da altre fonti.Seneca ricorda l'offesa fatta a Catone anche in "Ep." 14, 13 e la dice anteriore agli anni della guerra tra Cesare e Pompeo.Nota 4. "Publio Clodio", il facinoroso cesariano ucciso nel 52 avanti Cristo dagli uomini di Milone.

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Nota 5.Si tratta del primo triumvirato.Nota 6.Si allude al noto costume stoico del paradosso che, in questa versione, viene attribuito a Crisippo da Plutarco ("De Stoich.repugn." 17,4).Nota 7.I tre paradossi: soltanto il sapiente è ricco, soltanto il sapiente è saggio, lo stolto è pazzo; soltanto il sapiente è libero, lo stolto è schiavo, sono noti a Sereno attraverso Cicerone ("Parad.Stoich." 4; 5; 6).Nota 8. "Serse".Seneca richiama, dalla più diffusa aneddotica greca sulle guerre persiane, la tracotante minaccia di Serse alle truppe di Leonida schierate alle Termopiù e la fortunosa traversata dell'Ellesponto, dopo la sconfitta.Nota 9.Perché il sillogismo risulti valido la comprensione ed estensione del termine "male" dovrebbe ridursi alla sola infamia.Ma l'uditore, almeno in origine, non dava al termine un senso più vasto? Nota 10.Seneca rielabora il secondo paradosso di Cicerone: a colui che è in possesso della virtù, non manca nulla per vivere felice.S'ispira a Cicerone anche lo sviluppo della dimostrazione.Nota 11. "Demetrio" (336-283 avanti Cristo), figlio di Antioco Primo, vantava il titolo di "Poliorcete" (= assediatore, espugnatore di città), in seguito all'assedio di Rodi del 305 (Gell., "Noct." 15,31).Conquistò Megara, piccola ma antica e gloriosa città dell'istmo di Corinto, nel 307 avanti Cristo (c'è dunque un leggero anacronismo nel dettato di Seneca), nel corso d'una campagna di riconquista dell'intera Grecia.Nota 12. "Stilpone": nativo di Megara e vissuto a cavallo tra il Quarto e Terzo secolo avanti Cristo (360-280?), fu tra gli ultimi rappresentanti della scuola detta appunto megarica.Ben poco sappiamo della sua vita.Oltre alle sue note posizioni sull'apatia, ci sono tramandate da Diogene Laerzio (2,119) e da Plutarco ("Adu.Colot". 22 e 23) alcune sue argomentazioni avverse alla logica discorsiva (cfr.Reale, "op. cit.", IlI, pp. 73 ss.).Nota 13.La poliorcetica antica conosceva l'artificio di scavare gallerie sotto i bastioni delle mura assediate.Sostenute da armature di legno le gallerie crollavano quando, a lavoro finito, gli scavatori si ritiravano dopo averne incendiato i puntelli.Ne seguiva il crollodel bastione.Gli assediati, a loro volta, si difendevano o intercettando tempestivamente gli scavatori nemici, o allestendo coronelle difensive dietro l'opera destinata al crollo.Nota 14.I "bastioni" fissi, eretti dagli assedianti quali piattaforme elevate per le macchine da lancio.Nota 15.Le parole "curia" e "foro" sono usate qui in accezione estensiva per indicare rispettivamente il governo della città e l'amministrazione della giustizia.Nota 16. "Cartagine" fu conquistata nel 146 avanti Cristo, Numanzia nel 133, da truppe romane comandate da P. Cornelio Africano Minore Numantino figlio di L. Emilio Paolo e adottato da P. Cornelio Africano Maggiore, il vincitore di Zama.Nota 17.La storia di Roma registrava tre violazioni del Campidoglio: la prima ad opera dei Sabini che approfittarono del tradimento di Tarpeia (Liv., 1,11), la seconda ad opera di ribelli guidati da Appio Erdonio, nel 460 avanti Cristo (Liv., 3,15-18); la terza e più bruciante, ad opera dei Galli di Brenno (387 avanti Cristo; Liv., 4,47 ss.).Nota 18.E" il solo fuggevole cenno alla cosmologia stoica reperibile in questo dialogo.Nota 19.L'espressione è volutamente generica e richiama alle più note gare sacre (Olimpiche, Istmiche, ecc.).In realtà erano sacre a peculiari divinità tutte le gare e tutti gli spettacoli circensi e teatrali.Nota 20.Lamentela di "cliente".La scelta di tale ufficio, che sarebbe meglio chiamare mestiere, comportava l'obbligo di recarsi presso il "patrono" o "re" per salutarlo, soprattutto di primo mattino.Il non essere ammessi era un insuccesso anche economico.Nota 21.Nel triclinio, per una cena.I tre letti erano disposti attorno ai tre lati della tavola.Il letto centrale ("medius") era il posto d'onore, ed aveva a sinistra il letto "alto" ("summus"), secondo in dignità, ed a

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destra il "basso" ("imus"), il meno onorifico.Nota 22.Etimologia per assonanza, come tante dell'antichità.Isidoro ("Etym." 10,45) avvicina a "contumelia" l'aggettivo "contumax".Nota 23.Schiavetti esperti nel turpiloquio col quale rallegravano i convitati.Particolarmente versati in quell'arte erano gli schiavi provenienti dal mercato d'Alessandria. Nota 24.Attorno al "Campo Marzio" ruotava l'attività elettorale, nel "foro" si amministrava la giustizia.La "curia" è il senato.Nota 25.La legislazione edilizia urbana non permetteva d'alterare la struttura muraria delle costruzioni esistenti.Gli speculatori aggiravano l'ostacolo, rispettando la pianta originaria dell'edificio e costruendo sopraelevazioni, anche con strutture a sbalzo, in legname.Ottenevano così vere e proprie "insulae" (case d'affitto), con numerosissimi "caenacula" (appartamentini monolocale).Architetture del genere erano soggette a crolli e incendi.Nota 26.Tre re di nome "Attalo" salirono sul trono di Pergamo, la piccola e ricchissima cittàregno dell'Asia minore.Seneca allude, probabilmente, ad Attalo Tezo Filométore Evergète, il più noto dei tre che morì prematuramente nel 133 avanti Cristo, lasciando erede del regno il Popolo Romano.Nota 27.Le più ricche regioni dell'ex impero di Alessandro Magno.Nota 28.Non soltanto il numero dei lettighieri, ma anche la loro statura e prestanza Catullo, che s'era fatto prestare lettighieri della Bitinia per una serata folle, dovette poi confessare il sotterfugio all'occasionale compagna (Cat., "Carm." 10).Il peso degli orecchini ci ricorda una scenetta di Petronio ("Sat." 67): il grossolano Trimalchione, durante la famosa cena, fa pesare sulla mensa gli ori della moglie.Nota 29. "Parrucchiere", "portinaio", "annunciatore" e "maestro di camera" sono schiavi.Nota 30.Si tratta d'un urtone involontario, come precisa altrove Seneca stesso ("Ira" 2,32,2).Nota 31.Per "stelle" s'intende lo Zodiaco, per "cielo" il giro apparente del sole.Nota 32.Su questa massima, cfr. prefazione, 2.Nota 33.Ne aveva diritto, in caso di ferita.Nota 34. Ci sfugge l'esatto senso di quest'ingiuria che, peraltro, Seneca traduce dal greco.Nell'uso romano, "montone" equivaleva a "stupido".Nota 35.L'episodio non pare troppo lontano dall'epoca del dialogo.Sappiamo poco di "Fido Cornelio", che Seneca stesso ci presenta indicandone la parentela con il defunto notissimo poeta. "Gneo Domizio Corbulone", fratello uterino di Cesonia, moglie di Caligola, è personaggio di primo piano durante l'intero periodo dei Claudi.Si distingue, oltre che per la carriera politica, culminata nel consolato del 39 dopo Cristo, anche per le sue vigorose imprese militari ai confini della Germania e in Oriente, attentarnente registrate da Tacito nei suoi "Annali".Fu anche scrittore storico autobiografico (Tac., "Ann." 15,16).Morì, vittima di Nerone, nel 67 dopo Cristo Nota 36. "Vatinio": cfr. "Della provvidenza", nota, 19, e sopra, nota 3.Nota 37.L'imperatore "G.Giulio Cesare Germanico", detto "Caligola".Nota 38. "Valerio Asiatico", che Seneca ricorda anche in "Nat.quaest." 2,26, ricchissimo e due volte console.Per essersi vantato d'aver partecipato alla congiura contro Caligola, comparve imputato e carcerato, nel 47 dopo Cristo, in un clamoroso processo intentatogli da Messalina della quale aveva respinto le profferte amorose.Ne uscì assolto in virtù della propria eloquenza e di amichevoli intercessioni (Tac., "Ann." 11,1-3).Nota 39.Di "Cassio Cherea", veterano delle campagne sul Reno del 14 dopo Cristo, è detto tutto in una concisa espressione di Tacito: Ottenne memoria presso i posteri uccidendo Gaio Cesare ("Ann." 1,32).Nota 40. "Antistene": il fondatore della scuola ionica.La madre degli dèi è Cibele, onorata in Frigia sul monte Ida.Non era quindi neppure europea...

DELL'IRA.

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LIBRI IlI."Ne singulis irascaris, universis ignoscendum est; generi humano venia tribuenda est"."Se non vuoi adirarti con i singoli, devi perdonare a tutti, conceder venia all'umanità intera.(II,10,2).

PREFAZIONE.Il dedicatario e le caratteristiche letterarie del trattato Dell'ira.Il dialogo "Dell'ira" è certamente una tra le prime opere di Seneca (A. Bortone Poli, ediz., Roma 1977, pp. 55-58); impegnò il filosofo durante l'intero periodo dell'esilio (anni 41-49) e forse, ancora per qualche tempo, dopo il ritorno a Roma.La qualifica di "dialogo", che l'opera conserva, è un mero omaggio alla tradizione: abbiamo in realtà un trattato sistematico, suddiviso in tre libri e inteso ad offrire al lettore lo svolgimento completo del tema proposto.Dedicatario dell'opera è il fratello maggiore di Seneca, L. Anneo Novato, altrimenti noto con il nome di L. Giunio Gallione, che assunse in età matura, quando fu adottato dal ricco retore Giunio Gallione, amico di famiglia.Unito a Seneca dalla comune scelta di carriera politica e dall'amore per le lettere e per la poesia, è frequentemente ricordato negli scritti del filosofo, che gli dedicò anche il dialogo "Della vita felice" ed altre opere oggi perdute.Fu console e, nel 58, proconsole in Acaia: davanti al suo tribunale comparve l'apostolo Paolo ("Atti" 18,12-17).Dopo la morte di Seneca subì persecuzioni e denunce da parte di molti avversari: tentò per qualche tempo di resistere, poi si uccise.Stazio, nelle sue "Selve" (2,7,32), lo ricorda come poeta, lo qualifica "dolce" (autore di elegie?) e lo annovera tra i figli più illustri della terra di Spagna.A prima lettura, si notano nei tre libri ampliamenti eloquenziali e ripetizioni.I primi non attestano soltanto l'ossequio al costume letterario e salottiero del tempo: sono anche l'ovvia conseguenza della scelta di trattare un settore particolare dell'ampio discorso sulle passioni, comune a tutte le principali scuole filosofiche e perciò soggetto a condizionamenti eclettici.Le ripetizioni, ampie e riscontrabili in sede di raffronto tra libro e libro, giustificano l'ipotesi che Seneca abbia voluto consentire anche una soddisfacente lettura separata delle tre unità, conferendo a ciascun libro il carattere di monografia autonoma, seppure coordinata alle altre.Il genere monografico contava allora, a Roma, circa un secolo di vita e, pur avendo acquisito una sua precisa fisionomia, pagava molti tributi all'impegno di dare anche un quadro del discorso generale che, nel caso, era di raffronto tra le più recenti posizioni stoiche in merito e la corrispondente dottrina dei peripatetici.Così si spiega, ad esempio, il ritorno su già discusse obiezioni "aristoteliche" che appesantisce il secondo libro (cc. 1-7).Anche un rilievo letterario conferma codesta tendenza di Seneca a conferire una certa autonomia ai singoli libri: essi si aprono e si chiudono con tre elaborate ipotiposi dell'ira, dell'ira dei singoli (I,1-2; Il,35-36; IlI,3-4) e di quella delle masse (III,1-2).Così strutturato, il libro singolo poteva soddisfare anche il lettore "itinerante", privo della possibilità di ricorrere a riscontri bibliografici o di risolvere oscuri rinvii, ai quali peraltro il lettore antico era tendenzialmente allergico.La trama concettuale e la temperie spirituale del trattato.Per enucleare dal dettato, talora dispersivo, di Seneca, il filo conduttore del suo esporre, è indispensabile operare decise sfrondature.E" nostro intento, per desiderio di perspicuità, estrarre dai singoli libri soltanto ciò che attiene al discorso generale sulle passioni e a quello specifico di Seneca sull'ira.Quest'ultimo, in particolare, soprattutto quando s'appiattisce in precettistica, si intreccia e si confonde con il discorso sull'eutimia, la tranquillità dell'animo.Ci limiteremo a segnalarne l'emergenza nei singoli casi.Altri dialoghi infatti ("Della costanza del sapiente"; "Della tranquillità dell'animo"; "Della vita felice") trattano specificamente di eutimia.Si eviteranno ripetizioni e lungaggini.E diamo subito una concisa indicazione dei temi generali dei tre libri: libro primo: che cosa è l'ira.E" passione del tutto nociva, perché incompatibile con il principato della ragione; libro secondo: motivazioni fisiologiche, psicologiche e morali che rendono doverosa, possibile e proficua la lotta contro l'ira; libro terzo: fenomenologia dell'ira e suggerimenti pratici per combatterne o prevenirne le manifestazioni.La pura e semplice enunciazione dei temi è purtroppo povera e muta.Sembra, in fondo, che Seneca si limiti a spostare successivamente la sua esposizione sui tre piani che la metodologia del suo tempo gli suggeriva: a) teoretico (libro primo), con occasionali indicazioni di eventuali risvolti storici, giuridici e politici; b) dotto, tecnicoscientifico (libro secondo), per delimitare con tutta esattezza il campo d'azione e formulare attendibili norme dell'operare; c) dei suggerimenti pratici (libro terzo), più discorsivo e descrittivo, soggetto ancora alla verifica critica dei risultati ottenibili.Per Seneca, il problema era più vasto: anche Cicerone, nel libro quarto delle "Tusculane", aveva trattato del tema delle passioni, attingendo da matrice stoica e polemizzando con i peripatetici.Anche Cicerone era sfociato in una precettistica dell'eutimia di dichiarata matrice crisippea, e s'era attenuto, in quel libro come negli altri della medesima opera, ad una contrapposizione talmente severa tra logicità e irrazionalità, da bollare non solo le debolezze dei personaggi storici, ma persino quelle dei mitici protagonisti delle tragedie e dei poemi

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epici.Seneca condivide le premesse teoretiche di Cicerone, ma ritiene che il discorso dell'Arpinate debba essere ampliato e integrato, condotto ad un umanesimo più realistico e attuale.Cicerone aveva scritto: L'uomo ha la ragione: con essa coglie i nessi della realtà, vede le cause degli avvenimenti, ne scopre i prodromi e, per così dire, gli antecedenti; stabilisce delle analogie e, con ciò, collega e connette il futuro con il passato.E" in grado, dunque, di farsi una visione completa della vita e di preparare ciò che è necessario per viverla ("Off." 1,11).Tanto ottimismo non trovava riscontro nell'esperienza.Poteva certo esser utile per l'inserimento normativo dell'uomo nella vita della città romana.E l'uomo della vita spicciola, della massa, della folla anonima e cosmopolita, che pure cade sotto il nome di "umanità"? Seneca compirà un viaggio verso l'uomo storico, un viaggio che giungerà alla meta soltanto nel libro terzo, e che sarà guidato da un postulato, un imperativo categorico: giovare all'uomo a qualunque costo.Non è dunque un viaggio logico, ma vocazionale, missionario, animato dalla fiducia che sia possibile scoprire e portare a profitto anche quegli ultimi residui d'umanità che paiono ormai sopraffatti dal dilagare dell'illogico e del ferino.L'ipotesi d'opporsi al male con la punizione o la vendetta non è più formulabile: il male è cosmopolita quanto l'uomo, dunque esser uomini significa esser infermi e, sorprendentemente, la coscienza dell'infermità diviene tanto affratellante quanto lo era stato, nello stoicismo tradizionale, il dono della razionalità.L'accettare il senso del proprio limite, senza perder la fiducia nella possibilità d'aspirare al bene e nella validità del tentativo di raggiungerlo, nonostante l'ipotesi d'un successo soltanto parziale, e il conseguente, ostinato votarsi del filosofo al suo compito di missionario, sono i due grandi insegnamenti che sopraffanno, nel libro terzo, il sustrato eutimico della precettistica.L'umanesimo di Cicerone era stato promozione dell'uomo da una vita biologica ad una vita logica e politica.Seneca apre il discorso sull'uomo ad una più ampia dimensione psicologica e storica.Entra ufficialmente nella filosofia un fatto fideistico: Seneca l'accetta, perché fatto umano.Certamente l'esperienza dell'esilio rese più viva in Seneca l'esigenza di questa nuova meditazione.Ma l'esilio non basta a spiegare un discorso tanto impegnativo: il Seneca del trattato "Dell'ira" è talmente uomo tra gli uomini, i suoi personaggi e le sue folle sono talmente urbanizzate, che si stenterebbe a credere che il libro sia stato composto nel desolato paesaggio della Corsica.All'esule potevano bastare la rassegnazione, il senso del provvisorio, il pensiero della morte.Ma non sono dell'esule, sono dell'uomo, le due grandi componenti del nuovo discorso sull'umanità: la comprensione e la fiducia.Analisi di struttura del libro primo.Il libro primo "Dell'ira" ricalca il quarto delle "Tusculane" di Cicerone (11-58 in particolare), seguendone anche l'impostazione espositiva.Cicerone ci riferisce con esattezza anche le premesse del discorso stoico.Riporta infatti la definizione di "passione" formulata da Zenone: un turbamento dell'animo opposto alla ragione ("Tusc." 4,11), e quella di "volontà": il desiderio conforme a ragione.Inoltre, ci attesta che Crisippo, e con lui gli stoici in genere, insistevano fino all'eccesso nel qualificare "malattie dell'animo" le passioni e nel paragonarle con le malattie del corpo.Doveva esser questa la tesi portante del trattato "Sulle passioni" di Crisippo.Cicerone utilizzò certamente i due trattati "Sulle passioni" e "Sull'ira" di Posidonio.In quell'epoca, tutte le scuole disputavano sull'argomento.L'epicureo Filodemo di Gadara, contemporaneo di Cicerone, aveva sostenuto tesi di totale rifiuto della passionalità nel suo "Dell'ira", fortunosamente giunto a noi.Rimanevano isolati, e bersagliati dalle critiche di tutti, i peripatetici, più possibilisti.Cicerone li qualifica molli e snervati ("Tusc." 4,38), ne confuta le tesi, ma non ne fa i nomi.Seneca polemizza dapprima con Aristotele (cc. 8-10), poi con Teofrasto (cc. 12-14), che risultava ancor più permissivo.La cura di distinguere la paternità delle singole tesi ci autorizza a pensare che Seneca abbia conosciuto sia il perduto "Dell'ira" di Aristotele sia l'omonimo trattato di Teofrasto.Sull'enunciato: l'ira è passione, si trovavano concordi tutte le scuole del tempo.Le divergenze si configuravano al momento di definire i contenuti della parola "passione" ("páthos"), un termine che ricorreva nel discorso gnoseologico (la passione in quanto sensazione o momento del processo conoscitivo), in quello psicologico (la passione come moto dell'animo) ed infine nel discorso morale (eticità della passione).In quest'ultimo, soprattutto, venivano a divergenza le valutazioni sulla possibilità di salvaguardare l'egemonia della ragione sulle singole azioni.Secondo i peripatetici (e, a parte le citate testimonianze di Cicerone e di Seneca, sono possibili riscontri nelle opere d'Aristotele a noi pervenute), come la sensazione ha funzione propositiva nel processo della conoscenza, alla quale fornisce un contributo che l'intelletto depura ed elabora, ma non può abolire, così in campo psicologico la passione svolge un compito promozionale dell'agire, ovviamente soggetto al controllo critico della ragione e perciò finalizzabile agli ideali supremi dell'eticità.I peripatetici condannarono dunque un agire meramente passionale, così come avrebbero rifiutato, in campo gnoseologico, di soggiacere passivamente al puro e semplice dato di sensazione, ma furono equilibratamente possibilisti sulle passioni in quanto tali e, in particolare, sull'ira: ammisero che essa fosse controllabile (Cic., "Tusc." 4,41; Sen.,

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"Ira" I,8,4-7), che potesse anzi riuscir utile all'uomo e migliorarne le prestazioni, soprattutto nelle circostanze che esigono decisione, dinamismo, coraggio (Cic., "Tusc." 4,43; Sen., "Ira" I,9,2; 10,4) e che, almeno in certi casi, essa fosse necessaria (Cic., "Tusc."; Seneca, "Ira" I,11,1).Per gli stoici invece, formulata la totale antitesi tra razionalità e sensazione (irrazionalità, quindi amoralità), il sapiente non può accettare nulla di ciò che non è squisita razionalità.Ma raccogliamo i punti salienti dell'esposizione di Seneca: 1) C. 3,4-8: si debbono tener distinti due fatti psicologici: il puro e semplice impulso ("hormé") e la passione ("páthos").Il primo è spontaneo, momentaneo, comune all'uomo ed agli animali, incontrollabile.La sua totale arazionalità lo colloca fuori dell'ambito della moralità.La passione, invece, implica sempre un consenso della ragione allo stato d'animo.Una razionalità condizionata dunque o malata, moralmente inaccettabile; 2) C. 5: la moralità o "l'essere secondo natura" è la dimensione sociale della razionalità: l'uomo è nato per il reciproco aiuto; 3) C. 6: legge fondamentale del vivere civile è far del bene agli altri, anche quando si è costretti a ricorrere all'applicazione di pene.Dopo una lunga parentesi polemica contro la permissività dei peripatetici (cc. 7-14), Seneca riprende la trattazione di principi proposti.Anzi, anticipa anche consigli che riprenderà nei libri successivi, quale quello di prender tempo prima di decidere, in attesa che l'ira si plachi (17; 18, 1-2) e abbozza il discorso sulla magnanimità (20-21) che, nel libro terzo, diverrà "comprensione".Si nota un certo imbarazzo nel tentativo di conciliare il comandamento: non nuocere a nessuno con la necessità di applicare le pene e, magari, la pena capitale.Qualcosa sembra suggerire a Seneca la debolezza intrinseca di certe posizioni dialettiche stoiche tradizionali, che invece Cicerone aveva accettato.Un piano razionale puro, superiore, quindi, e definito "divino" costituiva, si permetta l'espressione, l'empireo degli "assiomi" ("axiómata"), i dettami assoluti e astorici dell'agire (esempio: giovare a tutti, non nuocere a nessuno).Su un piano medio, storico, si muovevano invece le norme dell'agire applicato, le leggi ("nómoi") che, non potendo cogliere sempre l'assoluto, si contentavano di collocarsi nel "probabile" (ad esempio: l'empio dev'esser condannato a morte).Rientrando sia l'assioma certo sia la legge probabile nella logicità, si pretendeva che non si potesse configurare un contrasto fra i due asserti, in quanto appartenenti a ordini diversi.Soprattutto la critica dei cinici, al tempo di Seneca, corrodeva codeste aporie del sistema stoico.Analisi di struttura del libro secondo.Il libro secondo si presenta suddiviso in due sezioni: appartengono alla prima i cc. 1-17, alla seconda i cc. 18-32; i tre capitoli finali, nei quali Seneca indulge all'eloquenzialità descrittiva, costituiscono una conclusione del libro più letteraria che filosofica.Sezione prima.1) Cc. 1-7: Seneca enuncia la premessa filosofica dell'intero libro.Richiamatosi al concetto stoico di razionalità dell'ira (1,4: l'ira non osa nulla da sola, ma attende l'approvazione dell'animo), egli passa a dimostrare la tesi fondamentale: se l'ira ha una componente razionale, può esser messa in fuga dai retti dettami (2,2).Quali argomenti di conforto, Seneca riproporrà le definizioni psicologiche e morali della passione e concluderà riaffermando l'incompatibilità tra ira e virtù (c. 6); 2) Cc. 10-17: nuova confutazione delle tesi dei peripatetici, già discusse nel libro primo.Al c. 17,1, viene ricordata la tesi che l'ira giovi all'oratore: il particolare (cfr.Cic., "Tusc." 4,55) era stato omesso nel libro primo.Sezione seconda.E" la sezione metodologica.Il c. 18 presenta il mero schema dell'ordine d'esposizione.Ma in realtà, anche in ossequio alla scienza del tempo, Seneca condiziona la proponibilità del discorso alla distinzione tra natura ed arte.1) Cc. 19-20: mediante l'identificazione della propria tipologia (c.19), il singolo conoscerà il proprio carattere, quella componente naturale del suo essere che nessun esercizio (arte) potrà mai distruggere.Ma sarebbe errato applicare i precetti senza adeguarli alla natura su cui si opera.Le cause accidentali dell'ira (c. 20) sono invece sempre superabili con l'arte; 2) Cc. 21- 22: precetti per l'infanzia (c. 21) ed enunciazione dei tre "grandi" consigli validi per l'intera vita: stare in guardia; prender tempo; esser obiettivi nei giudizi; 3) Cc. 28-36: i due principi che sorreggono l'intera trattazione sono enunciati nei primi due paragrafi del c. 28 e costituiscono la prima professione di quell'umanesimo che Seneca esporrà nel libro terzo.Eccoli: a) convincerci che nessuno di noi è senza colpa; b) superare il legalitarismo: pietà, liberalità, umanità, giustizia e lealtà impongono obblighi che non saranno mai traducibili in leggi dello Stato.La precettistica successiva s'ispira tutta (anche il consiglio di ricambiare i torti con i benefici, proposto in 34,5) ad una massima di Crisippo che, significativamente, non è citato: La fortezza è la scienza del sopportare, o la disposizione d'un animo che, nel sopportare e pazientare, ubbidisce senza timore alla legge suprema (Cic., "Tusc." 4,53).Ma il suo insegnamento sull'eutimia traspare spesso dal dettato di Seneca.

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Analisi di struttura del libro terzo.La distribuzione tripartita del materiale del libro terzo è presentata da Seneca nel c. 5: precetti per non adirarsi, per deporre l'ira, per correggere l'ira altrui.Apparentemente i primi due punti dovrebbero convergere su un esercizio squisitamente egocentrico di puro e semplice miglioramento dell'io, rispondente ai più classici canoni dello stoicismo.Ma già con lo svolgimento della seconda parte (come comporre l'ira), il "miglioramento dell'io", proposto da Seneca, diventa apertura alla comprensione delle altrui debolezze.A rigor di termini, non ci si allontana dal terreno tradizionale.La nonira ("aorgesía") comprendeva, nelle varie scuole, anche l'insieme dei dettami per il retto inserimento dell'individuo in una serena ed equilibrata vita di rapporto.Gli stoici, in particolare, contrapponendo la misantropia alla filantropia (Cic., "Tusc." 4,2527), giungevano alla conclusione che il prevalere dei vizi finiva con il chiudere l'uomo nell'odio del genere umano (ivi, 27): una pretestuosa autosufficienza e intolleranza che si risolveva nel rifiuto di qualunque rapporto.Ma quella filantropia e misantropia si muovono ancora sul sustrato eutimico, già superato da Seneca nel libro secondo: la "nonira" è già divenuta una sorprendente proiezione dell'uomo verso il prossimo, talmente nuova, nel suo insieme, da indurre gli studiosi a rintracciarne le possibili origini.Si parla, a questo proposito, della scuola dei Sestii, una indefinibile scuola, fiorita in Roma al tempo di Augusto, attorno al nobile Quinto Sestio, che aveva rifiutato, per dedicarsi alla filosofia, la prestigiosa carriera politica che gli offriva Giulio Cesare (Sen., "Ep." 98-13).Ebbe breve vita: s'estinse quando ne scomparvero gli entusiasti promotori (Sen., "Nat. quaest." 32,2).Seneca l'aveva frequentata da adolescente: ne disseminò nelle sue "Epistole" ricordi frammentari, occasionali, unificati soltanto dalla sempre viva nostalgia per l'entusiasmo che quei maestri avevano saputo suscitare nel suo animo di giovinetto: ivi aveva praticato l'astensione dalle carni, aveva creduto nella metempsicosi ("Ep." 108,18), ivi aveva ascoltato il precetto della continua vigilanza (59,7), aveva ammirato il senso di libertà, vitalità, fortezza, fiducia in se stessi che Sestio riversava anche nei suoi scritti.Tanti anni dopo, rileggeva quei libri a Lucilio ed agli amici intimi ("Ep." 64,2-3).Per lui, Sestio era uno stoico che negava d'esser tale: nulla, forse, denuncia con maggior chiarezza l'indefinibilità di quello spicilegio di elementi pitagorici, stoici, cinici e peripatetici con i quali Sestio tentava di giustificare le singole scelte del suo umanesimo.Non sarà mai possibile ricostruire organicamente l'insegnamento dei Sestii.L'esplicita memoria che ne fa Seneca, nel c. 36 di questo libro, lascia pensare che egli dovesse a Sestio padre molto di più di quanto non trasparisca dalla quasi occasionale memoria che se ne incontra nel libro secondo, 36,1, ove Sestio par ridotto ad un teoreta del "decorum".Ma troppe differenze allontanano l'umanesimo di Seneca da quello dei Sestii.Le componenti pitagoriche sono completamente scomparse, la fiducia dell'uomo in se stesso poggia sulla fiducia negli altri, la virtù acquista dimensioni di umiltà e vengono proposti e ampliati sviluppi e riflessioni riscontrabili soltanto nella restante produzione del Cordovese.Non vorremmo che accadesse a Seneca quanto accadde a Cicerone filosofo: non vorremmo che l'impegno di peritare le pietre del gioiello ci impedisse d'ammirare l'opera dell'orafo.Lasciamo a parte i cc. 1-4 (prologo), il c. 5, del quale s'è già detto, e il lungo inserto d'esempi contenuto nei cc. 14-20.I punti salienti del libro terzo sono: 1) Cc. 6-13: precetti per non adirarsi, o traduzione in norme del presupposto generale della vigilanza.L'equilibrio che ne risulta è ancora la realizzazione della dignità e superiorità che sono proprie del freddo sapiente tradizionale; 2) Cc. 24-37: riaffermata la necessità della comprensione, Seneca condensa in punti l'esposizione del suo umanesimo.Egli proclama: a) la fiducia nella possibilità di rieducare l'uomo alla coscienza della propria responsabilità morale: La più grande punizione dell'ingiuria fatta è la coscienza d'averla fatta e nessuno subisce punizione più grave di colui che viene consegnato al tormento del rimorso (26,2); b) l'equilibrato senso della propria infermità morale: Siamo tutti sconsiderati e sprovveduti, [...] siamo tutti cattivi (26,4): è l'opposto dell'acritico e convenzionale quadro dell'umanità delineato nel c. 2.Ma Seneca, s'osservi, non cede alla tentazione, altrettanto acritica, d'imputare colpe alla società o ad un generico "tutti noi", per scaricare su un insieme sfuggente quegli impegni che nessuno vuole assumersi in proprio.Il suo è un esame critico che nulla toglie ai singoli della loro responsabilità morale, e nulla gratuitamente aggiunge; c) il perdono, più produttivo di bene che non la punizione (c. 27): è lo sviluppo positivo di quanto enunciato in 2,7,2: si cadrebbe esausti, se si dovesse punire ogni colpa; d) il senso della misura: non distruggere la gioia di vivere col tormento dell'ambizione insoddisfatta (c. 31); e) il soliloquio per migliorarsi, facendosi giudici e consiglieri di se stessi (cc. 36-37): sono le meravigliose pagine sull'esame di coscienza.I cc. 39-41 svolgono il terzo punto proposto: come placare l'ira negli altri.Ma si tratta di indicazioni sulle tecniche d'un successo.S'infiltra nell'esposizione un senso di avvedutezza che sfiora la furberia e spezza la continuità del discorso umanistico: gli toglie il respiro.3) Cc. 42-43: l'ultima componente dell'umanesimo senecano è il senso del provvisorio e della morte.Anche questi due capitoli provano l'autonomia di Seneca dal discorso dei Sestii.

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Il provvisorio, per Sestio, era motivo di sfida agli dèi: In che cosa Giove s'avvantaggia sull'uomo buono, nell'aver più tempo per essere buono; ma il sapiente non si sente da meno solo perché le sue virtù sono chiuse in una vita più breve (Sen., "Ep." 73,12).Per Seneca la provvisorietà è suggerimento d'umiltà e di rassegnata, ma non triste, saggezza: Il tempo di volger l'occhio, dice il proverbio, di girarci, e la morte arriva (43,5).

DELL'IRA.LIBRO PRIMO.1. [Il concetto di ira ed il ritratto dell'adirato.] [1] Hai insistito, o Novato, perché scrivessi come si può placare l'ira, e mi pare che tu abbia buone ragioni di temere soprattutto questa passione che, più d'ogni altra, è spaventosa e furibonda.Le altre, a dir vero, hanno una componente di tranquillità e calma, questa è tutta eccitazione ed impulso a reagire, è furibonda e disumana brama di armi, sangue e supplizi, dimentica se stessa pur di nuocere all'altro, è pronta a precipitarsi immediatamente sulle armi ed è avida di una vendetta destinata a coinvolgere il vendicatore. [2] Per questo motivo, alcuni sapienti definirono l'ira "un momento di pazzia" (1); come quella, infatti, è incapace di controllarsi, incurante delle convenienze, insensibile ai rapporti sociali, cocciuta ed ostinata nelle sue iniziative, preclusa alla ragione ed alla riflessione, pronta a scattare per motivi inconsistenti, inetta a distinguere il giusto ed il vero, quanto mai somigliante a quelle macerie che si frantumano sopra ciò che hanno travolto.[3] Per convincerti che i posseduti dall'ira sono dei dissennati, osserva bene il loro atteggiamento: come sono sicuri sintomi di pazzia l'espressione risoluta e minacciosa, la fronte aggrottata, la faccia scura, il passo concitato, le mani irrequiete, il colorito alterato, il respiro frequente ed affannoso, tali e quali sono i sintomi dell'ira incipiente: [4] gli occhi ardono e lampeggiano, il viso si copre di rossore per il rifluire di sangue dal fondo dei precordi, le labbra tremano, i denti si serrano, i capelli si drizzano ispidi, il respiro diventa forzato e rumoroso, le articolazioni schioccano tormentandosi, i gemiti e i muggiti si intercalano in un parlare che inciampa in voci mozze, le mani battono continuamente e i piedi percuotono la terra, il corpo è tutto eccitato e "scagliante grandi minacce d'ira" (2), i lineamenti sono brutti e spaventosi, quando un uomo si sfigura per corruccio.[5] Impossibile sapere se è un vizio più detestabile o schifoso.Tutti gli altri si possono nascondere o nutrire in segreto: l'ira si manifesta ed affiora sul volto e, quanto più è grande, tanto più apertamente ribolle.Non vedi come tutti gli animali, quando insorgono per nuocere, ne mostrano in anticipo i sintomi e tutto il loro corpo abbandona l'abituale comportamento di calma ed esaspera la connaturata ferocia? [6] I cinghiali mandano spuma dalla bocca ed arrotano le zanne per aguzzarle, i tori danno di corno nel vuoto e spargono l'arena battendola con l'unghia, i leoni fremono, i serpenti, quando s'adirano, gonfiano il collo, le cagne rabide hanno aspetto minaccioso (3): non c'è animale tanto orribile o dannoso per natura, nel quale non appaia, al sopravvenire dell'ira, un nuovo aumento di ferocia.[7] Certo, non ignoro che è difficile anche nascondere le altre passioni, che la libidine, il timore, l'audacia mostrano i loro sintomi e si possono conoscere in anticipo: non c'è, di fatto, nessun sconvolgimento interiore d'una certa violenza, che non alteri qualcosa sul nostro viso.Che differenza c'è, allora? Le altre passioni si notano, questa risalta.

2. [Gli effetti dell'ira.] [1] Ed ora, se vuoi esaminare gli effetti ed i danni, nessuna calamità è costata più cara al genere umano.Vedrai uccisioni ed avvelenamenti, reciproche infamie di colpevoli, distruzioni di città e stragi di intere popolazioni, vite di capi di Stato messe in vendita all'asta pubblica, fiaccole gettate nelle case, incendi non limitati alla cerchia delle mura, ma immense distese di territorio, rilucenti di fiaccole nemiche. [2] Osserva le fondamenta di città notissime, ormai quasi invisibili: le ha abbattute l'ira; osserva tanti deserti, disabitati per miglia e miglia: li ha spopolati l'ira; osserva tanti condottieri, passati alla storia come esempi di un destino fatale: l'ira ne ha trafitto uno sul suo letto, ne ha ucciso un altro a mensa, tra le sacre leggi dell'ospitalità, un altro lo ha fatto a pezzi durante il processo (4), sotto gli occhi della folla che riempiva il foro, un altro lo ha costretto a versare il suo sangue ad opera di un figlio parricida, un altro ad offrire la sua gola regale alla mano di uno schiavo, un altro a divaricare le sue membra su di un patibolo.[3] E sto ancora narrando supplizi di singoli: che sarà, se vorrai tralasciare i casi in cui l'ira è divampata su individui e guardare intere assemblee passate a fil di spada, plebi trucidate da incursioni di soldatesche, interi popoli mandati a morte senza distinzione alcuna... (5) [Lacuna] [La componente razionale dell'ira: decisione di reagire all'ingiuria.] [4]... come se cessassero di occuparsi di noi o disprezzassero la nostra autorità.E che? Per quale motivo il popolo s'adira contro i gladiatori, e diventa tanto ingiusto, da ritenersi offeso se non muoiono volentieri? Si giudica sottovalutato e, con l'espressione, il gesto, l'eccitazione, da spettatore diventa nemico. [5] Ma fatti del genere non sono ira: sono una specie di ira, paragonabile a quella dei bambini che, se cadono, vogliono che si batta la terra e spesso non sanno nemmeno con chi si adirano: si adirano e basta, senza un motivo, senza essere stati ingiuriati, ma non senza una parvenza di ingiuria ed un desiderio di castigo.Perciò vengono ingannati con le finte percosse e placati con le false lacrime di scusa: una vendetta inconsistente pone fine ad un rancore inconsistente.

3. [Alcune obiezioni e risposte.L'autorità di Aristotele.L'apparente ira degli animali.] [1] Spesso si obietta non ci adiriamo con chi ci ha fatto offesa, ma con chi si prepara a farla: sappi dunque che l'ira non è conseguenza dell'ingiuria.

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E" vero, noi ci adiriamo con chi si prepara ad offenderci, ma costoro ci offendono già con il pensiero e già ci ingiuria chi si prepara ad ingiuriarci.[2] Per renderti conto si obietta che l'ira non consiste nel desiderio di castigare, tieni presente che spesso i più deboli si adirano con i più potenti, senza un desiderio di castigarli, perché non possono sperare tanto.Prima di tutto, ho detto che l'ira è il desiderio, non la possibilità concreta, di infliggere un castigo; ma gli uomini desiderano anche cose che non sono in grado di fare.Poi nessuno è tanto in basso da non sentirsela di sognarsi punitore anche dell'uomo più altolocato; in più, di fare del male ci sentiamo capaci tutti.[31 La definizione di Aristotele non è molto lontana dalla nostra: dice, infatti, che l'ira è il desiderio di contraccambiare il male (6).Sarebbe lungo esporre minuziosamente le differenze tra la nostra definizione e questa.Ma si obietta ad ambedue che le bestie s'adirano, senza esser state irritate da ingiuria o senza desiderare l'altrui castigo o dolore, e se le conseguenze della loro ira sono le medesime, non è quella la loro intenzione. [4] Bisogna però chiarire che né le bestie, né alcun altro essere tranne l'uomo, è soggetto all'ira; infatti, pur essendo l'ira incompatibile con la ragione, tuttavia non nasce, se non dove c'è luogo per la ragione.Le bestie hanno impulsività, rabbia, ferocia, aggressività, ma non sono soggette all'ira più di quanto lo siano alla lussuria, anzi, riguardo a certi piaceri, sono più intemperanti dell'uomo.[5] Non devi credere al poeta (7) che dice:

dimentica l'ira il cinghiale, non più della corsa si fida la cerva, né l'orso irrompe tra i forti giovenchi.

Chiama ira l'eccitarsi, lo slanciarsi, ma questi esseri non sanno adirarsi più di quanto non sappiano perdonare. [6] Gli animali privi di parola non hanno sentimenti umani, hanno però istinti che somigliano ad essi.Altrimenti, se avessero amore ed odio, avrebbero anche amicizia ed antipatia, contrasto e concordia, cose di cui si notano tracce in essi, ma che, per il resto, sono beni e mali specifici dell'uomo. [7] A nessuno, tranne che all'uomo, è stata concessa la prudenza, la preveggenza, la diligenza, la riflessione, mentre gli animali sono stati privati non solo delle virtù umane, ma anche dei vizi.Tutta la loro configurazione, esterna ed interna, è ben diversa da quella dell'uomo: la facoltà che regge e governa (8) è stata plasmata diversamente.Come hanno una voce, ma incomprensibile, inarticolata, incapace di tradursi in parola, come hanno una lingua, ma legata ed incapace di sciogliersi in mille movimenti, così la loro capacità di governarsi non è per nulla raffinata, per nulla perfetta.Riceve dunque percezioni e visioni (9) di cose che possono stuzzicare l'impulsività, ma turbate e confuse. [8] Per questo motivo, i loro slanci e turbamenti sono impetuosi, ma non sono timori, ansie, abbattimenti, ire: sono soltanto qualcosa di simile, perciò ben presto cessano e si volgono al contrario.Gli animali, dopo essere stati smisuratamente furibondi o spaventati, tornano al pascolo e subito, ai loro fremiti ed al loro correre pazzesco, succedono il riposo ed il sonno.

4. [L'ira e l'irascibilità.] [1] Abbiamo già spiegato a sufficienza che cosa è l'ira.Si veda anche come differisca dall'irascibilità: come l'ubriaco dall'ubriacone e lo spaventato dal timido.Un adirato può non essere irascibile, un irascibile, talvolta, può non essere adirato. [2] Tutte le altre suddivisioni, con cui i Greci designano le sottospeci dell'ira, con ricca terminologia, le lascio cadere perché, in latino, non esistono vocaboli appropriati, anche se noi usiamo gli aggettivi "stizzoso, burbero", ed anche "bilioso, rabbioso, becero, intrattabile, rozzo", che esprimono altrettante sottospeci dell'ira; a questi puoi infine aggiungere "schifiltoso" (10), una varietà raffinata di ira. [3] Ci sono delle ire che si limitano al gridare, altre sono tanto ostinate quanto frequenti, altre sono pronte alle vie di fatto ed avare di parole, altre si sfogano nell'amarezza dell'ingiuria, altre ancora non vanno oltre la lagna ed il brontolio, altre sono profonde, opprimenti, introverse, e ci sono mille altri aspetti di questo male dai tanti volti.

5. [L'ira ripugna alla natura umana.] [1] Ci siamo chiesti che cosa è l'ira, se ad essa sono soggetti altri esseri oltre l'uomo, come si diversifica dall'irascibilità, in quante speci si suddivide; domandiamoci, ora, se essa è consona alla natura, se è utile, se, almeno in parte, dobbiamo tenercela.[2] Se essa sia consona alla natura, emergerà chiaramente da una attenta osservazione dell'uomo.C'è un essere più mite quando la sua mente è nel giusto assetto? E che cosa c'è di più crudele dell'ira? Esiste un essere che sappia amare gli altri più dell'uomo? E c'è cosa più indisponente dell'ira? L'uomo è nato per il reciproco aiuto, l'ira, per distruggere; l'uomo vuol associarsi, l'ira vuole la separazione; l'uomo vuole giovare, l'ira vuol nuocere; l'uomo vuol aiutare anche gli sconosciuti, l'ira, assalire anche gli esseri più cari; l'uomo è pronto anche a sacrificarsi a vantaggio degli altri, l'ira, ad affrontare il pericolo, pur di trascinare gli altri con sé.[3] Chi, dunque, misconosce la natura, più di colui che attribuisce questo vizio feroce e pernicioso alla sua opera migliore e più rifinita? Come si è detto, l'ira è avida di punire, è un desiderio che non può trovarsi, per natura, nel pacifico cuore dell'uomo.La vita umana poggia sulle buone azioni e sulla concordia, e si sente unita in alleanza e collaborazione comune, non in forza del terrore, ma del reciproco amore.

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6. [Casistica e norme: a) l'ira e la punizione del male.] [1] Allora non si danno casi in cui è necessaria una punizione? Perché no? Ma leale, ragionata, perché non deve nuocere, ma guarire dietro la parvenza del nuocere.Come scottiamo al fuoco certi giavellotti storti, per drizzarli, e li tagliamo ed applichiamo loro degli spinotti, non per spezzarli, ma per allungarli, così correggiamo i caratteri depravati dal vizio, con il dolore fisico e morale. [2] Appunto il medico, nei disturbi leggeri, per prima cosa tenta di modificare in parte le nostre abitudini quotidiane, di porre una regola al cibo, alle bevande, all'attività, e di rafforzare la nostra salute, limitandosi a cambiare il nostro tenore di vita.La restrizione giova subito; ma, se la restrizione e l'ordine non ci giovano, ci toglie e riduce qualche altra cosa; se neppure così c'è risultato, ci mette a digiuno e sbarazza il corpo con l'astinenza; se i rimedi più blandi non hanno avuto efficacia, ci fa un salasso ed interviene chirurgicamente su quelle membra che danneggiano le vicine o diffondono il male (11): nessuna terapia sembra dura, se produce la guarigione.[3] Allo stesso modo, chi tutela la legge e governa la città deve curare le indoli, più a lungo che può con le parole, e le più garbate, per indurre al bene da farsi ed instillare negli animi il desiderio dell'onestà e della giustizia, provocare l'odio dei vizi e la stima delle virtù; in un secondo momento, deve passare ad un discorso più severo, per insistere sulle ammonizioni e per rimproverare; infine, passi alle pene, ma si limiti a quelle lievi e revocabili; assegni il supplizio estremo ai delitti estremi, affinché nessuno vada a morte, se non nel caso in cui il morire giovi anche a chi muore. [4] Su un sol punto si comporterà diversamente dai medici, in quanto quelli procurano una morte blanda a coloro cui non poterono donare la vita, egli invece toglie la vita ai condannati con disonore e pubblico scherno, non perché si diletti d'assistere ad una esecuzione (il sapiente è alieno da una ferocia tanto disumana), ma perché siano di ammonimento per tutti e perché, dopo che quelli non hanno voluto giovare a nessuno, lo Stato abbia un sicuro utile dalla loro morte.La natura umana non è, dunque, incline al punire; perciò neppure l'ira, in quanto brama il castigo, è consona alla natura umana.[5] Riporterò un argomento di Platone (che male c'è nell'utilizzare roba altrui, nei limiti entro cui concorda con noi? ): L'uomo buono dice non infligge il male (12).Castigare è infliggere un male; il castigare, dunque, non s'addice all'uomo buono, e perciò neppure l'ira, perché l'ira comporta il castigo.Se l'uomo buono non gioisce del castigo, non gioirà neppure di quella passione per la quale il castigo è voluttà: dunque l'ira non è consona alla natura.

7. [b) l'ira non è mai utile.] [1] Anche se l'ira non è consona alla natura, non è ugualmente bene ammetterla, dato che in più di un caso è stata utile? Esalta ed eccita l'ardimento e, in guerra, senza di essa il coraggio non compie nessuna impresa straordinaria; è indispensabile accendere con questa fiamma e pungolare con questi sproni gli audaci (13), al momento di lanciarli nel pericolo.Perciò alcuni pensano che la regola migliore sia quella di moderare l'ira, ma senza eliminarla del tutto: una volta che le sia stato tolto quanto trabocca, ridurla a misura di utilità pratica, serbandone quel tanto senza cui l'azione si smorza e la forza ed il vigore d'animo si dileguano. [2] Prima di tutto, è più facile eliminare le passioni rovinose che controllarle, non dare loro adito che governarle, dopo averle accolte; infatti, una volta che sono diventate padrone, sono più forti del loro presunto governatore, e non si lasciano sfrondare o sminuire. [3] Poi, anche la ragione, che tiene in mano le redini, ha potere solo per il tempo in cui rimane isolata dalle passioni, ma una volta che si sia confusa con esse e ne sia rimasta contaminata, non riesce più a controllarle, mentre, prima, le avrebbe potute bandire.La mente, una volta turbata ed abbattuta, è schiava di ciò che la stimola.[4] Certe cose sono sotto nostro controllo all'inizio, ma, con la loro forza, ci sottraggono il seguito e non ci consentono un ripensamento.Come i corpi, che stanno precipitando, non possono più disporre di se stessi, non sono in grado di arrestare o di rallentare la propria caduta, perché il precipitare irrevocabile esclude ogni riflessione e pentimento e non è più possibile non arrivare là dove, prima, era possibile non andare, così l'animo, se si getta nell'ira, nell'amore e nelle altre passioni, non si sente più in grado di frenare lo slancio: è ineluttabile che il suo stesso peso e la natura del vizio, propensa al basso, lo trascinino e lo spingano fino in fondo.

8. [c) bisogna controllare l'ira fin dal suo primo insorgere.] [1] La regola migliore è di rifiutare subito il primo insorgere dell'ira, combatterne i remoti principi ed impegnarsi in concreto a non adirarsi.Infatti, se comincia a trasportarci fuori strada, è difficile tornare a salvezza, perché non c'è più nulla di ragionevole, una volta che s'è intromessa la passione e le si è concesso, di nostra volontà, un settore di dominio: su ciò che resta, farà quanto vorrà, non quanto le permetterai.[2] In primo luogo, direi, bisogna tener lontano il nemico dal territorio; infatti, se riesce a far irruzione e ad oltrepassare le porte, non accetta condizioni dai suoi prigionieri.E l'animo non si trova in posizione isolata, ad osservare le passioni dall'esterno, allo scopo di poter loro impedire di avanzare oltre il giusto limite, ma esso stesso si tramuta in passione, e quindi non può fare appello a quella forza utile e salvatrice, che è già stata consegnata prigioniera e ridotta all'impotenza. [3] Come ho detto, queste passioni non hanno sedi proprie, realmente distinte e lontane: passione e ragione sono il volgersi dell'animo al meglio o al peggio.Allora, in che modo può risollevarsi una ragione conquistata ed oppressa dai vizi, dopo che ha ceduto all'ira? O in che modo si libererà da un miscuglio in cui prevale l'impasto delle componenti peggiori? [4] Ma alcuni, si obietta nell'ira sanno moderarsi.

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Ma al punto di non far nulla di quanto l'ira detta, o di farne qualcosa? Se non ne fanno nulla, è chiaro che l'ira non è necessaria a condurre in porto le imprese, eppure voi la chiamavate in aiuto, come se avesse qualcosa di più forte della ragione. [5] Per sbrigare la questione, vi chiedo: è più forte della ragione, o più debole? Se è più forte, in che modo la ragione potrà dettarle legge, dato che non sono avvezzi all'ubbidienza se non gli esseri più deboli? Se è più debole, la ragione, da sola e senza quella, basta a condurre ad effetto le imprese, senza invocare l'aiuto del più debole.[6] Ma ci sono degli adirati che si controllano e si dominano! Quando? Quando ormai l'ira svanisce e se ne va da sé, non quando è nel suo primo bollore: in quella fase, infatti, essa prevale.[7] E allora? Puoi negare che costoro, talvolta, anche adirati rimandano indenni ed intatti quelli che odiano, e si astengono dal far loro del male? Lo fanno, ma quando? Quando una passione ha annullato un'altra passione ed il timore o la cupidigia hanno ottenuto qualcosa.Ma allora non si è pacata per i buoni uffici della ragione, ma per una infida e cattiva pace tra passioni.

9. [d) lo slancio e la decisione non sono ira.] [1] Inoltre: l'ira non ha in sé niente di utile e non stimola l'anima alle imprese di guerra.La virtù non deve mai essere aiutata con il vizio: basta a se stessa.Ogni volta che ha bisogno di slancio, non si adira: si innalza, e si stimola nella misura che ritiene necessaria, poi si placa, proprio come quei dardi che vengono lanciati dalle macchine e che sono a completa disposizione di chi li lancia e ne regola la portata.[2] L'ira, dice Aristotele, è necessaria e, senza di essa, non si può venire a capo di nulla: essa deve gonfiarci l'animo ed infiammarci l'ardire.Ma non dobbiamo servircene come di un comandante, ma come di un soldato. (14) E" falso.Infatti, se ascolta la ragione e la segue nel cammino che essa le traccia, non è più ira, dato che la caratteristica dell'ira è la ribellione; se, invece, recalcitra e non si ferma quando ne riceve l'ordine, ma si lascia portar oltre dalla sua indomabile sfrenatezza, è un inserviente dell'animo tanto inutile, quanto un soldato che non tiene conto del segnale di ritirata. [3] Quindi, se accetta che le si imponga una regola, la si deve chiamare con altro nome: non è più l'ira, che io concepisco come sfrenata e indomabile; se non accetta regole, è disastrosa, e non può essere annoverata tra gli aiuti. [4] Così o non è ira, o è inutile.Infatti, se uno infligge un castigo, non per avidità di punire, ma perché è suo dovere, non può essere annoverato fra gli irati.Il soldato utile è quello che sa ubbidire alle disposizioni; le passioni, invece, sono tanto cattivi inservienti quanto cattivi comandanti.

10. [e) anche se controllata, l'ira è sempre un male.] [1] Perciò la ragione non assumerà mai come aiutanti le passioni sprovvedute e violente, sulle quali essa non ha alcuna autorità e che sa di non poter mai frenare, se non opponendo loro passioni equivalenti e simili, come il timore all'ira, l'ira all'inettitudine o la cupidigia al timore.[2] Alla virtù, non accadrà mai la sciagura di vedere la ragione rifugiarsi dietro i vizi! Un animo così non può fruire di duratura tranquillità: è inevitabile che rimanga scosso ed agitato l'uomo che cerca sicurezza nei suoi mali, che non sa essere forte senza l'ira, operoso senza la cupidigia, tranquillo senza il timore: deve vivere sotto tirannide, colui che finisce schiavo di una passione.E non è vergogna umiliare la virtù, sottoponendola al patronato dei vizi? [3] Inoltre, la ragione decade da ogni suo potere, se non può nulla senza la passione, anzi, incomincia ad essere simile ed equivalente ad essa.Che differenza resta, se finiscono sullo stesso piano la passione, una realtà sconsiderata perché priva di ragione, ed una ragione divenuta impotente senza la passione? Le due cose si equivalgono, dal momento che l'una non può essere senza l'altra.Ma chi avrebbe il coraggio di mettere sullo stesso piano ragione e passione? [4] Ma sì, si obietta la passione è utile, se è sotto controllo.No: sarebbe utile, solo se fosse tale per natura.Ma se è insofferente dell'autorità della ragione, governandola, otterrai soltanto questo risultato: quanto più sarà debole, tanto minore male provocherà.Dunque, una passione sotto controllo non è altro che un male sotto controllo.

11. [Prima conclusione: la razionalità e la tecnica giovano più dell'ira.] [1] Ma, si obietta contro i nemici, l'ira è indispensabile.In nessun caso serve meno: è proprio allora che gli impulsi non debbono traboccare, ma esser controllati e sottomessi.Quale altro fattore fiacca i barbari, fisicamente tanto più robusti, tanto più resistenti alla fatica, se non l'ira quanto mai ostile a se stessa? E i gladiatori? La tecnica li protegge, l'ira li scopre.[2] Poi che bisogno c'è dell'ira, quando la ragione ottiene altrettanto? O pensi che il cacciatore sia adirato con la selvaggina? Eppure ne sorprende l'arrivo, ne incalza la fuga, e tutto questo lo fa la ragione, senza l'ira.E i Cimbri e Teutoni (15), che s'erano riversati a migliaia e migliaia sulle Alpi, che cosa li ha tolti di mezzo al punto che, a portarne notizia ai loro compatrioti non fu un messaggero ma una voce anonima, se non il fatto che, in loro, l'ira sostituiva il valore? Eppure, come essa, talvolta, ha rovesciato ed abbattuto quanto ha incontrato, così, ben più spesso, provoca la propria rovina.[3] Chi è più coraggioso dei Germani? Chi è più focoso nell'attaccare? Chi è più desideroso delle armi, tra le quali

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nascono e vengono allevati, delle quali esclusivamente si curano, senza interessarsi d'altro? Chi è più allenato a sopportare tutto, dato che non provvedono a coprire la maggior parte del corpo e non allestiscono rifugi contro l'eterno rigore della stagione? [4] Eppure Ispani e Galli ed imbelli soldati d'Asia e di Siria li fanno a pezzi, prima ancora che arrivino a vedere una legione, non approfittando d'altro che della loro iracondia.Ebbene, a quei corpi, a quelle anime che ignorano agi, lusso, ricchezze, dà una ragione, una vera educazione: per non dire di più, dovremo certamente rifarci ai costumi romani.[5] Con quale altro mezzo, Fabio (16) rimise in sesto le forze stremate della dominazione romana, se non con il saper temporeggiare, tirare in lungo e rinviare, espedienti del tutto ignoti agli adirati? Si sarebbe estinta quella dominazione che, in quel momento, si reggeva in condizioni disperate, se Fabio avesse osato tanto quanto suggeriva l'ira.Tenne fisso il pensiero al bene dello Stato e, valutate le forze, delle quali nulla si poteva perdere senza la catastrofe totale, mise da parte il dolore e la vendetta, badando a un solo scopo pratico: cogliere le occasioni favorevoli.Sconfisse prima l'ira che Annibale. [6] E Scipione? Abbandonato Annibale, l'esercito cartaginese e tutti coloro contro i quali ci si doveva adirare, non trasferì la guerra in Africa, con tanta lentezza che i maligni (17) poterono credere in una sua mollezza ed indolenza? [7] E il secondo Scipione? Non mantenne un duro e lungo assedio attorno a Numanzia, e sopportò serenamente il cruccio suo e dello Stato, perché occorreva più tempo a sconfiggere Numanzia che Cartagine? A furia di scavar trincee e chiudere i nemici, li spinse al punto che si uccidevano con le loro stesse armi.Dunque, l'ira non è utile, nemmeno nelle battaglie e nelle guerre, è propensa infatti alla temerità e non bada al proprio pericolo, nell'intento di arrecarne agli altri.E" invece sicurissimo quel valore che sa guardarsi attorno a lungo e con attenzione, mettersi sulla strada buona ed avanzare con calma, secondo un preciso disegno.

12. [Seconda serie di norme: a) saper fare il proprio dovere senza adirarsi.] [1] Ma allora, si obietta, l'uomo buono non deve adirarsi se, sotto i suoi occhi, gli percuotono il padre o gli rapiscono la madre? Non deve adirarsi, ma farne vendetta, difenderli.Teme forse che lapietà filiale, anche senza l'ira, non sia per lui un pungolo sufficiente? Puoi formulare l'obiezione anche così: Ma allora l'uomo buono, quando vede far a pezzi suo padre o suo figlio, non deve piangere, non deve perdersi d'animo?.Sono le cose che vediamo accadere alle donne, ogni volta che le sbigottisce il sospetto di un lieve pericolo.[2] L'uomo buono adempirà i suoi doveri senza turbarsi né trepidare e, compiendo le azioni proprie dell'uomo buono, terrà una condotta che non ammette nulla che sia indegno per un uomo.Vogliono percuotere mio padre? Lo difenderò.Lo hanno già percosso? Lo vendicherò, perché è mio dovere, non per rancore. [3] Quando fai quella affermazione (18), o Teofrasto, poni in discredito i dettami più consoni al coraggio, ed abbandoni il giudice, per far ricorso all'uditorio.Poiché ognuno si adira quando accade ai suoi una faccenda del genere, tu pensi che gli uomini debbano ritenere che il loro comportamento risponda ad un dovere: di solito, infatti, ciascuno giudica giusta la passione che scopre in se stesso.[4] Gli uomini buoni, però, si adirano delle ingiurie fatte ai loro cari.Ma fanno altrettanto, se non si porge loro l'acqua calda nel debito modo, se è stato rotto un bicchiere di vetro, se uno stivaletto è stato imbrattato di fango.Non è la pietà che eccita quell'ira, ma la debolezza, come nei fanciulli che piangeranno allo stesso modo la perdita dei genitori e quella delle noci.[5] Adirarsi per i propri cari non è pietà d'animo, ma debolezza; è condotta bella e dignitosa uscire in difesa dei genitori, dei figli, degli amici, dei concittadini, sotto la guida e l'imperativo del dovere, con discernimento e cautela, non con impulsività e rabbia.Infatti nessuna passione brama la vendetta più dell'ira che, proprio per questo, diventa inetta a vendicarsi.Troppo impetuosa e forsennata, come, in genere, ogni passione, si ostacola da sé nel dirigersi allo scopo verso il quale si precipita.Perciò non è mai stata un bene, né in pace né in guerra; rende, infatti, la pace simile alla guerra e, in combattimento, dimentica che Marte non parteggia per nessuno; finisce sotto il dominio altrui, perché non sa dominare se stessa.[6] Inoltre, il fatto che i vizi, talvolta, hanno ottenuto qualche buon risultato non è buon motivo per accettarne la pratica: anche le febbri dànno sollievo a certe razze di malattie, ma ciò non toglie che sia meglio non averne del tutto: è un tipo abominevole di cura il dovere la salute ad una malattia.Allo stesso modo, l'ira, anche se talvolta ha prodotto giovamenti del tutto inattesi, come possono produrli un avvelenamento, una caduta, un naufragio, non deve, per questo, esser giudicata salutare: non è la prima volta, infatti, che eventi pestiferi portano la salvezza.

13. [L'ira non aiuta la virtù.] [1] Poi, le virtù che si debbono avere, quanto più sono grandi, tanto più sono buone e desiderabili.Se la giustizia è un bene, nessuno dirà che essa diverrà migliore se le si sottrae qualche cosa; [2] se la fortezza è un bene, nessuno desidererà che essa sia sminuita di qualche sua componente.Dunque, anche l'ira, quanto più è grande, tanto più è buona: chi, infatti, ricuserebbe l'aumento di un bene? Eppure l'aumentarla non produce alcun utile: quindi, nemmeno la sua presenza.Non è un bene ciò che, aumentando, diventa un male.[3] L'ira è utile, si obietta perché rende più combattivi. (19) Ragionando così, lo è anche l'ebbrezza: rende, infatti,

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sfrontati ed arroganti, e molti si troveranno più validi, nel maneggiare le armi, dopo una discreta bevuta, ma, ragionando così, devi dir necessario alla vigoria anche il delirio e la demenza, perché il furore rende spesso più forti. [4] E che? La paura non ha reso qualcuno audace per contrasto, ed il timore della morte non ha risvegliato a combattere anche i più indolenti? Ma l'ira, l'ebbrezza, la paura ed altre passioni simili sono stimoli vergognosi e momentanei, e non pongono in assetto di combattimento la virtù, che non ha nessun bisogno dei vizi, ma risvegliano per un attimo un animo altrimenti pigro e codardo. [5] Non diventa più forte con l'ira se non colui che, senza l'ira, non sarebbe stato forte.Così, essa non viene ad aiutare la virtù, ma a sostituirla.E non è vero che, se l'ira fosse un bene, accompagnerebbe tutti i più perfetti? Eppure i più irascibili sono i bambini, i vecchi ed i malati: tutti i deboli sono lagnosi per natura.

14. [b) la comprensione e la correzione.] [1] Non può darsi obietta Teofrasto che l'uomo buono non s'adiri contro i cattivi.Ragionando così, quanto più uno è buono, tanto più, per questo, dev'essere irascibile: vedi se, invece, non debba essere più calmo, libero da passioni ed incapace di odiare alcuno. [2] E che motivo dovrebbe avere di odiare i colpevoli, se è l'errore a spingerli ai loro delitti? Non è da uomo riflessivo odiare chi sbaglia, altrimenti diverrà odioso a se stesso.Si renda conto di quante azioni egli compie contro la retta norma morale, di quante, tra le sue azioni, domandano venia: a quel punto, dovrà adirarsi anche contro se stesso.Il giudice giusto non pronuncia una sentenza diversa in casa propria ed in casa altrui.[3] Non si troverà nessuno, intendo dire, che sia in grado di assolvere se stesso, ed ognuno può dirsi innocente, se guarda al testimonio, non alla coscienza.Quanto è più degno di un uomo mostrarsi comprensivo e paterno con quelli che sono in colpa, e non punirli, ma dissuaderli.Uno che vaga per i campi perché non conosce la strada, è meglio indirizzarlo al sentiero cui tendeva, che cacciarlo via.

15. [c) saper punire senza adirarsi.] [1] Si deve dunque correggere chi è in colpa, sia con gli ammonimenti, sia con la forza e, con modi ora blandi ora duri, renderlo migliore per se stesso, e per gli altri, senza rinunciare al castigo, ma senza ira: quale medico, infatti, s'adira con il paziente? Ma sono incorreggibili, non c'è niente in loro che si lasci plasmare, che faccia sperar bene.Siano eliminati dalla convivenza umana coloro che non possono che peggiorare quanto toccano, e smettano d'esser cattivi nel solo modo loro possibile; ma lo si faccia senza odio. [2] Che motivo ho, infatti, di odiare un essere al quale giovo solo quando lo sottraggo a se stesso? Forse qualcuno odia le sue membra, quando se le fa amputare? Quello non è odio: è una cura tormentosa.Abbattiamo i cani rabbiosi, uccidiamo il bue selvaggio e riottoso, trafiggiamo con il ferro le bestie malate perché non infettino il gregge, soffochiamo i feti mostruosi, ed anche i nostri figli, se sono venuti alla luce minorati e anormali, li anneghiamo (20), ma non è ira, è ragionevolezza separare gli esseri inutili dai sani.[3] Nulla è meno opportuno dell'ira in chi punisce, tanto più che la pena giova ad emendare nella misura in cui è inflitta con giudizio.Da ciò deriva l'aver Socrate detto al suo schiavo: Ti picchierei, se non fossi adirato (21).Rimandò la punizione dello schiavo ad un momento più sereno e, in quel momento, castigò se stesso.Chi presumerà di saper controllare le sue passioni, se un Socrate non ha osato affidarsi all'ira?

16. [Non bisogna adirarsi, anche se sono molto gravi i delitti da punire.] [1] Dunque, per reprimere chi commette errori e delitti, non è necessario un censore irato; infatti, essendo l'ira un delitto dell'animo, non ha senso che siano i peccati ad emendare il peccatore.Vuoi dire che non debbo adirarmi con un brigante? Vuoi dire che non debbo adirarmi con un avvelenatore? Non devi: e neppure io m'adiro con me stesso, quando mi pratico un salasso.Applico la pena, di qualunque genere sia, come una medicina.[2] Tu sei ancora ai primi passi dell'errore e non commetti colpe gravi, ma frequenti: un rimprovero, dapprima privato, poi pubblico, cercherà di emendarti.Tu sei già andato troppo avanti per poter essere guarito con le parole: sarai tenuto a freno con una nota di biasimo.Tu devi esser marchiato con qual cosa di più forte e che ti si faccia sentire: ti si manderà in esilio, in luoghi ignoti.La tua malvagità, ormai consolidata, esige rimedi più severi nei tuoi riguardi: finirai in catene, nel carcere pubblico. [3] La tua anima è inguaribile ed intesse delitti su delitti, e non hai più bisogno d'essere indotto al delitto da un movente concreto, che non può mai venir meno ad un malvagio, ma per te il peccare è già, in se stesso, motivo sufficiente per peccare.Sei impregnato di nequizia e l'hai talmente assimilata nelle viscere, che non può uscire da te se non in loro compagnia: sciagurato da tempo, desideri morire.Ci renderemo benemeriti di te, ti libereremo da questa follia che ti fa tormentatore degli altri ed è insieme il tuo tormento e, dopo che ti sei voltolato nei supplizi tuoi ed altrui, porremo in opera la sola cosa rimasta buona per te: la morte.Perché devo essere adirato con uno cui do il massimo giovamento? Talvolta uccidere è un bellissimo atto di misericordia. [4] Se, in qualità di medico esperto e dotto, entrassi in un ospedale o nella casa di un ricco (22), non darei la medesima, generica prescrizione a malati di malattie diverse.

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Vedo vizi diversi in tante anime, e sono stato incaricato di curare la città: la medicina deve esser cercata specificamente per le malattie di ciascuno: questo lo guarisca un biasimo, quest'altro un viaggio, questo un dolore, questo la povertà, questo il ferro. [5] Pertanto, se, come magistrato, devo rivestire l'abito scuro (23) e convocare l'assemblea a suon di tromba, andrò al tribunale senza furore e senza ostilità, ma con il volto della legge, e pronuncerò le formule di rito con voce calma e grave, meglio che rabbiosa, e ordinerò l'esecuzione non irato, ma severo.E quando ordinerò che il delinquente sia decapitato o farò cucire nel sacco i parricidi, quando invierò qualcuno al supplizio militare o farò salire sulla rupe Tarpeia il traditore o il nemico dello Stato (24), io, senza ira, avrò quel volto e quei sentimenti che ho quando colpisco serpenti o bestie velenose.[6] E" necessario irritarsi, per punire.Che dici? Ti sembra che la legge si adiri contro individui che non conosce, che non ha visto, che spera non esisteranno mai? Bisogna assimilarne lo spirito; essa non si adira: sentenzia.Infatti, se è giusto che un uomo buono si adiri per le azioni cattive, sarà anche giusto che provi invidia per la prosperità degli uomini cattivi.Che c'è di più indegno che il fiorire di certuni ed il loro godere fino in fondo della benevolenza della fortuna, mentre non si saprebbe escogitare per loro una sorte abbastanza cattiva? Eppure, vedrà i loro profitti senza invidiarli, così come ne vedrà i delitti senza adirarsene: il buon giudice condanna gli atti riprovevoli, ma non odia.[7] E allora? Quando il sapiente avrà tra mano un fatto del genere, non se ne sentirà toccato, non si commuoverà più del solito? Lo ammetto: sentirà una certa lieve emozione.Infatti, come dice Zenone, anche nell'animo del sapiente, pur dopo che la ferita è rimarginata, resta la cicatrice.Avvertirà, perciò, dei sintomi e delle ombre di passione, ma sarà esente dalle passioni.

17. [La ragione è coerente, l'ira è incostante.] [1] Aristotele sostiene che certe passioni, se utilizzate a dovere, sono come delle armi (25).Questo sarebbe vero, se si potessero prendere e deporre, come gli strumenti di guerra, a piacimento di chi li deve portare.Ma queste armi, che Aristotele fornisce alla virtù, combattono da sole, non aspettano la mano, sono delle padrone, non degli strumenti.[2] Non c'è nessun bisogno di strumenti accessori: la natura ci ha provveduti a sufficienza, dandoci la ragione.Essa è l'arma che ci ha dato, solida, duratura, docile, non pericolosa o tale da poter esser rilanciata contro il padrone.Non solo per prevedere, ma per gestire le cose, la ragione è sufficiente di per se stessa.Ed allora, che cosa c'è di più insensato che il mandarla a chiedere aiuto all'irascibilità, lei stabile ad una incostante, lei leale ad una perfida, lei sana ad una malata? [3] Che dire poi se, anche nel limite di quelle azioni per le quali sembra necessaria la collaborazione dell'irascibilità, la ragione, di per se stessa, risulta molto più forte? Infatti, quando ha deciso che una cosa è da fare, persevera in quella: in realtà, non può trovare nulla di meglio di se stessa, se vuole far cambio: perciò sta salda su quanto ha deciso una volta per tutte.[4] Spesso la compassione ha fatto arretrare l'ira: questa, infatti, non ha un nerbo robusto, ma un vuoto gonfiore e pratica la violenza inizialmente, come quei venti che si alzano dalla terra e, concepiti da fiumi e paludi, sono impetuosi, ma incostanti. [5] L'ira comincia con grande foga, poi suole venir meno, fiaccandosi prima del tempo e, dopo non aver progettato altro che crudeltà e supplizi inediti, quando si tratta di applicare la pena, si è già spezzata ed ammansita.La passione crolla subito, la ragione è coerente. [6] Del resto, anche quando l'ira è duratura, se sono parecchi quelli che hanno meritato la morte, talvolta, dopo due o tre esecuzioni, smette di uccidere.I suoi primi colpi sono penetranti: allo stesso modo, è nocivo il veleno dei serpenti, che stanno uscendo dai loro nidi, ma i loro denti diventano innocui, quando il ripetuto mordere li ha spossati. [7] Ed ecco che individui, che hanno commesso uguali delitti, non subiscono pene uguali e che, spesso, chi ha commesso minor male, subisce di più, perché s'imbatte in un'ira più fresca.Ed è incoerente in tutto: ora sconfina oltre il necessario, ora si ferma al di qua del dovuto, perché è condiscendente con se stessa, decide a capriccio, non vuole ascoltare, non concede spazio alla difesa, si tiene sul terreno che ha occupato e non permette che le si sottraggano le sue decisioni, nemmeno se sono ingiuste.

18. [Si deve sempre preferire la ragione.Esempi di irragionevolezza.] [1] La ragione concede tempo alle due parti, poi chiede una dilazione anche per se stessa, per aver modo di vagliare la verità: l'ira ha fretta.La ragione vuol prendere quella decisione che è giusta, l'ira vuole che sembri giusta la decisione già presa. [2] La ragione non può prendere in considerazione nulla che esca dal caso in esame, l'ira si lascia commuovere da dati inconsistenti, che divagano fuori dell'oggetto del dibattimento.La esasperano un atteggiamento troppo sicuro, una voce troppo ferma, un linguaggio troppo franco, un abbigliamento troppo raffinato, una avvocatura troppo fastosa ed il favore del popolo.Spesso condanna il reo per antipatia verso l'avvocato; anche se la verità balza agli occhi, ama e difende l'errore; non accetta confutazione e, dopo un errore iniziale, ritiene più onorevole l'ostinazione che il ripensamento.[3] Gneo Pisone (26), uomo che ricordiamo, fu esente da molti vizi, ma fu un perverso che scambiava per costanza il rigore.Costui, avendo ordinato, in preda all'ira, la pena di morte per un soldato che era tornato da un permesso senza il commilitone, pensando che avesse ucciso colui che non era in grado di presentare, non aderì alla sua richiesta di un

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breve rinvio per una ricerca.Il condannato fu condotto fuori del recinto e ormai porgeva il collo, quando, all'improvviso, apparve quel commilitone che si pretendeva fosse stato assassinato. [4] Allora il centurione, responsabile dell'esecuzione, comanda all'ordinanza di riporre la spada e riconduce il condannato da Pisone, per restituire a Pisone l'innocenza: al soldato, l'aveva già restituita un colpo di fortuna.Circondati da tutti, vengono condotti, mentre s'abbracciano l'un l'altro tra l'esultanza dell'accampamento, i due compagni d'armi.Pisone, furibondo, sale sul tribunale ed ordina l'esecuzione di tutti e due, tanto del soldato che non aveva ucciso, quanto di quello che non era morto. [5] Poteva esserci iniquità peggiore? Perché uno s'era dimostrato innocente, ne dovevano morire due.Pisone aggiunse anche il terzo: ordinò infatti addirittura l'esecuzione del centurione che aveva condotto indietro il condannato.Così furono schierati per morire nello stesso posto tre uomini, a causa dell'innocenza di uno. [6] Oh, quanto è avveduta l'iracondia, nell'inventare cause di furore! Ordino disse la tua esecuzione, perché sei stato condannato; la tua, perché sei stato la causa della condanna del tuo compagno; la tua, perché, ricevuto l'ordine di uccidere, non hai ubbidito al comandante supremo.Trovò il modo di commettere tre delitti, perché non ne aveva appurato nessuno.19. [Compostezza ed oculatezza della ragione.] [1] Di male, direi, l'iracondia ha questo: non accetta d'esser governata; si adira anche contro la verità, se le si presenta contraria al suo volere; perseguita le sue vittime designate con grida, rumore, scomposti movimenti di tutto il corpo, ed aggiunge ingiurie ed insolenze.[2] Questo, la ragione non lo fa ma, se così è necessario, in calma e silenzio, demolisce dalle fondamenta intere case e stermina famiglie funeste allo Stato, con mogli e figli, ne abbatte anche le case e le rade al suolo, ed estirpa i nomi dei nemici della libertà: tutto questo senza fremere né scuotere il capo, né fare alcunché di sconveniente al decoro di un giudice, il cui volto dev'essere calmo ed impassibile, soprattutto nel momento in cui pronuncia sentenze dure.[3] Quando vuoi percuotere qualcuno, dice Geronimo (27) che bisogno hai di morderti prima le labbra? E se avesse visto un proconsole saltare giù dal tribunale, portar via i fasci ai littori e strappare i propri vestiti, perché si indugiava a strappare quelli altrui? [4] Che bisogno c'è di rovesciare la tavola, infrangere i bicchieri, battere il capo nelle colonne, strapparsi i capelli, percuotersi la coscia ed il petto? Quanto stimi grande quell'ira che, siccome non s'abbatte sull'altro tanto presto quanto vorrebbe, rivolge i suoi sfoghi su se stessa? Perciò sono trattenuti dagli amici e pregati di rappacificarsi con se stessi.[5] Di tutto questo, non fa nulla chiunque, libero dall'ira, ingiunge a ciascuno il meritato castigo.Spesso assolve colui che ha colto in flagrante delitto; se il pentimento dell'azione dà adito a sperar bene, se capisce che la malvagità non viene dal profondo, ma sfiora, come suol dirsi, la superficie dell'animo, concederà un'impunità che non può nuocere né a chi la riceve, né a chi la concede. [6] A volte, reprimerà i delitti gravi con più indulgenza che non i lievi, se quelli sono stati commessi per errore, non per crudeltà, mentre questi nascondono dentro di sé una malizia subdola e inveterata; non punirà con ugual pena il medesimo delitto in due colpevoli, se uno l'ha commesso per disattenzione, l'altro ha inteso nuocere. [7] Si atterrà, ogni volta che applicherà una sanzione, a questo criterio: rendersi conto che alcune sanzioni le adotta per emendare i cattivi, altre per eliminarli.Nei due casi, non terrà presente il passato, ma il futuro (così infatti dice Platone: Nessun uomo prudente infligge una punizione perché c'è una colpa, ma perché non si commetta colpa: il passato non si può più revocare, il futuro lo si previene (28)), e farà uccidere in pubblico coloro che vorrà diventino esempio del cattivo esito del male, non solo perché quelli muoiano, ma anche perché, con la loro morte, dissuadano gli altri. [8] E" evidente che la persona, cui compete il soppesare e valutare queste situazioni, deve essere assolutamente libera da ogni turbamento, quando s'accinge a questo compito, che deve essere svolto con la massima diligenza: il decidere su vita e morte.E" un errore affidare la spada ad un irato (29).

20. [L'ira non è grandezza.] [1] Non si deve affatto ritenere che l'ira contribuisca in qualche modo alla magnanimità: non si tratta di grandezza, ma di gonfiore: nemmeno per i corpi gonfi di liquido malefico, si può parlare di crescita, ma di sovrappiù pestifero. [2] Tutti coloro che l'incoscienza esalta oltre il pensare umano, si credono animati da qualcosa di elevato e sublime, ma sotto non c'è alcun fondamento, e tutto ciò che è cresciuto senza fondamento è destinato al crollo.L'ira non ha un punto d'appoggio.Non nasce su base stabile e duratura: è piena di vento e di nulla, ed è tanto lontana dalla magnanimità, quanto lo è la temerità dal coraggio, la presunzione dalla sicurezza, la taccagneria dalla parsimonia, la crudeltà dalla severità.[3] C'è molta differenza, ripeto, tra superiorità ed orgoglio.L'iracondia non costruisce nulla di grande e dignitoso, anzi mi sembra che, rendendosi conto della debolezza d'un animo fatiscente ed insoddisfatto, se ne dolga in continuità, come i corpi, coperti di piaghe e malati, gemono al minimo tocco.Così l'ira è un vizio squisitamente femmineo e puerile.Ma colpisce anche gli uomini.Infatti anche certi uomini hanno carattere femmineo e puerile. [4] Non è vero? Non vengono pronunciate dagli adirati parole che sembrano sgorgare da magnanimità a chi non conosce la vera magnanimità? Come quelle famose, crudeli ed abominevoli: Mi odino, purché mi temano.Questa massima, ricordalo, è stata scritta ai tempi di Silla (30).

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Non so quale delle due cose, che si augurava fosse la peggiore, essere odiato o temuto.Mi odino.Gli si prospettano l'esecrazione, le insidie, l'annientamento.Che aggiunge? Lo puniscano gli dèi del rimedio tanto abominevole che ha trovato! Mi odino, purché...Che cosa? Purché mi obbediscano? No.Purché mi approvino? Neppure.Ed allora? Purché mi temano.A questo prezzo, non vorrei neppure essere amato. [5] E credi che questo sia il detto di un animo grande? Sbagli: codesta non è grandezza, è mostruosità.Non ha senso il credere alle parole degli adirati: il loro schiamazzare è grande e minaccioso ma, dentro, il loro sentire è tutto paura. [6] E non ha senso il giudicare vera quell'espressione che si legge in Tito Livio, modello di eloquenza: Uomo di ingegno più grande che buono.Non si può fare questa distinzione: o sarà anche buono, o non sarà neppure grande, perché la magnanimità la intendo come indivisibile, insieme solida all'interno ed equilibrata e stabile sulle sue basi, quale non può riscontrarsi nelle indoli malvagie.[7] Costoro possono essere tremendi, turbolenti, esiziali, ma non avranno la magnanimità, che poggia e si fa forte sulla bontà.Peraltro, nel loro parlare, nelle loro iniziative ed in tutto l'apparato esteriore, daranno l'illusione della grandezza; [8] potranno anche pronunciare frasi che tu forse apprezzerai, come Caligola il quale, irato con il cielo perché disturbava con il tuono i pantomimi, che egli imitava con maggior impegno di quanto non mettesse a guardarli, e perché seminava spavento sulle sue gozzoviglie con i fulmini (certamente mal diretti), sfidò Giove a battaglia, ma all'ultimo sangue, gridando quel verso d'Omero (31):

Toglimi di mezzo, o tolgo io di mezzo te.[9] Quale follia fu! Credette che o neppure Giove fosse in grado di nuocergli, o d'essere lui in grado di nuocere anche a Giove.Penso che questa sua battuta abbia contribuito non poco a rafforzare le decisioni dei congiurati: sembrò, infatti, il colmo della pazienza sopportare un uomo che non sapeva sopportare Giove.21. [L'ira non produce grandezza.] [1] Nell'ira, dunque, non c'è nulla di grande, nulla di nobile, neppure quando essa si mostra impetuosa e sprezzante degli dèi e degli uomini.Oppure, se si pensa che l'ira produca in qualcuno la magnanimità, si deve pensare che la produca anche il lusso: vuol coricarsi sull'avorio, vestirsi di porpora, coprirsi d'oro, spostare la terraferma, rinchiudere i mari, trasformare i fiumi in cascate, fare boschi pensili; [2] si deve pensare che anche l'avarizia produca magnanimità: si sdraia sui mucchi d'oro e d'argento e coltiva campi che hanno nomi di province e possiede terreni, amministrati ciascuno dal suo fattore, più estesi di quelli che i consoli tiravano a sorte; [3] si deve pensare che anche la libidine afferisca a magnanimità: attraversa a nuoto gli stretti (32), evira schiere di fanciulli, finisce sotto la spada del marito disprezzando la morte; si devepensare che afferisca a magnanimità anche l'ambizione: non si accontenta di cariche annuali e, se potesse, vorrebbe riempire i fasti con un solo nome e disseminare epigrafi in tutto il mondo.[4] Non importa fino a che punto avanzino e si estendano tutte queste passioni: sono piccine, misere ed avvilenti; solo la virtù è sublime ed eminente, e non c'è mai la grandezza dove non c'è anche la compostezza.NOTE.Nota 1.Definizione diffusissima, anche quale proverbio popolare.Cfr.la sequenza di massime sull'ira in Orazio, "Epist." 1,59,63.Nota 2.A. Bourgery (ediz., Parigi 1951, ad loc.) riconobbe in questa espressione una parte d'un verso giambico Nota 3.Sintomatologia chiaramente attinta da testi poetici.Nota 4.Il Bourgery, ed. cit., p. 4, nota 1, richiama erroneamente l'episodio del pretore urbano Sempronio Asellione (Val.Max., 9,7,4), ucciso mentre sacrificava.Penso che Seneca alluda ad una delle versioni del processo di Seiano ("Tranq." 11,11).Nota 5.Dopo queste parole, è andata perduta l'ultima parte della descrizione dei mali causati dall'ira e l'inizio della vera e propria trattazione.L'obiezione peripatetica, con cui s'apre il c. 3, permette di supporre con il Bourgery che Seneca abbia qui definito l'ira come desiderio di vendicare l'ingiuria: cfr.Lactant., "De Ira Dei" 17.Ma vedi anche, a 3,3, la definizione di Aristotele.Nota 6.Aristotele, "De Anima" 403a 30.Nota 7.

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Ovidio, "Metam." 7,545-546.Nota 8. "Regge e governa": con l'endiadi "regium et principale", Seneca traduce il termine stoico "hegemonikón".Nota 9.Percezioni e visioni: anche l'endiadi "visus speciesque" sembra tradurre "phantasíai", le percezioni d'immagini assimilate a quelle dei sogni.Nota 10.Non è identificabile la fonte esatta di codeste distinzioni, che peraltro potevano essere attinte anche da manuali di medicina, magari antichissimi.Anche Crisippo era stato medico.Nota 11.I trattati di medicina erano suddivisi in tre sezioni: dietetica farmaceutica, chirurgia (Cels., "Medic." prooem. 9).Nota 12.Plat., "Respubi." 1,335d.Ma il discorso di Platone è ben diverso.Nota 13.Allusione al costume d'incitare i cavalli alla corsa scottandone il ventre con fiaccole.Nota 14.La citazione d'Aristotele non è identificabile, e contrasta in parte con i principi dell""Etica Nicomachea".Forse è una contaminazione di due luoghi diversi.Nota 15.I "Teutoni" furono sconfitti da "Gaio Mario" nel 102 alle "Aquae Sextiae": l'anno successivo, Gaio Mario sconfisse i "Cimbri" ai "Campi Raudii".Seneca unisce in un solo racconto le due vittorie: fu veramente completa soltanto la seconda. Nota 16. "Quinto Fabio Massimo", il "Temporeggiatore".Nota 17.I militanti di parte Catoniana, che provocarono un'inchiesta sulle lungaggini di Scipione.Nota 18.L'obiezione enunciata al paragrafo 1.Nota 19.In "Etica Nicomachea" 3,8 (1117a 8), Aristotele ben distingue la combattività dal valore.Seneca o non tiene conto della distinzione, o attinge da testi di peripatetici più permissivi.Da Teofrasto forse, che viene citato direttamente all'inizio del capitolo seguente.Nota 20.La crudele prassi era dovuta a superstizione: si riteneva che il nato mostruoso o menomato significasse un'ira divina che doveva essere espiata (Cic., "Divin." 2,60).Superstizioso e rituale è anche il procedimento dell'uccidere senza spargimento di sangue.La ragionevolezza di cui parla Seneca è tutt'altro che condivisa da Cicerone che, nel luogo citato si richiama all'autorità di Crisippo. Nota 21.Cfr.Cic., "Tusc." 4,78, che attribuisce l'episodio e la battuta al filosofo pitagorico Archita di Taranto, contemporaneo di Platone.Nota 22.S'intende, nell'infermeria degli schiavi.Nota 23.Non sappiamo gran che su codesta formalità d'indossare una toga scura per pronunciare la sentenza di morte.Nota 24.Il "parricida", dopo esser stato flagellato, veniva cucito in un sacco di cuoio insieme con una vipera, un gallo, un cane ed una scimmia; la vipera perché, nascendo, lacera il ventre della madre; il gallo perché percuote la madre; il cane perché simbolo della rabbia e la scimmia perché è la più turpe immagine dell'uomo.Il sacco veniva gettato in mare.Il "supplizio militare" consiste nella flagellazione e decapitazione.Dalla "rupe Tarpeia" venivano precipitati anche gli schiavi colti in flagrante furto ai danni del padrone.Nota 25.La citazione non è riscontrabile nelle opere d'Aristotele.Le perplessità suscitate dalla citazione che vedemmo a 13,3 (cfr. sopra, nota 19), fanno pensare che non si tratti neppure d'un testo d'Aristotele, ma d'una fonte indiretta e non troppo scrupolosa.Nota 26. "Gneo Pisone": governatore della Siria sotto Tiberio, sospettato d'aver avvelenato Germanico, suo ospite, dovette uccidersi (Tac., "Ann." 2,69).Anche Tacito lo qualifica violento, irrispettoso e d'una crudeltà innata, ereditata dal padre che, nelle guerre civili, aveva combattuto in Africa contro Cesare.Nota 27. "Geronimo di Rodi", filosofo peripatetico del Terzo secolo avanti Cristo.Nota 28.Traduzione sostanzialmente fedele di Platone, "Leggi" 11,934ab Nota 29.

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Proverbio tramandato anche da "Publilio Siro", il mimografo citato anche in "Helv." 9,5 e "Tranq." 11,8.Nota 30.Dal poeta tragico Lucio Accio, nel suo "Atreo" (Cic., "Off." 1,97). Nota 31. "Iliade" 23,724.Nota 32.Allusione al mito di Ero e Leandro.DELL'IRA.LIBRO SECONDO.

1. [L'ira è reazione all'ingiuria.] [1] Il primo libro, o Novato, era d'argomento abbastanza accessibile: è facile scendere lungo la china dei vizi.Ora dobbiamo venire a questioni più sottili: ci chiediamo infatti se l'ira nasca da riflessione o da impulso, cioè se muova da volontà deliberata o sia come tanti altri fenomeni, che insorgono in noi a nostra insaputa. [2] E" indispensabile far scendere la discussione su questo piano, per poterla poi elevare a più dignitoso livello: del resto, anche nel nostro corpo, prima si dispongono le ossa, i nervi e le articolazioni, per nulla attraenti a vedersi, che sostengono l'insieme e gli danno la vita, poi si forma ciò che conferisce tutto il decoro alla figura ed all'aspetto esteriore, per ultimo, dopo tutto questo, nel corpo già formato si diffonde il colore che appaga specificamente l'occhio.[3] Non c'è dubbio che l'ira insorga alla percezione dell'ingiuria; ma il nostro quesito è se essa segua immediatamente quella percezione e prorompa senza la partecipazione dell'animo, o si muova con il suo assenso. [4] E" mio parere che essa non osi nulla da sola, ma attenda l'approvazione dell'animo.Infatti, il percepire l'offesa ricevuta, il desiderarne la vendetta e l'associare le due sensazioni, che cioè non dovevamo essere offesi e che è necessaria la vendetta, costituiscono un insieme non contenibile in quell'impulso che sbotta senza la nostra volontà. [5] Quello è semplice, questo è complesso ed implica tanti fattori: la percezione del fatto, lo sdegno, la condanna, la vendetta: l'insieme non può verificarsi, se l'animo non ha dato il suo assenso ai fattori che lo hanno colpito.

2. [L'ira è vizio volontario.] [1] A che cosa mira mi chiedi questa discussione? A sapere che cosa è l'ira.Infatti, se essa nasce senza il nostro assenso, non soccomberà mai alla ragione.Tutte le reazioni che insorgono fuori dell'area della volontà, sono invincibili ed inevitabili, come il brivido di chi è cosparso d'acqua fredda o la ripugnanza a certi contatti, il rizzarsi dei capelli alle notizie più brutte, l'effondersi del rossore alle parole sfacciate, la vertigine che coglie chi guarda i dirupi.Poiché nulla di tutto questo è in nostro potere, la ragione non può impedirne il verificarsi.[2] L'ira è messa in fuga dai retti dettami: essa è infatti un vizio volontario dell'animo, non una di quelle reazioni che sono insite nello stato di condizione umana e perciò accadono anche ai più sapienti; tra queste, è da annoverare anche quel primordiale impulso interiore che ci turba al pensiero dell'ingiuria. [3] Esso ci coglie anche quando assistiamo a spettacoli teatrali o leggiamo storie antiche.Spesso ci pare di adirarci contro Clodio (1) che bandisce Cicerone o contro Antonio che lo uccide, e chi non si sdegna contro le armi di Mario o le proscrizioni di Silla? Chi non si sente nemico di Teodoto e di Achilla, ed anche del fanciullo che osa commettere un delitto non da fanciullo? (2) [4] A volte ci eccitano un canto, una melodia ritmata o il suono marziale delle trombe.Ci commuovono una pittura spietata o la lugubre vista di supplizi anche giustissimi, [5] ed è per questo motivo che sorridiamo a chi ci sorride, ci rattristiamo davanti ad una folla in pianto e ci entusiasmiamo, guardando altri combattere.Ma questa non è ira; non la è, come non è tristezza il corrugare la fronte, quando il mimo rappresenta un naufragio, e non è paura quella che prende il lettore, quando Annibale, dopo Canne, assedia le mura.Tutti questi sono moti dell'animo, che però non coinvolgono la volontà; e non sono nemmeno passioni, ma sintomi che preludono alle passioni. [6] Allo stesso modo, la tromba eccita le orecchie di un soldato che, in piena pace, ha già ripreso gli abiti civili, ed uno strepito d'armi ridesta i cavalli negli accampamenti.Dicono che Alessandro (3), udendo cantare Senofanto, abbia messo mano alle armi.3. [Accezione morale della passione.] [1] Nessun impulso fortuito dell'animo deve essere chiamato passione: è più esatto dire che l'animo subisce, non produce, i fatti di questo genere.La passione non consiste dunque nella commozione che si prova nel percepire i fatti, ma nell'abbandonarsi ad essa e nell'assecondare questo impulso fortuito. [2] Dunque, il ritenere che il pallore, il cadere delle lacrime, l'eccitarsi degli umori del sesso, il sospirare profondo, il lampo improvviso degli occhi siano sintomi di passione e manifestazione di stato d'animo, è uno sbaglio, un non rendersi conto che si tratta di impulsi fisici. [3] Per questo, anche l'uomo più coraggioso impallidisce quando prende le armi ed il soldato più prode, al risuonare del segno di battaglia, avverte un leggero tremito alle ginocchia, il grande generale prova un tuffo al cuore quando gli eserciti stanno per scontrarsi, e l'oratore più eloquente, quando si concentra per parlare, sente irrigidirsi le estremità del corpo.[4] L'ira non può limitarsi a mettersi in movimento, ma deve anche prorompere, perché è uno slancio; ma non ci possono mai essere slanci, senza l'assenso della mente; allora, non può nemmeno darsi che si discuta di vendetta e di punizione, all'insaputa dell'animo.Uno s'è ritenuto offeso, s'è proposto una vendetta ma, dissuaso da un qualunque motivo, si è placato; non posso chiamare ira questo movimento dell'animo, che obbedisce alla ragione; è ira quella che scavalca la ragione e se la trascina dietro.

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[5] Dunque, quella prima reazione dell'animo che è provocata dalla percezione dell'ingiuria, non rientra nel concetto di ira più di quanto ci rientri la percezione dell'ingiuria; invece il successivo impulso, quello che non solo registra la percezione dell'ingiuria, ma la condivide, è l'ira, cioè l'eccitarsi dell'animo che si avvia alla vendetta con volontà deliberata.Non s'è mai messo in dubbio che il timore provochi la fuga, l'ira l'attacco: dimmi tu, ora, se pensi che si possa brigare per qualche cosa o guardarsene, senza l'assenso della mente.

4. [Psicologia della passione.] [1] Voglio renderti edotto del come le passioni incominciano, si sviluppano e giungono all'esasperazione.Il primo movimento è involontario ed è come un preparativo o una minaccia della passione; il secondo è accompagnato da volontà controllabile ed è il pensare che è necessaria la vendetta, dacché sono stato offeso, o che costui deve essere punito, dacché ha offeso; il terzo movimento è ormai tracotante, non vuole la vendetta perché è necessaria, ma perché la vuole, ed ha già sopraffatto la ragione.[2] Al primo dei tre impulsi non possiamo sottrarci con la ragione, come non possiamo sottrarci a quelle reazioni fisiche di cui s'è detto, allo sbadiglio quando sbadigliano gli altri, al chiudere gli occhi quando ci puntano improvvisamente le dita contro: questi fatti non li può vincere la ragione; forse li attenua l'assuefazione o una circospezione costante.Ma il secondo movimento, quello che nasce da deliberazione, è anche annullabile con una deliberazione.

5. [L'ira e la ferocia.] [1] Dobbiamo ora chiederci questo: coloro che sono abitualmente crudeli e godono del versare sangue umano, sono in preda all'ira, quando uccidono persone dalle quali né hanno ricevuto ingiuria, né pensano d'averla ricevuta? Furono tali Apollodoro o Falaride (4).[2] Questa non è ira, è ferocia: essa infatti non fa il male per vendicare l'ingiuria ricevuta, ma è addirittura disposta a riceverla, pur di poter fare il male, e non cerca le fustigazioni e lo strazio delle membra per vendicarsi, ma per goderne.[3]Comemai? L'origine di questo male è nell'ira.Quando essa, con l'esercizio continuo, spinto fino alla noia, arriva a dimenticare la clemenza ed a cancellare dall'animo ogni norma di convivenza umana, alla fine sfocia nella crudeltà; ridono dunque e godono, provano grande voluttà e sono ben lontani dal somigliare a persone adirate, questi crudeli a tempo perso.[4] Dicono che Annibale, vedendo una fossa piena di sangue umano, abbia esclamato: Che spettacolo meraviglioso!.Quanto gli sarebbe parso più elegante riempirne un fiume o un lago! C'è da stupirsi che ti lasci tanto affascinare da questo spettacolo tu, che sei nato nel sangue ed allevato, fin da fanciullo, in mezzo alle stragi? Per vent'anni la fortuna ti seguirà, favorendo la tua crudeltà, ed ovunque offrirà graditi spettacoli ai tuoi occhi: ne vedrai al Trasimeno ed a Canne e, infine, attorno alla tua Cartagine. [5] Recentemente, ai tempi del divino (5) Augusto, Voleso (6), proconsole d'Asia, dopo aver fatto decapitare trecento persone in un sol giorno, camminando tra i cadaveri con cipiglio fiero, come se avesse compiuto un'impresa meravigliosa e spettacolare, esclamò in greco: Che impresa da re!.Che cosa avrebbe fatto costui, se fosse stato re? Questa non era ira, ma un male più grave ed irrimediabile.

6. [La virtù è incompatibile con l'ira.] [1] La virtù, si obietta come deve esser favorevole alle imprese oneste, così deve essere adirata contro quelle turpi.E se mi vengono a dire che la virtù dev'essere insieme abietta e nobile? Eppure dice questo chi la vuole vedere esaltarsi ed abbattersi, perché la gioia per un'impresa buona è nobiltà e gloria, l'ira per un peccato altrui è meschinità e grettezza. [2] La virtù non si comporterà mai in modo da imitare quei vizi che sta reprimendo; deve ridurre a ragione proprio l'ira, che non è per nulla migliore, anzi spesso è peggiore, dei delitti contro i quali si scaglia.Costitutivo specifico e nativo della virtù è il godere e rallegrarsi; l'adirarsi non si conviene al suo decoro, come non gli si conviene il piangere: ebbene, la tristezza è compagna dell'iracondia, ed in essa va a sfociare ogni atto di ira, o dopo il pentimento o dopo l'insuccesso. [3] Poi, se è compito del sapiente adirarsi contro i peccati, dovrà adirarsi di più contro i più gravi, ed adirarsi a ripetizione: ne segue che il sapiente non è soltanto un adirato, ma un iracondo.Invece, se crediamo che nell'animo del sapiente non trovino posto né un'ira grande, né una frequente, che motivo c'è di non liberarlo del tutto da questa passione? [4] In realtà, non si può più segnare un limite, se ci si deve adirare per le azioni di ciascuno; il sapiente, infatti, o risulterà ingiusto, perché s'adirerà in ugual misura per delitti diversi, o estremamente iracondo, se si infiammerà ogni volta che un delitto merita ira.

7. [La sapienza è compostezza.] [1] C'è cosa più sconveniente che porre in un sapiente una passione condizionata dalla malvagità altrui? Il famoso Socrate non sarà più in grado di rientrare in casa con il volto pacato che aveva quando ne era uscito (7); eppure, se il sapiente deve adirarsi contro le azioni turpi, e deve anche spazientirsi e rattristarsi per i delitti, non esiste vivente più travagliato di lui: la sua vita trascorrerà tutta nell'ira e nella tristezza. [2] Ci sarà davvero un momento in cui non veda azioni da disapprovare? Ogni volta che uscirà di casa, dovrà camminare tra scellerati, avari, prodighi, spudorati, tutta gente felice dei propri vizi; non potrà mai girare l'occhio, senza trovare un motivo di indignazione; cadrà esausto, se si impegnerà ad adirarsi ogni volta che la situazione lo richiede.[3] Tutte queste migliaia di persone che, all'alba, s'avviano in fretta verso il foro, quali vergognose liti hanno, quali avvocati ancor più vergognosi! Uno sottopone al giudice le disposizioni di suo padre, che avrebbe fatto meglio a cercare di meritare, un altro si costituisce in causa contro sua madre, un terzo viene ad accusare altri di un delitto di cui tutti sanno bene che è lui il colpevole, ed il giudice eletto deve condannare azioni che anche lui ha commesso: intanto il pubblico, sedotto dalle belle parole dell'avvocato, applaude alla causa cattiva.

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La folla degli sconsiderati.] [1] Che sto ad elencare esempi? Quando vedrai il foro pieno di gente ed i recinti elettorali (8) zeppi di tutto un afflusso di folla, e quel circo (9), dove il popolo si mette in mostra il più numeroso possibile, sappi questo: ivi ci sono tanti vizi quanti uomini. [2] Tra codesti individui, che vedi in toga, non c'è pace; ciascuno, per un utile da nulla, si lascia indurre a rovinare l'altro, nessuno ritiene di poter guadagnare se non ingiuriando gli altri, odiano chi è felice e disprezzano chi è infelice; sentono il peso di chi è più grande di loro e gravano sui più piccoli, agiscono sotto lo stimolo delle opposte cupidigie, desiderano il crollo di tutto, per un piacere o un bottino da nulla.Si vive come in una scuola di gladiatori, dove il vivere insieme è un combattersi.[3] E" un'accolta di belve codesta, a parte il fatto che quelle non lottano tra loro e non azzannano i loro simili, costoro si saziano sbranandosi vicendevolmente.Tra loro e gli animali privi di parola c'è questa sola differenza: le belve sono mansuete con chi le nutre, la rabbia di costoro divora chi la nutre.

9. [L'ira comporta una ressa di passioni.] [1] Il sapiente, se appena comincerà ad adirarsi, non potrà più smettere: tutto è pieno di delitti e di vizi, e si commettono più misfatti di quanti se ne possano rimediare con i mezzi coercitivi.E" una specie di grande gara di iniquità: ogni giorno aumenta la cupidigia di peccare e diminuisce il ritegno; spazzata via ogni valutazione del meglio e del più giusto, la libidine si slancia in qualunque direzione le pare, ed i delitti nemmeno più si nascondono: ti passano sotto gli occhi; la nequizia si è talmente diffusa in pubblico e talmente rinvigorita nel cuore di tutti, che l'innocenza non è più rara: è inesistente.[2] Sono forse singoli individui o piccoli gruppi ad infrangere la legge? Da ogni parte, come allo squillare di un segnale, insorgono a mescolare il lecito con l'illecito:

dell'ospite, l'ospite più non si fida, del genero dubita il suocero, ormai raramente tra loro si vogliono bene i fratelli.Agogna bramoso il marito; che muoia la sposa: altrettanto desidera lei del marito; immondi veleni ai figliastri propinano infami matrigne e il figlio fa il conto anzitempo degli anni che restano al padre (10)

[3] Fino a che punto è completo questo elenco? Il poeta, qui, non ha descritto gli accampamenti contrapposti di gente della medesima bandiera, i genitori ed i figli che giurano per fazioni diverse, le fiamme appiccate alla patria per mano dei cittadini e gli squadroni minacciosi dei cavalieri che s'aggirano per frugare nei nascondigli dei proscritti (11), le fontane contaminate dai veleni, le pestilenze diffuse da mano d'uomo, le trincee scavate attorno ai genitori assediati, gli incendi che bruciano città intere, le tirannidi funeste, le congiure segrete per abbattere monarchie e Stati, il farsi vanto di azioni che, fino a quando si riesce a reprimerle, sono delitti, ed i rapimenti, e gli stupri, e le libidini dalle quali non è immune neppure la bocca. [4] Aggiungi ora gli spergiuri ufficiali dei popoli, le violazioni di alleanze, il saccheggio, da parte del più forte, ai danni di chiunque non poteva opporre resistenza, e soprusi, furti, frodi, negazioni del debito, delitti per i quali non basterebbero i tre Fori (12).Se vuoi che il sapiente si adiri nella misura voluta dall'infamia dei delitti, quello non deve adirarsi: deve impazzire.

10. [Non adirarsi contro gli errori.] [1] E" preferibile che tu rifletta che non ci si deve adirare contro gli errori.Che dire di chi si arrabbia con gente che, al buio, cammina con passo insicuro? O con dei sordi che non possono sentire gli ordini? O con dei fanciulli che, invece di pensare ai loro doveri, guardano i giochi ed i divertimenti di nessun conto dei loro coetanei? E se ti volessi adirare perché uno è malato, vecchio, spossato? Tra gli altri inconvenienti della condizione mortale, c'è anche questo: l'ottenebrarsi della mente, che non è soltanto inevitabilità dell'errore, ma amore di esso. [2] Se non vuoi adirarti con i singoli, devi perdonare a tutti, conceder venia all'umanità intera.Se ti adiri con i giovani o con i vecchi perché peccano, ti devi adirare anche con i bimbi: peccheranno.Ma ci si adira con i fanciulli, la cui età non sa ancora discernere le azioni? E" motivo più grave e giusto, per essere scusati, l'essere uomini che l'essere fanciulli.[3] Noi siamo nati in questa condizione di viventi soggetti a malattie dell'anima, non meno numerose di quelle del corpo, non perché siamo ottusi e tardi, ma perché non facciamo buon uso del nostro acume e siamo esempio di male l'uno all'altro; chiunque segue chi, prima di lui, s'è avviato sulla strada sbagliata, perché non deve essere scusato del percorrere la strada sbagliata che tutti percorrono? [4] La severità del generale si esplica sui singoli, ma egli deve necessariamente perdonare, quando diserta l'intero esercito.Che cosa dissipa l'ira del sapiente? La folla di quelli che sbagliano: si rende conto di quanto sia ingiusto e rischioso adirarsi con un vizio di tutti.[5] Eraclito, ogni volta che usciva di casa e si vedeva attorno tanti individui che vivevano male, anzi morivano male, piangeva ed aveva compassione di quanti gli si facevano incontro contenti e felici: era d'animo mite, ma troppo debole, era degno anche lui di compianto.Dicono invece che Democrito non sia mai comparso in pubblico senza scoppiare a ridere (13): fino a questo punto non gli pareva serio nulla di ciò che era stato fatto sul serio.C'è posto per l'ira, in questa situazione in cui tutto è da ridere o da piangere? [6] Il sapiente non s'adirerà con chi commette colpa: perché? Perché sa che sapienti non si nasce, ma si diventa; sa che ben pochi, nell'intero arco della vita, riescono sapienti, perché ha ben sondato la condizione del vivere umano, e nessuno, se è in senno, si adira con la natura.Che diresti, se volesse stupirsi che non pendano frutti dai cespugli selvatici? O che le spine ed i rovi non si caricano di nessun buon raccolto? Nessuno si adira, quando la natura rende ragione del difetto.[7] Quindi il sapiente, tranquillo e sereno con gli errori, non nemico, ma censore di chi sbaglia, esce ogni giorno di casa

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con queste disposizioni: Incontrerò molti beoni, molti dissoluti, molti ingrati, molti avari, molti esagitati dalle furie dell'ambizione.E guarderà tutto questo con benevolenza, quanta ne ha il medico con i suoi pazienti.[8] Quel tale la cui nave, all'aprirsi del fasciame, imbarca tanta acqua da ogni parte, si adira con i marinai o, addirittura, con la nave? Piuttosto ci rimedia, e un po'"d'acqua la chiude fuori, l'altra la scarica, tappa le falle visibili, resiste con fatica continua a quelle nascoste che gli allagano invisibilmente la stiva, e non smette solo perché, quanta ne ha tolta, tanta ne sgorga di sotto.Contro mali continui e fecondi, c'è bisogno di lunghi interventi, non perché si estinguano, ma perché non prevalgano.

11. [L'ira non ha vera consistenza.] [1] L'ira è utile, si obietta perché ci evita il disprezzo, perché atterrisce i cattivi.In primo luogo, se l'ira è efficace in proporzione delle minacce che fa, proprio perché è terribile, è anche detestata; ora è più pericoloso essere temuti che disprezzati.Se invece è priva di forza, è ancor più esposta al disprezzo e non sfugge al ridicolo: c'è una cosa che lasci più indifferenti di un'ira che strepita a vuoto? [2] Inoltre, dal fatto che certe prospettive sono più temibili, non segue che siano preferibili, e non vorrei che s'affibbiasse al sapiente la massima: Il sapiente e la belva dispongono della medesima arma: sono temuti.E che? Non temiamo la febbre, la gotta, la piaga in cancrena? E per questo, quei fatti hanno qualcosa di buono? Non sono invece spregevoli, disgustosi, vergognosi, e perciò stesso temuti? Così l'ira, per sua natura, è vergognosa e per nulla temibile, ma i più la temono, come i fanciulli temono una maschera turpe.[3] E che dire del fatto che il timore si riversa sempre su chi l'ha provocato, e nessuno riesce a farsi temere, restando lui tranquillo? Ricorda, a questo punto, il noto verso di Laberio (14) che, recitato in teatro in piena guerra civile, avvinse tutto il pubblico perché risuonò come una voce di popolo:

molti deve temere colui che da molti è temuto.[4] La natura ha stabilito questo: ciò che si fa grande sul timore altrui, non è immune dal proprio.Il coraggio dei leoni si affievolisce ai rumori più leggeri! Un'ombra, un grido, un odore insolito turbano le belve più feroci: ogni essere capace di atterrire è soggetto a timore.Non vedo, dunque, per quale motivo un qualunque sapiente debba desiderare d'essere temuto, o perché debba dare grande importanza all'ira, in quanto incute timore, dato che, in fondo, sono temute anche le cose spregevolissime, come i veleni, le ossa infette ed i morsi. [5] E questo non stupisce, poiché intere mandrie di belve si lasciano manovrare e spingere in trappola da una cordicella munita di penne, che è chiamata "spauracchio" (15) per la passione che suscita: chi non ha senno, è atterrito da cose da nulla.Il movimento di un cocchio ed il vederne girare le ruote risospinge i leoni nella gabbia (16); il grugnito di un porco atterrisce gli elefanti. [6] Così, in conclusione, l'ira incute tanta paura, quanta ne incute un'ombra ai fanciulli o una penna tinta di rosso alle belve.Non ha in sé nulla di stabile o di forte, ma commuove i caratteri instabili.

12. [Controllare l'ira è possibile.] [1] Se vuoi sopprimere l'ira, si obietta devi sopprimere dal mondo anche la malvagità, ma non è possibile fare le due cose insieme.Intanto è possibile che uno non senta il freddo, anche se natura vuole che sia inverno, o che non senta il caldo, nonostante si sia nei mesi estivi: o è al sicuro dalle offese della stagione per la favorevole situazione del luogo o, con la sua capacità fisica di sopportazione, controlla le due sensazioni. [2] Poi capovolgi il discorso: diventa necessario eliminare dall'anima la virtù, prima di accogliere l'ira, dato che non è pensabile che il vizio si combini con la virtù, e uno non può essere contemporaneamente uomo buono ed adirato, come non può essere insieme malato e sano.[3] Non è possibile si obietta eliminare completamente l'ira dall'animo: la natura umana non lo comporta.Eppure non c'è impresa tanto difficile ed ardua, che la natura umana non possa affrontare con successo e che non sia resa abituale dall'esercizio continuo, e non esistono passioni tanto indomite ed autonome, che non vengano soggiogate da una retta educazione.[4] Tutto quello che l'animo sa imporsi, lo ottiene; c'è chi è riuscito a non ridere mai; alcuni hanno negato al proprio corpo il vino, altri l'amore, altri ancora ogni bevanda (17); c'è chi, accontentandosi di un breve sonno, ha prolungato le sue veglie, senza cedere alla stanchezza; c'è chi ha imparato a correre su funi sottili e contro pendenza, o a portar pesi enormi quasi impossibili a forza umana, o a tuffarsi a profondità smisurate e sopportare il mare senza trarre respiro. [5] Ci sono mille altri casi in cui la pertinacia ha superato ogni ostacolo ed ha dimostrato che niente è difficile, quando la mente si è imposta di sopportare.Costoro, che ti ho appena citati, o non hanno ricevuto alcuna ricompensa dei loro sforzi tanto ostinati, o ne hanno avuto una inadeguata (quale ricompensa onorevole riceve infatti colui che s'è proposto di camminare su funi tese, di caricarsi sul collo pesi enormi, di non concedere il sonno ai suoi occhi, di immergersi nel mare in profondità?), e tuttavia la fatica è giunta a compiere l'impresa, anche con una ricompensa magra. [6] E noi non chiameremo in nostro aiuto la pazienza, se ci spetta un premio tanto grande, quanto lo è l'imperturbabile calma di un animo felice? Quanto è valida impresa fuggire il più grave dei mali, l'ira e, con essa, la rabbia, la ferocia, la crudeltà, il furore, e altri compagni di quella passione!

13. [Vantaggi della tranquillità.] [1] Non è il caso di cercare una giustificazione o un pretesto per permetterci il vizio,

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dicendo che esso è utile o inevitabile: quale vizio, in fin dei conti, s'è mai trovato privo d'avvocati? E non è neppure il caso di dire che è un vizio che non si può stroncare: soffriamo di malattie guaribili, e la natura stessa, che ci ha generati per la rettitudine, ci aiuta, se vogliamo emendarci.E non è vero che, come qualcuno ha sentenziato, il cammino verso la virtù sia ripido e scabroso: si giunge ad esso camminando in pianura.[2] Non vengo a farvi un discorso infondato.La via della felicità è facile: soltanto, intraprendila sotto buoni auspici e con il sicuro aiuto degli dèi.E" molto più difficile fare le azioni che fate.Che cosa è più riposante della tranquillità di spirito e più faticoso dell'ira? Che cosa è più distensivo della clemenza e più impegnativo della crudeltà? La pudicizia è libera, la libidine ha sempre mille impegni.Insomma, tutte le virtù sono facili da conservare, mentre coltivare i vizi costa caro.[3] L'ira deve essere eliminata (in parte, lo riconoscono anche quelli che la vogliono tenuta sotto controllo): buttiamola via del tutto, non può servire a nulla.Senza di essa, si posson toglier di mezzo i delitti in modo più facile e giusto, si possono punire i cattivi ed indurli a propositi migliori.Il sapiente adempirà tutti i suoi doveri, senza far ricorso a nessuna cosa cattiva e senza frapporre nulla che debba poi preoccuparsi di controllare.

14. [E" meglio ragionare che reagire.] [1] Così l'ira non deve mai essere ammessa: qualche volta però deve essere simulata, quando è il caso di pungolare l'inerzia di chi ascolta, così come eccitiamo i cavalli a spiccare la corsa con i pungoli o con le fiaccole al ventre.A volte bisogna incutere paura a quegli individui con i quali la ragione non fa profitto, ma l'adirarsi non è più utile del piangere o del temere.[2] Ed allora? Non si verificano situazioni che stimolano l'ira? Ma è soprattutto quello il momento di mettere le mani avanti.E non è difficile dominarsi, se anche gli atleti, impegnati nella parte più vile del loro essere, riescono a sopportare botte e dolore, pur di spossare chi li percuote, e non colpiscono quando lo vuole l'ira, ma al momento buono.[3] Pirro, il più grande allenatore di lotta, dicono che fosse solito ordinare, a quelli che allenava, di non adirarsi; l'ira, infatti, sconvolge la tecnica e bada solo a come far male.Spesso dunque la ragione ci suggerisce di sopportare, l'ira di vendicarci, e noi, che eravamo in condizione di toglierci dai guai all'inizio, andiamo a rotoli nel peggio. [4] Alcuni sono stati cacciati in esilio, per non aver saputo sopportare serenamente una parola ingiuriosa e, dopo essersi rifiutati di sopportare in silenzio un'offesa lieve, sono stati sommersi da disgrazie gravissime: sdegnando una piccola diminuzione della loro più che assoluta libertà, si sono tirati sul collo il giogo della schiavitù.

15. [Obiezione: la sana ira dei popoli primitivi.] [1] Se vuoi renderti conto si obietta che l'ira ha la sua parte di nobiltà, vai a vedere i popoli liberi, che sono i più iracondi, come i Germani e gli Sciti.Questo accade perché i caratteri forti e tutti d'un pezzo per natura, se non sono ancora stati ammansiti dall'educazione, propendono all'ira.Certe tendenze però sono innate soltanto nei caratteri meglio dotati: anche la terra produce arbusti forti e rigogliosi, nonostante venga lasciata incolta, ed è lussureggiante la vegetazione dovuta alla sola fertilità del terreno. [2] Allo stesso modo, anche i caratteri forti comportano l'ira per natura, e non contengono nulla di delicato ed esile, tutti fuoco e bollore come sono, ma il loro vigore non è perfetto, come non lo è quello degli esseri che crescono senza il sussidio dell'arte, con il solo spontaneo beneficio della natura.Ma se non vengono domate subito, queste doti, che avrebbero dovuto produrre la fortezza, si abituano all'audacia ed alla temerità. [3] E che? Le indoli più miti non portano con sé vizi più blandi, come la compassione, l'amore, il ritegno? Certo, io ti farò scoprire più d'una volta un'indole buona attraverso i suoi difetti, ma essi non cessano d'essere vizi, solo perché sono indizi di un carattere migliore.[4] Poi, tutti questi popoli, che sono liberi per la loro ferocia, alla stregua dei leoni e dei lupi, come non s'adattano al dominio altrui, così non sanno comandare; infatti non hanno la forza tipica del genio umano, ma la ferocia e l'intrattabilità del bruto; ora, non è capace di comandare chi non sa anche ubbidire. [5] Questo è il motivo per cui, in genere, furono dominatori quei popoli che vivono in climi temperati.Le genti esposte al freddo, a settentrione, hanno un carattere selvaggio come dice il poeta (18),

che quanto mai somiglia al loro cielo.16. [Seconda obiezione: l'ira è forza e schiettezza.] [1] Tra gli animali, si obietta sono ritenuti più nobili i più propensi all'ira.E" uno sbaglio l'addurre come esempio per gli uomini degli esseri nei quali l'istinto sostituisce la ragione: nell'uomo la ragione sostituisce l'istinto.Ma neppure in quegli esseri l'istinto che giova è sempre il medesimo: ai leoni giova l'ira, ai cervi la paura, allo sparviero lo slancio, alla colomba la fuga. [2] E se ti dico che non è neppure vero che gli animali migliori sono i più iracondi? Sì, le belve, dato che si nutrono di preda, sono tanto migliori quanto più iraconde; ma vorrei anche lodare la pazienza dei buoi e dei cavalli che ubbidiscono al morso.

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Ma che motivo c'è di indirizzare l'uomo ad esempi tanto infelici, quando hai davanti il cosmo e Dio che solo l'uomo, tra tutti i viventi, riesce a comprendere, per poterlo, lui solo, prendere a modello? [3] Gli iracondi si obietta sono ritenuti i più schietti di tutti.Certo, a paragone dei frodatori e degli astuti, sembrano schietti, perché sono aperti.Io, però, non li direi schietti, ma incauti.E" l'epiteto che diamo agli stolti, ai dissoluti, agli scialacquatori, ed a tutti i vizi che non comportano astuzia.

17. [Terza obiezione: l'ira può dare buoni risultati.] [1] L'oratore irato, si obietta di solito riesce migliore.Meglio: quello che fa la parte dell'irato; infatti, anche gli attori, quando recitano, commuovono il pubblico non perché sono irati, ma perché fanno bene la parte dell'irato.Allora, davanti ai giudici e nelle assemblee popolari e dovunque vogliamo manipolare a nostro piacimento i sentimenti altrui, noi simuleremo ora l'ira, ora il timore, ora la compassione, per incuterli negli altri, e spesso le passioni simulate hanno ottenuto quei risultati che le passioni vere non avrebbero ottenuti.Ma è fiacca si dice un'anima senza ira. [2] E" vero, se non dispone di nulla di più valido dell'ira.Ma non bisogna essere né ladroni né depredati, né compassionevoli né crudeli: quello ha un'anima troppo remissiva, questo, troppo dura.Il sapiente deve essere moderato e deve impiegare, per trattare le cose con bastante energia, non l'ira, ma la forza.

18. [I rimedi contro l'ira: premesse.] [1] Ora che abbiamo trattato le questioni che riguardano l'ira, passiamo ai suoi rimedi.A mio parere, sono due: il non incorrere nell'ira ed il non sbagliare nell'ira.Come nell'arte medica le regole che riguardano la difesa della salute sono diverse da quelle che vertono sul suo ristabilimento, così c'è un procedimento per cacciare l'ira, un altro per tenerla sotto controllo.Per evitare l'ira, ci sono alcuni precetti che interessano l'intera vita: si suddividono in precetti per il periodo dell'educazione e precetti per l'età successiva.[2] L'educazione esige la massima diligenza, per poter dare il frutto più abbondante.E" facile, infatti, adattare le anime ancora tenere, è difficile recidere i vizi che sono cresciuti con noi.

19. [Tipologia umana ed ira.] [1] L'animo ribollente è, per natura, il più propizio all'ira.Infatti gli elementi sono quattro: fuoco, acqua, aria, terra, e quattro sono le forze che ad essi corrispondono: il bollore, il freddo, il secco e l'umido.La mescolanza degli elementi determina le differenze dei luoghi, dei viventi, dei corpi e dei comportamenti: pertanto i caratteri propendono maggiormente verso la direzione determinata dal prevalere di un elemento.Da ciò designiamo certe regioni come umide, aride, calde, fredde.[2] Le medesime differenze si notano nei viventi e nell'uomo: importa quanto ciascuno abbia in sé di umido e di caldo: la quantità di elemento, che risulterà prevalente in lui, ne determinerà il comportamento.Un'anima naturalmente ribollente renderà iracondi, perché il fuoco è portato all'azione ed alla tenacia; un impasto di freddo renderà timidi, perché il freddo è inerte e chiuso in se stesso.[3] Alcuni della nostra scuola sostengono che l'ira insorga nel nostro petto, quando il sangue ribolle attorno al cuore; il motivo, per cui si assegna all'ira questa sede, non è altro che questo: il petto è la parte più calda di tutto il corpo. [4] In coloro che hanno maggior quantità di umido, l'ira cresce a poco a poco, perché il calore non è già predisposto, ma si accumula con il movimento: perciò gli scatti d'ira dei fanciulli e delle donne sono più impetuosi che gravi, e più leggeri al momento iniziale.Chi è nell'età dell'asciuttezza, ha un'ira violenta e robusta, ma che non cresce e non può aggiungere nulla a se stessa, perché le succede subito il freddo che smorzerà il calore.I vecchi sono difficili e lagnosi, come gli ammalati, i convalescenti e tutti quelli il cui calore s'è esaurito per spossatezza o per perdite di sangue; [5] nella medesima situazione si trovano i rabidi di fame e di sete e, in genere, quelli il cui corpo è mal nutrito per mancanza di sangue, e viene meno.Il vino accende le ire perché aumenta il calore: a seconda dell'indole di ciascuno, c'è chi ribolle perché ubriaco e chi perché ferito.Non c'è nessun altro motivo per cui siano straordinariamente iracondi i biondi ed i rossi, se non l'avere per natura quel colore che negli altri si produce solitamente con l'ira: hanno infatti sangue mobile ed agitato.

20. [Altre cause dell'ira e relative terapie.] [1] Ma come la natura produce soggetti inclini all'ira, così sopravvengono molte cause che producono i medesimi effetti della natura: alcuni sono stati condotti a quel vizio da una malattia o da una menomazione fisica, altri dalla fatica, dalle veglie continue, dalle ansie notturne e dai desideri d'amore; ogni altro fattore, che risulti nocivo al corpo o all'anima, predispone la mente malata alle lamentele.[2] Ma tutti questi fatti sono inizi e cause: moltissimo può l'assuefazione che, se fa sentire il suo peso, alimenta il vizio.Certo, è difficile cambiare la natura, e non è possibile reimpastare la mistura di elementi che s'è formata, una volta per tutte, al nostro nascere; ma anche a questo scopo, la scienza ha giovato e, ad esempio, si è negato ai caratteri caldi il vino, che Platone dice debba negarsi ai fanciulli (19), perché non si deve ravvivare il fuoco con altro fuoco.E nemmeno li si dovrebbero ingozzare di cibo, perché il corpo si dilata e, con il corpo, si gonfia l'animo. [3] Li tenga in esercizio un lavoro che non raggiunga il limite dell'affaticamento, perché il calore deve diminuire, non esser distrutto, e

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deve sfogarsi la spuma del bollore.Gioveranno anche i giochi: un piacere misurato rilassa e ritempra gli animi.[4] I caratteri tendenti piuttosto all'umido o al secco e quelli freddi non corrono pericoli da parte dell'ira, ma, nel caso, sono da temere vizi più gravi, come la paura, l'intrattabilità, l'abbattimento, il sospetto.Caratteri così sono da blandire, scaldare e richiamare a letizia.E poiché i rimedi da usare contro l'ira e contro la tristezza non sono i medesimi, e i due vizi abbisognano di cure non soltanto diversissime, ma addirittura contrastanti, metteremo sempre rimedio al vizio più sviluppato.

21. [I fanciulli e l'ira: precetti di sana pedagogia.] [1] Sarà utilissimo, direi, che venga subito avviata una salutare educazione dei fanciulli; guidarli, però, è difficile, perché si deve far in modo di non nutrire in loro l'ira ed insieme di non smussarne il carattere. [2] E" un impegno che presuppone una scrupolosa circospezione, perché sia ciò che dobbiamo sviluppare, sia ciò che dobbiamo reprimere si alimenta con mezzi simili, ed è facile che le cose simili inducano in errore anche chi fa attenzione.[3] L'indisciplina provoca un aumento della baldanza, ma la repressione la annienta; questa si erge e sbocca nella fiducia in se stessi con le lodi, ma le medesime producono intolleranza ed irascibilità: perciò, per tenere il nostro allievo ugualmente lontano dai due eccessi, dobbiamo guidarlo usando ora il morso ora lo sprone.[4] Non deve subire nulla di avvilente o di servile, non deve mai esser messo in condizione di chiedere e supplicare, mai deve ricavare vantaggio dall'insistenza nel chiedere: è meglio dare tenendo conto della situazione oggettiva, della condotta passata e dei buoni propositi per l'avvenire.[5] Nelle gare con i coetanei, non gli dobbiamo permettere né di lasciarsi sconfiggere, né di adirarsi; facciamo in modo che frequenti coloro con i quali è solito gareggiare, perché si abitui a gareggiare per vincere, non per nuocere; quando vincerà o farà azioni degne di lode, permettiamogli d'esserne soddisfatto, ma non di vantarsene: la gioia, infatti, diventa esultanza e l'esultanza diventa arroganza ed eccessiva stima di sé.[6] Gli concederemo anche momenti di riposo, ma non lo snerveremo nell'inazione e nell'ozio e lo terremo lontano dall'esperienza dei piaceri; non c'è nulla di più atto a produrre iracondi di un'educazione molle e blanda: è per questo che sono più corrotti d'animo i figli unici, che godono di maggior indulgenza, e gli orfani adottati, che ottengono tutti i permessi.Non saprà resistere ad una offesa colui che non s'è mai sentito dire un no, che ha sempre avuto una mammina che gli asciugava le lacrime, o che ha ottenuto soddisfazione ai danni del suo pedagogo. [7] Non vedi come ad una maggior agiatezza s'accompagna una maggiore irascibilità? La si nota soprattutto nei ricchi, nei nobili, nelle alte cariche, quando un infondato e vano capriccio ingrandisce per un soffio di vento favorevole.La felicità nutre l'iracondia, quando una turba di piaggiatori assedia le orecchie dei presuntuosi: Quello là ha il coraggio di rispondere a te? Non ti valuti quanto meriti, ti butti giù, ed altre espressioni alle quali difficilmente sanno resistere, in età giovanile, anche caratteri di buona stoffa. [8] I fanciulli devono quindi esser tenuti ben lontano dai piaggiatori: odano la verità.Il fanciullo deve provare talvolta timore, essere sempre rispettoso, alzarsi davanti ai più anziani.Non deve ottenere nulla con l'ira: quello che gli si è negato quando piangeva, gli si offra quando è calmo.Abbia sotto gli occhi le ricchezze dei genitori, ma non possa disporne.Gli si rimproverino le sue malefatte.[9] Allo scopo, sarà utile che gli vengano assegnati precettori e pedagoghi pacati: tutti, in tenera età, si adattano a quanti stanno loro vicini e crescono modellandosi su quelli; poi, nell'adolescenza, i fanciulli rispecchiano i costumi delle loro nutrici e dei pedagoghi.[10] un fanciullo, educato in casa di Platone, quando, restituito ai genitori, sentì il padre gridare: Mai disse ho visto cose del genere in casa di Platone.Io però sono sicuro che passò ben presto dall'imitazione di Platone a quella del padre. [11] E, prima di tutto, il vitto sia misurato, i vestiti non siano costosi, il tenore di vita sia uguale a quello dei coetanei: non si adirerà d'essere paragonato con gli altri se, fin dall'inizio, lo avrai messo alla pari con molti.

Un suggerimento agli adulti: prendere tempo.] [1] Ma tutto questo riguarda i nostri figli; in noi, ormai, la condizione di nascita e l'educazione non concedono più spazio a vizi o a regole: dobbiamo mettere in ordine quanto ci resta da vivere. [2] Perciò dobbiamo combattere contro le cause immediate.Causa dell'adirarsi è il ritenersi offesi ed è cosa che non dobbiamo essere propensi a credere.E neppure dobbiamo decidere su due piedi sulla base degli indizi più appariscenti e manifesti: ci sono cose false che hanno l'apparenza del vero.[3] Bisogna sempre concedere un rinvio: il tempo mette in luce la verità.L'orecchio non deve essere a disposizione di chi accusa: dobbiamo essere ben consci e diffidare di quel difetto della natura umana, in forza del quale siamo disposti a prestar fede alle notizie che non ascoltiamo volentieri e ad adirarci, prima d'aver formulato un giudizio. [4] Che dire poi del fatto che reagiamo impulsivamente non soltanto alle accuse, ma ai sospetti e che, interpretando male l'atteggiamento o il riso altrui, ci adiriamo con degli innocenti? Dobbiamo dunque dibattere contro noi stessi la causa dell'assente e tener sospesa l'ira: una punizione può essere inflitta anche in ritardo, ma, una volta inflitta, non può esser revocata.

23. [Esempi d'ira e di moderazione.] [1] E" noto quell'aspirante tirannicida (20) che, catturato senza aver portato a

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termine l'impresa e torturato da Ippia perché denunciasse i complici, fece i nomi degli amici del tiranno che gli stavano attorno ed ai quali sapeva esser soprattutto cara la di lui salvezza; il tiranno, quando li ebbe fatti uccidere ad uno ad uno, via via che venivano denunciati, gli chiese se ne restava qualcuno: Solo tu, rispose non ho lasciato nessun altro cui potessi esser caro.L'ira indusse il tiranno a prestare al tirannicida la sua mano e la sua spada, perché uccidesse gli uomini su cui contava. [2] Quanto più coraggioso fu Alessandro! Letta una lettera di sua madre (21), che lo avvertiva di guardarsi dal veleno del medico Filippo, prese la pozione e la bevve senza timore: si fidò maggiormente del suo giudizio sull'amico. [3] Fu degno di avere un amico innocente e di giudicarlo tale! Ed è cosa che trovo particolarmente lodevole in Alessandro, perché nessuno fu altrettanto soggetto all'ira: quanto più, infatti, è rara la moderazione nei re, tanto più è degna di lode.[4] Altrettanto fece Gaio Cesare (22), quello che usò tanta clemenza dopo la vittoria nella guerra civile: venuto in possesso degli scrigni contenenti le lettere spedite a Gneo Pompeo da persone che sembravano esser state d'altro partito o neutrali, le fece bruciare.Nonostante fosse solito moderare la sua ira, preferì non aver motivo di farlo: ritenne che fosse il più gradito genere di perdono il non conoscere quale fosse la colpa di ciascuno.

24. [Altri suggerimenti: non esser sospettosi.] [1] Nella maggior parte dei casi, il male è prodotto dalla credulità.A volte non si deve nemmeno ascoltare, perché ci sono situazioni nelle quali è meglio sbagliare che diffidare.Dobbiamo bandire dall'anima sospetti e congetture, che sono gli incentivi più ingannevoli: Quello mi ha salutato con poca cortesia; quello non ha risposto al mio abbraccio; quello ha interrotto il mio discorso alle prime battute; quello non mi ha invitato a cena; quello mi ha mostrato un volto poco amichevole.[2] Per sospettare, si trovano sempre buoni motivi: bisogna essere semplici e valutare i fatti con benevolenza.Non dobbiamo credere a nulla, tranne a quello che ci balza agli occhi e ben chiaro, e quando il nostro sospetto si dimostrerà infondato, rimproveriamoci di credulità.Questo castigo ci abituerà a non credere facilmente.

25. [Essere longanimi.][1] A questo detto, segue questo: non lasciamoci esacerbare dai nonnulla e dalla meschinità.Lo schiavo non è sveglio, mi ha portato da bere acqua non fresca; il divano è in disordine, la mensa è apparecchiata sciattamente: è pazzia eccitarsi per cose del genere.E" malato o di malferma salute chi risente d'uno spiffero, sono deboli gli occhi che provano fastidio davanti ad una veste candida, è depravato dalla mollezza chi sente male ai fianchi per la fatica altrui. [2] Dicono che esistette un certo Mindride (23), un Sibarita, il quale, vedendo uno lavorare la terra ed alzare energicamente la zappa, si lamentò di provare stanchezza e proibì di fare quel lavoro in sua presenza; spesso si lamentò d'aver avuto un travaso di bile, per esser rimasto coricato su petali di rosa spiegazzati.[3] Quando i piaceri hanno corrotto insieme animo e corpo, nulla sembra più sopportabile, non perché le situazioni siano dure, ma perché le sopporta un rammollito.Che motivo c'è infatti d'arrabbiarsi, perché uno tossisce o sternuta o non è pronto a cacciare una mosca, o perché ci gira attorno il cane o la chiave è caduta di mano allo schiavo disattento? [4] Potrà costui rimanere impassibile tra le ingiurie che volano in tribunale, gli epiteti che gii si gridano nelle assemblee popolari o in senato, se le sue orecchie si sentono offese dallo stridio d'uno sgabello che striscia? Sopporterà la fame, la sete in una spedizione estiva, se si arrabbia con lo schiavo che non gli scioglie a dovere la neve? (24) Non c'è cosa che alimenti l'ira più del lusso smisurato ed intollerante: l'animo deve esser trattato con durezza, se si vuole che non senta altri colpi che quelli duri.

26. [Non adirarsi con gli esseri irragionevoli.] [1] Ci adiriamo o con esseri dai quali non era neppure possibile che ricevessimo ingiuria, o con esseri dai quali potevamo riceverla. [2] Tra i primi, ci sono certi esseri privi dei sensi, come il libro che talvolta buttiamo, perché è scritto in grana troppo minuta, o facciamo a pezzi, perché zeppo di errori, così come strappiamo i vestiti che non ci piacciono: quanto è stolto adirarsi con questi oggetti che né hanno meritato né sentono la nostra ira! [3] Ma ci offendono, beninteso, coloro che hanno fatto quegli oggetti.Prima di tutto, noi spesso ci adiriamo prima d'aver modo di fare questa distinzione.Poi, forse, anche gli stessi artigiani potrebbero portare scusanti accettabili: uno non avrebbe potuto far meglio di come ha fatto e non è stato per offenderti, se ha imparato male il mestiere; un altro non ha lavorato così proprio per offendere te.Mainfine, che c'è di meno ragionevole che scaricare sulle cose la bile accumulata contro gli uomini? [4] Anzi, come è irragionevole adirarsi contro questi oggetti inanimati, così lo è adirarsi contro gli animali, che non ci fanno alcuna ingiuria, dato che sono incapaci di volerla: si sa che non può essere ingiuria ciò che non prende le mosse da una deliberazione.Possono quindi recarci un danno allo stesso modo di un ferro o di una pietra, ma non possono farci ingiuria. [5] Eppure alcuni si ritengono disprezzati se certi cavalli, docili ad un cavaliere, si rifiutano ad un altro, come se certi animali fossero più disposti ad assoggettarsi a certi uomini per volontà deliberata e non per abitudine o per la tecnica del maneggio.[6] Allora, come è stolto adirarsi con questi esseri, così lo è adirarsi con i fanciulli e con coloro che non sono molto più assennati dei fanciulli: tutte queste colpe, al giudizio di un giudice giusto, hanno come scusante l'incapacità di

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riflessione.

27. [L'ira contro gli dèi e contro l'autorità.] [1] Ci sono degli esseri che non possono assolutamente nuocere e non hanno forza che non sia benefica e salutare, come gli dèi immortali, che non vogliono e non possono fare il male.Hanno, infatti, natura mite e placida, tanto immune dall'offesa altrui, quanto dalla propria.[2] Dunque, sono pazzi ed ignari del vero quelli che imputano loro la furia del mare, l'eccesso delle piogge, il perdurare dell'inverno, mentre, in realtà, nessuno di questi fatti, che ci danneggiano o ci giovano, prende di mira specificamente noi.Non siamo noi il motivo per cui il cielo alterna l'estate e l'inverno: questi fenomeni osservano le leggi specifiche che presiedono ai moti dei corpi celesti.Ci sopravvalutiamo, se ci riteniamo tali che fenomeni tanto grandi accadano per noi.Nulla, dunque, di tutto questo accade per offenderci, anzi, non c'è nulla che non accada per il nostro bene.[3] Abbiamo detto che ci sono esseri che non possono nuocerci ed altri che non lo vogliono.Tra questi ultimi annovera i buoni magistrati, i genitori, gli educatori e i giudici, i provvedimenti dei quali debbono essere accettati come la lancetta del chirurgo, la dieta e le altre cose che ci fanno soffrire per darci giovamento.[4] Siamo stati puniti: non pensiamo soltanto a ciò che stiamo soffrendo, ma anche a ciò che abbiamo fatto e chiamiamo noi stessi a rapporto per discutere della nostra vita: se appena vorremo confessarci, nel nostro intimo, la verità, emetteremo una sentenza più severa sulla nostra causa.

28. [Anche noi abbiamo le nostre colpe.] [1] Se vogliamo essere giudici giusti di tutte le situazioni, in primo luogo dobbiamo convincerci che nessuno di noi è senza colpa.Lo sdegno maggiore nasce da questa mentalità: Non ho commesso colpa e: Non ho fatto niente.No: è che non confessi nulla! Ci sdegniamo se ci è stata inflitta una ammonizione o una pena e, nello stesso tempo, pecchiamo di nuovo, aggiungendo al male fatto l'arroganza e la ribellione.[2] Chi è costui, che si professa innocente davanti a tutte le leggi? Ed ammesso che sia così, che innocenza striminzita è l'esser buoni a norma di legge! Quanto è più estesa la regola del dovere di quella della legge! Quanti obblighi impongono la pietà, l'umanità, la liberalità, la giustizia, la lealtà, tutti valori che non sono traducibili in leggi dello Stato! [3] Ma non riusciamo nemmeno ad esser fedeli a quella normativa ridotta all'osso: alcune cose abbiamo fatto, altre pensato, altre desiderato, altre favorito; di certe azioni, siamo innocenti perché non ci sono riuscite.[4] Pensando a questo, siamo più giusti con chi sbaglia, abbiamo fiducia in chi ci rimprovera; non adiriamoci per nulla con i buoni (e con chi non dovremmo adirarci, se lo facciamo anche con i buoni?) e, soprattutto, non adiriamoci, con gli dèi: non è per legge loro, ma per la nostra condizione di mortali, che soffriamo i disagi che ci accadono.Ma ci piombano addosso malattie e dolori.In un modo o nell'altro, dovremo pur lasciare questa casa fatiscente, che ci è toccata in sorte.Ti diranno che uno ha parlato male di te: pensa se non sei stato il primo tu, pensa di quante persone parli. [5] Riflettiamo, direi, che alcuni non ci fanno ingiuria, ma ce la ricambiano, che altri lo fanno per il nostro bene, altri sono costretti ad agire così, altri non se ne rendono conto, e che anche quelli che agiscono scienti e volenti, nell'offenderci non si propongono di offendere noi: uno s'è lasciato trascinare dalla piacevolezza d'una battuta, un altro ha fatto quel che ha fatto non per nuocere a noi, ma perché non poteva arrivare senza metterci da parte; accade che anche l'adulazione offenda, mentre cerca di blandire.[6] Chiunque richiamerà alla memoria quante volte ha accolto sospetti infondati, quante volte il caso ha fatto somigliare ad ingiurie i suoi buoni uffici, quante persone ha cominciato ad amare dopo averle detestate, sarà in grado di trattenersi dagli scatti d'ira, soprattutto se, ad ogni fatto che l'offende, dirà tra sé e sé: Questo lo ho commesso anch'io.[7] Ma un giudice così giusto, dove lo troverai? Colui che non desidera una donna, se non è moglie di un altro, e ritiene che l'esser la donna altrui sia motivo sufficiente per innamorarsene, non permette a nessuno di guardare sua moglie; lo sleale è il più esigente nel pretendere la lealtà; il calunniatore non sopporta assolutamente che gli si faccia causa e colui che non ha alcun riguardo al proprio pudore, non vuole che s'attenti a quello dei suoi schiavetti. [8] I vizi degli altri li abbiamo davanti agli occhi, i nostri ci stanno dietro la schiena: ed ecco che un padre, più intemperante del figlio,ne rimprovera i banchetti troppo prolungati, che non perdona nulla all'altrui lussuria quel tizio che nulla nega alla propria, che il tiranno s'adira contro l'omicida ed il sacrilego punisce i furti.Ci sono moltissimi uomini che s'adirano non contro i peccati, ma contro i peccatori.Diventeremo più moderati, se volgeremo lo sguardo a noi stessi e ci chiederemo: Non abbiamo fatto anche noi cose simili? Non abbiamo sbagliato allo stesso modo? Ci giova condannare queste azioni?.29. [Valutare i fatti, prima di decidere.] [1] Il miglior rimedio dell'ira è il saper rinviare.All'inizio non chiederle di perdonare, ma di formulare un giudizio: i suoi primi impulsi sono pesanti, ma si placherà, se saprà aspettare.E non cercare di eliminarla in blocco: rimarrà sconfitta, se saprai ridurla in brandelli.[2] Tra le cose che ci offendono, alcune ci vengono riferite, altre le udiamo o vediamo di persona.Non dobbiamo prestar subito fede al merito di quanto ci viene raccontato: molti mentiscono per ingannare, molti perché sono in inganno; c'è chi cerca di entrare nelle tue grazie facendosi portatore di accuse ed inventa l'ingiuria, per sembrare rammaricato che ti sia stata fatta; c'è chi opera per malvagità e vuol spezzare le tue amicizie più strette, e c'è chi vuol esser spettatore, come se si trattasse d'assistere a dei giochi, e sta a guardare, da lontano ed al sicuro, quelli che ha messo in urto.[3] Se dovessi far da giudice su una somma anche insignificante, non accetteresti prove non testimoniate, non varrebbe

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una testimonianza non giurata, daresti la parola alle due parti, concederesti il rinvio, non ti accontenteresti di una sola udienza; la verità, infatti, viene meglio in luce, se la si maneggia più d'una volta: e tu condanni un amico, seduta stante? Prima d'aver potuto ascoltare, interrogare, prima che gli sia stato possibile conoscere il suo accusatore o l'accusa, tu ti adiri? Già dunque, già hai ascoltato quanto dicevano le due parti? [4] La persona stessa che è venuta a riferirti smetterà di parlare, se le verrà imposto di addurre prove.Non è il caso dice che tu faccia il mio nome; se tiri in ballo me, negherò tutto; diversamente, io non ti riferirò più nulla.Mentre istiga te, si sottrae alla lotta, allo scontro.Chi non vuol riferire a te se non in segreto, è quasi come non riferisse: che c'è di più ingiusto del prestar fede in segreto, ed adirarsi in pubblico?

30. [Valutare le situazioni.] [1] A certi fatti, assistiamo di persona: in questi casi, vaglieremo l'indole e le intenzioni di chi li commette.E" un fanciullo: l'età merita indulgenza, perché non si rende conto dello sbaglio.E" un padre: o ti ha già fatto tanto bene che ha acquistato anche il diritto di offenderti o, forse, è un servizio che ti presta quello che tu stimi offesa.E" una donna: sbaglia.E" uno che esegue degli ordini: chi, se non è ingiusto, se la prende con gli stati di necessità? E" uno che hai offeso: non è ingiuria subire quanto tu hai fatto per primo.E" un giudice: devi dare più credito alla sua sentenza che alla tua.E" un re: se punisce un colpevole, accetta la giustizia, se un innocente, accetta la mala sorte. [2] E" un animale o è come un animale: diventi uguale a lui, se ti adiri.E" una malattia o una disgrazia: passerà con minor danno, se la saprai sopportare.E" Dio: è fatica tanto sprecata l'adirarsi con lui, quanto lo è l'invocare la sua ira su altri.E" un uomo buono, colui che ti fa ingiuria? Non la devi prendere per tale.E" un cattivo? Non fartene meraviglia.Pagherà ad altri il debito che ha con te: a se stesso, lo ha già pagato, mettendosi in colpa.

31. [Di fronte all'ingiustizia.] [1] Sono due, come ho detto, i moventi atti a suscitare l'ira: il primo è la convinzione di aver ricevuto ingiuria, e ne abbiamo già parlato abbastanza; il secondo, quella di averla ricevuta ingiustamente.Dobbiamo parlare di quest'ultimo. Certe cose, gli uomini le giudicano ingiuste, perché pensano che non avrebbero dovuto subirle; certe altre, perché non se le aspettavano: noi giudichiamo immeritato tutto l'inopinato. [2] Perciò ci commuovono soprattutto quei fatti che accadono contro le nostre speranze ed attese, e non abbiamo altro motivo di sentirci offesi da piccolezze delle persone di casa o di chiamare ingiuria la distrazione di un amico.[3] Ma allora, si obietta in che modo ci turbano le ingiurie dei nemici? Perché non ce le aspettavamo, o certamente non ce le aspettavamo tanto gravi.Questo deriva dall'eccessivo amore di noi stessi: pensiamo di dover essere intangibili anche ai nostri nemici; ciascuno ha in sé sentimenti di re e vuole che a lui sia concessa la massima libertà, agli altri, contro se stesso, no. [4] Ed ecco che ci rende iracondi o la novità della cosa o il non sapere come va il mondo: perché, infatti, dobbiamo meravigliarci se i cattivi fanno azioni cattive? Che novità è un nemico che ti fa del male, un amico che ti offende, un figlio che sbaglia, uno schiavo in colpa? Fabio (25) diceva che la peggior scusa per un generale era: Non l'avrei mai pensato!: io la reputo la più vergognosa per un uomo.Pensa a tutto, aspèttati tutto: anche dalle persone di buoni costumi avrai qualche difficoltà.[5] La natura umana produce anime perfide e ne produce di ingrate, di cupide, di empie.Quando devi giudicare del comportamento di una persona, pensa a quello di tutti.Dove troverai più soddisfazione, troverai maggiori motivi per temere.Dove tutto ti sembra tranquillo, là non manca ciò che ti danneggerà, ma sta covando.Pensa sempre che sta per accadere qualcosa che ti farà male.Il pilota non ha mai spiegato a tutto vento le vele in tranquillità, senza tener pronti gli attrezzi necessari per ammainarle alla svelta.[6] Ma, prima di tutto, pensa a questo: la capacità di nuocere è vergognosa, esecranda e del tutto disdicevole all'uomo che è capace, con le sue premure, anche di addomesticare le belve.Guarda i colli degli elefanti che subiscono il giogo, le schiene dei tori calpestate impunemente da bambini e donne che danzano, guarda i serpenti che strisciano innocui tra i bicchieri e sui petti, guarda, nelle case, leoni ed orsi che si lasciano tranquillamente accarezzare il muso e belve che blandiscono i loro padroni: ti vergognerai d'aver fatto cambio del tuo comportamento con quello degli animali.[7] Nuocere alla patria è empietà: dunque, anche nuocere a un concittadino, che è parte della patria (le parti sono sacre, se l'insieme è venerando), dunque anche nuocere ad un uomo, che è tuo concittadino in una città più vasta.E se le mani volessero nuocere ai piedi, o gli occhi alle mani? Come tutte le membra sono in armonia reciproca, perché la salvezza di ciascuno giova al tutto, così gli uomini sono remissivi con i singoli, perché sono stati generati per vivere insieme, e una società non può reggersi se non sul rispetto e sull'amore reciproco. [8] Non schiacceremmo neppure le vipere o le nàtrici o gli altri animali che recano danno mordendo o cozzando, se li potessimo render mansueti nei riguardi degli altri viventi o far sì che non fossero pericolosi per noi o per gli altri.Dunque, neppure all'uomo dobbiamo far del male perché è in colpa, ma perché non commetta colpa, e il castigo non

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deve mai essere riferito al passato, ma al futuro: non è uno sfogo d'ira, ma un prendere delle precauzioni.Se poi dovessimo punire tutte le indoli depravate e malefiche, alla pena non sfuggirebbe nessuno.

32. [Non ricambiare l'ingiuria.] [1] Eppure l'ira dà le sue soddisfazioni e piace ricambiare dispiacere con dispiacere.No: se si tratta di benefici, è onorevole ricambiare benemerenza con benemerenza, ma non lo è altrettanto il ricambiare ingiuria con ingiuria.In quel caso, è vergogna l'esser vinti, in questo, lo è il vincere.La parola "vendetta" è indegna dell'uomo, anche se è stata accolta nell'uso come giusta.E l'applicare il taglione non è far cosa molto diversa dall'ingiuria, ma ingiuriare in un momento successivo: colui che ricambia il male ricevuto è soltanto più scusato del suo errore.[2] Un tizio, ai bagni, percosse Marco Catone senza conoscerlo (ma chi, conoscendolo, gli avrebbe recato ingiuria?).Quando poi si scusò, Catone gli disse: Non ricordo d'esser stato colpito (26). [3] Ritenne cosa migliore non riconoscere l'ingiuria che vendicarla.Quel tizio, dici non ha subìto alcun male, dopo tanta insolenza? Anzi, tanto bene: cominciò a conoscere Catone.E" magnanimità il disprezzare l'ingiuria; il modulo più offensivo di vendetta è il dimostrare all'offensore che non val la pena di vendicarsi di lui.Molti, nel tentativo di vendicarsi, hanno reso più profonde le leggere ingiurie che avevano subìto; è grande e nobile quell'uomo che, come la belva di grossa taglia, sopporta imperterrito il latrare della canea.

33. [Vantaggi della longanimità.] [1] Saremo meno disprezzati, si obietta se vendicheremo l'ingiuria.Se adottiamo la vendetta come rimedio, adottiamola senza ira, non perché la vendetta sia piacevole, ma perché è utile: spesso, però, è risultato più conveniente dissimulare che vendicarsi.Le ingiurie dei più potenti dobbiamo sopportarle con volto lieto, non soltanto con pazienza: torneranno a farcene, se si convinceranno di esserci riusciti la prima volta.Gli animi resi insolenti dalla loro grande fortuna, hanno questo bruttissimo difetto: odiano quelli che hanno offeso. [2] E" noto il detto di quel tale che era giunto alla vecchiaia dopo una vita passata a corte: avendogli chiesto un tizio come fosse riuscito a giungere a vecchiaia, cosa rarissima a corte, gli rispose: Ricevendo ingiurie e ringraziando.A volte è cosìsconveniente vendicare l'ingiuria, che non è neppure il caso di confessarla.[3] Gaio Cesare (27), avendo tenuto in carcere il figlio di Pastore, un cavaliere di tutto riguardo, perché non ne sopportava la raffinatezza e la chioma troppo ben curata, quando il padre gli chiese grazia per il figlio, ordinò che fosse subito messo a morte, come se gliene avesse sollecitato l'esecuzione, ma, per non essere del tutto scortese con il padre, lo invitò a cena per quel giorno. [4] Pastore venne, con la faccia di chi non rimprovera nulla.Cesare gli fece versare una emina (28) e gli mise vicino un sorvegliante: quel misero ebbe la forza di bere, e gli pareva di bere il sangue di suo figlio.Gli fece portare profumo e corone, ed ordinò di osservare se ne prendeva: ne prese.Nel giorno del funerale del figlio, anzi, nel giorno in cui gli era stato proibito di farlo, si era coricato, ultimo tra cento invitati e, vecchio e malato di podagra, accettava dei brindisi che, forse, sarebbero stati eccessivi per festeggiarne la nascita.Intanto non versò una lacrima, non permise al dolore di manifestarsi con il minimo sfogo; cenò come se avesse ottenuto la grazia per il figlio.Vuoi sapere perché? Ne aveva un altro.[5] Allora, il famoso Priamo? Non nascose l'ira, non abbracciò le ginocchia del re (29), non si portò alla bocca la mano funesta, bagnata del sangue di suo figlio, non cenò? Sì, ma senza profumo, senza corone, e quel crudelissimo nemico lo pregò, con molte parole di conforto, di prendere cibo, non di vuotare coppe immense sotto gli occhi di un sorvegliante. [6] Dovresti disprezzare quel padre romano, se avesse temuto per se stesso, ma, in quel momento, la pietà dominò l'ira.Meritava che gli si permettesse, dopo il banchetto, di andare a raccogliere le ossa del figlio, ma quel bravo giovanotto, benevolo e cordiale solo occasionalmente, non gli permise neppure questo: continuava a tormentare il vecchio ripetendo i brindisi per alleviarne i pensieri; l'altro, invece, si mostrò sereno e dimentico di quanto era accaduto in quel giorno.Sarebbe morto il secondo figlio, se l'invitato non fosse piaciuto al carnefice.

34. [Altri motivi di longanimità.] [1] Dunque, ci si deve astenere dall'ira, tanto se è un pari tuo colui che devi attaccare, quanto se è un superiore o un inferiore.Mettersi in lotta con un pari è impresa incerta, con un superiore, è pazzesco, con un inferiore, è meschino.E piccineria e grettezza cercare di mordere chi ti morde: i topi e le formiche, se avvicini la mano, volgono il muso: gli esseri deboli temono d'esser danneggiati da chi li tocca.[2] Ci renderà più indulgenti il ripensare ai benefici che eventualmente ci ha fatti la persona con la quale ci adiriamo, e le sue buone azioni ne riscatteranno l'offesa.Teniamo anche presente quanto buon nome ci può procurare la reputazione di clemenza e quanti utili amici ci può produrre il perdono.[3] Non adiriamoci con i figli dei nostri nemici ed avversari.Tra gli altri esempi della crudeltà di Silla, c'è anche l'aver comminato l'interdizione dai pubblici uffici ai figli dei proscritti: non c'è nulla di più iniquo del far ereditare a qualcuno l'odio che si ha per suo padre.

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[4] Ogni volta che proveremo difficoltà a perdonare, chiediamoci se ci convenga che tutti siano inesorabili: quanto spesso colui che ha negato il perdono, lo ha poi dovuto chiedere! E quanto spesso si è dovuto buttare ai piedi dell'uomo di cui aveva rifiutato le suppliche! C'è cosa più onorevole del saper mutare un'ira in amicizia? Ci sono alleati del popolo romano più fedeli di coloro che furono i suoi nemici più ostinati? E che impero avremmo oggi, se una salutare lungimiranza non avesse saputo mescolare vincitori e vinti? [5] Uno si adirerà: mettilo alla punta facendogli del bene: una sfida cade subito nel vuoto, se l'altra parte non la raccoglie, e non si può combattere, se non si è in due.Ma l'ira indìce la lotta da due parti, e si viene alle mani: il migliore dei due è il primo che batte in ritirata, il vincitore, in realtà, è il vinto.Ti ha colpito: ritìrati; se ribatti il colpo, gli fornisci insieme l'occasione ed il pretesto per colpire a ripetizione: non potrai più sradicarti di lì a tua scelta.[6] C'è uno che voglia ferire il nemico tanto in profondità, da lasciare la mano nella ferita e non potersi rassettare dopo il colpo? Eppure l'ira è un'arma fatta così: è difficile da ritirare.Quando ci scegliamo le armi, badiamo alla praticità: una spada, la sceglieremo efficace e maneggevole.Non vorremo evitare quegli impulsi dell'animo che sono pesanti, funesti, irrevocabili? [7] Infine, è bella quella prontezza che sa arrestarsi non appena ne riceve l'ordine, che non oltrepassa la meta stabilita e che si lascia controllare e ridurre dalla corsa al passo.Sappiamo che i nostri nervi sono malati, se si muovono contro la nostra volontà; è vecchio o infermo colui che, quando vuol camminare, corre: giudichiamo veramente sani e vigorosi quei movimenti del nostro animo che vanno secondo la nostra determinazione, non quelli che si lasciano trasportare dalla loro.

35. [Ritratto dell'adirato e prosopopea dell'ira.] [1] Tuttavia, nulla sarà tanto utile quanto l'osservare dapprima la bruttezza della cosa, poi il pericolo che comporta.Nessuna passione ha la faccia più scomposta: deturpa i visi più belli e rende biechi i più tranquilli.Gli adirati perdono ogni decoro e, se le pieghe del loro vestito erano disposte a regola d'arte, si trascineranno dietro l'abito e sciuperanno tutto il loro abbigliamento; se i capelli ricadenti naturalmente o per arte, avevano aspetto aggraziato, all'insorgere dell'ira si rizzano; [2] le vene si ingrossano, il petto è scosso dall'ansimare, il rabbioso erompere della voce gonfia il collo; ed aggiungi gli arti tremanti, le mani irrequiete, il corpo tutto in agitazione.[3] E come credi che sia, dentro, l'animo della persona che ha un aspetto esterno così ripugnante? Come deve essere più terribile il suo aspetto interno, più veemente il respiro, più impetuosa la tensione, destinata a scoppiare, se non trova sfogo! [4] Quale è l'aspetto dei nemici o degli animali feroci, quando sono madidi di sangue o si accingono a far strage, quali i poeti hanno raffigurato i mostri infernali, cinti di serpenti e spiranti fuoco, quali escono le peggiori divinità dagli inferi, per suscitare guerra, disseminare discordia tra i popoli, lacerare la pace, [5] tale dobbiamo raffigurarci l'ira, con occhi ardenti di fiamma, strepitante di sibili, muggiti, gemiti, stridio e di ogni altro suono meno sopportabile, scuotente dardi con le due mani (non si cura, infatti, di armi da difesa), bieca, insanguinata, coperta di cicatrici, livida dei colpi che si è inferta, scomposta nell'incedere, avvolta in denso fumo, lanciata all'assalto, pronta a devastare, a mettere in fuga, tormentata dall'odio verso tutto, ed in particolare verso se stessa, se non le riesce di nuocere altrimenti, desiderosa di distruggere terre, mari e cielo, ostile insieme ed odiata. [6] O, se preferisci, sia come la troviamo nei nostri poeti:

incede Bellona scuotendo la frusta macchiata di sangue e la Discordia gioiosa con lacerato mantello (30),

o con l'aspetto ancor più sinistro, che si può attribuire ad una sinistra passione.

36. [L'estrema conseguenza dell'ira: la pazzia.] [1] A certi adirati così dice Sestio ha giovato guardarsi nello specchio: tutto quel loro cambiamento li ha turbati; messi come di fronte a se stessi, non si sono riconosciuti.Eppure, quell'immagine riflessa nello specchio rendeva ben poco della reale deformità. [2] Se si potesse mettere a nudo l'animo, farlo trasparire mediante qualche materiale, ci confonderebbe, quando lo guardassimo, nero, macchiato, tempestoso, distorto e gonfio com'è.Anche ora, però, è tanto brutto, quando affiora attraverso le ossa e la carne e tutti gli altri ostacoli. Che accadrebbe se lo vedessimo nudo? [3] Non credere che nessuno sia mai stato distolto dall'ira guardandosi nello specchio.Che dici? Chi è venuto allo specchio per cambiare, era già cambiato: per gli adirati, di fatto, nessuna immagine è più bella di quella atroce ed orrenda, e tali vogliono sembrare anche loro.[4] Dobbiamo piuttosto osservare a quanti l'ira, in sé e per sé, ha nuociuto.Alcuni, per eccessivo ribollire, si sono fatti scoppiare le vene, mentre il gridare più di quanto non permettessero le forze ha provocato emorragie, e l'umore che affluiva troppo violento agli occhi ha ottuso la vista, e gli ammalati hanno avuto ricadute.Non c'è via più sbrigativa, per giungere alla pazzia. [5] Pertanto, molti sono passati dall'ira al furore, e non ricuperarono più il senno che avevano buttato: Aiace fu condotto a morte dal furore (31), e al furore dall'ira.Imprecano la morte ai figli, la miseria a se stessi e la rovina alla casa, e non ammettono d'essere adirati, come i deliranti non ammettono d'esser pazzi.Nemici dei loro migliori amici, pericolosi per le persone più care, immemori delle leggi, ad eccezione di quelle che comminano pene, mutevoli per motivi da nulla, inaccessibili alle buone parole ed ai buoni uffici, fanno tutto con la violenza, pronti a combattere di spada o a gettarsi sulla spada.[6] Li ha colti infatti il più grande dei mali, quello che supera tutti i vizi.

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Gli altri vizi si insinuano a poco a poco: la forza di questo è istantanea e coinvolge tutto.Perciò si assoggetta tutte le altre passioni: vince l'amore più ardente, e c'è stato chi ha trafitto la persona amata e si è ucciso, abbracciando la sua vittima; l'ira ha calpestato l'avarizia, male ben robusto e per nulla disposto a piegarsi, obbligandola a buttar via le sue ricchezze ed a farne un solo mucchio di casa e di averi, per dar fuoco a tutto.E l'ambizioso non ha forse buttato le insegne che aveva stimato tanto, e rifiutate le onorificenze che gli venivano offerte? Non c'è passione sulla quale l'ira non eserciti il suo dominio.

NOTE.Nota 1. "Publio Clodio Pulcher" (cfr. "Const." 2,2), divenuto tribuno della plebe nel 58 avanti Cristo, fece approvare la "Lex Clodia" che comminava l'esilio a chi avesse mandato a morte cittadini romani, senza aver loro permesso d'appellarsi al popolo.Cicerone fu esiliato per aver condannato a morte, nel 63 avanti Cristo, i complici di Catilina.Nota 2.Il quindicenne "Tolomeo Tredicesimo", fratello e marito di Cleopatra.Nel settembre del 48 avanti Cristo, seguì il parere dei consiglieri Teodoto ed Achilla e fece uccidere Pompeo, fuggiasco da Farsalo.Nota 3. "Alessandro Magno".L'episodio viene tramandato da varie fonti e con nomi diversi del cantore.Nota 4. "Apollodoro" divenne tiranno di Cassandria (l'antica "Potidea", colonia di Corinto, ricostruita da Cassandro nel 316 avanti Cristo) assoldando mercenari, nel 279 avanti Cristo.Su "Falaride", tiranno d'Agrigento, v. nota 48 a "Tranq." 14,4.Nota 5.Il titolo di "divus" era attribuito, per apoteosi, agli imperatori morti.Nota 6. "Lucio Valerio Messalla Voleso", console nel 5 dopo Cristo.Fu formalmente accusato davanti al senato da Augusto (Tac., "Ann." 3,68).Nota 7.Secondo Cicerone ("Tusc." 3,31), la cosa stupiva soprattutto Santippe, sul carattere della quale, cfr. "Const." 19,1.Nota 8.Del "Campo Marzio".Nota 9.Del "Circo Massimo".Nota 10.Ovidio, "Metam." 1,144-148.Nota 11.Seneca fonde le topiche di esecrazione della guerra tra Cesare e Pompeo e quelle relative alle proscrizioni di Silla.Nota 12.Il "Forum Romanum", il "Forum Iulium" (di Cesare) ed il "Forum Augustum".Nota 13.In vari campi, gli antichi amavano raccogliere le cosiddette "antitesi", esempi contrari, anche utilizzati per dimostrare la medesima tesi.Cfr. "Tranq." 15,2; Giovenale, "Sat." 10,28-30; Stobeo, "Floril." 20,53.Nota 14. "Laberio": cavaliere romano e mimografo, fu costretto da Cesare a gareggiare con Publilio Siro.Il verso addotto qui da Seneca alludeva chiaramente alla tirannide di Cesare.Nota 15. "Spauracchio": l'attrezzo, detto "formido", costituito da penne tinte di rosso, unite tra loro da una corda pure rossa, veniva agitato dal cacciatore (cfr.Nemesiano, "Cyneg." 303-308).Nota 16.Plinio, "Nat. hist." 8,52, secondo il quale i leoni paventano anche la cresta e il canto dei galli.Secondo Plutarco ("De invid. et odio" 4) il leone teme il gallo, e l'elefante il porco.Nota 17.Come quel Giulio Viatore di cui narra Plinio ("Nat. hist." 7,78).Nota 18.Il "poeta" ci è ignoto.Nota 19.Fino ai diciotto anni specifica Platone ("Leg." Il,666a).Nota 20. "Zenone di Elea".La tradizione offre diversi nomi del tiranno: certamente non poteva essere Ippia, per ragioni cronologiche.Nota 21.Secondo altri, di Parmenione.Nota 22. "G.Giulio Cesare" (Plin., "Nat. hist." 7,94).Nota 23.A codesto "Mindride" vengono attribuiti tutti gli aneddoti sulla mollezza dei Sibariti.Nota 24.

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Nella coppa, per rinfrescare il vino.Nota 25. "Quinto Fabio Massimo", il "Temporeggiatore".Nota 26.Cfr. "Const." 14,3.Nota 27.L'imperatore "G.Giulio Cesare Caligola".Nota 28. "Emina": misura di vino, equivalente a circa mezzo litro.Nota 29. "Re": Achille.Nota 30.I due versi, rimaneggiati da Seneca, sono di Virgilio, "Eneide" 8,702-703.Nota 31. "Aiace Telamonio", che s'uccise per aver dovuto cedere ad Ulisse le armi d'Achille.

DELL'IRA.LIBRO TERZO.

1. [Prologo: l'ira passione repentina.] [1] Ora tenteremo di fare, o Novato, la cosa che hai desiderato più di tutte: sradicare l'ira dalle nostre anime o, almeno, frenarla e trattenerne gli impulsi.E" una cosa che, a volte, si deve fare palesemente ed a viso aperto, quando lo permette la minor forza del male, a volte, di nascosto, quando essa è troppo accesa ed ogni ostacolo la esaspera ed accresce.E" importante valutare quali forze ha e quanto integre, se è da colpire e respingere, o se dobbiamo cederle, al primo infuriare della tempesta, per evitare che trascini con sé i rimedi.[2] Si deve deliberare in base al comportamento di ciascuno: alcuni si lasciano vincere dalle preghiere, alcuni attaccano ed incalzano chi si fa piccolo di fronte a loro; alcuni li placheremo spaventandoli, altri abbandonano l'impresa in seguito ad un rimprovero, altri per averla dovuta confessare, altri perché se ne vergognano, altri con il passare del tempo, rimedio lento per un male precipitoso, al quale dobbiamo ridurci solo come ad una scelta estrema.[3] Veramente tutte le altre passioni ammettono dilazioni e si possono curare con respiro, invece la violenza di questa, che è tutta eccitazione e trascina se stessa, non procede per fasi successive, ma è già completa al suo primo insorgere; poi non stimola gli animi al modo degli altri vizi, ma li aliena, li rende incapaci di dominare e desiderosi del male, anche a costo d'esserne coinvolti, e non infuria soltanto sui bersagli prestabiliti, ma su tutto quanto incontra sul suo cammino. [4] Gli altri vizi spingono gli animi, l'ira li trae a precipizio. Anche quando non è possibile resistere alle proprie passioni, è però possibile che le passioni stesse si fermino: questa, invece, non diversamente dai fulmini, dalle procelle e da tutti gli altri fenomeni che sono inarrestabili, perché non camminano ma cadono, intensifica man mano la sua forza.[5] Gli altri vizi si allontanano dalla ragione, questa dal senno; gli altri vizi hanno inizi blandi ed una crescita che sfugge alla nostra attenzione; nell'ira, gli animi si buttano a capofitto.Non ci incombe dunque nessun'altra realtà più insensata e schiava delle sue stesse forze, superba in caso di successo, furibonda in caso di insuccesso, la quale, poiché non si lascia fiaccare neppure dalla sconfitta, quando il caso le ha sottratto l'avversario, rivolge i suoi morsi su se stessa.E non importa quanto grande sia il suo momento iniziale: dagli sfoghi più leggeri, sfocia nei più gravi. 2. [L'ira delle masse.] [1] Non le sfugge nessuna età, non fa eccezione per nessuna razza umana.Ci sono popolazioni che, grazie alla loro povertà, non conobbero il fasto; altre, continuamente travagliate e nomadi, sono sfuggite alla pigrizia; quelle che hanno costumi primitivi e vivono la vita dei campi, non conoscono l'inganno, la frode e tutti quei mali che nascono nel foro: ma non c'è nazione che l'ira non istighi.Fa sentire il suo potere tanto tra i Greci, quanto tra i Barbari (1); non è meno perniciosa per chi vive nel rispetto delle leggi, che per chi misura il diritto con il metro della forza.[2] Infine, tutti gli altri vizi trascinano persone singole, ma questo è il solo che, talvolta, riesce a scaturire nell'ambito dello Stato.Mai un popolo intero s'è sentito bruciare d'amore per una sola donna (2), né un'intera città ha riposto la sua speranza nel denaro o nel guadagno; l'ambizione prende gli uomini ad uno ad uno, la prepotenza non è vizio di popolo. [3] Ma all'ira, si è andati tante volte in schiera compatta: uomini e donne, vecchi e fanciulli, dignitari e volgo si sono trovati d'accordo, ed un'intera folla, sollevata da pochissime parole, ha preceduto anche chi la sollevava: si è corsi immediatamente alle armi ed al fuoco e si sono dichiarate guerre ai popoli vicini, o le si sono combattute contro i concittadini; [4] intere case sono state bruciate con dentro intere famiglie, e colui al quale, fino a ieri, per la sua avvincente eloquenza, erano state attribuite tante cariche, ha dovuto subire il furore del suo uditorio; certe legioni hanno scagliato i giavellotti contro il loro generale, la plebe, in massa, è entrata in lite con i patrizi, il senato, assemblea ufficiale, senza aspettare arruolamenti o nominare un comandante supremo, si è scelto improvvisati condottieri a servizio della sua ira e, dopo aver dato la caccia, per le case della città, a uomini nobili, ha proceduto direttamente all'esecuzione; [5] membri di ambasciate furono percossi, violando il diritto delle genti, e una rabbia indicibile ha trascinato la città: non è stato dato il tempo necessario a far sbollire il furore del popolo, ma si sono fatte scendere in mare le flotte e le si sono caricate di soldati, arruolati come capitava; senza osservare le consuetudini, senza prendere gli auspici, il popolo, seguendo la propria ira, portò come arma quanto gli veniva in mano o riusciva a rubare, poi pagò con una grande strage un'ira baldanzosa e temeraria.

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[6] Questo bel risultato lo ottengono i barbari, che irrompono nel combattimento a casaccio: non appena una parvenza d'ingiuria ha colpito i loro animi eccitabili, se ne sentono subito trasportati e, come il dolore li trascina, si gettano sulle legioni, quasi crollando loro addosso, in disordine, senza timori e senza precauzioni, desiderosi del proprio pericolo; sono orgogliosi d'esser feriti, di buttarsi sul ferro, di far forza con il corpo contro le armi e di porre fine alla battaglia trafiggendosi.

3. [Nuova confutazione della dottrina di Aristotele sull'ira.] [1] E" fuori dubbio, mi dici che si tratta di una forza immensa ed esiziale; mostraci dunque come la si deve guarire.Sì, ma, come ho detto nei libri precedenti, Aristotele si erge a difesa dell'ira e ci proibisce di liberarcene con un taglio netto: dice che è sprone della virtù e che, se la togliamo di mezzo, l'animo resta disarmato e diventa pigro ed indifferente di fronte alle grandi imprese.[2] Dunque è necessario denunciarne la bruttezza e bestialità e mettere davanti agli occhi quanto sia mostruoso un uomo furente contro un altro uomo e con quanto impeto si precipiti a recar danno, anche con danno proprio, ed a buttare a fondo cose che non possono venir sommerse, se non trascinando chi le sommerge.[3] Ed allora? c'è qualcuno disposto a chiamare assennato questo uomo che, come se fosse stato preso in una bufera, non cammina, ma è trascinato ed è schiavo della furia del male, e non incarica altri della sua vendetta, ma se ne fa personalmente esecutore, infierendo insieme con la mente e con il braccio, facendosi carnefice delle persone più care e di ciò di cui tra poco piangerà la perdita? [4] C'è uno che assegna come aiutante e compagna alla virtù questa passione che turba le decisioni ponderate, senza le quali la virtù non può porre in atto nulla? Sono labili, infauste e destinate al proprio danno quelle forze che rianimano il malato, se sgorgano dalla malattia o dai suoi accessi.[5] Non hai dunque motivo di dire che io sto perdendo tempo in discorsi superflui, se ora pongo in cattiva luce l'ira, come se gli uomini avessero dubbi in merito: c'è un uomo, anzi uno tra i filosofi più illustri, che le assegna dei compiti e la invoca, come se essa fosse utile, come se somministrasse coraggio per le battaglie, le esecuzioni di imprese e per tutto ciò, insomma, che deve esser fatto con un po'"di entusiasmo. [6] Perché essa non inganni nessuno, presentandosi come capace di giovare in qualche tempo o luogo, se ne deve mostrare la rabbia, sfrenata e stordita, e le si deve restituire la sua attrezzatura: cavalletti e corde, lavori forzati e patiboli, roghi accesi sotto i corpi impalati (3), ed addirittura il rampino per trascinare i cadaveri (4), ed i vari tipi di catene, di supplizi, lo strazio delle membra, il marchio in fronte, le gabbie di animali feroci: collochiamo l'ira tra questi strumenti, mentre essa stride in modo crudele ed orrendo, più disgustosa di tutti gli strumenti del suo furore.4. [Nuova descrizione dell'irato e conclusione del prologo.] [1] Ammesso che ci siano dubbi sugli altri aspetti negativi, certo nessuna passione si presenta con volto peggiore, e lo abbiamo già descritto nei libri precedenti: aspro e pungente, ed ora pallido per il ritirarsi e rifuggire del sangue, ora rossastro, perché tutto il calore e la vitalità si riversano sul volto, o quasi insanguinato, per il rigonfiarsi delle vene; gli occhi, intanto, ora tremano e sembrano voler balzar fuori, ora si fissano in una sola direzione e restano immobili. [2] Aggiungi i denti, che s'urtano tra di loro come volessero divorare qualcuno e non mandano altro suono che quello dei cinghiali, quando arrotano le loro zanne per affilarle; aggiungi lo schioccare delle dita, quando le mani si tormentano a vicenda, ed il petto battuto ripetutamente, il respiro affannoso ed i gemiti che sgorgano dal profondo, il corpo che non sa star fermo, le parole inarticolate, spezzate dalle esclamazioni, le labbra che tremano e talora si richiudono, emettendo un sibilo minaccioso.[3] L'aspetto delle belve, per Ercole, è meno brutto di quello di un uomo ribollente d'ira, quando le tormenta la fame o un ferro loro conficcato nelle viscere, anche nel momento in cui, moribonde, rivolgono l'ultimo morso contro il cacciatore.E se hai voglia di ascoltare voci e minacce, pròvati ad ascoltare le parole di un animo straziato.[4] Non vorrà ciascuno recedere dall'ira, se si renderà conto che essa comincia con l'infliggere del male a se stessa? Non vuoi che ammonisca quelli che praticano l'ira con ogni loro energia, la stimano una dimostrazione di forza ed elencano tra i grandi vantaggi di una grande fortuna il poter disporre d'una vendetta già pronta, che un uomo, prigioniero della sua ira, non lo si può dire in nessun modo potente, e neppure libero? [5] Non vuoi che li avverta, quanto più ciascuno è attento e capace di guardarsi attorno, che le altre passioni dell'animo riguardano soltanto i più malvagi, mentre l'iracondia si insinua anche negli uomini colti, assennati nelle altre loro azioni? E questo a tal punto, che qualcuno ritiene l'irascibilità un segno di schiettezza, e comunemente si crede sia molto condiscendente chi le è soggetto.

5. [Schema generale della trattazione e illustrazione del primo punto: come non adirarsi.] [1] Dove vuoi arrivare mi chiedi con questo discorso? A far sì che nessuno si ritenga immune dall'ira, poiché la natura provoca alla crudeltà ed alla violenza anche le persone calme e tranquille.Come la robusta costituzione e l'attenta cura della salute non giovano a nulla contro la pestilenza, che colpisce indiscriminatamente i deboli ed i robusti, così è esposto al pericolo dell'ira tanto chi è abitualmente inquieto, quanto chi è calmo ed arrendevole, ma, per questi ultimi, essa comporta maggior vergogna epericolo, perché opera in essi maggiori cambiamenti.[2] Ma poiché il primo punto è il non adirarsi, il secondo, deporre l'ira, il terzo, porre rimedio anche all'ira degli altri, dirò, in primo luogo, come possiamo non incorrere nell'ira, poi come possiamo liberarcene, infine come è possibile trattenere un adirato, placarlo e riportarlo all'uso del senno.[3] Riusciremo a non adirarci, se prenderemo in osservazione tutti gli aspetti negativi dell'ira e la valuteremo nel modo giusto.Dobbiamo metterla sotto accusa davanti a noi stessi ed emettere la condanna; le sue male azioni debbono essere

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esaminate a fondo e trascinate in pubblico giudizio; per farla apparire quale è, dobbiamo paragonarla con i vizi peggiori.[4] L'avarizia si procura ed accumula beni che saranno utilizzati da un non avaro; l'ira è dispendiosa, solo a pochi non costa nulla: un padrone iracondo, di quanti schiavi ha provocato la fuga, di quanti la morte! la perdita, dovuta alla sua ira, quante volte ha superato il valore della cosa per cui s'era irritato! A un padre l'ira ha portato un lutto, a un marito il divorzio, a un magistrato l'odio, a un candidato l'insuccesso elettorale.[5] E" peggiore della lussuria, perché quella gode del piacere proprio, l'ira, della sofferenza altrui.Vince il confronto con la malevolenza e l'invidia, perché quelle vogliono che qualcuno diventi infelice, questa vuol farlo tale, quelle godono di disgrazie accidentali, questa non sa aspettare il gioco del caso: vuol nuocere a colui che odia, non aspetta che gli nuocciano altri.[6] Nulla è più gravoso delle inimicizie: l'ira le favorisce; nulla è più funesto della guerra: in essa sfocia l'ira dei potenti; del resto, anche l'ira del volgo anonimo e dei privati è una guerra senza esercito.In più l'ira, anche se non ne consideriamo le inevitabili conseguenze immediate, come i danni, le insidie, la continua ansia delle vicendevoli lotte, resta punita mentre cerca di punire; essa rinnega la natura dell'uomo: quella esorta ad amare, questa, ad odiare; quella esorta a giovare, questa, a nuocere.[7] Aggiungi che, mentre il suo sdegno sgorga da eccessiva stima di sé e sembra un segno di coraggio, in realtà è pusillanime e meschina: non è possibile, infatti, ritenersi disprezzati da qualcuno, senza porsi più in basso di lui.Ma l'animo grande, che sa valutare obiettivamente se stesso, non vendica l'ingiuria, perché non ne risente. [8] Come i dardi rimbalzano sul duro, come ci si fa male, quando si colpisce sul sodo, così nessuna ingiuria riesce a farsi sentire da un animo grande, perché è più fragile del bersaglio dei suoi attacchi.Quanto è più bello sdegnare tutte le ingiurie, come si fosse invulnerabili a qualunque arma! Vendicarsi è un confessarsi addolorati, ma non è grande l'animo che si lascia piegare dall'ingiuria.O ti ha offeso un più potente di te, o un più debole; se è un più debole, risparmialo, se è un più potente, risparmia te stesso.

6. [Bisogna esser superiori alle provocazioni e non accollarsi troppi impegni.] [1] Non c'è prova più sicura di grandezza del non lasciarsi aizzare, qualunque cosa possa accadere.La parte superiore del cielo, la più ordinata, quella vicina alle stelle, non si lascia addensare in nube, spingere in tempesta, agitare in turbine; è libera da ogni turbamento: sono le zone più basse che scagliano i fulmini (5).Allo stesso modo, un animo sublime, sempre sereno e posto in un soggiorno tranquillo, soffocando dentro di sé tutto ciò che può concentrarsi in ira, rimane moderato, degno di venerazione ed in bell'ordine: di tutto ciò, nulla trovi nell'uomo adirato.[2] Chi infatti, una volta che s'è arreso al dolore ed è furibondo, non butta via, per prima cosa, il ritegno? Chi, turbato dall'impulsività e pronto a lanciarsi contro un altro, non ripudia tutto ciò che in lui dice contegno? Chi, nell'eccitazione, resta cosciente del numero e dell'ordine dei suoi doveri? Chi ha saputo misurare le parole, controllare una sola parte del suo corpo, guidarsi nel suo slancio? [3] Ci sarà utile quella salutare massima di Democrito, che definisce la serenità come il non fare, in attività pubbliche o private, né troppe cose, né cose superiori alle nostre forze (6).Chi passa in fretta dall'uno all'altro dei suoi molti affari, non è mai riuscito a veder finire una giornata tanto felice, che non gli abbia procurato una di quelle contrarietà, di uomini o di cose, che dispongono l'animo all'ira. [4] Come è inevitabile che il viandante frettoloso, percorrendo una strada affollata della città, urti molte persone, ed in un luogo scivoli, in un altro sia trattenuto, in un terzo venga spruzzato, così, in questo vivere dissipato e vagabondo, ci si imbatte in molti ostacoli, in molti inconvenienti: uno ha mandato a vuoto la nostra speranza, un altro l'ha ritardata, un terzo ce l'ha sottratta: i nostri piani non sono andati a buon fine.[5] A nessuno la fortuna è devota al punto di rispondere in ogni caso ai suoi molteplici tentativi.Ne consegue che colui che vede certi esiti contrari ai suoi progetti, diventa intollerante degli uomini e delle cose e, per dei nonnulla, si adira ora con la persona, ora con l'affare, o con il luogo, o con la fortuna, o con se stesso.[6] Dunque, perché l'animo possa essere tranquillo, non dobbiamo sballottarlo o affaticarlo, come dissi, nel disbrigo di troppe faccende o di imprese grandi, volute al di sopra delle nostre forze.E" facile caricarsi sulle spalle pesi non eccessivi e portarli dall'una all'altra parte, senza scivolare; ma quei pesi che fatichiamo a sostenere, perché ci sono stati gettati sulle spalle da mano altrui, li lasceremo ben presto cadere, sentendoci sfiniti: anche quando reggiamo al carico, se non siamo abbastanza forti per portarlo, vacilliamo.

7. [Bisogna assumere soltanto quegli impegni che si è in grado di sbrigare.] [1] Tieni presente che accade altrettanto nella vita politica ed in quella privata.Gli affari spicci ed agevoli sono alla mercé di chi li tratta, quelli impegnativi, superiori alle forze di colui che se li accolla, non si lasciano sbrigare facilmente e, una volta intrapresi, sviano chi li cura: quando crede di averli in pugno, crollano insieme con lui.Accade così che spesso va a vuoto l'intento di colui che si dedica alle imprese, non perché è in grado di compierle, ma perché pretende che sia facile la cosa cui s'è dedicato.[2] Ogni volta che tenterai qualcosa, misura insieme te stesso e l'impresa alla quale ti accingi e ti devi adeguare: il rincrescimento di non essere riuscito ti renderebbe intrattabile.Certo, c'è differenza tra un carattere estroverso ed uno freddo ed introverso: nell'uomo di carattere, l'insuccesso farà scoppiare l'ira, nel languido ed inerte, la tristezza.Le nostre azioni non siano dunque né meschine, né presuntuose ed ostinate, i nostri progetti abbiano traguardi

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raggiungibili, non temiamo nulla il cui ottenimento susciti subito in noi stupore per il buon esito.

8. [Bisogna scegliere bene le proprie compagnie.] [1] Facciamo in modo di non ricevere ingiuria, dato che non la sappiamo sopportare.Bisogna vivere con persone estremamente calme ed abbordabili, per nulla ansiose o pedanti; il nostro comportamento si adegua a quello delle persone che frequentiamo e, come certe malattie del corpo si trasmettono per contatto, così l'animo infetta dei suoi mali i vicini.[2] Il beone trascina i commensali all'amore del vino, la compagnia dei libertini rammollisce anche l'uomo forte (se uomo può chiamarsi), l'avarizia inietta il suo veleno nei vicini.La virtù tiene la stessa condotta, ma in direzione opposta, e rende migliore tutto quanto ha vicino a sé: una località salubre ed un clima benefico non hanno mai giovato tanto alla salute, quanto ha giovato ad animi poco costanti il trovarsi in compagnia di persone migliori. [3] Ti renderai conto dell'efficacia di questa pratica osservando che anche le belve si ammansiscono, convivendo con noi, e che nessun animale feroce conserva la sua violenza, se ha coabitato a lungo con l'uomo: tutta l'asprezza viene smussata e, a poco a poco, disimparata, nell'ambiente tranquillo.A questo s'aggiunge che non migliora soltanto per l'esempio colui che vive con uomini tranquilli, ma anche per il fatto che, non trovando motivi per adirarsi, non mette in azione il suo vizio.Dovrà quindi evitare tutti coloro che ritiene capaci di suscitare la sua ira.[4] Chi sono costoro? mi domandi.Sono tanti coloro che lo possono fare, per i motivi più diversi.Il superbo ti offenderà con il suo disprezzo, il mordace con la sua contumelia, lo sfacciato con la sua ingiuria (79, l'invidioso con la sua malevolenza, il litigioso con la sua provocazione, il parolaio e mendace con la sua vanità; non sopporterai che il sospettoso ti tema, l'ostinato ti vinca, lo schizzinoso ti abbia in uggia.[5] Scegliti amici semplici, abbordabili, equilibrati, che non stuzzichino la tua ira e la sappiano sopportare; gioveranno ancor più i caratteri bonari, comprensivi, dolci, ma non al punto di diventare adulatori, perché gli iracondi si sentono offesi dall'eccesso dei consensi. [6] Quel nostro amico era certamente un uomo buono, ma un po'"troppo suscettibile all'ira: blandirlo non era cosa meno pericolosa che offenderlo.E" noto che Celio (8), l'oratore, era estremamente irascibile.Raccontano che un suo cliente, capace di infinita sopportazione, cenava con lui in cameretta, e sapeva che per Celio era difficile, stando così a quattr'occhi, non attaccar briga con chi aveva accanto.Ritenne dunque ottima cosa acconsentire a quanto Celio avrebbe detto, ed assecondarlo.Celio non ne sopportò l'arrendevolezza e gridò:Contraddicimi, se vuoi che siamo in due!.Eppure anche Celio, adirato di non adirarsi, dovette ben presto calmarsi per mancanza d'avversario.[7] Se sappiamo d'essere iracondi, scegliamoci di preferenza compagni di questo genere, capaci di adattarsi al nostro volto ed alle nostre parole.Faranno di noi degli ipersensibili e ci indurranno nella cattiva abitudine di non saper ascoltare nulla di contrario alla nostra volontà, ma sarà utile dare respiro e riposo al nostro vizio.Anche gli intrattabili ed indomabili per natura accetteranno chi li blandisce: la carezza non incontra mai asprezze o timori.[8] Ogni volta che la disputa si farà troppo lunga o accesa, fermiamoci alle prime battute, prima che acquisti forza: la contesa si alimenta da se stessa e caccia a fondo chi ci si immerge: è più facile astenersi dalla lotta che uscirne.9. [Bisogna ricrearsi ed evitare l'affaticamento.] [1] Gli iracondi debbono anche lasciar da parte le occupazioni troppo gravose, o praticarle badando di non raggiungere il limite di affaticamento.La mente non deve sentirsi tormentata da molti impegni, ma potersi dedicare alle arti gradevoli; si plachi. con la lettura di poesie e si distenda con le narrazioni storiche: ha bisogno di esser trattata con la debita moderazione e delicatezza.[2] Pitagora placava i turbamenti dell'animo suonando la lira: chi non sa che litui (9) e trombe sono eccitanti, mentre certe musiche ci calmano e dissipano i nostri crucci? Agli occhi annebbiati giova il verde, una vista debole trova riposanti certi colori e viene abbagliata dallo splendore di altri: così gli studi distensivi leniscono gli animi malati.[3] Dobbiamo fuggire l'attività del foro, le avvocature, i processi e tutto ciò che esulcera il vizio; allo stesso modo, dobbiamo guardarci dalla stanchezza fisica, che consuma in noi tutta la mitezza e la tranquillità e stuzzica l'acredine. [4] Perciò chi sa di non potersi fidare del suo stomaco, se deve dedicarsi ad affari di un certo impegno, adotta una dieta atta a moderare la bile, che viene eccitata soprattutto dall'affaticamento, sia perché esso spinge il calore verso la parte centrale del corpo e nuoce al sangue, allentandone la circolazione dentro vene stanche, sia perché il corpo estenuato ed indebolito pesa sull'animo; certo, questo è il motivo per cui sono più propensi all'iracondia i fiaccati dalla malattia o dall'età.Per i medesimi motivi, si devono evitare anche la fame e la sete: esasperano ed incendiano l'animo.[5] C'è un vecchio proverbio: L'uomo stanco ha voglia di litigare; altrettanto accade all'affamato, all'assetato ed a chiunque ha qualcosa che gli scotta.Infatti, come le ferite dolgono ad un lieve tocco e poi, addirittura, al sospetto di un tocco, così l'animo ferito si offende di un nonnulla, al punto che c'è chi si sente stuzzicato a lite da un saluto, una lettera, un discorso, una domanda: è impossibile toccare parti malate senza provocare un lamento.

10. [Bisogna curarsi ai primi sintomi del male.] [1] La cosa migliore, dunque, è curarsi ai primi sintomi del male,

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cominciando dal concedere una libertà minima alle proprie parole e contenerne la foga.[2] E" facile intercettare le proprie passioni al loro primo insorgere: i segni delle malattie si manifestano in anticipo e, come i presagi della tempesta e della pioggia vengono prima di esse, così ci sono dei prenunzi di codeste procelle che tormentano gli animi.[3] Coloro che sono soggetti ad attacchi di epilessia, sentono ormai avvicinarsi il malore, se il calore abbandona le estremità, la vista si annebbia ed i nervi provocano tremito, se la memoria viene meno e la testa gira.Allora prevengono la situazione incipiente con i rimedi abituali: si rimuove tutto ciò che, con il suo odore o sapore, fa perdere i sensi e si contrastano il freddo e l'irrigidimento con dei fomenti; poi, se il rimedio ha giovato poco, si ritirano in disparte e cadono, lontano dallo sguardo altrui (10).[4] Giova conoscere la propria malattia e soffocarne le forze, prima che prendano campo.Osserviamo che cosa è che ci eccita più di tutto: uno si risente delle offese verbali, un altro, di quelle di fatto; questo vuole che si abbia riguardo alla sua nobiltà, quello alla sua bellezza; uno vuol essere ritenuto il più raffinato, un altro il più dotto; questo non sopporta la superbia, quello la disubbidienza; quello non ritiene che valga la pena adirarsi con gli schiavi, questo è feroce in casa e mite fuori; quello giudica segno di astio ogni preghiera, questo s'offende se non lo si prega.Non tutti sono vulnerabili dallo stesso lato; devi dunque sapere quale è il tuo punto debole, per proteggere soprattutto quello.

11. [Bisogna non essere troppo curiosi.] [1] Non conviene vedere tutto, ascoltare tutto.Molte ingiurie debbono sfuggirci: esse, nella maggior parte dei casi, non colpiscono, perché restano sconosciute.Non vuoi essere iracondo? Non essere curioso.Chi si informa di quanto è stato detto contro di lui, chi dissotterra i discorsi malevoli, anche se fatti in segreto, si inquieta da sé.Il voler interpretare certe cose, ci spinge al punto di considerarle ingiurie; perciò, talora, dobbiamo prender tempo, talora riderne, talora passarci sopra.[2] L'ira si può circoscrivere in molti modi: tantissime cose debbono essere risolte con l'arguzia o la battuta.Dicono che Socrate, una volta che si prese uno schiaffo, non abbia detto niente altro che: E" un guaio che gli uomini non sappiano quando devono uscir di casa con l'elmo!.[3] Non importa in che modo l'ingiuria è stata inflitta, ma come viene sopportata, e non vedo per quale motivo sia difficile moderarsi, quando so che uomini, nati per esser tiranni, gonfi di successo e di strapotere, hanno saputo reprimere la loro abituale crudeltà.[4] Per lo meno di Pisistrato (11), tiranno d'Atene, si racconta che, avendo un suo invitato, tra i fumi del vino, parlato parecchio contro la sua crudeltà e non mancando chi era disposto a passare a vie di fatto per lui, anzi chi lo spronava in un modo e nell'altro, sopportò in tutta calma e rispose a quelli che lo incitavano: Non mi adiro con lui, più che con uno che m'abbia urtato ad occhi bendati.12. [Non bisogna suggestionarsi.] [1] Molte persone si fabbricano da sé i motivi di lagnarsi, o sospettando il falso, o dando peso a cose da nulla.Spesso è l'ira che viene a noi, più spesso siamo noi che la andiamo a cercare.Eppure non la si deve mai chiamare: anche quando l'incontriamo a caso, dobbiamo respingerla.[2] Non c'è nessuno che sappia dire a se stesso: Questa cosa, che mi fa adirare, o l'ho fatta anch'io o l'avrei potuta fare; nessuno valuta l'intento di chi agisce, ma il fatto puro e semplice; eppure bisogna considerare la persona, se ha agito volontariamente o accidentalmente, se per costrizione o per inganno, se è stata spinta dall'odio o dalla mira d'un vantaggio, se ha accondisceso a se stessa o s'è messa a disposizione di altri.In parte, l'età di chi sbaglia, in parte, le condizioni di fortuna fanno sì che sopportare e tacere sia umanità o, certamente, non sia viltà.[3] Mettiamoci ora nella condizione in cui è la persona con la quale ci adiriamo e vedremo che è una falsa valutazione di noi stessi a renderci iracondi, cioè il non voler subire cose che vorremmo fare.[4] Nessuno si concede un rinvio: eppure il rinvio è il miglior rimedio dell'ira, perché permette al primo suo bollore di placarsi ed a quella nebbia, che ci chiude la mente, di cadere o di farsi meno densa.Alcuni di quegli impulsi che ti trascinavano a precipizio, basterà un'ora, non dico una giornata, a metterli sotto controllo; altri svaniranno del tutto.Ma se il rinvio richiesto non otterrà alcun effetto, sarà chiaro che non si tratta di ira, ma di condanna già pronunciata.Quando vorrai renderti conto esattamente di una cosa, affidala al tempo: non si può osservare esattamente un oggetto che fluttua.[5] Platone, adirato con un suo schiavo, non riuscì ad imporsi un rinvio; ordinò allo schiavo di abbassare la tunica e di offrire le spalle alla frusta, pronto a colpire personalmente.Ma quando s'avvide di essere preso dall'ira, come aveva alzato la mano, la manteneva sollevata, nell'atteggiamento di chi sta per colpire.Chiedendogli poi un amico, che era sopravvenuto per caso, che cosa stesse facendo: Punisco rispose un uomo iracondo. [6] Manteneva, come intontito, quell'atteggiamento di chi sta per incrudelire, sconveniente per un sapiente, senza ricordarsi più dello schiavo, perché aveva trovato un altro che era più opportuno castigare.Perciò sottrasse a se stesso il potere che aveva sui suoi schiavi e, molto turbato di quella sua colpa, disse: Ti prego, Speusippo (12), punisci tu con la frusta questo schiavo: io sono adirato. [7] Non colpì, per il medesimo motivo che

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avrebbe indotto altri a colpire.Sono adirato, disse farò più del necessario, lo farò troppo volentieri: questo schiavo non deve essere in potere di uno che non è padrone di sé.C'è qualcuno che voglia affidare una vendetta ad un adirato, se Platone ha destituito se stesso dal suo potere? Non ti deve essere lecito nulla, finché sei adirato.Perché? Perché vorresti che ti fosse lecito tutto.

13. [Conclusione del primo punto: bisogna usare continua vigilanza.] [1] Combatti tu, contro te stesso; se vuoi vincere l'ira, essa non può vincere te.Cominci a vincere, quando rimane nascosta, quando non le dai sfogo.Seppelliamone i segni e, per quanto è possibile, teniamola occulta, segreta.[2] Ciò comporterà per noi grave molestia, perché essa desidera balzar fuori, accenderci gli occhi e mutarci il volto, ma se le permettiamo di uscire da noi, diventa più forte di noi.Nascondiamola nel più profondo recesso del petto e portiamola con noi, non lasciamoci portare.Anzi, volgiamo al contrario tutti i suoi indizi: il volto sia disteso, la voce si faccia più blanda, il passo più lento; l'interno, a poco a poco, si plasma sull'esterno.[3] In Socrate, era segno d'ira l'abbassare la voce e parlare meno.Si vedeva che, allora, egli contrastava se stesso.Se ne accorgevano dunque gli amici e glielo dicevano apertamente, ma a lui non dispiaceva sentirsi rimproverare un'ira latente.Perché non doveva esser soddisfatto che molti intuissero la sua ira, senza che nessuno la dovesse sperimentare? L'avrebbero sperimentata, se egli non avesse concesso agli amici il diritto di rimproverarlo, come se lo era preso per sé nei riguardi degli amici.[4] Quanto più abbiamo bisogno di farlo noi! Preghiamo tutti i nostri più intimi di usare con noi la massima franchezza, nel momento in cui siamo meno in grado di sopportarla, e di non approvare la nostra ira.Cerchiamo aiuto contro un male potente e a noi gradito, mentre siamo ancora in senno, mentre siamo padroni di noi stessi. [5] Coloro che sopportano male il vino e temono la loro avventatezza e sfacciataggine di ubriachi, ordinano agli amici di portarli via dal convito.Chi sa per esperienza d'essere intemperante in caso di malattia, non vuole che gli si ubbidisca durante gli accessi del male.[6] E cosa ottima predisporre ostacoli ai vizi che sappiamo di avere e, prima di tutto, mettere l'animo in condizioni tali che, anche se rimane sconvolto da fatti gravissimi ed inattesi, o non senta l'ira o, dopo che essa è sorta per la gravità di un'offesa imprevista, la ricacci in profondità, senza manifestare il proprio dolore.[7] Sarà chiaro che ciò è possibile, se presenterò alcuni esempi, scelti tra i moltissimi, dai quali si possono imparare due cose: quanto male produce l'ira, se dispone di tutto il potere di uomini strapotenti, e quanto essa riesca ad imporre a se stessa, se viene repressa da un timore più forte.14. [Il caso di Cambise e Prexaspe.] [1] Il re Cambise (13), troppo dedito al vino, veniva ammonito da Prexaspe, uno dei suoi più cari, di bere meno; gli faceva osservare che è vergognosa l'ubriachezza in un re, sempre accompagnato dagli occhi e dagli orecchi di tutti.Sentendo ciò, quello rispose: Perché tu sappia fino a che punto conservo sempre il pieno controllo di me stesso, ti proverò che, dopo che ho bevuto, l'occhio e la mano mi servono a puntino. [2] Bevve poi più abbondantemente del solito, in coppe più capaci e, già pesantemente avvinazzato, diede ordine al figlio del suo censore di varcare la soglia e di rimanere diritto, tenendo la mano sinistra alzata sopra il capo.Poi tese l'arco e trafisse proprio il cuore (a quello aveva dichiarato di mirare) del giovinetto.Apertogli il petto, mostrò il dardo conficcato diritto nel cuore, si volse al padre e gli chiese se aveva mano abbastanza ferma.Quello rispose che neppure Apollo avrebbe saputo saettare più preciso.[3] Gli dèi mandino in rovina quell'uomo, schiavo più per indole che per condizione! Tessé l'elogio di una azione, cui era già troppo aver assistito.Ritenne motivo di adulazione il petto del figlio, aperto in due parti, ed il cuore palpitante per la ferita: doveva contestargli il vanto, chiedergli un secondo colpo, perché il re si compiacesse di mostrare mano più sicura direttamente sul padre. [4] Oh, il re sanguinario! Oh, il re degno che gli si puntassero contro tutti gli archi dei suoi! Ma una volta esecrato quest'uomo, che concludeva i banchetti con supplizi e lutti, dobbiamo dire che fu maggior delitto lodare quella freccia, che scagliarla.Vedremo come avrebbe dovuto comportarsi quel padre, che stava ritto presso il cadavere del figlio ed assisteva ad una strage della quale era testimonio e causa; per ora, risulta dimostrata la tesi proposta: l'ira può essere soffocata.[5] Non ingiuriò il re, non si lasciò neppure sfuggire una parola di disperazione, mentre si sentiva trafiggere il cuore, come quello del figlio.Si può dire, certo, che ha trangugiato le parole; infatti, se, come adirato, avesse anche detto qualche cosa, come padre, non avrebbe potuto fare nulla.[6] Voglio dire che può sembrare che si sia comportato con più senno in questa circostanza, che quando dava precetti sulla moderazione nel bere ad un uomo che faceva meno male quando beveva vino, che quando beveva sangue: se teneva in mano il bicchiere, c'era la pace.

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Prexaspe s'aggiunse dunque al numero di coloro che, con le loro grandi sciagure, dimostrarono quanto cari costino i buoni consigli agli amici dei re.

15. [Il caso di Astiage e Arpago e digressione sul suicidio.] [1] Sono certo che anche Arpago deve aver dato un consiglio del genere al re, suo e dei Persiani (14); quello, offeso, gli fece imbandire le carni dei figli e gli chiese più volte se gli piaceva il condimento; quando poi lo vide abbastanza sazio dei suoi mali, fece portare le loro teste e gli chiese un giudizio sulla sua ospitalità.A quel miserabile, non vennero meno le parole e non si serrò la bocca: Alla mensa del re disse ogni cena è gradevole. [2] Che cosa guadagnò con questa adulazione? Di non essere invitato a mangiare il resto.Non voglio proibire ad un padre di condannare un'azione del suo re, non gli voglio proibire di cercare un castigo degno di una mostruosità tanto truce, ma, per il momento, tiro questa conclusione: è possibile nascondere anche un'ira provocata da mali gravissimi, ed è possibile costringerla a pronunciar parole contrarie ai suoi sentimenti.[3] Questa capacità di frenare il dolore è indispensabile, soprattutto a chi ha avuto in sorte una vita di quel genere ed è invitato alla mensa del re; a questo prezzo si mangia, si beve e si conversa con loro: dover ridere dei propri lutti.Se la vita sia da pagare tanto cara, lo vedremo; è un'altra questione.Non consoleremo una prigionia tanto triste, non esorteremo ad accettare il dominio dei carnefici: mostreremo una strada di libertà aperta a tutti gli schiavi.Se l'animo è malato e miserabile, a causa della sua sofferenza, gli è possibile farla finita con se stesso e con il suo dolore. [4] Dirò, sia a colui che s'è imbattuto in un re che prendeva di mira con le sue frecce i petti degli amici, sia a colui il cui padrone sazia i padri con le viscere dei figli: Di che gemi, pazzo? Perché aspetti che qualche nemico venga a liberarti, distruggendo il tuo popolo, o che un re potente accorra da terre lontane? Da qualunque parte guardi, c'è la fine dei tuoi mali.Vedi quel precipizio? Da quello, si scende alla libertà.Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo? La libertà siede là, sul fondo.Vedi quell'albero basso, rinsecchito, malaugurato? La libertà è appesa a quello.Vedi il tuo collo, la tua gola, il tuo cuore? Sono vie di scampo dalla schiavitù.Ti mostro forse uscite troppo laboriose e che richiedono molto coraggio e molta forza fisica? Chiedi qual è il sentiero della libertà? Qualunque vena del tuo corpo.

16. [Digressione sulla pazienza.Ancora esempi: Dario e Serse.] [1] Ma finché nulla ci sembra tanto intollerabile da farci rifiutare la vita, allontaniamo l'ira, in qualunque condizione ci troviamo.E" esiziale agli schiavi: ogni sdegno diventa un torturare se stessi e gli ordini risultano tanto più gravosi, quanto minore è la rassegnazione con cui li si accettano.Così la belva stringe i suoi lacci agitandosi e così gli uccelli, mentre si affannano a scuotersi di dosso il vischio, se lo spalmano su tutte le penne.Non c'è giogo tanto stretto, che non ferisca meno chi lo sopporta che chi gli si ribella: c'è un solo rimedio per i mali gravi: sopportare ed accettare il proprio stato di necessità.[2] Ma se giova agli schiavi contenere le proprie passioni, e soprattutto questa, rabbiosa e sfrenata, ancor più giova ai re.Tutto è perduto, quando la fortuna rende possibile tutto ciò che l'ira suggerisce, ma non può durare a lungo un potere che s'esercita sul male di molti; vacilla, infatti, non appena il timore comune riunisce coloro che gemono separatamente.Perciò alcuni furono uccisi da singoli, altri da folle, quando il generale risentimento riunì ed assommò le ire.[3] Eppure, i più praticarono l'ira come fosse un contrassegno di regalità, come Dario, il primo che, tolto il potere ad un Mago (15), si impadronì della Persia e di una gran parte dell'Oriente.Avendo dichiarato guerra agli Sciti, che circondavano l'Oriente, richiesto dal nobile vecchio Ebazo di lasciare a casa, a sollievo del padre, uno dei tre figli e tenere in servizio gli altri due, gli rispose, promettendogli più del richiesto, che glieli avrebbe rimandati tutti; poi li uccise e li buttò davanti al padre, per non commettere la crudeltà di portarli via tutti e tre.[4] Ma quanto più remissivo fu Serse! A Pizio, padre di cinque figli, che gli chiedeva l'esonero per uno, permise di scegliere quello che preferiva, poi fece squarciare in due parti l'eletto, ne pose i tronconi sui due lati della strada e, con quella vittima lustrale, purificò l'esercito.Ebbe il successo che meritava: sconfitto e messo in fuga in lungo e in largo, vedendo dovunque sparsi a terra i resti del suo crollo, dovette passare in mezzo ai cadaveri dei suoi.

17. [Crudeltà di Alessandro e di Lisimaco.] [1] Questa era la ferocia che avevano nell'ira i re barbari, non imbevuti di istruzione, né di cultura letteraria: ti presenterò ora Alessandro, educato all'umanità da Aristotele.Trafisse di sua mano, durante un banchetto, Clito (16), che gli era carissimo ed era stato educato insieme con lui, perché non lo adulava abbastanza e stentava a trasformarsi, da Macedone e libero, in Persiano, avvezzo alla schiavitù. [2] Gettò ai leoni anche Lisimaco (17), che gli era altrettanto intimo.Codesto Lisimaco, che per un caso fortunato sfuggì ai denti dei leoni, una volta diventato re (18), fu forse, per questo, meno crudele? [3] Nutrì a lungo in una gabbia Telesforo di Rodi, suo amico, come fosse un animale singolare e sconosciuto, dopo averlo gravemente mutilato, tagliandogli anche il naso e gli orecchi: quel volto deforme, amputato e mutilo, aveva perduto l'aspetto umano.

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E in più, c'era la fame, l'incuria, la sporcizia di un corpo che giaceva sui suoi escrementi.[4] Siccome gli si era formato il callo alle ginocchia e alle mani, che doveva usare come piedi, per muoversi in quella gabbia stretta, e i fianchi gli si erano piagati, a furia di strisciare, chi lo vedeva, lo trovava d'aspetto tanto ripugnante, quanto spaventoso; ridotto ad un mostro da quel castigo, non riusciva più nemmeno a far compassione.Tuttavia, pur non somigliando affatto ad un uomo colui che pativa quelle cose, ancor meno gli somigliava colui che le faceva.

18. [Esempi romani: Silla, Caligola.] [1] Volesse il cielo che, di questa crudeltà, avessimo soltanto esempi forestieri e non fosse passata nei costumi romani, insieme con altri vizi d'importazione, anche questa barbarie di supplizi e vendette! A Marco Mario (19), al quale il popolo aveva eretto una statua in ogni quartiere ed offriva suppliche con incenso e vino, Lucio Silla fece spezzare le gambe, cavare gli occhi, tagliare la lingua e le mani e, come volesse ucciderlo tante volte, quante lo feriva, lo fece sbranare lentamente, membro per membro. [2] L'esecutore dell'ordine chi era? E chi, se non Catilina, che allenava già il braccio ad ogni delitto? Era lui che lo faceva a pezzi davanti alla tomba di Quinto Catulo (20), profanando le ceneri di un uomo tanto mite, e facendovi colar sopra, a goccia a goccia, il sangue di un uomo che era stato di cattivo esempio, ma caro al popolo, amato certamente troppo, ma non senza merito.Mario era degno di quel supplizio, Silla di ordinarlo, Catilina di eseguirlo, ma la repubblica non aveva meritato di subire sul suo corpo i colpi di spada di quegli uomini, che erano contemporaneamente suoi nemici e suoi vendicatori.[3] Ma perché frugare tra fatti antichi? Recentemente Gaio Cesare (21) fece flagellare e torturare, e non per inchiesta giudiziaria, ma per malanimo, Sesto Papinio, il cui padre era stato console, Betilieno Basso, il suo questore e figlio di un suo procuratore, ed altri senatori e cavalieri romani; [4] poi fu così incapace di differire la grande voluttà che la sua crudeltà esigeva senza indugio che, mentre passeggiava in quel viale dei giardini di sua madre, che divide il portico dal fiume, ne fece decapitare alcuni a lume di lucerna, circondato da matrone e da altri senatori.Che cosa c'era di tanto urgente? Qual pericolo, privato o pubblico, si poteva correre in una sola notte? Quanto poco costava, infine, aspettare il giorno, per non ordinare in sandali (22) l'esecuzione di senatori del popolo romano!

19. [Ancora su Caligola.] [1] Vale la pena conoscere quanto fu arrogante la crudeltà di costui, anche se può sembrare che io divaghi un tantino ed esca dal seminato; la cosa, però, rientra nel discorso sull'ira che incrudelisce in modo insolito.Aveva fatto flagellare dei senatori: fece sì che si potesse dire: Succede!; aveva inflitto torture con tutti gli strumenti più raffinati che natura conosca: con le funi, le trappole da caviglia, il cavalletto, il fuoco, e con la sua faccia.[2] A questo punto mi si ribatterà: E" una enormità davvero, che tre senatori siano stati squartati come schiavi ribelli, dopo le botte ed il fuoco, da un uomo che pensava di ammazzare tutto il senato, e che desiderava che il popolo romano avesse un solo collo, per poter riassumere, in un sol colpo ed in un sol giorno, i delitti che aveva sparsi in tanti luoghi e tempi!.Che cosa è tanto inaudito, quanto un'esecuzione notturna? Gli atti di brigantaggio si nascondono nelle tenebre, ma i procedimenti penali, quanto più sono noti, tanto più possono giovare ad esempio e correzione.[3] A questo punto, mi si dirà: Quello che tanto ti stupisce, è abituale a questa belva: vive per questo, veglia per questo, a questo pensa di notte.Certamente non si troverà un altro che abbia ordinato di chiudere la bocca a tutti coloro contro i quali si procedeva, introducendovi una spugna, per evitare che potessero emettere la voce.A qual condannato a morte è stata negata la possibilità di lamentarsi? Temeva che il dolore estremo facesse uscire qualche parola troppo libera, di dover udire quello che non voleva; sapeva che erano innumerevoli i misfatti che gli potevano essere rinfacciati soltanto da un moribondo. [4] Una volta che non si trovarono spugne, fece strappare le vesti dei condannati ed imbottire loro la bocca di stracci.Che crudeltà è questa? Sia permesso esalare l'ultimo respiro, lascia un'uscita all'anima, non costringere ad emetterla attraverso la ferita! [5] E sarebbe troppo lungo aggiungere che, in una sola notte, fece uccidere da centurioni, mandati per le case, anche i padri dei condannati, che è come dire che, per compassione, li dispensò dal lutto.Io, però, non mi sono proposto di descrivere la crudeltà di Gaio, ma quella dell'ira, la quale non infuria soltanto sugli individui, ma fa a pezzi interi popoli e flagella città, fiumi e cose insensibili al dolore.

20. [Esempi di un re di Persia e di Cambise in Etiopia.] [1] Un re di Persia, infatti, fece tagliare il naso, in Siria, ad un intero popolo; da ciò, il luogo prese il nome di Rinocolura (23).Pensi che sia stato indulgente, a non tagliare l'intera testa? Si è divertito con un supplizio inedito.[2] Un supplizio del genere si dice abbia subìto quella popolazione etiopica che, per la sua straordinaria longevità, è chiamata Macrobia (24).Contro costoro, infatti, Cambise era furente, perché non avevano accettato la schiavitù tendendo le mani, palme al cielo, ed avevano dato agli ambasciatori loro inviati quelle risposte franche che i re chiamano ingiuriose.Perciò, senza aver fatto provviste di viveri e senza aver studiato l'itinerario, si trascinava dietro l'intera turba dei suoi uomini in armi, attraverso zone impraticabili e prive d'acqua.Fin dall'inizio della marcia, gli mancò il necessario, e non glielo poteva fornire quella terra sterile, incolta e mai segnata da piede umano. [3] Dapprima ingannarono la fame mangiando le foglie più tenere e le gemme degli alberi, poi, facendo bollire il cuoio, poi, con ogni cosa che la necessità aveva trasformato in cibo; ma quando, in tutta quella sabbia, vennero meno anche le radici e le erbe ed il deserto risultò privo anche di animali, tirarono a sorte un uomo su dieci, per

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farne un cibo più orrendo della fame. [4] L'ira trascinava ancora a precipizio il re, che aveva in parte perduto ed in parte mangiato il suo esercito; alla fine, temette d'essere sorteggiato anche lui e, soltanto allora, ordinò la ritirata.Intanto gli venivano tenuti in serbo uccelli pregiati ed i cammelli trasportavano il vasellame di mensa, mentre i suoi soldati tiravano a sorte chi dovesse morire di mala morte e chi vivere una vita ancor peggiore.

21. [L'ira di Ciro contro un fiume e quella di Caligola contro una villa.] [1] Costui s'adirò con un popolo sconosciuto ed immeritevole, ma capace di risentirsi; Ciro si adirò con un fiume.Voleva assediare Babilonia ed aveva fretta di preparare la guerra, che offre i più grandi vantaggi a chi coglie le occasioni.Tentò il difficile guado del fiume Ginde (25) in piena, impresa che risulta pericolosa, anche quando il fiume è in magra per effetto della stagione estiva. [2] Ivi fu travolto uno dei cavalli bianchi che trainavano abitualmente il cocchio reale, e la cosa turbò profondamente il re.Giurò dunque che avrebbe ridotto quel fiume, che portava via il seguito del re, in condizioni tali da poter essere attraversato a piedi anche dalle donne.[3] Trasferì allora sul posto l'intero apparato bellico ed attese al lavoro, finché non ebbe suddiviso l'alveo in 180 condotte e disperso le acque in 360 ruscelli, ottenendone il prosciugamento col far defluire le acque in varie direzioni. [4] Così si perse il tempo, danno grave nelle grandi imprese, l'entusiasmo dei soldati, che rimasero sfiancati da quell'inutile fatica, e l'occasione di assalire un nemico impreparato, perché il re stava combattendo contro un fiume quella guerra che aveva dichiarata al nemico.[5] Un'uguale pazzia (con quale altro nome posso chiamarla?) infettò anche i Romani.Gaio Cesare (26) fece distruggere una bellissima villa nei pressi di Ercolano, perché sua madre (27), in altri tempi, vi era stata tenuta prigioniera.Ma, con questo, le diede la fortuna di essere ricordata: quando era in piedi, le passavamo davanti per mare e tiravamo diritto, ora, ci si chiede perché è stata demolita.

22. [Esempi di longanimità: Antigono Macedone.] [1] E questi sono esempi da meditare, per evitarli, ma ce ne sono altri contrari, da seguire, di moderazione e di mitezza, nei quali non mancano né i motivi per adirarsi, né la possibilità di vendetta.[2] Che cosa sarebbe stato più facile, per Antigono, che mandare al supplizio due militari di truppa i quali, appoggiati alla tenda del re, facevano la cosa che gli uomini fanno con maggior pericolo e diletto, cioè parlavano male del loro re? Antigono (28) aveva sentito tutto, dato che, tra chi parlava e chi ascoltava, c'era di mezzo soltanto un telo: egli lo sollevò appena e disse: Allontanatevi, che il re non vi senta.[3] Il medesimo, una notte, avendo sentito certi suoi soldati imprecare in tutti i modi contro il re, che li aveva condotti a quella marcia ed in quel pantano senza uscita, si avvicinò al gruppo che era in maggiore difficoltà e, dopo averli liberati (essi però non sapevano chi li stesse aiutando), disse loro: Adesso parlate male di Antigono, che ha fatto lo sbaglio di cacciarvi in questo pasticcio, ma augurategli anche del bene, perché vi ha tirati fuori da questo gorgo.

23. [Esempi di Filippo il Macedone e di Augusto.] [1] Suo nipote (30) fu Alessandro, quello che scagliava la lancia contro i suoi convitati e che, dei due amici di cui ho parlato poco sopra, ne espose uno ad una belva, l'altro a se stesso.Dei due però sopravvisse quello che era stato gettato al leone. [2] Non aveva ereditato quel difetto dal nonno, e nemmeno dal padre; se ci furono altre virtù in Filippo, ci fu anche la sopportazione delle ingiurie, grande sussidio per mantenersi sul trono.Era venuto da lui, tra altri ambasciatori d'Atene, quel Democare (31) che, per la sua lingua smodata e procace, era chiamato Parresiaste.Filippo, ascoltati benevolmente gli ambasciatori, rispose: Ditemi che cosa posso fare a favore degli Ateniesi.Lo interruppe Democare con un: Impiccarti. [3] I presenti erano sdegnati di una risposta tanto villana, ma Filippo li fece tacere e lasciò che quel Tersite se ne andasse sano e salvo.Ma voi altri dell'ambasciata, disse riferite agli Ateniesi che sono molto più prepotenti quelli che dicono queste cose, che quelli che se le lasciano dire impunemente. [4] Anche il divino Augusto è degno di memoria per aver parlato ed agito molte volte in modo da dar prova di non lasciarsi dominare dall'ira.Lo storico Timagene (32) aveva sparlato un po'"di lui, un po'"della moglie e di tutta la casa, e non aveva parlato al vento: le battute più audaci, infatti, circolano, e finiscono sulla bocca di tutti. [5] L'imperatore lo aveva spesso avvertito di moderare quella sua linguaccia, ma, siccome non si correggeva, lo escluse dalla propria casa.In seguito, Timagene invecchiò in casa di Asinio Pollione (33), e tutta la città se lo contese: l'esclusione dalla casa imperiale non gli sbarrò nessuna altra porta. [6] Poté leggere pubblicamente le opere storiche che compose in seguito, poté buttare sul fuoco i suoi libri (34), che contenevano le gesta di Cesare Augusto, poté fare atti di aperta ostilità all'imperatore: nessuno ebbe paura ad averlo amico, nessuno lo sfuggì, come fosse colpito dal fulmine, e ci fu chi offrì accoglienza ad un uomo caduto da tanta altezza.[7] Come ho detto, l'imperatore sopportò tutto con pazienza e non se la prese neppure perché aveva distrutti gli scritti elogiativi delle sue gesta; mai si lamentò con colui che ospitava il suo nemico. [8] Ad Asinio Pollione, disse soltanto questo: Nutri un mostro; e mentre quello imbastiva una scusa, non lo lasciò parlare e gli disse: Goditelo, Pollione mio, goditelo!, e poiché Pollione gli diceva: Se ti fa piacere, o Cesare, lo caccerò subito da casa mia, rispose: Mi pensi capace di farlo, dopo che vi ho riconciliati?.

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Pollione, infatti, aveva avuto del risentimento contro Timagene, e non aveva avuto nessun altro motivo di deporlo, che l'aver l'imperatore cominciato a risentirsi.

24. [Come moderare l'ira: motivi di longanimità.] [1] Dica dunque ciascuno, quando si sente provocare: Sono forse più potente di Filippo? Eppure si è lasciato offendere impunemente.Ho più potere io, che comando soltanto in casa mia, di quanto ne ebbe il divino Augusto su tutto il mondo? Eppure si accontentò di separarsi da colui che lo insultava. [2] Che motivo ho io dunque di far scontare con frusta e catene ad un mio schiavo (35) una risposta troppo chiara, una faccia per nulla condiscendente, una mormorazione che non arriva a toccarmi? Chi sono io, perché diventi un sacrilegio ferirmi l'orecchio? Molti hanno perdonato a dei nemici: io non saprò perdonare a dei fannulloni, a degli sbadati, a dei chiacchieroni?.[3] Il bambino sia scusato per l'età, la donna per il sesso, l'estraneo perché libero, la persona di casa perché della famiglia.E" la prima volta, questa, che uno ci offende: ripensiamo a tutto il tempo in cui ci è stato simpatico; ci ha offeso spesso altre volte: sopportiamo, come abbiamo sopportato tutte le altre volte.E" un nostro amico: lo ha fatto senza volere; è un nostro nemico: ha fatto il suo dovere.[4] Ai più saggi diamo credito, ai più stolti rimettiamo il debito; con chiunque, ripetiamo a noi stessi che anche gli uomini più sapienti commettono molti errori, e che nessuno è così guardingo da non veder mai venir meno la propria diligenza, nessuno è tanto riflessivo, che la sua ponderatezza non incorra mai casualmente in azioni troppo focose, nessuno è tanto attento a non offendere, da non far offese proprio mentre cerca di evitarle.

25. [Tutti possono sbagliare.] [1] Come per un uomo da nulla è di conforto, nella disgrazia, il pensare che è instabile anche la fortuna dei grandi e come, nel suo cantuccio, piange con maggior rassegnazione la morte di un figlio chi vede uscire funerali di fanciulli anche dal palazzo del re, così sopporta con maggior serenità di essere talvolta offeso, talvolta disprezzato, chiunque pensa che non esiste potere tanto grande che l'ingiuria non osi attaccarlo.[2] Se sbagliano anche i più prudenti, c'è qualcuno che sbagli, senza avere la sua brava scusa? Ripensiamo quante volte, da adolescenti, siamo stati poco diligenti nel dovere, poco misurati nel parlare, poco temperanti nel bere.Se uno è adirato, diamogli il tempo di rendersi conto di ciò che ha fatto: diverrà il punitore di se stesso.Ammettiamo che ci sia debitore di un castigo: non è il caso di mettere i conti in pari con lui. [3] Non sarà posto in dubbio che si sia sottratto al comportamento della massa e si sia eretto più in alto, colui che ha saputo non tener conto dei suoi offensori: è caratteristico della vera grandezza non avvertire il colpo.Così una belva gigantesca tarda a volgersi al latrare dei cani, così il flutto si rovescia invano contro un grande scoglio.Colui che non s'adira.resta immobile di fronte all'ingiuria, chi si adira, ne ha risentito.

26. [Tutti abbiamo i medesimi difetti.] [1] Ma non riesco a sopportare. mi obietti è gravoso tollerare un'ingiuria.Mentisci: chi non può sopportare l'ingiuria, se sopporta l'ira? aggiungi che lo scopo di questo esercizio è giungere a sopportare sia l'ingiuria che l'ira.Perché compatisci la rabbia del malato, le parole del delirante, le mani insolenti dei fanciulli? Certamente, perché è chiaro che non sanno quello che fanno.A che serve distinguere quale vizio renda ciascuno incosciente? L'incoscienza è scusante valida per tutti.[2] Ma allora, dici la passerà liscia? Anche se tu lo volessi, non accadrebbe: la più grande punizione dell'ingiuria fatta è la coscienza d'averla fatta e nessuno subisce punizione più grave di colui che viene consegnato al tormento del rimorso.[3] In secondo luogo, si deve tener conto della situazione comune a tutte le vicende umane, per farsi giudici obiettivi di tutto quanto accade: è ingiusto colui che addebita al singolo un vizio di tutti.Un Etiope, in mezzo ai suoi, non si fa notare per il colore della pelle e, tra i Germani, i capelli biondi ed annodati non disdicono ad un uomo: non giudicherai mai degna di nota o vergognosa, in un individuo, una cosa che è nell'uso comune della sua gente.E codesti esempi, che ho citato, sono difesi dai costumi d'una regione, di un angolo del mondo; guarda ora quanto è più giusto perdonare quei difetti che sono diffusi in tutto il genere umano. [4] Siamo tutti sconsiderati e sprovveduti, tutti indecisi, brontoloni, ambiziosi (perché nascondere dietro eufemismi una piaga pubblica?), siamo tutti cattivi.Tutto quanto è possibile rimproverare in un altro, ciascuno se lo ritroverà nella sua bisaccia.Perché segni a dito il pallore di questo o la magrezza di quello? Siamo tutti appestati.Cerchiamo allora d'essere comprensivi tra noi; siamo dei cattivi che vivono in mezzo a dei cattivi.Una sola cosa ci può dar pace: l'accordo di mutua condiscendenza.[5] Ma quello mi ha già recato danno, ed io non gli ho ancora fatto nulla.Ma qualche altro, forse, lo hai già offeso o lo offenderai.Non mettere sulla bilancia questa ora o questo giorno: guarda il tuo comportamento abituale; anche se non hai fatto nulla di male, puoi ben farlo.

27. [E" meglio saper perdonare.] [1] Quanto è meglio guarire l'ingiuria che vendicarla! La vendetta assorbe molto tempo e si espone a molte ingiurie, mentre ne lamenta una sola.La nostra ira dura più della nostra ferita.Quanto è meglio prendere un'altra direzione e non contrapporre vizio a vizio.

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Ti sembrerebbe in senno colui che restituisse i calci alla sua mula (36) o i morsi al suo cane? Ma codesti esseri, mi obietti non sanno di offendere. [2] Prima di tutto, quanto è iniquo colui per il quale l'esser uomini costituisce ostacolo al perdono! Poi, se tutti gli altri animali sono esenti dalla tua ira, perché incoscienti, valuta allo stesso modo chiunque agisca con poca coscienza.Che importa, infatti, che sia diverso dagli animali per altri aspetti, quando assomiglia loro in ciò che rende gli animali irresponsabili di qualunque errore, l'aver cioè la mente ottenebrata? [3] Ha sbagliato.E" la prima volta? E" l'ultima? Non hai motivo di credergli; anche se dice: Non lo farò più, costui sbaglierà ancora, ed altri sbaglieranno a suo danno, e l'intera vita rotolerà tra gli sbagli.Chi non è buono, va trattato con bontà.[4] La cosa che si suol dire a se stessi, e con ottimo risultato, nei grandi dolori, la si dica anche nell'ira: Finirai una volta o l'altra, o mai più?.Se deve finire, quanto è più conveniente abbandonare l'ira, che esserne abbandonati! O dovrà durare sempre quell'agitazione? Vedi, che vita senza pace ti prospetti? E come sarà la vita d'un uomo sempre gonfio di rabbia? [5] Aggiungi che, una volta che tu ti sia ben attizzato ed abbia via via trovato nuovi motivi di cruccio, l'ira se ne andrà da sé, perché il tempo le sottrarrà le forze: quanto sarebbe meglio, se essa fosse sconfitta da te, non da se stessa!

28. [La vendetta danneggia chi la compie e non sa discernere le persone.] [1] Prima ti adiri con uno, poi con un altro; prima con gli schiavi, poi con i liberti; con i genitori, poi con i figli; con le persone che conosci, poi con sconosciuti: motivi ce ne sono dovunque in abbondanza, se l'animo non si frappone a scongiurarti.Il furore ti trascina da questa direzione ad un'altra, poi da quella ad un'altra ancora e, con il sorgere via via di nuove provocazioni, la rabbia sarà continua: suvvia, infelice, verrà per te il momento d'amare? Quanto tempo utile perdi in una occupazione malvagia! [2] Come sarebbe stato meglio, allora, procurarti degli amici, rappacificarti i nemici, amministrare lo Stato, dedicare la tua attività agli affari di casa, invece di cercarti attorno come poter fare del male a qualcuno, come ferirlo nel prestigio, nei beni, nel corpo, cose che non puoi ottenere senza contesa e pericolo, anche se ti metti in lizza con chi ti è da meno! [3] Anche se te lo ritrovassi in catene ed esposto a subire tutto a tuo arbitrio, il picchiare troppo forte può produrti la slogatura di un arto o la lacerazione di un nervo, rimasto impigliato nei denti che ha spezzato; l'ira ha reso monchi molti, invalidi molti, anche quando ha incontrato una materia passiva.Ed aggiungi che nulla nasce così debole da poter morire senza pericolo per chi lo schiaccia: a volte il dolore, a volte il caso, mette i deboli alla pari dei più robusti.[4] E che dire del fatto che le azioni, che provocano la nostra ira, sono per lo più delle offese, non delle ferite? E" molto diverso che uno si opponga alla mia volontà o non le corrisponda, che mi rubi o non mi dia.Ma noi mettiamo sullo stesso piano chi ci deruba e chi non ci dà, chi stronca i nostri progetti e chi li dilaziona, chi agisce contro noi e chi a suo vantaggio, per amore d'altri o per odio verso di noi.[5] Alcuni, poi, non hanno soltanto motivi di giustizia, ma anche d'onore, per opporsi a noi: uno difende il padre, un altro il fratello, uno la patria, un altro l'amico, eppure noi non li sappiamo perdonare, se hanno ciò di cui dovremmo loro rimproverare l'omissione, anzi, ed è incredibile, spesso giudichiamo bene l'azione e male la persona.[6] Ma, per Ercole, l'uomo grande e giusto ammira tutti quei suoi nemici che sono ostinatissimi sostenitori della libertà e della salvezza della patria, e desidera di disporre di concittadini di questa tempra, di soldati di quella tempra.29. [Ancora sul discernimento e sull'ostinazione.] [1] E" vergogna odiare la persona che devi lodare, ma ancor più vergognoso è odiare qualcuno per motivi che lo rendono degno di compassione.Un prigioniero che ha appena subìto l'onta della schiavitù, conserva i residui della libertà e non è sollecito ad accollarsi mansioni umilianti e faticose; uno schiavo, impigrito dal riposo, non riesce a tener dietro, di corsa, al cavallo ed alla carrozza del padrone; uno sfinito da più giorni di veglia, cade addormentato; rifiuta il lavoro nei campi, o non lo affronta con il debito vigore, uno che è stato trasferito dalla riposante schiavitù della città ad una fatica tanto dura! [2] Teniamo distinto colui che non può, da colui che non vuole; assolveremo molti, se cominceremo a farci un giudizio, prima di adirarci.Ora invece noi seguiamo il primo impulso, poi, per inconsistenti che siano i motivi della nostra eccitazione, perseveriamo, perché non sembri che abbiamo incominciato senza motivo, infine, e sta qui l'ingiustizia più grave, la pretestuosità della nostra ira ci rende più ostinati; ce la teniamo e la accresciamo, come se l'essere molto adirati dimostrasse che avevamo un buon motivo di adirarci.

30. [Spesso l'ira è pretestuosa.I nemici di Giulio Cesare.] [1] Quanto è meglio valutarne bene i moventi, nella loro banalità, nella loro innocuità! Quello che vedi accadere agli animali bruti, lo coglierai anche nell'uomo: ci lasciamo turbare da frivolezze e vacuità.Il toro si eccita al rosso, l'aspide leva la testa per un'ombra, orsi e leoni si lasciano irritare da un fazzoletto: tutto ciò che è feroce e rabbioso per natura, si sbigottisce per cose da nulla.[2] Accade altrettanto a chi è incostante ed irriflessivo per carattere: si sente ferito dal sospetto, al punto di chiamare talvolta ingiurie quei piccoli benefici che costituiscono frequentissime, o quanto meno acerbissime, occasioni d'ira.Ci adiriamo, infatti, con le persone più care, perché ci hanno dato meno di quanto pensavamo, o di quanto ci hanno dato altri; eppure disponiamo di un rimedio, in tutte e due le ipotesi.[3] E" stato più generoso con un altro: compiacciamoci di quanto ci è toccato, senza far confronti; non sarà mai felice, chi si lascerà tormentare dalla maggior felicità altrui.Ho meno di quanto speravo; forse ho sperato più del dovuto.

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Questo settore è il più temibile, perché nascono da qui le ire più perniciose, capaci di intaccare i sentimenti più sacri.[4] Il divino Giulio ebbe tra i suoi uccisori più amici che nemici, perché non ne aveva soddisfatto le aspirazioni impossibili.Lo avrebbe anche voluto (nessuno infatti fu più liberale, dopo una vittoria in seguito alla quale non rivendicò a se stesso altro potere che quello di far largizioni), ma non avrebbe mai potuto accontentare desideri tanto smisurati, dato che tutti desideravano l'intero avere dell'unico largitore. [5] Vide perciò i suoi compagni d'armi circondare il suo seggio con le spade in pugno, vide Tillio Cimbro (37), fino a poco prima suo acceso partigiano, e tanti altri, diventati pompeiani all'ultimo momento, quando Pompeo non c'era più.E" una passione che ha rivolto contro i re i loro eserciti, ed ha spinto gli uomini più fidati a progettare la morte di coloro per i quali e davanti ai quali si erano votati a morire.

31. [Bisogna sapersi accontentare.] [1] A nessuno piace il suo, se si volta a guardare l'altrui: perciò ce la prendiamo anche con gli dèi, se qualcuno ci passa davanti, e dimentichiamo quale folla abbiamo dietro e quale smisurata invidia ha, dietro la schiena, chi ha pochi da invidiare.Ma la sfrontatezza degli uomini è tale che, sebbene abbiano ricevuto molto, si sentono come offesi, perché avrebbero potuto ricevere di più. [2] Mi ha dato la pretura, ma io speravo il consolato; mi ha dato i dodici fasci, ma non mi ha fatto console ordinario; ha voluto che l'anno si datasse con il mio nome (38), ma non mi fa avere un sacerdozio; sono stato cooptato in un collegio (39), ma perché in uno solo? Mi ha concesso tutti gli onori, ma non ha aggiunto nulla al mio patrimonio: mi ha dato quello che doveva pur dare a qualcuno ma, di suo, non ci ha aggiunto nulla. [3] Ringrazia, invece, per quello che hai ricevuto: il resto, aspettalo e sii contento di non essere sazio; tra i piaceri, c'è anche l'aver ancora qualcosa da sperare.Hai vinto tutti: rallegrati di occupare il primo posto nell'animo del tuo amico; molti ti vincono: considera quanto più numerosi sono quelli che precedi, di quelli che segui.Vuoi sapere qual è il tuo difetto più grosso? Falsifichi i conti: valuti molto quello che dai, poco quello che ricevi.

32. [Bisogna saper soprassedere.] [1] A seconda delle persone, scegliamo motivi diversi di controllo: con alcuni, non dobbiamo adirarci per timore, con altri per rispetto, con altri per disgusto.Sarà certamente una grande impresa mandare in carcere uno schiavo che ci serve male! Che fretta abbiamo di farlo sferzare subito, di fargli spezzare subito le gambe? [2] Questa possibilità non ci verrà meno, se rimanderemo.Lascia che venga il momento in cui siamo noi a comandare: ora parleremmo agli ordini dell'ira.Quando se ne sarà andata, vedremo finalmente quanto vale la contesa.Sbagliamo soprattutto in questo: giungiamo alla spada, alla pena capitale e puniamo con catene, carcere e fame, un fatto che dovrebbe essere castigato con pochi colpi di sferza.[3] Ma come, obietti tu ci ordini di osservare quanto sono piccine, misere, infantili, tutte le cose che ci sembrano offensive? Sì, io non voglio insistere su nulla più che sulle larghe vedute, sul renderci conto di quanto sono vili ed abiette queste cose che ci fanno litigare, correre, ansimare, e che nessuno, che abbia qualche sentimento elevato o grandioso, si volge a guardare.

33. [Il denaro, primo fattore d'ira.] [1] Il denaro è la cosa che fa gridare di più: è lui che affatica i tribunali, mette a lite padri e figli, versa i veleni, consegna le spade ai sicari ed alle legioni, è bagnato del nostro sangue: per lui, le notti di mogli e mariti sono uno strepito di litigi e le folle pressano i seggi dei magistrati, i re incrudeliscono e derubano, e distruggono città, costruite dalle fatiche di intere generazioni per setacciarne dalle ceneri l'oro e l'argento.[2] Vuoi guardare gli scrigni che giacciono nei ripostigli? E" per quelli che si grida fino a farsi uscire gli occhi dalle orbite, che le basiliche risuonano dello strepito dei processi e che giudici, fatti venire dalle regioni più lontane (40), siedono per decidere di chi è più giustificata l'avidità. [3] Che dire, se non si tratta nemmeno di uno scrigno e, per un pugno di monete, o per un denaro messo in conto da uno schiavo, crepa di bile un vecchio che non lascia eredi? E se, per un misero uno per mille di interesse, un usuraio paralizzato, coi piedi storti e le mani incapaci di prendere, grida e rivendica, negli accessi del male, i suoi assi, richiamandosi alle cauzioni? [4] Se tu mi portassi davanti tutto il denaro delle miniere che sappiamo scavare profondissime, se tu buttassi a mia disposizione tutto ciò che è nascosto nei tesori (gli avari usano riportare sotto terra quello che non doveva uscirne), io non stimerei tutto quel mucchio capace di far corrugare la fronte ad un uomo buono.Con quante risa dovremmo accogliere le cose che ci strappano le lacrime!

34. [Altri incentivi d'ira: l'umana piccineria.] [1] Suvvia, passa ora in rivista gli altri incentivi d'ira, il mangiare, il bere ed il pretendere, per quelle occasioni, apparecchiature fastose, la raffinatezza e poi le parole offensive, i gesti poco rispettosi, gli animali restii e gli schiavi indolenti, e poi i sospetti, le interpretazioni malevole dei discorsi altrui, in seguito alle quali dobbiamo annoverare tra le ingiurie di madre natura l'aver dato all'uomo la parola.Credimi, non hanno peso i motivi per i quali diamo in pesanti escandescenze, come non ne hanno quelli che eccitano i fanciulli a rissare ed insultarsi.[2] Di ciò che facciamo tanto corrucciati, nulla è serio, nulla è importante: la vostra ira, vi dico, la vostra pazzia nasce dal vostro sopravvalutare cose da nulla.Costui mi ha voluto portar via una eredità, quello là mi ha infamato presso persone che mi ero conquistate, in vista del testamento; quel tizio s'è invaghito della mia amante. [3] Ed ecco che il voler la stessa cosa, che dovrebbe diventare un

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vincolo di amicizia, provoca invece liti e odio.Una strada stretta suscita risse tra i passanti, una strada spaziosa, larga, aperta, non permette che s'urtino nemmeno le folle: le cose che voi desiderate, perché sono di poco conto e non possono passare da un padrone all'altro se non per furto, suscitano lotte ed alterchi tra i loro contendenti.

35. [L'intolleranza pretestuosa.] [1] Sei sdegnato, perché ti ha risposto un tuo schiavo, un tuo liberto, tua moglie, un tuo cliente; poi, proprio tu, ti lamenti perché, nello Stato, è soppressa quella libertà che hai abolito in casa tua.In più, se uno non risponde alle tue domande, lo dici ribelle.Ma parli, taccia, rida! [2] Come? Davanti al padrone! dici.Anzi, davanti al padre di famiglia.Perché gridi, perché strilli, perché, nel bel mezzo della cena, ordini la frusta per gli schiavi che parlano? Forse perché non si possono avere, nello stesso posto, una folla da comizio e un silenzio da deserto? [3] Gli orecchi non ti sono stati dati soltanto per farti sentire musichette leggere ed ariette languide, ben composte e strumentate: devi pur sentire risa e pianti, complimenti e litigi, notizie buone e cattive, voci di uomini e muggiti e latrati d'animali.Di che ti spaventi, miserabile, al grido di uno schiavo, al tintinnare di un vaso di bronzo, allo sbattere di una porta? Se sei tanto sensibile, ti farà bene una cura di tuoni! [4] Questo, che ti ho detto degli orecchi, applicalo agli occhi, che non sono meno schifiltosi, se sono stati educati male: si risentono di una macchia, della sporcizia, di un argento lucidato male, di una piscina che non lascia trasparire il fondale. [5] E proprio questi occhi, che non sopportano un marmo, se non è ben chiazzato e lustrato di fresco, o una tavola, se il legno non ha tante venature, che in casa non accettano se non pavimenti più costosi dell'oro, fuori, guardano in tutta tranquillità strade dissestate e fangose, passanti per lo più lerci, muri di isolati corrosi, pieni di crepe e di sporgenze.Che altro motivo c'è di non sentirsi disturbati in pubblico ed agitarsi in casa, se non un criterio di valutazione equilibrato e paziente fuori, bisbetico e lunatico in casa?

36. [Conclusione del secondo punto: la pratica dell'esame di coscienza.] [1] Tutti i nostri sensi devono essere indirizzati a fermezza; per natura sono pazienti, se l'animo smette di corromperli: esso deve esser convocato ogni giorno alla resa dei conti.Era un'abitudine di Sestio: al cadere della giornata, non appena si era ritirato per il riposo notturno, interrogava la sua coscienza: Qual tuo male hai guarito oggi? A qual difetto ti sei opposto? In qual settore sei migliorato?.[2] L'ira cesserà, e sarà più moderato l'uomo che sa di doversi presentare ogni giorno al giudice.C'è usanza più bella di questa, di esaminare un'intera giornata? Che sonno segue questa inchiesta su se stessi, quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che l'animo o è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l'inchiesta sui suoi costumi.[3] Io mi avvalgo di questa possibilità, e mi metto sotto processo ogni giorno.Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie (41), che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l'intera mia giornata e controllo tutte le mie parole ed azioni, senza nascondermi nulla, senza passar sopra a nulla.Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire: [4] Questo, vedi di non farlo più; per questa volta, ti perdono.In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato.Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d'ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona, alla quale parli, è in grado di accettare la verità.L'uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai pedagoghi.

37. [Esame di coscienza: seguito.] [1] Durante il pranzo, sei stato toccato dalle arguzie di alcuni e dalle parole buttate per ferirti: ricordati di star lontano dalle tavolate di gente volgare; quando hanno bevuto, parlano con ancor più sboccata licenziosità, loro che non parlano pulito nemmeno quando sono sobri.[2] Hai visto il tuo amico adirato con il portinaio di un avvocato o di un ricco, che non lo ha lasciato entrare, ed anche tu ti sei adirato per lui, con l'ultimo degli schiavi: dunque te la prendi con un cane alla catena? Anche quello, dopo aver latrato molto, se gli getti del cibo, si ammansisce. [3] Allontanati e ridine! Sei davanti ad un tizio che si crede qualcuno, perché custodisce una porta assediata da una folla di litigiosi; dentro, in casa, sta sdraiato un altro, felice e fortunato, che ritiene sia segno di benessere e di potenza una porta restia ad aprirsi: non sa che la porta più dura da aprire è quella del carcere.Mettiti bene in mente che devi sopportare molte cose: ci si meraviglia forse di avere freddo d'inverno? Di soffrire nausea viaggiando per mare e scossoni per strada? L'animo sa resistere ai mali che è preparato ad affrontare. [4] Perché ti hanno assegnato un posto meno prestigioso, hai cominciato ad adirarti con chi aveva offerto il banchetto, con chi aveva fatto gli inviti, con quello stesso che ti veniva preferito: pazzo, che importa su quale parte del letto ti corichi? Un cuscino può farti più onorato o più spregevole? [5] Hai guardato con occhio cattivo un tale che ha parlato male del tuo talento: accetti questa legge? Allora Ennio, che non ti piace, dovrebbe detestarti, ed Ortensio (42) dichiararti il suo rancore, e Cicerone, se deridessi i suoi versi (43), esserti nemico.Se sei un candidato, accetta di buon animo l'esito delle votazioni! 38. [Appendice: esempi di Diogene e di Catone.] [1] Qualcuno ti ha fatto offesa: certo non è più grave di quella fatta al filosofo stoico Diogene (44), al quale un giovane insolente sputò addosso, mentre era infervorato in un discorso sull'ira.

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Egli sopportò il fatto con serenità e disse saggiamente: Certo, non mi adiro, ma nemmeno so se sarebbe il caso di adirarsi. [2] Quanto meglio si comportò il nostro Catone! Mentre discuteva un processo, quel tal Lentulo (45), che i nostri padri ricordano come fazioso e prepotente, raccolse abbondante saliva e gli sputò in mezzo alla fronte.Quello si ripulì e disse: Dichiarerò davanti a tutti, o Lentulo, che sbagliano quelli che dicono che non hai bocca (46),

39. [Terzo punto: bisogna placare l'ira altrui ed essere cauti.] [1] Siamo già riusciti, o Novato, a dare la giusta compostezza al nostro animo; o non avverte l'irascibilità o la sa vincere.Vediamo, ora, come rabbonire l'ira altrui: non vogliamo soltanto essere sani, ma saper guarire.[2] Non ci prenderemo la libertà di rabbonire a parole il primo scatto d'ira, perché sordo e pazzo; dobbiamo concedere tempo.Le medicine giovano nei periodi di calma; non tocchiamo gli occhi gonfi, tentando di eccitarne la rigidezza col muoverli; e nemmeno le altre malattie in stato acuto: le malattie, all'inizio, si curano con il riposo.[3] Giova ben poco mi obietti la tua medicina, se placa l'ira che sta già spegnendosi da sé! In primo luogo, ne anticipa la fine; poi la mette al riparo da ricadute; infine, trarrà in inganno anche quel primo impulso che non osa placare: allontanerà tutti gli strumenti di vendetta, simulerà l'ira, per aver maggior autorità nel dare consigli in veste di aiutante che condivide il dolore, inventerà rinvii e, fingendo di cercare vendette più aspre, ritarderà quella immediata.[4] Userà ogni artificio per dar tregua al furore: se sarà molto impetuoso, gli incuterà una vergogna o un timore al quale non sappia resistere; se sarà piuttosto limitato, avvierà discorsi piacevoli o nuovi, e lo distrarrà con la curiosità.Raccontano che un medico, che doveva curare la figlia del re e non poteva farlo senza operare, mentre le applicava un fomento sulla mammella gonfia, vi introdusse il bisturi nascosto sotto una spugna: la fanciulla si sarebbe opposta, se egli avesse avvicinato lo strumento allo scoperto, ma, dato che non se l'aspettava, sopportò il dolore.Ci sono dei mali che si guariscono soltanto con l'inganno.

40. [Bisogna sfruttare la sensibilità delle persone.L'esempio di Augusto.] [1] Ad uno dirai: Fà attenzione che la tua iracondia non faccia piacere ai tuoi nemici, e ad un altro: Stà attento che non crolli la tua magnanimità e la tua ben nota fama di fortezza.Sono sdegnato anch'io, per Ercole, e non so misurare il dolore, ma si deve prender tempo; sarà punito; conserva in cuore il tuo rammarico: quando ti sarà possibile, glielo ricambierai con gli interessi.[2] Ma rimproverare un adirato e prenderlo irosamente di petto, vuol dire esasperarlo; lo avvicinerai in vari modi e con dolcezza, a meno che tu non sia uomo di tal prestigio, da poter anche spezzare la collera, come fece il divino Augusto, un giorno che cenava in casa di Vedio Pollione (47).Uno degli schiavi aveva rotto una coppa di cristallo: Vedio lo fece prendere, per mandarlo ad una morte non comune: l'ordine era di buttarlo alle grosse murene che teneva nella peschiera.Chi non avrebbe pensato che lo faceva per eccentricità? No, era crudeltà.[3] Lo schiavo sfuggì a chi lo teneva e si rifugiò ai piedi dell'imperatore, per non chiedere altro che di morire diversamente, di non esser divorato.L'imperatore rimase colpito da quella crudeltà inedita ed ordino che lo schiavo fosse rilasciato, che tutta la cristalleria fosse spezzata in sua presenza e se ne riempisse la peschiera.[4] L'imperatore doveva punire in questo modo un suo amico, ed usò bene il suo potere.Fai trascinare un uomo fuori da un banchetto, per straziarlo con un supplizio di nuovo genere? Perché si è rotto il tuo calice, debbono essere sbranate le viscere di un uomo? Sei tanto compiaciuto di te stesso da pronunciare una condanna a morte, là dove è presente l'imperatore. [5] E" così che può maltrattare l'ira colui che è tanto potente da permettersi di aggredirla dall'alto, ma purché sia un'ira quale quella di cui ho riferito, feroce, brutale, sanguinaria, che è già inguaribile se non interviene un timore più forte di lei.

41. [Epilogo: la pace dell'animo.] [1] Diamo pace al nostro animo, quella pace che deriva dalla continua meditazione dei dettami salutari, dalle azioni buone e da una mente intenta a desiderare soltanto la virtù.Pensiamo a soddisfare la nostra coscienza, senza preoccuparci della fama: ci tocchi magari cattiva, purché ce la meritiamo buona.[2] Ma la gente ammira le imprese coraggiose ed onora gli audaci: i pacifici, li giudica indolenti.A prima vista, forse.Ma non appena la coerenza della loro vita ha fatto fede che quella non è pigrizia d'animo, ma pace, quel medesimo popolo li rispetta, li onora.[3] Non porta, dunque, con sé nulla di utile, questa passione tetra ed ostile, ma porta invece tutti i mali, il ferro ed il fuoco.Calpestando ogni ritegno, s'è lordata le mani di stragi, ha disperso le membra dei figli, non ha lasciato niente libero dal delitto e, senza ricordarsi della gloria, senza temere l'infamia, è divenuta incorreggibile quando, da ira, s'è incallita in odio.

42. [Riflessione sulla brevità della vita.] [1] Stiamo lontani da questo male, ripuliamone l'anima ed estirpiamo alla radice quei germogli che, per esili che siano, attecchiranno dovunque troveranno terreno, e l'ira, non moderiamola, ma allontaniamola del tutto: come ci può essere, infatti, una giusta misura in una cosa cattiva? [2] Ci riusciremo, se sapremo sforzarci.

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Non c'è sussidio più utile che il riflettere sulla nostra condizione di mortali.Ognuno dica a se stesso ed agli altri: A che serve dichiarare la nostra ira, come fossimo nati per l'eternità, e sciupare una vita tanto breve? A che serve trasferire in dolore e tormento altrui quei giorni che possiamo impiegare nei piaceri onesti? Queste attività non sopportano perdite, e non disponiamo di tempo da sciupare. [3] Perché ci precipitiamo nella battaglia? Perché ci andiamo a cercare le lotte? Perché dimentichiamo la nostra debolezza, ci accolliamo inimicizie enormi e ci leviamo, noi fragili, per infrangere? Ben presto, una febbre o qualche malattia ci impedirà di portare a termine queste inimicizie che coviamo implacabili in seno; ben presto, la morte si metterà di mezzo, a separare i due accanitissimi avversari.[4] Perché far tumulti e turbare la vita con sedizioni? Il destino incombe sul nostro capo e tiene il conto dei giorni che passano e si avvicina sempre, e sempre più.Quell'ora che tu designi per la morte altrui, forse coincide con la tua.

43. [Finché restiamo tra gli uomini, dobbiamo essere umani.] [1] Perché non ripensi piuttosto alla tua vita breve, e non la progetti pacifica, per te e per tutti gli altri? Perché, piuttosto, non ti rendi degno d'amore per tutti, finché vivi, di rimpianto, quando te ne sarai andato? Perché vuoi tirar giù quel tale che tratta con te troppo dall'alto? Perché vuoi schiacciare con la tua forza quell'altro che ti latra contro, abietto e spregevole, ma acido e molesto a chi gli sta sopra? Perché t'arrabbi con il tuo schiavo, il tuo padrone, il tuo patrono, il tuo cliente? Abbi un poco di pazienza ed ecco: verrà la morte e vi metterà alla pari.[2] Tra gli spettacoli mattutini dell'arena (48), assistiamo di solito alla lotta di un orso e un toro, legati insieme: quando si sono tormentati a vicenda, li aspetta l'abbattitore.Noi facciamo altrettanto, assaliamo uno che è legato a noi e, intanto, pende sul capo del vincitore e del vinto la fine, e ben vicina.Trascorriamo invece in tranquillità e pace quel poco tempo che ci resta! Che il nostro cadavere non giaccia detestato da nessuno! [3] Talvolta una rissa s'è sciolta, perché nelle vicinanze s'è sentito gridare: Al fuoco!, e il sopravvenire di una belva ha separato il viaggiatore dal ladro.Non c'è tempo di lottare con i mali minori, quando si prospetta un timore più grave.E noi, quanto abbiamo a che vedere con i combattimenti e gli agguati? A colui con il quale sei adirato, auguri forse più della morte? Anche se rimani immobile, morirà.Lavori inutilmente: vuoi fare quello che accadrà.[4] Non voglio dici ucciderlo, ma infliggergli l'esilio, l'infamia, un danno.Sono più disposto a perdonare a chi augura al suo nemico una ferita, che a chi gli augura una pustola: quest'ultimo non è soltanto malvagio, ma anche vile.Che tu pensi al supplizio estremo o ai meno gravi, quanto breve è il tempo in cui quello sarà tormentato dalla sua pena, mentre tu proverai l'amara gioia della pena altrui! Stiamo già esalando il respiro! [5] Ma per ora, finché restiamo tra gli uomini, siamo umani; non siamo oggetto di paura, motivo di pericolo, per nessuno! Disprezziamo i danni, le ingiurie, gli insulti, le punzecchiature e sopportiamo, con la magnanimità, questi inconvenienti di breve durata.Il tempo di volger l'occhio, dice il proverbio, di girarci, e la morte arriva.

NOTE.Nota 1.Questa distinzione di "Greci" e "Barbari", usata da un Romano per indicare l'intero mondo, rivela l'influsso di una fonte greca.Nota 2.L'Elena di Omero.Nota 3. "Corpi impalati": seguo il Bourgery nella sola interpretazione possibile del testo ("defossis corporibus"): impossibile intendere roghi accesi sotto i corpi sepolti.Lo "scavo" evidentemente non può essere che la trafittura prodotta dal palo.Non si tratta, come vuole il Bourgery, del medesimo supplizio che fu inflitto ai cristiani, i quali vennero affissi ("adfixi") alle croci (Tac., "Ann." 15,46), ma di una variante di esso.Nota 4.Il macabro gancio, mediante il quale venivano trascinati al Tevere i cadaveri dei giustiziati.Nota 5.E" opinione comune tra gli antichi che il cielo delle stelle eserciti la sua influenza anche sui fenomeni meteorologici.Questi ultimi però si verificano nello spazio sublunare (aria).Nota 6. "La massima di Democrito" ci è tramandata da Stobeo, "Floril." 103,205.Nota 7. "Ingiuria" e "contumelia" qui sono quasi sinonimi.Non è in causa la distinzione enunciata da Seneca in "Della costanza del sapiente" (5,1) Nota 8. "M.Celio Rufo", a favore del quale Cicerone pronunciò, nel 56 avanti Cristo l'orazione "Pro Caelio".Nota 9. "Litui": trombe militari ricurve.Nota 10.L""epilessia" era malattia disdicevole.Era chiamata "morbus comitialis" (malattia dei comizi), perché il verificarsi di un caso d'epilessia provocava la sospensione delle operazioni elettorali.

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Nota 11. "Pisistrato": fu tiranno d'Atene dal 560 al 527 avanti Cristo.Nota 12.Altri, in luogo di "Speusippo", nominano Senocrate.Nota 13. "Cambise": figlio di Ciro il Grande, fu re di Persia dal 529 al 521 avanti Cristo. "Prexaspe" era suo corriere.L'aneddoto è ripreso da Erodoto, 3,34.Nota 14. "Re dei Persiani": "Astiage", ultimo re dei Medi (anni 584549 avanti Cristo).Anche questo episodio è attinto da Erodoto, 1,108.Nota 15.All'usurpatore "Gaumata il Mago", nel 521 avanti Cristo.Nota 16.L'episodio è citato anche da Cicerone, "Tusc." 4,79.Nota 17. "Lisimaco": generale di Alessandro: è una leggenda che sia stato gettato ai leoni.Nota 18.Nel 306 avanti Cristo, Lisimaco divenne re di Tracia.Nota 19. "Marco Mario Gaditano", nipote del vincitore dei Cimbri.Nota 20. "Quinto Catulo" era stato collega di consolato del grande Mario nella guerra contro i Cimbri.Nota 21. "G.Giulio Cesare Caligola".Nota 22. "In sandali": quindi in tenuta da casa.Nota 23.Si tratta di una leggenda, creata per dare un significato al nome di quella popolazione.Ma il nome era grecizzato per semplice assonanza, e quindi non interpretabile.Nota 24.Altro nome di popolazione, rifatto ad orecchio, ed interpretato fiabescamente alla greca.L'episodio che segue è ripreso da Erodoto, 3,25.Nota 25. "Ginde": affluente del Tigri.Il racconto è ripreso da Erodoto, 1,189.Nota 26.Caligola.Nota 27.Agrippina.Deve trattarsi di una delle tante persecuzioni cui Tiberio assoggettò la madre di Caligola prima d'esiliarla a "Pandataria" (Ventotene).Nota 28.Non meglio identificabile: forse si tratta di "Antigono Gonata", re di Macedonia nel 283 avanti Cristo.Attraverso molte guerre e traversie, riuscì a ricostruire l'unità nazionale della Macedonia.Nota 29. "Sileno": il mitico, deforme e sempre ebbro accompagnatore di Bacco.La sua figura era divenuta anche maschera di commedia.A Sileno, per spregio, fu paragonato Socrate (Plat. "Conv." 215a).Nota 30.Seneca confonde Filippo, figlio di Antigono, con Filippo, figlio di Aminta e padre di Alessandro.Nota 31. "Democare": oratore e storico ateniese (360-275 avanti Cristo) che ebbe vita travagliatissima e politicamente molto combattiva.Il soprannome "Parresiaste" significa "il parlaschietto".Nota 32. "Timagene di Alessandria", catturato nel 55 avanti Cristo e condotto a Roma, vi insegnò retorica e scrisse opere storiche, che furono poi utilizzate da Pompeo Trogo.Dapprima amico di Augusto, ne divenne poi mordace avversario.Nota 33. "Asinio Pollione": vecchio amico di Ottaviano e d'Antonio, fu anche mediatore tra i due nei momenti del dissenso.La sua amicizia con Timagene rientra nel costume, sempre più diffuso a Roma, di proteggere letterati e scrittori.Cfr. anche nota 53 a "Tranq." 17,7.Nota 34.Compì quel gesto ostentatamente, nel foro, per dichiarare che, in seguito alla distruzione delle sue opere, la memoria d'Augusto sarebbe svanita nel nulla.Nota 35.La tesi dell'indulgenza e comprensione verso gli schiavi è esposta da Seneca nell""Epistola" 47 a Lucilio, che suscitò scalpore al suo apparire.Ne rimase paradigmatico l'aforisma iniziale: Sono schiavi No, sono uomini.Nota 36.Secondo Plutarco ("De cohib. ira", 5) si comportava così un lottatore di nome Ctesifonte.Nota 37. "L.Tillio Cimbro", dapprima amico di Cesare, passò poi dalla parte di Bruto e Cassio.Fu lui che fingendo di consegnare a Cesare una supplica, diede il via all'assassinio del dittatore (Svet., "Cesare" 81).

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Seneca ricorda l'episodio in "Epist." 83,11.Nota 38.I consoli di prima elezione entravano in carica il primo gennaio e davano il nome all'anno.Non altrettanto accadeva dei "suffecti" che subentravano nella carica durante l'anno.Nota 39.In uno dei tanti "collegi sacerdotali": era possibile esser membri di più d'un collegio.Nota 40.I membri del collegio dei "centumviri", "giudici" delle cause civili.Nota 41.Forse è "Pompea Paolina", che, nel 65 dopo Cristo, scelse di morire con il marito e ne fu impedita da Nerone (Tac., "Ann." 15,63 64).Nota 42. "Quinto Ortensio Ortalo" (114-50 avanti Cristo), squisito oratore e rivale del giovane Cicerone, che lo ammira e lo critica in "Brut." 228-230; 301-329.Nota 43.Poco ci rimane della infelice attività poetica di Cicerone, già derisa dai suoi contemporanei (cfr. "Fragmenta Poetarum Latinorum", ed.W. Morel, Lipsiae 1927, pp. 66-78).Nota 44. "Diogene di Babilonia" (in realtà, di Seleucia), che venne a Roma nel 153 avanti Cristo Nota 45.Forse "P.Cornelio Lentulo Sura", che partecipò alla congiura di Catilina e fu catturato e messo a morte da Cicerone.Nota 46.L'espressione "os habere" ha doppio senso: "aver la bocca" ed "esser sfacciato".Nota 47. "Vedio Pollione": fortunato liberto, che riuscì a diventare cavaliere.Le poche testimonianze che abbiamo sul suo conto concordano nel dirlo ricco, grossolano e crudele.Nota 48.Tali "spettacoli" erano frequentati soprattutto dal popolino, che contava sulle distribuzioni di cibarie (Stat., "Silv." 1,5,9-20).

A MARCIA.DELLA CONSOLAZIONE."Nec unguam magnis ingeniis cara in corpore mora est: exire atque erumpere gestiunt"."Ai grandi spiriti non è mai cara una lunga dimora nel corpo: sono impazienti d'uscire, di balzar fuori".(23,2).

PREFAZIONE.La figura di Marcia dedicataria del dialogo.Aulo Cremuzio Cordo, senatore e storiografo, era inviso a Seiano.Nel 25 dopo Cristo, fu accusato di un delitto nuovo, mai prima udito e l'accusa era presentata da due satelliti di Seiano, Satrio Secondo e Pinario Natta: Cremuzio, nei suoi "Annali", aveva elogiato i cesaricidi Bruto e Cassio e aveva definito Cassio l'ultimo dei Romani (Tac., "Ann." 4,34).Cremuzio pronunciò una pacata e coraggiosa difesa poi, certo della condanna, rincasò e si lasciò morire di inedia.Gli edili ebbero l'ordine di bruciare i suoi libri, ma sopravvissero, nascosti e poi pubblicati.Una ragione di più per deridere la dissennatezza di coloro che, siccome al momento dispongono del potere, si pensano in grado d'estinguere anche la memoria delle età successive (Tac., "Ann." 4,37) A Marcia, la nobile e coraggiosa figlia di Cremuzio, Seneca riconosce il merito d'aver serbato quei libri e d'averli poi fatti pubblicare (1,3).Erano ormai passati tanti anni, ed erano tanto lontani anche i tempi in cui essa, donna di mondo e dama di corte, aveva goduto delle confidenze di Livia, moglie di Augusto, morta nel 29 dopo Cristo Nel frattempo, Marcia aveva visto dissolversi la propria famiglia.Non aveva più marito: vedova o divorziata? Seneca comunque le parla come a donna che non può contare su altri che su se stessa.Dei quattro figli, due maschi e due femmine, i maschi non erano più.Alla perdita del primo s'era ormai rassegnata (16,7), ma non alla perdita del secondo, Metillo, che s'era tolto la vita tre anni prima, lasciando due figliolette.Alla tragedia, Marcia sembrava aver ceduto di schianto.S'era chiusa in un dolore muto, ostile, ed usciva di casa soltanto per correre alla tomba del figlio (25,1).Seneca le invia il suo opuscolo.Siamo negli anni di Caligola (37-41 dopo Cristo; cfr.A. Traglia, ediz., Roma 1965, pp. 6-7): lo scrittore è alle sue prime esperienze.Lo dimostra un dettato che sta ancora cercando la giusta misura ed oscilla tra le suggestioni oratorie e la brusca esposizione.Una declamazione (Arèo: 4,3 ss.), intere diatribe, magari introdotte da un bravo apologo (12; 17-18), lunghe serie d'esempi classificati per categorie (14-16,4), una rievocazione del suicidio di Cremuzio (22,4-8) ed una sua ipotiposi conclusiva (24,426) interrompono un discorso che vorrebbe essere piano, convincente, penetrante.

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Caratteristiche della consolazione nella letteratura antica.Nel secolo di Seneca, la letteratura latina "sulla morte" conosceva le "laudationes", orazioni funebri risalenti a tradizione romana antichissima, le "consolationes" ed i trattati "De consolatione".Le "consolazioni" sono opera di poeti.Nella pseudoovidiana "Consolazione a Livia" (la moglie d'Augusto) e nelle cinque "consolazioni" contenute nelle "Selve" di Stazio, la critica ama rintracciare una topica fedele ai precetti di Menandro di Laodicea, un retore del Terzo secolo avanti Cristo, autore d'un fortunato manuale sul discorso epidittico.Lo schema era così definito: opportunità della "consolazione"; elogio del defunto; descrizione della malattia, morte e sepoltura; viaggio dell'ombra agli inferi o sua ascesa al cielo (catasterismo); riflessioni conclusive sulla sorte comune dei mortali e del caduco mondo, sul conforto che il pianto dei vivi arreca al defunto, sulla sopravvivenza del defunto nella memoria dei vivi.Non mancano certo gli spunti anche per una sana ispirazione poetica, se il poeta è davvero tale, e nemmeno manca la possibilità d'attingere acqua alle sorgenti della filosofia, ma la vitalità del componimento rimane affidata alla sensibilità del poeta al delicato mondo degli affetti.Lo scritto "Della consolazione" è invece di matrice filosofica: è un trattatello che suggerirà al dolente gli spunti d'una "filosofia del dolore", tagliata a misura d'uomo e di circostanza.L'autore ricorre di preferenza al procedimento della diatriba e riconosce come suo modello un fortunatissimo scritto di Crantore di Soli (335-275 avanti Cristo; cfr.G. Reale, "Storia della filosofia antica" cit., IlI, p.119), l'ultimo rappresentante della vecchia accademia.Non possediamo più quello scritto: divulgato con il titolo "Sul dolore", divenne modello degli innumerevoli trattati "Della consolazione" composti nell'antichità.Nella Roma stoica dell'epoca di Seneca, erano vive le conseguenze della mediazione di Posidonio, il neostoico che, a giudizio di Cicerone, aveva infranto la fredda apatia di Cleante ("Tusc.Disp." 2,60-61).Mediatore filosofico e letterario di quelle dottrine era stato Cicerone: colpito, nel 45 avanti Cristo, dalla dolorosa perdita della figlia Tulliola, aveva composto una "Consolazione a se stesso", della quale leggiamo alcuni frammenti in Lattanzio, ed aveva condensato la dottrina "sul dolore" nel libro terzo delle "Tuscolane", concedendo ampio onore e misurato consenso anche a Crantore: Noi non siamo di pietra: nei nostri animi c'è sensibilità e debolezza che il dolore può scuotere come una tempesta [...], se mi ammalerò, vorrò essere sensibile al taglio del chirurgo ed all'amputazione ("Tusc." 3,12).Chi sarebbe tanto folle da tormentarsi da sé? E" la natura che produce "il dolore" (ivi, 71).Il mondo degli affetti era di casa nei trattati "Della consolazione": ignorarlo sarebbe stato un porsi fuori dell'umanità.La scelta delle argomentazioni era invece ampiamente condizionata dalle circostanze e dalle persone.Ciò comportava una capillare assimilazione dello spirito e delle tecniche della retorica, l'arte di rendere convincenti, penetranti, gli elaborati della logica, Si dovevano fare discorsi "ad hominem" e "de re", ma anche discorsi attuali o, addirittura, occasionali, dato che il dolore doveva essere anch'esso attuale e non lo si poteva affrontare con argomentazioni obsolete.Una sottile conoscenza della psicologia, una espositiva capace d'ammorbidire il processo logico in forme suadenti finivano con il collocare questi scritti a cavaliere tra filosofia e letteratura.Era il tipo di lavoro per il quale Seneca era ottimamente attrezzato.D'altra parte, in quell'epoca, ogni filosofo era oratore: declamava nella scuola, nei circoli e, all'occorrenza, nelle terme e nei quadrivi.Una filosofia non eloquente si sarebbe subito estinta.Tra i maestri che entusiasmarono Seneca giovinetto, figurano lo stoico Attalo ed il "sestiano" Fabiano, che Seneca ricorda nelle "Epistole" quasi esclusivamente come oratori.Su Fabiano è illuminante l""Epistola" 40,12; di Attalo citiamo un passo di declamazione consolatoria che rimase impresso nella memoria di Seneca: Il ricordo degli amici defunti ci è gradito come il sapore asprigno di certi frutti o come ci piace l'amarore d'un vino troppo vecchio.Se poi il tempo passa, s'estingue tutto ciò che ci stringeva il cuore ed entra in noi una voluttà pura (Sen., "Ep." 63,5).Analisi di struttura del dialogo.Il "Della consolazione a Marcia" s'apre con una "antitesi" dilemmatica: il disperato lutto d'Ottavia è contrapposto al pacato dolore di Livia.Seneca può contare sulla cultura di Marcia che professa lo stoicismo, forse ereditato dal padre.L'apologo del viaggio a Siracusa divide decisamente il dialogo in due sezioni, tenute a livelli diversi, propedeutico la prima, progredito la seconda.Sezione prima (cc. 4-12).1) Cc. 4-5: un principio generale.In nessuna situazione, nemmeno nel dolore, l'uomo può sentirsi dispensato dal suo dovere di comunicare con gli altri e, in particolare, con gli amici.2) Cc. 6-12: un richiamo teoretico ed una norma pratica: a) la psicologia stoica contrappone l'impulso irrazionale (pianto) alla razionalità dei sentimenti umani (cc. 6-8).Il raffronto con i bruti (7,2) e la nota sull'azione livellatrice del tempo (c. 8) riportano il discorso nello squisito ambito

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psicologico; b) l'uomo deve vivere nella coscienza della provvisorietà d'ogni suo avere, vita compresa (cc. 9-12).Nel c. 12, emerge l'impostazione diatribica, soprattutto a 12,3, ove Seneca si sofferma a ribattere quelle credenze comuni delle quali invece facevano tesoro le "consolazioni" poetiche.Cfr.Cic., "Tusc." 3,72: Sono tante le cause che ci fanno concepire il dolore: in primo luogo, quel modo acritico d'osservare il male, da cui nasce il convincimento che esso debba inevitabilmente risultare doloroso; poi, credono di fare cosa gradita ai morti se li piangono inconsolabilmente.Vi s'aggiunge una superstizione da donne: si crede di dar maggior soddisfazione agli dèi, confessandosi schiacciati ed abbattuti dal colpo che essi hanno inferto.Sezione seconda (cc. 17-23).I cc. 17-18 ne costituiscono il prologo: la vita è sapienza, se è responsabile e cosciente accettazione della vicenda umana, con le sue gioie ed i suoi dolori.E" quindi introdotto il discorso generale sull'eutimia, ma Seneca svolgerà soltanto il tema della morte: 1) C. 19,1-5: la morte come fatto fisico non è nulla, perché non le si può attribuire la qualifica di "essere" (19,5).2) C. 19,5-20,3: la morte come fatto morale.E" liberazione dalle passioni.Come tale, la morte prematura è un bene.3) C. 23: la morte come fatto liberatorio, in prospettiva cosmica.Ai grandi spiriti non è mai cara una lunga dimora nel corpo: sono impazienti d'uscire, [...] avvezzi come sono ad innalzarsi al cielo, per spaziarvi e guardare dall'alto le vicende umane (23,2).I cc. 24-26 sono conclusivi.Il cenno alla "compagnia sacra degli Scipioni e dei Catoni" (25,2) è generica reminiscenza del "Somnium Scipionis" di Cicerone.La perorazione di Cremuzio aggiunge al riassunto dei temi già toccati un cenno più oratorio che filosofico alla conflagrazione finale stoica ("ekpyrosis": 26,6-7).Il problema della morte.Questo è il solo dialogo in cui Seneca affronti il tema della morte direttamente, non per riflesso.Il negare alla morte un essere o corporeità (per gli stoici, "essere" equivale a "corpo"), il prospettarne la funzione liberatoria e catarticaestratemporale, sono altrettante tappe del faticoso cammino stoico. "Liberazione" è dunque il tentativo di cogliere il contenuto dell'essere umano, prescindendo dal "tempo" (caducità) e dal "quanto" (materialità, ciò che colpisce soltanto i sensi).Il punto d'arrivo vuol essere un "quale": la razionalità.Innegabilmente, è un cammino arduo e coraggioso.Ma quel "quale", quel "razionale" rimane smarrito e senza meta.Di fatto esso non è il prodotto di tanta fatica, ma ne è lo strumento.Un singolare strumento che, ultimato il lavoro, si sente certamente soddisfatto, ma privo d'ulteriori proposte.

A MARCIA.DELLA CONSOLAZIONE.1. [Proemio: il lutto di Marcia.] [1] Se non sapessi, o Marcia, che sei ben lontana tanto dalla fragilità d'animo propria delle donne, quanto da tutti gli altri difetti, e che si guarda ai tuoi costumi come ad uno degli antichi esempi, non oserei osteggiare il tuo dolore, un sentimento al quale anche gli uomini s'attaccano e custodiscono gelosamente, né avrei concepito la speranza di indurti ad assolvere la tua sorte, in una occasione tanto sfavorevole, davanti ad un giudice tanto ostile e ad un delitto tanto odioso.Mi hanno dato fiducia la tua comprovata forza d'animo e la tua virtù, che si è messa in luce in una dura prova.[2] Tutti sanno come ti sei comportata nei confronti di tuo padre che non amavi meno dei tuoi figli, a parte che non desideravi ti sopravvivesse (1); ma forse lo desideravi: una grande pietà può permettersi di andare, in parte, contro le convenienze.Hai impedito, nei limiti del possibile, il suicidio di tuo padre, Aulo Cremuzio Cordo.Ma non appena ti è stato chiaro che, in mezzo agli sgherri di Seiano, quella era la sola strada aperta per sfuggire alla schiavitù, non hai assecondato il tuo proposito, ma ti sei arresa e data per vinta ed hai versato lacrime davanti a tutti.Certo, hai soffocato i gemiti, ma non li hai mascherati dietro un volto allegro, e tutto questo, in un'epoca in cui era grande pietà il non peccare d'empietà (2).[3] Non appena le mutate circostanze te ne hanno offerto l'occasione, hai rimesso a disposizione di tutti l'opera del genio di tuo padre, che era stata il pretesto per la sua condanna, ed hai sottratto lui alla vera morte, restituendo alle pubbliche memorie quei libri che aveva scritto con il suo sangue.Sei veramente benemerita della cultura romana: quei libri, in gran parte, erano stati bruciati; benemerita per la posterità, alla quale arriverà una testimonianza incorrotta dei fatti, addebitata a tanto caro prezzo al suo autore; benemerita di lui, la cui memoria vive e vivrà, finché sarà prestigiosa la conoscenza del mondo romano, finché ci sarà un uomo che voglia risalire alle gesta dei padri, finché qualcuno vorrà sapere che cosa sia un uomo romano, un uomo indomito quando tutti avevano piegato la testa e subìto il giogo di Seiano, un uomo libero di genio, d'animo e d'azione.[4] Per Ercole, sarebbe grave iattura per lo Stato, se tu non lo avessi riportato alla luce dopo che era stato sepolto nell'oblio per le sue due migliori doti: l'eloquenza e la libertà.

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Lo si legge, ha successo: accolto in tutte le mani, in tutti i cuori, non teme più il tempo; dei suoi carnefici, invece, ben presto non si racconteranno più nemmeno i delitti, le sole azioni che li fanno passare alla storia.[5] Questa tua magnanimità mi ha impedito d'aver riguardo al tuo sesso, al tuo volto, che si coprì allora ed è ancor oggi coperto di un velo di tristezza.Osserva: io non penso di sottrarre nulla, di soppiatto o con sotterfugio, ai tuoi sentimenti.Ti ho rievocato antiche sventure e, perché tu sapessi che anche questa piaga può guarire, ti ho proposto in qual modo può cicatrizzarsi una piaga profonda quanto la tua.Agiscano altri con carezze e smancerie: io intendo lottare contro il tuo struggimento e fermare le lacrime dei tuoi occhi, ormai stanchi ed esausti, che scorrono, se accetti la verità, più per abitudine che per dolore, collaborando tu al rimedio, se sarà cosa possibile, altrimenti contro la tua volontà e nonostante tu trattenga e stringa tra le braccia quel dolore che vuoi che ti sopravviva in luogo di tuo figlio.[6] Ma come finirà? Tutti i rimedi tentati, sono risultati vani: gli amici che si spossano a parlarti, i personaggi illustri della tua parentela che impegnano il loro prestigio, lo studio, che è la vera eredità di tuo padre, passano invano davanti ai tuoi orecchi e ti recano un inutile sollievo che lusinga, appena per pochi istanti, la tua attenzione.Anche il tempo, la medicina della natura, che riesce a placare gli affanni più gravi, contro di te ha sciupato la sua forza.[7] Sono già passati tre anni, e non s'è per nulla attenuata l'originaria vivezza del tuo dolore; il lutto si rinnova ogni giorno e si rinforza, la continuità ha accampato i suoi diritti ed è giunta addirittura a convincerti che sia un disonore smettere.Come tutti i vizi si insediano in profondità, se non li schiacciamo al loro insorgere, così anche questi sentimenti, tristi, miserevoli e feroci contro se stessi, finiscono col pascersi della loro amarezza ed il dolore diventa la perversa voluttà dell'animo infelice.[8] Avrei desiderato iniziare questa cura nei primi tempi: il male, nella sua fase iniziale, si sarebbe potuto circoscrivere con cure più blande; la lotta contro i mali inveterati è inevitabilmente più dura.Anche le ferite si curano più facilmente, quando cominciano appena a sanguinare, ma è necessario il cauterio, bisogna rintracciarle nel profondo delle carni ed affondarci le dita, quando si sono infettate e sono degenerate in piaghe putrescenti.Non mi è possibile, ora, trattare con riguardo e delicatezza un dolore tanto persistente: lo devo spezzare.

2. [Esempio del dolore disperato di Ottavia.] [1] So che, di norma, chi vuole impartire ammonimenti comincia dalle regole e conclude con gli esempi.Nel nostro caso conviene sovvertire quest'uso.Con una persona si procede in un modo, con un'altra in un altro; alcuni si lasciano guidare dai ragionamenti, altri debbono esser messi di fronte a nomi illustri e ad una autorità capace di influire sulle loro scelte.[2] Tu ammiri le azioni di grande risonanza; ti porrò davanti agli occhi due sommi esempi del tuo sesso e del tuo tempo: una donna che si è lasciata travolgere dal dolore e un'altra che, colpita da uguale disgrazia e con più grave danno, non s'è lasciata dominare a lungo dai suoi mali, ma ben presto ha saputo tornare al suo consueto stato d'animo.[3] Ottavia e Livia, l'una sorella, l'altra moglie, di Augusto, persero i loro giovani figli, ambedue quando erano certe che sarebbero succeduti nell'impero.Ottavia aveva perduto Marcello, del quale lo ziosuocero (3) aveva stabilito di fare il suo sostegno, addossandogli il peso del governo; un giovane proteso all'azione, pieno di temperamento, di una frugalità e continenza che destavano non poca ammirazione, in quei tempi e tra quelle ricchezze; infaticabile, alieno dai piaceri, capace di reggere a qualunque carico che lo zio gli imponesse o a tutto ciò che, per così dire, gli costruisse sulle spalle.Augusto aveva scelto avvedutamente le fondamenta capaci di portare qualunque peso.[4] Ottavia, per tutto il resto della sua vita, non smise mai di piangere e gemere e non accettò mai parole intese a recarle conforto; non accettò neppure distrazioni di sorta, tesa com'era ad un solo pensiero ed esclusivamente fissata in quello.Rimase per tutta la vita quella che era stata il giorno del funerale.Non dico che non osò risollevarsi, ma che rifiutò ogni conforto, come se rinunciare alle lacrime equivalesse a perdere un'altra volta il figlio.Non volle avere nessun ritratto del figlio amatissimo, non permise mai che glielo ricordassero. [5] Detestava tutte le madri ed era particolarmente astiosa contro Livia, al cui figlio sembrava essere passata quella felicità che era stata promessa a lei.Praticando abitualmente il buio e la solitudine e mancando di riguardo anche al fratello, rifiutò i carmi composti per celebrare la memoria di Marcello (4) e le altre iniziative in suo onore, e non volle ascoltare nessuna consolazione.Astenendosi dalle cerimonie ufficiali e detestando addirittura il troppo splendido successo di grandezza del fratello, si seppellì nel nascondimento.In compagnia dei figli e dei nipoti, non depose mai gli abiti di lutto, non senza risentimento di tutti i suoi, davanti ai quali, vivi e vegeti, si comportava come se fosse rimasta sola al mondo.

3. [Esempio del dolore composto di Livia.] [1] Livia aveva perduto il figlio Druso che doveva diventare un grande imperatore ed era già un grande generale.Era penetrato nel cuore della Germania ed aveva piantato le insegne di Roma in una regione dove l'esistenza dei Rorrani era sì e no conosciuta.Era morto durante la spedizione (5); anche i nemici ne avevano seguito rispettosamente la malattia ed avevano indetto

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una tregua, senza neppure osare di augurarsi quell'evento che sarebbe tornato a loro vantaggio.Quella morte, che egli aveva incontrato mentre serviva lo Stato, era accompagnata dal vivo rimpianto dei cittadini, degli abitanti delle province e di tutta l'Italia, che fu attraversata, fino a Roma, da un corteo funebre simile ad un trionfo, mentre le popolazioni dei municipi e delle colonie si riversavano sul percorso, per rendere l'estremo omaggio.[2] Alla madre, non era stato possibile raccogliere gli ultimi baci del figlio, le ultime parole d'affetto della sua bocca di morente.Con un lungo viaggio, seguì le reliquie del suo Druso; i roghi, che ardevano in tutta Italia, esasperavano il suo dolore, come se perdesse il figlio altrettante volte, ma non appena lo depose nel sepolcro, seppellì con lui anche il suo lutto e non si dolse più di quanto lo permettesse il riguardo per l'imperatore o la giustizia nei confronti dell'altro figlio superstite.In seguito, non cessò di esaltare il nome di Druso, di tenerne continuamente in vista le immagini, in privato e in pubblico, di parlare molto volentieri di lui, di sentirne parlare: visse con il suo ricordo, un ricordo che non può essere mantenuto o celebrato da chi ne ha fatto la propria disperazione.[3] Scegli, tra i due esempi, quello che ti sembra più degno di lode.Se decidi di seguire il primo, ti separi dal numero dei viventi: disconoscerai i figli degli altri, poi i tuoi, poi quello stesso che rimpiangi; sarai presagio di lutto per le madri che incontri (6); rifiuterai i piaceri onesti e leciti, come disdicevoli alla tua sorte; non saprai staccarti da una vita che ti è odiosa e detesterai, più d'ogni altra cosa, i tuoi anni che non ti trascinano al precipizio, ad una fine immediata; poi, cosa quanto mai vergognosa ed aliena dal tuo animo, che so ben superiore, darai prova di non voler vivere e di non saper morire.[4] Se ti volgerai al secondo esempio, di giusta moderazione e di mitezza, che ti offre una donna nobilissima, non resterai nell'affanno, non ti struggerai nel tormento.Che insensatezza è, diamine, punirsi della propria infelicità ed aumentare da sé i propri mali! Quella probità e verecondia di costumi che hai osservato in tutta la tua vita, la osserverai anche a questo proposito, perché anche il dolore ha un suo ritegno.Quello stesso giovane, degnissimo di darti sempre gioia quando lo nomini o lo pensi, lo porrai in più onorata sede, se potrà ripresentarsi a sua madre, come faceva da vivo, sempre sereno e gioioso.

4. [Come il filosofo Arèo consolò Livia.] [1] Non ti impartirò precetti troppo duri, non ti ordinerò di sopportare vicende umane in modo sovrumano, non oserò asciugare gli occhi di una madre proprio nel giorno dei funerali.Verrò con te da un arbitro e ci domanderemo questo: il dolore deve essere grande o eterno? [2] Sono certo che preferisci l'esempio di Giulia Augusta (7), della quale sei stata intima: è lei che ti invita a seguire la sua scelta. Essa, nel primo ardore, quando gli sciagurati sono più intolleranti ed indomiti, si affidò, per esserne consolata, ad Arèo, il filosofo (8) di suo marito, ed ammise che quella esperienza le era giovata molto: più del popolo romano, che non voleva rattristare con la propria tristezza, più di Augusto che, perduto il suo secondo sostegno, barcollava e non doveva essere mortificato dalle sue lagnanze; più del figlio Tiberio, la cui pietà aveva fatto sì che quella morte acerba, compianta dalle genti, non venisse avvertita se non come perdita di uno dei figli.[3] Arèo, penso che si sia introdotto così, che abbia avviato così il discorso davanti ad una donna che voleva intatto, prima di tutto, il suo buon nome: Fino ad oggi, o Giulia, per quanto posso sapere io, che accompagno abitualmente tuo marito, che conosco non soltanto ciò che dichiarate in pubblico, ma anche i più segreti fremiti delle vostre anime, hai evitato che accadesse cosa di cui ti si potesse muovere il minimo appunto; non solo nelle azioni più importanti, ma anche nelle minime, ti sei attenuta a questa regola: non fare nulla di cui dovessi chiedere perdono all'opinione pubblica, la più spregiudicata accusatrice dei prìncipi. [4] Per me, nulla è più bello del vedere che i detentori dell'autorità suprema possono perdonare molte cose, senza dover chiedere perdono di nessuna.Anche in questa circostanza, dunque, devi tener fede al tuo costume di non fare nulla che vorresti o non fatto, o fatto altrimenti.

5. [Prosegue il discorso di Arèo.] [1] Poi ti prego e scongiuro di non mostrarti scontrosa ed intrattabile con le persone amiche.Ti rendi certamente conto che tutti costoro non sanno come comportarsi, se dire in tua presenza qualche parola su Druso o nessuna, perché temono di far ingiuria a quel glorioso giovane non ricordandolo, o di farla a te con il ricordarlo [2] Noi, quando ci riuniamo per conto nostro, commemoriamo le sue azioni e le sue parole con l'ammirazione che meritano, ma, in tua presenza, osserviamo su di lui un rigoroso silenzio.Ti manca, dunque, la maggior soddisfazione: le lodi di tuo figlio che tu, ne sono certo, vorresti estendere ad ogni tempo, anche a prezzo della tua vita, se fosse possibile. [3] Accetta dunque, anzi avvia tu stessa le conversazioni in cui si parli di lui, ascolta volentieri chi te lo nomina e te lo ricorda e non ritenere ciò doloroso, come fanno tutti quelli che, in situazioni del genere, ritengono faccia parte della loro disgrazia il dover ascoltare parole di conforto.[4] Ora ti sei posta completamente sul versante opposto e guardi soltanto gli aspetti deteriori della tua sorte, dimenticandone i lati buoni.Non ritorni a quando tuo figlio viveva con te, ti veniva incontro lieto, alle sue dolci carezze di bimbo, ai suoi progressi nello studio: tieni presente soltanto l'ultimo volto della tua vicenda e a quello, come se non fosse già da sé abbastanza orrendo, aggiungi quanto puoi.No, ti prego, non cercarti il più perverso dei vanti, essere stimata la donna più infelice! [5] Contemporaneamente, rifletti che non è grande impresa mostrarsi coraggiosi nella prosperità, quando la vita scorre tutta a nostro favore.

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Un mare tranquillo ed un vento favorevole non possono mettere in evidenza l'arte di un nocchiero: è necessario che sopravvenga qualche avversità che ne dimostri la maestria.[6] Dunque, non ti abbattere, anzi figgi il piede ben fermo a terra e reggi a tutto il peso che t'è caduto addosso, permettendoti soltanto l'attimo di spavento del primo urto.Per disdegnare la malasorte, non c'è mezzo migliore della imperturbabilità.Dopo di che, le parlò del figlio superstite e dei nipoti, figli del morto.

6. [Proposizione del quesito: vale la pena di piangere?] [1] In quell'occasione, o Marcia, si trattò il tuo caso, Arèo assisté te.Mettiti al posto di quella donna: ha consolato te.Ma pensa pure, o Marcia, che la perdita che ha colpito te sia più grave di quelle di qualunque altra madre.Non voglio usare eufemismi e sottovalutare la tua sciagura. [2] Se il destino si sconfigge piangendo, piangiamo tanto: l'intera giornata passi nel duolo, la tristezza riempia le nostre notti insonni; piantiamoci le mani nel petto e laceriamolo, aggrediamo anche il volto, e lo struggimento, dato che deve aiutarci, metta in atto ogni possibile spietatezza.Ma se le lacrime non fanno tornare in vita nessun morto, se il destino immutabile e fisso per l'eternità non può tener conto della disperazione e la morte si tiene quello che ci ha portato via, basta con un dolore che non giova a nulla.[3] Perciò, dominiamo noi stessi: codesta forza non deve trascinarci fuori strada! E" vergogna per un pilota che i flutti gli portino via il timone, che le vele svolazzino abbandonate, che la nave sia lasciata in balìa della tempesta: ma merita lode colui che, anche se subisce naufragio, viene travolto dall'onda, stretto ancora ed aggrappato al timone.

7. [Risposta al quesito: un pianto esagerato non è consono a natura.] [1] Ma è secondo natura il rimpianto per i cari Chi dice di no, purché rimanga nei giusti limiti? E" inevitabile una fitta, un abbattimento, anche per gli animi più forti, quando le persone care si allontanano, non soltanto quando muoiono.Ma il pregiudizio aggiunge molto a quanto la natura comanda.[2] Guarda come sono impetuose le manifestazioni di dolore degli animali bruti, eppure quanto poco durano: le vacche, le sentiamo muggire per un giorno o due, e non dura di più il correre svagato ed insensato delle cavalle; le belve, dopo aver errato per la foresta in cerca delle orme dei loro piccoli, spesso, quando rientrano nella loro tana vuota, estinguono la loro rabbia in breve tempo; gli uccelli si agitano con grande stridio attorno ai nidi vuoti ma poi, in un attimo, riprendono tranquilli i loro voli.Non c'è nessun animale che rimpianga a lungo i propri figli, tranne l'uomo, che aiuta il suo dolore e non ne è colpito nella misura in cui lo avverte, ma in quella che si è prestabilito.[3] Se vuoi renderti conto che non è secondo natura lasciarsi abbattere da un lutto, osserva che la medesima perdita ferisce, in primo luogo, più le donne che gli uomini, poi, più i barbari che i membri di una popolazione civile ed istruita, più gli ignoranti che i dotti.Eppure gli esseri che hanno ricevuto la loro forza da natura, la conservano tale e quale verso tutti: è chiaro che non risponde a natura ciò che si verifica in misura diversa.[4] Il fuoco brucerà persone di ogni età, abitanti di ogni città, maschi e femmine; il ferro mostrerà su ogni corpo la sua capacità di tagliare: perché? Perché questi esseri hanno ricevuto la loro forza dalla natura, la quale non legifera per casi singoli.La povertà, il lutto, il disprezzo, c'è chi li sente in un modo e chi in un altro, a seconda che s'è lasciato guastare dall'uso comune e rendere debole ed impaziente da una terrificante valutazione preconcetta di cose che non c'è ragione di temere.

8. [Il tempo smorza il dolore.] [1] Inoltre, quello che è secondo natura, non diminuisce col tempo.I tempi lunghi diminuiscono il dolore: anche il più ostinato, che si rinnova ogni giorno e si ribella alle cure, finisce snervato dal tempo, efficacissimo nello smorzare ogni fierezza.[2] Tu, o Marcia, sei ancora presa da una profonda tristezza che sembra aver fatto ormai il callo; non è più impetuosa com'era inizialmente: è tenace, ostinata; eppure l'età te la porterà via, pezzetto per pezzetto.Ogni volta che farai dell'altro, l'animo tuo si distenderà.Ora, monti di guardia a te stessa, ma sono due cose molto diverse il permettersi il pianto e l'imporselo.[3] Quanto meglio s'addice alla squisitezza dei tuoi costumi l'essere tu a porre fine al tuo lutto che l'aspettare, e non incontrare mai, il giorno in cui il dolore ti lasci tuo malgrado! Sii tu dunque a rinunciare!

9. [L'uomo non sa vedere nel dolore una realtà quotidiana.] [1] Allora, donde viene tutta questa nostra ostinazione nel pianto, se non è legge di natura? Dal fatto che non ci poniamo davanti agli occhi nessun male prima che accada, ma, come se ne fossimo esenti e percorressimo una strada più liscia di quella degli altri, non sappiamo imparare dalle disgrazie altrui che esse possono capitare a tutti.[2] Tanti funerali passano davanti a casa nostra ma non pensiamo alla morte; tante morti premature, ma noi sogniamo il giorno della toga dei nostri piccini, il loro servizio militare, la loro successione nell'eredità paterna.Ci è capitato di vedere con i nostri occhi l'improvvisa povertà di molti ricchi, ma non ci è mai venuto in mente che le nostre ricchezze sono altrettanto labili.E" dunque inevitabile che il crollo risulti più grave, perché la ferita ci coglie quando non ce l'aspettiamo; quelle che sono state previste da tempo, arrivano più lente.

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[3] Ti vuoi render conto che sei un bersaglio eretto per tutti i colpi e che quei dardi, che hanno colto altri attorno a te, erano diretti a te? Compòrtati come se andassi, quasi inerme, all'assalto d'un muro o d'un caposaldo presidiato da molti nemici, su una china ripida; aspèttati la ferita e pensa che quei sassi, frecce, giavellotti, che ti passano sopra la testa, erano stati scagliati contro te.Ed ogni volta che uno cade, al tuo fianco o dietro di te, grida: Non mi coglierai di sorpresa, o Fortuna, non riuscirai a schiacciarmi, perché imprevidente o spensierato.So che cosa prepari: hai colpito un altro, ma miravi a me [4] Chi ha mai pensato ai suoi beni come a cose caduche? Chi di noi ha mai osato prospettarsi l'ipotesi dell'esilio, della povertà, di un lutto? Chi, se si sentisse ammonire di pensarci, non rifiuterebbe la cosa come fosse di malaugurio e non imprecherebbe che tutto questo si scarichi sulla testa dell'importuno consigliere? [5] Non avrei mai creduto che potesse accadere.Credi proprio che non accadrà mai nulla di quello che sai che può accadere, che vedi accaduto a molti? C'è un verso bellissimo e che avrebbe meritato di nascere in una sede più dignitosa (9), non su un palcoscenico: A chiunque può accadere quel che accade a tutti.Quel tizio ha perduto i figli: puoi perderli anche tu; quell'altro è stato condannato: anche la tua innocenza può essere colpita.Questo è l'errore che ci inganna ed indebolisce, al momento in cui subiamo quei mali che non abbiamo mai previsto di poter subire.Toglie ai mali che si presentano la loro forza, colui che li ha saputi prevedere.

10. [La vita è tutta caducità e sofferenza.] [1] Quali che siano, o Marcia, tutti questi beni avventizi che ci rifulgono attorno, i figli, gli onori, le ricchezze, gli atrii spaziosi ed i vestiboli zeppi di clienti esclusi dall'udienza, la moglie nobile o bella e tutte le altre cose, appese al filo d'una sorte incerta e mutevole, sono magnificenze non nostre: le abbiamo a prestito.Di tutto questo, niente è regalato.La scena è arredata con mobili raccogliticci che debbono tornare ai loro padroni: alcuni saranno restituiti il primo giorno (10), altri il secondo, ben pochi rimarranno fino all'ultimo.[2] Perciò non abbiamo motivo di vantarcene, come se ci trovassimo in mezzo al nostro: è roba imprestata.Ne godiamo un usufrutto, la cui durata è stabilita dal supremo datore del dono: ci è necessario riservarci la disponibilità di quanto ci è stato prestato a scadenza incerta, per poterlo restituire senza proteste, a richiesta: i peggiori debitori sono quelli che fanno lite al creditore.[3] Tutti i nostri cari, sia quelli che desideriamo ci sopravvivano per legge di nascita, sia quelli che giustamente si augurano di precederci (11), dobbiamo amarli, ben sapendo che non ci è stata fatta promessa di sorta sulla loro immortalità, tanto meno sulla loro longevità.Dobbiamo ripetere continuamente a noi stessi che le cose vanno amate, ben sapendo che ci verranno meno, anzi, che cominciano già a mancarci: possiedi tutto ciò che la fortuna ti ha dato, come un bene non coperto da nessuna malleveria.[4] Prendete piacere dai vostri figli, e subito, e a vostra volta, fatevi godere da loro, bevete la gioia fino all'ultima stilla; nessuna promessa arriva a stanotte (12).Anzi, vi ho dato una scadenza troppo lunga: non vi è garantita un'ora.Bisogna far presto, l'inseguitore ci fiata sul collo: presto questa compagnia sarà dispersa, questa convivenza sarà sciolta, tra un levarsi di grida.La vita è tutta un saccheggio: miserabili, non sapete vivere fuggendo! [5] Tu piangi la morte di tuo figlio, ma il delitto è stato compiuto quando è nato: la sentenza di morte gli è stata notificata al momento della sua nascita.Ti era stato dato a questa condizione, questo fato lo seguiva fin dal grembo materno.[6] Noi siamo approdati nella tirannide dura ed invincibile della fortuna, e siamo destinati a subire, a suo arbitrio, vicende meritate e non meritate.Essa abuserà con prepotenze, ingiurie e crudeltà, del nostro corpo: alcuni saranno bruciati da fuochi accesi per punire o per medicare; altri finiranno sconfitti ad opera di nemici o di concittadini; altri saranno sbattuti, indifesi, in balìa del mare e, dopo aver lottato con i flutti, non verranno neppure buttati su un arenile o una sponda, ma finiranno sepolti nel ventre di qualche cetaceo (13); altri rimarranno a lungo sospesi tra vita e morte, macerati da malattie di ogni genere.Si comporterà come una padrona capricciosa ed arbitraria, che non si dà pensiero dei propri schiavi, e sbaglierà nel punire e nel premiare.[7] Che bisogno c'è di piangere vicende singole? (14) Tutta la vita è da piangere: nuovi disagi ci incalzeranno, prima che abbiamo pagato lo scotto dei vecchi.Voi donne, soprattutto, controllatevi, perché siete particolarmente sensibili, e dovete suddividere tra i molti dolori le forze del cuore umano.

11. [Fragilità del corpo umano.] [1] E che cosa è questo dimenticare la condizione tua e di tutti? Sei nata mortale ed hai partorito dei mortali; sei un corpo infermo e caduco, pieno di disturbi, e ti sei illusa di portare, in un materiale tanto debole, degli esseri robusti ed immortali? [2] Tuo figlio è morto: cioè ha già raggiunto quel traguardo verso il quale corrono tutti coloro che stimi più felici della tua creatura.Colà è diretta, con passo diverso, tutta codesta folla di litiganti del foro, di spettatori dei teatri, di oranti dei templi: la medesima cenere livellerà ciò che ami e ciò che detesti.

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[3] E" questo il significato della massima che leggiamo negli oracoli di Apollo Pizio: Conosciti.Che cos'è l'uomo? Un vaso che può andare in frantumi ad ogni scossa ed ad ogni mossa.Non occorre una grande bufera per disperderti: al primo cozzo, ti sfascerai.Che cos'è l'uomo? Un corpo debole e fragile, nudo, indifeso per natura, bisognoso dell'aiuto altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte.Quando abbia ben allenato i suoi muscoli, una belva qualunque lo divorerà o lo ucciderà; è un essere composto di tessuti deboli e corruttibili, ma con splendidi lineamenti esterni; incapace di reggere al freddo, al caldo, alla fatica, ma soggetto a dissolversi anche per torpore ed inazione; preoccupato del suo cibo, la cui scarsità lo fa venir meno, l'eccesso lo fa scoppiare; ansioso e preoccupato della propria conservazione; di respiro precario ed instabile, che può essere stroncato da un improvviso rumore che gli molesti l'orecchio; è il continuo incentivo, dannoso ed inutile, del proprio pericolo. [4] E ci stupiamo che codesto essere subisca la morte, conseguenza di un solo rantolo? Per farlo cadere, ci vuole forse un grande sforzo? Un odore, un sapore, la stanchezza, la veglia, una bevanda, un cibo, una di quelle cose senza le quali non può vivere, possono dargli la morte.In qualunque direzione si muova, s'accorge della propria debolezza: non può sopportare tutti i climi; può ammalarsi per aver cambiato qualità d'acqua, per aver respirato arie inconsuete, per accidenti o disgrazie insignificanti.Essere fatiscente, invalido, che ha iniziato la vita sotto l'auspicio del pianto, quanti tumulti non suscita questo spregiato vivente, quali cose non arriva ad immaginare, dimenticando la propria condizione! (15) [5] Si costruisce illusioni di immortalità e di eternità, progetti per i figli, i nipoti ed i pronipoti e, mentre sta lavorando per scadenze lontane, la morte lo schiaccia.Quella che si chiama vecchiaia, non è che un brevissimo giro di anni.

12. [Invito a ripensare alle gioie che il figlio le ha date.Intermezzo d'esempi.] [1] Il tuo dolore, per quel tanto che ha di ragionevole, riguarda il tuo danno o quello del defunto? Ti colpisce, nella perdita di tuo figlio, il non aver avuto da lui nessuna soddisfazione, o il pensiero che ne avresti potuto avere delle maggiori, se fosse vissuto di più? Se dici che non ne hai avuto nessuna, rendi più sopportabile il tuo danno: l'uomo, infatti, rimpiange poco ciò di cui non ha mai goduto, non s'è mai rallegrato.[2] Ma se ammetti di aver avuto grandi soddisfazioni, non devi lagnarti di quanto ti è stato tolto, ma esser grata per quanto ti è toccato.Hai raccolto di fatto frutti proporzionati alle tue fatiche dalla sua stessa educazione, a meno che coloro che allevano con grande cura cagnolini, uccelli ed altri futili scacciapensieri, non godano di qualche soddisfazione vedendoli, toccandoli e ricevendo le loro carezze di bestie, mentre, per chi alleva figli, non dovrebbe essere frutto dell'educazione il vederli educati.Ammesso dunque che la sua attività non t'abbia recato alcun vantaggio, la sua diligenza non abbia salvaguardato nulla di tuo e la sua prudenza non t'abbia dato nessun suggerimento, il solo averlo avuto, averlo amato, costituisce un frutto.[3] Eppure, poteva essere maggiore.Ti è sempre andata meglio che se non ti fosse toccato nulla: se ci fosse proposto di decidere se è più conveniente essere felici per breve tempo o non esserli mai, è meglio che ci tocchino beni caduchi che nulla.Avresti preferito un figlio indegno, capace soltanto di completare il numero e di portare il nome, o uno tanto dotato quanto lo fu il tuo, un giovane ben presto maturo, ben presto pio, precoce marito e precoce padre, precocemente preso da tutti i suoi doveri, precocemente sacerdote, come se dovesse anticipare tutto? Quasi a nessuno toccano contemporaneamente beni grandi e duraturi: è durevole ed arriva al traguardo soltanto una felicità che ha stentato a formarsi.Gli dèi immortali ti hanno dato subito, pur senza volertelo lasciare a lungo, un figlio tale, quale può riuscire dopo tanto tempo.[4] Neppure puoi dire che gli dèi hanno scelto appositamente te, per negarti il godimento di tuo figlio: gira l'occhio attorno, su tutta la folla delle persone che conosci e non conosci: ti si presenterà ovunque gente che ha sofferto di più.Hanno provato simili perdite i grandi condottieri, le hanno provate i capipopolo; la mitologia non ne ha esentato neppure gli dèi, perché, ritengo, fosse di sollievo ai nostri lutti il sapere che soccombono anche le divinità.Guarda attorno, ripeto, guarda tutti: non nominerai nessuna famiglia tanto disgraziata da non potersi consolare vedendone una più disgraziata.[5] Per Ercole, non ho così bassa stima dei tuoi costumi da pensare che saprai sopportare meglio la tua disgrazia, se ti farò sfilare davanti un corteo di gente che piange: si deve essere ben cattivi, per consolarsi vedendo molti soffrire! Ma te ne ricorderò alcuni, non perché ti renda conto che queste sono cose che accadono agli uomini (è ridicolo raccogliere esempi, per dimostrare che si muore), ma perché ti renda conto che ci furono molti che mitigarono le loro pene con una sopportazione serena. [6] Incomincerò dal più felice.Lucio Silla perse un figlio, ma la cosa non rintuzzò né la sua crudeltà né il suo indomito accanimento contro nemici e concittadini; egli non diede nemmeno l'impressione di mentire, quando assunse quel soprannome, che si attribuì, dopo che il figlio gli era morto, senza temere l'odio degli uomini, dalle disgrazie dei quali derivava il suo eccesso di fortuna, o lo sdegno degli dèi, per i quali un Silla tanto felice (16) costituiva un'accusa.Ma il vecchio discorso sulla valutazione di Silla rimanga pure aperto: anche i suoi nemici dovranno ammettere che prese le armi a ragion veduta e che, a ragion veduta, le depose; resterà però dimostrata la tesi che stiamo discutendo: non è il più grande dei mali quello che raggiunge anche gli uomini più felici.

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13. [Altri esempi di lutti di illustri personaggi.] [1] I Greci non ammirino troppo quel padre che, essendogli annunciata, mentre offriva un sacrificio, la morte del figlio, si limitò a far tacere il flautista e togliersi dal capo la corona, ma portò a termine regolarmente il rito.Al pontefice Pulvillo (17) fu annunziata la morte del figlio mentre, con la mano appoggiata allo stipite (18), dedicava il tempio di Giove Capitolino.Finse di non aver capito, pronunciò la formula rituale del carme pontificio, senza che un gemito interrompesse (19) la preghiera ed invocando il favore di Giove quando nominò il figlio. [2] Si poteva pensare che dovesse finire questo dolore che, al suo primo giorno, al suo primo assalto, non aveva distolto un padre dai pubblici altari e dal pronunziare la formula dedicatoria? Eppure quel padre, quando fu tornato a casa, versò lacrime, emise alcune parole di lamento ma, non appena ebbe compiute le onoranze che si costumano per i morti, ricompose quel volto che aveva tenuto in Campidoglio.[3] All'epoca del celeberrimo trionfo, durante il quale condusse Perseo in catene davanti al suo cocchio, Paolo (20) diede in adozione due suoi figli e dovette condurre al sepolcro quelli che si era riservati.Come pensi che fossero quelli che si era tenuto, se tra i ceduti c'era Scipione? (21) Il popolo romano guardò non senza commozione il cocchio vuoto di Paolo.Tuttavia egli pronunziò il discorso e rese grazie agli dèi, perché avevano esaudito il suo desiderio: disse infatti di averli pregati che, se per quella grande vittoria si doveva pagare un contrappasso, ciò fosse a spese sue, non dello Stato. [4] Vedi con quale magnanimità ha sopportato: s'è detto felice d'esser rimasto senza figli.E chi più di lui aveva diritto d'abbattersi per un così grave cambiamento? Aveva perduto insieme la sua consolazione ed il suo sostegno.Ma Perseo (22) non ebbe la soddisfazione di vedere Paolo rattristato.

14. [Altri lutti storici: i consoli Lucio Bibulo e Giulio Cesare.] [1] A che scopo dovrei ora condurti attraverso innumerevoli esempi di uomini grandi, alla ricerca degli infelici, come se non fosse più difficile trovarne dei felici? Quante casate sono rimaste fino alla fine al completo dei loro componenti? Prendi l'anno che preferisci e citamene i magistrati: Lucio Bibulo e Gaio Cesare, ad esempio.Vedrai accomunati da pari fortuna due colleghi che si detestavano a fondo.[2] A Lucio Bibulo (23), uomo più onesto che energico, erano stati uccisi insieme due figli, dopo essere stati seviziati dai soldati egiziani, cosa che valeva non meno della perdita stessa, per indurre al pianto.Bibulo tuttavia, che durante l'intero anno del suo consolato era rimasto chiuso in casa per astio verso il collega, il giorno successivo a quello in cui era giunta notizia del doppio lutto, uscì per attendere ai consueti compiti della sua carica.Chi può concedere meno di un solo, giorno a due figli? Concluse ben presto ì lutto per i figli, quest'uomo che era rimasto in lutto per un intero anno di consolato.[3] Gaio Cesare (24), mentre percorreva la Britannia e non vedeva più nell'Oceano un limite alla sua fortuna, ebbe notizia che era morta la figlia, colei che si portava dietro il destino dello Stato.Vedeva bene che Gneo Pompeo non avrebbe accettato tranquillamente che ci fosse un altro "grande" nello Stato e che avrebbe ostacolato i successi che gli facevano ombra, anche se si verificavano a pubblico vantaggio.Eppure, riprese entro tre giorni i suoi compiti di comandante supremo, e vinse il dolore con la stessa prontezza con cui vinceva tutto.

15. [Lutti della casa imperiale.] [1] Perché dovrei elencarti i lutti degli altri Cesari? Credo che la sorte faccia loro violenza, perché giovino anche così all'umanità, dimostrando cioè che coloro che si dicono generati dagli dèi e chiamati a generare degli dèi, non hanno sulle loro sorti quel potere che hanno sulle altrui.[2] Il divino Augusto, dopo aver perduti i figli ed i nipoti e vista estinta la serie dei Cesari, rimediò con l'adozione al vuoto della sua casa, ma sopportò con la forza di chi si sente ormai chiamato in causa ed ha interesse soprattutto a che nessuno debba lagnarsi degli dèi.[3] Tiberio Cesare perse sia il figlio di sangue che quello adottivo (25): eppure pronunciò personalmente sui rostri l'elogio del figlio, ritto davanti alla salma esposta, dalla quale lo separava soltanto un velo, teso perché il pontefice non doveva vedere cadaveri: il popolo piangeva, ma lui rimase impassibile.Diede prova a Seiano, che gli stava a fianco, della sua capacità di sopportare la perdita dei suoi.[4] Vedi quanto sono numerosi gli uomini grandi, per i quali non ha fatto eccezione questa disgrazia che tutto abbatte, ed erano uomini sui quali s'erano accumulate tante doti d'animo, tanti onori, nella vita pubblica ed in quella privata.Ma codesta è certamente una bufera che percorre il mondo e devasta tutto, senza scegliere, e tutto si trascina dietro, come cosa sua.Dì a ciascuno di presentare i conti: a nessuno è capitato di nascere impunemente.

16. [Lutti di donne celebri.] [1] Conosco la tua obiezione: Dimentichi che stai consolando una donna: citi soltanto esempi di uomini.Chi oserebbe dire che la natura ha trattato male le donne, in fatto di carattere, e non è stata loro prodiga di coraggio? Hanno, credimi, altrettanto vigore, altrettanta capacità, se vogliono, di azioni onorevoli, altrettanta resistenza, se ci si abituano, al dolore ed alla fatica.[2] In quale città, buoni dèi, facciamo questo discorso? In quella in cui una Lucrezia ed un Bruto hanno tolto di dosso ai Romani un re (26): a Bruto siamo debitori della libertà, a Lucrezia, di Bruto (27); in quella in cui Clelia, che sprezzò il

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nemico ed il fiume (23), per la sua straordinaria audacia, ebbe tutti i riconoscimenti, tranne il titolo di uomo: a cavallo, sulla sua statua equestre eretta nella via Sacra, luogo frequentatissimo, rinfaccia ai giovincelli, che scendono dalle lettighe imbottite, il loro modo di entrare in una città che ha insignito del cavallo anche le donne.[3] Se vuoi che ti elenchi esempi di donne forti nel rimpiangere i loro cari, non ho bisogno di cercarli di porta in porta.Da un'unica famiglia, ti citerò due Cornelie: la prima è la figlia di Scipione, la madre dei Gracchi.Rammentò i suoi dodici parti durante altrettanti funerali, ma, sugli altri suoi figli, c'è poco da dire, perché la città non ne avvertì né la nascita né la morte.La madre, però, vide uccisi e privati di sepoltura Tiberio e Gaio, dei quali dovrà riconoscere la grandezza anche chi ne nega la probità.Ma a quanti la consolavano e la dicevano infelice, rispondeva: Non mi dirò mai sfortunata, io che ho partorito i Gracchi. [4] L'altra Cornelia, la moglie di Livio Druso (29), aveva perduto un figlio molto rinomato, notevole per il suo ingegno, incamminato sulle orme dei Gracchi: fu ucciso da un assassino ignoto, in casa sua, mentre aveva in cantiere tante proposte di legge.La madre tuttavia sopportò l'immatura morte del figlio, con lo stesso coraggio con cui egli aveva avanzato le sue proposte di legge (30).[5] Puoi fare ormai la pace con la fortuna, o Marcia: essa non ha risparmiato neppure a te quei dardi che ha scagliato contro gli Scipioni e le madri e le figlie degli Scipioni, e con i quali ha bersagliato i Cesari.La vita è continuamente minacciata da varie disgrazie che non concedono a nessuno lunghe paci, ma soltanto stentate tregue.[6] Avevi allevato quattro figli, o Marcia.Dicono che non va a vuoto nessun dardo scagliato contro una schiera serrata: è meraviglia che un gruppo tanto numeroso non sia riuscito a sottrarsi alla malevolenza, al danno? [7] Ma la sorte è stata troppo ingiusta, perché non s'è limitata a portarmi via dei figli: se li è scelti.Non devi mai qualificare ingiuriosa una spartizione alla pari con il più forte: ti ha lasciato le due figlie ed i nipotini nati da quelle; anche il figlio che piangi di più, dimenticando il più anziano, non te lo ha portato via del tutto: hai le sue due figlie, due grossi pesi, se non sai sopportare, due grandi sollievi, se sopporti da donna forte.Mettiti in quest'ordine di idee: quando le guardi, ricorda tuo figlio, non il tuo dolore.[8] Il contadino, quando giacciono a terra piante sradicate dal vento o spezzate da un violento uragano, scoppiato improvvisamente, cura i polloni superstiti, mette subito a dimora le talee ed i piantoni di quanto ha perduto e ben presto, dato che il tempo è ugualmente rapido e pronto a distruggere ed a far crescere, vede adulti alberi più rigogliosi di quelli che aveva perduti. [9] E" il momento di sostituire queste figlie al tuo Metillo, di colmare quel vuoto, di alleviare un dolore singolo con una consolazione duplice.Noi uomini siamo fatti così: nulla ci piace più di ciò che abbiamo perduto, ed il rimpianto del perduto ci rende ingiusti con quanto ci è rimasto.Ma se vuoi valutare quanti riguardi ha avuto per te la sorte, pur nella sua crudeltà, renditi conto che hai ben di più che dei conforti: guarda ai tuoi nipotini, alle due figlie. [10] Dì anche questo, o Marcia: Mi sentirei offesa, se ciascuno avesse la fortuna che merita con la sua condotta, se il male non cogliesse mai i buoni; ora capisco che buoni e cattivi sono tormentati allo stesso modo, senza nessuna distinzione.

17. [L'uomo di fronte alla vita.Apologo del viaggio a Siracusa.] [1] Eppure, è duro perdere il figlio che hai allevato, quando è già il sostegno e l'aiuto di suo padre e di sua madre.Chi dice che non è duro? Ma è vicenda umana: sei stato generato per questo, per perdere e perire, sperare e temere, tormentare te stesso e gli altri, paventare la morte e desiderarla e infine, ed è il peggio, non sapere mai con esattezza in che stato sei.[2] Supponiamo che si faccia questo discorso ad un viaggiatore in procinto di partire per Siracusa: Devi essere informato in anticipo di tutti i disagi e di tutti i piaceri del viaggio che intendi fare, poi prenderai il mare.Queste sono le cose che potrai ammirare: prima di tutto vedrai l'isola, separata dall'Italia da uno stretto; si sa che anticamente era unita al continente; all'improvviso il mare vi proruppe e

dal Siculo divise il lato Esperio (31).Poi vedrai, dato che ti sarà possibile rasentare il più avido gorgo del mare, la mitica Cariddi, calma quando non la turba l'austro, ma capace, se quel vento soffia con qualche forza, di inghiottire le navi nel suo vasto e profondo abisso. [3] Vedrai la fonte Aretusa, cantata da moltissimi poeti, versare, sul fondo di un laghetto di eccezionale limpidezza e trasparenza, acque gelidissime: forse le raccoglie da sorgenti che sgorgano sul posto, forse ivi riemerge un fiume sotterraneo (32), passato sotto tanti mari, ma integro ed incontaminato da unioni con l'onda corrotta. [4] Vedrai il porto più tranquillo di tutti quanti o la natura ha disposto o la mano dell'uomo ha allestito a rifugio delle flotte, tanto sicuro che non lascia entrare nemmeno le tempeste più furibonde.Vedrai il luogo ove, quando fu spezzata la potenza di Atene, i prigionieri furono rinchiusi, a migliaia, entro quel celebre carcere naturale, tra rocce scavate a profondità immensa (33); e vedrai quella grande città ed i suoi dintorni, più estesi di quanto non siano le competenze di molte città; e gli inverni mitissimi, che non hanno un solo giorno senza sole.[5] Ma quando avrai ammirato tutto questo, una estate pesante e malsana guasterà i benefici del clima invernale; ivi ci

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sarà Dionisio, il tiranno distruttore della libertà, della giustizia, della legalità, bramoso di dominio anche dopo l'incontro con Platone, di vivere anche dopo l'esilio: manderà alcuni al fuoco, altri alle verghe, altri li farà decapitare per una offesa lievissima; convocherà maschi e femmine per le sue libidini e, nella vergognosa mandria del dissoluto tiranno, il meno che ti potrà capitare saranno le unioni a tre.Ti ho detto quanto ti può attirare e dissuadere: ora prendi il mare, oppure rimani. [6] Dopo un avvertimento del genere, se uno dice di voler entrare in Siracusa, può aver sufficiente motivo di lamentarsi di altri che di se stesso, dato che in quella situazione non ci è capitato, ma ci è venuto in tutta scienza e coscienza? [7] La Natura dice a noi tutti: Io non inganno nessuno.Se accetterai figli, li potrai avere belli e brutti: forse nasceranno anche minorati.Tra di loro, ci potrà essere tanto il salvatore della patria, quanto il traditore.Puoi fondatamente sperare che saranno tenuti in tale considerazione, che nessuno oserà maledirti per causa loro, ma prospèttati anche l'ipotesi che siano tanto svergognati, da costituire essi stessi la tua maledizione. [8] Niente impedisce che debbano essere loro a farti il funerale ed a pronunciare il tuo elogio, ma sii anche pronto a doverne portare qualcuno sul rogo, o nella fanciullezza o in giovinezza, o nell'età matura; in materia, gli anni non contano nulla: un funerale, seguito da un genitore, è sempre prematuro. Dopo che ti sono stati enunciati questi patti, se accetti dei figli, tu liberi da ogni possibile incriminazione gli dèi, che non ti hanno firmato nessuna garanzia.

18. [Spiegazione dell'apologo: discorso a chi entra nel mondo.] [1] Ed ora applichiamo l'esempio all'ingresso dell'uomo nella vita.Quando dovevi decidere se visitare o no Siracusa, ti ho esposto tutto quello che ti poteva piacere e tutto quello che ti poteva dispiacere.Immagina che io venga a darti dei suggerimenti, al momento in cui ti accingi a nascere: Stai per entrare nella città comune agli uomini ed agli dèi, che comprende tutto ciò che esiste, è vincolata da leggi eterne ben definite, ma regola, a sua volta, l'incessante orbitare dei corpi celesti. [2] Ivi vedrai innumerevoli stelle di splendore diverso ed un astro che, da solo, illumina tutto.Vedrai il sole che designa, con il suo viaggio quotidiano, la durata del giorno e della notte e, con il suo giro annuale, il regolare avvicendarsi dell'estate e dell'inverno.Gli vedrai succedere di notte la luna che, incontrandosi con il fratello, prende a prestito da lui la sua luce mite e discreta: ora è invisibile, ora domina la terra a viso pieno, muta aumentando o diminuendo e non si ripresenta mai quale era il giorno prima.[3] Vedrai cinque pianeti seguire orbite opposte a quelle astrali (34) e muoversi in direzione contraria al rapidissimo moto dell'universo; dai loro cambiamenti di posizione, anche se minimi, dipendono le sorti dei popoli: tanto gli eventi più importanti, quanto i più insignificanti, si conformano al sorgere d'una stella favorevole o funesta.Ammirerai l'addensarsi delle nubi, il cadere delle piogge, lo zigzagare dei fulmini, il rombo dei tuoni.[4] Quando, sazio di osservare il mondo celeste, abbasserai lo sguardo sulla terra, ti accoglierà la diversa e meravigliosa bellezza di altre cose: di qua una vasta distesa di campi che si aprono all'infinito, di là cime di monti che s'ergono al cielo da immense giogaie innevate; poi fiumi che scorrono a valle e che, sgorgati da un'unica fonte, si distribuiscono ad oriente e ad occidente; e boschi ondeggianti sulle cime più alte, e tante foreste, e le voci diverse delle loro fiere e dei loro uccelli; [5] poi, le varie posizioni delle città, le popolazioni chiuse entro territori inaccessibili, alcune delle quali si rifugiano su ripidi monti, altre cingono la loro paura con rive di paludi; e campi ricolmi di messi e alberi dal frutto spontaneo, ed il lieve scorrere dei ruscelli tra i prati, e le amene insenature e i lidi che si curvano a formare i porti; ed ancora, innumerevoli isole sparse per il mare immenso, che gli si frappongono e lo chiazzano.[6] Come descriverti il fulgore delle pietre preziose e delle gemme, lo splendore dei rapidi torrenti che trascinano oro tra le loro arene, le colonne di fuoco che si formano nell'aria, levandosi dal mezzo della terraferma o del mare, e l'Oceano che recinge la terra e, mediante tre golfi (35), tripartisce l'insieme del mondo abitato e sempre ribolle di sfrenate tempeste? [7] In quelle acque irrequiete, burrascose senza vento, vedrai nuotare animali ben più grandi di quelli terrestri, alcuni pesantissimi e che si muovono dietro la guida di altri. alcuni veloci e più rapidi di una voga ben ritmata, certi altri che aspirano l'acqua e la soffiano con grande pericolo di chi gli naviga innanzi; là vedrai anche navi in cerca di terre sconosciute.Vedrai che nulla resta intentato all'audacia degli uomini, sarai insieme spettatore ed attivo partecipe di quegli sforzi: imparerai ed insegnerai alcune arti che costruiscono la vita, altre che la adornano, altre che la governano.[8] Ma colà vi saranno anche innumerevoli malanni per i corpi e gli animi: guerre, brigantaggi, avvelenamenti, naufragi, intemperie, febbri, e desolanti perdite di persone care e, infine, la morte: non sai se naturale o su un patibolo, tra tormenti.Pensaci bene e soppesa la tua decisione: per giungere a quelle date cose, devi attraversare le altre.Risponderai che vuoi vivere: perché no? Posso pensare che non accetteresti ciò di cui ti lamenti che t'è stata tolta una parte? Vivi dunque, secondo gli accordi presi.Ma, mi dici nessuno ci ha consultati prima.Hanno consultato sul nostro conto i nostri genitori che, ben sapendo in che condizioni si vive, ci hanno messi al mondo.

19. [Argomenti di consolazione: la morte è la fine dei mali.] [1] Ma per venire agli argomenti di consolazione, vediamo in primo luogo quale malattia dobbiamo curare e, in secondo luogo, con quale terapia.

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Chi piange risente della mancanza della persona che amava.E" cosa in sé e per sé evidentemente ben tollerabile: di fatto, non piangiamo persone assenti o che devono assentarsi per tutta la vita, nonostante ci sentiamo privati contemporaneamente della loro vista e della loro compagnia. Il nostro tormento nasce dunque da una suggestione: ciascuna disgrazia ci costa quel prezzo che noi stessi ci siamo imposti.Il rimedio dipende da noi: pensare che i nostri morti sono soltanto degli assenti ed ingannare noi stessi; li abbiamo salutati alla partenza, anzi, li abbiamo mandati innanzi, per poi seguirli.[2] Chi piange, risente anche di questo: Non avrò chi mi difenda, chi mi protegga dal disprezzo.Voglio proporti un conforto che non riscuote molti consensi, ma risponde a verità: nella nostra città di oggi, la perdita dei figli costituisce più un aumento di prestigio che una sua diminuzione, tanto è vero che la solitudine, che normalmente distruggeva una vecchiaia, ora le conferisce credito al punto che c'è chi si finge odiato dai figli, chi li misconosce e se ne costruisce da sé la mancanza. [3] So che mi dici: Ma io non soffro per il danno mio. Certo, non merita consolazione chi si duole per la morte di un figlio come si dorrebbe per quella di uno schiavo e chi, ripensando al figlio, sa vedere tutto tranne il figlio.Allora, Marcia, che cosa ti fa soffrire? Il fatto che tuo figlio è morto o la brevità della sua vita? Se ne piangi la morte, avresti dovuto piangere sempre: sapevi da sempre che doveva morire.[4] Rifletti che chi è morto non è più colpito da nessun male, che sono fole tutte quelle cose che ci rendono terribili gli inferi, che non ci sono tenebre incombenti sui morti, non c'è carcere, non fiumi ribollenti per fuoco né un fiume dell'Oblio (36), non ci sono tribunali e imputati e, in quella assoluta libertà, non ci sono tiranni: i poeti hanno favoleggiato di queste cose e ci hanno agitati con vani errori.[5] La morte è la risoluzione di tutti i dolori ed il confine che i nostri mali non possono valicare; essa ci rimette in quella tranquillità in cui eravamo immersi prima di nascere.Chi ha compassione dei morti, deve averla anche dei non nati.La morte non è né un bene né un male.Una cosa, per poter essere un bene o un male, deve essere "un qualcosa", ma ciò che è un nulla in sé e riporta tutto al nulla, non ci mette in balìa di una sorte: il male ed il bene operano sull'esistente.La sorte non può trattenere ciò che la natura ha congedato, e non può essere misero colui che non esiste.[6] Tuo figlio è uscito dal dominio della schiavitù ed è stato accolto nella grande ed eterna pace.Non è più assalito dal timore della povertà, dall'assillo della ricchezza, dai pungoli della libidine che corrompe le anime con la voluttà; non sente astio per la felicità altrui e non è odiato per la propria; i suoi orecchi verecondi non sono nemmeno più colpiti dagli insulti.Non gli si prospetta alcuna calamità, pubblica o privata che sia.Non ha più l'ansia di sentirsi appeso ad un futuro che promette eventi sempre più incerti.Insomma, si è fermato là donde nulla lo può scacciare, dove nulla lo può atterrire.

20. [Elogio della morte: è vantaggioso morire presto.] [1] Oh, come non sanno conoscere i loro mali coloro che non apprezzano la morte e non la attendono come il miglior ritrovato della natura! Sia che concluda una vita felice o ne tronchi una misera, sia che ponga fine alla sazietà e stanchezza del vecchio, o si porti via il fiore della giovinezza al momento in cui sono più belle le speranze, per tutti è fine, per molti è rimedio, per alcuni è appagamento di un desiderio; nessuno le deve essere più grato di coloro ai quali arriva prima che l'abbiano dovuta invocare! [2] Essa pone fine alla schiavitù, senza attendere il consenso del padrone; essa libera i prigionieri dalle catene e fa uscire dal carcere coloro che vi erano tenuti rinchiusi dalla prepotenza dei dominatori; essa dimostra agli esuli, che tengono sempre il cuore e lo sguardo rivolti alla patria, che non ha importanza sotto quale terra uno sia sepolto; essa, quando la fortuna suddivide male i beni comuni e, di due uomini nati di ugual condizione, ne sottomette uno alla signoria dell'altro, rimette tutto in pari.Soltanto dopo la morte non si è mai fatto nulla sotto l'arbitrio altrui, soltanto di fronte alla morte nessuno si è sentito un reietto; è lei che ha sempre accolto tutti, è lei, o Marcia, che tuo padre ha bramato.E" lei, la morte, concludo, che fa sì che non sia un supplizio il nascere, che mi impedisce di abbattermi di fronte alle minacce del caso e mi dà la forza di conservarmi la mente sana e padrona di sé: so a chi fare appello.[3] Vedo costì dei patiboli, non tutti della stessa specie, ma costruiti da chi in un modo e da chi in un altro: alcuni condannati sono stati appesi a testa in giù, altri ebbero un palo conficcato nelle parti basse, altri divaricarono le braccia sul patibolo; e vedo le corde, i flagelli: sono stati inventati strumenti specifici per ogni parte del corpo.Ma vedo anche la morte.Dove siamo noi, ci sono nemici sanguinari e concittadini prepotenti, ma vedo costì anche la morte.La schiavitù non è pesante se, al momento in cui ti viene in uggia il padrone, con un solo passo puoi raggiungere la libertà.Ti ho cara, o vita, per merito della morte! [4] Pensa al vantaggio che deriva dal morire a tempo debito e a quanti ha nuociuto l'essere campati troppo.Se la malattia si fosse portata via a Napoli Gneo Pompeo (37), gloria e sostegno di codesto impero, egli sarebbe morto con l'indiscusso nome di primo cittadino del popolo romano.Così, invece, il breve tempo aggiunto lo fece precipitare dalla sua prestigiosa altezza: si vide sterminare le legioni sotto gli occhi e da quella battaglia, che ebbe i senatori schierati in prima fila, vide uscir vivo proprio il comandante supremo, superstite ben infelice; vide il carnefice egiziano 35 ed offrì ad uno scherano il suo corpo che i vincitori consideravano inviolabile; ma anche se ne fosse uscito incolume, la sua salvezza gli sarebbe risultata molto amara: quale maggiore

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vergogna, per un Pompeo, del vivere per concessione regia? [5] Marco Cicerone, se fosse morto al tempo in cui sfuggì ai pugnali di Catilina, che assalivano insieme lui e la patria, se fosse morto con il titolo di salvatore della patria, subito dopo aver liberata la repubblica, se almeno avesse seguito la figlia nella tomba, anche in quel caso sarebbe potuto morire felice: non avrebbe visto sguainare spade sulle teste dei cittadini, dividere fra gli uccisori i beni delle vittime perché morissero a loro spese, vendere all'asta le spoglie di ex consoli, e non avrebbe visto le stragi, gli atti di brigantaggio appaltati dallo Stato, le guerre, i saccheggi, ed altrettanti Catilina.[6] E se il mare avesse inghiottito Marco Catone, quando tornava dall'aver dato esecuzione in Cipro al testamento del re (39), e fosse magari affondato proprio con quel denaro che portava con sé per finanziare la guerra civile, non sarebbe stato bene per lui? Avrebbe certamente portato con sé la convinzione che nessuno osava compiere un delitto di fronte a Catone.Ora, i pochissimi anni aggiunti costrinsero un uomo che non era nato soltanto per la libertà sua, ma per quella dello Stato, a fuggire Cesare e seguire Pompeo.Dunque, la morte prematura non ha recato a tuo figlio alcun male, anzi, lo ha dispensato dal dover sopportare tutti i mali.

21. [La vita non è mai lunga: è un viaggio verso la morte.] [1] Eppure è morto troppo presto, troppo prematuramente.Incomincia ad immaginare che sia sopravvissuto per... pensa al massimo di età che un uomo può raggiungere: quanto è? Partoriti per una vita brevissima e destinati a lasciare ben presto un posto che non sarà certo benevolo per chi sopraggiungerà, davanti agli occhi abbiamo questo albergo.Intendo dire la nostra vita, ed è certo che scorre rapidissima.Traduci in anni la vita delle città: vedrai per quanto tempo non sono esistite neppure quelle che vantano antichità.Tutte le cose umane sono brevi e caduche e, nell'infinità del tempo, occupano una porzione insignificante.[2] Se facciamo riferimento all'universo, valutiamo come un puntino questa terra, con le sue città, i suoi popoli, i suoi fiumi e l'Oceano che la circonda; ebbene, se paragoniamo la nostra vita all'insieme del tempo, essa occupa meno di un puntino, dato che il tempo è ben più esteso dell'universo che riconta di volta in volta le sue età nell'ambito del tempo.Che giova allora estendere una cosa che, per quanto la si aumenti, non sarà mai molto diversa dal nulla? In un solo caso risulta lunga la durata della nostra vita: quando ce ne contentiamo.[3] Anche se mi nomini uomini longevi, ricordati per la loro tarda vecchiaia, al massimo puoi parlare di centodieci anni; ma se ti riporti all'insieme del tempo, troverai insignificante la differenza tra la vita più lunga e la più breve, soprattutto se, considerato il tempo in cui uno è vissuto, lo paragonerai col tempo in cui non è vissuto.[4] Poi: tuo figlio è morto al tempo per lui debito; è vissuto quanto doveva vivere; non gli rimaneva altro.La vecchiaia non è uguale per tutti gli uomini, come non lo è per gli animali: per alcuni di questi, la fine viene a quattordici anni, e per loro è avanzatissima un'età che per l'uomo è la prima.A ciascuno è assegnata una diversa durata di vita.[5] Nessuno muore troppo presto, dato che non gli sarebbe stato possibile vivere più a lungo di quanto visse.Il confine è ben fissato per ciascuno; rimarrà sempre dove è stato posto, e non c'è artificio o favore che lo possa spostare avanti.Convinciti: lo hai perduto per eterno decreto della mente divina: egli ebbe la sua parte e giunse al traguardo dell'età concessa (40).[6] Non hai motivo di caricarti con dei poteva vivere di più.La sua vita non è stata interrotta: il caso non può mai frapporsi agli anni.A ciascuno viene pagato quanto gli è stato promesso: il destino fa la sua strada e non aggiunge e non toglie nulla a quanto ha promesso una volta per tutte.E" inutile pregare e bramare: ciascuno avrà quanto gli ha assegnato il suo giorno di nascita.Dal momento stesso in cui ha visto per la prima volta la luce, è entrato nella strada che conduce alla morte ed ha cominciato ad avvicinarsi al suo destino; proprio quegli anni che si aggiungevano alla sua adolescenza, venivano sottratti alla sua vita.[7] Restiamo tutti nello stesso errore: pensiamo che alla morte si dirigano soltanto i vecchi cadenti, mentre verso di essa ci porta subito l'infanzia, poi l'adolescenza, poi il resto della vita.Il fato fa il suo mestiere: ci toglie la sensazione del nostro morire, e la morte, per insinuarsi più facilmente, si nasconde sotto il nome di vita: la puerizia assorbe in sé l'infanzia, la pubertà assorbe la puerizia, la vecchiaia ci porta via l'età di mezzo.Se sai fare bene i conti, le entrate non sono che perdite.

22. [La vita riserba dolorose incognite.Il suicidio di Aulo Cremuzio Cordo.] [1] Ti lamenti, o Marcia, perché tuo figlio non è vissuto tanto, quanto avrebbe potuto.Come puoi sapere se per lui era meglio vivere più a lungo o se, con questa morte, non gli si è fatto un bene? Oggi puoi trovare una sola persona di posizione tanto ben impiantata e solida, da non dover temere nulla col passar del tempo? Le cose umane vacillano e si dileguano, e nessun periodo della nostra vita è tanto esposto e fragile, quanto quello che ci soddisfa di più; perciò i più felici debbono desiderare la morte, dato che, in un mondo tanto precario e turbolento, è sicuro soltanto ciò che è passato.[2] Chi ti garantisce che quel bellissimo corpo di tuo figlio, che seppe conservarsi intatto, custodendo scrupolosamente

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il pudore sotto lo sguardo di una città dissoluta, sarebbe riuscito a sfuggire a tante malattie ed a portare inalterata alla vecchiaia la sua bellezza? Pensa alle mille corruzioni dell'animo: di solito, le indoli rette non conducono al traguardo della vecchiaia le speranze che avevano date di sé in giovinezza ma, per lo più, si lasciano sovvertire; oppure una lussuria tarda, e perciò più vergognosa, li ha presi ed ha cominciato ad avvilire quel bell'inizio; o hanno ceduto completamente al bere ed al ventre, e la loro più grave preoccupazione fu ciò che dovevano mangiare o bere. [3] Aggiungi gli incendi, i crolli, i nubifragi e le ferite prodotte dai medici che frugano nella carne viva per cercare un osso, o affondano l'intera mano nelle viscere, o curano le tue vergogne, infliggendoti più di un dolore.Eppoi l'esilio: il tuo figliuolo non era più innocente di Rutilio (41); ed il carcere: non era più sapiente di Socrate; ed il trafiggersi volontariamente il petto: non era più santo di Catone.Se considererai a fondo codeste cose, ti renderai conto che sono trattati benissimo coloro che la natura ha posto subito al riparo da questo scotto della vita, che li attendeva.Nulla è tanto ingannevole quanto la vita umana, nulla è altrettanto insidioso; per Ercole, nessuno l'avrebbe accettata, se non la si distribuisse a gente che non sa.Allora, se la sorte più felice è non nascere, quella che più le si avvicina, penso, è l'essere presto riportati all'inesistenza, al compiersi di una vita breve.[4] Pensa a quel tempo, per te amarissimo, in cui Seiano offrì tuo padre come gratifica al suo cliente Satrio Secondo.Ce l'aveva con tuo padre per una o due battute estremamente franche; egli non aveva potuto sopportare in silenzio che non soltanto ci buttassero Seiano sul collo, ma che, addirittura, ci salisse da sé.Era ai voti l'erezione di una statua di Seiano nel teatro di Pompeo, che Cesare stava ricostruendo dopo l'incendio.Cordo proruppe: Stavolta sì che il teatro crolla davvero!. [5] Allora? Non doveva scoppiare, vedendo porre Seiano sulle ceneri di Pompeo (42) e consacrare, nel monumento di un grande generale, un soldato traditore? Si pone il sigillo sotto l'atto d'accusa e quei cani rabbiosi, che egli nutriva di sangue umano per averli mansueti solo per sé e feroci contro tutti, incominciano a latrare attorno ad un uomo ancora perfettamente tranquillo.[6] Che doveva fare? Se voleva vivere, doveva pregare Seiano, se voleva morire, doveva pregare la figlia; ma tutti e due erano inesorabili.Decise di ingannare la figlia.Prese un bagno per ridurre il più possibile le sue forze, si ritirò in camera come se intendesse mangiare qualcosa e, congedati gli schiavi, gettò dalla finestra parte del cibo, perché credessero che aveva mangiato: poi non andò a cena, lasciando intendere che aveva già mangiato a sufficienza in camera.Fece altrettanto il giorno successivo ed il terzo.Ma il quarto giorno, se ne ebbe sentore dalla sua stessa debolezza.Allora ti abbracciò e: Figlia carissima, ti disse a te, in tutta la mia vita, ho nascosto soltanto questo: sono entrato nel sentiero della morte e mi trovo all'incirca a metà percorso; non devi, e neppure potresti, chiamarmi indietro.E così ordinò di sbarrare tutte le finestre e si seppellì nel buio.[7] Quando si conobbe la sua decisione, fu un sollievo per tutti il pensare che veniva sottratta la preda alle fauci di quegli avidissimi lupi.Per suggerimento di Seiano, gli accusatori accedono al tribunale dei consoli e si lamentano che Cordo cerca la morte, per interrompere la loro iniziativa: fino a questo punto s'erano convinti che Cordo sfuggiva loro.Si discuteva una questione complessa: dovevano perdere la morte dell'uomo che avevano accusato? Mentre si delibera, mentre gli accusatori ricorrono, egli si era già dato la libertà.[8] Vedi, o Marcia, quante vicende impensabili incombono su di noi, in questi tempi di ingiustizia? Tu piangi perché qualcuno dei tuoi è stato costretto a morire, ma c'è stato anche chi ha rischiato di non poterlo fare.

23. [I giovani sono più degni del cielo; la morte coglie chi è già perfetto.] [1] Oltre al fatto che tutto il futuro è incerto e ne è abbastanza certa la propensione al peggio, è estremamente facile il cammino verso il cielo per le anime che si sono congedate presto dai rapporti con gli uomini: esse, infatti, portano con sé una zavorra minima di feccia.Liberati prima di fare il callo, prima di impregnarsi a fondo della terrenità, spiccano più leggeri il volo verso la loro origine e si spogliano con maggiore facilità di ciò che costituisce sozzura o incrostazione.[2] Inoltre, ai grandi spiriti non è mai cara una lunga dimora nel corpo: sono impazienti d'uscire, di balzar fuori, non riescono a sopportare queste strettoie, avvezzi come sono ad innalzarsi al cielo, per spaziarvi e guardare dall'alto le vicende umane.E" questo il motivo per cui Platone proclama che l'animo del sapiente si eleva tutto verso la morte; questa è la sua volontà, la passione che continuamente lo trascina nella sua tensione verso l'esterno.[3] E che? Quando, o Marcia, vedevi in quel giovane una prudenza da vecchio, un animo vittorioso di tutti i piaceri, senza macchie, senza vizi, desideroso della ricchezza senza avarizia, degli onori senza ambizione, dei piaceri senza lussuria, pensavi che lo avresti avuto a lungo con te, sano e salvo? Tutto ciò che arriva alla perfezione, è vicino alla fine.Una virtù perfetta si allontana dai nostri occhi e si sottrae al nostro sguardo; i frutti precocemente maturi non aspettano la fine della stagione. [4] Il fuoco, quanto più splendidamente è sfolgorato, tanto più presto si spegne; ha vita più lunga la fiamma che, messa alle prese con legname poco combustibile ed immerso nel fumo, riluce tra la fuliggine: la tiene in vita proprio ciò che è restio a nutrirla.Anche gli ingegni, quanto più sono brillanti, tanto più sono caduchi: infatti, dove non è più possibile una crescita, è vicino il tramonto.[5] Fabiano (43) racconta un fatto al quale hanno assistito anche i nostri genitori: a Roma c'era un bambino di grande

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statura e di robustezza appariscente, ma morì presto; tutti i competenti avevano predetto che sarebbe morto presto, perché non poteva più raggiungere quell'età che aveva raggiunto in anticipo.E" così: l'eccessiva precocità è indizio di morte imminente; la fine si avvicina, quando la crescita è compiuta.

24. [Elogio del defunto.Tuo figlio ora è veramente tuo.] [1] Incomincia a valutarlo sulla base delle virtù, non su quella degli anni: è vissuto abbastanza a lungo.Divenuto orfano, rimase sotto la custodia dei tutori fino a quattordici anni; sotto la tutela di sua madre rimase sempre.Pur avendo una casa sua, non volle lasciare la tua e convisse con sua madre durante tutta l'adolescenza, l'età in cui i figli stentano ad accettare la convivenza con il padre.Per statura, presenza, robustezza, pareva nato per gli accampamenti, ma rinunciò alla carriera militare per non allontanarsi da te.[2] Calcola, o Marcia, quanto raramente vedono i loro figli le madri che non coabitano con essi; considera quanti anni risultano perduti o trascorrono nell'ansia, per quelle madri i cui figli sono sotto le armi: ti accorgerai che è stato molto lungo quel tempo del quale non hai perduto nulla.Non si è mai allontanato dalla tua vista; sotto i tuoi occhi ha plasmato con gli studi quell'ingegno straordinario che avrebbe uguagliato quello del nonno, se non si fosse frapposta la modestia, che suole coprire di silenzio i progressi di molti.[3] Giovane di eccezionale bellezza, non corrispose mai alle attese di nessuna delle numerosissime donne che corrompono gli uomini e, quando qualcuna giunse sfacciatamente ad adescarlo, ne arrossì, come se l'essere piaciuto fosse stata una colpa.Questa santità di costumi gli meritò, ancora fanciullo, d'essere ritenuto degno del sacerdozio, certamente con l'appoggio di sua madre, un appoggio che però non sarebbe valso a nulla, se il candidato non fosse risultato idoneo.[4] Nella contemplazione di queste virtù, riprenditi, dirò così, tuo figlio tra le braccia! Ora è maggiormente a tua disposizione, ora non ha nulla che te lo allontani, non ti darà mai ansie, non ti farà mai piangere.Hai avuto, da un figlio tanto buono, il solo dolore che potevi avere, ma ora tutto è esente da rischi, tutto è colmo di soddisfazioni, purché tu sappia godere di tuo figlio, purché comprenda quanto in lui è stato sommamente prezioso.[5] Ti è venuta meno soltanto l'immagine di tuo figlio, un ritratto che non gli somigliava gran che: egli invece ora è eterno, è in condizione migliore, spoglio dei carichi non suoi e restituito a se stesso.Tutte queste cose che vedi esserci state buttate attorno, le ossa, i nervi e la pelle che ricopre tutto, ed il volto, e le mani servizievoli e tutto l'altro che ci avvolge, sono catene e tenebre per l'animo, che ne rimane sovraccaricato, strozzato, contaminato allontanato dalla verità che gli compete e gettato nel falso.Tutta la sua lotta è rivolta contro il peso di questa carne: non può lasciarsi trascinare ed immobilizzare; i suoi sforzi tendono al luogo da cui è disceso.Là lo attende un riposo eterno, una contemplazione di quanto è puro e limpido, poiché ha lasciato tutto ciò che è impasto e spessore.

25. [Tuo figlio, in cielo, ha ritrovato il nonno.] [1] Dunque, non hai più motivo di correre alla tomba di tuo figlio: colà giace la parte peggiore e più molesta di lui, ossa e ceneri, che non gli appartengono più di quanto appartengano al corpo le vesti e gli altri indumenti.Integro, senza lasciare nulla di sé sulla terra, è fuggito e se ne è andato nella sua completezza.Si è soffermato brevemente in un luogo superiore, per purificarsi e scuotersi di dosso i difetti e tutte le patine che ineriscono alla vita mortale, poi si è innalzato nel più alto del cielo e colà si muove liberamente, tra le anime felici.[2] Lo ha accolto una compagnia sacra, gli Scipioni ed i Catoni e, tra coloro che hanno disprezzato la vita e si sono dati da sé la libertà, tuo padre, o Marcia.Egli chiama vicino a sé il nipote (ma lassù tutti sono tra loro parenti nello stesso grado), lo vede godere della nuova luce e gli spiega i moti delle stelle vicine e, senza bisogno di ipotesi, ma per esperienza diretta di tutto, è lieto di introdurlo agli arcani della natura.Come è caro al forestiero colui che gli fa conoscere le città ignote, così è cara a tuo figlio, che vuol conoscere le cause dei fatti celesti, questa persona di casa che gliele illustra.Poi gli ordina di penetrare con lo sguardo le profondità della terra, perché è bello rivedere dall'alto ciò che si è lasciato.[3] Perciò dunque, o Marcia, comportati come persona che agisce sotto lo sguardo di un padre e di un figlio che non sono più quali li hai conosciuti, ma sono tanto più elevati e si trovano nel luogo più sublime; arrossisci di qualunque comportamento meschino o comune e di piangere i tuoi cari, ora che sono cambiati in meglio.Ammessi ai liberi ed immensi spazi dell'eternità, non sono divisi tra loro dall'interporsi di mari, da alte catene di monti, da valli impervie o dalle secche infide delle Sirti: tutto per loro è piano e, con naturale agilità e scioltezza, si compenetrano reciprocamente e si confondono con le stelle.

26. [Perorazione di Aulo Cremuzio Cordo: l'eterno volgersi della storia e la conflagrazione finale.] [1] Immagina dunque, o Marcia, che, da quel celeste baluardo, tuo padre, che su di te aveva tanta autorità, quanta ne avevi tu su tuo figlio, non con il genio con cui pianse le guerre civili e proscrisse per l'eternità i proscrittori (44), ma con ispirazione tanto più elevata, quanto egli è ancora più in alto, ti dica: [2] Perché, o figlia, ti lasci prendere tanto a lungo dalla tristezza? Perché rimani nell'ignoranza, al punto di ritenere che è stata fatta ingiustizia a tuo figlio che, senza alcun

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danno per la sua casata ed incolume nella persona, se ne è tornato ai suoi antenati? Non sai con quali tempeste la sorte disperde tutto? E che essa non è stata benevola o accessibile a nessuno, eccettuati quelli che non hanno avuto alcun rapporto con lei? Debbo nominarti dei re che sarebbero stati felicissimi, se una morte più precoce li avesse sottratti ai mali che loro incombevano? O dei condottieri romani che nulla hanno da perdere della loro grandezza, se togli qualche anno alla loro vita? O uomini di grandissima nobiltà e fama, che ebbero lunga vita perché il loro collo doveva essere offerto alla spada di un soldato? [3] Ripensa a tuo padre ed a tuo nonno: tuo nonno è stato vittima di un sicario (45), io non mi sono lasciato toccare da nessuno e, privandomi del cibo, ho dimostrato che la mia vita s'ispirava alla medesima magnanimità che aveva ispirato i miei scritti.Perché, nella nostra casa, si riserva il pianto più lungo a chi ha avuto la morte più felice? [4] Noi, qui, ci riuniamo tutti e vediamo, non circondati dal buio della notte, che nel vostro mondo, contrariamente a quanto credete, nulla merita un desiderio, nulla è elevato, nulla risplende, ma tutto è vile, gravoso, preoccupante e vede ben piccola parte della nostra luce! Debbo dire che qui non ci sono eserciti furibondi che si scontrano, flotte che si infrangono contro altre flotte, parricidi progettati e meditati, fori che strepitano di processi per intere giornate, che qui nulla è nascosto, i pensieri sono palesi ed il cuore è aperto e la vita si svolge in mezzo a tutti e davanti a tutti, e si ha sott'occhio e si conosce ogni età.[5] Mi piaceva raccogliere gli avvenimenti di una sola epoca, che s'erano svolti in una parte infinitesima del mondo e tra pochissimi uomini; ora è possibile vedere l'intera sequenza e l'intreccio di tanti secoli, di tante età, di tutti gli anni; si possono vedere i regni che attendono di sorgere e quelli che stanno per crollare, la caduta delle grandi città ed il futuro fluire del mare.[6] Quindi, se può recare consolazione al tuo rincrescimento il sapere che questo è il destino comune, ebbene, nulla rimarrà nella condizione in cui è ora, perché il tempo abbatterà tutto e tutto trascinerà con sé.E non si divertirà soltanto con gli uomini (non è infatti piuttosto piccola questa porzione del dominio della sorte?), ma con le località, le regioni, i continenti.Cancellerà montagne intere ed innalzerà altrove nuove rupi verso il cielo: inghiottirà i mari, devierà il corso dei fiumi e, interrompendo i rapporti tra le genti, dissolverà ogni alleanza ed ogni società umana.Altrove seppellirà le città in profonde voragini, le scuoterà con terremoti, emetterà dall'abisso esalazioni pestifere, ricoprirà con alluvioni ogni luogo abitato, farà morire ogni vivente sommergendo il mondo e, con immensi fuochi, incendierà e ridurrà in cenere ogni essere mortale (46).Quando poi verrà il tempo in cui il mondo dovrà estinguersi per rinnovarsi, codesti esseri si distruggeranno con le loro stesse forze, le stelle si scontreranno con le stelle e, in una universale conflagrazione dell'essere, arderanno d'un sol fuoco tutti i corpi celesti che ora splendono in bell'ordine.[7] Anche noi, anime felici che abbiamo avuto in sorte l'eternità, quando parrà a Dio che sia il momento della ricostruzione, divenendo, nella distruzione di tutto, una piccola aggiunta al crollo immenso, ci ritrasformeremo negli elementi primordiali.Felice tuo figlio, o Marcia, che già conosce questo!

NOTE.Nota 1.Marcia è stoica: crede nell""ordo mortis", la legge fisica secondo la quale debbono morire prima i più anziani.Nota 2.Offendendo l'imperatore con crimine di lesa maestà.Nota 3. "Marcello" aveva sposato Giulia, figlia di Augusto.Morì a Baia, nel 23 avanti Cristo.Nota 4.Soprattutto da Virgilio ("Eneide" 6,870 ss.) e da Properzio (3,18).Secondo Donato ("Vita Verg." 32-33), Ottavia svenne mentre Virgilio leggeva i suoi versi su Marcello.Nota 5.Nel 9 avanti Cristo.Nota 6.I Romani erano molto superstiziosi.Nota 7. "Livia fu ufficialmente ammessa dal senato nella famiglia Giulia con il nome di Giulia Augusta, perché erede di Augusto, nel 14 dopo Cristo (Tac., "Ann." 1,8).Non aveva dunque quel nome quando morì Druso.Nota 8.Filosofo di casa e consigliere spirituale, come il filosofo di Cano ("Tranq." 14,9).Nota 9.E" un verso del mimografo Publilio Siro (cfr. "Tranq." 11,8).Nota 10. "Primo giorno": dopo la prima rappresentazione della commedia.Nota 11.I più giovani ed i più vecchi, secondo l""ordo mortis" (cfr.sopra, nota 1).Nota 12.E" il linguaggio degli epicurei, accettato, ma in diverso contesto anche dagli stoici.Quindi non siamo al "carpe diem" di Orazio ("Carm." 1,11,8).

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Nota 13.Una superstizione, molto diffusa nell'antichità, faceva ritenere la privazione della sepoltura un male più grave della stessa morte.Nota 14.Motivo ricorrente anche nelle "consolazioni" poetiche.Nota 15.Motivo comune della diatriba cinica, accolto anche da Plinio ("Nat. hist." 7,2-3) che si domanda se la natura fu per l'uomo madre o matrigna.Lo stoicismo classico preferiva insistere invece sugliargomenti esposti da Seneca in "Dell'ozio" 5,3-4.Nota 16. "Felice": era questo ("Felix") il soprannome assunto da Silla (cfr. nota 14 a "Prov." 3,7).Nota 17. "M.Orazio Pulvillo", console nel 265 avanti Cristo.Nota 18.E" gesto rituale nella dedicazione di un tempio.Nota 19.La recita delle formule rituali non poteva esser interrotta in alcun modo.Nota 20. "L.Emilio Paolo", il vincitore di Pidna (167 avanti Cristo).Cfr. "Pol." 14,5. Nota 21.Cfr. "Della costanza del sapiente", nota 16.Nota 22.Il re macedone, sconfitto e catturato da Emilio Paolo, ne dovette seguire il trionfo.Nota 23.In realtà è "Marco Calpurnio Bibulo", console nell'anno 59 avanti Cristo.Era proconsole in Siria quando perdette i due figli (Val.Max., 4,1,15).Nota 24. "G.Giulio Cesare", che aveva dato la figlia in sposa a Pompeo.Nota 25.Druso e Germanico.Nota 26.Il re era Tarquinio il Superbo.Nota 27.Oltraggiata da Tarquinio, "Lucrezia" s'era uccisa.Per vendicarla Bruto espulse da Roma il Superbo ed abolì la monarchia (Livio, 1,58-59).Nota 28.Data in ostaggio a Porsenna, Clelia era fuggita, attraversando il Tevere a nuoto (Livio, 2,13).Nota 29. "Livio Druso": console nel 112 avanti Cristo e deciso avversario dei Gracchi.Dal suo matrimonio con Cornelia nacque Livia, la madre di Catone Uticense. Nota 30.Nel testo latino c'è un gioco di parole intraducibile: "mortem... tulit" (sopportò la morte) e "leges tulerat" (aveva proposto le leggi).Nota 31.Virgilio, "Eneide" 3,418.Nota 32.Secondo un mito, l'Alfeo, fiume del Peloponneso, innamorato di Aretusa, la raggiungeva scorrendo sotto il mare.Nota 33.Le "Latomie".Il nome significa appunto "cave di pietra.Nota 34.Gli antichi attribuivano ai pianeti un moto orbitale contrario a quello dell'empireo.Nota 35. "Tre golfi": il mare Mediterraneo, il mar Rosso ed il mar Caspio.Nota 36.Il Lete.Nota 37. "Pompeo" s'era ammalato, a Napoli, nel 50 avanti Cristo, due anni prima della battaglia di Farsalo.Nota 38.Cfr. "Ira" Il,2,3, e relativa nota 2.Nota 39.Nel 58, "Catone" era stato esecutore del testamento di Tolomeo, re di Cipro, che aveva nominato erede il popolo romano.Nota 40.

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Virgilio, "Eneide" 10,472.Nota 41. "Publio Rutilio Rufo", console nel 105 avanti Cristo, esiliato da Silla.Cfr. nota 13 a "Prov." 3,7.Nota 42.L'espressione è forzata. "Seiano" avrebbe profanato la memoria di "Pompeo", non le sue ceneri, che non erano sepolte nel teatro.Nota 43. "Fabiano Papirio", il seguace dei Sestii, ammirato da Seneca soprattutto per la sua eloquenza, ricordato anche in "Brev." 10,1.Nota 44.Nei suoi scritti storici.Nota 45.Non sappiamo nulla del personaggio.Forse le invettive di Cremuzio contro i proscrittori erano legate a ricordi di fanciullezza ed a lutti di famiglia.Nota 46.Si nota, in questa descrizione della conflagrazione finale, l'influsso di una diffusa letteratura apocalittica.

DELLA VITA FELICE."Hoc mihi satis est, cotidie aliquid, et vitiis meis demere et errores meos obiurgare"."Mi basta questo: togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e rimproverare a me stesso i miei errori".(17,3).

PREFAZIONE.Le accuse contro Seneca, la genesi e l'intento dell'opuscolo.Novato, il fratello maggiore di Seneca, dedicatario del dialogo Della tranquillità dell'animo, è ora designato con il nome d'adozione, Gallione: lo scritto di Seneca è, dunque, cronologicamente più recente.Inoltre, nella seconda parte del dialogo (cc. 17-27), compare un Seneca bersagliato da accuse che lo feriscono: c'è troppa incongruenza tra il suo predicare e il suo vivere, egli è straricco e attaccatissimo alle sue ricchezze, continua a procacciarsene ed a godersele.L'accusa trovava credito, sembrava fondata.Due dei tre figli d'un bravo retore, immigrato dalla provincia, avevano fatto brillante carriera.Ma per il secondo, per Seneca, c'era stato l'esilio, comportante la perdita di parte dei beni, poi il ritorno in patria, il fortunato rientro a corte, i suoi nuovi incarichi (Tac., "Ann." 12,8), la vistosa ricchezza.Dione Cassio, autore della nota, maledica pagina su Seneca (61,10), riferirà anche della sua lussuosa suppellettile.Tacito, ammiratore del Seneca detestato da Nerone e freddo osservatore del consigliere di Stato e del cortigiano, ci racconta un interessante episodio.Nel 58 dopo Cristo, un certo Suillo, delatore di Claudio, accusa Seneca davanti all'imperatore.Dapprima rivanga, ed intenzionalmente, la lontana accusa di adulterio, poi sputa tutto il veleno: Seneca ha guadagnato 300 milioni di sesterzi in profitti illeciti (secondo Dione Cassio, i milioni sono soltanto 75, e guadagnati accusando dei ricchi).Seneca non si difende: contrattacca.Suillo ha spogliato l'Asia.L'accusatore, divenuto reo, è condannato all'esilio nelleBaleari (Tac., "Ann." 13,42-43).Sentenza giusta o pilotata? Purtroppo, propendiamo anche noi per la seconda ipotesi.Ma l'episodio è illuminante, per chi legga la seconda parte del dialogo.L'anonimo contestatore, che ivi parla, è il portavoce d'una turba, ed è acrimonioso: non meno acrimoniose sono le risposte di Seneca.Eppure, vi si legge anche una confessione esplicita: So d'essere sepolto nel fondo dei vizi (17,4), che può ben essere l'umile confessione d'un filosofo, ma non può affatto sfuggire dalle labbra di un imputato che si dice innocente o da chi ha appena ottenuto una sentenza assolutoria che puzza d'insabbiatura.La durezza delle parole contrasta con la genericità delle argomentazioni: Seneca, più che ribattere le accuse, tenta di sviarle: Sto parlando della virtù, non di me stesso (18,1); la povertà è una virtù, non è la virtù (18,3).Anche la ripetuta distinzione tra "sapiente" ed "aspirante alla sapienza", proponibilissima ad un allievo, suona elusiva per un avversario che reclama un minimo di coerenza tra dottrina e vita.Poi il discorso scende sul piano psicologico, e "la malignità" diventa il tema portante (18,3-20).Seneca proclama una norma: il maligno sa soltanto distruggere; per costruire, è necessaria una critica pacata e serena.Era stata quella la deontologia di Lucilio e di Orazio, che avevano dato alla satira romana la fisionomia di "sermo".Nel dialogo, c'è qualche spunto degno del "sermo" oraziano: il sapiente che spalanca la sua casa perché ciascuno possa riprendersi ciò che riconosce suo (23,2); gli accusatori spalancano le tasche, non appena il sapiente accenna alla largizione (23,5).Ma su quel terreno, Seneca non sa rimanere.Riaffiorano lo spregio e l'insistenza di chi vuole l'ultima parola, scompare l'umorismo, si ricorre all'artificio oratorio della prosopopea.

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Parla Socrate, un Socrate assiomatico, tanto diverso dal fine personaggio dei dialoghi di Platone.Non conversa, non interroga, non sorride, non cammina, non spiega: declama.Il suo intervento dev'essere risolutivo, per autorità.Lo scritto è innegabilmente connesso con l'episodio del 58, ma se non avessimo la testimonianza di Tacito, non potremmo subodorare, dal dialogo, una vicenda processuale.E" meglio farlo risalire a qualche tempo prima del 58, e vederlo come un tentativo di stroncare sul nascere insistenti e fastidiosi mormorii, dei quali, peraltro, non si immaginano ancora i perigliosi sviluppi.Lo stoicismo di Seneca in questo opuscolo.In apertura di dialogo, Seneca rivendica il diritto di presentare un'esegesi personale dello stoicismo (3,2).La sua esposizione però, già nella prima parte, si muove attraverso continui raffronti con l'epicureismo e si risolve nella contrapposizione della virtù stoica al piacere epicureo.Dove possiamo rintracciare l'originalità di Seneca? Non certamente nell'adduzione di nuove fonti.Soprattutto nella polemica contro l'epicureismo, Seneca non mostra di conoscere più di quanto già conosceva Cicerone, anzi, come spesso gli accade, è meno diligente dell'Arpinate, talora è anche inesatto.A 4,4 e 6,1, ad esempio, Seneca riduce l'epicureismo a pura e semplice ricerca del piacere dei sensi.Non precisa, come invece fa Cicerone ("Tuscul.Disp." 2,18), che quella è la dottrina d'Aristippo.Così torna più volte (in particolare a 7,1) sull'enunciato epicureo: non c'è felicità senza virtù, ma non traduce alla lettera, né cita per intero, la frase della "Lettera a Meneceo" che Cicerone fedelmente traduce "(De fin." 1,57; Diog.Laert., 10,132).Più volte denuncia l'inettitudine del piacere a svolgere il ruolo di "sommo bene", ma non precisa mai che ciò dipende anche dal non aver Epicuro né voluto né saputo determinare il concetto di "piacere" (Cic., "Tusc.Disp." 2,6).Tralasciamo, per amore di brevità, altre omissioni, e indichiamo alcune coincidenze.E" di matrice ciceroniana ("Nat. deor." 10,2) il rimprovero all'affettata superiorità degli epicurei che leggiamo in 10,2; ancor più significativi sono il parallelo tra l'argomentazione senecana del c. 11 - è inevitabile scontrarsi col dolore e con la morte - e la pagina ciceroniana di "De fin." 1,59-60, e ancora il coincidere delle equipollenze senecane "ragionevirtùDio" con il suggerimento ciceroniano di "De fin." 3,73.Se diamo respiro alla ricerca e passiamo dal raffronto di rispondenze singole a quello dell'impianto generale della polemica antiepicurea, la dipendenza di Seneca da Cicerone si fa ancor più evidente.Ma, contemporaneamente, si preannuncia il Seneca rielaboratore: egli trasforma in principio un suggerimento eloquenziale che Cicerone aveva sparso un po'"dovunque: una categoria morale può dirsi valore supremo, soltanto se tutte le azioni ispirate ad essa sono obiettivamente buone, a prescindere dalla situazione dell'agente.Di conseguenza, una volta ridotto l'epicureismo alla sua degradazione storica, questa non potrà imputarsi alla sola stoltezza degli uomini: dovrà supporsi una insufficienza etica, intrinseca alla categoria stessa del piacere.E" un sofisma, e trasparente, una delle tante possibili applicazioni del principio del terzo escluso: o buono o non buono, e non c'è via di mezzo.Nessuna meraviglia che gli epicurei, che pure non volevano esser dialettici, contrapponessero distinzioni su distinzioni alle affermazioni di Seneca.Non si stacca da Cicerone la definizione di "catórthoma" (ed è scontato, data la fonte comune), ma è ciceroniana l'asserzione che la dottrina stoica risponde anche alle esigenze dell'epicureo (5,1: ovvio però, dato il comune intento "liberatorio" delle due scuole).Sono tipici di Seneca, invece, il cenno sull'origine del cosmo (8,5), l'affermazione di autenticità della virtù (9,4) e la riflessione sulla libertà (c. 15).Si configura ora lo sforzo di originalità di Seneca, ma non la diremmo una creatività: è il generoso tentativo di ricuperare una dimensione perduta dello stoicismo originario.I tre punti testé segnalati sono il frutto di meditazioni collaterali e convergenti verso la nuova impostazione dell'eticità.Nella seconda sezione del dialogo, si nota l'ultimo sforzo di Seneca di giungere al livello d'una eticità pura.Il discorso s'articola, in realtà, attorno al tema stoico degli "indifferenti" ("adiáphora": 22,4).Mentre Cicerone s'era preoccupato esclusivamente di raffrontare i dettami pratici delle varie scuole, Seneca tenta di ricuperare, mediante la riduzione degli indifferenti ad accidentalità pure, la totale autonomia di scelte morali: la moralità è nello spirito, e basta.La sua posizione non si contrappone tanto a quella epicurea, quanto alla ragionata ed umanissima morale aristotelica.Ci sono, per Aristotele, beni dell'anima, beni del corpo e beni esterni ("Ethic.Nic." 1098b 12-15): tutti sono doni di Dio (ivi, 1099b 11; cfr.G. Reale, "Storia della filosofia antica", Il, Milano 1976, pp. 354-355).Per Seneca tutto è estraneo, tutto è caduco.Il ricupero dello stoicismo originario costa a Seneca una rinuncia o, quanto meno, un silenzio.Lo annoteremo tra poco.Ora vogliamo passare ai contenuti del dialogo.Analisi di struttura.Sezione prima (cc. 1-16).Nei cc. 1-2, che costituiscono il prologo, Seneca ripercorre la topica del conformismo da irriflessione (c. 9) e della

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definizione culturale di classe.Sono volgo gli stolti e nobiltà i sapienti (c. 2).Ed entra in argomento.1) Cc. 3-4: un principio.Sapienza è vivere secondo natura (3,3).Mente e volontà debbono tradurlo in atto.Le esperienze interiori dei singoli possono approdare a formulazioni diverse, ma equipollenti, del principio enunciato (3,3-4).2) Cc. 5-7: uno strumento.In contesto "liberatorio", si precisa che per "ragione" s'intende il giudizio [morale] retto e definitivo ("katórthoma": 5,3).Essendo un assoluto, esso si sottrae alle equivoche interpretazioni cui è soggetto il piacere ("hedoné": 6-7).Il c. 8 costituisce un intermezzo "romano".Si tenta, seppure blandamente, di identificare la virtù stoica con il "mos maiorum" della tradizione romana.3) C. 9: Quando [la mente] ha compiuto la sua corsa e si è assegnata attorno a sé i suoi confini, ha completamente raggiunto il sommo bene e non desidera più altro (9,3).E" il concetto di autosufficienza ("authentía") della virtù.Ciò non implica né la sua metafisicità né la sua trascendenza, ma semplicemente la sua "logicità somma": è l'ultima meta d'un processo conoscitivo ordinato alla moralità.Tra i capitoli antiepicurei (10-14) che seguono, già abbiamo segnalato, per la sua accentuata "storicità", il c. 11.I cc. 15 e 16 sono due corollari: a) la libertà (non libero arbitrio, ma punto d'arrivo del processo di liberazione) è, in sostanza, sinonimo di "virtù autentica", quale è illustrata al c. 9; b) l'espressione "immagine di Dio" ("eikón tou theou") forse risente del linguaggio religioso del tempo, d'ispirazione platonica.Seneca ne vuol ricuperare la pura sinonimia con "virtù" e "libertà".Sezione seconda (cc. 18-26,3).L'andamento discorsivo di questa sezione rende impossibile delinearne uno schema.Ci limiteremo a segnalarne i punti filosoficamente più salienti e meglio attestanti lo sforzo di ricuperare lo stoicismo classico.1) C. 20: validità dell'aspirazione alla virtù: La meditazione sulle proprie aspirazioni al bene è già lodevole, anche a prescindere dai risultati (20,1).2) C. 22: rilancio della dottrina del distacco, in vista del raggiungimento d'una moralità pura.Notazioni conclusive sul contenuto dell'opuscolo.Il dialogo merita ancora qualche nota.Non insistiamo su quanto si è già segnalato altrove: l'itinerario alla virtù non ha un vero sbocco.Notiamo, piuttosto, che la lettura parallela dei cc. 9 (virtù), 15 (libertà) e 16 (immagine di Dio) finisce col darci una visione "catastematica", che par più assegnare un contorno alla hedoné epicurea che non confutarne il contenuto.A conti fatti, le due filosofie approdano, in termini diversi, alla medesima meta.Il c. 22 riprende la discussione sugli indifferenti ("adiáphora"). Un raffronto con le spiegazioni che Seneca ci fornisce al c. 25 (in particolare a 25,8) ci obbliga ad osservare che Seneca paga forse a troppo caro prezzo il suo tentativo di ricupero della "moralità pura" o "totale soggettività".Rimasto, in realtà, come solo punto obiettivo di riferimento il "katórthoma", va perduta, o comunque ne esce estremamente debilitata, la più significativa conquista dello stoicismo in campo morale: il concetto di probabilità.Merita, infine, una nota il misterioso cenno contenuto in 8,4: Anche il cosmo, che contiene tutto, e Dio, che governa l'universo, si protende, sì, verso l'esterno, ma poi rientra da ogni parte in se stesso.Come altrove ("Mare." 26,6) il dettato di Seneca risente della letteratura apocalittica, così deve aver influito su questo passo la letteratura cosmogonica.Sotto l'enunciato, vive la contrapposizione dialettica "cosmocaos".Quel "protendersi verso l'esterno" non può esser altro che l'originario sostituirsi del cosmo (ordine, quindi essere) al caos (disordine, quindi nulla).Ciò non esige né una causa, né un vero e proprio movimento, ma soltanto una "arché" (principio, o meglio, inizio), quel traguardo cioè della mente umana che segna, in qualunque direzione essa proceda, l'ultimo limite del pensabile, oltre il quale si decade nel fantastico. "Protendersi" (e può dirsi anche "estendersi, dilatarsi") è detto per antitesi simmetrica: se l'apocalittico è un rinchiudersi del cosmo su se stesso, il cosmogonico sarà descritto come processo di dilatazione.Siamo, dunque, nel campo di quella mitopea con sustrato razionale, che era tanto cara all'antichità.

DELLA VITA FELICE.1. [Tutti sono malati di conformismo.] [1] Tutti, o Gallione, caro fratello, vogliono vivere felici, ma hanno l'occhio confuso quando devono discernere ciò che rende felice la vita.Giungere ad una vita felice è impresa difficile a tal punto che ciascuno, se appena esce di strada, se ne allontana tanto più, quanto più in fretta cammina; se poi ci si avvia nella direzione opposta, anche la nostra rapidità contribuisce ad accrescere le distanze.Dobbiamo dunque chiederci, in primo luogo, che cosa è ciò cui aspiriamo, poi considerare attentamente per quale strada possiamo dirigerci alla meta nel modo più rapido e, durante il cammino, purché siamo sul sentiero giusto, potremo renderci conto di quanti ogni giorno cadono per via e di quanto ci stiamo sempre più avvicinando alla meta cui tende il

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nostro naturale istinto.[2] Se continuiamo a vagare a caso e seguiamo, invece che una guida, lo strepito ed il confuso vocio di chi ci chiama qua e là, la nostra vita si logora in andirivieni e ci riesce breve (1), anche se ci diamo da fare giorno e notte per il nostro buon intento.Stabiliamo dunque la meta ed il percorso, non senza la guida di un esperto che conosca bene ciò verso cui ci avviamo, poiché questo è un viaggio che non possiamo paragonare ai normali viaggi: in quelli, basta disporre di un tracciato di strada ed interrogare gli abitanti per rendere impossibile l'errore, ma in questo, tutte le strade più frequentate e note sono le più ingannevoli.[3] La regola alla quale dobbiamo più fedelmente attenerci è di non seguire come pecore il gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove tutti vanno.Eppure non c'è cosa tanto atta ad implicarci nei mali più gravi, quanto il nostro adeguarci alle chiacchiere, il ritenere giusto ciò di cui tutti sono fermamente convinti e, poiché disponiamo di innumerevoli esempi, il vivere non di ragione, ma di conformismo.Deriva da qui tutto quell'ammassarsi di uomini che si precipitano l'uno sull'altro.[4] Quando una calamità coinvolge molti, la ressa si schiaccia da sé, nessuno cade senza trascinare il vicino nella caduta ed i primi provocano, a catena, la morte dei successivi; ebbene, accade altrettanto, e puoi constatarlo, in tutta la vita: nessuno sbaglia soltanto per conto proprio, ma si fa movente e suggeritore dell'errore altrui.Il danno nasce dal tenerci appiccicati a chi ci sta davanti; ognuno, poiché preferisce la creduloneria all'autonomia di giudizio, non emette mai un suo giudizio sulla vita: gli preferisce sempre la cieca fede.Così ci passiamo di mano in mano l'errore che ci travolge e ci manda a precipizio.Andiamo a morte seguendo l'esempio altrui; potremo guarire, non appena sapremo separarci dalla folla.[5] La realtà è che la massa s'erge, contro la ragione, a difesa del proprio male.Ne deriva il medesimo fenomeno che si nota nei comizi (2): non appena il mutevole favore del popolo cambia direzione, sono proprio gli elettori a stupirsi che Tizio o Caio siano riusciti pretori.Prima ci troviamo concordi nell'approvare, poi nel biasimare; è il normale esito di quei processi la cui sentenza è pronunciata da molte persone (3).

2. [E" necessario saper rientrare in se stessi.] [1] Al momento del dibattito sulla vita felice, non potrai rispondermi, come quando si vota per separazione (4): Questo gruppo sembra essere la maggioranza; appunto per quel motivo, è il peggiore.Il nostro rapporto con la realtà umana non è mai ottimale al punto che il meglio riscuota l'assenso dei più, anzi, l'assenso della folla è prova del peggio.[2] Domandiamoci dunque qual è la cosa migliore da fare, non qual è la più usuale, e che cosa ci metta in possesso di una felicità eterna, non che cosa piaccia al volgo, il peggior interprete della verità.E chiamo "volgo" tanto chi indossa la clamide, quanto chi porta la corona (5); non tengo conto del colore delle vesti che coprono i corpi.Quando si tratta dell'uomo, non credo ai miei occhi, ho una luce migliore e più sicura che mi permette di discernere il vero dal falso: il bene dell'animo deve trovarlo l'animo.Se gli si concederà un momento di respiro, una sola possibilità di raccogliersi in se stesso, oh, quanto saprà, una volta che si sia distaccato da se stesso, confessare il vero e dire: [3] Tutto ciò che ho fatto fino ad oggi, vorrei non fosse mai accaduto; se ripenso alle parole che ho detto, provo invidia per i muti; ciò che ho desiderato, lo reputo una maledizione dei miei nemici e tutto ciò che ho temuto, buoni per dèi, quanto era più soave di ciò che bramavo! Sono stato nemico di molti e, dopo l'odio, mi sono rappacificato, seppure può esserci una pace tra i malvagi, ma non sono ancora amico di me stesso.Mi sono dato da fare in tutti i modi per uscire dalla folla e mettermi in vista per qualche mio pregio: ho fatto cosa diversa dal trasformarmi in bersaglio dei dardi altrui, dall'offrire una presa ai morsi dei maligni? [4] Vedi costoro che lodano l'eloquenza, s'attaccano alla ricchezza, adulano il prestigio, esaltano il potere? O sono tutti nemici oppure, ed è la stessa cosa, s'apprestano a diventarli: la ressa degli ammiratori è tanto grande quanto quella degli invidiosi.Perché non dovrei invece cercare qualche cosa che io possa sentire, non ostentare, come realmente buono? Codeste cose che ammiriamo, che ci fanno fermare e che poi mostriamo stupiti gli uni agli altri, di fuori splendono, ma dentro sono miserie.

3. [La vita è felice, se è consona con la propria natura.] [1] Cerchiamo dunque un bene non appariscente ma consistente, duraturo e bello nella sua parte più riposta; dissotterriamolo.Non è molto lontano, è trovabile, purché si sappia soltanto dove allungare la mano; ora invece, come se camminassimo nel buio, passiamo accanto agli oggetti della nostra ricerca o, addirittura, inciampiamo in quelli che desideriamo.[2] Non intendo per ora trascinarti in divagazioni e lascerò da parte le opinioni altrui, che peraltro sarebbe lungo elencare e confutare: ti esporrò la nostra.E dicendo "nostra", non intendo legarmi specificamente a nessuno dei più illustri stoici: ho anch'io il diritto di esprimere un parere.Dunque, uno lo seguirò, ad un altro dirò di dividere le sue proposte (6); può darsi che, chiamato per ultimo a prendere la parola, non disapprovi nulla di quanto detto dai predecessori ed aggiunga: In più, ritengo anche questo.[3] Nel frattempo, e su questo punto gli stoici sono tutti concordi, do il mio assenso alla natura; è sapienza il non

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allontanarsi dalla natura e conformarsi alla sua legge ed al suo esempio.Concludo: la vita è felice, se è consona con la propria natura, ma a tanto non si può giungere se, in primo luogo, la mente non è sana, anzi, se non è in continuo possesso della sua sanità, poi se non è forte e volitiva, inoltre, se non è straordinariamente paziente, capace di adeguarsi alle singole situazioni, interessata, ma senza ansie, al proprio corpo ed a quanto lo concerne, ed anche amante di tutte le altre cose che ornano la vita, senza entusiasmi di sorta, pronta infine ad usare i doni della fortuna, senza farsene schiava.[4] Comprendi, anche se non te lo dico, che ne deriva una ininterrotta tranquillità e libertà, conseguente all'eliminazione di tutto ciò che ci irrita o ci atterrisce; infatti, ai piaceri ed alle seduzioni, che sono brevi ed inconsistenti e ci nuocciono con il loro stesso ardore, succede una gioia grande, incrollabile, equilibrata; ne segue la pace e la concordia dell'anima e la magnanimità congiunta alla comprensione: la ferocia, infatti, nasce sempre da debolezza.

4. [Altre possibili definizioni del concetto di bene sommo.] [1] Il nostro concetto di bene può essere definito anche in altri modi: voglio dire che il medesimo pensiero può essere espresso con parole diverse.Come il medesimo esercito si schiera a volte in formazione allargata, a volte in file serrate, oppure si dispone a semicerchio curvando il centro rispetto alle ali, oppure si spiega su un fronte rettilineo ma, comunque sia ordinato, restano immutate la sua forza e la sua volontà di battersi per una causa, così la definizione di sommo bene ora può venir sviluppata ed allargata, ora essere stringata e densa.[2] Sarà dunque lo stesso, se dirò: Il sommo bene è l'animo che disprezza il fortuito e si compiace della virtù, oppure: E" l'invitta forza d'animo, esperta della realtà, pacata nell'azione, dotata di molta umanità e di grande interesse per gli altri.Si puòdefinire anche dichiarando felice quell'uomo per il quale il bene ed il male non sono altro che la bontà o malvagità dell'animo; colui che pratica l'onestà, s'attiene alla virtù e non si lascia né esaltare né abbattere dal fortuito; colui che non reputa nessun bene maggiore di quello che egli è in grado di darsi da sé e stima vera voluttà il disprezzo della voluttà.[3] Se vuoi essere più ampio, puoi presentare il medesimo concetto sotto altri ed altri aspetti e rispettarne scrupolosamente la validità.Che cosa ci impedisce, infatti, di definire come vita felice l'avere un animo libero ed elevato, intrepido e saldo, esente da timore e cupidigia, che reputi come unico bene l'onestà, unico male la disonestà e ritenga tutto il resto un vile ammasso di cose, che non può né aggiungere né togliere nulla alla vita felice e che può venire ed andarsene, senza aumentare o sminuire il sommo bene? [4] Una scelta di fondo di questo genere avrà come inevitabile conseguenza la continua serenità, la gioia profonda e sgorgante dal profondo, in quanto gode del proprio e non desidera avere di più di ciò che ha in casa.Perché non dovrebbe sentirsi ben ripagato, con questo, degli insignificanti, frivoli ed effimeri moti del corpo? Il giorno in cui sarà schiavo del piacere, lo sarà anche del dolore; ma tu ben comprendi di quale malvagia e dannosa schiavitù sia destinato a servire colui che sarà, di volta in volta, posseduto dalla voluttà e dai dolori, cioè dai padroni più capricciosi e prepotenti: no, bisogna evadere verso la vera libertà.[5] Non può darcela altro che l'indifferenza verso la fortuna, e ne nascerà un bene inestimabile: la tranquillità della mente che si sente al sicuro e la elevatezza dei sentimenti; contemporaneamente, la conoscenza del vero, conseguente all'espulsione dei terrori, darà gioia immensa ed immutabile, affabilità ed espansività d'animo; beni, questi, che non la diletteranno come beni esterni, ma come frutti del bene proprio.

5. [La vita felice si fonda su un giudizio retto e definitivo.] [1] E giacché il discorso è stato impostato con una certa ampiezza, si può inoltre definire felice colui che è esente da desideri e da timori, grazie alla sua ragione.A dir vero, anche i sassi sono immuni da timore e tristezza, e così gli animali, ma non per questo siamo disposti a dire felici degli esseri che non sono coscienti della loro felicità.[2] Sullo stesso piano poni quegli uomini che l'ottusione mentale e l'incoscienza rendono annoverabili tra le bestie e gli esseri inanimati.Non c'è differenza tra costoro e quelli, poiché quelli non hanno ragione, costoro la hanno depravata, zelante nel danneggiarli e pervertirli.Non si può dire felice nessun uomo che si sia estraniato dalla verità.[3] La vita felice è dunque quella che si fonda costantemente su un giudizio retto e definitivo.In quel caso, la mente è pura e libera da ogni male, poiché è riuscita a sottrarsi non soltanto alle ferite, ma anche alle punzecchiature, è decisa a rimanere sempre sulla posizione che ha prescelto ed a rivendicarla come propria, anche contro i rabbiosi attacchi della sorte.[4] Per quanto riguarda il piacere, lasciamo pure che ci assedii da ogni parte, s'infiltri in ogni varco, ci carezzi l'animo con le sue attrattive, ne prospetti continuamente di nuove e blandisca, in tutto o in parte, il nostro essere: quale tra i mortali, se appena conserva una traccia di umanità, sceglie di sentirsi solleticare notte e giorno e di dedicarsi al corpo, abbandonando l'animo?

6. [Obiezione epicurea: anche l'animo è partecipe del piacere.] [1] Si obietta: Ma anche l'animo ha la sua parte nel piacere.Diamogliela dunque, e segga giudice del lusso e del piacere, s'ingozzi di tutto ciò che abitualmente alletta i sensi, poi guardi al passato ed esulti al ricordo delle voluttà già trascorse, si protenda alle future, programmi le sue speranze e,

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mentre il corpo giace sdraiato dopo il grasso pasto d'oggi, l'animo progetti il pasto di domani: mi pare troppo miserevole la cosa, perché è demenza scegliere il male in luogo del bene.Senza il senno, non si può essere felici e non è in senno chi ricerca come proprio meglio ciò che gli nuocerà.[2] E" felice, in conclusione, colui che giudica rettamente; è felice chi è contento della sua condizione attuale, qualunque essa sia, ed ama i suoi beni; è felice colui che vede approvata dalla ragione tutta l'impostazione della sua vita.

7. [Contro gli epicurei: piacere e virtù non sono inseparabili.] [1] Anche tra coloro che hanno detto che il sommo bene consiste in quelle cose, c'è chi vede in quale vergognoso luogo lo hanno posto.Per questo dicono che il sommo piacere non può essere separato dalla virtù, che una vita onesta non è pensabile se non come lieta, ed una vita lieta non può non essere anche onesta.Non riesco a vedere come due cose tanto opposte possano essere avvinte in unico nesso.Qual è, per favore, il motivo che non permette di disgiungere il piacere dalla virtù? Allora, poiché i beni attingono tutto il loro essere dalla virtù, dovrebbero derivare dalle medesime radici anche le cose che voi amate e cercate? Ma se non vi fosse distinzione, non vedremmo certe cose piacevoli ma disoneste, certe altre onestissime, ma difficili ed ottenibili solo a prezzo di tante sofferenze.[2] Ora aggiungiamo che il piacere può accompagnare anche la vita più turpe, mentre la virtù non ammette una vita disonesta, e che taluni risultano infelici non perché manchi loro il piacere, anzi proprio a causa del piacere.Ciò non accadrebbe, se il piacere si fosse fuso inseparabilmente con la virtù, dato che la virtù spesso ne è priva e non ne ha mai bisogno.[3] Perché mettete insieme cose differenti, anzi opposte? La virtù è una realtà sublime, eccelsa, regale, invitta, instancabile; il piacere è basso, servile, debole, caduco ed ha soggiorno e domicilio nei bordelli e nelle osterie.La virtù la incontrerai nel tempio, nel foro, nel senato, di guardia alle mura, coperta di polvere, abbronzata e con i calli alle mani; il piacere lo vedrai cercare abitualmente nascondigli, rifugiarsi nelle tenebre, nei bagni e nelle stufe (7), nei luoghi che temono gli edili (8) e lo vedrai molle, snervato, madido di vino e di unguenti, pallido, imbellettato, sepolto nelle pomate.[4] Il sommo bene è immortale, non sa sfuggire, provar sazietà o pentirsi: una mente retta non cambia mai, non sa odiare se stessa o deflettere in alcun modo dalla perfezione di vita; il piacere, invece, s'estingue nel momento stesso in cui dà l'acme del diletto; non dispone di grandi spazi e perciò sazia subito, dà nausea e si spossa dopo la prima vampata.Nessuna cosa è mai fissa, se la sua natura è il muoversi: così non può avere alcuna base stabile ciò che viene e se ne va in un attimo ed è destinato a finire, non appena sia fruito; il suo punto d'arrivo coincide con la sua estinzione e, al suo primo insorgere, è già volto alla fine.

8. [Che cosa significa vivere secondo natura.] [1] Dobbiamo discutere sul fatto che tanto i buoni, quanto i cattivi provano il piacere e che gli svergognati godono della loro onta, non meno che gli onesti del loro egregio operare? E" per questo motivo che gli antichi ci hanno insegnato a seguire la vita migliore, non la più lieta, sì che il piacere non risulti guida, ma compagno della volontà buona e retta.Come guida, dobbiamo tenere la natura; su di essa la ragione fissa lo sguardo, ad essa chiede consiglio.[2] Dunque, è la medesima cosa vivere felici e vivere secondo natura.E" tempo che spieghi il significato di quest'ultima espressione.Se coltiveremo le nostre forze fisiche e le nostre inclinazioni naturali con attenzione e senza timori, sapendole doni momentanei e caduchi; se non ne subiremo la schiavitù e non ci lasceremo spadroneggiare da beni non nostri; se ciò che dà al nostro corpo soddisfazioni occasionali sarà valutato da noi come si valutano negli accampamenti le truppe ausiliarie ed i soldati armati alla leggera (debbono servire, non comandare); solo in questo modo, codeste cose risultano utili alla mente.[3] L'uomo non deve lasciarsi corrompere né sopraffare dalle cose esterne, deve puntare esclusivamente su se stesso, fiducioso nelle sue capacità e pronto anche a risultati indesiderati, artefice della sua vita.La sua fiducia sia accompagnata dal sapere, il suo sapere dalla fermezza; resti, cioè, ben fermo quanto ha deciso una volta per tutte: nei suoi decreti, non sono ammesse cancellature.S'intende, anche se non l'aggiungo, che un uomo del genere sarà calmo e metodico e, nel suo agire, sarà cortese e nobile.[4] La ragione avvii l'indagine sotto lo stimolo dei sensi, ma una volta preso spunto da essi (e non ha altro donde muovere o donde prendere slancio verso il vero), rientri in se stessa.Anche il cosmo, che contiene tutto, e Dio, che governa l'universo, si protende, si, verso l'esterno, ma poi rientra da ogni parte in se stesso.La nostra mente deve fare altrettanto: quando, seguendo i sensi di cui è dotata, si sia protesa verso l'esterno, sia padrona di essi e di se stessa.[5] In questo modo, si produrrà un'unica forza, una potenza interiore coerente, e ne nascerà quella razionalità decisa che non conosce dissidi o esitazioni nelle sue opinioni, concezioni, convinzioni.Quando essa si sia assettata ed abbia coordinato le proprie componenti o, se così devo dire, le abbia armonizzate, ha già raggiunto il sommo bene.Non le resta nulla di riprovevole, nulla di lubrico, nulla in cui cozzare o scivolare; [6] farà ogni cosa per decisione propria e non le accadranno imprevisti; tutto ciò che verrà attuato tornerà a suo bene, perché l'azione sarà disinvolta, preparata, decisa: la pigrizia e l'indecisione denunciano dissidio ed incostanza.

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Puoi dunque professare apertamente che il sommo bene è l'armonia interiore; dove c'è accordo ed unità, debbono esserci le virtù, dove c'è disaccordo, ci sono i vizi.

9. [La virtù non è finalizzata al piacere.] [1] Ma tu stesso si obietta non hai altro motivo per praticare la virtù che quel tal piacere che speri di ricavarne.In primo luogo, non è detto che, se la virtù arriva a darci piacere, la si ricerchi per questo: essa, infatti, non ci dà il piacere, ma "anche" il piacere, e non si dà da fare per esso, ma la sua fatica, pur diretta ad altro scopo, otterrà anche questo risultato. [2] Come in un campo messo a coltura spuntano tra le zolle certi fiori, ma tutta la fatica non è stata spesa per quell'erbuzza, per bella che sia (chi seminava, si proponeva altro; queste cose sono nate in più), così anche il piacere non è né il premio né la causa della virtù: è un fatto accessorio e non piace perché è dilettevole ma, dato che piace, è anche dilettevole.[3] Il sommo bene consiste dunque nel giudizio e nel comportamento di una mente ottima.Quando essa ha compiuto la sua corsa e si è segnata attorno i suoi confini, ha completamente raggiunto il sommo bene e non desidera più altro.Al di là del tutto, non c'è più nulla, tanto quanto al di là del confine.[4] Sbagli, dunque, quando mi chiedi di definire ciò che mi fa cercare la virtù: mi chiedi una cosa che dovrebbe essere al di sopra del bene sommo.Vuoi sapere che cosa mi attendo dalla virtù? La virtù.Non puoi darmi nulla di meglio, poiché essa dà in premio se stessa.Non ti pare un premio abbastanza grande? Se ti dico: Il sommo bene è insieme la severità inflessibile dell'anima, la preveggenza l'elevatezza, il senno, la libertà, la concordia, la dignità, tu pretendi qualcosa di meglio cui indirizzare tutte codeste doti? Perché mi nomini il piacere? Sto cercando il bene dell'uomo; non quello del ventre che, nelle bestie, da mandria e feroci, è più capace del nostro.

10. [Il piacere epicureo degenera in abuso.] [1] Mi si obietta: Tu travisi il senso delle mie parole: io affermo che nessuno può avere vita lieta, se non è insieme onesto, e che questo non può accadere agli animali bruti o a chi fa consistere la propria felicità nel mangiare.Affermo a voce alta e davanti a tutti che quella vita che io dico lieta non si può porre in atto, se non unendola alla virtù.[2] Chi non sa che tutti i più stolti sono strapieni del vostro piacere, che la malvagità è abbondantemente fornita di cose piacevoli e che l'animo stesso suggerisce tante speci di voluttà depravanti? In primo luogo, l'arroganza, l'eccessiva stima di se stessi, la vanità di sentirsi superiori a tutti; poi l'amore cieco e sprovveduto dei propri beni, le delizie sfrenate, l'esultanza per motivi da nulla o infantili; infine la mordacità, la superbia che si compiace d'offendere, l'indolenza e la disgregazione di un animo impoltrito che s'addormenta su se stesso.[3] La virtù spazza via tutto questo, ti tira le orecchie e valuta i piaceri prima di accettarli.Ai pochi che ritiene buoni, non dà gran peso: li accetta, si, ma con cautela, e non prova soddisfazione nel goderli, ma nell'essere temperante.La temperanza, poiché frena l'animo, fa forse ingiuria al sommo bene? Tu apri le braccia al piacere, io lo freno; tu godi del piacere, io me ne servo; tu lo stimi il bene sommo, io non lo stimo neppure un bene; tu fai tutto per il piacere, io nulla.

11. [Il piacere non basta ad indirizzare una vita.] [1] Quando io affermo che non faccio nulla in vista del piacere, mi riferisco a quel sapiente ideale al quale tu concedi l'esclusiva del piacere.Non posso dare il titolo di sapiente ad un uomo che sia sotto il potere di una cosa qualunque, tanto meno del piacere: se sarà determinato dal piacere, come potrà resistere a fatiche e pericoli, alla povertà ed a tutte le minacce che strepitano attorno alla vita umana? Come sopporterà la vista della morte, la furia degli elementi e tanti ferocissimi nemici, lui che si lascia vincere da un avversario così debole? Farà quanto gli suggerirà il piacere.Suvvia, non vedi quante soluzioni può suggerirgli? [2] Non potrà suggerirgli si ribatte nulla di turpe, perché è inseparabile dalla virtù.Non vedi, ripeto, che razza di sommo bene è quello che, per essere un bene, ha bisogno di un guardiano? E la virtù come potrà governare il piacere, se viene dopo? Chi segue ubbidisce, chi precede comanda.Tu metti il comandante nel seguito.La virtù ha un compito ben nobile per voi: quello di assaggiatrice (9) dei piaceri! [3] Vedremo altrove se la virtù possa dirsi ancora tale in quelle persone che la trattano tanto ingiuriosamente, dato che essa non può mantenere il suo nome, se abbandona il posto che le spetta.Al momento, per restare nel tema, ti mostrerò molti assediati dai piaceri: sono persone sulle quali la fortuna ha profuso i suoi doni e delle quali dovrai ammettere che sono cattive.[4] Guarda Nomentano ed Apicio (10): quest'ultimo digeriva, così parla questa gente, i beni della terra e del mare e sapeva riconoscere gli animali di ogni parte del mondo, quando li vedeva imbanditi; guardali, mentre dall'alto di un seggio di rose contemplano la loro tavola apparecchiata, dilettando l'udito di suoni di musiche, l'occhio di spettacoli, il palato di sapori; il loro corpo è accarezzato da morbidi e finissimi tessuti e, perché le narici, nel frattempo, non restino inattive, viene impregnato di vari profumi il luogo in cui si celebra il più sacro rito della lussuria.Dovrai certo dire che costoro sono nel piacere, ma non dirai che ne deriva loro un bene; ciò che li diletta è un nonbene.

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12. [Il piacere del volgo e quello del sapiente.] [1] Si troveranno male ribatti perché subentrano molti fattori che perturbano l'animo e le opinioni tra loro contrastanti daranno inquietudine alla mente.E" cos", lo ammetto, ma proprio costoro, stolti, incostanti e soggetti alle ferite del rimorso, proveranno grandi piaceri; dovremo dunque ammettere che essi sono ugualmente distanti da qualsiasi sofferenza e dalla rettitudine mentale e che, come accade a molti, sono pazzi di una pazzia allegra che si sfoga ridendo.[2] Invece i piaceri dei sapienti sono pacati, modesti, quasi malati, controllati ed appena percettibili, in quanto non sono stati invitati a venire e, presentatisi ugualmente di loro iniziativa, non ricevono gli onori di casa e non sono mai accolti con gioia da chi li prova; vengono mescolati ed intercalati alla vita, come si intercala un gioco alle occupazioni serie.

13. [La genuina dottrina di Epicuro è ben diversa.] [1] Smettiamo dunque di collegare concetti contraddittori e di implicare il piacere nella virtù: questo errore li induce a tessere l'elogio di tutti i peggiori.Quel tizio dedito ai piaceri eccessivi e sempre gonfio di rutti e di vino, in quanto è conscio di vivere nel piacere, è anche convinto d'essere virtuoso.Gli dicono che il piacere è inscindibile dalla virtù, ed eccolo trasformare i suoi vizi in filosofia ed esibire ciò che dovrebbe nascondere. [2] Non è dunque Epicuro a spingerli alla lussuria ma, dediti come sono ai vizi, essi nascondono la loro incontinenza tra le pieghe d'una filosofia e convergono verso il luogo in cui sperano di sentir pronunciare un elogio del piacere.Non sanno valutare la schietta frugalità ed asciuttezza del piacere di Epicuro (tale lo reputo, per Ercole), ma si precipitano sulla parola nuda e cruda, facendone un pretesto ed una maschera delle proprie libidini. [3] Ed eccoli perdere il solo bene che conservavano in mezzo ai loro mali, la vergogna di peccare; fanno l'apologia di azioni di cui prima arrossivano e si vantano del vizio, sicché non è loro possibile risorgere dal disfacimento, da quando, su una vergognosa ignavia, è stato posto un titolo onorevole.Il vero motivo che rende pernicioso un tale elogio del piacere è questo: i precetti d'onestà rimangono nascosti dentro ed emergono le giustificazioni della corruzione. [4] Io sono fermamente convinto (e lo dirò, nonostante il dissenso dei miei colleghi stoici) che Epicuro impartisca precetti santi e retti, anzi severi, se li esamini da vicino; il cosiddetto piacere si riduce per lui a povera e magra cosa e, in pratica, egli prescrive al piacere la stessa legge che noi dettiamo alla virtù: gli ordina di ubbidire alla natura.Ma ciò che è bastevole per la natura, è troppo poco Per la lussuria. [5] Ed allora? Chiunque chiami felicità l'ozio neghittoso e le avventure della gola e dei sensi, cerca un buon mallevadore per le azioni malvagie e, indotto da una parola attraente ad avviarsi su quella strada, non segue poi quel piacere di cui gli si parla, ma quello che si è portato con sé.Non appena abbia incominciato a prendere i propri vizi per dettami di moralità, s'abbandona ad essi senza più timori e vergogne; da quel momento, la lussuria è la sua pratica palese.Quindi io non dico, come dice la maggior parte dei miei colleghi, che l'epicureismo è una scuola di infamie: dico che gode cattiva reputazione, che è infamato, e non lo merita.[6] Ma chi può rendersene conto, se non ne è stato addottrinato a fondo? La sua facciata dà adito alle chiacchiere e fa insorgere i cattivi propositi.E" come vedere un uomo vestito di stola (11): la tua pudicizia è certa, la tua virilità è indiscussa, il tuo corpo non è disponibile ad alcun atto innominabile, ma hai in mano un timpano.Si scelga dunque una denominazione onesta ed una scritta che già stimoli l'animo: con quella che c'era ora, vengono i vizi.[7] Chi s'avvia alla virtù dà saggio di indole nobile, chi segue il piacere appare snervato, fiacco, degenere dalla sua forza d'uomo, destinato a finire nell'abiezione, se nessuno gli fa discernere i piaceri in modo che sappia quali tra essi sono appagabili senza valicare i naturali limiti dell'istinto e quali, invece, rotolano a precipizio perché non conoscono limiti e, quanto più vengono saziati, tanto più si dimostrano insaziabili.

14. [Il primo posto spetta esclusivamente alla virtù.] [1] Su dunque, la virtù sia capofila, e il piede poserà sempre sul sodo.Ancora: l'eccesso di piacere è nocivo; nella virtù non si debbono temere eccessi, perché la moderazione le è intrinseca; non è mai buono ciò che sente il peso della propria grandezza.A chi ha avuto in sorte una natura ragionevole, si può proporre cosa migliore della ragione? E se codesta unione piace, se piace incamminarsi alla felicità in quella compagnia, la virtù sia in testa ed il piacere le ruoti attorno, come l'ombra attorno al corpo: porre la virtù, il bene più elevato di tutti, in balla del piacere è scelta da mente incapace di concepire cose grandi.[2] La virtù cammini per prima e porti le insegne; avremo ugualmente il piacere, ma ne saremo padroni e moderatori; potrà strapparci qualche concessione, ma non ci costringerà mai a nulla.Invece coloro che hanno concesso l'iniziativa al piacere, restano privi dell'una e dell'altra cosa: perdono la virtù, infatti, perché, in fin dei conti, non comandano al piacere, ma ne sono posseduti; se è scarso, li tormenta; se è eccessivo, li strozza; se viene loro meno, li rende miseri, ed ancor più miseri se li travolge.Sono come dei naviganti alle prese con le Sirti, che ora si arenano, ora sono sballottati dalle onde ribollenti.[3] Tutto accade per eccesso di intemperanza, per cieca bramosia dell'oggetto: è pericoloso, si sa, per chi desidera il male come fosse un bene, raggiungere il proprio intento.Come andiamo a caccia di belve tra fatiche e pericoli e, dopo che le abbiamo catturate, siamo preoccupati per la loro

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custodia, perché sappiamo che spesso sbranano i loro padroni, così coloro che fruiscono di grandi piaceri, sfociano di solito in grandi disgrazie e l'antico prigioniero diventa padrone; quanto più numerosi e grandi sono i piaceri, tanto più piccino e schiavo di molti padroni è colui che il volgo chiama felice.[4] Mi piace soffermarmi ancora un poco su questo esempio delle fiere.Come colui che ne rintraccia i covili stima gran cosa

catturar belve al laccio

e

le estese balze circondar di cani (12)

e, per poter seguire le loro tracce, trascura occupazioni più pregevoli e rinuncia ad innumerevoli suoi compiti, così chi segue il piacere, gli pospone tutto e trascura in primo luogo la sua libertà, anzi la spende per il proprio ventre.E" un uomo che non compera i piaceri: si vende ad essi.15. [Identificare la virtù con il piacere significa mortificare la libertà.] [1] Eppure, mi si ribatte che cosa impedisce di far coincidere il concetto di virtù con quello di piacere e ricavarne un concetto di sommo bene nel quale onestà e godimento si identifichino? Dato che le componenti dell'onestà non possono essere altro che onestà, il sommo bene non potrà riconoscersi genuino, se scoprirà in se stesso qualcosa che non sia consono con l'ottimo. [2] Neppure quella gioia che sgorga dalla virtù, pur essendo buona in se stessa, è una componente del bene assoluto, come non lo sono la letizia e la tranquillità, sebbene nascano dalle cause più belle; sì, codesti sono certamente dei beni, ma dei beni che conseguono al possesso del sommo bene, non che lo rendono completo.[3] Chi invece associa virtù e piacere, e nemmeno su un piano di parità, snerva con la fragilità dell'un bene tutto il vigore insito nell'altro e manda sotto il giogo quella libertà che rimane invincibile soltanto a condizione che non le si prospettino altri beni più pregevoli.Da quel momento, infatti, ed è questa la schiavitù più gravosa, l'uomo incomincia ad aver bisogno della fortuna; ne segue una vita piena d'ansie, di sospetti e trepidazioni, perché teme il fortuito e si preoccupa ad ogni volgere di tempo.[4] Non dai alla virtù un fondamento sodo ed immobile, ma la fai posare su una base instabile; che cosa è più insicuro dell'attesa del fortuito e del mutare della vita fisica e di quanto può influenzarla? Come può ubbidire a Dio ed accettare di buon animo tutto quanto accade, senza lagnarsi del fato perché sa interpretare in bene le proprie vicende, quest'uomo che si lascia turbare dalle punzecchiature del piacere e del dolore? Non può neppure essere buon difensore o liberatore della patria e non può battersi per gli amici, se è propenso al piacere.[5] Il bene sommo raggiunga una vetta donde nessuna forza possa trascinarlo abbasso, là dove non hanno accesso né dolori, né aspirazioni, né timori, né alcuna cosa che possa inficiare il buon diritto del bene sommo; lassù può salire soltanto la virtù.E" un pendio che soltanto il suo passo sa affrontare; rimarrà ben piantata sui propri piedi e sopporterà quanto accadrà, non soltanto rassegnata, ma anche capace di accettare, conscia che le difficoltà del momento sono leggi di natura, e sopporterà le ferite da buon soldato: conterà le proprie cicatrici e, trafitta dai dardi, resterà, anche morente, fedele al condottiero per il quale cade.Nel suo animo sarà radicato l'antico imperativo: segui Dio.[6] Ma chiunque moltiplica lagnanze, pianti, e gemiti ed esegue gli ordini soltanto perché è costretto, è ugualmente trascinato ad ubbidire, contro la sua volontà.Che dissennatezza, il farsi trascinare piuttosto che seguire! Tanta, per Ercole, quanta stoltezza ed ignoranza della nostra condizione è il dolerci perché una cosa ci manca o ci giunge sgradita, od anche lo stupirci o lo sdegnarci di quelle vicende che accadono tanto ai buoni quanto ai cattivi come, ad esempio, le malattie, i lutti, le infermità e tutto quanto en tra di punto in bianco nella vita di un uomo.[7] Tutto ciò che dobbiamo sopportare per legge universale, sopportiamolo con magnanimità.Noi abbiamo prestato giuramento in questi termini: accetteremo le nostre vicende di mortali e non ci turberemo di ciò che non è in nostro potere d'evitare.Siamo nati sotto una tirannide: la libertà è l'ubbidire a Dio.

16. [Canoni di una morale basata sulla virtù.] [1] Dunque, la vera felicità è fondata sulla virtù.Una virtù così concepita, che cosa ti suggerirà? Di non giudicare come bene o come male se non ciò che ti accade in conseguenza della tua virtù o della tua malizia.Poi, di mantenerti imperturbabile sia nell'opporti al male sia nell'operare secondo il bene, sì da riprodurre, nei limiti del possibile, l'immagine di Dio.[2] Quale risultato ti è promesso per questa tua campagna? Risultati immensi, degni di un dio: non subirai costrizioni, non avrai bisogno di nessuno; sarai libero, sicuro, immune da danni; nessun tuo tentativo andrà a vuoto, non subirai divieti; tutto andrà secondo i tuoi piani, non ti accadrà nulla in contrario, nulla che non corrisponda ai tuoi intenti ed alla tua volontà.[3] Allora? La virtù basta a rendere felice la vita? La virtù vera, quella perfetta e divina, perché non dovrebbe bastare, anzi superare il limite di sufficienza? Che cosa può mancare a chi si è posto fuori di ogni desiderio? Può aver bisogno di aiuti dall'esterno l'uomo che ha concentrato su di sé tutti i suoi beni? Ma chi tende alla virtù, anche se ha fatto molto cammino, ha bisogno di un po'"di benignità della fortuna, finché continua a lottare in condizione di uomo di questo

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mondo, fino a che non si sciolga da quel tal nodo, da tutti i vincoli della condizione mortale.Allora qual è la differenza? Questa: gli altri sono legati, stretti, anzi trascinati qua e là; costui invece, che è avanzato verso le zone superiori ed è giunto molto in alto, trascina una catena lenta: non è ancora libero, ma è come se lo fosse.

17. [Difesa dei filosofi non posseggono la virtù che professano, ma la cercano.] [1] Adesso, se uno di quelli che latrano contro la filosofia viene a dirmi, secondo il suo solito: Perché le tue parole sono più virtuose della tua vita? Perché abbassi la voce di fronte ai superiori, ritieni il denaro un mezzo necessario, risenti dei danni, piangi alla notizia della morte di tua moglie o del tuo amico, tieni conto del buon nome e ti senti ferito dalla maldicenza? [2] Perché il tuo podere è curato più di quanto non lo esiga un reddito normale? Perché la tua tavola non è imbandita secondo le tue parche massime? Perché hai mobili troppo ricercati, in casa tua si beve vino più vecchio di te, si mantiene un'uccelliera? E pianti alberi che non ti daranno altro che ombra, e tua moglie porta appeso alle orecchie il patrimonio di una buona casata, e i tuoi schiavetti sono ben forniti di vesti preziose? Perché in casa tua il servire a tavola è un'arte, non si può disporre l'argenteria a caso o a piacere, ma s'apparecchia secondo le buone regole e c'è uno scalco al tuo servizio?.Aggiungi, se credi: Perché hai possedimenti di là dal mare, perché ne hai più di quanti ne conosca? Vergogna! O sei tanto sconsiderato che non conosci nemmeno i tuoi pochi schiavi, o sei tanto smodato nel lusso da averne di più di quanto la tua memoria non riesca a ricordare!.[3] Tra poco, rincarerò io la dose delle vostre invettive e mi rimprovererò più difetti di quanti non credi, ma per ora mi contento di risponderti: Non sono un sapiente e, se questo può ingrassare la tua malignità, nemmeno lo sarò.Non puoi pretendere da me che io sia alla pari degli ottimi, ma che sia migliore dei malvagi.Mi basta questo: togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e rimproverare a me stesso i miei errori. [4] Non sono ancora arrivato alla buona salute e nemmeno ci arriverò; preparo dei calmanti per la mia podagra, non una terapia, e mi accontento di sentirne diradarsi gli attacchi ed attenuarsi le fitte; ma se paragono i miei piedi ai vostri, io, debole, mi sento un corridore.Questo non lo dico di me, perché so d'essere sepolto nel fondo dei vizi, ma di chi ha già fatto qualche cosa.

18. [Il filosofo parla della virtù, non di se stesso, ed è indifferente alla critica dei maligni.] [1] La tua vita insisti non è coerente con le tue parole.Lo stesso rimprovero, o uomini più che maligni, ostinati nemici di tutti i buoni, è stato mosso a Platone, ad Epicuro, a Zenone; ebbene, tutti costoro non dicevano come essi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere.Sto parlando della virtù, non di me stesso, e quando attacco i vizi, mi riferisco in primo luogo ai miei; non appena ci riuscirò, vivrò come si deve.[2] Codesta vostra malignità, impregnata di tanto veleno, non mi distaccherà dai migliori e neppure accadrà che codesto veleno, che sputate sugli altri e con il quale uccidete voi stessi, mi impedisca di continuare ad elogiare non la vita che conduco, ma quella che ritengo si debba condurre, o dall'adorare la virtù, pur seguendola a distanza e carponi.[3] Secondo voi, dovrei aspettare che non trovi più nulla da eccepire quella malignità che non ha avuto riguardo nemmeno per un Rutilio o per un Catone? (13) Può un uomo curarsi di non sembrare troppo ricco a costoro, se Demetrio, il cinico (14), non è parso loro abbastanza povero? Un uomo tutto energia nel combattere contro ogni desiderio della natura, più povero degli altri cinici, in quanto quelli si proibivano di possedere, costui anche di chiedere, non è ritenuto abbastanza povero! Ma osserva: non professò la pratica della virtù, ma quella della povertà.

19. [Ancora contro la malignità sterile.] [1] Il filosofo epicureo Diodoro (15), che pochi giorni or sono si uccise di propria mano, secondo costoro, quando si tagliò la gola, non lo fece per mettere in pratica l'insegnamento di Epicuro.Alcuni giudicano il suo gesto demenza, altri avventatezza.Egli intanto, felice e del tutto tranquillo in coscienza, al momento di lasciare la vita rese testimonianza a se stesso, lodò la pace della sua esistenza condotta in porto e messa all'àncora, e disse quelle parole che voi non volete ascoltare, quasicché doveste fare altrettanto:

vissi e compii il corso che la Fortuna mi ha dato (16).[2] Voi disputate sulla vita e la morte dell'uno e dell'altro e, quando affiora il nome di un uomo grande per qualche merito insigne, vi mettete ad abbaiare come i cagnolini all'avvicinarsi di persone sconosciute.Vi conviene che nessuno sia ritenuto buono perché, per voi, la virtù degli altri suona rimprovero ai vostri delitti personali.Per invidia, mettete a paragone gli splendidi abiti altrui con i vostri stracci e non vi rendete conto di tutto il danno che infliggete a voi stessi con la vostra improntitudine.Infatti, se coloro che seguono la virtù sono degli avari, dei libidinosi, degli ambiziosi, che cosa siete voi, che detestate persino la parola virtù? [3] Secondo voi, nessuno mette in pratica ciò che dice, nessuno vive secondo il modello che presenta a parole; c'è da stupirsene, se essi parlano di azioni forti, grandiose, sfuggenti a tutte le bufere umane? Se non riescono a sconficcarsi dalle croci sulle quali ciascuno di voi pianta i suoi chiodi, ebbene, quando vengono messi al supplizio, pendono ciascuno da un solo palo; questi altri invece, che non sanno guardare che a se stessi, sono appesi a tante croci, quante sono le loro cupidigie.E, in più, sono maldicenti, e si fanno belli dell'offendere gli altri (17).Crederei in questa loro prospettiva di successo, se non ci fossero dei condannati che, dal patibolo, sputano su chi li sta a guardare.

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20. [E" impresa sublime non solo il praticare, ma anche il proporsi la virtù.] [1] I filosofi non mettono in pratica ciò che dicono. :E" già un buon metterlo in pratica il parlarne ed il concepirlo con onestà di mente; se, per giunta, le loro azioni corrispondessero ai loro discorsi, quale essere risulterebbe più felice di loro? Dunque non è giustificato il tuo disprezzo per i buoni discorsi e per i cuori colmi di buoni pensieri.La meditazione sulle proprie aspirazioni al bene è già lodevole, anche a prescindere dai risultati. [2] E" meraviglia se non raggiungono la vetta, avviati come sono su un sentiero scosceso? Se sei uomo, ammira il loro generoso tentativo, anche quando li vedi cadere.E" impresa nobile il tentare non a misura delle proprie forze, ma di quelle della propria natura, l'attaccare vette eccelse ed il concepire disegni superiori anche alle capacità di chi è naturalmente magnanimo. [3] Un uomo si è proposto: Guarderò la morte con lo stesso volto che ho quando ne sento parlare.Mi assoggetterò alle fatiche, per gravose che siano, sorreggendo il corpo con l'animo.Disprezzerò ugualmente le ricchezze che ho e quelle che non ho, senza rattristarmi se si trovano in casa d'altri, senza imbaldanzirmi se splendono attorno a me.Non risentirò della fortuna, né quando viene né quando se ne va.Guarderò tutte le terre come mie e le mie come di tutti.Vivrò con la coscienza d'essere nato per gli altri e sarà questo il mio titolo di gratitudine alla natura: in quale altro modo, infatti, essa avrebbe potuto curare meglio il mio interesse? Ha donato me singolo a tutti e tutti a me singolo.[4] Del mio patrimonio non sarò né avaro custode né prodigo scialacquatore.Non riterrò di possedere nessun bene più sicuro di quelli che ho donato a proposito.Non valuterò i benefici a numero o a peso, ma soltanto in base alla stima di chi li riceve; non mi parrà mai grande un dono fatto a persona degna.Non agirò per ottenere stima, ma soltanto per la mia coscienza; mi vedrò sotto gli occhi del popolo, quando compirò singole azioni delle quali sono conscio soltanto io.[5] Mangerò e berrò per soddisfare il bisogno della natura, non per riempirmi e vuotarmi il ventre.Cordiale con gli amici, mite ed accessibile ai nemici, accoglierò le richieste prima che mi siano fatte e verrò incontro alle preghiere oneste.Saprò che la mia patria è il mondo ed i miei governanti sono gli dèi, e che essi stanno attorno a me e sopra di me con funzione di censori di quanto faccio e dico.E quando la natura mi toglierà il respiro o la ragione lo congederà da me (18), me ne andrò rendendo testimonianza d'aver amato la buona coscienza e le buone aspirazioni, e che nessuno ha subìto da parte mia diminuzioni della sua libertà, meno ancora io. L'uomo che si proporrà, deciderà, tenterà di attuare questo programma, camminerà verso gli dèi e certo, anche se non li raggiunge, almeno cade nell'ardita impresa (19).[6] Voi invece, con il vostro odio per la virtù e per chi la onora, non fate nulla di nuovo.Anche gli occhi deboli temono il sole e gli animali notturni aborriscono lo splendore del giorno; al suo primo sorgere, restano abbacinati e si ritirano in disordine nei loro nascondigli, si nascondono in qualche crepaccio, per timore della luce.Gemete e tenete in esercizio la vostra miserabile lingua, insultando i buoni.Spalancate la bocca, mordete: vi spezzerete i denti molto prima di lasciare la traccia di un morso.

21. [Il sapiente accetta i beni, ma non ne è schiavo.] [1] Come mai quel tizio si professa filosofo e vive così da ricco? Perché predica il disprezzo delle ricchezze, ma se le tiene? Pensa che la vita sia da disprezzare e continua a vivere? Disprezza la salute, ma la custodisce con ogni cura e la preferisce ottima? Anche l'esilio lo stima una parola priva di senso e dice: "Che male è trasferirsi da un paese ad un altro?", però, se gli riesce, invecchia in patria? (20).E sentenzia che non c'è differenza tra una vita lunga ed una breve, eppure, se nulla glielo impedisce, aggiunge anno ad anno e conserva placido la sua freschezza fino a tarda vecchiaia? [2] Dice, è vero, che queste sono cose da disprezzare, non per rifiutarne il possesso, ma perché non vuole che quel possesso gli provochi ansia; non le getta lontano da sé ma, qualora se ne vadano, assiste alla loro partenza senza provarne pena.La fortuna, da parte sua, in quale luogo può depositare con maggior tranquillità le ricchezze, se non in quello donde può riaverle senza che se ne lagni chi restituisce? [3] Marco Catone, quando elogiava Curio e Coruncanio (21) ed i bei tempi nei quali era delitto, contestato dai censori (22), l'aver poche laminuzze d'argento, possedeva un patrimonio di quattro milioni di sesterzi, certamente inferiore a quello di Crasso (23), ma superiore a quello di Catone il Censore.Se si facesse un paragone, aveva superato il bisnonno molto più di quanto Crasso non superasse lui e, nel caso che gli fossero capitate ricchezze maggiori, non le avrebbe buttate.[4] Il sapiente non si ritiene indegno di nessun dono della sorte, non ama le ricchezze, però le preferisce, non rifiuta quelle che possiede, ma le controlla e vuole servirsene per ampliare il campo d'azione della sua virtù.

22. [Pur sapendo sopportare le privazioni, il sapiente preferisce disporre dei beni.] [1] E" dubbio, forse, che un sapiente trovi una maggior possibilità di dispiegare il suo animo nella ricchezza che non nella povertà, se la povertà permette d'esercitare un solo genere di virtù, la fermezza e sopportazione, mentre la ricchezza apre un vasto campo alla temperanza, alla circospezione, all'ordine, alla magnificenza? [2] Il saggio non disprezzerà se stesso, se sa d'essere molto piccolo di statura, ma preferirà essere alto; se è debole di costituzione o ha perduto un occhio, varrà ugualmente, preferirà tuttavia avere un corpo robusto e tenerlo da uomo che sa di avere altre capacità più sostanziose.

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[3] Sopporterà la cattiva salute e desidererà la buona.Certi beni, anche se pesano poco sul totale e possono venir meno senza comportare la distruzione del bene principale, contribuiscono però parzialmente alla costante letizia che nasce dalla virtù: le ricchezze producono nel sapiente la stessa sensazione di letizia che produce nel navigante un buon vento a favore e, in noi, una bella giornata o un luogo soleggiato nel mezzo di un'invernata rigida.[4] Domando: quale sapiente (parlo dei nostri, che pongono la virtù come unico bene) negherebbe che anche queste cose, che chiamiamo indifferenti, abbiano in sé qualche pregio e che alcune siano preferibili ad altre? C'è chi ne ricava poco onore e chi ne ricava molto.Non sbagliare dunque: le ricchezze sono tra le cose dapreferire.[5] Allora, perché mi deridi, se le ricchezze hanno tanta importanza per te quanta ne hanno per me? Vuoi sapere in che misura non hanno la stessa importanza? Se le mie ricchezze mi lasceranno, non porteranno via altro che se stesse; tu, invece, rimarrai stordito e ti parrà d'esser stato privato di te stesso, se quelle se ne andranno; per me, le ricchezze hanno una certa importanza, per te, sono la cosa più importante; infine, le ricchezze sono mie, tu, invece, sei delle ricchezze.

23. [In particolare, il filosofo può essere ricco.] [1] Smetti dunque di proibire il denaro ai filosofi: nessuno ha mai condannato la sapienza alla povertà.Il filosofo può avere abbondanti ricchezze, purché non siano state sottratte ad altri o lorde di sangue altrui, siano state acquistate senza far torto a nessuno, senza lucri disonesti, e possano andarsene pulitamente, come pulitamente sono venute, e non facciano gemere nessuno, eccettuati i maligni.Aumentane la quantità a piacimento: sono oneste se, pur comprendendo tanti beni che chiunque vorrebbe avere, non contengono nulla che altri possa rivendicare come proprio.[2] Il sapiente, per parte sua, non allontanerà da sé l'elargizione che la fortuna gli ha fatto e non si vanterà né si vergognerà di un patrimonio onestamente acquistato.Potrà anche trarne un motivo di vanto se, spalancata la sua casa e condotti i concittadini davanti alle sue ricchezze, sarà in grado di dire: Ciascuno si riprenda le cose che riconosce sue.Sarà grande, onoratamente ricco, l'uomo che, dopo queste parole, resterà in possesso di tutti i suoi beni! Io dico: se quest'uomo potrà sottoporsi, tranquillo e sereno, all'esame del popolo, potrà anche professarsi ricco apertamente, senza segreti.[3] Il saggio non lascerà varcare la soglia di casa sua neppure ad una monetina di mala provenienza; contemporaneamente, non ripudierà e non escluderà da casa propria le grandi ricchezze, il dono della fortuna, il frutto della virtù.Che motivo ha di negare loro un posto onorato? Entrino, siano ospiti.Non se ne vanterà, non le nasconderà (il primo comportamento è da sciocco, il secondo, da timido e pusillanime che s'illude di poter nascondere in seno un grande bene) e, come ho detto, non le caccerà di casa.[4] Che cosa dovrebbe dire in tal caso? Siete inutili, oppure non so usare le ricchezze? Come chi è in grado di compiere un percorso a piedi, preferirà sempre salire su una carrozza, così il povero, se gli si presenta la possibilità di diventare ricco, vorrà esserlo.Possederà quindi le ricchezze, ma come beni instabili, destinati ad andarsene, e non permetterà che diventino un peso, né per lui né per alcun altro.[5] Donerà...Perché avete rizzate le orecchie ed aprite le tasche?...Donerà o ai buoni o a coloro che potrà rendere buoni, scegliendo i più degni con matura riflessione, perché sa che si deve render conto delle entrate e delle spese; largirà per giusta e provata causa (24), perché il dono fatto male è una brutta disgrazia; avrà borsa accessibile, ma non forata, dalla quale molto possa uscire, ma nulla possa cadere

24. [Il saper donare e il distacco del sapiente dalle ricchezze.] [1] Sbaglia chi pensa che il donare sia cosa facile: è atto che presenta molte difficoltà, se appena si vuole distribuire con discernimento, non gettare a casaccio, impulsivamente.Con questa persona mi rendo benemerito, a quella restituisco, quest'altro mi fa compassione; fornisco mezzi a quello là, che non merita d'essere avvilito o preoccupato per la sua povertà; a certuni non darò: è vero che si trovano in strettezze ma, anche se dessi, resterebbero subito senza nulla; ad alcuni offrirò, ad altri addirittura imporrò il dono.Non posso essere sbadato in questo: mai apro partite di credito più importanti che quando dono.[2] Come, mi obietti tu doni per riavere? No, ma neppure per perdere: il dono deve finire in un luogo dal quale non debba essere reclamato, ma possa essere restituito.Un beneficio deve essere sistemato come un tesoro ben sepolto, che non andrai a scavare, se non in casi di necessità.[3] Guarda: anche la casa del ricco offre mille occasioni di beneficenza! Perché riservare la liberalità esclusivamente agli uomini in toga? La natura mi ordina di far del bene agli uomini, senza dar peso alla loro condizione di schiavi o di liberi, di nati liberi o figli di liberti, di libertà legalmente riconosciuta o concessa soltanto amichevolmente.Dovunque c'è un uomo, ivi si può collocare un beneficio.Il denaro può quindi circolare anche all'interno della casa in cui si trova e farsi strumento della liberalità, una virtù che non si chiama così perché viene esercitata a favore degli uomini liberi, ma perché prende le mosse dalla libertà dell'animo.E" una virtù del sapiente, che non inciampa mai in uomini turpi o indegni e non si stanca mai del suo vagare al punto di

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non poter fluire in tutta pienezza, ogni volta che incontra un soggetto degno.[4] Non è dunque il caso di accogliere di malanimo ciò che gli assetati di sapienza vi dicono con onestà, fortezza e coraggio.E, prima di tutto, fate ben attenzione a questo: un aspirante alla sapienza è cosa ben diversa da uno che ha raggiunto la sapienza.Il primo ti dirà: Io parlo molto bene, ma mi sto ancora dibattendo tra moltissimi mali.Non puoi pretendere che io risponda a puntino alla regola che professo: io bado soprattutto a farmi, a plasmarmi, ed aspiro ad un ideale molto elevato; quando avrò raggiunto la meta che mi sono proposto, potrai pretendere che le mie azioni corrispondano alle mie parole.Invece colui che ha già raggiunto la pienezza del bene umano, si comporterà diversamente con te e dirà: Prima di tutto, è ingiustificata la tua pretesa di sentenziare su persone migliori di te; a me è già capitato di dispiacere ai malvagi, e questo dimostra la mia rettitudine. [5] Ma per darti la risposta che non negherei a nessun uomo, ascolta che cosa ti proclamo e sappi che stima ho dei beni.Dico che le ricchezze non sono un bene: se tali fossero, renderebbero buoni gli uomini; ora, poiché ciò che si trova anche presso i cattivi non può esser detto un bene, io nego loro questa qualifica.Per il resto, ammetto che si debbono avere, che sono utili e che conferiscono grandi agi alla vita.

25. [Prosecuzione del discorso sul distacco dalle ricchezze.] [1] Allora? State a sentire il motivo per cui mi rifiuto di elencarle tra i beni e quale comportamento mi distingue da voi nei loro riguardi, pur restando noi d'accordo sul fatto che dobbiamo averle.[2] Mettimi in una casa più che ricca, dove l'oro e l'argento siano usuali: non per questo io mi riterrò migliore, perché quelle cose, che pure mi sono vicine, rimangono fuori di me.Conducimi sul ponte Sublicio (25) e cacciami tra la poveraglia: non disprezzerò me stesso per il solo fatto che sono seduto tra coloro che stendono la mano per l'elemosina.E" tanto importante la mancanza di un tozzo di pane, se non mi viene meno la possibilità di morire? Con tutto questo, preferisco la casa splendida al ponte.Mettimi tra mobili preziosi e suppellettili raffinate: non avrò di che ritenermi più felice perché il mio cuscino è morbido e faccio coricare sulla porpora i miei ospiti.Cambiami letto: non sarò più misero se il mio capo stanco posa su un fascio di fieno ed io mi troverò disteso sul crine del circo (26) che sbuca dalle sdrusciture del saccone.E con ciò? Preferisco dirti le mie ragioni in pretesta e con un bel discorsetto (27) che a spalle nude e con frasette nude.[3] Se i giorni scorreranno come io desidero, se nuove ovazioni si uniranno alle precedenti, non per questo mi compiacerò di me stesso.Rovescia questa congiuntura favorevole e supponi che il mio animo sia percosso da ogni lato da danni, lutti, attacchi d'ogni genere, che non venga un'ora della quale non debba lagnarmi.Non mi dirò misero perché mi vedo attorno soltanto miserie, non maledirò un solo giorno: ho provveduto a che una giornata nera per me non potesse sorgere.In conclusione: preferisco moderare la mia gioia che frenare i miei dolori. [4] Il famoso Socrate ti parlerà così: Fà di me il vincitore di tutte le genti; che il carro voluttuoso di Libero mi porti in trionfo dall'Oriente fino a Tebe (28), che i re vengano a chiedermi legge: nel momento in cui sarò salutato da ogni parte come un dio, penserò soprattutto che sono un uomo.A tanta grandezza fà succedere ben presto un rovescio repentino: dovrò salire sulla carretta altrui per ornare il corteo di un vincitore superbo e crudele.Non mi sentirò meno dignitoso dietro il cocchio di un altro, di quanto non lo fossi sopra il mio.Ma con ciò, preferisco essere vincitore che prigioniero.[5] In conclusione: disprezzerò l'intero regno della fortuna ma, se la scelta è lasciata a me, di quel regno prenderò il meglio.Tutto ciò che mi capiterà lo riterrò un bene, ma preferisco le situazioni più facili e piacevoli, quelle che tormentano meno chi le deve affrontare.Non si può pensare che esistano virtù che non comportano fatica, ma certe virtù hanno bisogno del pungolo, certe altre del freno.[6] Come il corpo deve essere frenato nei pendii e spinto nelle salite ripide, così certe virtù si trovano su una discesa, certe altre affrontano una salita.E" dubbio forse che salgano, che comportino sforzo e lotta la pazienza, la fortezza, la perseveranza e tutte le altre virtù che s'oppongono alle difficoltà o debbono soggiogare la fortuna? [7] Ancora: non è altrettanto chiaro che discendono un pendio la liberalità, la temperanza, la mitezza? Le esercitiamo trattenendo l'animo ed impedendogli di scivolare; per praticare le altre, invece, lo esortiamo ed incitiamo energicamente.Alla povertà dovremo dunque applicare le virtù che sanno combattere con maggior forza, alla ricchezza le virtù più attente, che sanno posare il piede sul sicuro e reggere bene al proprio carico.[8] Fatta così la suddivisione, io preferisco che mi siano date da praticare quelle che comportano un esercizio abbastanza tranquillo, che non quelle la cui pratica costa sudore e sangue.Dunque, dice il sapiente non c'è incoerenza tra il mio dire ed il mio vivere; al vostro orecchio arriva soltanto il suono delle parole, ma non ve ne chiedete il significato.

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26. [Il diverso comportamento del sapiente e dello stolto di fronte alle ricchezze.] [1] Ma che differenza c'è tra me stolto e te sapiente, se tutti e due vogliamo possedere? Tantissima: le ricchezze sono schiave in casa del sapiente e padrone in casa dello stolto; il sapiente non permette nulla alle ricchezze, mentre le ricchezze a voi permettono tutto; voi vi abituate ad esse, vi immedesimate con esse, come se qualcuno ve ne avesse garantito l'eterno possesso, mentre il sapiente medita sulla povertà soprattutto quando si trova in mezzo alla ricchezza.[2] Un generale non crede mai alla pace al punto di non prepararsi ad una guerra che, anche se non è in atto, almeno è dichiarata: ma una casa bella stordisce voi, che mancate del senso della misura, come se non potesse mai bruciare o crollare, e le ricchezze vi rimbambiscono, come se fossero esenti da qualunque pericolo e troppo grandi, a vostro giudizio, perché la fortuna abbia forze bastanti a distruggerle.[3] Nel vostro ozio, giocate con le ricchezze e non ve ne prospettate il pericolo, come certi barbari che, assediati ed ignari delle macchine da guerra, stanno a guardare inerti il lavoro degli assedianti e non capiscono a che servano quelle apparecchiature che vengono erette lontano (29).A voi accade lo stesso: vi snervate in mezzo ai vostri beni e non pensate quanti imprevisti vi pendono sul capo e s'accingono a portar via un bottino prezioso.[4] Chiunque toglierà le ricchezze al sapiente, gli lascerà tutto il suo; egli infatti vive soddisfatto del presente e tranquillo del futuro.Quel Socrate, o chi altro sia, purché abbia il medesimo diritto e potere di opporsi alle vicende umane, dice: Non c'è in me determinazione più netta di quella di non piegare la mia condotta di vita alle vostre opinioni.Non fate che ripetere continuamente le medesime critiche: io non le stimerò neppure insulti, ma penosi vagiti infantili.[5] Questo dirà l'uomo che è giunto al possesso della sapienza, al quale l'animo immune da vizi ordina di rimproverare gli altri non per odio, ma per correzione.Ed aggiungerà: Do peso alla valutazione che fate di me, non per riguardo a me stesso, ma per voi, perché il vostro gridare odio ed ingiurie alla virtù costituisce la più totale rinuncia ad ogni buona speranza.Voi non fate nessuna offesa a me, come non la fanno agli dèi coloro che rovesciano le are.Ma l'intento cattivo ed il progetto perverso vengono a galla anche se sono ridotti all'impossibilità di nuocere.[6] Io sopporto il vostro vaneggiare come Giove Ottimo Massimo sopporta le fantasticherie dei poeti: uno gli ha appiccicato le ali, un altro le corna, uno l'ha presentato come un adultero che passa le notti fuori casa, un altro come crudele verso gli dèi o ingiusto verso gli uomini, chi come rapitore di figli legittimi, magari suoi parenti, e chi come uccisore del padre (30) e conquistatore di un regno non suo e spettante a suo padre.Non hanno ottenuto altro risultato che quello di far scomparire tra gli uomini il senso del peccato (31), nel caso in cui abbiano creduta tale la condotta degli dèi.[7] Ma sebbene codeste vostre parole non mi offendano, vi ammonisco ugualmente nel vostro interesse: guardate con rispetto alla virtù, credete a coloro che, dopo averla seguita a lungo, proclamano di seguire un ideale grande, un ideale che appare più grande di giorno in giorno, ed onorate la virtù come onorate gli dèi, e coloro che la professano come i sacerdoti; infine, ogni volta che sentirete citare i testi sacri, favoriteci con le lingue (32).Questo "favoriteci" non è detto, come pensano i più, nell'intento di chiedere un favore: è un ordine di far silenzio, perché il rito sacro possa compiersi secondo le prescrizioni, senza essere disturbato da nessuna voce profana.E" un ordine che è ben più necessario impartire a voi: ascoltate con attenzione ed in assoluto silenzio tutto ciò che sarà proclamato da quell'oracolo.[8] Quando uno sconosciuto, scuotendo il sistro, mentisce per ordine ricevuto, quando un uomo, esperto nel ferirsi le braccia, si fa uscire sangue dagli omeri e dalle spalle con mano leggera (33), quando una donna che striscia per la strada sulle ginocchia manda urla o un vecchio coronato d'alloro e coperto di lino, portando una lucerna accesa in pieno giorno, grida che un dio è adirato, voi correte, ascoltate ed affermate, gonfiandovi a vicenda di stupore, che quel tale è ispirato dagli dèi.

27. [Invettiva di Socrate.] [1] Ecco che Socrate, da quel carcere che egli purificò entrandovi e rese più onorato di qualsiasi curia, proclama: Quale pazzia, quale indole nemica degli dèi e degli uomini è codesta che vi induce ad infamare la virtù ed a profanare le cose sacre con parole malevole? Se ne siete capaci, lodate i buoni, altrimenti tirate diritto; se poi vi compiacete di esercitare questa vostra sinistra licenziosità, assalitevi l'un l'altro: quando scagliate la vostra demenza contro il cielo, non dico che commettete un sacrilegio, ma che fate una fatica inutile.[2] Ai miei tempi, sono stato il bersaglio delle battute di Aristofane ed un intero manipolo di poeti comici (34) m'ha rovesciato addosso i suoi lazzi velenosi; la mia virtù ne è uscita nobilitata dalle accuse stesse che la colpivano.Le fa bene essere portata in piazza e messa alla prova, perché nessuno si rende conto della sua grandezza meglio di chi ne ha sperimentato la forza attaccandola: la durezza della selce è nota, più che ad ogni altro, a chi l'ha urtata.[3] Io mi presento come uno scoglio solitario, nel mezzo di un mare burrascoso, continuamente flagellato nei fianchi dai flutti che s'ergono da ogni parte, ma che pertanto non riescono né a spostarlo né a logorarlo con il loro perenne assalto; balzateci addosso, attaccate: vi vincerò sopportandovi.Tutto ciò che urta contro oggetti fissi ed irremovibili, usa le sue forze a proprio danno: cercatevi dunque un bersaglio molle, cedevole, nel quale i vostri dardi riescano a conficcarsi.[4] Vi piace esaminare i difetti altrui e sentenziare indiscriminatamente: Perché quel filosofo ha una casa tanto vasta? Perché quell'altro fa pranzi tanto lauti? Osservate le pustole altrui e siete coperti di piaghe.E" come se uno, roso da scabbia indomabile, deridesse i nèi o le verruche di corpi bellissimi.

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[5] Rinfacciate a Platone d'aver cercato denaro, ad Aristotele d'averne accettato, a Democrito di averlo trascurato e ad Epicuro di averlo sciupato.A me personalmente potete rinfacciare Alcibiade e Fedro (35), ma sarete ben felici di imitare alla prima occasione i vostri vizi! [6] Perché non date, invece, un'occhiata ai vostri mali, che vi trafiggono da ogni parte, alcuni sfiorandovi appena, altri bruciandovi il profondo delle viscere? La condizione umana non è ancora scesa tanto in basso, nonostante che conosciate poco il vostro stato, da concedervi il tempo sufficiente per agitare la vostra lingua nell'insulto dei buoni.

28. [Prosegue l'invettiva di Socrate.] [1] Di questo non vi rendete conto e tenete un atteggiamento che non corrisponde alla vostra situazione, come quelli che si divertono al circo o al teatro nel momento in cui, in casa loro, è accaduto un lutto del quale non sono ancora stati avvertiti.Ma io guardo dall'alto e vedo quali bufere pendono sul vostro capo e stanno già per scoppiare dal loro nembo o vi sono già vicine, arrivano, e si porteranno via i vostri beni.Non è vero? Forse che adesso, anche se non ve ne accorgete gran che, un turbine non travolge e trascina i vostri animi che ripudiano e desiderano contemporaneamente le stesse cose, ed ora si sentono innalzati al cielo, ora sbattuti nell'abisso?.. [Il resto è perduto.] NOTE.Nota 1.Attorno a questa constatazione, si snoda il dialogo "Della brevità della vita".Nota 2. "Nei comizi": nelle elezioni.Si votava per "praerogativa" (veniva cioè estratto a sorte l'ordine nel quale le tribù si presentavano ad esprimere il loro voto); il suffragio d'ogni tribù contava per un solo voto, indipendentemente dal numero dei votanti; lo scrutinio era contemporaneo alla votazione e il candidato veniva proclamato eletto non appena avesse ottenuto il numero sufficiente di suffragi (18 su 35).Ciò poteva provocare clamorosi sovvertimenti delle previsioni e dei risultati parziali.Nota 3.I "processi civili" erano presieduti da collegi giudicanti.Nota 4. "Per separazione": nelle pubbliche assemblee, e soprattutto nei comizi, si poteva esprimere il proprio voto aggregandosi al gruppo del sì o a quello del no.Nota 5.Tutti i soldati portano la "clamide" (mantello), ma soltanto i decorati portano la "corona".La tradizione militare romana ne conosceva di molte speci: ai trionfatori era riservata quella d'alloro.Nota 6.Ancora un'espressione mutuata dal linguaggio assembleare: "Dividere la proposta" significa confermare alcuni punti e ritirarne altri.Nota 7. "Stufe": i "sudatoria", locali stretti e surriscaldati da condotte d'aria calda, per bagni di sudore.Spesso mascheravano case d'appuntamento.Nota 8. "Edili": magistrati che, oltre ai compiti specifici del loro collegio (della plebe, curuli, frumentari), avevano anche compiti di polizia, specialmente per quanto riguardava il buon costume ed il mercato dei generi alimentari.Nota 9.Il "praegustator" ("assaggiatore") era uno dei tanti schiavi "specializzati" delle case più ricche.Nota 10. "Cassio Nomentano", citato più volte da Orazio, spese, se dobbiamo credere ad una noterella di Porfirione, sette milioni di sesterzi in cene e libidini.Di "Apicio Celio", gastronomo, è giunto a noi un ricettario intitolato "De re coquinaria" ("Arte culinaria").Nota 11. "Stola": la lunga veste delle donne.Secondo Seneca, l'epicureo è paragonabile al sacerdote di Cibele che, apparentemente, è ministro d'un culto, in realtà, presentandosi vestito da donna e danzante a ritmo di tamburello, si dimostra evirato e omosessuale.Nota 12.Virgilio, "Georg." 1,139-140: i due emistichi sono citati a memoria, con inesattezze.Nota 13.La coppia senecana degli ingiustamente perseguitati "Rutilio Rufo" e "Catone Uticense", dei quali si legge l'elogio in "Della provvidenza" 4.Nota 14. "Demetrio cinico", filosofo contemporaneo ed amico di Seneca, che spesso ne cita le massime.Nota 15.Questo "Diodoro" ci è noto soltanto attraverso questa memoria.Nota 16.Sono parole della Didone virgiliana ("Eneide" 4,653), citate da Seneca anche in "Ep." 12,9 e "Ben." 5,17,5.Nota 17.Il testo latino è corrotto.Traducendo, abbiamo accettato la lezione proposta dal Bourgery che, se non altro, è la più perspicua.Nota 18.Con il suicidio stoico.Nota 19.Ovidio, "Metam." 2,128.Il verso conclude, in pratica, l'episodio di Fetonte, ampiamente commentato da Seneca in "Prov." 5,10-11.

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Nota 20.Chiara allusione al rientro di Seneca dall'esilio.Nota 21.Su "Manio Curio Dentato", cfr. nota 23 a "Tranq." 5,5."Tiberio Coruncanio", console nel 280 avanti Cristo, fu il primo Pontefice Massimo d'estrazione plebea nel 254.Nota 22. "Censori": i due supremi magistrati ai quali era anche attribuito il compito di sorvegliare la condotta pubblica e privata dei cittadini.Nota 23. "Crasso": il ricchissimo triumviro.Nota 24.Seneca era sempre stato generoso di largizioni (Giovenale, 5,108).Secondo Tacito, anche con il suo testamento voleva beneficare molti amici ("Ann." 15,62).Nota 25. "Ponte Sublicio": il più antico e frequentato ponte di Roma che per rispetto alla tradizione, era stato mantenuto in legno.Tutti i ponti erano ritrovi di mendicanti (Giov, 5,8).Nota 26. "Crine del circo": il "circense tomentum", saccone imbottito di giunco, sul quale riposavano i gladiatori, era anche il materasso dei poveri (Cfr.Marziale, "Epigr." 14,160).Nota 27.Il testo è corrotto, ma non insanabile, a mio vedere.Basta leggere "causatius" (con un bel discorsetto) in luogo di "causatus" dei codici.Nota 28.Seneca par alludere ad Antonio, che dopo le guerre in Oriente s'era fatto chiamare "il nuovo Bacco" (Plutarch., "Anton." 60).Nota 29.Cesare attribuisce quel comportamento agli Aduatuci assediati ("Bell.Gall." 2,30).Nota 30. "Giove" s'era trasformato in cigno per sedurre Leda, in toro per rapire Europa.Aveva passato una notte nella reggia di Amfitrione per ingravidarne la sposa Alcmena, madre d'Ercole; aveva rapito in cielo Ganimede e detronizzato e mutilato Saturno.Nota 31.Questa argomentazione, di matrice stoica, sarà ampiamente utilizzata dagli apologisti cristiani.Nota 32. "Favoriteci con le lingue": "favete linguis", la formula che viene pronunciata all'inizio del rito sacro.Nota 33.E" una delle pratiche consuete ai sacerdoti di Cibele.In questo passaggio, non è facile distinguere le allusioni ai veri sacerdoti o sacerdotesse da quelle ai ciarlatani.Ma Seneca fa d'ogni erba un fascio.Per lui come per tutti gli stoici, erano superstiziose tutte le pratiche religiose esterne o rumorose.Erano invece raccomandate le preghiere domestiche e le cerimonie ufficiali tradizionali dello Stato Nota 34. "Aristofane" aveva canzonato Socrate nelle "Nuvole", Amipsia nel suo "Conno", Eupoli nelle "Capre".Nota 35.Secondo Dione Cassio (60,10), Seneca avrebbe praticato personalmente ed insegnato a Nerone una condotta analoga.

DELL'OZIO."Hoc nempe ab homine exigitur, ut prosit hominibus: si heri potest, multis; si minus, paucis; si minus, proximis; si minus, sibi"."Dall'uomo, in sostanza, si chiede questo: giovare agli uomini, a molti, se è possibile, sennò a pochi, sennò ai più vicini, sennò a se stesso".(3,5).

PREFAZIONE.Precisazione sul significato di otium.La parola latina "otium" copre una vasta gamma di significati: abbraccia tutti gli aspetti della vita d'un uomo che si sottragga, temporaneamente o definitivamente, agli impegni della vita pubblica.Se ne raccogliamo soltanto le accezioni moralmente indifferenti o positive, entrano in "otium" i concetti di vita ritirata, inazione, disimpegno ed altri che abbiamo introdotto nella traduzione, cercando di esprimere le sfumature di significato emergenti dai singoli contesti.L'impropria voce italiana "ozio" è rimasta soltanto nel titolo, in ossequio alla tradizione ed in vista della perspicuità dei richiami e delle citazioni; confidiamo che il lettore la consideri per quel che pretende d'essere: un latinismo.Genesi dell'opuscolo.L'ingiuria del tempo ha mutilato questo dialogo: l'ha ridotto a circa un terzo di quella che doveva essere la sua consistenza originaria.Una vera iattura: da quanto ci è rimasto, è lecito arguire che il dialogo avrebbe delineato il quadro più completo e la giustificazione teoretica delle scelte filosofiche di Seneca.

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Già s'è detto ("Della costanza del sapiente", prefazione, 1) che questo dialogo si colloca, cronologicamente e metodologicamente, dopo il "Della costanza del sapiente" ed il "Della tranquillità dell'animo": siamo alla terza tappa dell'evoluzione spirituale di Sereno.Egli vorrebbe ora la contemplazione pura, svincolata dall'onere della ricerca d'applicazioni pratiche: così è dolce, ed ha le sue attrattive (5,1).Ma ostano precise difficoltà che ben conosce: a) lo stoico è un soldato che non si concede congedi di sorta, anzi, che sa render volontaria anche la morte (1,4); b) soltanto oggettivi ed insuperabili impedimenti possono esimerlo dall'obbligo di partecipare alla vita in una repubblica storica, istituzionalizzata, concreta (6,3 e 5).Quest'ultima posizione ci riconduce all'antefatto filosofico e culturale del dialogo.Essa risale a Panezio, lo stoico del Secondo secolo avanti Cristo, che aveva incontrato l'Africano Minore, che era venuto a Roma ed era rimasto impressionato e ammirato del sistema istituzionale di quella forte repubblica.Cicerone lo assunse a modello e lo citò tanto ampiamente da risultare oggi la più ricca fonte dei perduti scritti del grande filosofo.Ma Panezio può dirsi il grande assente dalle opere di Seneca.Il quale ne utilizza spesso, e non soltanto in questo dialogo, l'insegnamento, ma è restio a farne il nome: lo ricorda, ma soltanto come un nome autorevole, in "Ep." 33,4; lo cita episodicamente in "Ep." 116,5 e in "Nat. quaest." 7,30,2, senza mai decidersi a saldare, una volta per tutte ed a viso aperto, i debiti con lui.A Panezio dunque risaliva il superamento di quella diffidenza che Zenone aveva professato nei confronti della partecipazione alla vita politica.Zenone aveva parlato di società e cosmopolitismo, ma non aveva dato credito ad alcun modello di Stato istituzionalizzato.Quando Seneca ipotizza ora una vita in Atene o in Cartagine (4,1; 8,2), senza aggiungere memoria di Roma, già s'avvia sul sentiero tracciato da Panezio.L'omessa memoria di Roma, in un contesto di giudizi di rifiuto, presuppone appunto una fiducia che si possa ancor trovare, in quella repubblica, lo spazio per un'attività pubblica del sapiente: questo aveva suggerito già Panezio.Contenuto e analisi di struttura.Ma, si disse, codesto è soltanto l'antefatto del dialogo.Il vero dialogo poggia sulla constatazione, da parte di Seneca, d'una tal maturità in Sereno da permettere di chiamare finalmente in causa lo scopo principale, anzi unico, del filosofare, rimanendo il più possibile su quel terreno comune di ricerca sul quale erano rimaste, al di là delle divergenze su applicazioni secondarie, le due grandi scuole, stoica ed epicurea (G. Reale, "Storia della filosofia antica" cit., IlI, p. 389).Questo è il solo motivo che giustifica, nel dialogo, la memoria d'Epicuro e dei "filosofi del piacere" (3,1; 8,13) e che induce Seneca ad accomunare Zenone ed Epicuro nella ricerca sul binomio "pensieroazione": non sono più in causa preoccupazioni o cautele nei confronti delle antiche simpatie di Sereno.Ragioni di completezza indurranno il maestro a dimostrare, e sbrigativamente, anche il non indispensabile: è lecito fare, fin dalla fanciullezza, un'opzione contemplativa (2,1; 3,4), ma il dialogo ricupera ben presto la giusta calibratura: un discorso per gli adulti che ne sono i veri destinatari.Siamo al vero contenuto, squisitamente teoretico e di tutta ortodossia stoica.Non per nulla Seneca rivendica a sé il ricupero delle posizioni originarie di Zenone, Cleante e Crisippo.Rimane sempre aperto, per lo storico ed il filologo, il problema di secernere dalla generica citazione di Seneca ciò che realmente risale ai tre autori da ciò che dovrebbe esser restituito ad elucubrazioni successive del loro pensiero.Per noi, in questa sede, importa dire che Seneca vuol esporre i punti essenziali della sua analisi del fenomeno stoico.Eccoli.1) Cc. 3,5-4,1: il cosmopolitismo.L'uomo è cittadino del mondo perché la sua razionalità è partecipazione all'obiettiva razionalità del mondo.In ordine d'esposizione, viene dapprima prospettato un problema morale: se è la natura o l'arte a render buoni gli uomini (4,2; cfr.Cic., "Fin." 3,18: da vita istintiva a necessità d'operare scelte; cfr.Ivi, 3,23; Sen., "Ep." 76,6; cfr. "Dell'ira", prefazione, 3 e 4; "Ad Elvia", pref. 2 e 3: "assiomi e leggi", altro enunciato di "natura ed arte"), ma esso viene immediatamente ricondotto entro lo schema elementare d'un discorso sulla natura.2) Cc. 5-6: conoscere la natura significa conoscere la vera origine dell'uomo e rintracciare il punto d'incontro tra l'uomo e Dio: ne risulterebbe decisamente provato che l'uomo è di spirito divino (5,5).Se ne possono enucleare i corollari più importanti: a) lo studio della filosofia non è completo, se non è corredato di precise conoscenze scientifiche.E" un corollario "provvisorio", ma certo risalente alla versione originaria dello stoicismo: risponde ad una esigenza del tempo, alla quale Seneca ampiamente rispose e fu poi abbandonato; b) la coerenza dell'uomo con se stesso non riposa sul fatto "vita", ma sul fatto "ragionevolezza", intesa come consonanza con l'universo: non s'appaga di conoscere il visibile (4,6; cfr. "Ep." 121,4); c) anche la rettitudine dell'operare ("katórthoma", azione retta perfetta; Cic., "Off." 1,8) si evince dalla coscienza della conformità tra l'azione concreta e la conoscenza della ratio ("logos") che regge il mondo (5,8).3) C. 6: il concetto stoico di filosofia implica l'impegno della missionarietà: dar direttive alle generazioni future e tener concione davanti a tutti gli uomini, d'ogni luogo e d'ogni tempo (6,4).L'ingiuria del tempo ha troncato a questo punto il discorso di Seneca.

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Non vogliamo tentare, in questa sede, ipotesi sul possibile prosieguo dell'esposizione.La lettura dei "Dialoghi" nel loro insieme ci ha confermato l'imprevedibilità di Seneca scrittore, sempre pronto a scegliere tra le varie forme possibili di sviluppo d'uno schema proposto e al passaggio ad altro argomento, non appena se ne presenti una qualunque occasione.

DELL'OZIO.

1. [Vivere ritirati, per costruirsi una coerenza morale.] [1]... sono tutti assolutamente concordi nel tesserci l'elogio dei vizi (1).Ma anche se non tentassimo null'altro per salvarci, il ritirarci sarà giovevole già di per sé: isolati, saremo migliori.Che dire della possibilità che ci si offre di incontrarci a tu per tu con gli uomini migliori (2) e di scegliere tra quelli un modello su cui allineare la nostra vita? Questo è impossibile fuori dal ritiro.E" allora che i propositi già formulati possono essere mantenuti, quando cioè nessuno può frapporsi a distorcere, con la complicità della folla, una determinazione ancora malferma; è allora che può procedere regolare e costante quella vita che noi spezzettiamo nelle decisioni più svariate.[2] Certamente, tra tutti gli altri nostri mali, il peggiore è questo: cambiamo persino i vizi.Non abbiamo neppure la buona sorte di rimanere in un vizio al quale siamo già avvezzi: passiamo dall'uno all'altro, e ci tormenta anche il constatare che le nostre scelte non sono soltanto cattive, ma anche incostanti.[3] Siamo sbattuti dai flutti e ci attacchiamo ad un rottame dopo l'altro, abbandoniamo quello che avevamo cercato, torniamo a cercare quel che avevamo buttato: tutto, in noi, è un avvicendarsi di brame e pentimenti.Il fatto è che dipendiamo totalmente dai giudizi altrui, ci sembra sia migliore ciò che ha molti pretendenti e lodatori, non ciò che merita elogi e candidature, e giudichiamo buona o cattiva una strada non in sé, ma in base alla quantità delle orme, nessuna delle quali torna indietro (3).[4] Mi dirai: Che fai, Seneca? Diserti il tuo partito! E" certo che gli stoici, i tuoi compagni, dicono: "Saremo in attività fino al termine ultimo della vita, non smetteremo mai di collaborare al bene comune, di aiutare i singoli, di giovare anche ai nemici, di operare in concreto.Siamo di quelli che non conoscono età di congedo, come dice quell'uomo eloquentissimo:

premiamo sotto l'elmo la canizie (4);

siamo coloro per i quali non esiste inattività prima della morte, al punto che, nel caso, neppure la nostra morte è inattiva (5)".Perché mi citi i precetti d'Epicuro e li sovrapponi ai canoni basilari di Zenone? Se sei stanco del tuo partito, perché non diserti, invece di tradire?. [5] Ti rispondo così, su due piedi: Vuoi comandarmi più di quanto non comporti l'imitazione dei miei maestri? Dunque? Io non andrò dove mi mandano, ma dove mi precedono.

2. [I due punti della trattazione.] [1] Ora ti proverò che io non m'allontano dall'insegnamento degli stoici, poiché nemmeno essi se ne sono allontanati; eppure, sarei più che scusato se, invece di seguirne gli insegnamenti, ne seguissi gli esempi.Dividerò il mio dire in due parti.La prima: dev'essere possibile, anche dalla fanciullezza, dedicarsi esclusivamente alla contemplazione del vero, ricercare una norma di vita e praticarla nel proprio ritiro.[2] La seconda: dev'essere possibile fare altrettanto, ed a buon diritto, quando s'è terminato il proprio servizio e la vita s'avvia alla fine, e passare ad altri le consegne degli impegni, come fanno le vergini Vestali che suddividono i loro compiti secondo gli anni e prima imparano a compiere i sacri riti, poi, terminato il tirocinio, insegnano.

3. [Impostazione del primo punto: la dottrina di Zenone e quella di Epicuro sulla vita ritirata.] [1] Dimostrerò che questo concorda anche con la dottrina stoica, non perché mi sia imposto di non imbastire nulla contro quanto detto da Zenone o da Crisippo, ma perché l'argomento, in sé e per sé, mi permette di condividere il loro parere: se si segue sempre il parere di uno solo, non siamo più in un senato ma in una fazione.Magari sapessimo già tutto, la verità fosse incontestabile e noi non mutassimo mai nessuna decisione! Ma noi ora stiamo cercando la verità, in compagnia di quelli stessi che la insegnano.[2] Le due scuole, epicurea e stoica, in questa materia sono diametralmente opposte, ma ambedue indirizzano, per vie diverse, alla vita ritirata.Epicuro dice: Il saggio non parteciperà alla vita pubblica, a meno che non accada qualcosa.Zenone (6) invece: Parteciperà alla vita pubblica, a meno che qualcosa non glielo impedisca.[3] L'uno cerca di proposito la vita ritirata, l'altro la ammette, qualora ne esista una causa.Nel termine "causa" rientra una vasta casistica: se lo Stato è troppo corrotto perché lo si possa aiutare, oppure se è ottenebrato dai mali, il sapiente non farà sforzi vani e non si sacrificherà senza prospettive di risultato; ancora: se il sapiente avrà scarso prestigio o forza e la cerchia dei politici non sarà disposta ad accoglierlo, se glielo impedirà la salute, come non metterebbe in mare una nave sfasciata, come non si arruolerebbe nell'esercito in condizioni di invalidità, così non si avvierà su una strada che non si sentirebbe di percorrere.

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[4] Dunque, anche l'uomo le cui scelte sono ancora impregiudicate, prima di sperimentare una sola tempesta, può fermarsi sul sicuro, dedicarsi subito agli studi di morale e vivere nel ritiro totale, praticando le virtù, dato che possono essere praticate anche nella quiete più assoluta.[5] Dall'uomo, in sostanza, si chiede questo: giovare agli uomini; a molti, se è possibile, sennò a pochi, sennò ai più vicini, sennò a se stesso.Infatti, quando si rende utile agli altri, svolge una attività di pubblico interesse.Come colui che peggiora se stesso non nuoce soltanto a sé, ma anche a tutti coloro ai quali avrebbe potuto giovare col rendersi migliore, così chiunque fa del bene a se stesso, con ciò giova agli altri, perché prepara qualcosa che sarà loro utile.

4. [Le due repubbliche.] [1] Cerchiamo di figurarci le due repubbliche: la grande, veramente di tutti, comprendente dèi e uomini, e della quale prendiamo in esame questo o quell'angolo, perché ne segniamo i confini dove li segna il sole; l'altra, quella cui ci ha assegnato la sorte della nostra nascita (e sarà Atene o Cartagine o una qualunque altra città), che non è comune a tutti gli uomini, ma ad un gruppo ben definito.Alcuni uomini lavorano contemporaneamente per le due repubbliche, per la grande e per la piccola, altri solo per la piccola, altri solo per la grande.[2] Quest'ultima, la grande, possiamo servirla anche nell'inattività, anzi, forse meglio nell'inattività, chiedendoci che cosa è la virtù, se è una sola o se sono molte; se è la natura o l'arte a render buoni gli uomini (7); se è un corpo unico questo che contiene i mari, le terre e gli esseri marini e terrestri, o se Dio ha disseminato nel mondo molti corpi siffatti; se la materia, da cui nasce tutto, è compatta e piena, o se è discontinua ed il vuoto è frapposto al pieno; quale è la sede di Dio, se egli contempla la sua opera o la maneggia, se la circonfonde di sé dall'esterno o la compenetra tutta; se il mondo è immortale o lo si deve annoverare tra le cose caduche e temporanee (8).Chi contempla queste cose, che servizio rende a Dio? Di non lasciare ignota ai testimoni questa sua immensa opera.Siamo soliti dire che il sommo bene è vivere secondo natura; ma la natura ci ha generati attiad ambedue le opzioni: la contemplazione e l'azione.

5. [La natura ci ha generati per la contemplazione.] [1] Passiamo ora alle prove della prima opzione.Ecché? La prova non verrà da sé, se ciascuno si chiederà quanto desiderio abbia di conoscere l'ignoto, quanto lo interessi ogni racconto? [2] Certuni viaggiano per mare, sopportano le fatiche di un lunghissimo peregrinare, per il solo premio di conoscere qualcosa d'ignoto e lontano (9).Questo è il motivo che raduna le folle agli spettacoli, che ci costringe a spiare nel chiuso attraverso le fessure, ad informarci delle cose più segrete, a compulsare le antiche storie, ad ascoltare notizie sugli usi delle popolazioni barbare.[3] La natura ci ha dato l'istinto della curiosità e, conscia della propria abilità e bellezza, ci ha generati quali spettatori di immensi spettacoli; perderebbe il risultato delle sue fatiche, se cose tanto grandi, tanto splendide, tanto accuratamente plasmate, tanto limpide e belle di mille bellezze, fossero messe in mostra in un deserto.[4] Se vuoi convincerti che era suo intento essere ammirata, non soltanto veduta, osserva il luogo che ci ha assegnato: ci ha situati in posizione centrale e ci ha offerto la visione panoramica dell'universo; non soltanto ha fatto l'uomo ritto ma anche, per rendergli facile l'osservazione, perché potesse seguire le stelle ruotanti dal sorgere al tramontare e girare il suo viso accompagnando il cielo, gli ha rivolto la testa all'alto e l'ha posta su un collo flessibile (10) Poi, facendo avanzare sei costellazioni di giorno e sei di notte, gli ha dispiegato ogni parte di sé, allo scopo di insinuargli, mediante le cose che gli aveva presentato, il desiderio di conoscere le rimanenti.[5] Noi non abbiamo visto tutte le cose e non ne abbiamo colto le dimensioni reali; la nostra osservazione ci apre la via all'indagine e ci fornisce lo spunto per spostare la ricerca dal visibile all'invisibile, fino a scoprire qualcosa di più antico del mondo; donde sono uscite queste stelle? qual era la situazione dell'universo, prima che i singoli esseri si distribuissero nelle varie parti? quale principio razionale ha separato ciò che era sommerso e confuso? chi ha assegnato il posto alle cose? I corpi gravi sono discesi per loro natura, ed allo stesso modo si sono innalzati i leggeri, oppure, a parte la spinta ed il peso, una forza più recondita ha dettato legge ai singoli corpi? (11) è vero, e ne risulterebbe decisamente provato che l'uomo è di spirito divino, che certe parti di astri sono balzate verso la terra come scintille e si sono insediate in luogo non loro? (12) [6] Il nostro pensiero infrange le barriere celesti e non s'appaga di conoscere il visibile.Scruto dice ciò che giace al di là del mondo: c'è un vuoto illimitato, o è chiuso anch'esso entro i suoi bravi confini? che aspetto ha ciò che è fuori del nostro universo? è informe, indistinto, o sono corpi che occupano in ogni direzione uno spazio uguale, e quindi hanno anch'essi una suddivisione, un ordine? è un mondo contiguo al nostro o ne è separato, distante, ed il nostro mondo rotola nel vuoto? sono gli atomi che strutturano ciò che nasce ed esisterà, oppure la materia è compatta ed i mutamenti la coinvolgono in tutto? gli elementi sono tra loro in contrasto o non vi è lotta, ma concorde aspirazione, per vie diverse, ad un fine unico? (13) [7] Chiediti se all'uomo, nato per queste ricerche, non è stato assegnato troppo poco tempo, anche nell'ipotesi che se lo riservi tutto: ammesso che non se ne lasci sottrarre nulla dalla faciloneria o dalla negligenza, che serbi con estrema avarizia le sue ore e che raggiunga la durata massima d una vita umana, senza che il caso gli rovini nulla di quanto la natura gli ha assegnato, ebbene, l'uomo è troppo mortale, di fronte alla contemplazione delle realtà immortali (14).[8] Dunque, io vivo secondo natura, se mi consacro totalmente ad essa, se la contemplo e la onoro.E" vero, la natura ha voluto che facessi tutte e due le cose, agire ed attendere alla contemplazione: le faccio ambedue, perché neppure la contemplazione è inazione.

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6. [La contemplazione non è una rinuncia totale all'azione.] [1] Ma importa sapere, dici se ti sei dato alla contemplazione per tuo compiacimento, non chiedendole altro che un continuo contemplare senza risultati.Così è dolce, infatti, ed ha le sue attrattive.A questa obiezione rispondo così: è altrettanto importante sapere con quali intenti partecipi alla vita della città, se per essere sempre inquieto e non riservarti neppure un attimo per sollevare lo sguardo dalle cose umane alle divine.[2] Come il cercare le cose senza alcun amore per la virtù e senza coltivarsi la mente, insomma il nudo e crudo operare, non merita alcuna approvazione (infatti codeste due attività debbono essere collegate, intrecciate), così è un bene incompleto e fiacco una virtù buttata nell'inattività puramente passiva, mai capace di mostrare ciò che ha appreso.[3] Chi può negare che essa ha il dovere di collaudare i suoi progressi con l'azione e di non limitarsi a pensare al da farsi, ma di passare anche alla pratica e verificare nell'esperienza quanto ha meditato? E se l'ostacolo non viene dalla persona del sapiente e non è l'uomo d'azione che manca, mancano le cose da fare? Gli permetterai di rinchiudersi in se stesso? [4] Con quale spirito il sapiente opta per il ritiro? Sa che anche allora farà cose che gli permetteranno di giovare ai posteri.Certamente noi siamo i primi a dire che Zenone e Crisippo hanno compiuto imprese più grandi del condurre eserciti, ricoprire cariche, emanare leggi; anzi, ne emanarono non per una sola città, ma per tutta l'umanità.Perché dunque un ritiro del genere non dovrebbe attagliarsi all'uomo buono e permettergli di dar direttive alle generazioni future e di tener concione non davanti a pochi, ma davanti a tutti gli uomini di tutte le genti, a quelli che sono ed a quelli che saranno? [5] In poche parole, ti chiedo se la vita di Cleante, Crisippo e Zenone è stata coerente con il loro insegnamento.Risponderai senz'altro che essi vissero come avevano detto che si doveva vivere.Eppure nessuno di loro amministrò uno Stato.Non ebbero, ribatti o la fortuna o la dignità (15) che occorrono per essere ammessi a trattare affari dello Stato.Nonostante ciò, non vissero una vita inattiva: trovarono il modo di rendere il loro riposo più proficuo per gli uomini di quanto non lo fossero il correre ed il sudare degli altri.Perciò la loro vita è risultata intensamente attiva, pur non avendo essi posto mano ad attività pubbliche.

7. [In realtà, non c'è filosofia che non implichi contemplazione ed azione.] [1] Inoltre, ci sono tre impostazioni di vita e ci si suol chiedere quale tra esse sia la migliore: la prima attende al piacere, la seconda alla contemplazione, la terza all'azione (16).In primo luogo, lasciando da parte le contese e l'antipatia che dichiariamo irriducibilmente nei confronti di chi segue una scuola diversa, chiediamoci se tutte e tre giungano al medesimo esito, sotto nomi diversi.Colui che si pronuncia per il piacere non è un noncontemplativo; colui che s'è dedicato alla contemplazione non è privo del piacere e colui che ha dedicato la sua vita all'azione non si sottrae alla contemplazione.[2] C'è una bella differenza obietti tra lo specifico oggetto del nostro proposito e l'accidentale convergenza di propositi diversi.Sì, la differenza è grande ma, di fatto, l'una cosa non si verifica senza l'altra: né quello contempla senza agire, né questo agisce senza contemplare, né il terzo, che concordemente riproviamo, si pronuncia per un piacere inerte, ma per un piacere che egli, con la ragione, renderà durevole nel suo animo.[3] A questo modo, è nell'azione anche la scuola della voluttà.E perché non dovrebbe esserci, se Epicuro stesso si dice disposto, in ipotesi, a lasciare il piacere e seguire il dolore, qualora si prospettasse un pentimento del piacere o la necessità di scegliere un dolore minore in luogo di uno più grave? [4] Dove va a parare questo discorso? Vuol dimostrare che la contemplazione piace a tutti: gli altri la cercano, per noi essa è una residenza, non un porto.

8. [La vita di ritiro può esser scelta.] [1] Aggiungi ora che i dettami di Crisippo autorizzano la vita di ritiro, quando non ci si rassegna all'inattività, ma la si sceglie.Gli stoici dicono che il sapiente non s'immischierà mai nella vita di nessuno Stato: che importa il motivo per cui il sapiente si ritira, se perché non esiste lo Stato che faccia per lui o perché lui non fa per lo Stato, quando lo Stato non è adatto a nessun sapiente? E risulterà sempre inadatto a chi gli si accosta con troppe esigenze. [2] Domando a che modello di Stato il sapiente possa accedere.A quello ateniese, dove un Socrate è condannato ed un Aristotele fugge per evitare la condanna (17), dove l'invidia opprime la virtù? Dirai che il sapiente non accede a questo Stato.Accederà allora a quello cartaginese, dove le sedizioni sono all'ordine del giorno, la libertà è esiziale per tutti i migliori, il bene e la giustizia non valgono assolutamente nulla, si è disumanamente crudeli con i nemici e si trattano da nemici i concittadini? Fuggirà anche da questo.[3] Se volessi passarli in rivista ad uno ad uno, non ne troverei nessuno che possa tollerare il sapiente o essere da lui tollerato.Ma se quel modello di Stato che noi immaginiamo non esiste, la virtù ritirata incomincia ad essere indispensabile per tutti, perché la sola cosa che potrebbe essere preferita al ritiro non esiste da nessuna parte.[4] Se uno mi dice che viaggiare per mare è bellissimo, ma poi aggiunge che non si deve navigare nei mari dove si verificano naufragi e frequenti tempeste improvvise trascinano il pilota contro rotta, io penso che costui mi proibisca di levar l'àncora, mentre elogia la navigazione... [Il resto è perduto.]

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NOTE.Nota 1.Il periodo mutilo conclude una delle consuete panoramiche pessimistiche della società del tempo.Il soggetto, che manca, era dunque "gli uomini d'oggi" o "gli stolti ed affaccendati uomini d'oggi".Il paragrafo 2 di questo capitolo conferma l'integrazione che suggeriamo.La mutilazione iniziale non ci ha privati d'altro che della prima battuta dell'opera.Nota 2.Si tratta dei grandi pensatori del passato.Cfr. "Brev." 1415.Nota 3.Allusione alla favola esopica degli animali che vanno a far visita al leone finto malato (Horat., "Epist." 1,1,73-75). Nota 4.Virgilio, "Eneide" 9,612.Numano, eroe Rutulo, sta vantando l'austerità del costume italico ed accusando d'effeminatezza i Troiani, rinchiusi nell'accampamento.Nota 5.Allusione al suicidio, che dovrebbe sempre essere atto di sapienza (Cfr. "Vita" 19).Nota 6.Secondo Diogene Laerzio ("Zenon" 64) il dettame fu formulato da Crisippo.Nota 7.Cfr. "Dell'ira", prefazione, 3 e 4; "Ad Elvia", prefazione 2 e 3.Natura ed arte rimandano alla distinzione, in campo morale, tra assiomi e leggi.Nota 8.I quesiti sulla fisica sono sempre posti come alternativi alle asserzioni degli epicurei.Nota 9.Secondo il Waltz (ediz., IV, p. 117, nota 2), Seneca alluderebbe ad una spedizione inviata da Nerone alla scoperta delle sorgenti del Nilo.Nota 10.Argomentazioni comuni a tutte, o quasi, le scuole filosofiche antiche, ammettessero o meno uno sbocco teistico.Nota 11.Ovviamente la "ratio" provvidenziale stoica.Nota 12.Nella fisica stoica, l'assorbimento di particelle di fuoco, che in ultima analisi provengono sempre dagli astri, determina non soltanto l'origine della vita animale, ma anche quella dell'attività intellettiva.Nota 13.Prosegue, su un piano più vasto, la contrapposizione della provvidenzialità stoica finalizzata al casuale cozzo d'atomi epicureo, dovuto al "clinamen" (deviazione).Nota 14.Cfr. "Della brevità della vita", prefazione, 2.Nota 15. "Dignità": la nobiltà di natali.Nota 16.Questa tripartizione stoica è attestata in Plutarch., "De educ. puer." 10.Nota 17.Nel 323 avanti Cristo, morto Alessandro Magno, Aristotele fu accusato d'empietà.Fuggì a Calcide, ove morì un anno dopo.

DELLA TRANQUILLITA" DELL'ANIMO."Alienis malis torqueri aeterna miseria est, alienis delectari malis voluptas inhumana". "Il provare tormento per i mali altrui è eterna miseria, il dilettarsi dei mali altrui è voluttà disumana".(15,5).

PREFAZIONE.La lettera di Sereno e la risposta di Seneca.Sereno scrive una lettera a Seneca per confessargli la propria inconstanza nei suoi propositi.Il filosofo gli risponde componendo il dialogo Della tranquillità dell'animo.Dal primo incontro tra i due uomini è trascorso qualche tempo, quanto ne bastò a Sereno per rafforzare la sua fede nella validità del filosofare, per optare definitivamente per lo stoicismo e avviare una pratica di virtù.Non fu un tempo troppo lungo: Sereno accenna al permanere d'una infermità (1,4), Seneca gli diagnostica uno stato di convalescenza (2,1).Il discepolo s'apre al maestro in tutta sincerità e fiducia, ma prova ancora le esitazioni del neofito, smarrito di fronte ai primi insuccessi.A volte pensa di rifugiarsi definitivamente nella vita privata, ma il suo non è un proposito: è una tentazione, una

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conseguenza dell'insoddisfazione, e ignora i veri contenuti d'una vocazione contemplativa (1,11).Caratteristiche dell'opuscolo.Seneca ha un suo metodo, una pedagogia.Se la filosofia si risolve in una morale, essa dovrà esser prima vissuta che conosciuta: dalla pratica della virtù dipenderà il verificarsi di quelle condizioni di spirito che renderanno possibile un ulteriore approfondimento speculativo.E non ammette, nei confronti del neofito, né la polemica accesa né i mutamenti radicali di vita.Il "Dialogo" non è un dialogo: non ci sono obiezioni.E" una chiacchierata familiare, tanto confidenziale quanto la lettera, tanto delicata quanto occorre per non dire mai al discepolo: ho fatto così anch'io, ma tanto trasparente quanto basta per lasciarlo intendere.Il maestro ha di fronte un uomo di corte e di pubblica amministrazione, un ricco, invischiato in mille impegni di rappresentanza, che sa intercalare gli studi letterari alle attività mondane, un amante della buona tavola, del buon vino, un carattere aperto, che attende e apprezza anche la battuta di spirito.L'eutimia e la tematica filosofica dell'opuscolo.Sceglierà un vocabolo guida, mutuandolo da Democrito. E" un termine già noto al grande pubblico romano: "euthymía" (2,3); Cicerone lo ha già presentato e tradotto con "tranquillità" ("Fin." 5,23).Seneca adotta la traduzione ciceroniana, la difende dalle critiche di chi l'ha trovata inesatta, approssimativa, tecnicamente impropria.Il discorso doveva vertere sui contenuti, non sul lessico, ed i contenuti erano, nel caso, comuni a tante, troppe scuole, perché d'un singolo filosofo si potesse far più conto di quanto non lo meritasse un autorevole spunto ispiratorio.Di Democrito, Cicerone aveva anche riferito un esempio ("Fin." 5,87) che poteva giovare allo sviluppo del discorso relativo ai beni: il filosofo s'era privato degli occhi, per non essere distratto dalla meditazione, e aveva trascurato l'amministrazione dei suoi beni e la cura dei suoi poderi, per non cercare altro che la vita felice.Aveva anche forgiato un altro termine, athambía, "assenza di timore", per esprimere la prima condizione di quella tranquillità che anche gli epicurei avrebbero cercato.Cicerone sospettò che il crudele atto d'autolesionismo di Democrito appartenesse alla leggenda fiorita attorno al grande nome.Ma non mise in dubbio la totalità del suo impegno atarattico.Seneca, dopo le prime riflessioni sul vocabolo democriteo, presentò al suo discepolo una pagina di Atenodoro (c. 3), uno stoico di recente memoria, un greco romanizzato che vedrebbe nella partecipazione alla vita pubblica la scelta ottimale del sapiente, se l'immoralità dilagante non lo costringesse al ritiro contemplativo.Seneca lo qualificherà eccessivamente timido (4,1); egli, in realtà, è convinto che, come Democrito aveva ecceduto nel tradurre in atto le condizioni di "tranquillità", così Atenodoro ne aveva sopravvalutato gli ostacoli.Al dettame metodologico: la virtù dev'essere vissuta, Seneca aggiunge ora un enunciato esplicito: il confronto con la realtà obiettiva, buona o cattiva che sia, non può esser rifiutato.Vivere da perfetti filosofi è privilegio di pochi, cercare la virtù senza isolarsi dalla cronaca è la condizione morale di tutti, che si tradurrà, per Seneca, in una norma: accettare se stessi, accettare la realtà, per poter giudicare.Calato a questo livello, il discorso diventa vasto, oscillante, e soprattutto recettivo di mille contributi.Seneca avrà modo di documentare due orientamenti personali: l'opzione, comune a tutta la filosofia romana, per un sano eclettismo, e la tendenza a trasporre il discorso sul piano psicologico.Ne risulterà un'esposizione di scarsa organicità.Meglio: certamente Seneca ebbe presenti alcuni temi irrinunciabili, come "l'uomo", "i beni", "la sorte", ma il fluire del discorso e la predominante presenza della situazione e delle esigenze dell'amico lo indusse, e quasi inavvertitamente, a distendere l'esposizione e diluirla in precettistica minuta, non appena ebbe affrontato i tre punti proposti.Non soltanto: la rinuncia alle amplificazioni oratorie e il sempre più frequente ricorso all'aneddotica, intesa quasi a ricercare il risvolto del quotidiano anche nella vita dei grandi (si veda, ad esempio, a 17,9 la demitizzazione dell'Uticense), attenuano i passaggi da argomento ad argomento e le suddivisioni di parti, favorendo l'unità discorsiva, ma rendendo il dettato non riducibile a schemi.Dobbiamo anche annotare che la tradizione manoscritta del dialogo subì un pesante infortunio al c. 6 (cfr.Waltz, ediz. cit., IV, pp. 67-68), che ne danneggiò anche la continuità.Analisi di struttura.Vediamone brevemente i temi.1) Cc. 4-7: l'uomogli uomini.Seneca suggerisce una nuova definizione di magnanimità: abbiamo dichiarato nostra patria il mondo (4,4), per rammentare a Sereno la scelta di cosmopolitismo stoico.Ma poi, sempre attenendosi su terreno stoico, riprende e riassume (cc. 4-6) la dottrina ciceroniana dei quattro ruoli che ciascun uomo deve svolgere: quello generale di razionalità, quello di illuminata conformità al proprio carattere, quello che gli viene imposto dai suoi impegni pubblici e, infine, quello che s'è scelto come carriera, secondo le proprie attitudini, e che può venire prudentemente mutato, qualora si frappongano gravi impedimenti ("Off." 1,107-124).Anche gli esempi di Socrate e Curio Dentato (c. 5) vogliono sottolineare l'impegno a una dignitosa accettazione di circostanze sfavorevoli.Il c. 7, dedicato all'amicizia, raccoglie precetti sulla scelta e sul carattere degli amici, non riferibili a fonte precisa (cfr., ad es., c. 7,1, e Cic., "Am." 65; 7,2, e Cic., "Am." 79; 7,4, e Cic., "Am." 66).2) Cc. 8-9: i beni.

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E" di modello cinico la misurata precettistica sul distacco dai beni, intercalata dalla ricorrente riflessione sugli oneri che derivano dal possesso di essi e sulla possibilità d'una loro perdita.Le citazioni esplicite di Bione (8,3) e Diogene (8,7) lo confermano.Sempre di matrice cinica è la rievocazione dell'incendio della biblioteca di Alessandria (9,5).3) Cc. 10-11: la sorte.Questo discorso, che s'anima nell'apologo della restituzione dei beni (11,3), oscilla tra la precettistica cinica (senso della misura) e quella stoica (esempio dei gladiatori a 11,4).Dal c. 12 alla fine del dialogo, l'esposizione di Seneca si disperde in norme pratiche, che potremmo soltanto elencare.Anzi, dopo la parentesi dedicata a Cano (14,4-10) e la breve amplificazione eloquenziale sui grandi esempi del passato (c. 16), essa si distribuisce in brevi tematiche che non rifiutano di utilizzare il materiale che la didattica del tempo forniva agli scolaretti per l'esercizio della "chría", il temino scritto d'argomento morale (17,4, esempio di Socrate; cfr.Fedro, "Fab." 3,14).Ma il pregio di questo dialogo non è da cercarsi né nella logicità e organicità, né nella circostanza del richiamo alle grandi virtù.S'affida tutto alla scorrevolezza del monologo, al fascino del semplice e del confidenziale, alla presenza d'un maestro affettuoso, comprensivo delle inclinazioni e delle debolezze del giovane amico.La conclusione, tratta con bonomia e con il sorriso sulle labbra (e, per sorridere, sono stati scomodati anche Platone e Aristotele), ci presenta un Seneca molto diverso dalla consueta iconografia.La somma delle esperienze psicologiche raccolta in queste pagine permetterà al lettore di tutti i tempi di rintracciare nel dettato di Seneca qualche ricordo personale.Ed è questa la vera vitalità del dialogo.

DELLA TRANQUILLITA" DELL'ANIMO.1. [Lettera di Sereno a Seneca: sono un incostante.] [1] [Sereno] Esaminando me stesso, o Seneca, constatavo in me certi vizi ben evidenti, che si potevano toccare con mano, altri più oscuri, rintanati, altri non abituali ed emergenti a tratti, che direi i più molesti, perché sono come nemici nomadi che ti assalgono quando ne colgono il destro e non ti permettono né di tenerti preparato come in guerra, né di star tranquillo come in pace.[2] Ma soprattutto colgo in me stesso (perché non confessare a te tutta la verità, come al medico?) il comportamento di chi non si sente completamente liberato dalle cose che temeva ed odiava, e non è nemmeno ancora ricaduto sotto il loro potere.Mi trovo in una situazione che non è la peggiore, ma è estremamente lagnosa e fastidiosa: non mi sento malato e non sto bene.[3] Non dirmi che tutte le virtù, all'inizio, sono deboli ed acquistano vigore e fermezza col tempo.Non ignoro che anche le iniziative di coloro che mirano a comparire (parlo di carriera politica, di nomea dell'eloquenza, e di tutto ciò che fa capo all'approvazione altrui) si consolidano col tempo.Tanto ciò che educa alla vera fortezza, quanto ciò che, per così dire, s'imbelletta per piacere, deve lasciar passare gli anni in attesa che, a poco a poco, il tempo faccia uscire il colore.Ma io temo che l'abitudine, che immobilizza le cose, radichi più a fondo in me questo difetto.Il praticare col male o col bene, alla lunga, produce amore.[4] Che genere d'infermità sia questo oscillare dell'animo tra due scelte, senza volgersi decisamente al bene o piegare al male, non è molto facile dirlo in una parola: posso mostrartene sintomi isolati.Io ti dirò ciò che mi accade e tu troverai un nome alla malattia.[5] Amo moltissimo la parsimonia, lo confesso: mi piace una cameretta arredata senza pretese, un vestito che non esce dalla cassapanca e non è stato stirato con i pesi e con mille torchi, per costringerlo a sembrar nuovo, un vestito, insomma, da tutti i giorni, poco costoso e che si possa portare e serbare senza preoccupazione; [6] mi piace un vitto non cucinato dalla servitù (1) e non preso in sua presenza, non ordinato giorni e giorni prima, non servito da tante mani, ma di semplice acquisto e preparazione, per nulla ricercato e costoso, reperibile dappertutto, non gravoso né al corpo né al patrimonio, non destinato ad uscire per dove è entrato (2); [7] mi piace un domestico senza livrea, uno schiavetto non istruito, l'argenteria pesante (3) di mio padre, uomo alla buona che non cercava firme d'argentieri, una tavola che non si fa guardare per le sue macchie multicolori (4) e non è nota in città per essere passata per le mani di molti padroni pretenziosi; una tavola pratica, che non attiri gli ammirati sguardi di nessun convitato e non ne stuzzichi l'invidia.[8] Dopo che mi sono ben compiaciuto di queste scelte, m'incanta la magnificenza di un gruppo di paggi, una servitù vestita con più cura che per una sfilata ed ornata d'oro, una schiera di valletti splendidi, poi la casa, preziosa anche nei pavimenti, con ricchezze profuse in ogni angolo, fulgida anche nei soffitti, e la ressa di coloro che accompagnano e circondano tutto quello scialacquio di patrimoni.Debbo ricordare i ruscelli limpidi fino al fondo, fatti scorrere attorno ai convitati, ed i cibi degni di tanto scenario? 5 [9] Provengo da un lungo ritiro in frugalità, mi vedo circonfuso tutto lo splendore di quel lusso e me lo sento risuonare attorno: il mio sguardo incomincia a tremare, mi è più facile affrontare quello sfarzo con il pensiero che con gli occhi e, quando me ne vado, non mi sento peggiore, ma rattristato e non incedo più con tanta fierezza tra le mie suppellettili da nulla.Dentro, mi morde il dubbio che, forse, le cose migliori sono quelle là.Nulla di ciò mi cambia, ma non c'è nulla che non mi scuota.[10] Mi soddisfa seguire una morale impegnativa e partecipare alla vita dello Stato; mi soddisfa ottenere onori e fasci,

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non certo per il fascino della porpora o delle verghe, ma per essere più disponibile ed utile agli amici, ai parenti, a tutti i cittadini e, infine, a tutta l'umanità; con entusiasmo e sincerità seguo Zenone, Cleante, Crisippo, che si sono, sì, tutti astenuti dalle cariche pubbliche, ma che, tutti, vi hanno mandato discepoli.[11] Quando però un incidente qualunque urta il mio animo non avvezzo ai colpi, quando accade qualcosa di disdicevole, cosa non infrequente nell'arco d'una vita, o che non scorre del tutto liscio, oppure quando impegni di poco conto m'hanno rubato molto tempo, mi risolvo per la vita ritirata ed allora, come fanno le mandrie, anche se affaticate, affretto il passo per tornare a casa.[12] Di nuovo, voglio rintanarmi tra le pareti domestiche: nessuno mi rubi un sol giorno, perché non potrebbe ripagarmi adeguatamente tanta perdita; l'animo s'attacchi a se stesso, coltivi se stesso, non tratti né fatti altrui né cose che dipendono dall'altrui giudizio; vogliogodermi la tranquillità d'essere libero da impegni pubblici e privati.[13] Ma non appena una lettura rincuorante m'ha rinfrancato gli spiriti e gli esempi nobili m'hanno spronato, decido di correre al foro, di prestare a questo un consiglio ed a quello un aiuto, che magari non servirà a nulla ma sarà sempre inteso a giovare, o di rintuzzare davanti a tutti la tracotanza di un tizio troppo imbaldanzito dal successo. [14] Nell'attività letteraria, ne sono convinto, per Ercole, la miglior regola è di badare ai contenuti e parlare in funzione di quelli, poi subordinare le parole alle cose, in modo che il discorso, senza troppe elaborazioni, segua la trafila dei contenuti (6).Che bisogno c'è di comporre opere destinate a durare secoli? E vorresti non accettare questa regola, solo perché i posteri parlino di te! Sei nato per morire: è meno fastidioso un funerale senza discorsi! Allora, se vuoi occupare il tuo tempo, scrivi qualcosa per tua utilità, non per tuo vanto, e con stile semplice: si fatica meno, se si studia alla giornata.[15] Ma di nuovo, non appena l'animo s'è risollevato con pensieri grandi, lo riprende l'ambizione delle parole, si dà da fare per un'eloquenza tanto sublime, quanto lo è la sua ispirazione, ed il discorso fluisce, adeguato alla dignità dei suoi contenuti.Dimentico allora le buone regole ed il criterio della semplicità e parlo elevato, non più di mia bocca.[16] Non voglio continuare con gli esempi, ma in ogni cosa mi accompagna questa incostanza nei buoni propositi, nella quale temo di disperdermi a poco a poco oppure, e questo mi preoccupa maggiormente, di restar sempre sospeso, come uno che sta per cadere, e che la mia situazione non sia più grave di quanto io stesso non riesca a vedere.Le cose di casa, infatti, le guardiamo con minor severità e l'interesse ci impedisce d'essere buoni giudici.[17] Penso che molti sarebbero potuti arrivare alla sapienza, se non si fossero convinti di averla già raggiunta, se non avessero nascosto qualcosa nel proprio intimo e non avessero chiuso gli occhi, passando sopra ad altre cose.Non devi pensare che la nostra rovina dipenda più dall'adulazione altrui che dalla nostra.Chi mai ha osato dire la verità a se stesso? Chi, posto tra mandrie di adulatori e di complimentosi, non è diventato il più smaccato lodatore di se stesso? [18] Ti prego, dunque, se hai una medicina che arresti questo mio fluttuare, giudicami degno di diventare tuo debitore in fatto di tranquillità.So che molti moti dell'animo non sono pericolosi, non producono tumulti.Per offrirti un paragone che esprima sinceramente ciò di cui mi lagno, non soffro di tempesta, ma di mal di mare: toglimi dunque questo male, qualunque esso sia, e vieni in soccorso di uno che soffre, mentre vede la terraferma.

2. [Risposta di Seneca: parleremo dell'eutimia, la tranquillità dell'animo.] [1] [Seneca] Da tempo, o Sereno, per Ercole, mi chiedo tra me e me a che cosa sia paragonabile un tale stato d'animo, e non trovo esempio più calzante di quello di coloro che, usciti da una lunga e grave malattia, soffrono ancora di febbriciattole o di lievi fitte e, anche liberati da questi disturbi residui, rimangono preoccupati e sospettosi, stendono la mano già sani al medico e chiamano ingiustamente malattia ogni accesso di calore.Non si può dire, o Sereno, che il loro corpo non sia completamente guarito, ma che non s'è ancora abituato abbastanza alla salute.Anche il mare calmo, placato dopo la tempesta, continua a tremolare, a muoversi.[2] Non servono quindi le norme severe attraverso le quali siamo già passati: opporti, in certi casi, a te stesso, adirarti con te stesso, rimproverarti con severità; ma serve l'ultimo dei precetti: aver fiducia in te stesso, credere che stai camminando sulla retta via, non lasciartene stornare dalle molte orme traverse di chi erra qua e là o vaga nei pressi del sentiero giusto.[3] Quello che cerchi è un risultato importante, il più elevato, vicino a Dio: l'imperturbabilità.Questa fermezza d'animo, che i Greci chiamano eutimia e che è oggetto di un ottimo volume di Democrito (7), io la chiamo tranquillità.Non è necessario ricalcare le loro parole o prenderle a prestito nella forma originaria: basta designare con un nome la realtà di cui si tratta, perché la parola deve rendere la forza espressiva, non l'aspetto esteriore, del termine greco. [4] Dunque, ci stiamo chiedendo come possa l'animo mantenersi stabilmente su una rotta regolare e tranquilla, essere ben disposto verso se stesso, guardare con gioia alle proprie attività, non vedere interrotta la sua gioia, ma conservare la condizione di serenità senza mai esaltarsi o deprimersi.Questo stato sarà la tranquillità.Chiediamoci, in generale, come ci si possa arrivare, tu poi attingerai quanto credi dal rimedio offerto a tutti.[5] Bisogna dunque sottoporre a pubblico esame tutto il male: ciascuno ne riconosca gli aspetti che riscontra in se stesso.Nello stesso tempo, vedrai quanto meno dia da fare la tua nausea a te, che non a quei tali che, legati ad una scuola

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filosofica molto decantata ed oppressi dal peso di un nome illustre (8), rimangono nella loro dissimulazione, più per vergogna che per volontà.[6] Sono tutti in situazione identica, tanto quelli che soffrono di incostanza, disgusto, continuo mutare di propositi e che sentono sempre più forti nostalgie per le cose che hanno lasciate, quanto quelli che sbadigliano indolenti.Aggiungi anche quelli che si girano e si compongono in una posizione o nell'altra, come chi soffre d'insonnia, finché la stanchezza non dia loro riposo: mutando continuamente l'assetto della loro vita, alla fine rimangono in quello in cui li ha sorpresi non la riluttanza a cambiare, ma la vecchiaia restia alle innovazioni.Aggiungi infine quelli che sono poco agili, per eccesso non di costanza ma di inerzia, e vivono non come vorrebbero, ma come si sono trovati all'inizio (9).[7] Poi si possono elencare mille aspetti singoli, ma la conseguenza del vizio è una sola: lo scontento di sé.Esso nasce dalla variabilità dell'animo, da passioni timorose insoddisfatte, poiché costoro non osano tutto quello che desiderano o non lo ottengono, ma restano protesi nella speranza del tutto.Sono individui instabili, incostanti, come è inevitabile che accada a chi pencola.Prendono tutte le strade per soddisfare i loro desideri, suggeriscono a se stessi imprese disoneste e difficili e vi si costringono, ma quando la fatica resta senza premio, provano rimorso per l'inutile vergogna e si dolgono non d'aver voluto cose disoneste, ma d'averle volute senza esito.[8] In quel momento, sono presi insieme dall'insoddisfazione della loro impresa e dalla paura di ricominciare, e subentra la tipica tempesta dell'animo che non trova sfogo, in quanto non se la sentono né di comandare né di ubbidire alle loro passioni, insieme con l'esitazione di una vita che non riesce a svolgersi e con la frustrazione di un animo intorpidito tra desideri insoddisfatti.[9] Tutto ciò è ancor più grave se, per ripugnanza verso gli insuccessi della vita attiva, si rifugiano nella vita privata, nello studio personale, scelta che risulta insopportabile per un carattere proteso alla vita pubblica, desideroso d'azione e naturalmente irrequieto che, appunto per questo, non trova gratificazione in se stesso.Allora, venendo meno le soddisfazioni che l'attività stessa offre agli indaffarati, risultano intollerabili la casa, il ritiro, le pareti; l'uomo si vede, e con ripugnanza, abbandonato a se stesso.[10] Ne deriva quella tal nausea e quello scontento di sé, quel voltolarsi dell'animo che non trova dove fermarsi e la rassegnazione triste e morbosa alla propria inattività, certamente perché ci si vergogna di confessarne le cause: la vergogna ricaccia dentro i tormenti e le passioni, chiuse in angusto spazio senza uscita, si soffocano a vicenda.Ne derivano anche il pianto e l'abbattimento, l'infinito fluttuare di una mente incerta, tenuta sospesa dalle speranze avviate e rattristata dai rammarichi; ne deriva la tensione tipica di chi detesta il proprio ritiro e si lamenta di non aver nulla da fare, e quell'invidia che detesta a fondo i successi altrui, perché l'inattività sterile alimenta il livore e si desidera la distruzione di tutti, perché non s e riusciti ad avanzare.[11] Spinto da questa intolleranza dei successi altrui e dalla sfiducia nei propri, l'animo si sdegna contro la fortuna, si lagna dei tempi, si ritira in un angolo a covare il proprio malessere, nauseato di sé ed inerte.L'animo dell'uomo è agile per natura, propenso al movimento.Gli è gradita ogni occasione di eccitarsi e distrarsi; ancora più gradita essa risulta alle indoli peggiori, che si fanno volentieri logorare dalle occupazioni.Come certe piaghe desiderano mani che provochino il dolore, e godono d'essere toccate, come piace alla ripugnante scabbia tutto ciò che la esaspera, altrettanto piacere direi che provocano in queste menti, sulle quali le passioni si sono diffuse come piaghe maligne, la fatica ed il tormento.[12] Anche il nostro corpo prova piaceri misti ad un certo dolore, come quando ci voltiamo sull'altro fianco, senza aver stancato il primo e ci rigiriamo cambiando continuamente posizione: proprio come l'Achille d'Omero che, ora prono ora supino, prende sempre una posa diversa (10).E" vezzo caratteristico dei malati, questo di non sopportare nulla a lungo e di cercare rimedio cambiando assetto.[13] Ed ecco che s'intraprendono viaggi senza meta, si percorrono lidi e l'insensatezza, sempre avversa alla situazione del momento, si cimenta per terra e per mare.Ora andiamo in Campania.Ma gli insediamenti civili ci annoiano.Visitiamo i luoghi disabitati, percorriamo le balze del Bruzzio e della Lucania. (11) Ma, nel deserto, manca quel pizzico di piacere che sa ristorare gli occhi vogliosi dal monotono squallore delle località selvagge.Puntiamo su Taranto: c'è un porto celebre, un clima invernale molto mite, un territorio abbastanza ricco che manterrebbe anche tutta la popolazione d'una volta...Adesso, presto a Roma: da troppo tempo non sentiamo scrosciare applausi e risuonare grida; torna la voglia di veder scorrere sangue umano. [14] Così si passa da un'iniziativa all'altra, da spettacolo a spettacolo.Come dice Lucrezio: tutti in tal modo sempre fuggon se stessi (12).Ma a che pro, se non riescono a sfuggirsi? L'io insegue se stesso ed incalza, compagno insopportabile.[15] Dobbiamo, dunque, renderci conto che la nostra sofferenza non è provocata da difetti di luogo, ma da difetto nostro: ci sentiamo deboli ogni volta che dobbiamo sopportare e non sappiamo avvezzarci né a fatica, né a piacere, né a noi stessi, né ad una qualunque esperienza che duri un tantino.Questo ha condotto certuni alla morte; dato che, con il loro continuo mutar proposito, si voltolavano nelle stesse abitudini e non davano spazio a cambiamenti, la vita ed il mondo stesso incominciarono a venir loro a noia, e si posero la classica domanda di chi si strugge nel benessere: Sempre le stesse cose, fino a quando?.

3. [Una pagina di Atenodoro. è meglio ritirarsi dalla vita pubblica.] [1] Mi chiedi a che cosa io pensi che si possa far

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ricorso contro questa nausea.Il rimedio migliore sarebbe stato, come dice Atenodoro (13), impegnarsi nella vita attiva, trattare affari di Stato ed accollarsi uffici civili.Come ci sono persone che fanno passare la giornata prendendo il sole e curandosi il corpo con esercizi ginnici, come l'attività più utile per gli atleti è il trascorrere la maggior parte del loro tempo ad allenarsi forze e muscoli, dato che si sono dedicati esclusivamente a ciò, così per noi, che prepariamo il nostro animo alle lotte della vita pubblica, è di gran lunga il meglio attendere alla nostra attività; infatti, dato che è suo intento rendersi utile ai concittadini ed a tutti gli uomini, colui che s'è messo nei pubblici uffici si tiene in esercizio e, contemporaneamente, migliora se stesso amministrando gli affari pubblici e privati secondo le sue capacità.[2] Ma cito testualmente poiché oggi, in mezzo ad un'ambizione giunta alla follia, in mezzo a tanti calunniatori che distorcono le azioni oneste al peggio, la lealtà non trova sufficiente sicurezza ed è più facile che si verifichi l'insuccesso che il successo, ci si deve ritirare dal foro e dalla vita pubblica.Il magnanimo, però, ha vasto spazio per dispiegare liberamente se stesso anche nella vita privata, e non accade agli uomini quello che accade ai leoni ed alle belve, la cui baldanza viene mortificata dalle gabbie; le azioni più grandi degli uomini maturano nel ritiro.[3] Tuttavia, egli deve restare nascosto in modo tale che, dovunque si sia ritirato, mantenga il proposito di giovare ai singoli ed all'insieme con la sua mente, la sua parola, il suo consiglio.Non giova allo Stato solamente colui che presenta candidati e difende imputati, o si pronuncia in materia di guerra o di pace; pur restando cittadino privato, svolge una mansione pubblica anche colui che esorta i giovani e che, in questa assoluta carenza di buoni insegnamenti, semina la virtù negli animi, colui che piglia e ritrae quelli che corrono a precipizio dietro al denaro ed al lusso e, se non ottiene altro, almeno ne ritarda la corsa.[4] Forse colui che, da pretore peregrino o urbano, pronuncia ai ricorrenti, forestieri o cittadini, le parole suggerite dall'assessore, è più utile di colui che insegna che cosa è la giustizia, la pietà, la pazienza, la fortezza, il disprezzo della morte, la conoscenza degli dèi e quale bene, acquistabile senza denaro, sia la buona coscienza? [5] Se, dunque, dedicherai allo studio il tempo sottratto alle pubbliche cariche, non sarai un disertore e non svolgerai male il tuo compito: non presta servizio militare soltanto chi sta in campo e difende l'ala destra o la sinistra, ma anche chi sorveglia le porte o sta di guardia in una postazione di minor pericolo ma non d'ozio, chi fa i turni di guardia e chi dirige l'arsenale; sono prestazioni che, pur non comportando spargimento di sangue, sono riconosciute come servizio militare.[6] Se ti ritirerai nello studio, sfuggirai ad ogni disgusto della vita, non bramerai che giunga la notte per tedio del giorno, non sarai gravoso a te stesso ed inutile agli altri; ti attirerai molti amici e si daranno convegno, attorno a te, tutti i migliori.La virtù, infatti, per quanto oscura, non resta mai nascosta, ma dà segni di sé: chiunque ne sarà degno, la riconoscerà alle tracce.[7] Poiché, se togliamo di mezzo ogni contatto e viviamo rivolti esclusivamente a noi stessi, rinunciando all'umanità, sopravverrà a questo isolamento, vuoto d'aspirazioni, la carenza di cose da fare: cominceremo a porre le fondamenta di certi edifici e a distruggerne altri, a far recedere il mare (14) e far defluire acque contro le difficoltà del terreno, ad amministrare male quel tempo che natura ci ha dato da utilizzare.[8] Tra noi, c'è chi l'usa con parsimonia e chi con prodigalità, chi lo spende come se ne dovesse render conto e chi in modo che non ne avanzi nulla, ed è la cosa più turpe di tutte.Spesso un vecchio decrepito, per provare d'essere vissuto a lungo, non ha altro titolo che la sua età.

4. [Atenodoro s'è arreso troppo presto.] [1] Mi sembra, carissimo Sereno, che Atenodoro si sia lasciato condizionare un po'"troppo dai tempi e si sia dato alla fuga troppo presto.Non nego che, a volte, si debba battere in ritirata, ma retrocedendo a poco a poco e salvando le insegne e l'onore militare: sono più rispettati e più sicuri presso il nemico coloro che s'arrendono con le armi in pugno.[2] Altrettanto penso debba fare l'uomo virtuoso o l'aspirante alla virtù: se la sorte avversa prevarrà e gli preciderà ogni possibilità d'azione, non dovrà fuggire subito, volgendo le spalle, buttando le armi e cercandosi un nascondiglio, come se esistesse un luogo in cui la fortuna avversa non ci possa raggiungere, ma dovrà ridimensionare la sua partecipazione alla vita pubblica, scegliendo avvedutamente un settore in cui potersi rendere utile alla città.[3] Non può essere soldato: faccia carriera civile.Deve vivere da cittadino privato: faccia l'avvocato.Gli è imposto di tacere: assista i cittadini accompagnandoli in silenzio (15).Comporta pericolo anche l'entrare nel foro: nelle case, agli spettacoli, nei banchetti sia il compagno buono, l'amico fedele, il commensale temperante.Non può esercitare le sue mansioni di cittadino: eserciti quelle di uomo.[4] Con la magnanimità, in altre parole, non ci siamo rinchiusi tra le mura di una sola città, ma ci siamo proiettati verso il contatto con tutto il mondo, abbiamo dichiarato nostra Patria il mondo, per potere offrire alla virtù un più ampio campo.Ti è stato precluso il tribunale (16), ti è vietato parlare dai rostri o nei comizi (17): guarda quante regioni immense si aprono dietro di te, quanti popoli.Non ti si potrà mai escludere da una parte del mondo tanto vasta, che non te ne lasci a disposizione una ancor più vasta.[5] Ma bada che tutto ciò non nasca da difetto tuo.Non vuoi amministrare lo Stato, se non come console o pritano o keryx o suffeta (18).

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E se non volessi essere soldato, se non da comandante supremo o da tribuno? Anche se altri saranno schierati in prima fila e la sorte t'avrà posto tra i triari (19), da là presta il tuo servizio con la parola, l'esortazione, l'esempio, il coraggio.Anche con le mani mozzate, trova come giovare in battaglia alla propria causa, colui che resta in piedi ed incoraggia gli altri gridando.[6] Devi comportarti in modo analogo: se la fortuna t'ha rimosso dalla prima carica dello Stato, resta ugualmente in piedi ed aiuta gridando e, se ti imbavagliano, resta in piedi ed aiuta in silenzio.Non è mai inutile l'attività del buon cittadino: lo ascoltano e lo vedono.Con il viso, con i cenni, con l'ostinazione silenziosa, persino con l'andatura, egli è d'aiuto.[7] Come ci sono certe medicine che giovano odorandole, senza bisogno d'assumerle o toccarle, così la virtù ha un benefico influsso anche se è lontana o nascosta: tanto se spazia liberamente, regolandosi come crede, quanto se può uscire soltanto occasionalmente ed è costretta ad ammainare le vele o, addirittura, è ridotta al ritiro in silenzio, in angusto recinto, oppure è ben in mostra, in qualunque condizione si trovi, essa giova.Perché ritieni poco utile l'esempio che promana da un buon ritiro? [8] La regola certamente migliore è di alternare la vita privata alla pubblica, ogni volta che quest'ultima sarà resa impossibile da ostacoli casuali o dalle contingenze politiche.Mai, infatti, tutto sarà precluso al punto da non concedere nessuno spazio ad un'azione onesta.

5. [L'esempio di Socrate ed una massima di Curio Dentato.] [1] Puoi forse trovare una città più misera di quanto lo fu Atene, quando i trenta tiranni (20) la soppiantavano? Avevano mandato a morte milletrecento cittadini, tutti i migliori, e non smettevano: erano d'una crudeltà che s'esasperava da sé.Nella città in cui c'era l'Areopago, il tribunale più scrupoloso, in cui c'era un senato, ed un popolo degno di quel senato, si radunavano ogni giorno un tristo collegio di carnefici ed una curia funesta, nobilitata da tiranni.Poteva essere tranquilla una città nella quale i tiranni erano tanti, quanti i loro satelliti? Non si poteva prospettare alcuna speranza di ricuperare la libertà, né si vedeva come fosse possibile porre rimedio a mali tanto violenti: donde quella misera città avrebbe presi altrettanti Armodi? (21) [2] Eppure Socrate era solo in mezzo a tutti, consolava i senatori in pianto, rinfacciava ai ricchi, che temevano le proprie ricchezze, il tardivo pentimento della loro rischiosa avarizia ed offriva a chi lo volesse imitare un esempio insigne, incedendo libero in mezzo a trenta padroni.[3] Tuttavia fu proprio Atene ad ucciderlo in carcere; la libera città non seppe tollerare la libertà (22) dell'uomo che aveva apertamente sfidato una schiera di tiranni.Sappi dunque che, anche in una repubblica umiliata, l'uomo sapiente ha modo di mettersi in luce e che, in una repubblica florida e felice, regnano la crudeltà, l'odio e mille altri vizi che girano disarmati.[4] Allora, comunque si presenti lo Stato, comunque ce lo permetta la sorte, non ci dispiegheremo o ritireremo, ma certo saremo in movimento e non intorpidiremo incatenati dal timore.Anzi, sarà un uomo colui che, quando incombono da ogni parte i pericoli, quando attorno strepitano armi e catene, non manderà la virtù a sbattere contro l'ostacolo e non la terrà nascosta: farsi seppellire non è un salvarsi.[5] Se ben ricordo, Curio Dentato (23) diceva di preferire l'essere morto al vivere da morto: l'ultima iattura è uscire dal numero dei vivi prima di morire.Ma si dovrà fare in modo, se si incapperà in tempi di scarsa accessibilità alla vita politica, di riservare maggior tempo al ritiro ed allo studio, di approdare ad un porto dopo l'altro come nelle navigazioni pericolose, di non permettere che siano le cose a lasciare noi, ma d'essere noi a disgiungerci da esse.

6. [Consigli pratici: bisogna saper valutare se stessi, le cose e le persone.] [1] Dovremo quindi esaminare a fondo noi stessi in primo luogo, poi gli affari che intraprenderemo, infine le persone per le quali o con le quali opereremo.[2] Prima di tutto, è indispensabile fare una stima di se stessi perché, in genere, siamo convinti di potere più di quanto in realtà non possiamo: c'è chi crolla fidando nella sua eloquenza, chi impone alle proprie risorse finanziarie più del tollerabile e chi spossa il suo fisico troppo debole sotto impegni faticosi.[3] La modestia di certuni è poco idonea alle cariche pubbliche, che esigono faccia franca; la fierezza d'altri non si confà alla vita di corte; c'è chi non riesce a controllare l'ira e si lascia andare ad escandescenze al primo cruccio; c'è chi non sa controllare la sua mordacità e non ricaccia giù le battute pericolose.A tutta questa gente giova più il ritiro che l'attività.Chi è istintivamente animoso ed intollerante, eviti quanto potrebbe provocarlo ad una franchezza che gli nuocerebbe.[4] Devi valutare se la tua indole è maggiormente portata a trattare gli affari o ad uno studio personale e teoretico, per dedicarti a ciò che è più consono al tuo carattere: Isocrate mise le mani addosso ad Eforo e lo strappò dal tribunale, perché lo pensava più tagliato a comporre opere di storia (24).Un genio forzato rende male; è inutile affaccendarsi in contrasto con le inclinazioni naturali.[5] Poi dobbiamo valutare le imprese cui ci accingiamo e commisurare le nostre forze alle attività che stiamo per intraprendere.Infatti, l'operatore deve sempre essere più forte dell'opera: è inevitabile restare schiacciati sotto pesi sproporzionati al portatore.[6] Inoltre, ci sono attività il cui risultato non ripaga della mole di lavoro e che comportano molti impegni.Debbono essere evitate anche codeste imprese, che sono fonte di nuove ed innumerevoli occupazioni.Non dobbiamo nemmeno accollarci impegni dai quali non si possa liberamente recedere: devi metter mano a quelli che puoi portare a termine o dei quali puoi prevedere con sicurezza la fine (25); devi tralasciare quelli che diventano tanto

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più vasti, quanto più li maneggi e non terminano nel punto da te stabilito.[7] Si devono anche scegliere accuratamente le persone, vedendo se meritano la spesa d'una parte della nostra vita, se avvertono che dedichiamo loro parte del nostro tempo: c'è anche gente che ci addebita i nostri servizi.[8] Atenodoro dice di non essere disposto ad accettare neppure un invito a cena da chi, per questo, non gli si senta obbligato per nulla.Comprendi certamente che ancor meno sarebbe andato da certi tizi che, con un invito a cena, pareggiano i conti dei servizi ricevuti dagli amici e ti conteggiano le pietanze come largizioni, quasicché la loro intemperanza tornasse ad onore degli altri.Togli loro i testimoni e gli spettatori: non proveranno più nessuna soddisfazione a gavazzare da soli.

7. [Bisogna coltivare le buone amicizie.] [1] Nulla, tuttavia, potrà rasserenarti l'animo quanto un'amicizia fedele ed affettuosa.Che conforto è disporre di persone di tal cuore che puoi seppellirvi tranquillamente ogni segreto, di tal coscienza che ti incute minor soggezione della tua, di conversazione che dia sollievo alle tue ansie, di pareri che ti facilitino le decisioni, di serenità che dissipi la tua tristezza, e che ti basti vederle per provare gioia! Certo, nei limiti del possibile, li sceglieremo mondi da passioni: i vizi, si sa, serpeggiano, si trasmettono ai vicini, diffondono il male per contagio.[2] Dunque, come in tempo di peste dobbiamo guardarci dall'avvicinare chi è preso dal male e brucia di febbre, perché ne saremmo contagiati e ci infetterebbe il loro stesso respiro, così, nella scelta del carattere dei nostri amici, staremo ben attenti a prenderci i meno corrotti: la malattia incomincia quando il guasto si mescola al sano.Non intendo ordinarti di non seguire od avvicinare se non il sapiente: dove troveresti un uomo del genere, se lo stiamo cercando da tanti secoli? Al posto del migliore, scegliamo il meno peggiore.[3] Non so nemmeno se ti sarebbe possibile la scelta più felice, nell'ipotesi che tu potessi cercare i buoni tra i Platoni, i Senofonti, e tra tutti i polloni del ceppo di Socrate, o se tu potessi approfittare dell'epoca di Catone, che produsse molti uomini degni di nascere contemporanei di Catone, così come produsse molti macchinatori di delitti, più scellerati che in qualunque altra età; ci volevano tutte e due le schiere, perché Catone potesse essere compreso: doveva avere i buoni dai quali farsi approvare ed i cattivi contro i quali sperimentare la sua forza.Ma oggi, dato che i buoni sono tanto rari, anche la scelta non può essere troppo schizzinosa.[4] La cosa più importante è evitare i malinconici, gli eterni piagnoni, per i quali non c'è nulla che non dia motivo a lagne.Anche se fidato e devoto, è sempre nemico della tranquillità un compagno turbato, che geme su tutto.

8. [Un grave pericolo per la tranquillità: il denaro.] [1] Passiamo ora alle ricchezze, la materia prima più ferace di tormento per gli uomini.Se tutti gli altri moventi delle nostre angustie, lutti, malattie, timori, rimpianti, dolori e fatiche da sopportare, li metti a paragone con i mali che ci cagiona il nostro denaro, la bilancia penderà decisamente dalla parte di quest'ultimo.[2] Dobbiamo, dunque, riflettere quanto più lieve dolore sia il non averne che il perderlo, e ci renderemo conto che la povertà è meno esposta a sofferenze, appunto perché è meno soggetta a perdite.E" un errore credere che i ricchi siano più coraggiosi nel sopportare i danni: una ferita produce uguale dolore in un corpo grande ed in uno piccolo.[3] Bione (26) dice argutamente che lo strappo dei capelli non fa meno male ai calvi che ai capelluti.Ebbene, lo stesso è dei ricchi e dei poveri: il tormento è uguale, perché il denaro è ugualmente appiccicato agli uni ed agli altri e non si può strappare senza che se ne risentano.E" più sopportabile, l'ho detto, e più facile il non acquistare che il perdere; per questo motivo, coloro che la fortuna non ha mai degnato d'uno sguardo, li vedrai più sereni di coloro che essa ha tradito.[4] Diogene, uomo di mente acutissima, notò il fatto e fece in modo che a lui non si potesse togliere nulla.Chiamalo pure povertà questo stato, o indigenza, miseria: affibbia l'ignominioso nome che credi a questa sicurezza: io mi convincerò che un uomo del genere non sia felice, se me ne mostrerai uno diverso, non soggetto a perdite.O sbaglio, o in un mondo d'avari, di frodatori, di saltastrada, di sfruttatori, essere il solo cui non si possa nuocere significa essere re.[5] Chi dubitasse della felicità di Diogene, potrebbe mettere in dubbio anche la condizione degli dèi immortali, chiedersi se manca qualcosa alla loro felicità, perché non posseggono poderi e giardini, terre valorizzate da coloni pagati e denaro ad usura sulla piazza.Non ti vergogni, tu che ti fai incantare dalle ricchezze? Via, guarda il cielo: vedrai gli dèi, privi di beni patrimoniali, che tutto danno e nulla posseggono.Quest'uomo che s'è spogliato di ogni bene di fortuna, lo stimi povero o paragonabile agli dèi immortali? [6] Stimi più felice Demetrio Pompeiano (27), che non si vergognò d'essere più ricco di Pompeo? Ogni giorno gli si rendeva conto del numero dei suoi schiavi, come si fa nell'esercito con il comandante supremo, mentre da un pezzo avrebbe dovuto ritenersi ricco per avere due subordinati ed una stanzetta un po'"larga.[7] A Diogene, invece, fuggì l'unico schiavo, e non ritenne che valesse la pena farlo riprendere, quando gli venne rintracciato: E" vergogna disse che un Manes possa vivere senza Diogene ed un Diogene non lo possa senza Manes.Intendo così le sue parole: Fà i fatti tuoi, Fortuna: in casa di Diogene non c'è più nulla di tuo.Mi è scappato lo schiavo... no, mi sono liberato io.[8] Gli schiavi esigono vestito e vitto; devi provvedere a tanti ventri di animali voracissimi, comperare vestiti,

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sorvegliare mani sempre pronte a rubare, servirti di esseri che continuamente si lagnano ed imprecano.Quanto più felice è colui che non è debitore se non del creditore al quale è facilissimo rifiutare il saldo: se stesso.[9] Ma dato che non abbiamo tutta questa forza, delimitiamo almeno i nostri possessi, per essere meno esposti alle ingiurie della fortuna.In guerra, i soldati di corporatura non eccessiva, che riescono a coprirsi dietro le loro armi, se la cavano meglio di quelli che non ce la fanno a coprirsi del tutto: la loro taglia li espone a ferite da ogni parte.La misura ottimale del denaro è quella che non dice povertà, ma non se ne allontana troppo.

9. [Educarsi alla parsimonia.] [1] Questo limite ci piacerà, se prima ci sarà piaciuta la parsimonia, senza la quale non c'è ricchezza che basti o che sia sufficientemente estesa.Essa costituisce, prima di tutto, un rimedio a portata di mano: anche la povertà, se accompagnata dalla frugalità, può trasformarsi in una forma di ricchezza.[2] Abituiamoci ad evitare il lusso ed a valutare le cose secondo la loro utilità, non per le loro bardature.Il cibo domi la fame, la bevanda la sete, la libidine sia soddisfatta secondo necessità.Impariamo a reggerci sulle nostre membra (28), a non trattarci e nutrirci all'ultima moda, ma come ci insegna il buon costume antico.Impariamo ad aumentare la temperanza, frenare la lussuria, reprimere la vanità, controllare la collera, guardare serenamente la povertà, praticare la frugalità a dispetto dei molti ai quali parrà vergognoso questo venire incontro con poca spesa alle esigenze naturali, questo tenere come alla catena le ambizioni sfrenate e l'animo preoccupato del futuro, e questo comportarci da persone che chiedono le ricchezze a se stesse e non alla fortuna [3] Non è possibile mettersi al riparo dalle innumerevoli eventualità disgraziate ed evitare che ci assalgano molte burrasche, se abbiamo messo in mare tante flotte.Dobbiamo ritirarci in poco spazio, perché i dardi cadano a vuoto; è per questo che, a volte, esilio e rovina sono risultati benèfici e situazioni piuttosto gravi sono state sanate da disgrazie lievi.Quando l'animo è sordo ai precetti e non accetta cure blande, chi dice che non gli si faccia un bene, infliggendogli la povertà, l'ignominia, la distruzione del patrimonio? Un male caccia l'altro.Abituiamoci dunque a saper cenare senza spettatori, a non dipendere che da pochi schiavi, a procurarci i vestiti solo per l'uso per cui son fatti, ad abitare in minor spazio.Non solo nelle corse e nelle gare del circo, ma anche nell'arena della vita bisogna curvare alla corda.[4] Anche la spesa per lo studio, che è la più nobile, è ragionevole fin dove è misurata.A che servono libri innumerevoli ed intere collezioni se, nell'arco della vita, il padrone riesce a mala pena a leggerne i titoli? I troppi libri appesantiscono chi studia, non lo istruiscono, ed è molto meglio consacrarsi a pochi autori, che vagabondare senza meta attraverso molti.[5] Ad Alessandria bruciarono quarantamila volumi (29).Altri vantino quel meraviglioso monumento della munificenza dei re, come fa anche Livio (30), che lo definisce capolavoro di buon gusto e di premura regale.Non fu né buon gusto né premura, ma sfarzo culturale, anzi, nemmeno culturale, perché non avevano procurato quei libri per studio, ma per ostentazione, come per molti ignoranti, al di sotto del livello d'istruzione elementare, i libri non sono strumenti di studio, ma arredi di sale da pranzo.Ci si procurino libri che bastano, senza ostentazioni.[6] Ma, obietti sono sempre soldi spesi meglio di quelli sciupati in vasi di Corinto (31) o in quadri.Il troppo è sempre fuori posto.Come puoi perdonare ad un uomo che acquista armadi di cedro e avorio, che ricerca le collezioni complete di autori sconosciuti o di pessima recensione, che sbadiglia tra tutte quelle migliaia di volumi e si diletta dei frontespizi e dei titoli? [7] Le collezioni complete degli oratori e degli storici le puoi trovare in casa di chi meno studia, in scaffali che toccano il soffitto: oggi, di fatto, in una casa con bagni e terme, è indispensabile allestire una bella biblioteca.Sarei pronto a perdonare, se si sbagliasse per eccessivo amore allo studio, ma oggi, codeste opere rare di sacri geni, ben suddivise sotto i ritratti dei loro autori, si comperano per arredare ed abbellire pareti.

10. [La serenità nei rovesci; la moderazione delle proprie ambizioni.] [1] E adesso, sei incappato in una situazione difficile ed un rovescio, pubblico o privato, t'ha buttato al collo, a tua insaputa, un cappio che non puoi né sciogliere né spezzare.Pensa a quelli che hanno la catena al piede (32): dapprima non s'adattano al peso che impaccia le gambe, poi, da quando si propongono di smetterla con lo sdegno e di rassegnarsi a sopportare, imparano di necessità una pazienza virile che dopo, con l'abitudine, diventa ordinaria.In qualunque situazione della vita, troverai momenti di soddisfazione, di riposo, di piacere, se preferirai giudicare lievi i tuoi mali invece di renderteli odiosi.[2] Il titolo di maggior merito che la natura può vantare nei nostri riguardi è questo: sapendo a quali tribolazioni ci destinava il nascere, inventò l'assuefazione a lenimento delle disgrazie, facendoci ben presto familiarizzare con gli eventi più gravi.Nessuno potrebbe resistere, se il perdurare dell'avversità conservasse la stessa forza del primo colpo.[3] Siamo tutti legati alla sorte, alcuni con una lenta catena d'oro, altri con una catena stretta ed avvilente, ma che importa? Ha messo tutti ugualmente sotto sorveglianza, sono legati anche quelli che ci legano, a meno che tu non

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ritenga più leggera la catena appesa al polso sinistro (33).Uno è incatenato alla carriera, un altro alle ricchezze; chi è oppresso da nobiltà e chi da oscuri natali, a chi pende sul capo il potere altrui e a chi il proprio, chi è legato ad un sol luogo perché esule e chi perché sacerdote.La vita è tutta una schiavitù.[4] Bisogna, dunque, adeguarsi alla propria condizione, lamentarsene il meno possibile, cogliere tutti i vantaggi che essa presenta: non c'è situazione tanto amara, che l'equilibrio interiore non riesca a cavarne qualche motivo di conforto.Tante volte, superfici ristrette sono diventate ampiamente utilizzabili per merito dell'ingegnere che le ha sapute suddividere e una buona ristrutturazione ha reso abitabili localucci angusti.Applica la ragione alle difficoltà: diventa possibile che il duro s'ammorbidisca, l'angusto s'allarghi e che il carico, portato avvedutamente, risulti meno pesante.[5] Inoltre, non si debbono spingere troppo avanti le ambizioni: permettiamo loro soltanto brevi sortite, in quanto non sopporterebbero la reclusione totale.Lasciato cadere tutto ciò che risulta impossibile a farsi o difficile, proponiamoci imprese a portata di mano, che arridano alle nostre aspirazioni, ricordando però che tutte le attività sono ugualmente inconsistenti: all'esterno, la facciata è diversa, ma dentro c'è sempre il vuoto.Non invidiamo chi è più in alto: le cose che ci parevano eccelse, sono situate su un dirupo.[6] A loro volta, quelli che la fortuna ha messo in posizioni rischiose, saranno più sicuri, riducendo la superbia di situazioni di per sé superbe e facendo scendere a valle il più possibile la loro fortuna.Ci sono molti per i quali sarà inevitabile rimanere sulle loro vette, dalle quali non possono scendere ma soltanto cadere, ma dicano ben chiaro che il loro maggior peso è quest'essere costretti a gravare sugli altri e che non si sentono innalzati, ma levati su un patibolo.Con la loro giustizia, mitezza, umanità, con mano generosa e benefica, predispongano molte difese dagli eventi che seguiranno, fidando nelle quali possano essere più tranquilli nella loro incerta situazione.[7] Ma nulla potrà renderci tanto liberi da questo fluttuare dell'animo, quanto il fissare sempre un limite al nostro successo, il non lasciare arbitra della fine la fortuna, ma essere noi a fermarci, e molto prima.Così alcune passioni ci pungoleranno ancora l'animo, ma saranno delimitate e perciò incapaci di spingerci su un cammino incerto e privo di meta.

11. [Il vero sapiente e la fortuna.] [1] Questo mio discorso riguarda gli imperfetti, i mediocri, i poco assennati, non il sapiente.Quest'ultimo non deve avanzare timidamente, passo passo: ha sufficiente sicurezza di sé per poter affrontare la fortuna senza esitazioni e senza doversi mai ritirare davanti ad essa.E non ha dove temerla, perché sa annoverare tra i beni precari non soltanto gli schiavi, gli immobili e le cariche, ma anche il suo corpo, gli occhi, la mano e tutto quanto gli rende più cara la vita e addirittura se stesso, e vive come se si possedesse a prestito, pronto a restituire a richiesta, senza rammarico.[2] No, non lo avvilisce il sapersi non padrone di se stesso, ma lo impegna a fare ogni cosa con tutta la diligenza e la circospezione con cui un uomo scrupoloso ed onestissimo tutela un fedecommesso.[3] Al momento in cui riceverà l'ordine di restituzione, non si lagnerà con la fortuna, ma le dirà: Grazie per quanto ho posseduto e goduto.Ho avuto cura dei tuoi beni e ne ho ricavato buon frutto, ma, se questo è il tuo ordine, ben volentieri faccio le riconsegne.Se vorrai che abbia ancora in uso qualcosa di tuo, lo tratterrò, se decidi altrimenti, rendo e restituisco l'argento in opera e in conio, la casa, gli schiavi.Se a chiamarci è la natura, la prima nostra creditrice, anche a lei diremo: Riprenditi questo animo, migliore di come me lo hai dato: non cerco scuse, non scappo.Trovi pronta, con il mio pieno consenso, la restituzione di quanto mi hai dato quand'ero ancora incosciente: porta via.[4] Che c'è di brutto a tornare al luogo donde sei venuto? E" destinato a vivere male chi non vuole saper morir bene.La prima cosa da deprezzare è la vita: tirare il fiato è un bene da valutare poco.Ci sono antipatici, come annota Cicerone, quei gladiatori che vediamo chieder salva la vita ad ogni costo (34), ci entusiasmano quelli che ne ostentano il disprezzo.Ebbene, sappi che a noi accade altrettanto: tante volte si muore per paura della morte.[5] La fortuna, che si allestisce da sé i suoi giochi, dice: Perché dovrei risparmiarti, meschino vivente, pieno di paura? Riceveresti sempre più numerose ferite e trafitture, proprio perché non sai offrire la gola.Invece vivrai a lungo e morirai più sbrigativamente tu che, davanti al ferro, non reclini il collo e non ti ripari con le mani, ma ricevi coraggiosamente il colpo.[6] Chi temerà la morte, non si comporterà mai da vivo, ma chi sarà cosciente che, all'istante del suo concepimento, gli è stato segnato il destino, si atterrà al patto e, con la sua sempre coerente forza d'animo, otterrà di non essere colto di sorpresa da nessun evento.Prevedendo tutto il possibile come se gli dovesse accadere, smorzerà ogni assalto delle sventure, che non costituiscono una novità per chi è preparato e se le aspetta, ma riescono gravose esclusivamente a chi si crede sicuro e si prospetta solo il bene.[7] Càpita una malattia, una prigionia, un crollo, un incendio: nulla di ciò mi coglie di sorpresa.Sapevo in che tumultuosa coabitazione natura m'aveva rinchiuso.

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Tante volte s'è gridato al fuoco nel vicinato, tante volte ho visto uscire dalle case funerali di giovinetti, con torce e ceri (35), tante volte m'è risuonato accanto il fragore d'un crollo d'edificio, tanti di quelli con i quali ho contatti nel foro, nella curia, nelle conversazioni, se li è portati via la morte in una notte e l'ho vista anche disgiungere strette di mano d'amici.Dovrei meravigliarmi d'essere stato raggiunto dai pericoli che m'ero sempre sentito ronzare attorno? [8] La maggioranza degli uomini, quando intraprendono un viaggio per mare, non pensa alla tempesta.Io non mi vergognerò mai di citare un passo buono di un cattivo autore.Publilio (36) un genio che riesce ben superiore a tanti autori di tragedie e commedie, quando sa staccarsi dalla volgarità e dalle battute per il popolino delle gradinate alte, tra tante cose di levatura superiore al coturno (37), non soltanto alla commedia, disse anche questa:

A chiunque può accadere quel che accade a tutti.

Se ce ne imbeviamo ben bene le ossa e guardiamo le disgrazie altrui (ne abbiamo ogni giorno un bel campionario!), pensando che esse possono benissimo venirci a trovare, ci armeremo molto prima dell'assalto.E" far tardi, disporre l'animo a sopportare il pericolo, dopo che è arrivato.[9] Non credevo che succedesse e: Non hai pensato mai che mi potesse succedere?.Perché questi "non"? Esistono ricchezze che la miseria, la fame, la mendicità non incalzino dappresso? Esistono dignità la cui porpora, il cui bastone, le cui calzature patrizie non siano accompagnate da incriminazioni, note di censura, da mille macchie e, infine, dal disprezzo? Esiste un trono per il quale non sia predisposta una rovina, un rovesciamento, un tiranno che comanda, un boia? E fatti del genere non distano molto nel tempo: passa soltanto un attimo tra l'essere in trono e l'abbracciare le ginocchia altrui.[10] Sappi, dunque, che ogni situazione può essere rovesciata e che tutto quanto càpita all'uomo della strada può capitare a te.Sei ricco: più di Pompeo? (38) Caligola, suo antico parente e nuovo ospite, gli aprì la casa imperiale per fargli chiudere la sua (39), e gli fece mancare il pane e l'acqua.Possedeva tanti fiumi che nascevano e sfociavano sulle sue proprietà e dovette mendicare acqua dallo stillicidio della grondaia.Muore di fame e di sete in casa del suo parente, mentre il suo ospiteerede allestisce per quest'affamato un funerale a spese pubbliche.[11] Hai ricoperto le cariche più elevate, insuperabili, illimitate come quelle di Seiano? (40) Il medesimo giorno in cui il senato gli aveva fatto corteo, il popolo lo ridusse in brandelli.Dell'uomo al quale dèi e uomini avevano conferito tutto quello che poteva convergere su di lui, non rimase per il carnefice un pezzetto trascinabile al gancio (41).[12] Sei re: non ti manderò da Creso, che ebbe ordine di salire sul proprio rogo e lo vide estinguersi, divenendo superstite non solo del suo trono, ma anche della sua morte; non da Giugurta, che il popolo romano vide sfilare in catene entro un anno dacché egli l'aveva fatto tremare: nelle carceri di Caligola abbiamo visto un re d'Africa, Tolomeo, ed un re d'Armenia, Mitridate.Il secondo fu mandato in esilio, il primo sperava d'essere esiliato con un po'"più di lealtà (42).In tanto succedersi d'alti e bassi, se non t'aspetti che accada tutto l'accadibile, concedi forza alle avversità nei tuoi confronti, mentre chi le sa vedere in tempo, le spezza.

12. [Impegnarsi esclusivamente in vista di risultati concreti e soddisfacenti.] [1] Dopo ciò, la cosa più importante è di non darci da fare né in attività inutili, né in modo inutile; in altri termini: non desiderare quello che non possiamo raggiungere o quello che, una volta raggiunto, ci dia, troppo tardi e dopo molto sudore, il senso della vacuità dei nostri sforzi; si può dire anche così: la fatica non sia vana e senza risultato ed il risultato non valga meno della fatica.In genere, il malcontento deriva da codeste situazioni o di successo mancato o di vergogna di quanto s'è ottenuto.[2] Dobbiamo dare un taglio netto alle nostre corse qua e là, simili a quelle della maggior parte degli uomini che vagano tra case, teatri e fori: si dichiarano disponibili per faccende altrui, sono sempre nell'atteggiamento di chi ha da fare.Se ne fermi uno all'uscita di casa e gli domandi: Dove vai? che hai in mente?, ti risponderà: Non lo so, per Ercole, ma incontrerò qualcuno, farò qualcosa.[3] Girano senza una meta, cercano una cosa qualunque da fare, e non fanno mai quello che si sono proposti, ma quello in cui si sono imbattuti.Il loro è un correre inconsulto e vano, come quello delle formiche lungo i tronchi degli alberi: salgono fino in cima e ridiscendono senza portare nulla.Sono una stragrande maggioranza quelli che vivono così, e non sarebbe fuori luogo parlare di inconcludenza irrequieta.[4] Certuni ti fanno pena, perché sembrano correre per un incendio: a tal punto urtano quanti incontrano e ribaltano se stessi e gli altri, ma intanto corrono, o a salutare una persona che non risponderà al saluto, o al seguito del funerale d'un uomo che non conoscono, o al processo di uno che è sempre in lite, o al fidanzamento di una donna che non fa altro che cambiare i mariti e, a furia di seguire una lettiga, a volte è capitato loro di trovarsela sulle spalle.Poi, quando tornano a casa stanchi di fatiche inconcludenti, giurano di non sapere neppure loro perché sono usciti e dove sono stati, ma sono decisi a rifare tutti quei giri il giorno dopo.[5] Ogni fatica abbia un punto di riferimento, si proponga uno scopo.

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Chi si dà da fare senza un piano preciso, è agitato da fisime come i pazzi: di fatto, non è che i pazzi non siano mossi da qualche speranza, ma li eccita la parvenza di qualcosa di cui la loro mente malata non avverte l'inconsistenza.[6] Allo stesso modo, motivi inconsistenti o stupidi portano in giro per la città ciascuno di questi che escono di casa solo per infoltire la folla; il sorgere del sole te lo caccia fuori senza che abbia di che occuparsi e, dopo che è inutilmente inciampato in tante soglie, ha salutato e risalutato dei nomenclatori (43) e molti gli hanno negato udienza, l'uomo per lui più difficile da trovare in casa è lui stesso.[7] Da questa malattia deriva quello sconcissimo vizio che è l'origliare e lo spiare segreti privati e pubblici e l'essere al corrente di molti fatti che non si possono tranquillamente né raccontare né ascoltare.

13. [Limitare le attività non necessarie.] [1] Penso che condividesse questi giudizi Democrito, che cominciò così il suo libro (44): Chi vuole vivere tranquillo, non si prenda molti impegni né privati né pubblici, riferendosi ovviamente alle attività superflue: in realtà, quando è necessario, bisogna sbrigare, nella vita privata e pubblica, non solo i molti, ma gli innumerevoli impegni; ma quando non siamo presi da nessuno dei nostri doveri ordinari, dobbiamo limitare le attività.[2] Chi tratta molte cose, si espone spesso al potere della fortuna; la norma più sicura è di metterla raramente alla prova, pensare sempre ad essa, ma non ripromettersi nulla dalla sua lealtà: Viaggerò per mare, se non capiterà nulla e: Diventerò pretore, se non ci saranno ostacoli e: L'affare andrà in porto, se non sorgeranno intralci.[3] Questo è il motivo per cui diciamo che al sapiente non può accadere nulla di inatteso: non lo sottraiamo alle vicende degli uomini, ma ai loro errori, e le cose non gli vanno tutte come voleva, ma come pensava.E prima di tutto, pensava che qualcosa potesse opporsi ai suoi propositi.E" inevitabile, allora, che il suo animo resti meno toccato dalla delusione dell'insuccesso, dato che non gli ha promesso il successo.

14. [Né ostinazione né superficialità Esempi di impassibilità.] [1] Dobbiamo essere intenzionati a non asservirci troppo alle attività proposte ed a passare a quelle cui ci conducono le circostanze, senza aver paura di cambiar proposito e situazione, purché non ci lasciamo prendere dalla superficialità, un difetto quanto mai nemico della quiete.E" inevitabile, infatti, che anche l'ostinazione provochi ansie e miseria, dato che la fortuna le estorce sempre qualche cosa; la superficialità, però, è molto più grave, perché non sa contenersi in nessun luogo.Ambedue le cose sono nemiche della tranquillità: il non sentirsela di cambiare nulla ed il non sopportare nulla.[2] Certamente bisogna richiamare l'animo da tutte le attività esterne e ricondurlo a se stesso: abbia fiducia in se stesso, sia soddisfatto di sé, badi alle cose sue, si disinteressi, nei limiti del possibile, dei fatti altrui e si concentri su se stesso; non risenta delle perdite e sappia interpretare in bene anche le avversità.[3] Zenone, della nostra scuola, quando gli fu annunciato un naufragio e gli si disse che tutte le sue cose erano affondate, commentò: La fortuna mi ordina di filosofare con più agilità.Un tiranno minacciava la morte al filosofo Teodoro (45) ed aggiungeva la negazione della sepoltura: Hai di che compiacerti gli disse; un'emina (46) di sangue è a tua disposizione.In fatto di sepoltura, sei ben sciocco, se pensi che per me faccia differenza marcire sopra la terra o sotto.[4] Giulio Cano (47), uomo tra i più grandi, che riuscì a meritare piena ammirazione pur essendo nato ai nostri tempi, ebbe un lungo alterco con Caligola.Quando stava per andarsene, quel Falaride (48) gli disse: Perché non ti illuda con sciocche speranze, sappi che t'ho condannato a morte.Grazie, rispose principe ottimo. [5] Sono incerto su quello che voleva dire: mi si presentano molte ipotesi.Volle offendere Caligola, mostrandogli quanto grande era la sua crudeltà, se una condanna a morte diventava un favore? O gli rimproverava la sua quotidiana pazzia, dato che lo ringraziavano uomini dei quali aveva preso i figli e confiscati i beni? O presevolentieri la morte come una liberazione? Comunque, la risposta fu magnanima.[6] Qualcuno dirà: Ma era possibile che, dopo quelle parole, Caligola gli facesse grazia.Non ebbe di queste paure Cano: sapeva bene com'era di parola Caligola, quando impartiva quegli ordini.Crederesti che Cano abbia passato i dieci giorni d'attesa del supplizio senza alcuna preoccupazione? Ebbene, sembrano incredibili le sue parole, le sue azioni, la sua assoluta tranquillità.[7] Stava giocando a scacchi (49), quando venne il centurione a rilevare il gruppo per l'esecuzione.Ordinò anche a lui d'alzarsi; quello contò i pezzi e disse all'avversario: Bada di non andare a raccontare, dopo la mia morte, che stavi vincendo.Poi fece un cenno al centurione e: Tu sarai testimonio disse che ero in vantaggio di un pezzo.Credi che su quel tavolo Cano stesse giocando? Era sarcasmo.[8] I suoi amici erano tristi, perché stavano per perdere un uomo di quel valore.Disse: Perché siete mesti? Voi vi state ancora chiedendo se l'anima è immortale; io, tra poco, lo saprò.Non smise di scrutare la verità nemmeno in punto di morte, anzi si pose un problema relativo alla sua morte.[9] Lo accompagnava il suo filosofo ed erano ormai vicini al rialzo sul quale ogni giorno si offre un sacrificio a Cesare, che per noi è un dio.E quello: O Cano, a che pensi? Qual è il tuo stato d'animo?.Cano rispose: Mi sono proposto di fare attenzione, in quell'istante rapidissimo, se l'animo avverte di star uscendo.E promise che, se avesse appurato qualcosa, avrebbe fatto il giro degli amici, per riferire loro sulla condizione delle anime.

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[10] Ecco una tranquillità in mezzo alla tempesta, un animo degno d'eternità, che invita la propria morte a fornirgli la prova d'una verità e che, mentre compie l'ultimo passo, interroga l'anima che esce e non s'accontenta di imparare fino alla morte, ma vuole imparare qualcosa anche dalla morte; nessuno ha filosofato con più perseveranza.Non deve essere dimenticato subito questo grande uomo, se ne deve parlare con interesse: noi ti faremo ricordare da tutti, o amico carissimo, illustre vittima delle stragi di Caligola!

15. [La tentazione di odio dell'umanità.] [1] Ma, ad un certo punto, non giova nulla l'aver eliminato tutte le cause personali di tristezza; a volte ci prende l'odio verso l'umanità, ed è quando ci si presenta l'innumerevole quantità dei delitti fortunati.Quando pensi com'è rara la schiettezza, com'è ignota l'innocenza, e che di lealtà non ce n'è quasi mai, tranne le poche volte che conviene, che i vantaggi ed i danni della libidine sono ugualmente ripugnanti e che l'ambizione, non sapendo più contenersi nei limiti che le dovrebbero essere propri, è giunta a farsi bella dell'immoralità, l'animo si sente sospinto nella notte e, come se le virtù fossero completamente sovvertite, in quanto né ci si può sperare, né giova averle, lo avvolgono le tenebre.[2] Dobbiamo, dunque, ripiegare sul non trovare odiosi, ma ridicoli, i vari vizi del volgo e sull'imitare piuttosto Democrito che Eraclito: questo, ogni volta che usciva in pubblico, piangeva, quello rideva: all'uno tutte le nostre azioni parevano miserie, all'altro stupidaggini.Dobbiamo, dunque, dar poco peso a tutto e sopportare tutto con indulgenza: è più da uomini ridere della vita che piangerne.[3] In più, rende un servizio migliore al genere umano l'uomo che ride che quello che piange: il primo lascia aperto uno spiraglio allo sperar bene, l'altro piange stoltamente su cose che dispera si possano rimediare; anzi, in sede di bilancio generale, ci risulta più magnanimo chi non sa frenare il riso che chi non sa frenare le lacrime, perché mette in moto una passione lievissima e non giudica nulla importante, nulla serio, nulla neppure misero nell'immenso scenario della vita.[4] Ciascuno osservi i motivi che ci rendono lieti o tristi, ad uno ad uno, e riconoscerà che era nel vero Bione (50) quando disse che tutte le attività umane rimangono quali sono cominciate e la vita non si trova mai ad essere più santa o seria di quanto non la fosse nel periodo fetale.[5] E" dunque meglio accettare con calma il comportamento comune ed i vizi degli uomini, senza lasciarsi andare né al riso né al pianto: il provare tormento per i mali altrui è eterna miseria, il dilettarsi dei mali altrui è voluttà disumana.[6] Come è compassione inutile piangere perché Tizio conduce il figlio alla tomba ed atteggiare il volto a dolore, anche nelle disgrazie proprie bisogna comportarsi in modo da concedere al dolore quanto comanda la natura, non la moda.I più, infatti, versano lacrime per ostentazione e si ritrovano ad occhi asciutti non appena se ne sono andati gli spettatori, perché si vergognerebbero di non piangere dove tutti lo fanno.Questo male del dipendere dall'opinione altrui s'è radicato al punto che diventa simulazione anche il sentimento più schietto, il dolore.

16. [I veri casi di ingiustizia.] [1] Ci sono poi esperienze che suscitano tristezza non immotivata e provocano ansie.Quando i buoni finiscono male, quando un Socrate è costretto a morire in carcere, un Rutilio (51) a vivere esule, un Pompeo ed un Cicerone ad offrire il loro collo ai loro beneficati ed il famoso Catone, immagine viva della virtù, a denunciare la propria rovina e quella della repubblica gettandosi sulla spada, è inevitabile provare tormento perché la fortuna ripaga con tanta ingiustizia.E che cosa può aspettarsi uno che vede i migliori fare la fine peggiore? [2] Che fare allora? Considera in quale modo ciascuno di quelli ha sopportato e, se sono stati forti, rimpiangili con altrettanta fortezza, se sono morti da femminucce o da codardi, non c'è stata perdita.O sono degni d'essere ammirati per virtù, o la loro viltà non merita rimpianto.Non sarebbe estrema vergogna se gli uomini grandi, morendo da forti, producessero dei vili? [3] Lodiamo chi è degno di tante lodi e diciamo: Quanto fosti forte, quanto felice! Sei sfuggito a tutte le disgrazie, all'astio, alle malattie, ti sei liberato dal carcere; agli dèi non sei parso degno di sorte avversa, ma indegno di rimanere ancora soggetto al potere della fortuna.E se qualcuno vuol sottrarsi e, mentre sta morendo, cerca di volgersi alla vita, finiamolo con la violenza.[4] Io non piangerò né per un uomo lieto, né per uno in lacrime: il primo ha asciugato le mie lacrime, il secondo, con le sue lacrime, s'è reso indegno delle altrui.Dovrei piangere Ercole perché si brucia vivo, o Regolo trafitto da tanti chiodi, o Catone che si colpisce ripetutamente? Tutti costoro, con trascurabilissima spesa di tempo, trovarono modo di diventare eterni e raggiunsero l'immortalità attraverso la morte.17. [La naturalezza nell'atteggiamento.I momenti di riflessione.La ricreazione.] [1] C'è ancora un incentivo non trascurabile di ansie, ed è il preoccuparsi del proprio atteggiamento, il non mostrarsi a nessuno con naturalezza, come fanno tanti la cui vita è tutta una finzione, una artificiosa ostentazione: è un tormento il sorvegliarsi continuamente, per timore d'essere sorpresi in atteggiamenti diversi dal solito.Ci è impossibile liberarci da questo pensiero, se riteniamo che gli altri ci giudichino in ogni momento in cui ci vedono.Accadono, infatti, molti imprevisti che ci mettono a nudo nostro malgrado e, per buono che sia il risultato di tutto questo autocontrollo, non sarà mai felice e libera da preoccupazioni la vita di chi porta continuamente la maschera.[2] Al contrario, quante soddisfazioni ci dà una semplicità schietta e priva di bardature, che non stende veli davanti ai

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suoi costumi! Anche questa vita, però, corre un pericolo, quello del disprezzo, se tutto è sotto gli occhi di tutti: c'è gente, infatti, che ha in uggia tutto ciò che le diventa troppo accessibile.Ma la virtù non corre il pericolo di svilirsi lasciandosi osservare, ed è minor male esser disprezzati per semplicità che tormentati dalla continua simulazione.Teniamo però una giusta misura: ci corre molto tra la semplicità e la sciatteria.[3] Bisogna anche ripiegare spesso su se stessi: i contatti con persone di altra mentalità guastano il buon ordine interiore, risuscitano le passioni ed esulcerano le infermità dell'animo non ancora ben guarite.Sono due pratiche da unire ed alternare, la solitudine e la compagnia.La prima ci farà desiderare il contatto con gli uomini, l'altra quello con noi stessi, e l'una sarà di antidoto all'altra: la solitudine ci guarirà dal disprezzo della folla, la folla dalla nausea della solitudine.[4] La mente, poi, non deve essere impegnata con intensità costante: è necessario indurla al divertimento.Socrate non arrossiva di giocare con i bimbi, Catone si rilassava col vino dalle preoccupazioni politiche e Scipione agitava nella danza quel suo corpo di trionfatore e di guerriero: non si avviliva in svenevolezze, come usano oggi quelli che, anche nell'andatura, sono più snervati e languidi delle donne; danzava come solevano virilmente tripudiare (52) i grandi dell'antichità nei giorni di gioia e di festa, senza rischiare il disprezzo, neppure se fossero stati visti dai loro nemici.[5] Bisogna dar tregua all'animo: riposato, si rialzerà con più decisione, con più mordente.Come non si possono forzare i campi fertili a produrre (una produzione ininterrotta li esaurirebbe ben presto), così la fatica senza riposo spezzerà lo slancio dell'animo; riprenderà forza dopo un po'"di distensione, di riposo.Oberato dalle fatiche ininterrotte, l'animo rimane come inebetito, illanguidito.[6] E gli uomini non sarebbero tanto propensi a divertirsi, se divertimento e gioco non dessero un piacere conforme a natura.L'abusarne appesantirebbe l'animo e gli toglierebbe le forze: veramente, anche il sonno è necessario per ristorarsi, ma il continuarlo giorno e notte sarebbe la morte.C'è una bella differenza tra interrompere una cosa ed abolirla.[7] I legislatori istituirono i giorni festivi per invitare ufficialmente gli uomini all'allegria, per frapporre, diciamo, un necessario intermezzo alle fatiche, e certi uomini di grande senno si concedevano ogni mese giorni fissi di ferie, alcuni non avevano giorno che non fosse suddiviso in tempi di lavoro e di riposo.Così ricordiamo che faceva Asinio Pollione (53), il grande oratore, che non si lasciò mai trattenere in affari dopo l'ora decima, trascorsa la quale, non leggeva neppure le lettere, perché non ne nascesse qualche nuovo impegno; in quelle due ore, si rifaceva di tutta la stanchezza della giornata.Alcuni fissarono la pausa a mezzogiorno e rimandarono al pomeriggio le pratiche di più facile disbrigo.Anche i nostri antichi proibirono al senato di passare a nuovi punti dell'ordine del giorno dopo l'ora decima.Sotto le armi, si distribuiscono i turni di guardia e chi rientra da una missione è esente dal servizio notturno.[8] Si deve aver riguardo all'animo e concedergli quel riposo che gli ristorerà le forze come fosse cibo.Si devono fare anche camminate all'aperto, per rinfrancare lo spirito con il cielo libero e l'aria abbondante; a volte, ci daranno vigore una scarrozzata, un viaggio, il cambiar paese, un convito, una buona bevuta.In certi casi è bene arrivare all'ubriachezza, non per restarne sommersi, ma placati.Il vino fa piazza pulita delle preoccupazioni, dissoda l'animo a fondo ed è medicina anche per la tristezza, come lo è di certe malattie.Libero, l'inventore del vino, non ebbe quel nome perché il vino scioglie a tutta libertà la parlantina, ma perché libera l'animo dalla schiavitù dei pensieri, lo rende indipendente, lo stimola e gli dà maggior ardore per tutte le imprese.[9] Ma com'è salutare moderarsi nella libertà, così lo è nel vino.Si crede che Solone ed Arcesila (54) abbiano indulto al vino; a Catone fu rimproverata l'ubriachezza (55), accusa che servirà più a rendere onesto il peccato che a svergognare Catone.Ma non bisogna farlo spesso, perché l'animo non ne contragga la cattiva abitudine; ogni tanto, però, apriamolo all'esultanza ed alla libertà e lasciamo un pochino nel cantuccio la sobrietà severa.[10] Di fatto, se dobbiamo credere al poeta greco, talvolta è piacevole far pazzie, se a Platone, bussò invano il sobrio alla porta della poesia, se ad Aristotele, non c'è mai stato un vero genio senza un pizzico di pazzia (56).[11] Non può parlare alla maniera grande, elevata oltre l'ordinario, se non una mente esaltata.Quando abbia disprezzato il volgare, il banale e si sia elevata per sacro entusiasmo, solo allora può intonare il suo canto con voce sovrumana.Il sublime, l'eccelso, non lo raggiunge mai restando in sé: è indispensabile che la mente si dissoci dall'abituale, si porti in alto, morda il freno e trascini il cavaliere, per condurlo alle vette che non avrebbe osato scalare da solo.[12] Eccoti, carissimo Sereno, ciò che può difendere la tranquillità, ristabilirla, tenerla al riparo dai vizi che vi si insinuano.Sappi però questo: nessuna delle norme qui enunciate basta a tutelare un patrimonio tanto fragile, se il nostro animo vacillante non sarà chiuso in un cerchio di attente e continue cure.

NOTE.Nota 1.Non s'allude allo stretto regime vegetariano dei gymnosofisti, ma alla più mite pratica della xerofagia (mangiare cibi non cucinati), che ammetteva anche i formaggi, il pesce salato, eccetera.

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Nota 2.S'allude al ripugnante costume di vomitare il cibo appena ingurgitato, per poterne prendere altro.Nota 3. "Argenteria pesante": l'espressione di Seneca è "argentum grave", ma s'intende di "fattura grezza".Nota 4.Mense di marmo pregiato per le sue chiazze o striature, come il giallo antico della Numidia, il porfido d'Egitto, il bianco a chiazze rosse della Frigia o il Caristio (cipollino, detto allora "verdemarino") della Laconia.Erano pregiate anche le mense ricavate da un solo pezzo di cipresso o d'ebano.Anche per quanto riguarda la successiva descrizione della servitù, cfr.Lucan., "Phars." 10,111135; Stat., "Silv." 4,2,19 ss.; 4,6,20 ss.Nota 5.Gli architetti dell'epoca includevano nelle ville ruscelli o stagni, rivestendone anche i fondali con marmi pregiati e facendo aprire sui corsi d'acqua i locali di rappresentanza (Stat., "Silv." 1,3,14-33; 2,3,1-5).Nota 6.Almeno a parole, tutti i maestri romani d'eloquenza professavano fedeltà al dettame del vecchio Catone: "rem tene, verba sequentur" (stà all'argomento, le parole verranno da sé).Nota 7.Cfr. prefazione, 3.Nota 8.Forse Seneca allude ad un discorso filosofico generico.Ma la crisi di "nausea" era denunciata soprattutto dagli epicurei del tempo.Nota 9.Altra allusione ambigua: può trattarsi della norma cinica dello "scegliere caso per caso".Si nota una velata critica all'eccessivo conservatorismo degli ancorati al "mos maiorum".Nota 10. "Achille", addolorato per la morte di Patroclo ("Iliade" 24,10-11).Nota 11.Regioni ormai decadute dall'antico splendore.Nota 12.Lucr. 3,1066.L'intero passo è ispirato a Lucrezio (3,10601067).La topica dell'incostanza è diffusissima (Hor., "Epist." 1,1,80-81).Nota 13.Due filosofi stoici, originari di Tarso, rispondono al nome di "Atenodoro".Il primo, detto Cordilione (il gobbo), diresse la biblioteca di Pergamo, rivide le opere di Zenone e fu chiamato a Roma da Catone Uticense.Il secondo, figlio di Sandone, fu maestro e consigliere d'Augusto.Non è più possibile, oggi, distribuire con sicurezza tra i due autori le opere di cui s'ha memoria.La pagina riportata da Seneca s'attaglia meglio al consigliere d'Augusto.Nota 14.A grandi ville che avanzavano sul mare accenna Orazio ("Carm." 2,18,20-22).Stazio descrive minutamente la villa che il ricco Pollio Felice s'era costruita a Sorrento, dotata d'un portico che scendeva fino ad un tempio di Ercole prominente sul mare ("Silv." 2,2).Nota 15.Il "patronus" o "oretor" era il difensore, l'odierno avvocato.L""advocatus" romano, invece, stava in silenzio accanto all'imputato, attestando con la sola presenza la sua stima e premura per lui.Nota 16. "Tribunal" è propriamente il seggio del magistrato.Nota 17.Tenere concioni politiche o dai rostri, nel foro, o nel Campo Marzio, sede delle tornate elettorali ("comitia") e già ristrutturatoda Cesare per poter accogliere anche le "contiones" propagandistiche delle 35 tribù.Nota 18.Il "pritano" è il magistrato supremo in varie città greche, il "suffeta" lo è in Cartagine.Alla voce "keryx" (araldo) non corrisponde nessuna precisa magistratura.Nota 19. "Triari": i soldati della terza fila, ordinariamente veterani.Nota 20.I "trenta tiranni" presero il potere in Atene nel 404 avanti Cristo e costituirono un loro senato di 500 membri.La democrazia fu restaurata nell'anno successivo.Altri due o tre anni furono dedicati alla caccia e allo sterminio di quei tiranni che erano riusciti a sfuggire alla prima strage.Nota 21.Insieme con Aristogitone, "Armodio" progettò l'uccisione di Ippia ed Ipparco, tiranni d'Atene (514 avanti Cristo).La congiura riusci solo parzialmente.Ipparco venne ucciso, ma Aristogitone fu arrestato e messo a morte.

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Tre anni dopo, la tirannide fu rovesciata e i due promotori della congiura entrarono nella leggenda con il titolo di "liberatori" e "tirannicidi" e la dedica di statue e poemi (Simonide).Nota 22.Due volte Seneca usa, in questo scorcio, la parola "libertas" che corrisponde, nel primo caso, al greco "eleuthería", la libertà politica, nel secondo a "parrhesía", la libertà di parola e di comportamento, che i cinici trasformarono in ostentata licenza.Nota 23.Anche "Manio Curio Dentato", che aveva trionfato nel 290 avanti Cristo sui Sanniti e Sabini e nel 257 su Pirro, dopo la giornata di Benevento, fu collocato dai Romani tra storia e leggenda e divenne simbolo della più severa versione del "mos maiorum".Nota 24. "Eforo" compose, in 30 libri, una storia della Grecia, che iniziava dalla mitica era degli Eraclidi e giungeva fino alle conquiste di Filippo il Macedone.Nota 25.In "Ira" 3,6,3, Seneca attribuisce questo detto a Democrito.Nota 26. "Bione di Boristene", del secolo Terzo avanti Cristo, filosofo cinico proveniente dall'accademia.Diogene Laerzio (4,46-58) ce ne rievoca il linguaggio mordace e sprezzante.Nota 27. "Demetrio Pompeiano", nativo di Gadara, nella decapoli di Palestina, fu prima schiavo e poi liberto di Pompeo.Per sua intercessione Pompeo ricostruì Gadara (Jos.Flav., "Bell.Jud." 1,155; "Antiq." 14,75).Divenuto enormemente ricco, giunse all'impudenza di farsi attribuire in presenza di Pompeo, onori superiori a quelli concessi al suo patrono (Plutarch., "Pomp." 40; "Cato Min." 13).Nota 28.Seneca non allude soltanto all'uso delle lettighe, ma anche a quello di servirsi in casa dell'aiuto degli schiavi per compiere i movimenti più banali.Nota 29.Durante i torbidi che accompagnarono, nel 47 avanti Cristo, il soggiorno di Cesare in Alessandria.Nota 30.Questo passo di Seneca è l'unica fonte del perduto testo liviano (Liv., "fragm." 112,42).Nota 31. "Vasi di Corinto": pregiati vasi di bronzo, ai quali faceva concorrenza la produzione artigiana di Temese, nel Bruzzio.Nota 32.Agli schiavi che lavoravano nei campi, s'applicava la catena al piede, per prevenirne la fuga.Nota 33.Se l'imputato era soggetto a "custodia militaris", il suo polso destro veniva legato, mediante una catena, al polso sinistro del soldato che lo custodiva.Seneca ripete l'esempio in "Ep." 5,7.Nota 34.Cic., "Pro Milone" 92.Nota 35.I "ceri" significavano il rimpianto per la morte prematura (Serv., "Ad Aen." 11,143).Nota 36: Il mimografo "Publilio Siro".Nota 37. "Coturno": la tragedia.Nota 38. "Pompeo": il personaggio non ci è noto altrimenti.Nota 39.Per divenirne, prima o poi, l'erede.Il che avrebbe comportato l'apposizione dei sigilli alla casa di Pompeo.Nota 40. "Lucio Elio Seiano", il potente ministro di Tiberio, fatto uccidere dall'imperatore nel 31 dopo Cristo La versione di Seneca diverge da quella di Dione Cassio (58,11,4-5), secondo il quale il corpo di Seiano fu buttato nel Tevere.Nota 41.Quel macabro rito seguiva l'esecuzione capitale.Mediante un "gancio" il cadavere veniva trascinato lungo le scale Gemonie fino al fiume.Nota 42.Di fatto, Caligola condannò a morte il cugino Tolomeo, che Svetonio ("Calig." 26) e Dione Cassio (59,25,1) dicono semplicemente "ucciso" da Caligola.Secondo Seneca, l'imperatore avrebbe mascherato la condanna con un finto decreto d""esilio".Nota 43. "Nomenclatori": gli schiavi addetti ad annunciare i visitatori.Il nostro affaccendato, dunque, non è stato ricevuto da nessuno.Nota 44.Il già citato volume sull""euthymía".Nota 45. "Teodoro di Cirene", in giudizio davanti a Lisimaco di Sparta.

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Seneca riprende da Cicerone, "Tusc." 1,102.Nota 46. "Emina": misura di capacità, corrispondente a poco meno di mezzo litro.Nota 47. "Giulio Cano": il personaggio ci è altrimenti sconosciuto Nota 48. "Falaride di Agrigento", tiranno per antonomasia, inventore del famoso toro di bronzo nel quale venivano rinchiusi e poi arroventati i condannati a morte.Nota 49.Non è esatta la traduzione "scacchi" del termine "latrunculi" ma è la sola possibile.Il gioco romano, che conosciamo solo parzialmente, presenta analogie con l'attuale.Nota 50.Non è possibile risalire all'enunciato originale di Bione.S'è cercato qui d'esprimere l'interpretazione che ne ha dato Seneca.Nota 51.Cfr. nota 13 a "Prov." 3,4.Nota 52. "Tripudiare": è termine tecnico.Il "tripudium" è passo di danza usato dai militari nelle feste e nei trionfi.Comportava una forte percussione del piede a terra.Il danzatore è "Scipione l'Africano Maggiore".Nota 53. "Gaio Asinio Pollione", console del 40 avanti Cristo, vero dedicatario della quarta "Ecloga" di Virgilio.Nota 54. "Arcesila": detto anche "Arcesilao", è il fondatore della nuova accademia.Nota 55.Secondo Plutarco ("Cato Min." 6), Catone passava intere notti a bere.Nota 56.Plat., "Phaedr." 22-245a; Aristot., "Probi." 30,1.Platone dice veramente senza pazzia, ma Seneca gioca sull'equivoco: l'ispirazione poetica era spesso definita ebbrezza d'un sobrio".

DELLA BREVITA" DELLA VITA."Non exiguum tempus habemus, sed multum perdidimus"."Non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne perdiamo molto".(1,3).

PREFAZIONE.Il dedicatario, la cronologia e le caratteristiche dell'opuscolo.Il dialogo "Della brevità della vita" è dedicato a Paolino, un personaggio al quale Seneca si rivolge con familiarità e rispetto.E" "prefetto dell'annona" (c. 18), cioè sovrintendente agli approvvigionamenti, ed è perciò esperto di finanza, di pubblica amministrazione e di merceologia (18,3; 19,1).Paolino s'appresta a lasciare l'ufficio per ragioni di età: ha cinquanta o sessant'anni,quanti giustificano, anche legalmente, la rinuncia alla carica (20,4).Gli studiosi sono convinti che Paolino sia il padre di Pompea Paolina, la giovane moglie di Seneca.Non sono risultati convincenti i tentativi di identificare il suocero di Seneca con quel Pompeo Paolino che comandò l'esercito in Germania nel 58 dopo Cristo e che, nel 62, venne nominato da Nerone membro d'una commissione di tre consolari, incaricata di rivedere la riscossione delle tasse (Tac., "Ann." 13,5; 15,18).La datazione dell'opera al 49-50 dopo Cristo è praticamente sicura.Seneca annovera, tra le pseudooccupazioni degli uomini del suo tempo, la discussione sull'originaria estensione del pomerio dell""Urbe" (13,8).Il pomerio, la fascia di terreno interna ed esterna alle mura, definita da pietre terminali, ritenuta sacra e riservata a pubblica utilità, costituiva anche una visibile testimonianza delle più care memorie dei Romani.Raramente era stato ritoccato, e sempre per ricordare qualche nuova conquista.Nel 49 dopo Cristo, Claudio ne decretò un nuovo ampliamento, spostando pietre terminali che si diceva fossero state collocate da Romolo.Ne seguirono discussioni a non finire (Tac., "Ann." 12,23-24).Seneca era reduce dall'esilio.La composizione del dialogo si inserisce in quella pausa di colloquio con i grandi del passato (c.14), che intercorse tra il suo ritorno e l'incarico, che ebbe da Agrippina, di educare il dodicenne Domizio, il futuro Nerone.Il dialogo scorre senza interruzioni, senza obiezioni, senza mutamenti di tono; non ci sono invettive nemmeno nella rievocazione dell'ultima follia di Caligola (18,5-6): i protagonisti dell'episodio sono, in realtà, i funzionari dell'annona, costretti a destreggiarsi tra l'irragionevolezza del volgo e quella dell'imperatore.Viene spontaneo il raffronto tra Paolino e Sereno, l'amico e discepolo al quale Seneca, alcuni anni più tardi, dedicherà i dialoghi "Della costanza del sapiente", "Della tranquillità dell'animo" e "Dell'ozio".Seneca si rivela sempre avveduto nell'adattare il linguaggio alle capacità recettive del destinatario dell'opera.Ma, in Sereno, è già abbozzata una vocazione alla filosofia e s'è già configurata una ricerca d'eutimia: si tratta soltanto di condurre il discepolo ad una ragionata opzione per lo stoicismo.

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Per Paolino, invece, è esistita finora la sola versione letteraria dell""otium": dedicarsi ad "attività nobili", quali l'eloquenza e gli studi liberali (umanistici e giuridici: 7,3).Il discorso di Seneca dovrà essere più blando, sfumato ed essenziale: un "discorso sulla vecchiaia", imperniato sul tema "umanità del filosofare".La tematica della vecchiaia.I "discorsi sulla vecchiaia" comparivano in tutta la letteratura del tempo.Prendevano le mosse da riflessioni atipiche sulla brevità della vita, che erano divenute luoghi comuni di tutte le filosofie.Cicerone e Seneca attingono da fondo peripatetico (Seneca, inesattamente, nomina il solo Aristotele; 1,2): la natura è stata avara di longevità con l'uomo, che doveva percorrere un lungo cammino di sapienza.Ma il medesimo enunciato troviamo, in sostanza, all'inizio della "Congiura di Catilina" di Sallustio, che pare ispirarsi ad una perduta tragedia di Menandro, e si può evincere dalle pagine di Seneca ("Dell'ozio" 5,6-7) che gli stoici avevano fatto proprio e rielaborato il lamento dei peripatetici.L'enunciato era tanto inseribile in un discorso sull'utilità dell""otium" letterario, inteso come occasione di "essere con se stessi" (Cic., "Cato M." 49), quanto ricollegabile a quelle "massime capitali" che condensavano il "mos maiorum": secondo Seneca, era di Curio Dentato l'aforisma: L'ultima iattura è uscire dal numero dei vivi prima di morire ("Tranq." 5,5).Era relativamente facile ricavarne un imperativo morale e capovolgere, anche per renderlo universale, il lamento sulla vecchiaia: Anche la vita più breve è sempre abbastanza lunga per poter riuscire santa e venerabile (Cic., "Cato M." 70).Ma la discussione sulla vecchiaia, pure muovendo da questo spunto, seguiva, al tempo di Seneca, il decorso che le avevano assegnato Teofrasto ed i filosofi dell'ellenismo (Diogene Laerzio, 5,43; 5,81; 9,20), al quale s'era attenuto anche Cicerone ("Cato Maior") e che è enunciato nel titolo dell'opuscolo di Plutarco: "Se il vecchio debba dirigere lo Stato".L'intento di Seneca era ben diverso: la vecchiaia, come occasione di ricupero dell'interiorità.Definito così il tema, Seneca poteva ricuperare ben poco dalla "filosofia sulla vecchiaia" dei suoi predecessori.Si trattava di enucleare alcuni princìpi e di distribuirli sapientemente in un contesto letterario che sapesse avvicendare ai consueti esempi, tratti dalla storia, pagine ispirate alla vita e al costume (cc. 12-13).Seneca impostò l'opuscolo come "paradosso stoico", utilizzando il modello ciceroniano.L'enunciato paradossale, che riemerge in più luoghi (3,3; 7,5; 20,5) recita: soltanto il saggio è longevo, lo stolto muore prematuramente.Analisi di struttura.La preponderante letterarietà dell'opuscolo impedisce di tracciarne uno schema organico: non c'è.Dal discorso di Seneca, si isolano nettamente un "prologo" (la vita è breve, ma "se la sai utilizzare è lunga"; cc. 1-2) ed un "congedo", un saluto a Paolino che chiude la sua attività di funzionario di Stato (cc. 18-19).Tralasciando tutte le amplificazioni eloquenziali e le adduzioni di esempi, separiamo dal contesto le pagine "filosofiche": 1) C. 3: enunciazione del tema in forma di paradosso: se farai un sincero esame di coscienza, dopo una vita dissipata, apparentemente lunga, ti renderai conto di morire prematuramente.2) C. 10: nel contesto, appena accennato, di una decisa lotta contro le passioni, Seneca tenta di fondare sulla categoria della "atemporalità" la validità della sapienza: la vita si divide in tre periodi, il passato, il presente ed il futuro.Dei tre, il presente è breve, il futuro è incerto, il passato è certo.Il procedimento è meramente epidittico; è privo di validità logica.3) Cc. 14-15: dai colloqui con i grandi del passato (c. 14), emergerà la risposta al problema dell'uomo e della vita (c. 15).La tesi è soltanto enunciata.Delle possibili risposte al problema, si lascia intravedere la traduzione del concetto di sapienza in "capacità di sottrarsi al provvisorio".Il c. 20 costituisce una evidente aggiunta, in calce ad un'opera già completa e conclusa.E" però una genuina pagina di Seneca, appartenente a questo opuscolo.Non è necessario supporre che quel capitolo sia l'unico frammento superstite di una doppia redazione del dialogo.Può rappresentare quanto rimane di una variante parziale, che l'autore compose in vista d'una utilizzazione occasionale.Verosimilmente, per la "recitazione" del dialogo davanti ad un pubblico.Lo si può arguire dalla memoria di Turannio, personaggio noto e recente, e dalla evidente ricerca della battuta d'effetto (20,5).Dobbiamo però riconoscere che non sapremmo in quale punto del dialogo si possa inserire questa pagina.Non ci stupisce la cura degli antichi amanuensi di conservare quel testo e la scelta di trascriverlo in calce all'opera già completa.La storia della tradizione dei testi antichi conosce altre vicende analoghe.

DELLA BREVITA" DELLA VITA.1. [La vita è davvero breve?] [1] La maggior parte dei mortali, o Paolino, lamenta la taccagneria della natura: nasciamo destinati ad una vita molto breve ed il tempo che ci è stato assegnato scorre tanto veloce, tanto in fretta che, fatte ben poche eccezioni, la vita pianta tutti in asso proprio nel momento in cui s'apprestano a viverla.Di questa presunta calamità, non si lamenta soltanto il volgo irriflessivo; è un'impressione che ha indotto a lagnarsi

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anche uomini celebri.Esce da qui l'esclamazione del più grande tra i medici (1): La vita è breve, l'arte è lunga.[2] Da qui è nata anche la sentenza, per nulla degna di un sapiente, con la quale Aristotele (2) ha condannato la natura: Agli animali ha concesso una vita lunga quanto basta a raggiungere la quinta o la decima generazione, mentre all'uomo, che è nato per molte immense imprese, è stato assegnato un limite ben più ristretto.[3] Non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne perdiamo molto.Ci è stata concessa una vita sufficientemente lunga, bastevole al conseguimento degli ideali supremi Purché la sappiamo impiegare tutta a dovere.Invece, dopo che l'abbiamo lasciata trascorrere nel lusso e nell'ignavia, dopo che non l'abbiamo impegnata in nessuna impresa degna, quando, alla fine, si presenta la necessità ineluttabile, ci accorgiamo che è passata senza che ne avvertissimo il trascorrere.[4] E" così: la vita non l'abbiamo ricevuta breve, ma l'abbiamo fatta diventare tale, ed in ciò non siamo dei poveri, ma degli sciuponi.E" come una ricchezza: anche se è immensa e degna di un re, quando càpita nelle mani di un padrone inetto, finisce dissipata in un attimo, mentre, anche se è modesta, ma affidata ad un depositario capace, cresce con l'uso.E" così che la nostra vita riesce molto lunga a chi la sa ordinare bene.

2. [La vita, se la sai utilizzare, è lunga.] [1] Perché ci lamentiamo della natura? Con noi, è stata generosa: la vita, se la sai utilizzare, è lunga.Uno è prigioniero di un'avarizia insaziabile, un altro di un'affaccendata dedizione ad attività superflue; chi è fradicio di vino e chi è intorpidito dall'inerzia; questo è spossato da un ambizione sempre appesa ai giudizi altrui, quello si fa condurre per tutte le terre e tutti i mari dalla frettolosa passione per il commercio e dalla speranza di guadagno; certuni sono tormentati dal desiderio della vita militare e saranno sempre o intenti al pericolo altrui o assillati dal proprio; c'è anche chi si logora di volontaria schiavitù nell'ingrato ossequio a chi sta in alto; [2] molti sono presi o dalla passione per la bellezza altrui o dal pensiero della propria; i più non hanno propositi ben definiti e si lasciano sballottare tra l'una e l'altra decisione della loro irriflessività vagabonda, inconstante e sempre insoddisfatta; ci sono anche quelli che non scelgono mai una direzione di marcia, e la morte li sorprende tra gli sbadigli, disfatti dalla noia: insomma, sono sicuro che è vero quel che disse, a mò d'oracolo, il più grande dei poeti (3): E" ben piccola la parte di vita che viviamo.Certo, l'intero arco della vita non è vita, è tempo. [3] I vizi opprimono l'uomo e lo assediano da ogni parte, non gli permettono di rialzarsi o di sollevare gli occhi a scrutare il vero.E lo schiacciano, lo tengono sommerso e confitto nelle cupidigie: chi ne è vittima, non ha nessuna possibilità di rientrare in se stesso.Se per caso si presenta un momento di quiete, codesti uomini fluttuano come se fossero in alto mare, dove ci sono onde anche dopo che è caduto il vento; non viene mai, per costoro, un momento di tregua dalle loro passioni.[4] Pensi che io stia parlando di quelli che confessano i loro mali? Guarda quelli la cui felicità richiama tutti: sono soffocati dai loro beni.Per quanti ricchi la ricchezza è un peso! A quanti l'eloquenza e la smania di ostentare ogni giorno il loro genio costano sangue! Quanti sono pallidi per le ininterrotte voluttà! A quanti la folla di clienti che li attornia non concede un attimo di libertà! Passali in rassegna tutti, dal più grande al più umile: il primo ricorre all'avvocato, il secondo è l'avvocato, il terzo è l'imputato, il quarto è il difensore ed il quinto il giudice: nessuno sta rivendicando sé a se stesso, tutti si stanno logorando per un altro.Infórmati su quelle persone delle quali dobbiamo ricordare i nomi, e vedrai che si riconoscono da qualifiche come: questo è il delfino di Tizio, quello lo è di Caio, ma nessuno lo è di se stesso.[5] Allora, è davvero del tutto dissennata l'indignazione di certuni: si lamentano dell'inaccessibilità del superiore, perché non ha trovato tempo per riceverli quando volevano! Si può avere il coraggio di lamentarsi dell'altrui superbia, quando non si trova tempo da dedicare a se stessi? Eppure, quello talvolta ti ha guardato, chiunque tu sia, magari con aria distaccata, o ha teso l'orecchio alle tue parole, o ti ha ammesso al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardarti dentro, di darti udienza.Non hai ragione, dunque, quando ti vanti creditore di tutti per codesto tuo ossequio; tu non lo davi per essere con l'altro: in realtà, non sapevi stare con te stesso.

3. [Siamo avari delle nostre cose e prodighi di noi stessi.] [1] Tutti gli splendidi geni del passato, sebbene siano già d'accordo su questo punto, non finirebbero mai di stupirsi di codesta cecità mentale degli uomini: non permettono a nessuno di occupare i loro poderi e, se nasce la minima contesa di confine, danno di piglio ai sassi ed alle armi; intanto lasciano entrare gli altri nella loro vita, anzi, sono proprio loro ad introdurvi i futuri padroni; non se ne trova uno disposto a spartire il proprio denaro, ma tra quanti ciascuno ripartisce la propria vita! Sono economi nel tener stretto il loro patrimonio ma, non appena si tratta di perdere tempo, diventano quanto mai prodighi dell'unico bene di cui è bello essere avari.[2] Ora ho voglia di pigliare uno dalla folla dei più vecchi: Vediamo che sei giunto all'età massima per un uomo: hai cent'anni o qualcosa di più.Via, ripensa ai tuoi anni e fà i conti.Calcola quanto di questo tempo t'ha portato via il creditore, quanto l'amante, quanto il patrono (4), quanto il cliente, quanto le liti con tua moglie, la punizione degli schiavi, i giri per città in visite di convenienza; aggiungi le malattie che

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ci procuriamo da soli, aggiungi il tempo rimasto inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti.[3] Cerca di ricordare quanto sei stato costante nei tuoi propositi, quanti giorni sono trascorsi nel modo da te progettato, quando ti sei tenuto a disposizione di te stesso, quando il tuo volto è rimasto imperturbato ed il tuo animo intrepido, che cosa ti risulta realizzato in tanti anni, quante persone ti hanno derubato della tua vita mentre non t'accorgevi di ciò che stavi perdendo, quanto ti ha portato via un dolore vano, una letizia stolta, una cupidigia avida, una conversazione leggera, quanto poco t'è rimasto del tuo: ti renderai conto di morire prematuramente. [4] Ed il vero motivo, qual è? Voi vivete come se doveste vivere sempre, non vi si prospetta mai la vostra fragilità, non considerate quanto tempo è già passato, lo perdete, come se attingeste ad una scorta completa, abbondante; in realtà, proprio quel giorno che stiamo regalando ad un uomo o ad una cosa, forse è l'ultimo.Voi temete tutto da mortali, ma desiderate tutto come se foste immortali.[5] Ne sentirai tanti che dicono: A cinquant'anni mi ritirerò a vita privata, a sessanta lascerò tutte le mie incombenze.Ma chi ti garantisce, a conti fatti, che la tua vita durerà di più? Chi farà andare le cose secondo questi tuoi progetti? Non ti vergogni di riservarti i rimasugli della vita e di destinare ai buoni pensieri soltanto quel tempo che non può essere devoluto a null'altro? Non è troppo tardi cominciare a vivere, quand'è ora di smettere? Non è stoltezza dimenticarsi d'essere mortali al punto di rinviare ai cinquanta o ai sessant'anni i saggi propositi, e voler cominciare la vita da un traguardo che pochi raggiungono?

4. [Nostalgia della vita privata.Una lettera di Augusto.] [1] Vedrai uomini potentissimi ed arrivati molto in alto lasciarsi sfuggire parole di desiderio, di elogio, di preferenza della vita privata ad ogni altro loro bene.Intanto vorrebbero, se potessero farlo tranquillamente, scendere da quella loro altezza; infatti, ammesso che nulla la assalga o la rovesci, la fortuna suole crollare su se stessa.[2] Il divino Augusto, al quale gli dèi accordarono più che a chiunque altro, non cessò mai di invocare il riposo, di chiedere di potersi ritirare dal governo; in ogni suo discorso entrava il solito ritornello del suo desiderio di ritirarsi; alleviava le sue fatiche con il pensiero, dolce seppure illusorio, di poter un giorno vivere per se stesso.[3] In una sua lettera al senato, dopo la promessa che il suo riposo non avrebbe comportato la totale rinuncia alle dignità o il disdoro per la sua gloria precedente, ho trovato queste parole: So che è più complicato fare queste cose che prometterle.Eppure il desiderio di quel momento tanto atteso mi ha condotto al punto che, tardando ad avverarsi gli eventi lieti, mi accontentavo di pregustarli pronunciandone i nomi, per me tanto dolci.[4] La vita privata gli era parsa un bene tanto grande che, non potendola avere in realtà, la pregustava con la fantasia.Lui, che vedeva tutto dipendere dal suo potere, che designava le sorti di uomini e di popoli, giudicava come suo giorno più felice quello in cui si sarebbe spogliato della propria grandezza.[5] Sapeva per esperienza quanto sudore spremevano quei beni che risplendevano su tutto il mondo, quante segrete preoccupazioni nascondevano.Costretto a combattere dapprima contro i concittadini, poi contro i colleghi ed infine contro i parenti, versò sangue per mare e per terra.Portato dalla guerra attraverso la Macedonia, la Sicilia, l'Egitto, la Siria, l'Asia e su tutti quanti i lidi, volse a combattere contro gli stranieri i suoi soldati, stanchi di uccidere Romani.Mentre rappacificava le Alpi e domava nemici penetrati m terre già assoggettate e pacifiche, mentre spostava i confini oltre il Reno, l'Eufrate ed il Danubio, proprio nella capitale si affilavano contro lui i pugnali di Murena, Cepione, Lepido, Egnazio (5) e di altri.[6] Non era ancora sfuggito alle insidie di costoro, ed ecco che sua figlia e tanti giovani dell'aristocrazia, come se avessero prestato giuramento in un esercito dell'adulterio, riempivano di timori la sua vecchiaia già minata: era comparso Iullo (6), ed ancora una volta si dovevano temere un Antonio ed una donna.Per togliersi quelle piaghe s'era amputate le membra (7), ma, sotto, se ne formavano altre; ridotto come un corpo appesantito dal troppo sangue, scoppiava sempre da qualche parte.Perciò desiderava ritirarsi; quella speranza, quel pensiero lo ristoravano dalle fatiche.E quello era il desiderio rimasto all'uomo che poteva appagare tutti i desideri.

5. [Secondo esempio: Cicerone.] [1] Marco Cicerone, che visse sballottato tra i vari Catilina, Clodio, Pompeo e Crasso, aperti nemici i primi, incerti amici i secondi, che restò in balìa dei flutti insieme con la repubblica, che s'aggrappò ad essa quando stava per affondare e che infine affondò, uomo insoddisfatto nella prosperità ed insofferente nell'avversità, quante volte non detestò quel suo famoso consolato, che aveva elogiato non senza ragione, ma certo senza misura! [2] Quali espressioni di pianto contiene una sua lettera ad Attico (8), scritta dopo la sconfitta di Pompeo padre, mentre Pompeo figlio (9), in Spagna, cercava di riorganizzare gli eserciti sconfitti! Mi chiedi dice che cosa sto facendo qui? Resto nella mia villa di Tuscolo, libero a metà.Aggiunge altre parole che rimpiangono la vita passata, lamentano la presente, disperano del futuro.[3] Cicerone si disse libero a metà.Per Ercole, il sapiente non scenderà mai ad una qualifica tanto avvilente, non sarà mai libero a metà, se è l'uomo della libertà integra ed indistruttibile, se non ha vincoli, è padrone di sé, è al di sopra di tutti.Che cosa può esserci, infatti, sopra quell'uomo che è al di sopra della fortuna?

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6. [Terzo esempio: Livio Druso.] [1] Livio Druso (10), uomo violento ed impetuoso, dopo aver messo in moto nuove leggi, errori di stampo graccano, circondato com'era da una folla immensa proveniente da tutta l'Italia (11), pur senza prevedere lo sbocco d'una situazione che non era più in grado di controllare e non lo lasciava libero, una volta avviata, di ritirarsi, maledisse la sua vita, irrequieta fin dall'inizio, pronunciando, a quanto dicono, queste parole: Neppure da bambino, non ho mai avuto un giorno di riposo!.Era infatti ancora pupillo ed in pretesta, quando osò raccomandare degli imputati ai giudici e far valere il suo prestigio ad intralcio della giustizia; sappiamo che, in certi processi, riuscì a strappare sentenze a suo favore.[2] Dove non poteva arrivare una ambizione tanto prematura? Si doveva prevedere che quella precoce sfrontatezza sarebbe sfociata in gravi disgrazie per i singoli e per lo Stato.Era dunque tardivo il suo lamento di non aver avuto un giorno di riposo, in bocca ad un uomo che, fin da ragazzo, era stato sedizioso e molesto ai tribunali.Non sappiamo con certezza se si è ucciso; di fatto, crollò improvvisamente a terra con una ferita all'inguine.Qualcuno dubitò della volontarietà di quella morte, certamente nessuno della sua tempestività.[3] E" superfluo portare ulteriori esempi di uomini che furono giudicati felicissimi dagli altri, ma testimoniarono essi stessi il vero, a proprio carico, detestando tutte le loro azioni passate.Con quei lamenti, non mutarono né gli altri, né se stessi: dapprima prorompono le parole, ma poi le passioni ricadono nella condotta abituale.[4] La vostra vita, per Ercole, anche se dovesse oltrepassare i mille anni, risulterà sempre troppo corta: vizi di questa fatta divorano qualunque longevità, mentre è inevitabile che per voi fugga troppo presto questo tempo che la ragione sa prolungare, nonostante il correre della natura.Voi non riuscirete a coglierlo, a trattenerlo, ad imporre un indugio all'esperienza più rapida di tutte.La lasciatePassare, come fosse cosa superflua o ricuperabile.

7. [Sciupiamo la vita nei piaceri e negli affari.] [1] Annovero ai primi posti anche coloro che non attendono ad altro che al vino ed alla libidine; non c'è per l'uomo schiavitù più vergognosa.Tutti gli altri, anche se si lasciano prendere da vani sogni di gloria, cadono in errori nobili.Elencami pure gli avari, gli iracondi, i violenti fomentatori di ingiusto odio o di guerra: il peccato di tutti costoro è più degno di un uomo, mentre la corruzione di chi s'è avvilito nella gola o nella libidine è degradante.[2] Esamina tutte le giornate di costoro, osserva il tempo che impiegano a far calcoli, a studiare inganni, a temere, a dare e ricevere onori, ad impegnarsi a comparire in processo per sé e per altri, a banchettare, perché i banchetti, a quel punto, diventano dei doveri: constaterai che le loro attività, buone o cattive che siano, non concedono loro respiro.[3] Infine, si è tutti d'accordo che un uomo schiavo dei suoi impegni non può dedicarsi ad alcuna attività nobile, come l'eloquenza e gli studi liberali.Una mente così immobilizzata non accoglie più nulla di elevato: rifiuta ogni cosa, come se le venisse imposta.Nulla tanto sfugge al controllo dell'uomo impegnato, quanto il vivere; davvero non c'è realtà che sia più difficile da conoscere.Esistono folle intere di maestri delle altre arti e si sono visti dei bambini impararle al punto di poterle anche insegnare; l'arte di vivere si deve continuare ad impararla durante tutta la vita, anzi, e questo forse ti stupirà di più, per tutta la vita si deve imparare a morire.[4] Tanti grandi uomini lasciarono ogni impaccio, rinunciando a ricchezze, impegni, piaceri e non fecero altro, fino a tarda vecchiaia, che imparare a vivere.Eppure la maggior parte di questi se ne andarono dalla vita confessando di non sapere ancora; è possibile che sappiano codesti altri? [5] E" da uomo grande, credimi, da uomo che si è innalzato al di sopra di ogni errore umano, il non permettere che gli si tolga nulla del suo tempo; la sua vita è la più lunga di tutte proprio perché, per l'intera sua durata, è rimasta a sua totale disposizione.Non ci fu un momento di trascuratezza o di inerzia, di soggezione ad altri; quell'amministratore, tanto avveduto, non trovò mai un bene che meritasse d'essere ripagato con il suo tempo.Perciò esso gli è bastato, ma inevitabilmente non poteva bastare a chi se ne lasciò sottrarre una grande parte dal popolo.[6] Non devi però pensare che costoro non si rendano conto, almeno qualche volta, della loro iattura: ne sentirai molti, tra quelli che sono oppressi dalla troppa fortuna, esclamare talvolta, nella ressa dei clienti, o tra un processo e l'altro, o tra le altre loro onorevoli miserie: Non mi si lascia vivere!. [7] Perché no? Perché "non ti si lascia"? Tutti coloro che ti chiamano in aiuto, ti sottraggono a te stesso.Quell'imputato, quanti giorni ti ha rubato? e quel candidato, quanti? e quanti quella vecchia, stanca di condurre alla tomba i suoi eredi? quanti quel finto malato che passa il tempo a stuzzicare l'avarizia dei cacciatori di testamenti? quanti quell'amico troppo potente che vi tiene attorno non come amico, ma per far corteo? Spunta le voci, dico, e tira le somme dei tuoi giorni: vedrai che a te ne sono rimasti ben pochi, soltanto gli scarti.[8] Quello là ha ottenuto i fasci (12) che desiderava; in seguito vuole rinunciare e dice: Quando finirà questo anno?.Quell'altro organizza i giochi (13): s'era ritenuto fortunato quando l'avevano estratto a sorte, ma adesso dice: Quando me ne libererò?.Quell'avvocato, se lo contendono in tutti i processi e riempie i locali di folla, anche oltre la portata della sua voce, ma dice: Quando proclameranno le ferie? (14), Ciascuno butta la vita a precipizio, poi si trova nauseato del presente e tormentato dall'attesa del futuro.

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[9] Ma colui che utilizza soltanto per sé ogni istante del suo tempo, che organizza le sue giornate come se ciascuna valesse una vita, non desidera il domani e non lo teme.Può aspettarsi una voluttà nuova da un'ora che verrà? Tutto gli è noto, ha sondato a fondo tutto.Il resto, lo disponga la sorte, la fortuna, come vuole: la vita è già al sicuro.Qualcosa le si può aggiungere, nulla le si può togliere, e le aggiunte sono come il poco cibo che si offre ad un uomo già abbastanza sazio: lo accetta, ma non lo desidera.[10] Non si deve dunque giudicare lunga una vita in base ai capelli bianchi o alle rughe; uno così non è vissuto a lungo: è esistito per tanto tempo.Che diresti se si credesse che abbia navigato molto un tale che, colto da una brutta tempesta all'uscita dal porto, è stato sbattuto qua e là dal turbinare dei venti furiosi, provenienti da ogni parte, ed ha girato sempre in cerchio, sul medesimo tratto di mare? Non ha navigato molto, è stato sballottato molto.

8. [Non sappiamo far tesoro del tempo.] [1] Mi stupisce sempre il vedere gente che chiede ad altri il loro tempo ed i richiesti accogliere prontamente la domanda; tutti e due guardano al motivo della richiesta di tempo, nessuno bada al tempo in quanto tale: lo si chiede e lo si dà, come fosse una cosa di nessun conto.Giocano con il bene più prezioso di tutti, un bene che li inganna, perché non ha corpo, non cade sotto gli occhi e perciò è valutato pochissimo, anzi, non gli si dà quasi nessun prezzo.[2] Gli uomini accettano volentieri pensioni e largizioni e, per averle, appaltano la loro fatica, il loro lavoro, la loro attenzione, ma il tempo nessuno lo conta, lo impiegano molto alla buona, come se non costasse nulla.Ma guardali malati: se si profila il pericolo di morte, abbracciano le ginocchia del medico o, se temono la pena capitale, si dicono disposti a dare tutti i loro beni in cambio della vita! Così incoerenti sono le loro passioni! [3] Se si potesse presentare a ciascuno un numero di anni futuri, come si possono contare quelli passati, quanto vedresti trepidare coloro che sanno che gliene avanzano pochi, che economia ne farebbero! Già, è facile amministrare un bene certo, anche se esiguo; ciò che non si sa quando finisca, lo si deve serbare con tutte le attenzioni.[4] E non devi pensare che ignorino il valore della cosa: alle persone che davvero amano, dicono e ridicono che sono pronti a dare per esse una parte dei loro anni, e dànno da incoscienti, perché tolgono a se stessi senza giovare agli altri.Non si rendono addirittura conto di star togliendo a se stessi, e con ciò riesce loro sopportabile il danno provocato da una perdita che non vedono.[5] Nessuno ti restituirà gli anni, nessuno ti restituirà a te stesso.La tua vita seguirà la strada che ha imboccato e non invertirà né interromperà la corsa; non farà chiasso, non ti lascerà avvertire la sua rapidità: passerà in silenzio.Non si allungherà per comando di re o favore di popolo.Correrà come è stata avviata il primo giorno, senza uscire di strada, senza rallentare.Che accadrà? Tu hai i tuoi impegni e la vita ha fretta.Intanto verrà la morte alla quale.volente o nolente dovrai dare udienza.

9. [La programmazione è alienazione.] [1] Ci può essere mente più superficiale di quella di certi uomini e, in particolare, di coloro che si vantano programmatori? Si sono accollati un'occupazione troppo impegnativa.Illusi di poter vivere meglio, spendono la vita nel programmarsene una.Predispongono i loro progetti a lunghe scadenze; ora, è pacifico che i tempi lunghi sono il peggior modo di sciupare la vita: ci fanno buttare via i giorni man mano disponibili e ci sottraggono il presente, promettendoci il futuro.L'aspettare è il peggiore ostacolo al vivere, perché è condizionato dal domani e perde l'oggi.Il tempo che è nelle mani della fortuna lo programmi, ed intanto lasci perdere quello che è in mano tua.Dove guardi? a che tendi? Tutto il futuro giace nell'incertezza: vivi subito.[2] Eccoti il più grande dei poeti che grida e, come animato da un fremito divino, canta un vaticinio salvatore:

il giorno più bello di vita è il primo a sfuggire ai tribolati mortali (15).Che aspetti, ti dice perché ristai? Se non lo cogli, fugge.Anche quando l'avrai colto, ti sfuggirà ugualmente, perciò devi contrapporre alla rapidità del tempo la tua prontezza nell'usarlo, devi attingere come da un torrente rapido, che non scorrerà sempre.[3] Ed è molto opportuno, come rimprovero del tuo infinito escogitare, quel suo parlare non di "età più bella", ma di "giorno più bello.Che senso ha codesta tua flemma nel disporti davanti una filza di mesi e di anni, lunga tanto quanto lo pretende la tua avidità, mentre il tempo fugge così veloce? Ti parla di un sol giorno, di un giorno che sta fuggendo.[4] E" dubbio, forse, che il giorno più bello sia il primo a sfuggire ai mortali tribolati, cioè occupati? Quando la vecchiaia li coglie, hanno mente ancora infantile: vi sono giunti impreparati, disarmati; nulla è stato previsto.Vi sono incappati senza averla attesa, senza averla sentita avvicinarsi giorno per giorno.[5] Come una conversazione, una lettura, un pensiero profondo ingannano il viaggiatore, al punto che s'accorge d'essere arrivato prima d'aver notato l'approssimarsi della meta, così questo viaggio della vita, continuo e rapidissimo, che compiamo con passo costante sia nella veglia che nel sonno, non è avvertito dagli occupati, se non quando finisce.10. [La vita degli occupati è la più breve.] [1] Se volessi suddividere il mio enunciato per parti ed argomenti, mi si offrirebbero moltissime prove per dimostrare che la vita degli occupati è la più breve.

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Fabiano (16), che non era un filosofo come i nostri che montano in cattedra, ma un filosofo vero, all'antica, era solito dire: Contro le passioni, si combatte d'impeto, non di sottigliezza; il loro fronte non si sconvolge con ferite singole, ma con un attacco.Non sopportava i cavilli: L'avversario va colpito, non pizzicato.Però, per poter loro rinfacciare il loro errore, bisogna anche istruirli, non basta deplorarli.[2] La vita si divide in tre periodi: il passato, il presente ed il futuro.Dei tre, il presente è breve, il futuro è incerto, il passato è certo.Quest'ultimo è il periodo sul quale la fortuna ha perduto ogni diritto e che non può essere assoggettato al potere di nessuno.[3] E" il classico periodo che gli occupati perdono; non hanno tempo di pensare al passato e, se il tempo c'è, non trovano nessuna soddisfazione nel ricordare cose incresciose.Pertanto, sono restii a ritornare con il loro pensiero a tempi malamente trascorsi e non hanno il coraggio di riesaminare azioni i cui difetti, anche se allora scomparivano sotto l'orpello di qualche soddisfazione del momento, ora emergono, rimeditandole.[4] Nessuno, se non colui che ha sempre agito sotto censura propria, la sola infallibile, si volge volentieri al proprio passato; chi ha bramato molte cose con ambizione, chi ha disprezzato con alterigia, vinto con prepotenza o insidiato con inganno, rapito con avarizia o profuso con prodigalità, deve inevitabilmente temere i propri ricordi.Eppure, questa parte della nostra vita è ormai intangibile come le cose consacrate, è sfuggita a tutte le umane contingenze, sottratta al dominio della sorte, esente dai turbamenti della povertà, dal timore e dagli assalti delle malattie, non può essere sconvolta né rubata; il suo possesso è perpetuo, sicuro.Il presente è fatto soltanto di giorni singoli, anzi, di giorni suddivisi in istanti: i giorni del passato, invece, ad una vostra ingiunzione, si presenteranno tutti assieme ed accetteranno, in stato di detenzione, la tua istruttoria; purtroppo, gli occupati non hanno tempo di fare questo.[5] E" prerogativa di una mente serena e tranquilla il ripercorrere tutte le parti della propria vita; gli animi degli occupati, come gli animali a giogo, non possono girare il collo per voltarsi indietro.I loro anni, perciò, finiscono sotto terra: come non giova a nulla versare nel vaso grandi quantità di liquido, se non c'è un fondo che lo riceva e conservi, così non importa la quantità di tempo che viene loro concessa, se non trova dove depositarsi: filtra attraverso animi sconnessi e sforacchiati.[6] Il tempo presente è brevissimo, tanto breve che qualcuno ne nega l'esistenza (17); è sempre in corsa, fluisce, va a precipizio; finisce prima di raggiungerci e non ammette sosta, più di quanto non l'ammettano l'universo e le stelle, il cui perenne moto senza quiete non sosta mai su un punto preciso.Dunque, il tempo presente è il solo che s'attaglia agli occupati: è tanto breve che non si lascia cogliere e, in più, viene loro sottratto dalle occupazioni che li attanagliano.

11. [La tardiva disperazione degli occupati.] [1] Infine, vuoi toccare con mano la brevità della loro vita? Osserva il loro desiderio di vivere a lungo.Vecchi decrepiti, pregano per mendicare pochi anni in più, si illudono d'essere più giovani, si lusingano di bugie ed ingannano se stessi ben volentieri, come se riuscissero con ciò ad ingannare anche il destino.Ed ecco che, quando un qualunque acciacco ricorda loro che devono morire, vanno alla morte pieni di paura, non come chi esce dalla vita, ma come chi ne è strappato.Gridano d'essere stati stolti a non vivere e che, se appena scamperanno da quella malattia, vivranno vita ritirata; solo allora pensano alla totale inutilità del loro preparar cose che non potevano godere, al vano esito di tutte le loro fatiche.[2] La vita invece, per coloro che la passano lontani da ogni impegno, perché non deve risultare spaziosa? Di essa, nulla è delegato ad altri, nulla è disperso qua e là, nulla è affidato alla fortuna, va perduto per negligenza, è sottratto per largizioni, nulla è inutilizzato: per così dire, è tutta un reddito.Per breve che sia, basta ed abbonda.Quindi, quando verrà l'ultimo giorno, il sapiente non esiterà ad avviarsi alla morte con passo sicuro.

12. [Chi sono gli occupati.] [1] Penso che tu voglia sapere chi intendo per "occupati".Non pensare che io alluda soltanto a quei tali che si riesce finalmente a cacciar fuori dalla basilica (18) soltanto sguinzagliando i cani, o a quei tali altri che vedi farsi ostentatamente schiacciare dalla ressa dei propri clienti o svillaneggiare tra i clienti altrui (19), o a quelli che si lasciano cavar fuori di casa dai loro obblighi per andare a sbattere contro le altrui porte o che, davanti all'asta del pretore (20), si affaccendano in lucri infami che, una volta o l'altra, verranno a suppurazione.[2] C'è gente la cui vita privata è un essere occupati: sono nella loro casa di campagna, sul loro lettuccio, in tutta solitudine e ben lontani dagli altri, eppure tormentano se stessi.Non è il caso di parlare di vita ritirata, ma di occupazione inattiva.Chiami tranquillo quel tizio che raccoglie con ansiosa pignoleria vasi di Corinto, preziosi per la follia di pochi, o sciupa la maggior parte dei suoi giorni su lingottuzzi arrugginiti? (21) E quel tale che siede in palestra (poveri noi! non sono più romani nemmeno i nostri vizi!), per assistere a risse di fanciulli? (22) E quello che suddivide i giumenti delle sue mandrie, appaiandoli per età e colore? E quell'altro che alleva le nuove promesse dell'atletica? [3] Ancora: chiami non occupati quelli che passano ore ed ore dal barbiere, a farsi cavare i peluzzi nati la notte scorsa, a tener consiglio di Stato su ogni capello, a farsi riordinare le sparse chiome o a far spingere dai lati alla fronte i pochi capelli superstiti? Che

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arrabbiature, se il barbiere ha lavorato un po'"alla buona, convinto di star tosando un uomo! Che escandescenze, se va perduto un bioccolo della loro criniera, se un ciuffetto finisce fuori fila, se l'insieme non riesce inanellato pari pari! Ce n'è uno tra questi che non preferisca una rivoluzione allo scompiglio della sua chioma? che non si preoccupi più della bellezza che della sanità della sua testa? che non preferisca essere ben pettinato ad essere onesto? E tu chiami non occupati costoro, impegnati tra pettine e specchio? [4] E che dire di quelli che si dedicano a comporre, ascoltare, imparare canzonette? Costringono la loro voce, che la natura ha voluto di tono retto, ottimo e semplicissimo, a modularsi in languide inflessioni, fanno continuamente schioccare le dita per tenere il ritmo del canto (23) che stanno componendo e, quando li impegni in cose serie e magari dolorose, li senti canticchiare sottovoce.Questi non sono disimpegnati: sono degli indaffarati inattivi.[5] Non elencherei, per Ercole, tra i momenti di tempo libero, i conviti di costoro.Vedo con quanta preoccupazione dispongono l'argenteria, succingono le tuniche dei loro cinedi (24), con che ansia attendono di verificare in quali condizioni il cinghiale esca dalle mani del cuoco, con quanta prontezza, al segnale, i depilati corrano al loro posto di servizio, con quale arte gli uccelli vengano tagliati nei pezzi regolamentari, con quale attenzione i poveri schiavetti asciughino gli sputi degli ubriachi: certo, da tutto questo si ricava nomea di eleganza e sontuosità, ed i loro mali li accompagnano a tal punto, in ogni angoluzzo della vita, che non riescono più a mangiare e bere senza ostentazione.[6] Non elencherai tra i disimpegnati neppure quelli che si portano qua e là in sedia e lettiga e che incontri alle ore prestabilite per i loro giri che considerano ineluttabili; è gente che ha un cerimoniere che li avverte quando e tempo di fare il bagno, la nuotata, la cena.Sono uomini talmente disfatti dall'eccesso delle delizie, che non riescono più a sapere da sé se hanno fame.[7] So che un tale di costoro che vivono in delizie (se delizia si può chiamare il disimparar vita ed abitudini umane), una volta che fu tolto dal bagno e portato a braccia sulla sedia, chiese: Sono seduto, adesso?.Pensi che costui, che non sa se è seduto, sappia se è vivo, se vede, se è disimpegnato? Non mi sarebbe facile dire se mi fa più compassione la sua ignoranza o la sua simulazione di ignorare.[8] In realtà, finiscono per non accorgersi di molte cose, ma di molte altre fingono di non accorgersi.Certi vizi li dilettano come fossero segni di felicità; già, dev'essere da uomo del volgo, da uomo di nessun conto, il sapere quel che si sta facendo.Ed ora vai a pensare che i mimi abbiano bisogno di molta inventiva per canzonare il lusso! Per Ercole, son più le cose che lasciano correre di quelle che inventano: s'è fatta avanti una tale quantità di vizi, in quest'epoca geniale in un solo campo, che possiamo rimproverare i mimi di negligenza.Ci dev'essere uno tanto svanito nelle delizie da dover credere ad un altro, per sapere se è seduto? [9] Costui non è un uomo disimpegnato; dàgli un altro nome: è un malato, un morto.E" disimpegnato chi è anche cosciente del proprio disimpegno.Ma codesto mezzo vivo, che ha bisogno di un altro per conoscere la posizione del proprio corpo, come può essere padrone di un solo attimo di tempo?

13. [Gli occupati in studi inutili.] [1] Sarebbe troppo lungo elencare ad uno ad uno quelli che hanno sciupato la vita giocando a scacchi (25) o a palla, o badando a rosolarsi il corpo al sole.Non sono certo liberi da occupazioni, se gli svaghi danno loro molto da fare.Ed è fuori dubbio per chiunque che, pur affaccendandosi molto, non concludono nulla coloro che si lasciano prendere da studi letterari inutili, una schiera già molto numerosa anche tra i Romani.[2] Una volta era un vizio dei Greci codesto di chiedersi quanti rematori ebbe Ulisse, se è stata scritta prima l""Iliade" o l""Odissea", poi se i due poemi sono del medesimo autore e così via, altri problemi della medesima levatura che, se te li tieni per te, non giovano per nulla alla tua scienza personale e, se li porti in pubblico, non ti fanno figurare più dotto, ma più pedante.[3] Sì, anche i Romani si sono lasciati prendere dalla vana passione delle cognizioni inutili.In questi giorni, ho sentito un tale che elencava i condottieri romani secondo le imprese che ciascuno era stato il primo a compiere: Duilio, ad esempio, era stato il primo a vincere una battaglia navale, Curio Dentato (26), il primo a far sfilare elefanti in un trionfo.Ricerche del genere, anche se non ti mettono di fronte alla vera gloria, riguardano, in fin dei conti, fatti di storia della nostra città, e se codesta scienza non è in grado di portare giovamento, è però in grado di avvincerci con l'attraente fatuità della notizia.[4] Permettiamo pure a costoro anche di rintracciare il primo che convinse i Romani a salire su una imbarcazione: fu quel Claudio che ebbe il soprannome di "Caudex" (27), Codice, perché gli antichi chiamavano "codice" un pianale composto di molte tavole; perciò ancora oggi per antica consuetudine, diciamo "codicarie" le zattere che trasportano i viveri lungo il Tevere.[5] Certo ha un senso anche sapere che Valerio Corvino (28) fu il primo conquistatore di Messana e che perciò fu il primo che aggiunse al suo nome quello della città conquistata: il volgo, a poco a poco, cambiò le lettere e quel nome divenne Messala.[6] Ma permetterai anche a qualcuno di interessarsi di Lucio Silla perché fu il primo a presentare nel circo leoni sciolti (fino a quel tempo li presentavano legati), ed a farli abbattere da lanciatori di giavellotto inviati dal re Bocco? (29) Permettiamo pure anche questo, ma giova a qualcosa di buono il sapere che Pompeo fu il primo ad esibire nel circo diciotto elefanti da combattimento, contro i quali schierò in battaglia dei condannati a morte? Era il primo cittadino e,

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come attesta la tradizione, si distingueva per bontà a paragone dei grandi della storia, eppure ritenne che costituisse spettacolo degno di memoria un nuovo modo d'ammazzare uomini.Li facciamo combattere all'ultimo sangue? Non basta.Li facciamo sbranare? Non basta: debbono essere schiacciati da quei bestioni.[7] Era meglio lasciare queste notizie nel dimenticatoio, per non dar suggerimenti ai futuri tiranni e non renderli gelosi di un atto del tutto disumano.Come ci offusca la mente il troppo successo! Quell'uomo si credette superiore alla natura, quando espose folte schiere di delinquenti a belve nate sotto un altro cielo, quando imbastì una battaglia tra esseri tanto sproporzionati, quando versò tutto quel sangue davanti al popolo di Roma, lui che ben presto gliene avrebbe fatto spargere tanto di più; quell'uomo però, più tardi, ingannato dai perfidi di Alessandria, dovette esporsi alle trafitture del più vile schiavo e rendersi conto, soltanto all'ultimo momento, dell'inutilità pomposa del suo soprannome (30).[8] Ma per tornare al punto di partenza ed esemplificare dell'inutile diligenza di alcuni in quel campo di ricerca, il medesimo tizio raccontava che Metello (31), nel trionfo che ottenne per aver vinto i Cartaginesi in Sicilia, fu il solo tra tutti i Romani che fece sfilare, davanti al suo cocchio, centoventi elefanti catturati; che Silla fu l'ultimo Romano che allargò il pomerio, che gli antichi non costumavano allargare dopo conquiste fatte in provincia, ma soltanto dopo conquiste territoriali in Italia.E" più utile sapere questo, o sapere che l'Aventino, come diceva sempre quel tale, è fuori del pomerio per una di queste due ragioni: o perché su di esso si ritirò la plebe o perché, quando Remo prese gli auspici, gli uccelli avevano negato a quel luogo il buon presagio? E" sapere, una dopo l'altra, tutte le innumerevoli notizie che o sono zeppe di bugie, o sono incredibili? [9] Anche se ammetti che costoro raccontino tutte codeste frottole in buona fede e che garantiscano quanto scrivono, tuttavia cognizioni del genere di chi correggeranno gli errori? Di chi smorzeranno le passioni? Chi renderanno più forte, più giusto, più generoso? Fabiano, il mio maestro, diceva di non sapere se era meno male non studiare affatto o impastoiarsi in studi di questo genere.

14. [Soltanto il sapiente impegna bene la propria vita, ossequiando i grandi del passato.] [1] Tra tutti, i soli che davvero dispongono del loro tempo sono coloro che attendono alla sapienza; sono i soli che vivono e non si limitano ad amministrare bene i loro anni, ma aggiungono tutte le età alla loro.Tutti gli anni trascorsi prima che essi esistessero fanno parte del loro patrimonio.Se non vogliamo essere più che ingrati, i famosissimi fondatori delle sacre scuole sono nati per noi, ci hanno preparato una vita.Veniamo guidati verso realtà meravigliose che le fatiche altrui hanno estratto dalle tenebre e portato alla luce; nessuna epoca ci è vietata, in tutte ci sentiamo accolti e, se vogliamo uscire mediante la magnanimità dalle strettoie della caducità umana, abbiamo molto tempo in cui spaziare.[2] Ci è possibile disputare con Socrate, dubitare con Carneade (32), riposare con Epicuro, dominare la natura umana con gli stoici, oltrepassarla con i cinici.E poiché la natura ci permette di subentrare da compartecipi in tutta la storia, perché non dovremmo uscire da questa angusta e provvisoria parentesi cronologica e darci con tutto l'essere a ciò che è immenso, eterno, condiviso dai migliori? [3] Codesta gente che corre ad ossequiare questo e quello, che tormenta se stessa e gli altri, quando abbia ben bene sragionato, quando abbia varcato quotidianamente tutte le soglie senza trascurare nessuna porta aperta, quando abbia distribuito nelle case più svariate il saluto prezzolato (33), quanti uomini sarà riuscita a vedere, in questa città immensa e dissipata da contrastanti passioni? [4] Quanti saranno coloro dai quali li allontanerà o il sonno o il lusso o la scortesia! Quanti coloro che, dopo averli tormentati a lungo, passeranno oltre con fretta affettata! Quanti eviteranno di uscire attraverso l'atrio zeppo di clienti e se la svigneranno per le oscure porte di servizio della casa (34), quasicché l'inganno non fosse più scortese del rifiuto! Quanti, ancora mezzo assonnati ed intontiti dalla crapula di ieri, di fronte a quei poveretti che hanno interrotto il loro sonno per aspettare il risveglio altrui, risponderanno con il più villano sbadiglio ad un nome mille volte sussurrato da labbra semiaperte! [5] Sì, possiamo dirlo, sono occupati nel giusto ossequio coloro che vorranno tenersi ogni giorno in strettissima familiarità con Zenone, Pitagora, Democrito e con tutti i sacerdoti della scienza, con Aristotele, con Teofrasto.Nessuno di costoro risponderà che non riceve, nessuno mancherà di rendere più felice, più amico, il visitatore che congeda, nessuno lo commiaterà a mani vuote.A costoro, tutti possono far visita, di notte e di giorno.

15. [Frutti del colloquio con i grandi.] [1] Nessuno di costoro ti costringerà a morire, tutti te lo insegneranno; nessuno sciuperà i tuoi anni, tutti aggiungeranno i propri ai tuoi; una conversazione con loro non sarà mai pericolosa, la loro amicizia non comporterà mai una condanna a morte, l'ossequiarli non ti costerà un soldo.Porterai loro via tutto ciò che vorrai, non dipenderà da loro impedirti di prendere a piacimento.[2] Che felicità, che bella vecchiaia attende quelli che si sono messi sotto il loro patronato! Avranno con chi discutere gli affari più insignificanti ed i più importanti, a chi chiedere consiglio ogni giorno su fatti personali, da chi accettare la verità senza ombra d'offesa, la lode senza ombra d'adulazione e l'esempio su cui modellarsi.[3] Diciamo abitualmente di non aver avuto la facoltà di sceglierci i genitori che il caso ci ha assegnati (35): gli uomini buoni, invece, hanno la facoltà di nascere per propria scelta.I geni più insigni hanno formato delle famiglie: scegli quella cui vuoi associarti.Con l'adozione, non condividerai soltanto il nome, ma anche i beni, e non dovrai custodirli con avarizia o gelosia,

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perché aumenteranno quanto più li distribuirai.[4] Quegli uomini ti avvieranno all'eternità e ti eleveranno ad una dignità dalla quale non si può essere deposti.Questo è il solo modo di allungare la tua vita mortale, anzi, di mutarla in immortalità.Gli onori, i monumenti, tutto ciò che l'ambizione ordina con i suoi decreti o realizza con le sue costruzioni, ben presto crolla; non c'è nulla che, col tempo, la vetustà non distrugga o non rimuova, ma essa non può nuocere a ciò che è stato consacrato dalla sapienza; nessuna epoca lo cancellerà, nessuna lo sminuirà, anzi l'epoca che segue e, via via, le successive aggiungeranno motivi di venerazione, poiché l'odio si sfoga sulle cose vicine, mentre guardiamo con maggior schiettezza alle lontane.[5] La vita del sapiente è dunque molto spaziosa; egli non è prigioniero del limite che racchiude gli altri, è il solo esente dalle servitù dell'umana schiatta; le età gli sono tutte soggette come sono soggette a Dio.Un tempo è passato? lo abbraccia con il ricordo; è presente? lo utilizza; è futuro? lo pregusta.La sua capacità di unificare tutti i tempi gli fa risultare lunga la vita.

16. [Per i tanti sconsiderati, l'ozio è affannosa attesa dei piaceri.] [1] La vita più breve e più tormentata è quella di coloro che dimenticano il passato, trascurano il presente e temono il futuro: quando giungono alla fine, quei miseri s'accorgono troppo tardi d'essersi impegnati per tanto tempo a non far nulla.[2] E non è possibile addurre a prova della loro longevità il fatto che talvolta invocano la morte: sono vittime della sprovvedutezza, poiché le loro passioni disorientate inciampano proprio nelle cose che temono; desiderano spesso la morte appunto perché la temono.[3] Neppure si può dedurre una loro longevità dal fatto che spesso le giornate sembrano loro interminabili o che, mentre attendono l'ora fissata per la cena, si lamentano che il tempo scorre lento.In realtà, nei pochi casi in cui vengono loro meno le occupazioni, si arenano nel tempo libero e restano perplessi: non sanno come ordinarlo per venirne a capo.Perciò puntano su un impegno e risulta loro pesante tutto il tempo dell'attesa, tanto pesante, per Ercole, quanto lo è l'attesa del giorno stabilito per il combattimento dei gladiatori o della data di uno spettacolo o d'un divertimento: vorrebbero saltare tutti i giorni intermedi.[4] Qualunque attesa di una cosa desiderata risulta loro troppo lunga, eppure il tempo che amano è breve, è un istante, è esageratamente accorciato dal danno che essi stessi s'infliggono; in realtà, passano da una cosa ad un'altra e non riescono a sostare su un solo piacere.Per loro, le giornate non sono lunghe, sono insopportabili; al contrario, quanto giudicano brevi le loro notti d'amore o di vino! [5] Gioca su questi fatti anche la dissennatezza dei poeti che nutrono di favole gli errori degli uomini.Giove, secondo loro, preso da voluttà amorosa, avrebbe fatto durare il doppio una notte (36).Non è un rinfocolare i nostri vizi questo farli risalire ad istituzione divina e scusare il male adducendo l'esempio degli dèi? Ma possono non sembrare corte a costoro delle notti che pagano tanto care? Perdono il giorno aspettando la notte e la notte temendo l'alba.

17. [Per molti, l'attività si risolve in preoccupazioni e delusioni.] [1] Anche i loro momenti di piacere sono affannosi, agitati da mille paure.Quando il godimento tocca il suo apice, subentra la preoccupazione: Quanto durerà?.Fu questa sensazione che indusse dei re a versare lacrime sul proprio potere: non provarono il compiacimento per la loro immensa fortuna, ma il terrore della fine che, prima o poi, doveva venire.[2] Lo strapotente re persiano (37) quando, schierato l'esercito su una piana sterminata, non riuscì a contarlo, ma soltanto ad abbozzarne una stima, scoppiò in pianto perché di lì a cent'anni nessuno di quei giovani sarebbe più stato vivo.Eppure proprio lui, lui che piangeva, s'apprestava ad anticiparne l'ultimo giorno, li mandava incontro alla morte, per terra e per mare, in battaglia o in fuga, e distruggeva in breve tempo coloro il cui pensiero gli faceva temere i cento anni.[3] Ancora: le loro gioie non sono forse trepidazioni? Non hanno basi solide e risentono dell'inconsistenza delle loro origini.E come pensi che siano i periodi che essi stessi confessano infelici, se non sono limpidi neppure i loro momenti di gloria, di esaltazione sovrumana? [4] Anche i beni più grandi comportano preoccupazioni e non c'è fortuna meno credibile della migliore tra tutte; diventano indispensabili altri successi per tutelare il primo, bisogna far nuovi voti a specifica difesa dei già avverati.Tutto ciò che proviene dal caso è instabile e quanto più in alto si è saliti, tanto più si è esposti a cadere.Certo, la caducità non rallegra nessuno; è dunque inevitabile che risulti estremamente misera, e non soltanto brevissima, la vita di coloro che faticano molto a procurarsi cose il cui possesso esigerà nuove e maggiori fatiche.[5] Costa loro sforzi l'ottenere quello che vogliono, ansie il conservare l'ottenuto; intanto non c'è modo di tener conto di quel tempo che non tornerà più: i nuovi impegni subentrano ai vecchi, ogni speranza accende un'altra speranza, ogni ambizione una nuova ambizione.Non si cerca una fine delle proprie miserie: se ne sostituisce la materia.La nostra carriera ci è costata tormento? quella altrui ci sottrae ancor più tempo; non ci affaccendiamo più come candidati? ci trasformiamo in galoppini elettorali; abbiamo lasciato il ruolo molesto d'accusatori? ci tocca quello di giudici; ha concluso la carriera di giudice? diventa inquirente (38); è invecchiato amministrando a stipendio beni altrui?

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adesso è tutto preso dai beni suoi.[6] Mario s'è liberato dalle càlighe? (39) lo impegna il consolato; Quinzio (40) non vede l'ora di concludere la dittatura? lo richiamerà l'aratro.Scipione andrà contro i Cartaginesi, troppo giovane per un'impresa del genere? vincitore d'Annibale, vincitore d'Antioco, onore del proprio consolato, mallevadore di quello del fratello, se non si opponesse di persona, verrebbe intronizzato accanto a Giove (41); ma le discordie civili coinvolgeranno il salvatore della città e, dopo aver rifiutato in gioventù onori pari a quelli degli dèi, ambirà da vecchio l'esilio, per ripicca.Non mancheranno mai motivi d'ansia nel successo e nell'insuccesso, la vita sarà incalzata dalle occupazioni; il tempo per te non l'avrai mai e lo desidererai sempre.

18. [Esortazione finale: pensa a ritirarti dal tuo ufficio.] [1] Sottraiti dunque alla folla, Paolino carissimo, e rifugiati in un porto più tranquillo; sei già stato agitato più di quanto non comporti la tua età.Ripensa a tutti i marosi che hai affrontato, alle bufere personali che hai sostenuto da solo ed a quelle pubbliche di cui ti sei fatto carico; la tua virtù si è già messa abbastanza in luce in situazioni laboriose ed inquietanti; sperimenta quanto essa sappia fare in una vita ritirata.La maggior parte dei tuoi anni, e certamente i migliori, li hai già consacrati allo Stato; ora riserva un poco del tuo tempo anche a te stesso.[2] Io non ti invito ad un riposo neghittoso ed inattivo, ad affogare nel sonno, o in quei piaceri che la massa predilige, la bella vivacità della tua indole; per riposo, non intendo questo.Troverai impegni ben maggiori di quelli che finora hai valorosamente sbrigato, degni d'esser meditati nel ritiro e nella tranquillità.[3] Tu ora dirigi l'amministrazione del mondo con tanto disinteresse quanto ne valgono i beni altrui, tanta diligenza quanta ne valgono i tuoi, tanto scrupolo quanto ne esigono i beni dello Stato.Sai farti amare in un ufficio nel quale è difficile evitare l'odio, eppure, credimi, val meglio tenere i registri della propria vita che quelli della pubblica annona.[4] Distogli codesta tua energia, ben capace delle più grandi imprese, da un impegno certamente onorifico, ma non troppo idoneo a rendere felice la vita; rifletti che, quando consacrasti la tua adolescenza a tutti gli studi liberali, non intendevi fare di te il fidato amministratore di molte migliaia di moggi di frumento; ti eri ripromesso traguardi più importanti ed elevati.Non sarà impossibile trovare uomini di provata onestà e di indefessa attività; i giumenti lenti sono ben più adatti a portare carichi che non i cavalli di razza: chi mai ne ha mortificato la baldanza con gravi some? [5] Pensa anche a tutte le preoccupazioni che ti derivano dall'immenso lavoro che devi accollarti: hai a che fare con il ventre degli uomini, e il popolo affamato non vuole sentire ragioni, non si lascia placare dall'equanimità o piegare da preghiere.Recentemente, nei giorni in cui morì Gaio Cesare (42), sdegnato, se i morti hanno sentimenti, di morire mentre il popolo romano gli sopravviveva, erano rimasti viveri soltanto per sette od otto giorni! Mentre quello costruiva ponti di chiatte e giocava con la potenza dell'impero (43), si prospettava quella sciagura che anche per gli assediati è la più grande: la mancanza di viveri.Per poco non ci costarono rovina, fame e, in conseguenza della fame, il crollo di tutto, quel suo scimmiottare un re furibondo (44), straniero e disastrosamente prepotente.[6] Quali dovevano essere le preoccupazioni di coloro ai quali erano affidati, allora, gli approvvigionamenti, se si preparavano a sopportare le pietre, le armi (45) e Gaio? Con somma dissimulazione tenevano segreto, ed a ragion veduta, tutto quel male nascosto nelle viscere.Certe malattie debbono essere curate ad insaputa del paziente.Molti malati sono morti per aver conosciuto la diagnosi.

19. [Conclusione: dedica il tuo ritiro alla filosofia.] [1] Rifùgiati in queste occupazioni più serene, più sicure, più importanti! Ti sembra che stia il paragone tra il tuo verificare che il frumento sia conferito nei granai indenne da frodi o negligenze dei trasportatori, che non sia guasto per umidità o fermentato, che risponda alla misura ed al peso, e l'accedere a queste realtà sante e sublimi, per sapere quale sia la materia di Dio, quale la voluttà, la condizione, la forma; quale sorte attende il tuo animo, dove ci collochi la natura dopo il nostro congedo dal corpo; che cosa è che sostiene al centro del mondo la sua componente più pesante (46), che tiene sospesi sopra di essa i corpi più leggeri (47), che eleva il fuoco alla sede più alta (48), fa muovere ed avvicendare gli astri e, via via, produce tutti gli altri fenomeni che ci riempiono di stupore? [2] Sono certo che tu vuoi abbandonare la terra e fissare la mente su questi pensieri! Ora, mentre il sangue è caldo, mentre siamo pieni di vigore, dobbiamo avviarci al meglio.In questa nuova regola di vita ti attendono tante nobili attività, l'amore e la pratica della virtù, l'oblio delle passioni, la scienza del vivere e del morire, la pace totale e Profonda.

20. [Appendice: divagazione sugli occupati.] [1] Decisamente, la condizione di tutti gli occupati è miserevole, ma la più misera è quella di coloro che non sono impegnati in fatti propri, ma regolano il loro sonno su quello degli altri, camminano secondo il passo degli altri e provano a comando amore e odio, i due sentimenti più spontanei di tutti.Costoro, se vogliono rendersi conto di quanto sia breve la loro vita, pensino quale parte ne posseggano.Quando vedrai uno che ha già indossato tante volte la pretesta (49), quando udirai nel foro un nome illustre, non provare invidia: codesti onori si ottengono pagando con la vita.

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Questi individui consumeranno tutti i loro anni, perché uno solo sia contrassegnato dal loro nome (50)).Alcuni sono stati piantati in asso dalla vita all'inizio della loro lotta, prima ancora di poter raggiungere il traguardo che ambivano; altri, dopo essere riusciti, attraverso mille bassezze, a raggiungere l'apice della carriera, si sono accorti con delusione di aver tanto faticato per l'epitaffio; a certuni è venuta meno per sfinimento l'ultima vecchiaia, mentre con smisurati ed ostinati sforzi la stavano orientando su nuove speranze, come fosse stata una giovinezza.[2] Mi fa schifo quel tale che esalò l'ultimo respiro durante un processo mentre, già anziano, si batteva per litiganti d'infimo ordine e cercava l'applauso di un uditorio incompetente; trovo turpe quel tale che, fiaccato dal suo tenore di vita, non dalle sue fatiche, crollò mentre faceva visite di cortesia, ed altrettanto turpe trovo quel tizio che, morendo mentre rivedeva i conti, sentì ridere l'erede che aveva fatto aspettare troppo.[3] Non posso tralasciare l'esempio che mi sovviene.Il vecchio Turannio (51) era tutto esattezza.Aveva più di novant'anni quando Gaio Cesare (52) lo esonerò dal suo ufficio; si fece comporre nel letto e piangere per morto da tutti gli appartenenti alla famiglia.L'intera casa piangeva la cessazione di attività del vecchio padrone e non smise il lutto finché quello non fu restituito alle sue fatiche.Fino a questo punto piace morire indaffarati? [4] Ebbene, i più la pensano allo stesso modo.La loro sete di fatica dura più delle loro capacità; combattono contro gli acciacchi e non ritengono gravosa la vecchiaia, se non perché li mette in disparte.La legge non accetta sotto le armi chi ha più di cinquant'anni, esonera dalle sedute i senatori che hanno toccato la sessantina; per gli uomini, è più difficile ottenere la messa a riposo da se stessi che dalla legge.[5] Intanto, mentre si fanno trascinare e trascinano, mentre l'uno rovina la tranquillità dell'altro, mentre si rendono miseri a vicenda, la vita passa infruttuosa, priva di soddisfazioni, senza nessun profitto per l'animo.Nessuno tiene sott'occhio la morte, nessuno si guarda dallo spingere lontano le proprie speranze; alcuni addirittura predispongono anche quello che va oltre la vita: sepolcri di gran mole, opere pubbliche con dedica, spettacoli al rogo, esequie pompose.Ma a questa gente, per Ercole, come fosse vissuta pochissimo, si dovrebbero fare i funerali con torce e ceri (53).

NOTE.Nota 1.Ippocrate ("il più grande tra i medici"), aprì con questa massima i suoi "Aforismi".Nota 2.Secondo Cicerone ("Tuscul.Disp." 3,69), questo pensiero è di Teofrasto il quale si lagna anche perché la vita gli vien meno al momento in cui sta per raggiungere la sapienza.Seneca confonde spesso il discepolo con il maestro.Nota 3.Citando a memoria, Seneca attribuisce erroneamente ad Omero ("il più grande dei poeti") una massima diffusissima nell'antichità e divulgata sotto vari nomi.Nota 4. "Patrono": detto anche "re".E" il personaggio illustre di cui ci si fa clienti, impegnandosi ad andarlo a salutare al mattino ed a fargli corteo in pubblico.Nota 5.L'elenco dei nemici di Augusto è dato da Seneca nel medesimo ordine in "Clem." 1,9,6. "Marco Lepido", figlio del triumviro, complottò nel 30 avanti Cristo, "Fannio Cepione" ed "Aulo Terenzio Varrone Murena" furono complici della medesima congiura nel 22; "Rufo Egnazio" agì nel 20 (Svetonio, "Aug." 19).Nota 6. "Iullo (o "Iulo") Antonio", figlio del triumviro e poeta (Svetonio, "Gramm." 18), dovette darsi la morte perché accusato d'adulterio con Giulia, figlia d'Augusto.Seneca vede in Giulia una novella Cleopatra.Nota 7.Giulia fu esiliata nel 2 avanti Cristo.Nota 8.Questa lettera non ci è giunta attraverso altre fonti.Nota 9. "Sesto Pompeo" che proseguì la lotta dopo Farsalo ed impegnò dapprima le forze d'Ottaviano, poi quelle d'Antonio.Fu catturato e ucciso nel 35 avanti Cristo.Nota 10. "Livio Druso": focoso tribuno, nel 91 avanti Cristo, propose la distribuzione del grano e delle terre.Nota 11.Druso si batteva anche per l'estensione del diritto di cittadinanza a tutti gli "alleati", gli abitanti delle varie città italiane.Nota 12. "Fasci": cioè il consolato.Nota 13.Dell""organizzazione dei giochi" era incaricato l'edile.Nota 14.Le "ferie" del foro venivano proclamate all'inizio di settembre.

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Nota 15.Virgilio, "Georgiche" 3,66-67.Nota 16. "Papirio Fabiano", il filosofo "sestiano" già ricordato in "Mare." 23,5.Nota 17.Seneca allude forse ad Eraclito di Efeso e al suo aforisma: Tutto scorre. Nota 18.Le "basiliche" erano vasti edifici a pianta rettangolare, talvolta suddivisi in tre navate.Nel fondo, si elevava una tribuna.Erano luogo di ritrovo di mercanti e finanzieri, e potevano essere utilizzate come sedi di processi.Talvolta erano dotate anche di negozi.Nota 19.Non era raro che un ricco di mezza taglia avesse i suoi "clienti" e fosse, a sua volta, cliente di persone più ragguardevoli.Nota 20. "Asta" ("hasta"): la lancia che il pretore piantava in terra, nel luogo ove avvenivano le vendite giudiziarie, dette appunto "ad hastam".Nota 21.I collezionisti di "vasi di bronzo" ("di Corinto"), di monete antiche e di lingotti contrassegnati da marchiature ormai illeggibili.Nota 22.Codesti "fanciulli" sono gli atleti dilettanti.Seneca distingue cui il semplice spettatore dall'allenatoreimpresario, al quale accennerà tra poco.Nota 23.Anche i poeti usavano "battere con le dita", o con il piede, il ritmo dei versi che stavano componendo.Nota 24. "Cinedi": schiavetti incaricati di servire a tavola e di stuzzicare la libidine dei commensali.I "depilati", dei quali si parla subito dopo, hanno i medesimi compiti, ma non sono più fanciulli.Cfr. "Ep." 47,7: Uno [schiavo] è coppiere, è vestito da donna e cerca di nascondere la sua età, non lo si lascia uscire dalla fanciullezza lo ci si riporta a forza.Ha già l'età del servizio militare, ma gli si distrugge il pelo con gli unguenti, o gli si cava....Nota 25.Cfr. nota 49 a "Tranq." 14,7.Nota 26. "Gaio Duilio" sconfisse la flotta cartaginese a Milazzo nel 260 avanti Cristo; "Dentato" trionfò su Pirro nel 275 avanti Cristo.Nota 27. "Appio Claudio Caudex", fratello del Cieco.Nota 28. "Marco Velerio Corvo" (o "Corvino") fu console nel 263 avanti Cristo.Nota 29. "Bocco": re di Mauritania e suocero di Giugurta, dapprima combatté contro i Romani, poi divenne loro alleato.Nota 30.Il "soprannome" di "Magnus" ("Grande").Nota 31. "Lucio Cecilio Metello", console nel 250 avanti Cristo.Nota 32. "Carneade di Cirene", fondatore della nuova accademia, era stato ambasciatore degli Ateniesi a Roma nel 156-155 avanti Cristo.La letteratura romana gli attribuì il merito d'aver introdotto a Roma la filosofia greca.Nota 33. "Saluto prezzolato": i clienti, quando salutavano il patrono, ricevevano un piccolo dono ("sportula") o un pugno di monete.Nota 34.E" l'espediente suggerito da Orazio, "Epist." 1.5.31.Nota 35.Discorso di moda nella Roma del tempo: se ne evinceva esser più ragionevole adottare i figli che procrearli.Nota 36.La "notte dell'amore" con Alcmena, moglie di Amfitrione.Nota 37. "Re persiano": Serse.L'episodio è ripreso da Erodoto, 7,4546. Nota 38. "Inquirente": passa cioè dalle cause civili ai processi penali, che richiedono anche l'inchiesta.Nota 39. "Liberarsi dalle "calighè" (sorta di sandali calzati dai soldati romani) significava terminare il servizio militare.Nota 40. "L.Quinzio Cincinnato".Nota 41.Nel tempio di "Giove Capitolino".Nota 42. "Gaio Giulio Cesare Caligola".Nota 43.Per poter passeggiare sul mare, Caligola s'era fatto costruire un ponte di chiatte tra Baia e Pozzuoli.Allo scopo, erano state requisite le navi da carico che avrebbero dovuto assicurare i rifornimenti di grano (cfr.Svetonio, "Calig." 19).Nota 44.Serse, che aveva gettato un ponte di chiatte sull'Ellesponto.

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Nota 45. "Pietre, armi": del popolo insorto.Nota 46.La terra.Nota 47.L'aria.Nota 48.L'etere o cielo.Nota 49. "Pretesta": la veste ornata di porpora, insegna di esercizio di cariche pubbliche.Nota 50.Qualora divengano consoli.Nota 51.Non possiamo identificare il personaggio.Forse è quel "Gaio Turannio" che è già prefetto dell'annona sotto Tiberio (Tac., "Ann." 1,7).Nota 52.Caligola.Nota 53.Come a chi muore prematuramente.AD ELVIA, SUA MADRE.DELLA CONSOLAZIONE."Nemo ab alio contemnitur, nisi a se ante contemptus est"."Nessuno è disprezzato da un altro, se non stato lui il primo a disprezzare se stesso".(13,6).

PREFAZIONE.La madre di Seneca, destinataria dell'opera.Dall'esilio, Seneca invia uno scritto consolatorio alla madre, Elvia.E" trascorso qualche tempo dalla condanna (1,2).Siamo nel 42 dopo Cristo, oppure Seneca ha già appreso che è stato inutile il suo ricorso a Claudio, del 43? Dal testo, sembra vivo, recente, il ricordo dei tristi giorni del decreto imperiale (5,2-3); contemporaneamente, da esso traluce soltanto la rassegnazione ad una sofferenza della quale non si prospetta la fine.La sciagura ha colpito soprattutto lui (1,3), ma ha insieme lasciato un vuoto in una casa ove tutto par rievocare la dolcezza dei tempi felici (15,1-3).La vita di Elvia non era stata facile.Nata da famiglia benestante (14,3), non aveva goduto, in fanciullezza, dell'affetto della madre (2,4); il padre e la matrigna le avevano impartito una severa educazione.Poi erano venuti il matrimonio e il trasferimento del marito e dei figli a Roma.Più tardi, s'era ricongiunta alla famiglia ed aveva allevato i figli, rispettandone le scelte e appoggiandone discretamente la carriera (14,2-3).Rimasta vedova, per tre volte aveva dovuto compiere il mesto rito di comporre nell'urna le ceneri d'un nipotino prematuramente morto.Donna forte e operosa, per compiacere il marito aveva mortificato il suo amore per gli studi, ma la sua mente era aperta, avida di apprendere (17,4).Ora vive con due dei figli, Novato e Mela, tiene sulle ginocchia il piccolo Marco Lucano, figlio di Mela, vivace, garrulo, chiassoso, e si cura di Novatilla, figlia di Novato e prediletta da Seneca, da poco orfana di madre ed ormai prossima all'età delle nozze.Elvia ha una sorella, ora vedova, nella quale Seneca riconosce una seconda madre: l'ha tenuto bimbo tra le braccia durante il trasferimento da Cordova a Roma, l'ha maternamente assistito, fanciullo, in una lunga malattia, gli ha aperto poi la strada per giungere alla questura (19,1-2).Anche nella vita di questa donna c'è un atto di silenziosa, eroica dedizione: ha perduto il marito durante il viaggio di rimpatrio dall'Egitto e, a rischio della vita, ne ha salvato il corpo dal naufragio, per dargli l'onore della sepoltura.Il dialogo "Ad Elvia, Della consolazione" da secoli è stato letto come il "libro degli affetti" del severo filosofo.L'impianto dell'opuscolo.Seneca s'introduce affermando che occorrono parole nuove (1,3) ad un uomo che deve consolare i suoi cari da una sventura che ha colpito soprattutto lui.A conclusione del suo scritto, quasi a conferma del più volte asserito conseguimento dell'indifferenza, ripete d'essere lieto e sereno (20,1), perché il suo animo, libero da ogni occupazione, attende alle attività che gli sono proprie, alternando a studi meno impegnativi l'elevarsi a considerare la natura sua e dell'universo.Tra le perdute opere giovanili di Seneca, figurano una monografia sull'India ed una sull'Egitto.Il c. 7 del dialogo è una raccolta di notizie storicogeografiche.I suoi "studi meno impegnativi" sono dunque ricerche scientifiche.Della restante attività, egli tracciauno schema: studio delle terre e dei mari, della meteorologia, degli astri (esseri divini: 20,2).Quest'ultima ricerca gli dà il senso della sua eternità e la possibilità di scorrere dal passato al futuro, attraverso tutti i

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tempi.Lo schema di lavoro ci richiama una delle definizioni di filosofia raccolte da Seneca in "Ep." 89,5: E" la scienza delle cose divine [contemplazione] ed umane.Le "cose divine" sono ciò che accade in cielo, le umane sono, per lui, ciò che deve accadere sulla terra.La contemplazione porta alla scoperta dei "decreta" ("axiómata"), che ci dànno forza, difendono la nostra sicurezza e tranquillità ed abbracciano, in unità di tempo, tutta la natura ("Ep." 95,12).Lo studio delle cose umane ci conduce ai "praecepta", le norme pratiche dell'agire, che stanno ai decreta come gli articoli del regolamento militare stanno al giuramento sulle bandiere (ivi, 35).Vent'anni di ricerca intercorrono tra la contemplazione dell'esilio e il rapido dettare le "Questioni Naturali" e le "Epistole a Lucilio".Si prospetta a Seneca il progetto d'una sintesi teoretica dell'umano e del divino, della natura acronica e della storia, ma, ad ogni tentativo d'attuarlo, qualcosa lo induce a ridurre il filosofare alla pura enunciazione di sublimi precetti morali.Varrone e Marco Bruto e la posizione di Seneca nei loro confronti.Nello "Ad Elvia", Seneca cita due autori: a) Varrone (senza il titolo dell'opera), che afferma: Dovunque ci rechiamo, dobbiamo continuare a vivere dentro la medesima natura; b) Marco Bruto: Chi va in esilio, può portare con sé la propria virtù.Il libro di Bruto s'intitola appunto "Sulla virtù" (9,4); vi si riferisce che Marcello viveva felice almeno quanto lo permette la natura umana.La citazione di Varrone, sulla quale dovremo tornare ("A Polibio", prefazione, 3), proviene, forse, dal primo libro delle "Antichità divine".Marco Bruto ci è meglio noto come cesaricida e dedicatario del "Brutus" ciceroniano.Proprio Cicerone lo dice accademico ("Brutus" 149), un accademico che non disdegna di tentare una sintesi tra Platone e la Stoá, e del quale Seneca ricorderà anche un trattato "Sul dovere" ("Ep." 95,45).Dai cc. 4-13 del dialogo "Ad Elvia", sorvolando ovviamente sugli inserti di mera esemplificazione (6,1-5 e 7: migrazioni di uomini e popoli; cc. 11,1-5 e 12: contro le ricchezze), emergono i due temi del discorso senecano e una norma di metodo: a) la natura; b) la virtù; c) la traduzione dei "decreta" in "praecepta" presuppone l'eliminazione dei vizi.Il tema della virtù e l'enunciato metodologico sono ampiamente scontati per chi abbia letto la sequenza dei dialoghi, pur nell'ordine non cronologico in cui ci sono stati tramandati.Resta come "punctum dolens" il primo, del quale finora abbiamo rintracciato sviluppi marginali nel dialogo "Della provvidenza" e occasionali memorie altrove.Tra il "digestus" varroniano e la dottrina stoica esistono un punto di contatto ed un radicale dissidio.Le due sintesi convergono nel ritenere praticamente equipollenti i termini "naturaragioneDio" e nell'evincerne la convinzione che la sola vera "religio" consista nello scoprire, mediante la contemplazione (6,6-8), il punto di contatto tra l'uomo e Dio.L""iter" contemplativo è, anche in Seneca, la versione teologica dell'avventura verso l'ignoto dell'uomo, novello Ulisse: lo sbocco del viaggio nella partecipazione alla vita divina è di chiara ispirazione pitagoricoaccademica, cioè varroniana.La natura, dunque, è razionalità, perché è bontà ed elementarità.Seneca ritornerà spesso su quel concetto.Non è che gli dèi non possano fare il male: non possono volerlo ("Ep." 95,49).Se Bruto identifica virtù e natura (9,4-6), Seneca è ben lieto di seguirlo.Ma la divergenza tra le due scuole riaffiorava al riproporsi del problema teoretico: quale rapporto stabilire tra il Dio estrastorico e l'uomo storico? Per Varrone, la virtù degli dèi eccelle per natura ("physis": estrastorica), quella degli uomini per industria ("téchne": arte, storicità.Cfr.M. Terentii Varronis, "Antiquitatum divinarum libri", edidit R. Agahd, Lipsiae 1908, fr. 28, p. 154).Anche l'industria o arte ha una sua accettabilità funzionale o civile: di fatto, la storia esiste, ed è mediazione tra l'umano e il divino.E" versione degradata della vera religiosità, ma necessaria, ricca di insegnamenti a medio livello e, seppure con imperfezioni, finalizzata alla religiosità estrastorica.Rimane a livello di praecepta (Agahd, ediz. fr. 22, 1.XVI, pp. 206 ss.).E" quanto Seneca rifiuta e confina, come già s'accennò, nella superstizione.La natura, egli afferma, non può aver privilegiato gli animali, che non conoscono le "artes", sull'uomo: l'uomo deve saperne fare a meno ("Ep." 90,18-34).Ha equivocato, riducendo la razionalità all'elementarità, ma prosegue: se le "artes" si inseriscono tra l'uomo e Dio, la religione si degrada in superstizione e stoltezza ("Della vita felice" 26,8; "Ep." 95,47).Non gli resta altra soluzione che tentare di far dell'uomo storico quella "imago dei", stoica, che è tale appunto perché la contemplazione di Dio e la conseguente lotta contro le passioni lo hanno concettualmente separato dalla storia: è un uomo senza volto e senza vita.Seneca non dà peso all'obiezione, che gli è ben nota, del Varrone menippeo: Che ci fa, nel mondo, questo dio arrotondato, decapitato e circonciso? non ha né cuore né cervello (Seneca, "Apocol." 8; Agahd, ediz., p. 58).Sul terreno stoico, rimane insolubile il problema del rapporto tra Dio e la contingenza (Cic., "Nat. deor." 1,18).

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La tematica filosofica dell'opuscolo.La sezione filosofica del libro svolge, talora intrecciandoli, i seguenti temi: 1) ripudio della "téchne" (cc. 4-5,1): casa, patria, beni non sono elencabili tra le cose "di natura", indispensabili per sopravvivere (5,1), e non sono perciò veri beni.Il tema è ripreso a 9,2 con l'enunciato: I beni di quaggiù sono di ostacolo ai beni veri, in quanto comportano errori e pregiudizi.Si slitta dunque nel capovolgimento del concetto di "indifferente" ("adiáphoron"), che risulta condannato pregiudizialmente, se non in sede morale, almeno in sede ascetica.La prova della tesi è d'ispirazione diatribocinica: il non aumenterete mai la capacità del vostro corpo (10,6) ripete l'oraziano: non per questo il tuo ventre conterrà più del mio ("Sat." 1,1,46).2) Contemplazione e natura: il tema riemerge in quattro momenti: a 5,2: non sono sapiente; se lo fossi, sarei vicino a Dio; a 6,6-8: l'anima è discesa dallo spirito celeste e l'uomo è l'Ulisse teologico; a 8,1: dovunque ci rechiamo, continuiamo a vivere dentro la medesima natura (Varrone); ad 11,5-7, come conquista della sovrastoricità o liberazione: lo spirito senza macchia, non appena venga liberato, balza verso le sfere celesti...L'animo è per sua natura sacro, eterno ed esente da qualunque violenza.3) La virtù come "imago Dei": alla citazione della massima di Bruto (8,1), segue il tentativo di ridurre a pura e semplice funzione morale l'esposizione varroniana delle varie ipotesi sulla natura di Dio.Sembra contrastare con questa rigida teorizzazione il successivo consiglio ad Elvia di rifugiarsi nel mondo degli affetti (cc. 14-19).Ma la precettistica stoica, già lo vedemmo, sapeva distinguere il perfetto sapiente dall'aspirante alla sapienza, che segue i consigli del maestro, come sapeva distinguere le passioni "violente" dalle passioni "blande".Eppoi, faremmo torto non solo alla profonda sensibilità di Seneca, ma soprattutto alla sua incrollabile fiducia nella validità morale del rapporto umano.

AD ELVIA, SUA MADRE.DELLA CONSOLAZIONE.1. [Prologo: ho esitato a lungo, prima di scrivere.] [1] Già tante volte, mia ottima madre, ho sentito il desiderio ardente di consolarti, e tante volte lo ho soffocato.Molti motivi mi inducevano ad osare: in primo luogo, mi pareva di riuscire a liberarmi da tutte le mie sofferenze se, pur non potendo porre fine alle tue lacrime, le avessi almeno asciugate temporaneamente; poi ero certo che avrei contribuito più efficacemente a risollevarti, se mi fossi rialzato io per primo; inoltre, volevo evitare che la sorte, che io avevo sconfitto, riportasse vittoria su qualcuno dei miei cari.Perciò rinnovavo continuamente i miei sforzi per arrivare in qualche modo, dopo aver posto la mano sulla mia piaga, a fasciare le vostre (1) ferite.[2] Ma, dall'altra parte, c'erano anche ostacoli che mi inducevano a rinviare l'esecuzione del mio progetto.Sapevo che non era bene affrontare il tuo dolore al suo primo infierire, perché non fossero proprio le mie consolazioni ad irritarlo ed accenderlo: anche nelle malattie, nulla è più pernicioso dell'applicare prematuramente le medicine.Aspettavo dunque che esso fiaccasse da sé le sue forze e che, ammansito dal tempo e divenuto disponibile ai rimedi, si lasciasse toccare, trattare con mano.Inoltre, mentre consultavo tutte le opere composte dai più illustri ingegni per frenare e moderare i dolori, non trovavo esempio di persona che avesse consolato i suoi cari, mentre essi lo stavano compiangendo.Perciò esitavo di fronte alla novità dell'impegno e temevo che questa mia opera risultasse non una consolazione, ma un inasprimento del tuo soffrire.[3] Contemporaneamente, occorrevano parole nuove: non poteva tenersi al livello del discorso banale e quotidiano un uomo che, per consolare i suoi cari, sollevava il capo, addirittura dal proprio rogo! Eppure è inevitabile che la veemenza di un dolore smisurato ci sottragga la capacità di scegliere le parole, dato che spesso ci tronca anche la voce.[4] Ad ogni modo, tenterò l'impresa, non fidando sulle mie capacità, ma sul fatto che l'aver preso io stesso l'iniziativa di consolare, conferisce la massima efficacia alla consolazione.Dato che a me non rifiuteresti nulla, confido che non mi negherai neppure questo, pur essendo ostinato ogni dolore, e che accetterai che io segni un limite al tuo rimpianto.

2. [Hai già sopportato tante altre sofferenze.] [1] Vedi quanto mi sono ripromesso dalla tua condiscendenza: confido di risultare più forte, nei tuoi confronti, di quanto non lo sia il tuo dolore, la cosa che ha maggior potere sui miseri.Per questo motivo, non gli darò subito battaglia.Prima lo assisterò e gli somministrerò di che ravvivarsi; metterò a nudo tutto e riaprirò ferite che sono già cicatrizzate.[2] Qualcuno dirà: Che razza di consolazione è il rievocare mali già dimenticati ed il mettere l'animo di fronte a tutte le sue disgrazie, quando gli è difficile sopportarne una sola?.Il mio obiettore consideri che tutto ciò che è talmente dannoso, da aver la forza di opporsi ai rimedi, per lo più lo si cura con medicine contrarie alle solite.Perciò io applicherò alla mia inferma tutti i suoi lutti, tutti i suoi motivi di pianto: non sarà una cura blanda, sarà un cauterizzare ed un tagliare.Che cosa otterrò? Che un animo, già vincitore di tante miserie, provi vergogna di non riuscire a sopportare una ferita

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che si apre isolata, su un corpo tutto cicatrici.[3] Prolunghino, dunque, i loro pianti e gemiti gli effeminati, snervati da lunga felicità, e crollino pure all'insorgere dei più lievi inconvenienti; ma coloro che hanno visto trascorrere i loro anni tra le sventure, sopportino anche le vicende più gravose con costanza solida ed irremovibile.La continuità della sventura ha un solo vantaggio: finisce con il rendere forti coloro che tormenta sempre.[4] La fortuna non ti ha mai concesso un momento di respiro da gravissimi lutti.Non ne ha esentato neppure il giorno della tua nascita: hai perduto tua madre quand'eri appena nata, anzi, al tuo nascere, e ti sei presentata alla vita, si può dire, come una esposta.Sei stata allevata da una matrigna: tu, con tutto rispetto e tutta devozione, quali li può dare solo una figlia, l'hai costretta a diventare una madre, ma non c'è mai stato nessuno che abbia avuto a buon mercato una matrigna anche buona.Hai perduto uno zio che ti era affezionatissimo, un uomo tutto onestà e coraggio, mentre ne attendevi l'arrivo e, meno di trenta giorni dopo, poiché la malasorte non voleva alleviare con rinvii la sua crudeltà, hai condotto alla tomba il tuo carissimo marito che ti aveva resa madre di tre figli (2).Eri già in lutto, quando ti fu annunziato il nuovo lutto; i tuoi figli erano tutti lontani e pareva che si fosse fatto apposta a concentrare le tue disgrazie in quel periodo, perché il tuo dolore non sapesse dove trovare un sostegno.[5] Non parlo dei molti pericoli, dei tanti timori dei quali hai dovuto sopportare gli assalti senza tregua.E, poco tempo fa, hai raccolto le ossa di tre tuoi nipoti, in quel medesimo seno che li aveva appena congedati.Non s'erano compiuti venti giorni da quando avevi fatto il funerale a mio figlio, spirato tra le tue braccia ed i tuoi baci, quando venisti a sapere che io ti ero stato tolto.Ti era mancato finora soltanto questo: dover piangere dei vivi.

3. [L'ultima sciagura: il mio esilio.] [1] Lo riconosco: la ferita più grave, tra quante sono penetrate a fondo nel tuo corpo, è quest'ultima.E non ti ha soltanto graffiato la pelle: ti ha aperto petto e viscere.I coscritti, quando vengono feriti anche leggermente, gridano e temono più le mani dei medici che il ferro nemico, mentre i veterani, anche se trafitti, accettano con pazienza e senza gemiti, come se si operasse sul corpo altrui, l'estrazione delle parti infette; tu, ora, devi disporti con altrettanta forza alla medicazione.[2] Bandisci i lamenti, gli urli e gli altri abituali sfoghi del disordinato dolore delle donne: hai davvero sofferto inutilmente tanti mali, se non hai ancora imparato ad essere misera.Riconosci ora che con te non ho avuto riguardi? Non ti nascondo nulla dei tuoi mali, anzi, te li ho ammucchiati davanti.

4. [Prima serie di argomenti: l'esilio non mi rende misero.] [1] Ho agito con grande coraggio: il mio intento, infatti, è di vincere il tuo dolore, non di circoscriverlo.E lo vincerò, penso, se, in primo luogo, ti dimostrerò che nulla di ciò che soffro è tale da conferirmi la nomea di misero e, tanto meno, da render misere, per causa mia, le persone che sono in stretto rapporto con me; in secondo luogo, se passerò a te e ti dimostrerò che nemmeno la tua sorte, che dipende in tutto dalla mia, è gravosa.[2] Affronterò per primo quell'argomento che il tuo affetto desidera ascoltare per primo: io non ho alcun male.Se ne sarò in grado, ti chiarirò che proprio quelle vicende che tu reputi opprimenti per me, non sono insopportabili.Se la cosa riuscirà incredibile, ebbene, sarò ancor più soddisfatto di me stesso, perché mi ritroverò felice tra vicende che, di solito, rendono miseri gli uomini.[3] Non c'è motivo di prestar fede ad altri sul mio conto: io stesso, per evitare che tu sia turbata da convinzioni infondate, ti dichiaro che non sono misero.E aggiungerò, per tua maggior sicurezza, che non è neppure possibile che io diventi misero.

5. [La filosofia mi ha insegnato il distacco dai beni.] [1] La condizione originaria di noi uomini è buona, a patto che non la abbandoniamo.La natura ha fatto sì che non ci fosse bisogno di grandi mezzi per vivere bene: ciascuno è in grado di rendersi felice.Le cose che ci vengono dal di fuori hanno poca importanza e non influiscono gran che né in una direzione né nell'altra: il sapiente non si lascia esaltare dalla prosperità né abbattere dall'avversità.Si è sempre sforzato di contare soprattutto su se stesso e di cercare in se stesso tutti i motivi della sua gioia.[2] E con ciò? Affermo di essere sapiente? No.Se io, infatti, fossi in grado di qualificarmi tale, non solo escluderei di essere misero, ma mi proclamerei il più fortunato di tutti, arrivato vicino a Dio.Ora, e tanto basta ad alleviare tutte le miserie, mi sono affidato a uomini sapienti e, non sentendomi ancora abbastanza forte per aiutare me stesso, mi sono rifugiato in accampamenti altrui, in quelli, ovviamente, di coloro che sanno difendere con facilità se stessi e gli altri.[3] Essi mi hanno prescritto di rimanere continuamente in piedi, come di sentinella, e di prevedere tutti i tentativi della fortuna, tutti i suoi assalti, molto prima che si scatenino.La disgrazia è gravosa a quelli cui giunge inattesa, ma la sostiene facilmente colui che la ha sempre aspettata.Anche l'arrivo dei nemici abbatte coloro che si fanno cogliere di sorpresa, ma coloro che si sono preparati in anticipo alla guerra che doveva venire, sostengono facilmente, ben schierati e disposti, il primo assalto, che è il più tumultuoso.[4] Io non ho mai dato credito alla fortuna, nemmeno quando sembrava voler mantenere la pace; tutti quei beni che mi accumulava attorno con grande compiacenza, denaro, cariche (3), successo, li ho messi in luogo donde potesse

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riprenderseli, senza che io me ne risentissi.Ho mantenuto una grande distanza tra le cose e me: perciò essa me le ha rubate, non strappate.L'avversità non frantuma se non chi s'è lasciato ingannare dalla prosperità.[5] Coloro che hanno amato i suoi doni come proprietà personali e permanenti e che, per quei doni, vollero essere ammirati, giacciono a terra e piangono, poiché codeste attrattive, ingannevoli e caduche, provocano l'abbattimento degli animi vacui e puerili, ignari di qualsiasi voluttà consistente.Ma chi non s'è lasciato gonfiare dalla prosperità, non si scoraggia al mutare della situazione.Mantiene l'animo invitto contro l'una e l'altra sorte, con la fermezza già provata, poiché già quando era felice, ha sperimentato ciò che poteva servire contro l'infelicità.[6] Perciò io ho sempre ritenuto che, dentro quelle cose che tutti desiderano, non ci fosse nessun vero bene, le ho anche trovate vuote, imbellettate di attrattive ingannevoli, ma prive di un contenuto corrispondente alla facciata: adesso, nelle cose che sono chiamate mali, non trovo nulla che sia tanto terribile e duro, quanto lo minacciava la credenza del volgo.Anche la parola "esilio", in forza di una convinzione comune, suona troppo dura alle nostre orecchie e ferisce l'uditore come parola triste ed esecranda: così, di fatío, ha stabilito il popolo.Ma i sapienti abrogano la maggior parte dei decreti del popolo.

6. [L'esilio è soltanto un cambiamento di sede.] [1] Tolto di mezzo, dunque, il giudizio dei molti, che è stornato da parvenze esterne comunque accettate, vediamo che cosa è l'esilio.Certo, un cambiare luogo.Perché non sembri cke io ne sminuisca la portata e ne sottaccia tutti gli aspetti deteriori, dirò che questo cambiamento di luogo comporta dei disagi: povertà, infamia, disprezzo.Contro questi, combatterò in seguito; per ora voglio esaminare, in primo luogo, che cosa comporti di sgradevole, in sé e per sé, il cambiare luogo.[2] Esser privi di patria è un male insopportabile.Suvvia, guarda questa folla che le case di una città immensa riescono a stento ad accogliere: la maggior parte di questa turba è priva di patria.Sono confluiti costì dai loro municipi, dalle loro colonie, insomma, da tutto il mondo.Alcuni li ha condotti l'ambizione, altri il dovere di pubblico ufficio, altri un incarico di legazione, altri una lussuria che cercava, per i vizi, un luogo adatto ed opulento, altri il desiderio degli studi umanistici, altri gli spettacoli; alcuni sono stati attirati da amici, altri da una volontà d'azione che ha scoperto un vasto spazio ove mettere in mostra la propria valentia; c'è chi ha importato una bellezza da mettere in vendita e chi è venuto a vendere la sua eloquenza.[3] Non c'è razza umana che non sia accorsa alla città che dispone di grandi ricompense per le virtù e per i vizi.Immagina di far l'appello nominale di tutti costoro e di chiedere a ciascuno: Di che paese sei?: vedrai che, per la maggior parte, si tratta di persone che, lasciata la loro residenza, sono venute in una città grandissima e bellissima, che tuttavia non è la loro.[4] Poi allontànati da questa città, che può essere detta la città di tutti, e gira tutte le altre: non ce n'è una che non sia composta in gran parte di immigrati.Non fermarti in quelle la cui amena posizione ed il clima favorevole attirano numerosi forestieri; passa in rivista i luoghi deserti e le isole più selvagge, Sciato, Serifo, Giaro (4), Cossura (5): non troverai un luogo d'esilio in cui non ci sia qualcuno che vi risiede di sua volontà.[5] Che cosa si può trovare di tanto spoglio e scosceso da ogni lato, quanto la petraia in cui mi trovo? C'è luogo più sterile per chi cerchi un raccolto? Con popolazione più intrattabile, panorama più orrendo, clima più inclemente? Eppure, qui risiedono più forestieri che nativi.Il cambiamento di luogo non è gravoso al punto da non aver condotto costì nessuno dalla sua patria.[6] Trovo autori che sostengono che nell'uomo è connaturato l'istinto di cambiar sede e trasferire il suo domicilio; l'uomo, infatti, è stato dotato di indole incostante ed irrequieta: non sta mai fermo, si sparpaglia, concede ai suoi pensieri la massima libertà di volgersi al noto ed all'ignoto, è vagabondo, odia l'immobilità e trova la sua più grande gioia in ciò che gli è nuovo.[7] Non te ne stupirai, se prenderai in considerazione la sua prima origine.Non è stato impastato con pesante materiale terrestre: è disceso dallo spirito celeste; ma natura degli esseri celesti è il movimento, è il fuggire, il tenersi in velocissima corsa.Guarda le stelle che illuminano il mondo: nessuna è fissa.Il sole si muove continuamente e passa da posizione a posizione e, pur partecipando al moto dell'universo, gira in senso contrario al volgere del cielo; percorre tutte le zone dei segni zodiacali e non si ferma mai: è un continuo muoversi, un trasferirsi da luogo a luogo.[8] Tutti i corpi celesti ruotano e camminano senza sosta: passano da un luogo all'altro, obbedendo alla legge che la natura ha ineluttabilmente stabilito; quando, entro un ben definito giro di anni, avranno compiuta la loro orbita, riprenderanno daccapo il cammino già percorso.Ora vai e pròvati a pensare che l'animo dell'uomo, composto della stessa sostanza originaria di cui son fatti i corpi celesti, possa trovarsi a disagio nel suo trasferirsi ed emigrare, mentre la natura celeste si compiace e si conserva nel suo costante velocissimo movimento.

7. [La storia dei popoli è un succedersi di trasmigrazioni.

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Storia della Corsica.] [1] Suvvia, volgi la tua attenzione dal mondo celeste a quello degli uomini: vedrai che genti e popoli, al completo, hanno cambiato sede.Che significano le città greche che sono in pieno territorio barbaro? ed il dialetto macedone che si parla in India ed in Persia? La Scizia, in tutta la sua immensa distesa di genti primitive ed indomite, ostenta città achee, erette sui lidi del Ponto; non hanno costituito ostacolo, per gli uomini che trasferivano colà le loro case, né la durezza dell'inverno senza fine, né il carattere delle popolazioni, orrende come il loro clima.[2] In Asia (6), c'è una vera folla di Ateniesi; Mileto ha sparso, nelle varie direzioni, gli abitanti di settantacinque città; tutta la costa italiana bagnata dal mare Infero (7) era la Grecia Maggiore (8).L'Asia vanta come suoi gli Etruschi, gli abitanti di Tiro si sono insediati in Africa, i Cartaginesi in Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia ed i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno impedito ai Germani di passare (9).[3] La mobilità umana si è fatta esperta di passaggi attraverso l'impraticabile e l'ignoto.Hanno trascinato con sé i figli, le mogli, i genitori oppressi dalla vecchiaia.Alcuni, sbattuti qua e là in lungo errare, non scelsero a ragion veduta la loro sede, ma, vinti dalla stanchezza, occuparono il luogo più vicino; altri si conquistarono con le armi il diritto di insediarsi in terra altrui.Certi popoli, che cercavano luoghi ignoti, furono inghiottiti dal mare, altri si insediarono là dove li aveva fatti approdare la mancanza di tutto.[4] E non tutti ebbero i medesimi motivi per lasciare la loro patria e cercarsene una: alcuni, in seguito allo sterminio delle loro città, sfuggiti alle armi nemiche e privati di ogni loro cosa, furono cacciati in terra altrui; altri furono sloggiati in seguito a sedizioni interne; altri furono costretti ad andarsene per eccessiva densità di popolazione, allo scopo di alleggerirne il carico; altri dovettero fuggire una pestilenza, o terremoti troppo frequenti, o altri insopportabili difetti di un territorio infelice; altri si lasciarono illudere dalla nomea di una contrada fertile, decantata come migliore.[5] Chi è stato attratto fuori casa da un motivo, chi da un altro, ma è certo che nulla è rimasto nel luogo in cui ha avuto i natali.Il peregrinare del genere umano è ininterrotto.In un mondo tanto grande, ogni giorno qualche cosa cambia: vengono poste le fondamenta di nuove città, sorgono nuove denominazioni di popoli, perché i nomi vecchi o si estinguono o vengono assorbiti al sopravvenire d'una popolazione più forte.E tutte codeste migrazioni di popolo, che altro sono, se non esilii in massa? [6] A che serve trascinarti in un così largo giro d'orizzonte? Che conta elencare Antenore, fondatore di Padova ed Evandro che impianta il regno degli Arcadi sulla riva del Tevere? O Diomede e gli altri che la guerra di Troia, vinti o vincitori che fossero, disperse in terre altrui? [7] Certo, l'impero romano vede nel suo fondatore (10) un esule che, profugo dopo la caduta della sua patria e trascinandone i pochi superstiti, fu condotto in Italia dalla necessità e dal timore dei vincitori, mentre cercava terre lontane.E quel popolo, in seguito, quante colonie ha fondato in tutte le province! Dovunque vince, il Romano si insedia.E per questi cambiamenti di luogo, davano volentieri il nome: il vecchio, lasciando i propri altari, seguiva i coloni di là dal mare.[8] L'argomentazione non richiede altri elenchi: aggiungerò un solo esempio, perché mi balza agli occhi.Proprio questa isola ha già cambiato spesso i suoi abitanti.Per sorvolare sui fatti più antichi, dei quali il tempo ha cancellato il ricordo, quei Greci che ora abitano Marsiglia, lasciata la Focide (11), si insediarono dapprima in quest'isola e non si sa che cosa ne li abbia cacciati, se l'inclemenza del clima, l'eccessiva vicinanza della potente Italia o il mare che non offriva porti naturali; che non fosse in causa l'inciviltà della popolazione, si deduce dal fatto che essi si insinuarono tra i popoli della Gallia, allora particolarmente truci e privi di istituzioni.[9] Poi passarono nell'isola i Liguri, poi gli Ispani, e questo risulta dalla coincidenza di certi usi: portano gli stessi copricapo e gli stessi calzari dei Cantabri (12) e ne conservano certe parole (ma tutta la loro lingua, dopo i contatti con i Greci ed i Liguri, non è più l'originaria).Poi vi furono impiantate due colonie di cittadini romani, una da Mario e l'altra da Silla (13).Tante volte è cambiata la popolazione di questa petraia arida e coperta di rovi.[10] Insomma, forse è impossibile trovare una terra che sia abitata ancora oggi dai nativi.Tutte hanno subìto mescolanze ed innesti.Uno è succeduto all'altro: al secondo è piaciuto ciò che era venuto a noia al primo che a sua volta, viene cacciato dal luogo donde aveva cacciato un altro.Così piace al destino: che nulla rimanga sempre nella medesima situazione.

8. [Abbiamo sempre con noi la natura, comune a tutti, e la virtù personale.] [1] Come specifico rimedio contro il cambiamento di luogo, a parte gli altri inconvenienti che accompagnano l'esilio, Varrone, il più dotto dei Romani, ritiene che basti questa constatazione: ovunque ci rechiamo, dobbiamo continuare a vivere dentro la medesima natura; Marco Bruto pensa che sia sufficiente quest'altra: chi va in esilio, può portare con sé le sue virtù.[2] Anche se qualcuno ritiene che questi due rimedi, presi separatamente, servano poco a consolare un esule, dovrà ammettere che sono efficacissimi, se presi insieme.Quanto è piccolo ciò che abbiamo perduto! I due beni più splendidi ci seguiranno dovunque ci recheremo: la natura comune a tutti e la virtù personale.[3] Ciò è stato fatto, credimi, da colui che ha formato l'universo, chiunque egli sia, o il Dio che ha potere su tutto, o la

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mente incorporea, artefice di grandi opere, o lo spirito divino diffuso con ugual tensione in tutti gli esseri, dal più grande al più piccolo, o il fato, inteso come immutabile serie di cause tra loro connesse; ciò, ripeto, è stato fatto perché non cadessero sotto l'altrui arbitrio se non gli esseri più vili.[4] Tutto quanto costituisce il meglio dell'uomo, è sottratto al potere umano e non può essere né dato né tolto.Questo cielo, l'essere più grande ed attrezzato che la natura abbia prodotto, e l'animo, che contempla ed ammira il cielo e ne costituisce la parte più splendida, sono assegnati specificamente e per sempre a noi, e rimarranno con noi finché avremo un'esistenza.[5] Agili dunque e fieri, affrettiamoci con passo intrepido verso qualunque meta la sorte ci segni.Percorriamo l'intera terra: non vi si può trovare esilio, perché nulla di quanto è nel mondo è estraneo all'uomo.Da qualunque parte volga lo sguardo al cielo, la distanza è la medesima: lo spazio che separa il divino dall'umano è sempre identico.[6] Allora, finché i miei occhi non vengano distolti da quella contemplazione che non li sazia mai, finché mi sia possibile guardare il sole e la luna, fissare le altre stelle, investigarne il sorgere, il tramontare, le distanze e le cause della loro maggiore o minore velocità orbitale, osservare, la notte, tante stelle splendenti, alcune fisse, altre che non vagano nel grande spazio, ma girano ripercorrendo il proprio cammino, altre che prorompono all'improvviso, altre che, con il fuoco che profondono, mi affaticano lo sguardo e sembra stiano per cadere, oppure passano oltre, segnando una lunga scia luminosa (14); finché io sia in compagnia di queste e, per quanto è possibile ad un uomo, mi confonda con i corpi celesti, finché possa tenere continuamente il mio animo proteso ed elevato nella contemplazione di quegli esseri che sono nati insieme con esso, che m'importa del suolo che calpesto?

9. [La povertà del luogo non mi avvilisce.Aneddoto sull'esilio di Marcello.] [1] Ma codesta terra non è fertile d'alberi da frutto e da fronda, non è bagnata da grandi corsi d'acqua navigabili, non ha prodotti richiesti da altre genti, anzi, fornisce appena quanto basta alla sopravvivenza dei suoi abitanti; non ha cave di marmi preziosi o miniere d'oro e d'argento. [2] E" meschino l'animo che si diletta di beni terreni; ha bisogno di esserne distolto ed orientato a quei beni che, in ogni luogo, hanno il medesimo aspetto e che hanno, in ogni luogo, il medesimo splendore.Si deve anche riflettere su questo fatto: i beni di quaggiù sono di ostacolo ai beni veri, in quanto comportano errori e pregiudizi.Quanto più uno avrà sviluppato in lungo i suoi portici, quanto più alte avrà edificate le sue torri, quanto più avrà allargato i suoi isolati e più profonde avrà scavato le sue grotte estive, quanto più massicci saranno i rivestimenti dei soffitti nelle sue sale da pranzo, tanta più roba avrà che gli nasconde il cielo.[3] Il caso ti ha gettato in una regione in cui l'alloggio più lussuoso è la capanna.Sì, sei gretto e pusillanime nel consolarti, se sopporti la cosa con fermezza, perché conosci la capanna di Romolo.Parla così, piuttosto: Non è vero che questo umile tugurio accoglie delle virtù? Diverrà d'ora in poi più bello di qualunque tempio, dal momento che in esso si vedranno la giustizia, la continenza, la prudenza, la pietà, il retto criterio di distribuzione dei compiti, la scienza delle cose umane e divine.Non è mai angusto il luogo che contiene una così grande folla di virtù, e nessun esilio è pesante, se vi si può andare in questa compagnia.[4] Bruto, nel suo libro intitolato "Sulla virtù", racconta di aver fatto visita a Marcello (15), che era esule a Mitilene: viveva felice, almeno quanto lo permette la natura umana, e mai, prima di quel periodo, s'era maggiormente impegnato nelle discipline umanistiche.Perciò aggiunge che, quando s'accinse a ripartire senza l'amico, ebbe più la sensazione di andare lui in esilio, che quella di allontanarsi da un esule.[5] Marcello fu ben più fortunato quando fece trovar buono il suo esilio a Bruto, che non quando la repubblica trovò buono il suo consolato! Che uomo grande fu colui che riuscì a dare a qualcuno la sensazione di diventare esule, al momento in cui si congedava da un esule! Che uomo grande fu colui che seppe farsi ammirare da un uomo che era degno anche dell'ammirazione del suo amico Catone! [6] Sempre Bruto, racconta che Gaio Cesare (16) non si fermò a Mitilene, perché pensava di non poter sopportare la vista di un uomo avvilito.Il Senato gli ottenne il ritorno con una supplica ufficiale, presentata con tanta prontezza e mestizia che, in quel giorno, tutti parvero condividere i sentimenti di Bruto ed implorare per se stessi, non per Marcello, temendo di rimanere esuli, se avessero continuato ad essere privi di lui.Eppure, ottenne molto di più quel giorno in cui Bruto non poté abbandonarlo in esilio, mentre Cesare non osò vederlo.Gli venne a proposlto la testimonianza di tutti e due: Bruto si dolse di ripartire senza Marcello, Cesare ne arrossì.[7] Non credi forse che quell'uomo tanto grande si sia spesso esortato con queste parole a sopportare serenamente l'esilio: L'esser privo di patria, non è cosa miserevole per te.Ti sei imbevuto di dottrina quanto basta per sapere che, per il saggio, ogni luogo è patria.Ed allora? Costui, che t'ha cacciato in esilio, non è stato anch'egli un senza patria per dieci anni? Certo, per fare nuove conquiste, ma ciò non toglie che fosse senza patria.[8] Ed ora se lo trascina l'Africa, piena di minacce d'una guerra che vuol riaccendersi, lo trascina la Spagna, rianimatrice delle fazioni sconfitte ed abbattute, lo trascina l'Egitto infido, ed infine tutto il mondo, sempre teso a cogliere una occasione per scuotere il nostro dominio.Quale cosa affronterà per prima? A qual parte del mondo darà battaglia? La sua vittoria lo trascinerà di terra in terra.I popoli lo ammirino pure e lo onorino: tu vivi contento dell'ammirazione di Bruto!

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10. [La povertà è sopportabile.Invettiva contro la sontuosità dei banchetti.] [1] Marcello, dunque, sopportò bene l'esilio; il cambiar luogo non comportò alcun mutamento del suo stato d'animo, pur avendo come conseguenza la povertà.Che quest'ultima non abbia in sé nulla di male, lo comprende chiunque non sia ancor giunto alla totale dissennatezza provocata dall'avarizia o dall'intemperanza che tutto sovvertono.Quanto poco, infatti, basta a sostenere un uomo! E a chi può mancare ciò, se ha appena un minimo di forza morale? [2] Per quanto mi riguarda personalmente, comprendo che non ho perduto delle ricchezze, ma degli impegni.Le esigenze del corpo sono minime: un riparo dal freddo e l'alimento che basta ad estinguere la fame e la sete.Se si desidera una qualunque cosa in più, ci si affanna per dei vizi, non per delle necessità.Non è per nulla necessario scrutare il fondo del mare, rimpinzarsi il ventre facendo strage di animali, strappar molluschi al lido ignoto del mare più lontano.Gli dèi e le dee distruggano costoro, la cui intemperanza valica i confini d'un dominio gelosamente delimitato! [3] Pretendono che si catturi di là dal Fasi (17) ciò che guarnirà una gozzoviglia piena di ostentazione, e non si vergognano d'andare a chiedere uccelli ai Parti (18), con i quali abbiamo ancora dei conti in sospeso.Importano da ogni paese tutto ciò che la loro gola capricciosa conosce; dall'estremità dell'Oceano arrivano cose che uno stomaco, rovinato dai cibi raffinati, a mala pena riesce ad ingurgitare.Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare, e non si degnano nemmeno di digerire i cibi che ricercano in tutto il mondo.Che danno produce la povertà a chi disprezza codesti eccessi? Essa, anzi, giova anche a chi li desidera, perché lo fa guarire contro voglia; anche se rifiuta d'accettare il rimedio per costrizione, almeno per alualche tempo, colui che non sa volere si trova nelle stesse condizioni di colui che s'astiene volontariamente.[4] Gaio Cesare (19), del quale penso che la natura l'abbia partorito per dimostrare a quanto possano giungere i vizi immensi, se sono accompagnati da una fortuna immensa, spese in una sola cena dieci milioni di sesterzi e, pur assistito dall'inventiva di tutti, faticò a trovare il modo di trasformare in un'unica cena i proventi del fisco di tre province.[5] Miseri quelli il cui palato non è sensibile se non ai cibi costosi! E non li rende costosi il sapore squisito o la dolcezza che lasciano in bocca, ma la loro rarità, la difficoltà di procurarseli.Altrimenti, se codesta gente vuol tornare all'uso di ragione, che bisogno c'è di asservire al ventre tante attività? C'è bisogno di mercanteggiare, di devastare foreste, di scrutare il fondo del mare? Sono a disposizione di tutti certi cibi che la natura ha distribuito in tutti i luoghi, ma costoro tirano diritto come fossero ciechi, percorrono tutte le regioni, valicano i mari e, pur potendo placare la fame con il poco, la stuzzicano con il molto.[6] Viene voglia di dire: Perché mettete in mare le navi? Perché vi armate contro belve e uomini? Perché correte qua e là con tanto affanno? Perché accumulate ricchezza su ricchezza? Non volete pensare quanto piccolo è il vostro corpo? Non è follia, non è l'estremo traviamento della ragione questo desiderare molto, quando puoi mettere dentro tanto poco? Aumentate pure le vostre entrate, ampliate le vostre proprietà, ma non aumenterete mai la capacità del vostro corpo.Quando il commercio sarà andato bene, quando la carriera militare ti avrà reso molto, quando saranno ammucchiati i cibi cercati in ogni luogo, non avrai dove mettere tutte le tue provviste.[7] Perché cercate tante cose? Dobbiamo dire che i nostri antenati, che con la loro virtù hanno conquistato ciò che oggi sostenta i nostri vizi, erano degli infelici, perché si procuravano il cibo con le loro mani, dormivano per terra, non avevano case fulgenti d'oro e templi splendenti di gemme! Sì, a quei tempi, si giurava, in tutta lealtà, su divinità di coccio, e chi ne aveva invocatc il nome tornava al nemico, pur sapendo di andare a morte, per non mancare alla parola data.[8] Certo, quel nostro dittatore (20) che ascoltò i legati Sanniti, mentre sul suo focolare si preparava un cibo poverissimo, con quellestesse mani che già altre volte avevano sconfitto il nemico e che avevano deposto la corona d'alloro nel grembo di Giove Capitolino, viveva meno felice di Apicio (21), che ben ricordiamo, il quale, in quella città da cui tempo fa furono espulsi i filosofi come corruttori della gioventù, trasformata la gozzoviglia in scienza che egli professava, infettò la nostra epoca con il suo insegnamento. [9] E vale la pena sapere come è finito.Dopo aver sperperato in cucina cento milioni di sesterzi, essersi divorato, cena dopo cena, le innumerevoli largizioni degli imperatori e le immense entrate del Campidoglio, oberato dai debiti, fu costretto per la prima volta a rivedere i suoi conti; calcolò che gli sarebbero rimasti dieci milioni di sesterzi e, reputandosi ridotto all'estremo della fame se avesse dovuto vivere con dieci milioni, si tolse la vita con il veleno.[10] Quanto sfrenato dev'essere un uomo, per considerare povertà dieci milioni! Ora vai, e continua a credere che il denaro lo si valuta in cifre, non secondo le disposizioni di spirito.Un tale s'è spaventato davanti a dieci milioni ed è fuggito, avvelenandosi, davanti a una cifra che tutti desiderano! Certo, per un uomo di mentalità tanto perversa, fu quanto mai salutare l'ultima bevanda, ma i veleni se li mangiava e se li beveva quando non solo si dilettava, ma si vantava dei suoi smodati banchetti, quando ostentava i suoi vizi, quando attirava la città alla sua sfrenatezza ed incoraggiava ad imparare da lui la gioventù, propensa ad apprendere anche senza cattivi esempi.[11] Queste cose accadono a chi riporta la ricchezza non alla ragione, che ha i suoi confini ben definiti, ma all'assuefazione al vizio, che è di una arbitrarietà immensa, sconfinata.Alla cupidigia non basta mai nulla, alla natura basta anche poco.La povertà dell'esule non gli reca alcun danno: non esiste, infatti, un luogo d'esilio tanto sterile, che non produca più di

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quanto occorre per nutrire un uomo.

11. [Non si sente povero chi sa contentarsi ] [1] L'esule può risentire della mancanza del vestito o della casa? Se desidera questi beni nei limiti in cui gli servono, non gli mancherà mai né casa né vestito: basta poco a riparare il corpo, come basta poco a nutrirlo.Ciò che natura ha reso indispensabile all'uomo, non glielo ha mai reso anche faticoso.[2] Ma quello rimpiange la sua porpora, stracarica di tinta, intessuta d'oro, cosparsa di fregi variopinti: è povero per colpa sua, non della fortuna.Anche restituendogli tutto il perduto, non otterrai nulla: gli mancherà sempre di più, rispetto ai suoi desideri, di quello che manca all'esule, rispetto a quanto aveva.[3] Ma brama mobili splendenti di vasi d'oro, pezzi d'argenteria marcati con i nomi di artisti antichi, bronzi diventati preziosi in seguito alla follia di pochi, in più, una folla di schiavi che faccia sembrare stretta anche una casa ampia, animali messi a pastura e costretti ad ingrassare, marmi provenienti da tutte le parti del mondo: anche se gli si accumula tutto questo, un'anima insaziabile non si sentirà mai sazia, così come non ci sarà mai acqua bastante a placare chi è assetato, non per naturale esigenza, ma per una febbre che gli brucia le viscere, perché quella non è sete, è malattia.[4] E questo non si verifica soltanto in fatto di denaro o di cibo.E" di ugual natura ogni volta che non nasce da bisogno, ma da vizio: tutto ciò che le porterai, non estinguerà la cupidigia, ma la farà avanzare di un passo.Chi saprà, dunque, contenersi nel limite segnato da natura, non avvertirà la povertà, chi oltrepasserà quel limite, avrà la povertà per compagna, anche in mezzo alle più grandi ricchezze.Un esilio può ben fornire il necessario, ma nemmeno un regno può dare il superfluo.[5] E" l'animo che fa ricchi.Ti segue nell'esilio e nei deserti più selvaggi e, quando ha trovato ciò che basta a sostentare il corpo, si sente ricco dei suoi beni e ne gode; il denaro non riguarda l'animo, come non riguarda gli dèi immortali.[6] Tutti codesti beni, che le menti inesperte e troppo schiave del corpo ammirano, marmi, oro, argento, e le grandi tavole circolari ben levigate (22), sono pesi terreni che un animo sincero e conscio della propria natura non può amare, perché è senza macchia e s'appresta a balzare, non appena venga liberato, verso le sfere celesti.Nel frattempo, per quanto gli è possibile attraverso l'ostacolo delle membra ed il peso di questa soma che lo avvolge, con l'agilità e la leggerezza del pensiero, percorre le sedi degli dèi.[7] Per questo motivo, non può mai sentirsi esule, libero com'è ed imparentato con gli dèi, capace di immedesimarsi nelle immensità dello spazio e del tempo.Il suo pensiero, infatti, penetra tutto il cielo e tutto il tempo passato e futuro.Questo vile corpo, prigione e catena dell'animo, è sbattuto qua e là; su di esso si sfogano le torture, gli atti di violenza, le malattie: l'animo è, invece, per sua natura sacro, eterno ed esente da qualunque violenza.

12. [Anche i ricchi non godono delle ricchezze.Illustri esempi dell'antica povertà.] [1] Non devi credere che io, allo scopo di sminuire i danni di una povertà che nessuno sente gravosa, se non la ritiene tale, mi limiti a citare precetti di sapienti; osserva, in primo luogo, che la grande maggioranza dei poveri è composta da persone che non ti parranno per nulla più infelici o preoccupate dei ricchi.Anzi, forse sono più felici, perché il loro animo è meno preso dalle preoccupazioni.[2] Ma lasciamo i poveri e veniamo ai ricchi: in quante circostanze somigliano ai poveri! Il bagaglio di un viaggiatore è ridotto e, ogni volta che diventa necessario accelerare il passo, viene congedato il corteo degli accompagnatori.Quale parte dei suoi beni porta con sé il soldato, soggetto ad una disciplina militare che vieta tutto il superfluo? [3] E non soltanto le circostanze di tempo o la povertà del luogo pongono i ricchi nella stessa situazione dei poveri: quando sono presi dal tedio della ricchezza, scelgono certi giorni nei quali mangiano per terra e, bandito l'oro e l'argento, usano suppellettili di coccio (23).Insensati! Temono in continuità la cosa che, a volte, vanno a cercare.Quale buio mentale li acceca, quale ignoranza di quella verità che scimmiottano per divertirsi! [4] Anch'io, quando guardo agli antichi esempi, provo vergogna di cercare conforto alla povertà, perché il lusso della nostra epoca è giunto al punto che la soma assegnata all'esule è maggiore del patrimonio dei primi cittadini d'una volta.Sappiamo con certezza che Omero ebbe un solo schiavo, Platone tre.Zenone nessuno e fu il fondatore della rigorosa e virile filosofia stoica.Si potrà dire che costoro sono vissuti miseramente, senza sembrare con ciò stesso, ed a giudizio comune, gli ultimi tra i miserabili? [5] Menenio Agrippa era stato mediatore di riconciliazione tra il senato e la plebe: si dovette fare una questua per le spese del suo funerale.Attilio Regolo, mentre infliggeva sconfitte ai Cartaginesi in Africa, scrisse al senato che il suo salariato se ne era andato, lasciando vuoto il podere: il senato decretò che quel podere fosse curato a spese pubbliche, per tutta la durata dell'assenza di Regolo.Era un danno tanto grave non avere uno schiavo, se ciò faceva diventare suo colono il popolo romano? [6] Le figlie di Scipione ricevettero la dote dall'erario, perché il padre non aveva lasciato loro nulla: era giusto, per Ercole, che il popolo romano pagasse una volta tanto un tributo a Scipione, mentre lo riscuoteva continuamente da Cartagine.Felici i mariti di quelle fanciulle che ebbero il popolo romano come suocero! Stimi più felici certi uomini d'oggi, le cui attricette (24) vanno a nozze con un milione di sesterzi di dote, o Scipione, le cui legittime figlie ricevettero in dote dal

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senato, loro tutore, un asse pesante? (25) [7] C'è ancora chi disdegna la povertà, che vanta un tale sacrario d'antenati? C'è un esule che si sdegni perché gli manca qualcosa, quando uno Scipione non ebbe una dote, un Regolo un salariato, un Menenio il denaro per il funerale, se per tutti costoro fu titolo d'onore che qualcosa mancasse e si dovesse supplire? Dal ricordo di questi esempi, la povertà non esce soltanto priva di preoccupazioni, ma anche piena di prestigio.

13. [La ragione rende sopportabili tutti i mali dell'esilio.] [1] Mi si può rispondere: Perché separi artificiosamente queste componenti, che sono tollerabili ad una ad una, ma non lo sono più, se si assommano? Il cambiamento di luogo è sopportabile, se si riduce a mero cambiamento di luogo; la povertà è sopportabile, se non comporta l'infamia, che basta da sola ad estinguere la forza di vivere.[2] Contro questo obiettore, contro chiunque voglia atterrirmi presentandomi una turba di mali, le parole da usare sono queste: Se hai forza sufficiente a resistere ad una qualunque forma di sventura, l'avrai uguale contro tutte, perché l'animo, una volta irrobustito dalla virtù, risulta invulnerabile in ogni senso.[3] Ti sei liberato dall'avarizia, la più violenta peste dell'umanità; l'ambizione non ti creerà problemi.Se guardi al tuo ultimo giorno non come ad una pena, ma come ad una legge di natura, in quel cuore, dal quale hai cacciato il timore della morte, non oserà entrare nessun altro timore.Se ti convinci che la libidine è stata data all'uomo non per suo piacere, ma per propagare la specie, poiché non ti lascerai profanare da questa peste segreta che portiamo infissa nelle viscere, ogni altra cupidigia passerà senza toccarti.La ragione non abbatte i vizi ad uno ad uno: li abbatte tutti allo stesso modo e si vince una sola volta, in tutti i sensi.[4] Pensi che possa sentirsi turbato dall'infamia quel sapiente che fa conto esclusivamente su se stesso ed ha rifiutato le opinioni del volgo? Una morte infamante è più dell'infamia, eppure Socrate, con lo stesso volto con il quale, in altra occasione, aveva richiamato al dovere i trenta tiranni, entrò nel carcere, il luogo del quale egli avrebbe cancellato l'ignominia.E non poteva certo sembrare un carcere quello ove era Socrate (26).[5] E chi è talmente incapace di cogliere la verità, da ritenere che siano stati ignominiosi i due insuccessi elettorali di Marco Catone (27), candidato alla pretura ed al consolato? Se ne dovettero vergognare la pretura ed il consolato, già onorati dalla candidatura di Catone.[6] Nessuno è disprezzato da un altro, se non è stato lui il primo a disprezzare se stesso.A questa offesa sia pur esposto l'animo meschino ed awilito, ma chi si erge contro le avversità e sovverte quei mali, dai quali gli altri si lasciano schiacciare, porta le sue miserie come bende sacerdotali, perché noi siamo fatti così: nulla suscita tanto prontamente la nostra ammirazione, quanto l'uomo che sa esser forte nella miseria.[7] Ad Atene, Aristide (28) veniva condotto al supplizio e tutti quanti lo incontravano abbassavano gli occhi e gemevano, come se si stesse procedendo non contro un uomo giusto, ma contro la giustizia in persona.Eppure, ci fu un tizio che gli sputò in faccia.Avrebbe potuto sopportare, riflettendo che nessun uomo di bocca pura avrebbe osato tanto, ma egli si ripulì il volto e, sorridendo, disse al magistrato che lo accompagnava: Avverti costui che, un'altra volta, sia meno sgarbato quando sbadiglia.E fu un far ingiuria all'ingiuria ricevuta.[8] So che alcuni dicono che non esiste situazione più gravosa del disprezzo e che gli preferirebbero la morte.Risponderò loro che l'esilio è assolutamente esente da sfumature di disprezzo, ogni volta che un uomo grande, nella sua caduta, giace ancora da grande; egli non è disprezzato più di quelle rovine di templi sulle quali si cammina, ma che si venerano con la stessa devozione che si aveva prima che crollassero.

14. [Seconda serie di argomenti: il tuo dolore è disinteressato.] [1] Poiché, o madre carissima, non c'è nulla che ti dia motivo di piangere senza fine per causa mia, ne consegue che sei spinta a farlo per motivi tuoi.E non possono essere che due: o ti turba la convinzione d'aver perduto un aiuto, o quella di non sentirti in grado di sopportare la mia lontananza.[2] Il primo punto basta sfiorarlo appena; conosco i tuoi sentimenti: il tuo amore per i cari non ha altro oggetto che il loro bene.Ci riflettano quelle madri che, con strapotere tipicamente femminile, sfruttano il potere dei loro figli, quelle che, dato che le donne non possono avere pubblici uffici, sfogano la loro ambizione per mezzo dei figli, quelle che esauriscono il patrimonio dei figli o ne diventano padrone, quelle che spossano la loro eloquenza mettendola a servizio di altri.[3] Tu sei stata molto felice delle ricchezze dei tuoi figli, ma ne hai sempre usato con la massima discrezione; tu hai sempre imposto dei limiti alla nostra liberalità, mai alla tua; tu, pur essendo figlia di famiglia (29), hai volontariamente fatto donazioni ai tuoi ricchi figli; tu hai amministrato i nostri patrimoni, interessandotene come se fossero stati tuoi e rispettandoli come cosa altrui; tu hai avuto riguardo per i nostri successi come fossero beni d'altri e, della nostra carriera, non ti è toccato altro che soddisfazione e spese; la tua amorevolezza non è mai stata interessata.Non è possibile dunque che, ora che tuo figlio è stato allontanato da te, tu rimpianga quelle cose che non hai mai giudicate di tua competenza, quando egli era con te.

15. [Ti senti ferita nel tuo affetto di madre.] [1] Tutti i miei tentativi di consolarti debbono puntare sui fatti dai quali il tuo dolore di madre attinge la sua vera forza: Dunque, non posso abbracciare il più caro dei miei figli! Non posso vederlo, non posso parlargli! Dov'è ora? Al vederlo, mi si rasserenava il volto, nel suo cuore, io deponevo tutti i miei affanni.

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Dove sono quei colloqui dei quali non sapevo saziarmi? E gli studi, ai quali partecipavo con un interesse inconsueto in una donna ed una familiarità inconsueta in una madre? Dov'è quel suo venirmi incontro, quella sua gioia di bimbo che si rinnovava ogni volta che vedeva sua madre?.[2] A questi tuoi pensieri, s'aggiunge la vista dei luoghi nei quali siamo vissuti felici insieme, degli oggetti che ricordano la nostra intimità, da poco spezzata, e che, inevitabilmente, suscitano tormenti tanto profondi.La sorte, nel predisporre i fatti, ha avuto con te anche questa crudeltà: ha voluto che tu partissi, tranquilla e senza timori di cose del genere, due giorni prima che io fossi colpito.[3] E" stato un bene che, in passato, noi fossimo separati ed in luoghi lontani: una assenza di alcuni anni ti aveva opportunamente preparata a questa disgrazia.Sei tornata, non per godere della compagnia di tuo figlio, ma prima che ti diventasse abituale l'averlo lontano.Se ti fossi allontanata molto tempo prima, avresti avuto maggior forza per sopportare, dato che il tempo placa da sé i rimpianti; se non ti fossi allontanata, avresti avuto l'estremo conforto di vedere tuo figlio per altri due giorni.Ora, un crudele destino ha disposto che tu non fossi presente alla mia disgrazia e non ti abituassi a sapermi lontano.[4] Ma quanto più sono dure queste prove, tanto maggior forza ci si deve fare, e si deve dar battaglia con maggior impegno, come la si darebbe ad un nemico noto e già tante altre volte sconfitto.Questo tuo sangue non sgorga da un corpo che non ha mai provato ferite: sei stata colpita proprio sulle cicatrici.

16. [Il tuo pianto non deve essere smodato.] [1] Non devi addurre a scusa il tuo essere donna: a ciò si concede appena il diritto ad un pianto smodato, ma non infinito.Per questo motivo, i nostri antichi concessero dieci mesi di lutto alle donne che piangevano i mariti, venendo a transazione, mediante una legge dello Stato, con la ostinazione femminile nel pianto: non vietarono il lutto, ma lo delimitarono.Infatti, il lasciarsi prendere da dolore infinito, per la perdita di una tra le persone più care, è stolta indulgenza, come il non risentirne alcun dolore è disumana crudeltà: il giusto mezzo tra pietà e ragione sta nel sentire il rimpianto e saperlo soffocare.[2] Non è il caso che tu ripensi a certe donne il cui lutto, una volta preso, è finito solo con la morte.Ne conosci alcune che, messi gli abiti di lutto per la morte dei figli, non li hanno più deposti: una vita come la tua, che è stata più forte fin dall'inizio, esige da te qualcosa di più.La scusa della femminilità non può venire a proposito, per una donna che è sempre stata esente dai difetti del suo sesso.[3] Il peggior male dell'epoca, l'impudicizia, non ti ha trascinata nella turba più numerosa; gemme e pietre preziose non ti hanno piegata; le ricchezze non ti hanno mai abbagliata come supremo bene dell'umanità; l'imitazione delle peggiori, pericolosa anche per le donne oneste, non ti ha traviata, educata com'eri in una casa severa ed all'antica; non ti sei mai vergognata della tua fecondità, come se suonasse accusa alla tua età (30); mai, come le altre che ripongono nella bellezza ogni loro attrattiva, hai nascosto le tue gravidanze, come se fossero un peso vergognoso, e non hai mai stroncato, nelle tue viscere, il maturare della prole già concepita; [4] non ti sei imbrattata il volto con colori e belletti; non ti sono mai piaciute quelle vesti che non scoprono più nulla, quando vengono tolte.Come tuo unico ornamento, come bellezza squisita e non soggetta all'età, come tuo massimo onore, hai scelto la pudicizia.[5] Non puoi dunque, per attaccarti al dolore, nasconderti dietro il pretesto della femminilità, dalla quale le tue virtù ti hanno liberata; devi tenerti tanto lontana dalle lacrime delle donne, quanto dai loro difetti.Neppure le donne ti permetteranno di struggerti nella tua ferita, ma non appena avrai pagato il tuo debito ad un pianto breve e necessario, esigeranno che tu ti rialzi, almeno se vorrai guardare a quelle donne che una riconosciuta virtù ha messo alla pari degli uomini grandi.[6] La sorte aveva ridotto a due i dodici figli di Cornelia.Se vuoi contare i lutti di Cornelia, aveva perduto dieci figli, se li vuoi valutare, aveva perduto i Gracchi.Ma a chi, attorno a lei, piangeva ed esecrava il destino, proibì di accusare la fortuna, che le aveva dato come figli i Gracchi.Non poteva nascere che da quella donna l'uomo che disse, in pubblica assemblea: Tu non devi insultare mia madre, colei che mi ha messo al mondo! (31) Mi sembra molto più coraggioso quanto disse la madre: il figlio si diede gran vanto della nascita dei Gracchi, la madre si vantò anche della loro morte.[7] Rutilia seguì il figlio Cotta (32) in esilio e si sentì unita a lui da tanta amorevolezza, che preferì affrontare l'esilio al soffrire per la di lui mancanza e non tornò in patria, se non quando ne tornò il figlio.Quando fu tornato e divenuto eminente nella vita pubblica, lo perdette con lo stesso coraggio con cui l'aveva seguito e nessuno la vide piangere, dopo i funerali del figlio.Quando fu espulso, mostrò coraggio, quando lo perse, saggezza.Nulla, infatti, la distolse dal mostrarsi affettuosa e nulla la chiuse in una vana e stolta tristezza.Voglio che tu sia annoverata tra codeste donne.Ne hai sempre imitato la vita: sarà tanto bello che tu ne segua l'esempio, limitando e reprimendo il tuo dolore.

17. [E" meglio vincere il dolore che ingagarlo.] [1] So che ciò non è in nostro potere, perché nessun sentimento ci è schiavo, tanto meno se sgorga da un dolore: in tal caso, è indomabile e refrattario ad ogni rimedio.Talvolta lo vogliamo seppellire e tentiamo di trangugiare i gemiti, ma le lacrime sgorgano sul nostro volto, falsamente ricomposto.

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Tentiamo di distrarci andando a teatro o alle lotte dei gladiatori, ma proprio mentre lo spettacolo ci distrae, il minimo richiamo al nostro dolore ci sconvolge. [2] Perciò è meglio vincerlo che ingannarlo.Se, infatti, lo inganniamo e lo allontaniamo con piaceri o con altre attività, risorge e dispone, per incrudelire, della forza d'urto che ha accumulato durante la tregua.Ma se ha dovuto cedere alla ragione, resta sotto controllo per sempre.Non intendo, dunque, illustrarti quegli espedienti che so esser stati usati da molti: che ti impegni in un viaggio, lungo per distrarti o piacevole per divertirti. che tu dedichi tanta diligenza a rivedere i conti o tanto tempo all'amministrazione del patrimonio, che ti impegni continuamente in qualche nuovo affare: tutto questo giova per poco tempo e non costituisce rimedio, ma ostacolo al dolore.Io, invece, non voglio ingannarlo: voglio farlo finire.[3] Perciò ti conduco colà dove debbono rifugiarsi tutti coloro che fuggono la sorte: agli studi umanistici.Essi guariranno la tua ferita, strapperanno da te ogni tristezza.Se non ti ci fossi mai dedicata, dovresti farlo ora, ma, per quanto te lo ha permesso la severità d'altri tempi di mio padre, hai preso contatti con tutte le materie di studio, anche se non le hai sondate a fondo.[4] Magari mio padre, che pure fu ottimo marito, non si fosse arreso del tutto alle consuetudini degli antichi ed avesse voluto che tu approfondissi i precetti della filosofia e che non ne avessi soltanto una infarinatura! Ora non avresti bisogno di prepararti un aiuto contro la sorte: ti basterebbe tirarlo fuori.Per colpa delle donne d'oggi, che imparano le lettere non per diventare colte, ma lussuriose, non ti ha permesso di dedicarti gran che allo studio.Il tuo ingegno, avido di apprendere, ti ha aiutato a ricavarne più di quanto il tempo non permettesse: sono state gettate le fondamenta di tutte le discipline.[5] Torna ora a quelle scienze: ti daranno sicurezza.Ti saranno conforto, diletto; se esse troveranno il tuo animo rettamente disposto a riceverle, in esso non potranno più entrare il dolore, la preoccupazione, il superfluo tormento della vana afflizione.A nulla di tutto ciò si aprirà più il tuo cuore.Il quale, già da tempo, è precluso agli altri vizi.

18. [Altre consolazioni ti daranno i miei fratelli ed i loro figli.] [1] Queste sono certamente le difese più valide, le sole che siano in grado di sottrarti alla sorte.Ma poiché, in attesa di giungere al porto che gli studi ti promettono, hai bisogno di appoggiarti a qualche sostegno, voglio mostrarti le consolazioni di cui disponi nel frattempo.Guarda ai miei fratelli: finché ci sono, non hai il diritto di chiamare in causa la sventura.[2] Ciascuno dei due ti dà diverso motivo di soddisfazione, con i suoi specifici pregi: uno, con la sua attività, si è fatto una carriera nello Stato (33), l'altro, per saggezza, non se ne è dato pensiero.Godi degli onori del primo, della vita ritirata del secondo e dell'affetto di tutti e due.Conosco i sentimenti più intimi dei miei fratelli: uno si prende a cuore i suoi uffici, per farti onore; l'altro è rimasto nella tranquillità della vita privata, per essere a tua disposizione.[3] La fortuna ha distribuito bene le attività dei tuoi figli, perché tu ne avessi aiuto e diletto: la dignità del primo ti è di difesa, la libertà del secondo ti dà gioia.Andranno a gara nel servirti, ed il rimpianto che hai per un figlio sarà ben ripagato dall'affetto degli altri due.Posso dirti in tutta sicurezza: avvertirai soltanto la diminuzione del numero.[4] E guarda ai nipoti che ti hanno dato: Marco (34) è un piccino simpaticissimo, vedendo il quale se ne va ogni tristezza.Non c'è dolore grande o recente, che incrudelisca in un cuore, che egli non riesca ad addolcire con le sue carezze. [5] Quali lacrime non asciuga la sua gioia? quale cuore, serrato dall'ansia, non riapre la sua arguzia? chi non si sentirà invitato al gioco dalla sua spensieratezza? e quel suo chiacchierio, che non ci si stanca d'ascoltare, chi non attirerà, strappandolo ai pensieri che l'imprigionano? [6] Mi ascoltino gli dèi, e ci concedano che questo bimbo ci sopravviva! Tutta la crudeltà dei fati si fermi spossata su di me.Tutti i dolori destinati a sua madre, tutti quelli della nonna, passino pure su di me: gli altri di casa godano intatta la loro prosperità! Non mi lamenterò del mio figlio perduto o della mia situazione, se potrò essere di espiazione, per una famiglia che non dovrà più dolersi di nulla.[7] Tieni sul tuo grembo Novatilla (35), che ben presto ti darà dei pronipoti: l'avevo presa su di me, me l'ero attribuita al punto che, ora che mi ha perduto, può sembrare orfana, nonostante che suo padre sia vivo.Amala anche per me.La sventura le ha portato via da poco sua madre: il tuo affetto può far sì che essa senta soltanto il dolore per la perdita della madre, ma non ne senta la mancanza.[8] Ora educa e plasma i suoi costumi: scendono più in profondità gli insegnamenti che vengono impartiti nella prima infanzia.Si abitui al tuo parlare, si conformi al tuo volere; le darai molto, anche se non le darai nulla più dell'esempio.Questo impegno, così sacro, sarà per te un sollievo: un animo che soffre per le persone care, non può esser distolto dal suo dolore, se non con la ragione o con oneste occupazioni.[9] Ricorderei tra i tuoi conforti, anche tuo padre, se non fosse lontano.Ora però misura, dal tuo affetto per lui, il suo per te: ti renderai conto di quanto sia più giusto conservarti per lui, che

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consumarti per me.Ogni volta che la forza smodata del dolore ti prenderà e vorrà trascinarti con sé, pensa a tuo padre.Dandogli tanti nipoti e pronipoti, hai fatto sì che il suo affetto non s'esaurisse in te; ma dipende da te la conclusione di una vita felicemente vissuta.Fino a quando egli vive, non ti è lecito lamentarti di essere viva.

19. [Può darti tanto conforto tua sorella.] [1] Non ti ho ancora parlato di tua sorella, la tua più grande consolazione, quel cuore a te devotissimo che accoglie e condivide in ugual misura tutti i tuoi dispiaceri, quell'animo che, per tutti noi, è di madre.Hai mescolato le tue lacrime alle sue, nel suo seno hai ripreso a respirare.[2] E" sempre partecipe dei tuoi sentimenti e, per quanto mi riguarda, non soffre soltanto per te.Mi ha portato a Roma con le sue mani (36); sono guarito da una lunga malattia per le sue affettuose cure materne; ha spiegato la sua influenza per farmi riuscire questore e, lei che non ha mai avuto il coraggio di parlare o salutare a voce alta, per tenerezza verso di me, ha vinto il suo riserbo.La sua vita sempre appartata, la sua modestia che la opponeva alla villana petulanza di tante donne, il suo desiderio di tranquillità, i suoi costumi, tenuti in serbo per la casa e la quiete, non le impedirono per nulla di farsi anche ambiziosa per me.[3] Questo è, o madre, il conforto che può risollevarti: restale vicina quanto puoi, tienti stretta, abbracciata a lei.Coloro che piangono, di solito, evitano la compagnia delle persone più care e cercano libero sfogo al proprio dolore: tu recati da lei, qualunque sia il tuo pensiero; sia che tu voglia mantenere il tuo atteggiamento attuale, sia che lo voglia lasciare, la troverai disposta o a porre fine al tuo dolore o a farsene compagna.[4] Ma, se ben conosco la saggezza di quella compitissima donna, essa non ti permetterà di consumarti in un pianto che non ti può giovare a nulla e ti riferirà il suo esempio, del quale io sono stato testimonio.Le era morto, durante la navigazione, l'amatissimo marito, nostro zio, che aveva sposato giovinetta.Ma dovette vincere contemporaneamente il suo lutto ed il suo timore e, sfidando le tempeste, ne portò a terra la salma dopo un naufragio.[5] Quante lodevoli imprese rimangono sconosciute! Se fosse vissuta nei tempi antichi, così spontanei nell'ammirare la virtù, con quale gara d'ingegni sarebbe celebrata quella moglie che, dimenticando la propria debolezza, dimenticando un mare terribile anche per i più forti, espose a pericolo la sua vita per una sepoltura e, preoccupata del funerale del marito, non temette il proprio! Tutti i poeti esaltano colei che offrì la sua vita per quella del marito: è molto di più il cercare un sepolcro al marito, a rischio della propria vita; è più grande quell'amore che, a parità di rischio, riscatta cosa di minor conto.[6] Dopo questo, nessuna meraviglia se, nei sedici anni in cui suo marito amministrò l'Egitto, non fu mai vista in pubblico, non ricevette in casa alcun abitante della provincia, non presentò mai raccomandazioni al marito e non ammise che le si chiedessero.Perciò quella provincia, loquace e geniale nel denigrare i prefetti e che non lasciò immuni da diffamazione neppure coloro che si tennero lontani da colpa, la ammirò come esempio irripetibile di integrità e, cosa difficilissima a chi ama canzonare anche a proprio rischio, frenò ogni licenza verbale e continua oggi a desiderare una donna simile a lei, anche se non osa sperare tanto.Sarebbe stato molto, se quella provincia l'avesse apprezzata per sedici anni, ma è ancor più che l'abbia ignorata.[7] Non racconto questi fatti per descrivere le sue virtù, quando è già uno sminuirle il farne un cenno tanto breve, ma perché tu comprenda la magnanimità di questa donna, che non si lasciò vincere dall'ambizione o dall'avarizia, esiziali accompagnatrici di ogni potere, e che, quando la nave aveva già perduto le sue attrezzature, vedendosi ormai naufraga, non si trattenne, per timore di morire, dall'attaccarsi al cadavere del marito e cercare non come uscire da quella situazione, ma come tirarne fuori lui.Devi mostrare una virtù pari alla sua, ritrarre l'animo dal lutto e comportarti in modo che nessuno ti pensi rincresciuta di essere madre.

20. [Pensa soprattutto che io sono sereno ] [1] Del resto, poiché è inevitabile che, quando tu abbia ben fatto tutto, i tuoi pensieri tornino continuamente a me e che, ora, nessuno dei tuoi figli sia più spesso presente alla tua mente, non perché gli altri ti siano meno cari, ma perché è naturale riportare la mano sul punto che duole, ascolta come devi pensarmi: lieto e di buon animo, come quando tutto va benissimo.E veramente tutto va benissimo, perché il mio animo, libero da ogni occupazione, attende alle attività che gli sono proprie ed ora si diletta di studi meno impegnativi, ora s'innalza, avido di verità, a considerare la natura sua e dell'universo.[2] Studia dapprima le terre e la loro distribuzione, poi il comportamento del mare ed il suo alterno fluire e rifluire; poi osserva tutto lo spazio che è posto tra le terre ed il cielo ed è pieno di fenomeni tremendi: lo vede agitato da tuoni, fulmini, soffiar di venti e precipitare di nembi, nevi e grandine.Infine, dopo aver percorse le zone meno elevate, prorompe verso le più alte e gode il bellissimo spettacolo degli esseri divini: allora ha il senso della propria eternità e scorre dal passato al futuro, attraverso tutti i tempi.

NOTE.Nota 1.

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Di Elvia e degli altri familiari Nota 2.Seneca padre, il retore autore delle "Controversiae" e delle "Suasoriae", era morto nel 39 dopo Cristo.I tre figli sono Novato, il primogenito che prese poi, per adozione, il nome di Gallione, Seneca e Mela, il padre del poeta Lucano.Degli altri familiari qui ricordati, abbiamo notizie incerte.Nota 3.Seneca era già stato questore (cfr. 19,2).Nota 4. "Sciato", "Serifo", "Giaro": isolette dell'Egeo. Nota 5. "Cossura": l'odierna Pantelleria.Nota 6. "Asia Minore".Nota 7. "Mare Infero": il mar Tirreno.Nota 8.La "Magna Grecia".Nota 9.Seneca cucisce leggenda e storia.E" leggenda che gli "Etruschi" siano originari della Lidia e che Didone, fuggiasca da "Tiro", abbia fondato Cartagine.E" storica la fondazione di Cartagena, in Spagna, ad opera dei "Cartaginesi", la fondazione di Marsiglia ad opera di coloni partiti dalla città di Focea, nella Ionia, e la trasmisgrazione dei Celti (Terzo secolo avanti Cristo) in Tracia.I "Pirenei" non arrestarono, nel 105 avanti Cristo, l'invasione dei Cimbri e Teutoni.Nota 10.Il mitico Enea.Nota 11.Confusione di Seneca: i coloni lasciarono la città marina di Focea in Ionia (Asia Minore).La "Focide" è una regione della Grecia, a Nord della Beozia.Nota 12. "Cantabri": popolazione della Spagna settentrionale.Nota 13.Le "due colonie" furono chiamate, rispettivamente, Mariana ed Alesia.Nota 14.Le "stelle orbitanti" sono i pianeti; erano dette "stelle improvviise" (o "repentine") le comete, le stelle cadenti ed i fenomeni descritti quali "dischi ("orbes") volanti, "travi" o "colonne" volanti ("trabes", "columnae": i nostri "sigari volanti").Cfr.Manilio, "Astron." 1,809-891; Seneca, "Nat. quaest." 1,14 ss., 7,1 ss.; Plinio, "Nat. hist." 2,89-101. Nota 15. "Marco Claudio Marcello", che era stato console nel 51 avanti Cristo, fu esiliato da Cesare perché di parte pompeiana.Nota 16. "G.Giulio Cesare".Nota 17. "Fasi": oggi Rion, fiume che sfocia nel mar Nero.Segnava il confine tra l'Asia Minore e la Colchide.La regione bagnata dal fiume (Faside) era nota ai buongustai quale patria del fagiano.Nota 18.Il "pullus Parthicus", per cucinare il quale Apicio fornisce una ricetta nel "De re coquinaria" 6,9.I "conti in sospeso" con i Parti risalivano alla sconfitta subita da Crasso nel 53 avanti Cristo Nota 19.Caligola.Nota 20.Marco Curio Dentat" fu tre volte console, mai "dittatore".Seneca lo confonde con Fabrizio (cfr. "Prov." 3,6).Nota 21. "Apicio": cfr. nota 10 a "Vita" 11,4.Nota 22.Secondo Dione Cassio (61,10), Seneca possedette cinquecento "tavole" uguali, di cipresso con piedi d'avorio.Nota 23.E" un "giocare ai poveri", un modo eccentrico di filosofia, praticato al tempo di Seneca.Nota 24. "Attricette": Seneca allude alle figlie delle famiglie illustri, che venivano educate, secondo il nuovo costume, anche al canto, al suono di strumenti e alla danza.Nota 25. "Asse pesante": l'antica moneta romana di bronzo.Nota 26.L'esempio è addotto anche in "Tranq." 5,1-3.Nota 27.Cfr. "Const." 2,1.Nota 28. "Aristide": in realtà è Focione (Plutare., "Phoc." 36), e la risposta è diversa.Nota 29. "Figlia di famiglia": era ancora sotto la tutela del padre e poteva disporre solo parzialmente del patrimonio.Nota 30.Le gravidanze troppo numerose o tardive erano duramente canzonate e ritenute indizio di insaziabile lascivia: cfr.

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Giovenale, "Sat." 6,161-199.Nota 31.La frase è di Gaio Gracco, e suona: Tu insulti Cornelia, colei che ha partorito Tiberio (Plutare., "C.Gracch." 4).Nota 32. "Gaio Aurelio Cotta", oratore, che rimase in esilio dal 90 all'82 avanti Cristo.Nota 33.E" Novato (Gallione).Mela aveva scelto la vita privata.Nota 34.Il futuro "Marco Anneo Lucano", figlio di Mela, allora bambino: era nato nel 39.Nota 35. "Novatilla": la figlia di Novato.Nota 36.Da Cordova.Di questa zia di Seneca, che seguì il marito nella prefettura d'Egitto, e, a quanto pare, ebbe con sé il giovane Seneca, non sappiamo nulla.Si volle identificare il marito con quel Gaio Galerio che fu prefetto d'Egitto per sedici anni (vedi sotto, par. 6) dal 16 al 31 dopo Cristo.

A POLIBIO.DELLA CONSOLAZIONE."Est, mihi crede, magna felicitas in ipsa felicitate moriendi"."Credimi, è grande felicità morire nel momento in cui si è più felici".(9,9).

PREFAZIONE.Dedicatario, caratteristiche e cronologia dell'opuscolo.Il dialogo "A Polibio, Della consolazione", è una antologia di spunti filosofici introdotti da un contesto oratorio.In sede storica, condivide con la scanzonata menippea "Ludus de morte Claudii", la qualifica di opera che non onora per nulla il suo autore.Ne è dedicatario Polibio, uno dei potenti e odiati liberti di Claudio.Secondo Svetonio, era il liberto "a studiis", l'archivista imperiale, ed aveva la faccia tosta di mostrarsi a passeggio tra i due consoli (Svetonio, "Claud." 28).Dal testo di Seneca (6,5), risulta invece liberto "a libellis", incaricato di passare i fascicoli delle pratiche che, da tutto il mondo, giungevano all'imperatore, e di esprimere il suo parere, spesso determinante.Dione Cassio ci riferisce che il popolo lo odiava, e gli rinfacciava le origini servili ed il suo strapotere.Ma quando la folla colse l'occasione di dimostrargli, in teatro, il suo astio, Polibio se la cavò con una pronta e sprezzante risposta (Dione Cass., 60,29).Fu uno degli amanti di Messalina e da Messalina fu fatto uccidere nel 47 (ivi, 60,31).La data di composizione dell'opuscolo ci è fornita da Seneca stesso (13,2).Claudio s'appresta ad una spedizione contro i Germani ed i Britanni, e Seneca gli auspica il trionfo.La spedizione ebbe luogo nel 43, il trionfo fu celebrato nel 44.Tra quei due anni, morì il giovane fratello di Polibio: Seneca colse l'occasione per scrivere.Riferisce Dione Cassio che Seneca inviò "ad essi" (Messalina e i liberti di Claudio), dalla Corsica, un libretto contenente le "loro" lodi, e che poi Seneca, per vergogna, lo distrusse (Dione Cass., 61,10).La notizia non s'adatta a puntino col libro in nostro possesso, che non contiene lodi di Messalina, è rivolto ad un solo liberto e non a tutti, ed è giunto a noi.Non serve formulare l'ipotesi che le lodi di Messalina fossero contenute nella parte iniziale dell'opuscolo, che è andata perduta.Nei manoscritti, il testo forma un tutt'uno con il "Della brevità della vita", ma l'architettura dello scritto, seppure asimmetrica, è completa: non è andata perduta nessuna sezione determinante.Poi, come inserire Messalina e gli altri liberti in uno scritto consolatorio, per un lutto domestico? Perché agli altri liberti non si fa cenno, quando si ricordano i tanti amici di Polibio? La notizia di Dione Cassio è imprecisa: forse Dione stesso utilizzò dati di seconda mano, parlò d'un libro che non conosceva e che non era, in fondo, tenuto a conoscere.Certamente, uno scritto "A Polibio" è giunto a noi, uno scritto che, evidentemente, non era destinato al solo Polibio, ma a tutto il grande mondo che si dava convegno attorno al potente liberto in lacrime, ed all'imperatore, che lo scrittore suppone "vicino", presente a Roma.Non ci consta che la supplica abbia avuto l'esito sperato.E" forse questo il motivo per cui a Seneca rincrebbe d'averla scritta? E lo "A Polibio" rappresenta il solo tentativo espletato da Seneca? Dione Cassio, nella sua inesatta e condensata notizia, usa un verbo equivoco, "apéleipse", che può significare tanto "distrusse", quanto "ritrattò, si rimangiò".Non pensa, per caso, Dione alle sarcastiche pagine del "Ludus"? ("Apocol." 13-15), a lui ben note (Dione Cass., 60,35), che ricordano Messalina, elencano i liberti, inventano la caricatura antiapoteosi di Claudio? Dione si riferisce ad ambedue gli scritti, non soltanto al primo, e li confonde in un giudizio sommario.Non mancarono tentativi di negare l'autenticità del libretto.

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Già nel 1779, il Diderot lo volle uscito dalla penna d'un abile, tardo falsario.Ma l'ipotesi è smentita dalla lingua e dallo stile dello scritto, e dalla ricchezza di particolari sull'attività letteraria di Polibio.Si volle anche leggere l'opera in altra chiave: sarebbe una sottile satira di Claudio e della corte (Morpurgo).Ma chi scriverebbe una satira che nessuno comprenderebbe? Lo scritto non contrasta con il Seneca della storia, ma con l'agiografia senecana, fiorita sulle mirabili pagine di Tacito ("Ann." 15,46 e 60-64) e sulla severità del messaggio morale di Seneca.L'antichità aveva notato il contrasto tra la vita e le opere del filosofo e se ne era rammaricata (Agostino, "Civ.Dei" 5,10).E" opportuno ripensare ai fatti.Seneca era stato esiliato per adulterio con Giulia Livilla, sorella di Caligola.L'accusa proveniva da Messalina, gelosa di Livia (Dione Cass., 60,8), e coinvolgeva Seneca, non sappiamo esattamente a quale titolo: all'imperatrice, importava colpire Giulia.Il processo era stato celebrato in senato: s'era parlato di pena capitale, e l'intervento di Claudio era valso a limitare la condanna all'esilio (13,2).Anche Giulia era stata esiliata, ma fu uccisa nel 43 (Dione Cassio, 60,18).Davvero gli esuli non dovevano più trepidare ad ogni avvistamento di nave (13,4)? Seneca non può non aver temuto per la propria vita: si doveva prevenire il peggio, era urgente evitare che l'odio di Messalina facesse un'altra vittima.Tutto dipendeva, ancora una volta, da Claudio, l'imperatore che vantava la propria clemenza, e che poteva riesaminare gli atti, assolvere o graziare (13,3).La morte del fratello di Polibio non era prevedibile: offrì a Seneca l'occasione di rivolgersi pubblicamente all'imperatore. E" logico pensare che gli si fosse già rivolto anche per altra via, più discreta, ed ovviamente senza parlare dell'assassinio di Giulia.Il solo discorso possibile era quello sulla grazia, e lo si doveva fare, anche sapendo che, per il momento, era già tanto salvare la vita.Analisi di struttura della prima parte dell'opuscolo.L'impianto eloquenziale dell'opuscolo è caratterizzato dall'utilizzazione di topiche scontate e nuove: le prime, nel vero e proprio discorso consolatorio, le seconde e ben più impegnative, nell""encomio" o "panegirico" di Claudio.Si fa notare anche la cura di distribuire simmetricamente gli artifici e le immagini.Hanno funzione d'esordio i cc. 1-5, appesantiti dalla "lamentatio", in discorso diretto, contro la Fortuna.Ma tant'è: ad essa doveva corrispondere, per simmetria, la preghiera alla Fortuna dell'imperatore (c. 13).Rientrano nella consueta topica della "consolazione" letteraria: a) la divagazione sul tema: la rettitudine morale, le ricchezze, il buon nome non esimono l'uomo dai colpi della sorte (c. 2; cfr. "Mare." 16,5); b) la commemorazione del defunto; c) l'esortazione a contenere il dolore (cc. 4-5).L'argomentazione s'attiene ai canoni della "metropátheia" (misura, controllo delle passioni) risalenti a Crantore e si traducono nell'enunciato: il pianto non giova né al defunto, né ai superstiti (cfr. "Mare." 6,2).I cc. 6-8 presentano Polibio quale antìtipo di Claudio.E" il novello e non mitico Atlante (7,1) che regge sulle spalle quel mondo al quale Claudio, nuovo dio (non nuovo Giove), assicura clemenza, felicità, pace.In questa cornice, Polibio risulta: a) l'uomo che non ha diritto ad una sua intimità, perché è stato "consacrato" al mondo dalla "grazia" di Claudio (c. 6), candidato all'apoteosi (12,5); b) il letterato (c. 8).In proposito, osserviamo che la levatura culturale di Polibio risulta modesta.E" traduttore in prosa (cfr.11,5), in un'epoca zeppa di abili traduttori metrici.Conosce Omero soltanto come "Bibbia pagana", da leggersi in chiave morale (11,5).E" aspirante storiografo e favolista dilettante (8,3).Il non aver Seneca, in questo contesto, fatto cenno a Fedro, del quale, in quegli anni, erano divulgati almeno tre libri, ha suscitato molte perplessità negli studiosi.Ci limitiamo ad osservare che è elusivo tentare di risolvere la difficoltà ritoccando il testo di Seneca, come taluno fece; che sulla favolistica in genere, e su Esopo in specie, pesava uno sprezzante giudizio della grande critica (Quintil., "Instit." 5,11,19-20); che un genere letterario era ritenuto nuovo ("intemptatum"), indipendentemente dal parziale successo di singoli autori, finché non avesse riscosso il concorde e favorevole giudizio della critica; infine, che il solo Marziale, in tutta la letteratura del Primo secolo dopo Cristo, nomina, e fuggevolmente, Fedro.Analisi di struttura della seconda parte dell'opuscolo.La seconda parte dell'opuscolo è costituita da un "excursus" eloquenziale, su base filosoficoteologica, che si protrae, in pratica, per l'intero scritto.Le rimanenti pagine, infatti (cc. 16,418), contengono soltanto la perorazione della lunga supplica.E" vero che il tono declamatorio mortifica il sottofondo culturale (in particolare, nei c. 14-16,3), ma è altrettanto vero che il testo di Seneca, nel suo insieme, non soltanto nei c. 9-11, propone precisi quesiti esegetici al lettore d'oggi.Contiene infatti una escatologia, un panegirico dell'imperatoredio ed una rassegna delle imagines dell'atrio dei Cesari, che sono inconciliabili, almeno in parte, con l'ortodossa professione di stoicismo.L'esilio fu, per Seneca, un periodo di meditazione, di ripensamento, di letture.Tra i libri che aveva portato con sé, c'era un'opera di Varrone, che egli citò nel dialogo "Ad Elvia, Della consolazione",

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qualificando il Reatino come il più dotto dei Romani ("Helv." 8,1).Com'è suo costume, Seneca non ci fornì il titolo dell'opera, che si ricava però congetturalmente dalla citazione sopra ricordata e illumina il "digestus" della "Consolazione a Polibio".Era il primo libro delle "Antiquitates rerum divinarum", che conteneva anche una succinta storia della filosofia o, meglio, della teologia.Varrone, in quel contesto, aveva anche riesposto la dottrina dell'oltretomba enunciata da Platone nel "Fedone" (80b-82b), concordandola con un rimaneggiamento operato da Posidonio, il quale ammetteva a partecipare alla vita degli dèi, o di Dio, non soltanto i filosofi, ma anche gli eroi e gli uomini onestamente vissuti (M. Terentii Varronis, "Antiquitatum divinarum libri", edidit R. Agahd, Lipsiae 1908, pp.109-113).Oggi si preferisce identificare il "mediatore" o "rimaneggiatore" nell'accademico Antioco d'Ascalona, soprattutto sulla base d'una attenta rilettura degli "Academica posteriora" di Cicerone.Ma a noi basta sapere che Seneca aveva sottomano il "Sulla virtù" di Marco Bruto e che credette, almeno in un primo tempo, che fosse possibile un sincretismo tra Stoá ed Accademia.Già l'avevano creduto o lasciato credere anche Virgilio e Cicerone, ai quali non era sfuggita, come non sfuggirà a Seneca, la fondamentale ispirazione pitagorica della sintesi varroniana.La seconda parte della "supplica" di Seneca si struttura dunque così: 1) Cc. 9-11: la sorte celeste del defunto.La trattazione si apre con il richiamo alla classica alternativa stoica: dopo la morte non c'è nulla (Zenone) o c'è sopravvivenza felice (Crisippo: 9,2-3).Ma ben presto emerge il motivo platonico: l'anima del defunto contempla con sommo piacere tutti i beni della natura (9,8) e si imbastisce il "mito" escatologico: non ci ha lasciati: ci ha preceduti (9,9) I due capitoli successivi tornano sui noti precetti di "ricordare il passato" ed "essere preparati".2) Cc. 12-13: l'imperatoredio.Seneca non ha neppure tentato d'abbozzare una teologia claudiana.Ce ne ha trasmesso il linguaggio, quale entrerà, soprattutto con i Flavi, nell'encomiastica ufficiale e, più tardi, riferita a Cristo, nella liturgia cristiana.Si accavallano, nel c. 12, i temi dell'imperatoredio o astro illuminante ("photismós"), della sua apparizione ("epiphanía"), e presenza salvatrice ("parousía"), portatrice di consolazione ("paracletismo") e produttrice di unanimità ("homónoia"; "homopsychía", "synápheia"; cfr."ad voces", K. Thraede, "Grundzge griechischrmischen Brieftopik", Monaco 1970; F. Sauter, "Der rmische Kaiserkult bei Martial und Statius", Tubinga 1934; F. J. Doelger, "Sol salutis", Mnster 1925).Nel c. 13 prevale il tema della "clementia principis", adatto a contenere la richiesta di grazia.E" il tema propagandistico dell'avvento al potere di Claudio, dopo il crudele Caligola; sarà ripreso all'avvento di Nerone, dopo il crudele Claudio.Nel 69, dopo la morte di Nerone, Galba ne lancerà una versione più raffinata: il principe che concilia principato e libertà, che sarà utilizzata da Tacito nel 96, per Nerva che succede a Domiziano.3) Cc. 14-16,3: le immagini dell'atrio dei Cesari (14,3) rappresentano la storia di Roma, storia d'eroi.Il discorso di Claudio sembra vertere soltanto sulla "sventura che colpisce tutti", ma Seneca richiamerà (17,1) che quei personaggi sono dèi o vicinissimi agli dèi.La mediazione varroniana, sempre ripresa dalle "Antichità divine", è sul piano della "teologia civile" che tratta della traduzione del fatto religioso nelle istituzioni e credenze benefiche per la vita della città.E" arduo dire se Seneca accettò la mediazione varroniana per ragioni contingenti o se intravide in essa, almeno per qualche tempo, la possibilità di armonizzare pitagorismo, platonismo e stoicismo.L'ammirazione che Seneca professa per Varrone, ci fa propendere per la seconda ipotesi.Ma Seneca se ne riscattò: in un suo perduto libro "Della superstizione", del quale abbiamo scarse notizie da sant'Agostino ("Civ.Dei" 5,10,11), Seneca difese la "teologia naturale" di Varrone (la concezione unitaria di Dio, anima o ragione del mondo, e la fiducia nell'immortalità dell'anima dei giusti), ma ne ripudiò la "teologia civile" (Agahd, ediz., p. 35).

A POLIBIO.DELLA CONSOLAZIONE.1. [Tutto è caduco, anche il mondo.] [1]...a paragone della nostra vita (1), sono durevoli; ma sono caduchi, se fai riferimento alla legge secondo cui la natura distrugge tutte le cose e le riconduce a quell'inesistenza dalla quale le ha tratte.Hanno mai prodotto opera immortale le mani mortali? Le sette meraviglie del mondo e gli altri monumenti ancor più meravigliosi (2) che l'ambizione delle età successive seppe innalzare, le vedremo un giorno rase al suolo.Sì, nessuna cosa è eterna, poche sono durevoli e, poiché i motivi della caducità sono diversi per le singole cose, sono diverse anche le vicende che ne segnano la ~ne, ma tutto ciò che ha avuto inizio, finisce.[2] Certuni minacciano una fine del mondo: verrà un giorno, se non ti pare empio il crederlo, che dissiperà tutto questo universo in cui è contenuto l'insieme dell'umano e del divino, e lo ritufferà nell'antico caos e nel buio primordiale.Ed ora andiamo a piangere le morti di singoli, versiamo lacrime sulle ceneri di Cartagine, di Numanzia e di Corinto (3), o di altre città distrutte con più umiliante rovina, noi, consapevoli che dovrà finire anche questo universo che non ha dove cadere! Andiamo a piangere perché quel destino che un giorno oserà compiere tale nefandezza, non ha usato

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riguardi con noi.[3] Di fronte a questa ineluttabilità della natura che riconduce tutti gli esseri al medesimo ~nire, chi sarà tanto superbo e presuntuoso da arrogarsi il diritto ad esserne esentato, lui solo con i suoi, o da voler esimere da una catastrofe, che incombe addirittura sul mondo, una qualunque casata? [4] Dunque, è validissima consolazione il pensare che a noi è accaduto ciò che tutti, prima di noi, hanno sofferto e che tutti, dopo di noi, dovranno subire, anzi, ritengo che la natura abbia voluto rendere uguale per tutti la più dura delle sue leggi, appunto perché l'uguale condizione ci consolasse della crudeltà del fato.

2. [Elogio di Polibio.] [1] Quest'altro pensiero potrà esserti di non piccolo aiuto: il tuo dolore non può giovare né a te, né alla persona che piangi; non vorrai, dunque, mantenere a lungo un comportamento inutile.Se si potesse venire a capo di qualche cosa con il tuo pianto, ebbene, io non mi rifiuterei di versare per la tua sventura tutte le lacrime che mi restano dopo la mia: saprò ben trovare, ancora oggi, qualcosa che possa stillare da questi occhi già esausti per il mio pianto, purché ciò possa, in qualche modo, farti bene.[2] Non smettere: piangiamo insieme, anzi, sarò io ad assumermi il compito dell'accusa: Tu, Fortuna, giudicata da tutti quanto mai iniqua, sembravi aver favorito fino a ieri questo uomo che, per tuo dono, era tenuto in tale venerazione che la sua felicità era sfuggita all'invidia, cosa che raramente accade ad un uomo.Tu ora gli hai inflitto il più grande dolore che lo potesse colpire, finché Cesare (4) era in vita.Gli sei girata attorno con grande attenzione ed hai compreso che questa era l'unica parte di lui esposta ai tuoi colpi.[3] Quale altra cosa, infatti, potevi infliggergli? Togliergli il denaro? Non ne è mai stato schiavo; anche ora lo allontana da sé quanto può e, pur avendo ogni possibilità di procurarsene, non ne ricava altro vantaggio che la capacità di disprezzarlo. [4] Gli volevi togliere gli amici? Sapevi che era talmente simpatico, che ne avrebbe facilmente trovati altri da sostituire ai perduti; credo che, tra tutti i potenti che ho conosciuto nella casa imperiale, ci sia solo costui che tutti vogliono amico più per loro soddisfazione che per interesse. [5] Volevi togliergli il buon nome? Il suo è talmento solido che nemmeno tu in persona puoi scalfirlo.Volevi togliergli la salute? Sapevi che la sua formazione spirituale è talmente radicata negli studi umanistici, i quali, per lui, non sono soltanto il frutto di una educazione, ma sono diventati una seconda natura, che egli sa porsi al di sopra di qualunque soflerenza fisica. [6] Volevi togliergli la vita? Che danno inconsistente gli avresti fatto! La fama del suo genio gli ha già accordato l'immortalità: lui stesso ha già procurato la sopravvivenza alla miglior parte di sé e si è già liberato dalla condizione mortale, componendo notissime opere letterarie.Finché le lettere saranno in qualche modo onorate, finché soprawivranno o il vigore della lingua latina o l'eleganza della greca, egli sarà vivo in compagnia dei sommi uomini con il genio dei quali egli si è misurato o, se questo mio dire offende la sua modestia, ai quali egli si è ispirato.nico).[7] Soltanto codesto espediente, dunque, hai potuto escogitare, per nuocergli nel modo più grave possibile.In realtà, quanto più uno è buono, tanto più è abituato a sopportarti: sai infuriare indiscriminatamente e farti temere, anche quando sei più larga di benefici.Ben poca cosa sarebbe stata per te il risparmiare questa ingiuria ad un uomo sul quale il tuo favore pareva essersi orientato a ragion veduta, non esser giunto a casaccio, secondo il tuo solito!

3. [Elogio del defunto e dei fratelli superstiti.] [1] Aggiungiamo, se credi, a questi motivi, il rimpianto per una giovinezza tanto promettente, spezzata nel suo primo sviluppo: egli era davvero degno di averti fratello.Senza dubbio, tu non meritavi, nel modo più assoluto, d'essere angustiato da un fratello indegno; ora tutti sono concordi nel rendere testimonianza alla sua memoria; lo si rimpiange per onorarti, ma lo si loda per i suoi meriti.[2] Nulla c'era in lui che non trovasse la tua piena approvazione.Per parte tua, saresti stato buono anche nei riguardi di un fratello meno buono, ma il tuo affetto per lui poté estrinsecarsi con molto maggiore libertà, perché trovò la giusta corrispondenza.Nessuno s'accorse della sua influenza per averne ricevuto un torto ed egli non pronunciò mai il nome del fratello per minacciare; si era modellato sulla tua discrezione e si rendeva conto che tu, per i tuoi, costituivi insieme un grande motivo d'onore e di responsabilità: egli ne seppe portare il carico.[3] O destino crudele, che mai risponde al merito! Tuo fratello fu stroncato prima di poter fruire della sua felicità.So bene che il mio sdegno è inadeguato, ma nulla è più difllcile che trovare parole capaci di esprimere un grande dolore.Tuttavia ora, se possiamo averne qualche giovamento, lamentiamoci assieme: [4] Che cosa intendevi ottenere, o Fortuna, con la tua ingiustizia e brutalità? Tanto presto ti sei stancata d'essere benigna? Che crudeltà è la tua? Ti getti in mezzo a questi fratelli, intacchi un gruppo così concorde e spargi tanto sangue? Senza alcun motivo, hai voluto turbare e profanare una casa così opportunamente affollata di ottimi giovani, che non vedeva degenere nessun fratello? A nulla giova, dunque, l'innocenza di chi osserva con scrupolo tutte le leggi, a nulla una frugalità d'altri tempi, a nulla il disinteresse, rimasto integro quando il sommo successo ha comportato il sommo potere, a nulla il retto e sincero amore delle lettere, a nulla una mente immune dalle umane debolezze? [5] Polibio piange e, richiamato dalla morte di un fratello al pensiero di ciò che può accadere agli altri, teme anche per i superstiti, invece di trarre da essi conforto al suo dolore! Quale assurdità! Polibio piange: è nel dolore una persona che gode dei favori di Cesare! Certamente hai colto questa occasione, o Fortuna tracotante, per dimostrare che nessuno è al riparo dai tuoi assalti, nemmeno se è difeso da Cesare.

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4. [La vita è tutta una sofferenza, ma non la si deve logorare nel pianto.] [1] Possiamo continuare per un pezzo ad accusare il destino, ma non possiamo cambiarlo: esso rimane, crudele ed inesorabile.Nessuno può commuoverlo con ingiurie, pianti, denunce: non fa grazia di nulla a nessuno, non concede condoni.Ed allora, asteniamoci dalle lacrime che non giovano a nulla: un dolore del genere è più atto a condurci tra i morti che a ricondurre quelli a noi.Se, invece di aiutarci, ci tormenta, dobbiamo desistere al più presto e riscattarci dalla schiavitù degli sfoghi vani e dall'amaro compiacimento del pianto.[2] Ma se non sarà la ragione a porre flne alle nostre lacrime, non lo farà certo il caso.Via, guàrdati attorno, osserva tutti gli uomini; dovunque, i motivi di pianto sono innumerevoli ed incessanti: uno, perché povero, è costretto ad un faticoso lavoro quotidiano, un altro, perché ambizioso, sperimenta il continuo pungolo delle sue ansie, un altro ancora teme per le ricchezze che ha sempre desiderato e trasforma in assillo l'adempimento dei suoi voti questo è tormentato dalla solitudine, quello dal successo, quell'altro dalla ressa che assedia in continuità il suo vestibolo; chi si duole di aver figli e chi di averli perduti.Per noi, finiranno prima le lacrime che i motivi di versarle [3] Non vedi che razza di vita ci ha promesso la na tura, che ha voluto che l'uomo inaugurasse la sua esistenza con un pianto? Così veniamo alla luce, ed i successivi anni di vita sono ben intonati al pianto iniziale.Così viviamo: dobbiamo, dunque, usare moderazione in ciò che faremo tanto spesso; quando osserviamo le molte sventure che si apprestano ad assalirci alle spalle, se non vogliamo porre fine alle lacrime, dobbiamo almeno serbarcene una scorta.E non c'è cosa da tenere in serbo più di questa, se poi dobbiamo usarla con tanta frequenza!

5. [Tuo fratello non può gradire questo tuo pianto.] [1] Quest'altro pensiero potrà esserti di non trascurabile aiuto: l'uomo che meno di tutti gradisce il tuo dolore, è proprio colui al quale sembra dedicato.Egli, infatti, o non vuole che tu ti tormenti, o lo ignora.E non è per nulla ragionevole una prestazione che risulta inutile alla persona cui è indirizzata, perché essa la ignora, oppure non le risulta accetta, se essa ne è a conoscenza.[2] Vorrei dirti francamente che in tutto il mondo non c'è nessuno che provi gioia al vederti piangere.Allora? Vuoi attribuire a tuo fratello quei sentimenti che nessuno nutre nei tuoi confronti, la volontà di nuocerti attraverso il tuo dolore, di tenerti lontano dalle tue occupazioni, dallo studio e dal servizio di Cesare? Non è pensabile.Egli ha sempre nutrito per te affetto di fratello, ma ti ha anche venerato come un padre e rispettato come un superiore.Ora egli vuole, sì, che tu ti senta ferito nell'affetto, ma non tormentato.A che serve dunque consumarsi in un dolore che, se i morti sanno qualcosa di noi, tuo fratello vuol veder finire? [3] Se si trattasse di un altro fratello e non ne conoscessi bene i sentimenti, metterei tutto in dubbio e direi: Tuo fratello, se desidera che tu ti tormenti, piangendo senza fine, è indegno di tanto affetto; ma se egli non lo vuole, poni fine a un dolore che vi tormenta tutti e due: un fratello indegno non merita d'essere rimpianto in questo modo, un fratello buono non può volerlo.Ma su questo tuo fratello, del quale ben conosciamo gli elevati sentimenti, dobbiamo star certi che nulla gli può risultare più penoso del saperti in pena per la sua morte, del pensarsi causa di una tua sofferenza qualunque, d'esser lui a provocare questo pianto senza fine, che conturba e spossa i tuoi occhi, non meritevoli di tanta sventura.[4] Nessun pensiero, però, varrà tanto a distogliere te, così sensibile agli affetti, da codeste lacrime inutili, quanto quello del dovere, che ti incombe, d'esser tu d'esempio ai tuoi fratelli, sopportando con fortezza questa ingiuria della sorte.I grandi condottieri, quando la situazione presenta difficoltà, simulano a bella posta l'ottimismo e nascondono le loro preoccupazioni dietro un'affettata serenità, onde evitare che crolli il morale delle truppe, qualora vedano vacillare quello del loro comandante.Ora tu devi fare altrettanto.[5] Assumi un atteggiamento che dissimuli i tuoi sentimenti, anzi, se riesci, getta da te tutto il dolore o, quanto meno, nascondilo e rinchiudilo nel profondo del cuore: non lasciarlo uscire, fà in modo che i tuoi fratelli ti imitino: essi riconosceranno giusto quanto ti vedono fare ed ispireranno il loro sentire al tuo comportamento esteriore.Per loro, tu devi essere insieme consolazione e consolatore, ma non puoi riuscire ad opporti al loro dolore, se dai sfogo al tuo.

6. [La tua posizione prestigiosa ti impegna ad essere d'esempio a tutti.] [1] C'è anche un dato di fatto che può trattenerti dall'eccedere nel pianto: renditi conto che nessuna tua azione può rimanere nascosta.Tutti sono unanimi nel riconoscerti il ruolo di protagonista: tu devi interpretarlo degnamente.Attorno a te si stringe tutta una ressa di persone che s'associano al tuo dolore, ma che, nello stesso tempo, scandagliano il tuo animo per misurarne la capacità di resistenza e si chiedono se tu sei soltanto un abile coglitore di occasioni favorevoli o se hai anche la forza di sopportare virilmente le avversità; spiano persino il tuo sguardo.[2] Tutto è più libero, per chi può tenere nascosti i suoi sentimenti, ma tu non disponi di una tua intimità: il tuo successo ti ha esposto allo sguardo di tutti.Tutti sapranno come hai reagito a questa ferita, se hai abbassato le armi non appena t'hanno colpito, o sei rimasto in posizione.Da tempo, l'amicizia di Cesare ti ha elevato ad un rango superiore ed i tuoi studi ti hanno reso famoso.Non ti s'addice più nessun comportamento volgare o banale.

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E c'è cosa tanto volgare e femminea, quanto il lasciarsi consumare dal dolore? [3] Colpito dal medesimo lutto, non puoi permetterti ciò che si possono permettere i tuoi fratelli.Tante cose sono incompatibili con la stima che si ha della tua cultura e dei tuoi costumi: da te, gli uomini pretendono molto, aspettano molto.Se volevi che tutto ti fosse permesso, non dovevi proporti all'attenzione di tutti; ora devi dare tanto, quanto hai promesso.Tutti coloro che elogiano le opere del tuo genio, che trascrivono i tuoi componimenti (5), coloro che, pur non avendo bisogno della tua fortuna, hanno bisogno del tuo genio, sono i custodi del tuo animo.Così, non puoi mai fare cosa sconveniente ad un uomo che si professa compìto e dotto, senza che a molti debba rincrescere di averti ammirato.[4] Un pianto smodato non ti è permesso, e non è questa la sola cosa che non puoi fare: non puoi nemmeno prolungare il sonno fino a tardo mattino, o rifugiarti dal tumulto degli affari nella tranquilla quiete della campagna, o ristorare con un viaggio di piacere un fisico sfinito dal continuo accudire a compiti faticosi, o svagarti la mente con questo o quello spettacolo, o disporre la giornata a tuo piacimento.Non hai diritto a tante cose cui hanno invece diritto i più umili, i rintanati nel cantuccio: una grossa fortuna è una grossa schiavitù.[5] Non ti è neppure permesso di sceglierti un'attività qualunque a tuo piacimento: devi ricevere migliaia di uomini, ordinare migliaia di pratiche; devi sbrogliare l'enorme cumulo di faccende che affluiscono costì da tutto il mondo, in modo che possano essere sottoposte nel giusto ordine all'esame del principe supremo.Non ti è permesso, ripeto, piangere: se vuoi dare udienza a tanti che piangono, prenderti a cuore le lacrime di quanti sono in pericolo e desiderano far ricorso alla misericordia del più clemente tra gli imperatori, devi asciugare le tue lacrime.

7. [Quando vuoi dimenticare tutto, pensa a Cesare.] [1] Dopo queste considerazioni, eccoti ora dei rimedi più agevoli.Quando vorrai dimenticare tutto, pensa a Cesare valuta la dedizione e l'operosità che gli devi in cambio della sua benevolenza.Ti renderai conto che non puoi piegarti sotto il peso, come non lo può quel tal personaggio che, se dobbiamo credere ai miti, regge il mondo sulle spalle.[2] Tante cose non sono permesse neppure a Cesare, appunto perché tutto è in suo potere: le sue veglie difendono il sonno di tutti, la sua fatica assicura il riposo a tutti, la sua attività indefessa tutela le nostre ricreazioni, il suo impegno assicura a noi tutti il tempo libero.Cesare, da quando s'è consacrato al mondo, ha rinunciato a se stesso e, come le stelle percorrono le loro orbite senza potersi arrestare, così egli non può mai fermarsi o dedicarsi ad interessi puramente personali.[3] Entro certi limiti, tu sei soggetto ad una legge altrettanto ferrea.Non hai il diritto di dare ascolto a ciò che ti interessa, che risponde alle tue inclinazioni: finché Cesare è padrone del mondo, non puoi concederti né al piacere, né al dolore, né ad alcuna altra cosa; con Cesare, sei in debito di tutto te stesso.[4] E poiché ripeti continuamente che Cesare ti è più caro della tua stessa vita, non ti è lecito lagnarti della tua sorte, finché egli vive.Salvo lui, per te sono salvi tutti i tuoi cari, non hai perduto nulla.Non basta che i tuoi occhi siano asciutti: debbono essere anche lieti.Per te, egli è tutto e tiene il posto di tutto.In contrasto con i tuoi sentimenti, ispirati ad assoluta prudenza e devozione, mancheresti di gratitudine nei confronti della tua fortuna, se ti permettessi di piangere per un qualunque evento, mentre Cesare è in vita.

8. [Riprendi la tua attività letteraria.] [1] Voglio indicarti anche un altro rimedio, certamente non più efficace, ma più consono alle tue abitudini.Proprio nei pochi momenti in cui ti ritirerai in casa tua, sarai ripreso dalla tristezza: infatti, finché rimarrai in presenza del tuo dio, essa non saprà come entrare in te, perché Cesare dominerà ogni tuo sentimento; ma quando te ne allontanerai, il dolore troverà, nella tua solitudine, l'occasione per insidiarti e si insinuerà a poco a poco nel tuo animo.[2] Perciò non devi mai concederti un momento di sospensione dei tuoi studi.Allora le lettere, che tu hai amato con tanta perseveranza e fedeltà, dovranno ricambiarti il tuo amore, allora esse dovranno ricompensare in te il loro sacerdote, il loro adoratore; allora Omero e Virgilio, che sono stati benemeriti dell'umanità, come tu lo sei stato nei riguardi loro e di tutti, e che tu hai voluto rendere noti anche ai popoli per i quali non avevano scritto, dovranno essere tuoi fedeli compagni: non dovrai temere nulla nei momenti che affiderai alla loro protezione.Impiega quel tempo a comporre con ogni cura la storia delle imprese di Cesare, sì che esse siano narrate per l'eternità dalla voce di uno della sua casa; Cesare stesso ti fornirà il materiale ed il modello per comporre e strutturare un capolavoro di storia.[3] Non oso giungere a consigliarti di stendere con l'eleganza che ti è consueta, anche quelle favolette e quei racconti esopici nei quali nessuno scrittore romano si è ancora cimentato: è difficile che una mente, che ha subìto un così duro colpo, possa dedicarsi tanto presto a studi troppo distensivi.Ma se saprà passare dalle composizioni più impegnative a queste, più leggere, vedi in ciò una prova che essa si è già

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irrobustita, ha ripreso il controllo di se stessa.[4] Gli altri componimenti, infatti, vertono su discipline tanto severe, da avvincere la tua mente anche se essa soffre ancora e lotta con se stessa, ma essa non saprà adattarsi a composizioni che non fanno corrugare la fronte, se non sarà già tornata pienamente padrona di sé.Perciò, dapprima dovrai tenerla in esercizio su materie più impegnative, poi distenderla con argomenti più leggeri.

9. [Medita serenamente sulla morte.] [1] Ti sarà di grande sollievo anche il chiederti spesso: Mi dolgo per me o per colui che è morto? Se mi dolgo per me, non posso più vantare bontà d'animo: il dolore, che è ammissibile soltanto se disinteressato, incomincia a non essere più espressione d'affetto al momento in cui si propone un vantaggio, e non c'è cosa più sconveniente ad un uomo per bene, che il fare calcoli sulla morte di un fratello.[2] Se, invece, mi dolgo per lui, debbo necessariamente riconoscere che si verifica una sola di queste due alternative: infatti, o i morti non hanno più conoscenza e, in tal caso, mio fratello è sfuggito a tutti i disagi della vita, è tornato nella condizione in cui era prima di nascere e, immune da ogni male, non teme, non desidera, non soffre nulla.Che pazzia è questa, di non voler io mai smettere di piangere per uno che non soffrirà mai più? [3] Oppure i morti hanno una conoscenza, ed allora l'animo di mio fratello, come liberato da lunga prigionia e divenuto finalmente autonomo e padrone di se stesso, esulta perché gode lo spettacolo della natura, osserva dall'alto tutta la realtà umana ed ha sott'occhio quella divina, di cui aveva invano ricercato a lungo la dinamica recondita.Perché, dunque, macerarmi nel rimpianto di una persona che o è felice, o non esiste affatto? Piangere un essere felice è invidia, piangere un inesistente è demenza. [4] O ti rattristi perché egli è stato privato di grandi beni, al momento in cui maggiormente gli fluivano attorno? Quando ti prenderà il pensiero che le cose perdute da lui sono molte, rifletti che sono più numerose quelle che non teme più.Non lo tormenterà più l'ira, non lo affliggeranno le malattie, non lo esaspererà il sospetto, non lo perseguiterà l'invidia, erosiva e costante nemica dei successi altrui, non lo preoccuperà il timore, non lo inquieterà la fatuità della fortuna che sposta continuamente i suoi favori.Se fai bene i conti, gli è stato accordato più di quanto gli è stato tolto.[5] Sì, non godrà più le ricchezze ed il prestigio tuo insieme e suo, non riceverà e non farà più benefici; ma tu lo reputi misero per aver perduto queste cose, o felice di non averne più bisogno? Credi a me: chi può fare a meno della fortuna è più felice di chi se la trova scodellata in mano.Tutti codesti beni che ci dilettano di voluttà appariscente ma fallace, denaro, cariche, potere e tantissime altre cose che fanno istupidire di cieca cupidigia il genere umano, comportano fatica per l'acquisto, suscitano invidia in chi le vede e finiscono con l'opprimere proprio quelle persone che mettono in bella vista; sono più pericoli che vantaggi, sono sfuggenti ed incerte e non si lasciano trattenere facilmente; anche ammesso che non si prospettino timori per il futuro, comporta preoccupazioni il puro e semplice mantenimento di una grande prosperità.[6] Se vuoi credere a chi sa vedere la verità a fondo, la vita è tutta un supplizio.Gettati su questo mare profondo ed irrequieto, in un continuo fluttuare di marosi che ora ci sollevano ad inattese altezze, ora ci buttano abbasso e ci infliggono perdite superiori al guadagno, continuamente sballottati, non abbiamo mai dove fermarci: siamo sospesi e fluttuanti, sbattiamo l'uno contro l'altro, una volta o l'altra facciamo naufragio, sempre siamo in apprensione.Questo mare, così tempestoso ed aperto a tutte le bufere, nel quale navighiamo, non ha altro porto che la morte.[7] Non invidiare dunque tuo fratello: egli riposa.E" finalmente libero, sicuro, eterno.Dietro di sé, lascia vivi Cesare e tutti i suoi figli, te e gli altri fratelli; prima che la fortuna mutasse qualcosa del suo favore, mentre era ancora al suo fianco e gli largiva a piene mani i suoi doni, egli si è congedato.[8] Ora gode il cielo, aperto e libero.Dal luogo più umile e basso, è balzato in quello, qualunque esso sia, che accoglie nel suo felice seno le anime liberate dalle catene; ora egli vaga libero lassù e contempla con sommo piacere tutti i beni della natura.Sbagli dunque; tuo fratello non ha perduto la luce: ne ha trovato una più limpida.[9] Noi tutti siamo in cammino verso quella meta comune.Perché piangere la sua morte? Non ci ha lasciati: ci ha preceduti.Credimi, è grande felicità morire nel momento in cui si è più felici.Nulla ci è certo, nemmeno per lo spazio di un giorno.Chi può divinare, di fronte ad una verità avviluppata in un velo tanto oscuro, se la morte è stata maligna o benevola con tuo fratello?

10. [Reputa tra i sommi beni l'aver avuto un ottimo fratello.] [1] Tu, che sai ben valutare con giustizia ogni situazione, non puoi non trovare sollievo nel pensiero che, con la perdita di un tale fratello, non ti è stata inflitta un'ingiuria: ti è stato invece concesso a lungo il beneficio di sperimentare e godere il suo affetto.[2] E" iniquo chi non lascia al donatore la disponibilità del dono ricevuto, è avido chi non valuta il vantaggio dell'aver ricevuto, ma soltanto il danno della restituzione.E" ingrato chi chiama ingiuria la fine della felicità, è stolto chi non sa trovar fruttuoso un bene se non ne sta godendo, chi non sa trovar conforto anche nei beni del passato chi non sa giudicare più sicuri i beni del passato, dato che non c'è più da temere che ci vengano meno.[3] Rende troppo angusta la sua felicità colui che crede di poter godere soltanto delle cose che ha e che vede, e non sa

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affatto mettere in conto l'averle avute in passato; di fatto, non c'è voluttà che non ci abbandoni presto: tutte scorrono e passano e ci vengono quasi già sottratte prima che giungano a noi.Bisogna, dunque, indirizzare il pensiero verso il passato, rievocare tutto ciò che, anche occasionalmente, ci ha dilettato e farne oggetto di continua riflessione; i piaceri che ricordiamo sono più duraturi e fedeli di quelli che stiamo godendo.[4] Reputa, dunque, tra i sommi beni l'aver avuto un ottimo fratello.Non devi pensare che l'avresti potuto avere con te più a lungo, ma valutare il tempo in cui l'hai avuto.La natura, come fa sempre.quando concede dei fratelli ai fratelli, non te lo ha dato in proprietà incondizionata; te lo ha prestato e, quando le è parso bene, te ne ha chiesto la restituzione, tenendo conto soltanto della sua legge, non della tua sazietà.[5] Se un debitore è scontento d'aver pagato il suo debito,specialmente se si trattava di un prestito senza interessi, non deve esser giudicato ingiusto? La natura ha dato a tuo fratello la vita ed ha dato lui a te; se ora, esercitando il suo buon diritto, ha chiesto il pagamento del debito a chi ha voluto, non deve essere chiamata in colpa lei, che aveva posto condizioni ben chiare, ma l'avidità dell'animo umano, che dimentica subito che cosa è la natura e non ricorda mai la propria sorte, se non al momento del richiamo.[6] Sii felice, dunque, d'aver avuto un fratello tanto buono e reputa un beneficio l'averne potuto fruire, anche se per un tempo più breve di quanto speravi.Pensa che è cosa bellissima l'averlo avuto, condizione umana l'averlo perduto.Non c'è incoerenza maggiore del commuoversi perché si è goduto per poco tempo di un fratello così, e non riconoscere di averne goduto.

11. [Altre riflessioni sulla provvisorietà della vita.] [1] Ma mi è stato tolto quando meno me lo aspettavo.Ogni uomo si fa ingannare dalle sue illusioni e, nei riguardi delle persone care, si rifiuta di pensare che sono mortali.Eppure, la natura non s'è mai impegnata con nessuno a fare eccezione alla sua legge ineluttabile.Ogni giorno ci passano davanti agli occhi funerali di persone note ed ignote, ma noi pensiamo ad altro e riteniamo improvviso un fatto del quale veniamo continuamente preavvertiti, durante tutta la nostra vita.Non è, dunque, in causa la malvagità del fato, ma la perversione della mente umana che non sa accontentarsi di nulla e si dice offesa di dover lasciare un posto nel quale era stata ammessa in precario.[2] Quanto fu più giusto quel personaggio (6) che, all'annuncio della morte del figlio, pronunciò parole degne di un uomo grande:

Quando lo generai, sapevo ch'era mortale.Non fa certo meraviglia che da un tale uomo sia nato un figlio capace di morire da forte.Quel padre non si mostrò impreparato all'annuncio della morte del figlio; ma che novità è la morte di un uomo, se tutta la vita non è altro che un camminare verso la morte? [3] Quando lo generai, sapevo ch'era mortale.Poi aggiunse, con maggiore sapienza e coraggio:

E per questo l'ho procreato.

Tutti siamo stati messi al mondo per questo: ogni uomo che è generato alla vita, è destinato alla morte.Godiamo di quanto ci è dato, pronti alla restituzione, non appena ci verrà chiesta.Il destino coglierà ora l'uno ora l'altro, ma non tralascerà nessuno.L'animo deve tenersi pronto, senza mai temere l'inevitabile ed attendendo sempre l'imprevisto.[4] Devo elencare i condottieri, i figli dei condottieri, i personaggi famosi per i molti consolati o i molti trionfi, stroncati dall'inesorabile destino? Interi regni con i loro re, interi Stati con le loro popolazioni hanno subìto la sorte loro segnata.Tutti gli uomini, anzi, tutti gli esseri, sono volti ad un ultimo giorno.Certo, la scadenza non è la medesima per tutti: la vita lascia alcuni a metà corsa, abbandona altri proprio all'inizio, e stenta a liberare altri, già stremati da decrepita vecchiezza e desiderosi di andarsene.Chi in un tempo, chi in un altro, tutti tendiamo al medesimo traguardo.Non saprei dire se è più stolto chi ignora la legge della morte, o più impudente chi la rifiuta.[5] Suvvia, riprendi in mano i celebri poemi dell'uno o dell'altro dei due autori (7) che le tue operose e geniali elaborazioni hanno resi più noti.Li hai riscritti in prosa e ne hai saputo conservare intatta la freschezza, anche facendo a meno della versificazione.Sì, traducendoli dall'una all'altra lingua, hai trasferito nella nuova stesura (ed era questa la difficoltà maggiore) tutti i pregi dell'originale.In quegli scritti, non troverai un solo libro che non ti fornisca infiniti esempi delle varie vicende umane, di eventi imprevisti, di lacrime versate per le cause più diverse.[6] Rivivi tutto lo slancio che ha ispirato quelle tue sublimi espressioni: proverai vergogna di codesto tuo improvviso venir meno, di codesta tua incoerenza con la nobiltà della tua prosa.Non costringere tutti coloro che ammireranno a dismisura i tuoi scritti, a chiedersi come abbia potuto concepire espressioni di tanta grandiosità e fortezza un animo tanto nobile.

12. [Pensa ai tuoi cari e, soprattutto, all'imperatore.] [1] Anzi, metti da parte codesti pensieri tormentosi e volgiti alle realtà consolanti: sono tante e tanto significative.

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Guarda ai tuoi ottimi fratelli, a tua moglie, a tuo figlio.La fortuna ti ha accordato la loro totale incolumità in cambio di ciò che ti ha tolto; puoi trovar sollievo in molti.Non screditare te stesso, facendo credere a tutti noi che, per te, un dolore solo vale più di tutti codesti conforti.[2] Tutti costoro, lo sai, sono stati colpiti insieme con te e non sono in grado di porgerti aiuto, anzi, e te ne rendi conto, quanto meno essi dispongono di cultura e di intelligenza, tanto maggiore è la necessità che sia tu ad opporti alla comune disgrazia. ~ già un conforto il condividere con molti il proprio dolore: appunto perché è distribuito tra molti, deve essere piccola la parte che grava su di te.[3] Io non cesserò mai di ricordarti Cesare.Finché egli continuerà a governare il mondo ed a dimostrare quanto i benefici contribuiscano più delle armi a mantenere uno Stato, finché egli continuerà a presiedere alle attività degli uomini, non c'è il pericolo che tu t'accorga di aver perduto qualche cosa.In lui solo, troverai la sufficiente difesa, il sufficiente conforto.Risollèvati, ed ogni volta che ti sentirai salire le lacrime agli occhi, volgili a Cesare.Si asciugheranno alla vista di quel sommo e potentissimo nume; il suo splendore li abbacinerà talmente che non potranno vedere altro e li terrà avvinti a sé.[4] A lui, che vedi giorno e notte e dal quale non distogli mai la tua attenzione, devi pensare; devi chiedere a lui il soccorso contro la sorte.Sono certo che, clemente e benigno com'è verso tutti coloro che gli sono vicini, ha già medicato in mille modi la tua ferita ed ha già moltiplicato gli interventi capaci di opporsi al tuo dolore.Eppoi? Anche se non avesse fatto nulla di tutto ciò, non ti basterebbe vedere per un attimo Cesare, non basterebbe anche il solo pensare a lui, a darti il più completo conforto? [5] Che gli dèi e le dee l'accordino a lungo alla terra! Possa uguagliare le gesta del divino Augusto e superarne gli anni.Finché sarà tra i mortali, non debba accorgersi d'avere dei mortali nella sua casa! Riconosca, dopo lunga prova, l'idoneità del figlio (8) a reggere l'impero romano e possa associarselo nel governo, prima di averlo come successore! Venga tardi e sia noto soltanto ai nostri nipoti il giorno in cui la sua famiglia lo richiamerà al cielo!

13. [Invocazione per l'imperatore.Richiesta di richiamo dall'esilio.] [1] Allontana le mani da lui, o Fortuna e, nei suoi riguardi, non mostrarti potente, se non intervenendo a suo favore.Lascia che egli medichi questa umanità, ammalata e sfinita da tempo, lascia che rialzi e restauri tutto ciò che la forsennata furia del suo predecessore (9) ha abbattuto! Brilli sempre questa stella che brillò su un mondo precipitato nel baratro e sommerso nelle tenebre! [2] Sia il pacificatore della Germania, il conquistatore della Britannia, ripeta i trionfi di suo padre e ne aggiunga dei nuovi! Mi riprometto anch'io d'esserne spettatore, perché conosco la sua clemenza, che tiene il posto d'onore tra le sue virtù.Egli non mi ha abbattuto per non risollevarmi mai più, anzi, non mi ha neppure abbattuto, ma quando, urtato dalla sorte, stavo cadendo, mi ha sorretto, mentre precipitavo e, stendendo la sua mano, strumento della sua divina mitezza, mi ha dolcemente deposto a terra.Invocò per me il senato e non solo mi concesse la vita, ma anche la implorò a mio favore.[3] Ora giudichi, valuti la mia causa come meglio crede; essa sia riconosciuta buona dalla sua giustizia o dichiarata tale dalla sua clemenza.L'innocenza sarà ugualmente un suo dono per me, derivi essa da un suo riconoscimento o da un suo decreto.Intanto, è di grande conforto alle mie miserie, il vedere che la sua misericordia percorre tutta la terra.Proprio da questo angolo, nel quale sono confinato, essa ha dissepolto e riportato alla luce molte persone che giacevano da anni sotto le macerie; non temo d'essere io il solo dimenticato.Egli conosce benissimo il momento in cui deve soccorrere ciascuno; per parte mia, farò in modo che egli non debba arrossire d'arrivare fino a me.[4] Felice la tua clemenza, o Cesare, che permette agli esuli, sotto il tuo principato, di condurre una vita più tranquilla di quella che, pochi anni or sono, sotto Gaio (10), conducevano i principi! Non trepidano, non aspettano la spada di ora in ora, non paventano ogni avvistamento di nave.Sei tu che segni un limite alla crudeltà della loro sorte e li fai confidare in un futuro migliore, tranquilli del presente.E" bene, insomma, che tu sappia che davvero sono giustissimi quei fulmini che vengono venerati anche da chi ne è stato colpito.

14. [L'imperatore Claudio prende la parola: tutti i grandi della storia soffrirono gravi lutti.] [1] O tutto mi inganna, o questo principe, consolazione comune di tutti gli uomini, ha già ristorato il tuo animo ed ha già applicato alla tua gravissima ferita medicamenti più forti di essa.Ti ha già ridato il tuo coraggio, ti ha presentato, con la sua eccezionale memoria (11), tutti gli esempi atti ad indurti a serenità e, con la facondia che gli è consueta, ti ha esposto i precetti di tutti i sapienti.[2] Nessuno, dunque, potrebbe svolgere meglio il compito di parlarti; pronunciate da lui, le parole avranno ben altro peso, come se provenissero da un oracolo; la sua autorità divina fiaccherà tutta la forza del tuo dolore.Immagina dunque che ora egli ti parli così: Non sei il solo uomo che la sorte si è scelto per colpirlo con ingiuria tanto grave: in tutto il mondo, non c'è e non ci fu mai famiglia che non abbia dovuto piangere.Sorvolerò gli esempi del volgo che, per quanto meno significativi, balzano ugualmente agli occhi: ti condurrò davanti ai

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Fasti dello Stato, davanti alla nostra Storia.[3] Vedi tutte queste immagini che gremiscono l'atrio dei Cesari? Non c'è un solo personaggio, tra questi, che non sia noto per qualche grave disgrazia di famiglia; tra questi uomini, che rifulgono ad onore dei secoli, non ce n'è uno che non abbia provato il tormento della scomparsa dei suoi cari o che non sia stato rimpianto dai suoi con profondo dolore.[4] Debbo rievocarti Scipione l'Africano, che ricevette in esilio la notizia della morte del fratello? Lui, quel fratello che era riuscito a strappare il fratello al carcere, non poté strapparlo alla morte.Allora fu chiaro a tutti in qual misura l'affettuosità dell'Africano fosse insofferente delle leggi e della giustizia.Nel medesimo giorno in cui aveva strappato dalle mani del messo il fratello, s'era opposto, da privato cittadino, anche ad un tribuno della plebe (12).Ebbene, quest'uomo fu tanto magnanimo nel piangere il fratello, quanto lo era stato nel difenderlo.[5] Devo raccontare di Scipione l'Emiliano che assistette, quasi contemporaneamente, al trionfo di suo padre (13) ed ai funerali di due suoi fratelli? Ma ancor giovinetto, anzi quasi fanciullo, seppe sopportare l'improvvisa distruzione della sua famiglia, che crollava proprio sul trionfo di Paolo, con la forza che s'addiceva ad un uomo venuto al mondo appunto perché non mancasse uno Scipione alla città di Roma o non le sopravvivesse Cartagine.

15. [Prosegue il discorso di Claudio: i lutti dei Cesari.] [1] Perché ricordare la concordia dei due Luculli (14), spezzata dalla morte? Ed i Pompei (15), ai quali la Fortuna crudele non permise neppure di cadere insieme, nel medesimo crollo? Sesto Pompeo dapprima sopravvisse alla sorella, la cui morte aveva sciolto i vincoli che mantenevano ben salda la pace romana, poi sopravvisse anche all'ottimo fratello, che la Fortuna aveva innalzato appunto per farlo precipitare da un fastigio non minore di quello di suo padre; eppure, dopo questa disgrazia, Sesto Pompeo seppe reggere non soltanto al dolore, ma anche alla guerra.[2] Da ogni parte mi sovvengono esempi innumerevoli di fratelli separati dalla morte, anzi, quasi mai si sono visti due fratelli invecchiare insieme.Mi limiterò agli esempi della nostra casata: penso che nessuno sarà tanto insensato e dissennato da lamentarsi che la Fortuna abbia provocato un lutto a qualcuno, se terrà presente che essa ha preteso lacrime anche dai Cesari.[3] Il divino Augusto perdette la sorella Ottavia (16) che gli era carissima: la natura non dispensò dalla legge del pianto neppure l'uomo che aveva predestinato agli onori divini.Anzi quell'uomo, tormentato da tutte le perdite possibili, si vide morire il figlio della sorella destinato a succedergli e, per dirla in breve e non ricordare i suoi lutti ad uno ad uno, perdette generi, figli e nipoti: tra tutti i mortali, nessuno più di lui dovette sperimentare di essere uomo, finché rimase tra gli uomini.Eppure quel cuore, che sapeva ben dominare ogni evento, sopportò tutti quei gravi lutti; il divino Augusto riportò vittoria non soltanto sui popoli stranieri, ma anche sul dolore.[4] Gaio Cesare (17), nipote del divino Augusto, cioè del mio prozio materno, nei primi anni della sua giovinezza perse il carissimo fratello Lucio: il principe della gioventù perdeva un altro principe della gioventù, nel momento in cui s'apprestava alla guerra contro i Parti e ne riportava nell'animo una ferita più profonda di quella che più tardi, gli trafisse il corpo; ma seppe sopportare i due colpi con uguale serenità e forza.[5] Tiberio Cesare, mio zio paterno, vide morire tra le sue braccia ed i suoi baci mio padre, Druso Germanico, suo fratello minore, mentre stava penetrando nelle terre più riposte della Germania ed assoggettando al dominio romano il più feroce di tutti i popoli.Ma seppe imporre compostezza al pianto suo ed altrui, riportò l'intero esercito che, non solo addolorato ma anche stordito, reclamava il corpo del suo Druso, alla tradizionale compostezza del pianto romano.Poiché pensava che ci si deve attenere a disciplina non soltanto nel servizio militare, ma anche nel pianto.Ma non avrebbe potuto frenare il pianto altrui, se prima non avesse soffocato il proprio.

16. [Conclusione del discorso di Claudio: i lutti di M. Antonio e di Claudio.Altra esortazione a Polibio.] [1] Mio nonno, Marco Antonio, che non fu da meno di nessun altro, eccettuato colui che lo vinse, al tempo in cui rassettava lo Stato e, con potere di triumviro, non vedeva alcuna autorità superiore alla sua giacché, a parte i due colleghi, tutti gli erano sottomessi, ebbe notizia che suo fratello era stato messo a morte.[2] Fortuna prepotente, come ti fai gioco delle sciagure umane! Proprio mentre Marco Antonio sedeva arbitro di vita e di morte per i suoi concittadini, veniva ordinata l'esecuzione capitale del fratello di Marco Antonio! (19) Eppure Marco Antonio sopportò questa ferita dolorosissima con la medesima magnanimità con cui aveva sopportato tutte le altre disgrazie: per lui, il pianto consistette nel vendicare la morte del fratello con il sangue di venti legioni (20).[3] Ma non intendo ricordare tutti i rimanenti esempi e tacerò degli altri lutti che mi hanno colpito personalmente: la Fortuna mi ha attaccato due volte, facendo morire un mio fratello; e due volte ha capito che io potevo restare ferito, ma non essere sconfitto.Ho perduto mio fratello Germanico (21).Quanto lo amassi, lo comprenderà senza dubbio chiunque rifletta sull'intensità dell'amore che i fratelli pii nutrono verso i loro fratelli; eppure controllai il mio dolore al punto di non trascurare nessuno dei doveri inerenti ad un buon fratello e di non far nulla che potesse risultare sconveniente in un principe. [4] Immagina che il padre della patria ti rammenti questi esempi e che sia lui a mostrarti che nulla è sacro ed inviolabile per una fortuna che osa far uscire funerali da quella casa donde è suo dovere trarre degli dèi.Nessuno stupisca, dunque, se essa compie azioni crudeli o inique: è forse in grado di rispettare equità e misura con le famiglie private, se la sua crudeltà implacabile ha portato la morte addirittura nei santuari? [5] Copriamola pure di

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ingiurie, e non soltanto a voci singole, ma anche tutti assieme: non cambierà per questo, anzi, ogni supplica ed ogni lamento la renderanno più baldanzosa.Così è sempre stata e sempre sarà la fortuna nelle umane vicende; per essa non esiste l'inosabile e non esisterà mai l'intoccabile; passerà con smisurata violenza attraverso tutto, come ha sempre fatto; oserà entrare, per ingiuriarle, anche in quelle case alle quali s'accede attraverso templi ed addobberà a lutto porte fregiate d'alloro (22). [6] Con pubblici voti e preghiere, cerchiamo d'ottenere da lei almeno questo, se non ha ancora deciso di distruggere definitivamente l'umanità e veglia ancora propizia sul nome romano: che questo principe, donato ad una umanità in sfacelo, le sia sacro quanto lo è a tutti gli uomini! Impari da lui la clemenza e sia mite con il più mite di tutti i principi.

17. [Ancora un'esortazione a Polibio.Divagazione sulla crudeltà di Caligola, insensibile ai lutti.] [1] E" davvero necessario che tu osservi attentamente tutti coloro che ti ho ricordati e che sono dèi o vicinissimi agli dèi, e che sopporti con equanimità una sorte che stende la mano su di te, ma non la trattiene nemmeno da coloro sui quali giuriamo.Devi imitare la loro fermezza nel sopportare e vincere il dolore, fin dove è lecito ad un uomo seguire le orme degli dèi.[2] Anche se, in altri campi, la dignità e la nobiltà segnano grandi differenze, la virtù rimane a disposizione di tutti e non sdegna nessuno, purché ci si voglia ritenere degni di lei.Saprai certamente imitare alla perfezione codesti personaggi che, pur potendosi dir sdegnati di non essere esenti da mali di questa fatta, non giudicano ingiuria, ma legge della condizione mortale, il vedersi uguagliati agli altri uomini in questo solo punto e sopportano quanto accade, senza eccedere né in ira e sdegno, né in condiscendenza e femminea debolezza.Non è da uomo non soffrire dei propri mali, ma non è virile il non saperli sopportare.[3] Tuttavia, dopo aver ricordato tutti gli imperatori ai quali la sventura ha tolto fratelli e sorelle, non posso passare sotto silenzio colui che dovrebbe essere radiato dall'albo degli imperatori (23), colui che la natura ha messo al mondo per la rovina e la vergogna dell'umanità e che ha incendiato e distrutto dalle fondamenta l'impero, ora ricostruito dalla clemenza del più mite tra i principi.[4] Gaio Cesare perdette la sorella Drusilla.Da uomo quale era, incapace tanto di soffrire quanto di godere con dignità di principe, si sottrasse alla convivenza ed ai rapporti con i suoi concittadini, non partecipò alle esequie della sorella e non le prestò gli estremi onori.Si consolava dalla sofferenza di un sì acerbo lutto nella sua villa di Alba, giocando a dadi ed a scacchi o con altre simili occupazioni.Vergogna per l'impero! I dadi consolarono un principe di Roma, afflitto per la morte della sorella.[5] Sempre quel Gaio, con incoerenza di pazzo, ora si lasciava crescere barba e capelli, ora vagava senza meta lungo le coste dell'Italia e della Sicilia e, sempre indeciso se tributare alla sorella pianto od onori divini, proprio mentre le faceva innalzare templi e santuari, condannava alla più crudele delle pene chi non si fosse dimostrato abbastanza mesto.Era tanto incoerente nel sopportare i colpi dell'avversità, quanto smisurato e disumano nel gonfiarsi d'entusiasmo per gli eventi prosperi.[6] Nessun uomo romano segua questo esempio, dimenticando i propri lutti in indegni divertimenti, o esasperandoli con le brutture della sporcizia e trascuratezza, o dilettandosi del male altrui, il più disumano dei conforti.

18. [Tu saprai sopportare con dignità.Ultimi consigli e conclusione.] [1] Ma tu non hai bisogno di mutar nulla delle tue abitudini, perché ti sei dedicato con amore a quegli studi che conferiscono gran pregio alla felicità e possono facilmente alleviare il dolore; per l'uomo, essi sono estremamente prestigiosi e confortanti.Immergiti dunque ora con ogni ardore nei tuoi studi, ergili come barriera attorno al tuo animo, sicché il dolore non trovi accesso da nessuna parte.[2] Inoltre, rendi eterna la memoria di tuo fratello, consacrandole un tuo scritto: tra le opere che l'uomo sa fare, questa è la sola immune dalle ingiurie del tempo e capace di sfidare gli anni.Tutte le altre, costruite sovrapponendo pietre o blocchi di marmo o innalzando altissimi tumuli di terra, non ci danno una durevole notorietà, perché crollano da sé; invece, la memoria che prende vita dal genio è immortale.Questa tu devi donare a tuo fratello, in questa devi deporlo: sarà sempre meglio consacrarlo con genio eterno che piangerlo con vano dolore.[3] Per quanto riguarda la fortuna, non è possibile ora prendere le sue difese davanti a te, poiché tutti i doni, che essa ci ha fatti, ci diventano odiosi dal momento stesso che ne viene tolto uno; ma il discorso dovrà pur farsi, non appena il tempo avrà reso più equanime il tuo giudizio; allora potrai anche riconciliarti con essa.In realtà, essa ha predisposto molte attenuanti di questa sua ingiuria e, in seguito, ti pagherà più di un riscatto; infine, anche la cosa che ti ha tolta era un suo dono.[4] Non usare dunque del tuo genio a tuo danno, non rafforzare il tuo dolore.La tua eloquenza sa presentare come grandi le cose piccole e ridimensionare le grandi, rendendole insignificanti, ma codeste sue forze debbono essere riservate per altri scopi; ora essa deve puntare esclusivamente sulla tua consolazione.Bada, tuttavia, che ciò non sconfini nel superfluo: la natura esige da noi un certo impegno, ma il di più lo si accumula per la vanità.[5] Io non pretenderò mai che tu ti neghi al pianto.So bene che esistono uomini, la cui sapienza è più improntata a severità che a fortezza, secondo i quali il sapiente non

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deve mai piangere.Non credo che costoro abbiano mai affrontato un'esperienza quale la tua: in tal caso, la sciagura li avrebbe spogliati della loro presuntuosa sapienza e costretti a confessare la verità, anche contro voglia.[6] La ragione adempie bene il suo compito, se elimina dal dolore soltanto il superfluo, l'eccessivo, ma non si può né sperare né desiderare che non gli permetta affatto d'esistere.Deve invece attenersi a questa giusta regola: non trasformarlo né in empietà, né in dissennatezza e suggerirci un contegno che esprima un animo sensibile all'affetto, ma non sconvolto.Scorrano pure le lacrime, ma sappiano anche fermarsi: escano dal cuore i ripetuti gemiti, ma sappiano anche finire: controlla i tuoi sentimenti, in modo da farti apprezzare dai sapienti e dai tuoi fratelli.[7] Proponiti di rievocare spesso il ricordo di tuo fratello, di nominarlo nei tuoi discorsi, di fartelo rivivere innanzi con frequenti commemorazioni: potrai riuscirci, se ti renderai dolce, non triste, il suo ricordo; per naturale istinto, l'animo rifugge sempre da quelle cose alle quali non può tornare senza tristezza.[8] Ripensa alla sua modestia, alla sua solerzia nell'impostare gliaffari, alla sua prontezza nello sbrigarli, alla sua fedeltà alle promesse.Racconta agli altri tutte le sue parole e le sue azioni: così le rievocherai anche a te stesso.Pensa quale uomo è stato e quali speranze dava.Con un fratello come lui, di quale cosa non ti potevi fare sicuro garante? [9] Questo scritto l'ho composto come ne sono stato capace, con mente intorpidita ed indebolita dalla lunga inazione.Se ti parrà che esso non sia degno del tuo genio o non basti a rimediare al tuo dolore, pensa quanto è inetto a consolare gli altri chi è prigioniero dei suoi mali, pensa con quanta difficoltà sovvengono le espressioni latine ad un uomo attorno al quale strepita un rozzo parlare di barbari, insopportabile anche per quei barbari che hanno un minimo di istruzione.

NOTE.Nota 1.Il soggetto mancante è: i monumenti eretti dalla mano dell'uomo. Nota 2.Gli antichi discutevano volentieri sui monumenti più recenti, degni di superare "le sette meraviglie del mondo", cioè: le mura di Babilonia, il tempio di Diana in Efeso, la statua crisoelefantina di Giove Olimpio, le piramidi d'Egitto, il sepolcro di Mausolo, il colosso di Rodi e la reggia di Ciro, le cui pietre erano collegate tra loro da zanche d'oro.Nota 3.Distrutte rispettivamente nel 146 avanti Cristo ("Cartagine") da Scipione Emiliano, nel 133 avanti Cristo ("Numanzia"), sempre da Scipione (cfr. "Const." 6,7) e nel 146 avanti Cristo ("Corinto") dal console Lucio Mummio.Nota 4. "L'imperatore Claudio" ("Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico").Nota 5.La trascrizione dell'opera era la più evidente manifestazione di apprezzamento.Nota 6.Telamone, il padre di Aiace.I due emistichi sono di Ennio, "Scen." 312 Vah(3).Nota 7.Omero e Virgilio (cfr. 8,2).Nota 8.Britannico, nato da Messalina.Di fatto, nel 50, Claudio adotterà Domizio (Nerone) nato dalle precedenti nozze di Agrippina; Britannico morirà avvelenato nel 55 (Tac., "Ann." 12,25; 13,16).Nota 9.Caligola.Nota 10.Caligola.Nota 11.Motivo d'orgoglio per tutti gli antichi, la "memoria" era il vanto degli storici.Claudio, ancor giovinetto, era stato esortato a scrivere storie da Tito Livio.Aveva composto una storia d'Augusto (Sveton., "Claud." 41).Nota 12.Il particolare non è esatto.Sulle vicende processuali del questore Lucio Scipione Asiatico, fratello dell'Africano, non abbiamo notizie concordi.La versione di Seneca, che diverge da quella di Livio, 38,56 e di Aulo Gellio ("Noct." 6,19) attribuisce all'Africano una zuffa per liberare il fratello e fa premorire l'Asiatico all'Africano.Nota 13.L'esempio è già citato in "Mare." 13,3.Nota 14. "Lucio Licinio Lucullo" ed il fratello "Marco", che trionfarono insieme nel 79 avanti Cristo, per vittorie diverse.Nota 15. "Gneo Pompeo Magno", figlio del triumviro, morì a Munda, in Spagna, nel 45; su "Sesto Pompeo", cfr. nota 9 a "Brev." 5,2.

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Il riferimento alla morte di Pompea, figlia di Pompeo, è probabilmente errato.Pompea sposò Cesare, ma fu da lui accusata d'adulterio e ripudiata.Seneca pensava invece alla figlia di Cesare e moglie di Pompeo, che è ricordata in "Mare." 14,3.Nota 16.Cfr. nota 3 a "Mare." 2.Il "figlio della sorella", di cui si fa cenno poco sotto, è appunto Marcello.Nota 17. "Gaio Cesare": figlio di Giulia e di Agrippa.Il titolo di "principe della gioventù", conferito da Augusto ai due fratelli (Tac., "Ann." 1,3), fu poi riservato ai giovani della famiglia imperiale.Gaio e Lucio furono anche preconizzati consoli e ritenuti, dopo la morte di Marcello, candidati alla successione.Nota 18. "Druso Germanico": il figlio di Livia (cfr. "Mare." 3), amatissimo fratello di Tiberio, il futuro imperatore.Nota 19. "Gaio Antonio", fratello di Marco, fu assediato in Apollonia, catturato e messo a morte nel 43 avanti Cristo, per ordine di Bruto.Nota 20.Nella battaglia di Filippi, nella quale furono distrutte le diciannove legioni di Bruto e Cassio.Nota 21. "Giulio Cesare Germanico", figlio di Druso Germanico.Morì nel 19 dopo Cristo, avvelenato, secondo una versione di Tacito oggi messa in dubbio, per ordine di Tiberio (Tac., "Ann." 3,10-18).Nota 22.Le "porte" della casa imperiale.Nota 23.Allusione alla "damnatio memoriae", che comportava la cancellatura del nome dell'indegno dalle epigrafi e dai monumenti.Caligola ("Gaio Cesare") fu il primo ad esserne colpito: Seneca si limita ad auspicarla.