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1 “…. dove i capi hanno il loro potere in forza della ricchezza, siano essi pochi o molti, ivi si ha l’oligarchia…” Aristotele – Politica- Libro III, 8, 1280a” “La stessa regola autodistruttiva del calcolo finanziario governa ogni altro aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Probabilmente saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo” J.M. Keynes – Conferenza del 1933 a Dublino “alla gente comune non è mai stato chiesto se fosse disposta a giocarsi il lavoro, i risparmi ed il reddito nel grande casinò del capitalismo globale” da Il denaro impazzito – 1998 di Susan Strange “…negli ultimi tre decenni l’etica degli affari si è sviluppata fino a diventare una disciplina autonoma: il giro che le è cresciuto intorno… fa sorgere il dubbio che la sua formulazione originaria vada capovolta, e che si debba ormai parlare di un affare dell’etica”. da “Il conflitto epidemico” 2003 di Guido Rossi Roberto Bartoli La crisi economica ancora in corso: un evento imprevisto ma anche imprevedibile? A chi vengono fatte pagare le conseguenze? La domanda cruciale: perché nessuno si è accorto della crisi che stava per arrivare? Le citazione riportate sopra servono a segnalare fin da ora quelle che a me sembrano essere le denotazioni peculiari e strutturali dell’attuale economia capitalistica “globalizzata” e cioè, da un lato la formazione di una Transnational Capitalist Class1 , quale vera e propria oligarchia mondiale di pochi milioni di individui che detiene il potere economico-finanziario in scala globale, e, dall’altro, l’iperfinanziarizzazione che contrassegna l’accumulazione capitalistica nella fase storica che è partita negli ultimi decenni del ‘900. Mi limito al momento a questo breve richiamo perché su questi aspetti tornerò più avanti. Quello su cui intendo soffermarmi ora è lo scoppio della crisi che colpisce l’economia capitalistica “globalizzata” a partire dall’estate del 2007 e che tuttora non accenna a sparire. Assistiamo anzi ad una sua evoluzione che ci delinea un processo di lungo corso, piuttosto che un andamento ciclico, congiunturale, come piacerebbe farci credere ai cultori della teoria economica “ortodossa”. Ritengo, perciò, opportuno adottare un approccio critico, se non altro per sfuggire alle semplificazioni forniteci in proposito dal pensiero “ufficiale”, dal “mainstream” che, come vedremo, sono andate sistematicamente incontro alle smentite dei fatti. Partiamo, allora, subito da un primo interrogativo che è quello presentato esemplarmente dalla Regina Elisabetta II nel novembre del 2008 agli economisti, di fama e prestigio mondiali, della London School of Economics, riuniti a Londra in assemblea. Chiedeva la Regina: “Perché nessuno se n’è accorto? Se queste [cioè 1 La definizione è di un sociologo della London School of Economics, L. Sklair, nel libro “The Transnational Capitalist Class” – Blackwell, Oxford 2001. Luciano Gallino – vedi il suo testo “Con i soldi degli altri” – Einaudi 2009 valuta che questa oligarchia internazionale sia composta da pochi milioni di individui, strutturata anch’essa in forma piramidale con un vertice ristrettissimo di circa 1100 persone che nel 2007, secondo la lista pubblicata da Forbes, possedevano patrimoni personali compresi fra un miliardo e 60 miliardi di dollari. E’ da notare che, secondo gli ultimi dati sulla distribuzione del reddito e della ricchezza nel mondo, questo vertice oligarchico non è stato toccato dalla crisi, anzi proprio in questi ultimi anni ha visto rafforzata la propria consistenza patrimoniale e si è allargato.

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“…. dove i capi hanno il loro potere in forza della ricchezza, siano essi pochi o molti, ivi si ha l’oligarchia…” Aristotele – Politica- Libro III, 8, 1280a” “La stessa regola autodistruttiva del calcolo finanziario governa ogni altro aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Probabilmente saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo” J.M. Keynes – Conferenza del 1933 a Dublino “alla gente comune non è mai stato chiesto se fosse disposta a giocarsi il lavoro, i risparmi ed il reddito nel grande casinò del capitalismo globale” da Il denaro impazzito – 1998 di Susan Strange “…negli ultimi tre decenni l’etica degli affari si è sviluppata fino a diventare una disciplina autonoma: il giro che le è cresciuto intorno… fa sorgere il dubbio che la sua formulazione originaria vada capovolta, e che si debba ormai parlare di un affare dell’etica”. da “Il conflitto epidemico” 2003 di Guido Rossi

Roberto Bartoli

La crisi economica ancora in corso: un evento imprevisto ma anche imprevedibile? A chi vengono fatte pagare le conseguenze? La domanda cruciale: perché nessuno si è accorto della crisi che stava per arrivare?

Le citazione riportate sopra servono a segnalare fin da ora quelle che a me sembrano essere le denotazioni peculiari e strutturali dell’attuale economia capitalistica “globalizzata” e cioè, da un lato la formazione di una “Transnational Capitalist Class”1, quale vera e propria oligarchia mondiale di pochi milioni di individui che detiene il potere economico-finanziario in scala globale, e, dall’altro, l’iperfinanziarizzazione che contrassegna l’accumulazione capitalistica nella fase storica che è partita negli ultimi decenni del ‘900. Mi limito al momento a questo breve richiamo perché su questi aspetti tornerò più avanti. Quello su cui intendo soffermarmi ora è lo scoppio della crisi che colpisce l’economia capitalistica “globalizzata” a partire dall’estate del 2007 e che tuttora non accenna a sparire. Assistiamo anzi ad una sua evoluzione che ci delinea un processo di lungo corso, piuttosto che un andamento ciclico, congiunturale, come piacerebbe farci credere ai cultori della teoria economica “ortodossa”. Ritengo, perciò, opportuno adottare un approccio critico, se non altro per sfuggire alle semplificazioni forniteci in proposito dal pensiero “ufficiale”, dal “mainstream” che, come vedremo, sono andate sistematicamente incontro alle smentite dei fatti.

Partiamo, allora, subito da un primo interrogativo che è quello presentato esemplarmente dalla Regina Elisabetta II nel novembre del 2008 agli economisti, di fama e prestigio mondiali, della London School of Economics, riuniti a Londra in assemblea. Chiedeva la Regina: “Perché nessuno se n’è accorto? Se queste [cioè

1 La definizione è di un sociologo della London School of Economics, L. Sklair, nel libro “The Transnational Capitalist Class” – Blackwell, Oxford 2001. Luciano Gallino – vedi il suo testo “Con i soldi degli altri” – Einaudi 2009 valuta che questa oligarchia internazionale sia composta da pochi milioni di individui, strutturata anch’essa in forma piramidale con un vertice ristrettissimo di circa 1100 persone che nel 2007, secondo la lista pubblicata da Forbes, possedevano patrimoni personali compresi fra un miliardo e 60 miliardi di dollari. E’ da notare che, secondo gli ultimi dati sulla distribuzione del reddito e della ricchezza nel mondo, questo vertice oligarchico non è stato toccato dalla crisi, anzi proprio in questi ultimi anni ha visto rafforzata la propria consistenza patrimoniale e si è allargato.

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le speculazioni finanziarie] erano tanto grosse com’è che tutti le hanno trascurate? E’ orribile”. Da quello che mi consta una risposta chiara e convincente non è stata ancora fornita. Forse perché davvero l’arrivo della crisi è stato un evento non solo imprevisto, ma soprattutto imprevedibile, in quanto scaturito dall’irruzione di un agente turbativo esterno dentro il meccanismo di un sistema economico perfettamente ordinato, tendente di per sé ad uno sviluppo equilibrato entro un quadro di stabilità strutturale e di efficienza? A dire il vero qualcuno aveva annunciato che la situazione economica che si era andata delineando dal 2002-2003 in poi conteneva in sé elementi che prima o poi avrebbero interrotto la crescita allora tanto esaltata, e portato alla crisi.

Già nel 2003, Guido Rossi scriveva che “La società internazionale e i suoi mercati…sembrano ostaggio di meccanismi ormai sfuggiti ad ogni controllo che potrebbero portarli, di qui a breve, a un’implosione senza precedenti” 2. Ma anche sulla stampa economica quotidiana e periodica, di tanto in tanto, apparivano avvertimenti preoccupanti. Ad esempio sull’Economist del 2 dicembre 2006 in un articolo era possibile leggere i seguenti passaggi:”La globalizzazione ha gettato nell’economia internazionale la forza lavoro cinese ed indiana con la conseguente compressione dei costi del lavoro. Questo ha permesso che l’economia ed i profitti crescessero, senza la spirale salari-prezzi che aveva caratterizzato gli anni Settanta”. Tuttavia, secondo l’articolista “la ragione degli alti profitti in America dobbiamo cercarle in casa piuttosto che a Shangai: le entrate delle società sono determinate dall’andamento della spesa dei consumatori; i loro costi sono determinati in larga misura dai salari. I profitti sono cresciuti perché gli americani hanno preso a prestito denaro per spenderlo, più di quanto erano i loro guadagni. Questo non può continuare per sempre”. Ma anche sulla nostra stampa, fino dal 2005, sono apparsi articoli ed interviste in cui venivano espressi motivi di incertezza sul futuro dell’economia. Richiamo in nota per brevità alcuni titoli3. Ma nell’accecante euforia di quegli anni ruggenti, quegli ammonimenti sono rimasti inascoltati sia da parte degli esponenti di spicco del pensiero economico dominante, sia dei governatori delle banche centrali a cui era stata ormai consegnata la politica monetaria, sia dei governi e delle classi politiche.

A sottolineare la sottovalutazione degli aspetti critici segnalati nelle citazioni riportate sopra ed in nota, che prevalentemente seguivano la cronaca quotidiana dell’andamento economico statunitense e globale, ci sono altre osservazioni di fondo che avrebbero dovuto essere oggetto di attenzione in una visione prospettica più ampia e dal respiro storico. Perché, di fatto, la crisi ha sempre accompagnato il processo della globalizzazione, fino dagli anni Ottanta a cominciare dal crollo del Messico nel 1982. Ma senza andare così lontano, per limitarci agli anni Novanta, basta elencare la successione degli eventi che hanno caratterizzato quel decennio e l’inizio del XXI

2 G. Rossi – Il conflitto epidemico – Adelphi 2003 pag.142 3 E. Occorsio – Intervista a Stefan Roach, capo economista della Morgan Stanley, secondo il quale la crescita di Wall Street avviene “ad un ritmo che però non è sostenibile” (Affari e Finanza di Repubblica del 30 maggio 2005); F.Arcucci, sempre su Affari e Finanza del 21 novembre 2005, avverte che “bisogna evitare il rischio di una deflazione mondiale”; su Repubblica del 2 gennaio 2006; J. Stiglitz, dopo aver notato che “il formidabile consumatore americano…ha contribuito a sostenere la crescita economica globale” consumando addirittura al di sopra del proprio livello di reddito, scrive che ciò “non è sostenibile per sempre e questo nel 2006 creerà maggiori rischi per l’economia degli stati Uniti e l’economia globale”, intervistato da E. Occorsio, su Affari e Finanza del 27 febbraio 2006, R. Rauch, capo economista dell’Ubs, osserva che “il pilastro della crescita [ossia i consumi americani] ora è più debole”. In ogni caso rimane ottimista perché a suo parere non esiste lo spettro della recessione globale; il 2 marzo 2006 in un articolo de Il Sole 24 Ore, si dice che la bolla immobiliare Usa si sgonfia e che “un milione di famiglie americane rischia di perdere la casa”; Il Corriereconomia dell’11 settembre 2006 riporta l’opinione di N. Roubini secondo il quale stanno venendo meno le condizioni della grande crescita con la conseguenza che “i meccanismi della globalizzazione si sono inceppati”, tanto che E. Occorsio su Affari e Finanza nella stessa data segnala che c’è rischio di recessione per la gelata nei consumi Usa, con la caduta del mercato immobiliare che “ha azzerato la possibilità di indebitarsi con il «refinancing»”. Con l’arrivo del 2007 i segnali di allarme continuano. Su Affari e Finanza del 16 aprile, dopo avere annotato che “L’America si ferma, gli utili non crescono più”, si mantiene tuttavia una visione ottimistica perché se entra in crisi il consumatore americano, si pensa che la crescita di altre economie lo sostituirà. Tuttavia sullo stesso giornale, in data 14 maggio, F. Arcucci mette in rilievo che ormai la grande inflazione creditizia è “probabilmente nelle fasi finali”, con la sua trasformazione in “deflazione creditizia”, dato il livello dei debiti troppo alto, [ovviamente quelli privati che hanno sostenuto i consumi], con la conseguenza di prospettare una implosione economica più vasta. Arcucci osserva, comunque, che gli economisti che appartengono alla sua corrente di pensiero, sono in verità molto pochi. Gli economisti che contano, quelli che dalle loro prestigiose cattedre, riviste, mezzi di informazione televisivi e giornalistici, dettano le coordinate del pensiero economico dominante, si mantengono al contrario fedeli all’idea della sostanziale stabilità quale contrassegno dell’economia “globalizzata”.

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secolo. Di nuovo entrava in crisi il Messico, fine dicembre 1994-gennaio 1995, cui faceva seguito prima la grande crisi asiatica del 1997 con il crollo delle famose e tanto esaltate “tigri asiatiche”, e successivamente, nel 1998, quella russa e brasiliana, per giungere infine agli inizi del 2000 alla crisi della cosiddetta “new economy” legata alla rivoluzione informatica, che vedeva la caduta precipitosa delle borse mondiali, con Wall Street in prima linea. Sembra, insomma, che il virus della crisi abbia attraversato tutto il mondo periferico, per andare infine a colpire il centro dell’economia globale, cioè gli Stati Uniti d’America, con rimbalzo poi in scala mondiale. A questo breve inventario c’è, infine, da aggiungere la depressione in cui è precipitata l’economia giapponese negli anni Novanta, le cui caratteristiche hanno anticipato quello che poi avverrà con la nuova e più profonda crisi del 2007.

L’economia “globalizzata”in breve sintesi 1- Per comprendere allora i punti di debolezza in cui si annidavano i rischi presenti nel processo dell’economia

“globalizzata” e che poi l’avrebbero condotta al crollo, mi pare opportuno delineare, sia pure per sommi capi, in dimensione estremamente succinta, il processo economico partito dalla crisi degli anni Settanta, che segnava la fine dei cosiddetti “Trenta gloriosi” e della grande crescita dell’immediato secondo dopoguerra guidata dalle politiche keynesiane, od almeno di ispirazione in gran parte keynesiana.

Non intendo in questa sede affrontare la questione delle cause che hanno condotto l’economia capitalistica dei primi decenni del secondo dopoguerra (1945-1973) alla sua conclusione in una stagnazione di grosse proporzioni, in un quadro di alta inflazione, la cosiddetta “stagflazione”, fenomeno del tutto nuovo nel panorama storico del capitalismo giunto ad un elevato grado di sviluppo. Ricordo solo che Milton Friedman, teorico del monetarismo, ne imputava la responsabilità al fatto che i governi occidentali avevano adottato politiche guidate dalla teoria di Keynes, ritenute incapaci di sfuggire nel lungo periodo al riapparire della disoccupazione di massa unita ad una inflazione a due cifre. In tal modo, l’economista inglese finiva sul banco degli imputati, quale ispiratore di politiche sbagliate, adottate senza la necessaria accortezza critica. A dire il vero contro questa accusa già negli anni Settanta si erano levate difese bene argomentate. Rilevante è quella di Hyman P. Minsky, secondo il quale, con particolare riferimento ai governi statunitensi, dichiaratisi tutti keynesiani, dal presidente Johnson, democratico, al presidente Nixon, repubblicano, la politica economica in realtà seguiva piuttosto l’indirizzo della “sintesi neoclassica”, ossia del tentativo teorico di coniugare il pensiero di Keynes con la teoria “ortodossa”, quella dell’equilibrio economico generale, che si discosta sostanzialmente dal nucleo innovativo della rivoluzione keynesiana4. Da parte mia, per rimanere ancora un attimo sull’argomento Keynes, devo rilevare che l’economista inglese ha dato un giudizio tutto sommato positivo del capitalismo, nel senso di considerare la crisi del 1929 l’effetto dell’applicazione di idee ottocentesche, come quelle del “laissez faire” e della “legge degli sbocchi” di Say, valide a suo parere in una economia povera, ma non più adeguate a gestire un’economia ricca, ad elevate potenzialità di reddito, come quella del Novecento. La disoccupazione di massa, ossia “la povertà nell’abbondanza”, ne era l’aspetto più vistoso. In altre parole, Keynes ha ritenuto governabile e gestibile il capitalismo con nuove idee, socialmente più avanzate ed aperte rispetto al liberismo del passato, in grado quindi di raggiungere stabilmente il pieno impiego della mano d’opera e quindi mantenere il sistema su una linea evolutiva, che avrebbe addirittura condotto alla “eutanasia del redditiero”, al superamento del problema economico, “che non è il problema permanente della razza umana“. La conseguenza sarebbe stata quella di far venire meno l’obiettivo della crescita economica a fini accumulativi, di modo che si lavorerà quindici ore alla settimana, con turni di tre ore al giorno, cosicché potremo “portare a perfezione l’arte stessa della vita“ 5.

Di fronte a questo ottimismo keynesiano, tuttavia, già nel 1941, un economista polacco, Michal Kalecki, avvertiva che quando quel risultato, ossia il pieno impiego, sarà raggiunto “il capitale farà sciopero”. Ciò perché,

4 Hyman P: Minsky – Keynes e l’instabilità del capitalismo – del 1975 e pubblicato in Italia da Bollati Boringhier nel 1981 e di nuovo nel 2009. Anche i keynesiani di Cambridge hanno respinto la “sintesi neoclassica” definendola con Joan Robinson “keynesismo bastardo”. In proposito è di grande interesse l’opera di Luigi L. Pasinetti – Keynes e i Keynesiani di Cambridge - Laterza 2010, secondo il quale la ‘rivoluzione’ alla quale Keynes ed i Keynesiani di Cambridge hanno mirato è rimasta incompiuta ed il suo completamento è possibile proprio di fronte alla crisi che stiamo vivendo in questo momento. 5 John Maynard Keynes – Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta - Utet 1971 e Prospettive economiche per i nostri nipoti, in La fine del laiseez faire ed altri scritti economico-politici – Bollati Boringhieri 1991

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egli sosteneva, il capitale nutre una grande avversione “al mantenimento del pieno impiego tramite le spese statali”, giacché “L’istinto di classe dice loro [cioè ai capitalisti] che una continua piena occupazione non è sana dal loro punto di vista, perché la disoccupazione è un elemento di un sistema capitalistico normale”6.

Quest’ultime annotazioni ci riportano alle cause della crisi esplosa nel decennio Settanta del ‘900, che mettevano fine alla grande crescita dei “trenta gloriosi”, contrassegnata appunto dalla piena occupazione, trainata dall’intervento statale nell’economia capitalistica con l’aggiunta di una politica sociale avanzata che, in Europa, aveva creato lo “Stato sociale”, il “ Welfare State”, ossia un sistema di diritti sociali universali, come ad esempio il servizio sanitario nazionale, anche mediante politiche fiscali di ridistribuzione verso il basso. L’insieme di queste condizioni aveva ovviamente rafforzato la posizione del lavoro nei rapporti col capitale. Tuttavia finché la crescita economica, trainata da un alto tasso di produttività consentiva di soddisfare anche l’obiettivo della valorizzazione capitalistica mediante alti profitti, oltre che garantire crescita salariale, non sorsero problemi. Fra capitale e lavoro si era istituito un compromesso sociale, sotto l’etichettatura politica di compromesso socialdemocratico, benché nei vari paesi e momenti fosse gestito anche da altri partiti politici. L’incrinatura di questo equilibrio cominciò a manifestarsi quando, verso la fine degli anni Sessanta, l’istanza capitalistica ad alti profitti entrava in collisione con quella dei lavoratori a partecipare in misura crescente alla spartizione del prodotto netto. Inoltre il passaggio, graduale s’intende, da mercati espansivi a mercati di sostituzione per i beni di consumo durevole, lasciava intravedere un rallentamento nell’espansione economica, precedentemente trainata da una domanda crescente, e questa prospettiva toglieva alle imprese industriali l’interesse non solo ad accrescere, ma semplicemente a mantenere il precedente livello di produzione. Di conseguenza il loro obiettivo divenne quello di riappropriarsi interamente degli aumenti di produttività, che comportava inevitabilmente la riduzione della forza lavoro impiegata. Ne risultò che le condizioni del compromesso capitale/lavoro finirono per andare incontro a tensioni sempre più forti. Di fronte al saggio di profitto che era cominciato a calare, il capitale iniziò il suo sciopero, ossia ridusse gli investimenti, dando avvio all’aumento della disoccupazione che incise da allora in poi negativamente sulla forza contrattuale dei lavoratori. In sostanza, la crisi della fase postbellica dell’economia capitalistica, che esplose negli anni Settanta, ebbe il suo fattore scatenante nella caduta del saggio di profitto e nell’eccesso di potere sociale che, a parere dell’imprenditorialità capitalistica, la classe lavoratrice era riuscita a raggiungere, ritenuto inaccettabile e quindi da smantellare.

2- Quale fu, allora, la mossa strategica messa in atto dagli interessi capitalistici per ripristinare le condizioni

ottimali alla valorizzazione degli investimenti? Naturalmente fu l’attacco sistematico, peraltro ancora non concluso, alle conquiste sociali dei lavoratori occidentali. Lo strumento utilizzato è stata la cosiddetta “globalizzazione dell’economia”, che ha investito non solo il processo economico ma che è anche consistita nell’affermazione ideologica di una determinata linea di pensiero, che qualcuno ha definito “pensiero unico”, ossia l’unica visione della società nel suo complesso, sia sotto l’aspetto economico, sia sotto quello politico ed anche per quel che riguarda l’etica pubblica e privata ed i valori guida della vita individuale e collettiva. A quest’ultimo riguardo possiamo subito far notare la conversione esistenziale, per così dire, dell’«individualismo metodologico» quale principio cardine della dottrina economica neoclassica, ossia della teoria “ortodossa” fino ad oggi dominante, tradotto nell’isolamento atomistico delle persone, manipolate nella loro autocoscienza, ossia nella percezione di sé e quindi nelle pratiche della vita quotidiana di relazione con gli altri individui. Questa consegna del soggetto umano alla solitudine, è avvenuta nel nome di una pseudo-libertà intesa e fatta concretamente introiettare nella coscienza individuale come assenza di vincoli e di regole, e come responsabilizzazione personale nella costruzione del proprio percorso di vita. In breve, la cultura dominante è riuscita a condizionare la formazione dell’opinione pubblica con l’idea che ognuno è esclusivamente responsabile di sé stesso, sarà ciò che da solo riuscirà ad essere, senza poter richiamare alcuna responsabilità di natura sociale per i suoi eventuali fallimenti, imputabili soltanto alla propria incapacità di raggiungere gli obiettivi prefissisi e quindi precipitandolo nella voragine di un profondo senso di colpa. Un tale sistema ha tutte le caratteristiche della società naturale hobbesiana della lotta di tutti contro tutti, nel quale la libertà, è bene sottolinearlo, non il è fine bensì il mezzo, perché il successo personale è sancito dalla misura dell’arricchimento dell’individuo che ripone

6 Queste affermazioni di Kalecki si trovano in un suo articolo riprodotto integralmente in G.R. Feiwell – Riflessioni sulla teoria del ciclo economico e politico di Kalecki, nell’opera collettiva “Conflitto di classe e ciclo economico politico” a cura di G.C. Mazzocchi e A. Scotti – Ed. Vita e pensiero 1980

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così la sua identità nell’essere proprietario, per cui la dimensione quantitativa dei valori economici finisce per costituire la determinazione sociale della sua persona..

Questo rivolgimento antropologico-culturale ha avuto quindi, come si può facilmente capire, l’obiettivo di negare il peso di condizioni oggettive di natura sociale, coinvolgenti ovviamente l’ordinamento economico-sociale e politico della società, sulla vita degli individui, di cui perciò venivano negati, e tutt’ora si negano, i vincoli di dipendenza dalla struttura sociale data. In fondo, a ben guardare, le politiche di ispirazione keynesiana, anche quelle più moderate, affidano allo Stato un ruolo importante e decisivo nel processo economico, proprio perché quest’ultimo lasciato alle sole forze del mercato, è ritenuto non in grado di raggiungere obiettivi sociali, soprattutto la piena occupazione del lavoro. Ciò ovviamente presuppone un’etica pubblica in cui riveste un ruolo centrale il principio di responsabilità collettiva nei confronti dei soggetti colpiti da situazioni di degrado sociale, come la disoccupazione. Ma siccome nelle relazioni col lavoro si voleva ripristinare il potere del capitale, ridotto, come si è detto sopra, proprio per effetto di questa ricostituzione di simmetria quale risultato delle politiche economico-sociali interventiste, è ovvio che partisse un attacco culturale sistematicamente programmato per eliminare ogni traccia di etica pubblica di tipo solidaristico, e la si sostituisse col più estremo individualismo. Quando questa rivoluzione culturale ha raggiunto lo strato più profondo della coscienza degli stessi lavoratori, in fondo delle vittime del sistema che si stava nuovamente ripresentando con i suoi più tradizionali e vecchi caratteri della disoccupazione, della diminuzione del salario e così via, il gioco era fatto. In fondo un sistema di potere raggiunge il suo successo quando riesce a convincere le proprie vittime che i disagi che esse patiscono, sono imputabili a loro stesse, e che per superarli occorre che esse si affidino proprio a quei meccanismi che ne sono la causa.

Naturalmente questo attacco culturale si è nutrito anche di principi economici di stampo neoliberista, che ne hanno veicolato la diffusione basandosi appunto sulla crisi che era esplosa. Le politiche, di ispirazione genericamente keynesiana, del pieno impiego e dello Stato sociale divennero perciò l’imputato numero uno. Due formule sintetizzano il contenuto di questo attacco ideologico. La prima è stata l’affermazione del presidente degli Stati Uniti d’America, il repubblicano Reagan, agli inizi degli anni Ottanta, che dichiarava: “lo Stato è il problema, non la soluzione”. Concetto ribadito nel 1995 da un altro presidente Usa, il democratico Clinton, secondo il quale “l’epoca del big government è finita”. Vero è che si è trattato di una di quelle truffe economiche di cui ci parla John K. Galbraith7, perché in realtà la politica economica prospettata non era e non è stata, lo vedremo ancora meglio più avanti, un vero e proprio ritorno al liberismo puro. Si può semmai parlare di liberismo sociale, perché la si è applicata sistematicamente e selvaggiamente nell’orientare la distribuzione del reddito dal lavoro al capitale, smantellando i diritti dei lavoratori e la capacità di resistenza dei sindacati; nel ridefinire l’imposizione fiscale con la riduzione delle aliquote per i redditi alti, con la conseguenza di diminuire drasticamente la spesa sociale. Ma non si può parlare di liberismo antistatale quando ci volgiamo alla politica economica in senso stretto, giacché il liberista Reagan, ad esempio, non esitò un attimo a salvare le Casse di risparmio statunitensi, di cui il libero mercato aveva decretato il fallimento, scaricando le loro passività di venti miliardi di dollari sul bilancio pubblico, ossia su tutti i cittadini. Mentre, cioè, si andava gridando che l’assistenza sociale rendeva passivi i poveri che dovevano cominciare ad arrangiarsi da soli, a questa stessa regola non venivano assoggettati banche e banchieri quando nella dinamica del libero mercato il loro fallimento ne attestava l’inefficienza economica. Comunque sia, sul piano ideologico e della formazione dell’opinione pubblica, si rilanciavano alla grande i principi fondamentali della teoria economica neoclassica, di cui soprattutto si accoglieva e propagava l’idea che il “libero mercato” è la configurazione economica non solo efficiente, ma soprattutto l’unica configurazione economica efficiente. Il risultato che se ne traeva era che l’intervento dello Stato nel processo economico, nel ruolo di regolatore e di guida, ne intaccava l’efficienza nel senso di assorbire risorse la cui utilizzazione statale veniva di conseguenza accusata di essere distruttiva o, comunque, di scarso rendimento, mentre se fossero state lasciate al libero gioco delle dinamiche mercantili, non intralciate e affrancate da questa presenza turbativa esterna, ne sarebbe stata tratta la massima utilità per i consumatori. Da qui discendeva la prescrizione della privatizzazione delle imprese statali, di alcuni servizi pubblici essenziali (ferrovie, telefonia ecc.)8, la massima deregolamentazione anche delle attività economiche private. Non solo, ma

7 Johm K. Galbraith – L’economia della truffa – Rizzoli 2004 8 Si tenga presente che alcuni di queste attività economiche erano state statalizzate in passato proprio da governi liberali, come ad esempio in Italia le ferrovie dal governo Fortis nel 1905. Ciò in base al principio, perfettamente liberale in

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questa libertà è stata intesa in senso talmente allargato da estenderla al movimento dei capitali, ai quali venne concessa politicamente la possibilità di muoversi ovunque nel mondo senza restrizioni9, con la rinuncia degli Stati all’applicazione dell’art. 6 degli accordi di Bretton Woods del 1944, che concedeva appunto ai governi il potere di controllo dei loro movimenti nella scacchiera mondiale. Si partì dai capitali finanziari per estendere poi gradatamente questa liberalizzazione anche al capitale produttivo ed al movimento delle merci, soprattutto sotto la pressione dei governi statunitense (presidenza Reagan) e britannico (governo Tatcher).

Questa traduzione politica dell’attacco culturale neo liberista ha avuto quindi per obiettivo le conquiste sociali della classe lavoratrice, frutto di una lotta più che secolare per liberare la forza lavoro dall’unidimensionalità della forma merce, in modo da ottenere il riconoscimento della dignità umana del lavoratore. Il risultato è stato quello di tornare nuovamente a reificare l’attività lavorativa in puro fattore di produzione così come l’intende e vuole utilizzarla l’impresa capitalistica nella combinazione con gli altri fattori produttivi, risorse naturali e tecniche, nel quadro di una economia deregolamentata. Di conseguenza la forza-lavoro, con le cosiddette riforme del mercato del lavoro, è stata gradatamente ricondotta alla condizione di merce negoziata in relazioni contrattuali in cui la potere delle parti tornava ad essere altamente asimmetrico. A parte il ritorno della tendenza all’individualizzazione del rapporto di lavoro con le varie forme di lavoro atipico, anche là dove è rimasta la contrattazione sindacale è venuta meno la capacità negoziale dei lavoratori di fronte al ricatto capitalistico delle ristrutturazioni produttive, immancabilmente sfocianti in licenziamenti10, e la libertà di disinvestimenti per spostarsi in paesi a salari bassissimi e condizioni legislative e fiscali più favorevoli agli interessi imprenditoriali. Il cuore della restaurazione delle condizioni di profitto va quindi individuato nella socialmente e politicamente riconquistata centralità del rapporto capitalistico di produzione, nel senso appunto del suo affrancamento da regole sociali imposte dall’esterno dalla politica dei governi, con la piena occupazione e lo Stato sociale, e dalle limitazioni interne alla produzione nell’uso della forza lavoro conquistate dal maggior potere sociale dei lavoratori nel venticinquennio circa che segue la fine della seconda guerra mondiale. Con la crisi degli anni Settanta ed a partire dal successivo decennio, si assiste così ad una ristrutturazione produttiva che è passata dallo smantellamento delle grandi concentrazioni di fabbrica, dalla esternalizzazione di molte fasi della produzione, dallo spostamento in paesi a bassi salari di tutto o parti del ciclo produttivo, come prima accennato e così via. Il tutto in un contesto tecnologico che vedeva affermarsi i processi informatici, certamente facilitatori del controllo centralizzato di una produzione frazionata e dispersa in scala planetaria. Di questa ristrutturazione che ha assottigliato le unità produttive, ridimensionandone la grandezza, ad essere colpita è stata la omogeneità della classe lavoratrice, anch’essa non più rappresentata ormai dalle imponenti masse operaie messe al lavoro nelle grandi fabbriche ad alta concentrazione produttiva, ma frazionata, segmentata nella pluralità delle unità produttive esterne, e fortemente ridotta anche nelle tradizionali unità di produzione, ormai, come detto, portate a dimensioni modeste rispetto alla grandezza precedente. Naturalmente questo processo, unito alla tendenza a delocalizzare all’estero tutta o parte della produzione, comportava già di per sé precarietà e flessibilità del lavoro, a cui è stata data legalità giuridica attraverso le cosiddette riforme del mercato del lavoro.

3- Non c’è da meravigliarsi se questa riconquistata potenza socio-politica del capitale sul lavoro – che perdeva

nel frattempo altresì rilevanza e rappresentanza politica – abbiano prodotto effetti sociali devastanti, nel senso di invertire l’andamento della precedente distribuzione del reddito, quella nel periodo del keynesismo sociale,

quanto congruente con i canoni fondamentali della teoria neoclassica, che quando un’attività economica si svolga in una condizione di monopolio tecnico essa debba essere regolata dallo Stato, che la può anche gestire direttamente, poiché solo così si raggiunge lo stesso risultato economico del libero mercato, ossia il prezzo più basso del servizio per i consumatori. In proposito si vedano di Luigi Einaudi le “Lezioni di politica sociale” – Ed. Einaudi 1950 pag.21 9 Il principio della piena libertà di movimento dei capitali non solo all’interno ma anche verso l’esterno, è uno dei cardini sui quali è stato edificato l’edificio dell’Unione europea, dal trattato di Maastricht a quelli successivi, fino all’ultimo di Lisbona. 10 Taiichi Ohno, l’ideatore della nuova procedura lavorativa chiamata “toyotismo” in sostituzione della catena tayloristica, scrive nelle sue memorie che con gli anni Settanta si era passati da mercati ad espansione rapida e consistente a mercati a crescita lenta e limitata. Ne derivava una competizione sempre più agguerrita, che poneva l’impresa nella condizione di vincere la sfida o morire. Per essere competitivi, occorreva dunque un nuovo modello produttivo che comportava la produzione della medesima quantità di prodotto con il 30% di personale in meno. Si veda T. Ohno – Lo spirito toyota – ed. Einaudi 1993

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tendente verso una maggiore uguaglianza, anche in funzione del sostegno alla domanda effettiva quale perno decisivo per il rilancio della crescita economica e dell’occupazione, secondo gli insegnamenti di Keynes. Adesso l’interesse dell’impresa capitalistica era quella di recuperare profitto e valorizzazione del capitale, colpendo il lavoro con la riduzione dei salari, l’abbattimento dello Stato sociale nazionale che le comportava un certo carico fiscale, dal quale, nelle nuove condizioni dell’economia globalizzata, non ne otteneva il ritorno di utilità nella forma di espansione della domanda interna, a cui ormai essa non era più interessata. A questo punto l’imperativo categorico, ripetuto ossessivamente dalle cattedre degli economisti ortodossi, dai grandi centri dell’informazione, dai politici della quasi totalità degli schieramenti (democristiani, liberali, conservatori, socialdemocratici, con le poche eccezioni di chi ancora manteneva un’istanza critica verso il capitalismo, che il pensiero dominante giudicava e giudica superata dalla storia, giacché esso ha assegnato alla società attuale liberal-capitalistica il merito di avere chiuso definitivamente il processo storico) era ed è la competitività sui mercati internazionali, rispetto alla quale i diritti sociali, gli alti salari, insomma le condizioni di lavoro raggiunte nella fase del keynesismo sociale, venivano e vengono dichiarati incompatibili. Il parametro sul quale di fatto dovevano d’allora in poi misurarsi i lavoratori occidentali era fornito dall’Asia, con la Cina in testa e dai paesi dell’est europeo, dove si andavano gradatamente a installarsi le imprese occidentali.

Il risultato sociale che si è riversato su tutti i paesi dell’Occidente , chi più chi meno ovviamente, è stato socialmente catastrofico, nel senso della disgregazione della società, della spaccatura sempre più ampie fra aree di ricchezza crescente ed aree sempre più estese di declino del reddito, fino a quelle di una povertà di ritorno che ha preso a colpire non solo i disoccupati, ma anche fasce in espansione di lavoratori occupati. Ce ne forniscono la prova i dati statistici delle fonti ufficiali, oltre che una ricca documentazione fornita da numerosissimi studi pubblicati in libri di autori ben conosciuti anche dai non addetti ai lavori11, in articoli di giornali economici ed in riviste specializzate in materia. Non rientra negli scopi del presente scritto esporre tutte le cifre leggibili in proposito nella gran massa di documenti appena genericamente richiamati. Mi limito perciò ad alcune citazioni significative. Parto da una ricerca commissionata dalla Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea e svolta da due giovani economiste, K. Smith e L. Ellis, le cui conclusioni, che riguardano la situazione sociale globale, sostengono che “La quota dei profitti è oggi insolitamente alta (e la quota dei salari insolitamente bassa). Infatti l’ampiezza di questa evoluzione e il ventaglio dei paesi coinvolti non hanno precedenti negli ultimi 45 anni”.12 La stessa OCSE, nel suo bollettino dell’ottobre del 2008, annota l’andamento economico-sociale verso una sempre maggiore disuguaglianza, che colpisce in particolar modo alcuni paesi, come gli Stati Uniti d’America e l’Italia13. In generale emerge che la disuguaglianza fra ricchi e poveri negli ultimi venti anni è aumentata in tre quarti dei paesi OCSE. Relativamente all’Italia in particolare, dalla ricerca della BRI risulta un trasferimento dell’8% del

11 Si possono ricordare i nomi di P.Krugman sol suo libro “Il ritorno dell’economia della depressione” Garzanti 1999; di E.Luttwak col suo “Turbo-capitalism” tradotto in italiano col titolo “La dittatura del capitalismo – Mondatori 1998 (l’autore vi sostiene che “Permettere al turbocapitalismo di avanzare senza ostacoli significa disintegrare la società in piccole élite di vincitori e masse di perdenti); di J.Stiglitz, il cui pensiero è sintetizzato in un articolo pubblicato il 14 luglio 2008 su Affari e Finanza di Repubblica dal titolo “Perché il neoliberismo ha perso la battaglia per la ridistribuzione”, nel quale possiamo leggere il seguente passaggio: “In tutto il mondo, nei paesi che si sono affidati al concetto che il mercato si autocorregge, la ricchezza si è polarizzata sui ricchi a scapito delle masse”. In generale i dati di questi autori riguardano gli Stati Uniti d’America e dimostrano che il salario reale in quel paese è rimasto sostanzialmente stazionario sui livelli dei primi anni Settanta del ‘900. Più recentemente Robert B. Reich, ex ministro del lavoro nel primo governo Clinton sostiene che la causa della crisi va individuata nei processi della distribuzione del reddito che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio in tutti i paesi industriali, a partire dagli Stati Uniti d’America e dalla Gran Bretagna. A proposito di Usa, viene rilevato che negli anni Settanta l’uno per cento degli statunitensi più ricchi contava per il 9 per cento del reddito totale. Nel 2007 la sua quota era invece salita al 23%, ossia allo stesso valore del 1928. Ovviamente negli ultimi trent’anni in termini reali è diminuito anche il reddito mediano, ossia il reddito che divide esattamente in due la popolazione. In conclusione, la maggioranza della popolazione statunitense è stata esclusa dalla distribuzione della nuova ricchezza creata, ed ha potuto mantenere livelli di consumo superiori al reddito percepito solo con l’indebitamento. Vedi l’articolo di Marco Onado su Il Sole 24 Ore del 31 ottobre 2010– Chi osserva i redditi capisce meglio la crisi – a commento del libro di Reich – Afterschock. The next economy and America’s future – New York 2010. 12 Banca dei Regolamenti Internazionali – Working Papers luglio 2007 13 Bollettino Ocse ottobre 2008 “Growin Unequal? Income distribution and poverty in Oecd Countries”

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PIL dai salari ai profitti ed alle rendite, pari ad un ammontare circa di 120 miliardi di euro14. Secondo altri calcoli dal 1998 al 2006 i salari reali italiani sono diminuiti del 16%15. Per quel che riguarda gli Stati Uniti d’America, considerazioni simili sono leggibili nell’Economist del 2 dicembre 2006. Alcuni economisti interpellati dal giornale sostengono che “è in atto una espropriazione dei lavoratori da parte delle grandi imprese”, in quanto “i profitti in America …sono in percentuale del prodotto (GDP) i più alti degli ultimi quaranta anni, proprio perché il capitale sta vincendo a spese del lavoro”. Nelle stesso Financial Times del 17 settembre 2007 e dell’8 aprile 2008 vengono riportati giudizi della stessa natura. In quest’ultimo articolo , che porta il significativo titolo “Ritorno agli anni venti. Il ritorno di un mondo disuguale”, si osserva che “La disuguaglianza tra i redditi negli Stati Uniti ha raggiunto il punto più alto dai tempi del disastro: il 1929”.16 Ma l’Europa non sta meglio, se il CES, che è l’organizzazione unitaria dei sindacati europei, prendendo i dati conclusivi della ricerca commissionata dalla BRI, sopra richiamata, calcola che nell’Unione Europea a 25 dal 2001 al 2006 il 5,6% del PIL, pari a circa 600 miliardi di euro è passato dai salari ai profitti. Per quel riguarda poi la situazione sociale mondiale, il rapporto 2008 dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro scrive che dall’inizio del decennio Novanta “ le disuguaglianze di reddito hanno continuato ad approfondirsi in maniera significativa nella maggior parte delle regioni del mondo”, tanto che “fra il 1990 ed il 2005 circa due terzi dei paesi hanno sperimentato il rialzo delle disparità di reddito”17. Un indice particolarmente significativo di concentrazione dei redditi è l’indice Gini18. In generale esso ha subito negli ultimi anni una crescita significativa, particolarmente in alcuni paesi. I dati che riguardano 24 paesi Ocse19, dopo che in generale si è ridotto l’intervento pubblico in funzione di una distribuzione più egualitaria, indicano una tendenza alla crescita dell’indice, con alcuni paesi, come gli Stati Uniti d’America e l’Italia, con valori superiori alla media, mentre alcuni, Francia e Germania ad esempio, sono rimasti inferiori all’indice medio20. Sempre dallo stesso rapporto OCSE è possibile ricavare un altro indice e cioè quello della “Elasticità dei redditi intergenerazionali”, che misura la possibilità che i figli hanno vedere peggiorato il proprio reddito rispetto a quello dei padri. Più basso è il valore e più alta è la probabilità di mantenere la posizione delle generazione precedente ed anche di migliorarla. Notiamo allora la Germania ad un indice del 32%, la Francia al 41%, mentre Stati Uniti d’America, Regno Unito ed Italia raggiungono il valore di circa il 46%. In breve, i dati testimoniano in chiara evidenza che tutte le economie dei paesi sviluppati, chi più chi meno, hanno subito negli ultimi decenni, un processo di ridistribuzione dei redditi a favore dei profitti e delle rendite. Credo a questo punto che sia possibile chiudere questa descrizione delle condizioni sociali mondiali indotte dai processi

14 Annota M. Ricci su Repubblica del 3 maggio 2008 che se ci fosse la stessa distribuzione del reddito di venti anni fa, i lavoratori dipendenti ne godrebbero di una quota maggiore di circa settemila euro all’anno. 15 Vedi www.economiaepolitica. it 16 In un articolo di Marco Vitale dal titolo «Sbagliare non era obbligatorio», apparso su Il Sole 24 Ore del 24 maggio 2009, possiamo leggere la seguente critica all’assetto sociale statunitense: che “la concentrazione spinta della ricchezza …con la crescente polarizzazione fra ricchi e poveri che uno studioso americano serio, profondo documentatissimo, conservatore, repubblicano, consulente di presidenti repubblicani da Nixon a Bush padre ha…chiamato senza esitazione: plutocrazia; che l’abnorme , inaccettabile, non contestata posizione di potere dei Ceo, veri e propri neofeudatari; che tutto questo non poteva non portare , prima o poi, ad un disastro anche se restava incerto il quando e quale sarebbe stato il detonatore”. M. Hudson, nel saggio “Il piano di recupero finanziario dalle viscere dell’inferno” (www.globalresearch.ca) scrive che negli Usa l’1% della popolazione ha aumentato la propria quota nella ripartizione dei profitti nazionali (dividendi, interessi, affitti e guadagni di capitale) dal 37% del totale di dieci anni fa al 57% del 2004, fino al quasi, a quanto pare, 70% del 2009. 17 OIT (OIL) – Rapport sur le travail dans le monde 2008 – Le disparités de revenu au niveau mondial sont considérable et se creusent. 18 L’indice Gini varia da zero ad uno, dove il valore zero indica una perfetta uguaglianza nella distribuzione del reddito fra i cittadini di un determinato paese, nel senso che tutti percepiscono lo stesso reddito, mentre l’indice uno significa la concentrazione di tutto il reddito nelle mani di un solo soggetto. Perciò i suoi valori crescono man mano che aumenta la disuguaglianza distributiva. 19 Vedi il rapporto Ocse 2008 già richiamato in nota 13 20 Ad esempio il “Rapporto annuale 2005” dell’Istat dà per l’Italia nel 2004 un indice Gini fra i più alti di Europa (0,33), superato solo dal Portogallo (0,37), mentre i paesi scandinavi si attestano sullo 0,25 e Francia e Germania stanno a 0,28. Si tenga comunque presente che, ad una analisi più approfondita, neppure l’indice Gini riesce a rappresentare perfettamente il livello di disuguaglianza di un paese. Infatti se si prende la situazione italiana vediamo che mentre diminuiscono le famiglie a basso reddito fra i lavoratori autonomi, aumentano quelle dei lavoratori dipendenti. Il che a fini statistici per determinare l’indice Gini non porta a significative variazioni, che si avrebbero invece se lo si calcolasse solo sul reddito del lavoro dipendente.

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dell’economia capitalistica liberalizzata e deregolamentata, senza ulteriori esposizioni di dati, riportando come giudizio riepilogativo quello che scrive un nostro economista, De Cecco: “Nelle condizioni di estrema liberalità monetaria e finanziaria che si sono dunque create e che persistono ormai dal 1995, si è generata la più grande inflazione dei profitti da molti decenni e una ancora maggiore inflazione dei beni patrimoniali. Ne è seguita una grandiosa controrivoluzione sociale i cui effetti sono ormai chiari a tutti, che ha visto ridursi le distanze di reddito tra paesi e ampliarsi quelle all’interno dei paesi, e andare in crisi modelli di fiscalità e di previdenza e assistenza sociale elaborati nel corso di molti decenni” 21.

4- A questo punto sorge un interrogativo di fondo: dove sono andati a finire questi profitti crescenti, addirittura

inflazionati come dice De Cecco? Quale strada hanno preso? Si può parlare di un loro reinvestimento nell’allargamento della sfera produttiva, di una riproduzione allargata del capitale attraverso l’espansione della produzione di beni e servizi reali, insomma di una valorizzazione del capitale prevalentemente centrata sul processo produttivo? Se andiamo a confrontare l’andamento degli investimenti in capitali fissi rispetto ai profitti che a partire dai primi anni Ottanta riprendono rapidamente a crescere per effetto della ristrutturazione produttiva, ci imbattiamo in un fenomeno che non è completamente nuovo, ma che proprio in quel decennio cominciava ad assumere una grandezza mai precedentemente raggiunta, non solo, ma di livello tale da segnare una vera e propria rottura di continuità col passato.

Intanto, dopo la fine di Bretton Woods con l’inconvertibilità del dollaro in oro dichiarata dal presidente Nixon il 15 agosto del 1971, che faceva terminare la stagione dei rapporti di cambio stabili o, comunque con oscillazioni controllate dal FMI per evitare svalutazioni competitive come negli anni Trenta; e dopo la liberalizzazione del movimento dei capitali, il sistema dei cambi fra le monete entrava in una fase di forte volatilità, con ampie e rapide oscillazioni, che favorivano i giochi speculativi dei vari agenti bancari e finanziari, tanto da far registrare movimenti giornalieri di migliaia di miliardi di dollari, nell’ordine di circa 2000 miliardi al giorno negli anni Ottanta/primi Novanta, saliti attualmente a ben 4000 miliardi. La causa di fondo di questo fenomeno, come degli altri aspetti che segnalerò fra poco, a mio parere e non solo, è stata la grande accumulazione di capitale monetario dovuta al trasferimento dei profitti dal settore industriale e commerciale a quello finanziario. Insomma, la tendenza è stata quella di cercare la valorizzazione del capitale attraverso l’impiego speculativo, che ha avuto i suoi centri di attrazione soprattutto in New York, Londra e Tokyo. Se consideriamo, come esempio significativo, il giro di affari di Wall Street, notiamo che mentre nel secondo dopoguerra si era mantenuto costante circa intorno al 15% del PIL Usa, ha cominciato a salire vertiginosamente dopo la metà degli anni Settanta. I suoi valori segnavano un volume del 17% del 1975, passavano al 35% nel 1989, al 150% nel 1999, fino ad arrivare nel 2006 al 350%22. Se poi teniamo presente il valore delle imprese finanziarie sul mercato azionario statunitense, constatiamo che, a partire dagli anni Settanta, esso è aumentato da meno del 10% a quasi il 30% del valore delle imprese non finanziarie. Nello stesso periodo i profitti aggregati delle imprese finanziarie degli Usa crescevano da circa il 20% ad oltre il 50% di quelli delle imprese non finanziarie23.

Certamente ad alimentare questa crescita di capitale speculativo non stavano solo i profitti realizzati dalle imprese24 e dai loro manager. Anche le banche, con la soppressione della divisione fra banche commerciali e

21 M. De Cecco – Lo tsunami globale della liquidità – in Affari e Finanza di Repubblica del 12 novembre 2007. 22 Durante la presidenza Clinton l’indice di Wall Street è cresciuto del 201% mentre, di contro, il Pil mondiale dal 1982 al 1996 registrava un aumento annuo del 2,786% e dal 1996 al 2002 del 2,676%. Vedi il numero speciale del Il sole 24 Ore “La grande crisi” ottobre 2008, e il saggio di Paolo Giussani “Il prodotto mondiale lordo nel dopoguerra” nel sito www.countdownnet.inf. Un grafico interessante mostra l’andamento della Borsa di Wall Street dall’anno 1900 all’ottobre 2008, che fa notare appunto lo stacco decisivo verso l’alto dei valori borsistici a partire dal decennio Ottanta del ‘900 rispetto a quelli di tutto il periodo precedente. Fonte: Dow Jones & Company (www.dowjones.com) 23 Geoffry Ingham – Capitalismo – Einaudi 2010. In Italia, nel periodo 2006-2009, gli investimenti delle grandi imprese sono aumentati del 104% nel settore immobiliare, mentre sono cresciuti solo del 13,4% nei macchinari. Fonte CGIA Mestre. 24 Il ruolo delle imprese, specialmente quelle di grandi dimensioni, è stato comunque decisivo segnato dal loro passaggio dalla ricerca di utili attraverso investimenti produttivi in operazioni puramente finanziarie. Basti ricordare, come esempi significativi, la General Electric che ha creato un ramo di azienda separato, la GE Finance, dedicato appunto ad operare nella finanza, da cui ha ricavato negli anni precedenti la crisi partita nell’estate del 2007, più del 50% dei suoi profitti complessivi. Lo stesso hanno fatte le tre famose case automobilistiche statunitensi, Chrysler,

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banche di investimento25, che è stata un’altra delle cosiddette “riforme” decisive per il lancio dell’iperfinanziarizzazione dell’economia, hanno cominciato a dirigere il risparmio gestito prevalentemente verso la speculazione finanziaria, mentre si riducevano i crediti al settore produttivo. Infine, un ruolo importantissimo è stato svolto dai fondi di investimento, quali attrattori del risparmio privato, compresi i fondi pensione alimentati dal risparmio previdenziale dei lavoratori, trasformando la pensione da salario differito in rendita finanziaria.

Da quello che si è appena messo in rilievo appare evidente che la radice della espansione del capitale finanziario-speculativo26 va individuata nel funzionamento stesso del capitale produttivo. Infatti dal principio degli anni ’80 fino al 2007 la quota dei profitti delle imprese produttive e commerciali investita in operazioni finanziarie e speculative è passata dal 10% del 1975 al 91% del 2007. Questi dati ci obbligano ad eliminare l’ipotesi che il saggio di accumulazione di capitale nella sfera produttiva sia automaticamente uguale al saggio di profitto. Senza questo spostamento di capitale monetario dall’investimento nel settore produttivo di beni e servizi all’impiego in aree speculative, non ci sarebbe stato alcun boom borsistico, immobiliare, nei mercati delle materie prime e via dicendo, né il settore finanziario avrebbe conosciuto le proporzioni raggiunte alla vigilia della crisi del 2007. E’ chiara perciò la conseguenza simmetrica, e cioè la tendenza al calo del saggio di accumulazione di capitale investito nella produzione in tutti i paesi Ocse27. Altrettanto ovvio è che il calo dell’accumulazione di capitale produttivo si sia ripercosso sull’andamento del Pil che a sua volta ha avuto una linea tendenzialmente decrescente.

Resta a questo punto da chiarire la causa di questa limitazione all’allargamento accumulativo nella sfera produttiva, col dirottamento dei profitti nella finanza, che tornavano a crescere con la ripresa alla grande dello sfruttamento del lavoro in scala globale e con l’ampliamento delle disuguaglianze in tutti i paesi. E’ da tenere presente che, con gli anni ’80 del ‘900, l’economia capitalistica assumeva una configurazione che riproponeva il problema in cui era andata a bloccarsi la grande crescita dei “trenta gloriosi” governata dalle politiche del keynesismo sociale. Si presentava, insomma, di nuovo la prospettiva della caduta del saggio del profitto, qualora l’accumulazione di capitale si fosse ancora concretizzata interamente o, comunque, prevalentemente, nella produzioni di beni e/o di servizi. Ciò a motivo del fatto che l’istanza del profitto per essere soddisfatta richiedeva e richiede di aumentare il rendimento del lavoro fermi restando i salari reali o crescendo in misura tale da diminuire comunque il salario relativo; ma entrava ed entra in contraddizione con l’altra istanza, quella della realizzazione con la vendita del valore prodotto, per la quale era ed è necessario accrescere il livello della domanda effettiva, di cui salari e spesa pubblico erano e sono componenti fondamentali. Ma per uscire dal keynesismo sociale si puntava proprio sulla riduzione di queste due voci, con l’effetto sicuro di colpire le capacità di consumare il reddito che si era in grado di produrre. In definitiva, se tutti i profitti, ora in rapido incremento, si fossero riversati nell’economia reale, si sarebbe andati incontro ad una sovrapproduzione imponente, con la conseguente svalorizzazione del capitale investito. Per sfuggire a questo dilemma che accompagna sempre la storia del capitalismo, fu scelta la soluzione finanziaria, vale a dire accrescere l’investimento in quel settore dove

General Motor e Ford, tanto da apparire nello scenario economico statunitense e globale pre-crisi come “tre banche che producono automobili”. 25 In Usa, nel 1999, il presidente Clinton firmava il Gramm-Lech-Bliley Act, ossia la più radicale riforma bancaria dall’epoca di Roosvelt, che aboliva la distinzione fra banche commerciali e banche d’affari, ossia il famoso Glass Steagal Act. Nel 2000 veniva infine approvato il Commodity Futures Modernization Act, che deregolamentava la negoziazione dei derivati. Lo stesso Bush, nel 2002, lanciava un piano per allargare il mercato dell’acquisto della prima casa anche a chi aveva bassi redditi. Vedi “La grande crisi” del Il Sole 24 Ore cit. 26 Anche le banche centrali hanno avuto un ruolo importantissimo nell’espansione finanziaria. Questo elemento sarà trattato più avanti. 27 Paolo Giussani – Il vestito nuovo del capitale – in Wildcat n. 84, 2009. In un saggio dell’economista francese Roelands Marcel- Le cadre mètodologique de la théorie des crises chez Marx et sa validation empirique giugno 2009– il grafico 9 mostra l’andamento dei due tassi di profitto e di accumulazione per il periodo 1961-2007 negli Usa, in Giappone ed in Europa. Vi si notano due periodi. In tutto il decennio Settanta tasso di profitto e di accumulazione procedono appaiati su una linea discendente. Dai primi anni Ottanta, al contrario, il tasso di profitto riprende a crescere passando dell’11,80% circa del 1982 al 19% del 2008, mentre quello di accumulazione di capitale produttivo continua la sua discesa tendenziale, toccando il punto più basso nel 2008 col 2% dal 2,50% circa del 1982. Vedi sito www.capitalisme-et-crise.info/fr. Questi dati sono confermati da un altro economista francese, Michel Husson in alcuni grafici riportati nel suo scritto “La hausse tendencielle du taux de profit”– dicembre 2009. I suoi contributi sono leggibili nel sito http://hussonet.free.fr/cricoco.htm

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collocare prevalentemente appunto i profitti estratti dai settori produttivi. Sicuramente, però, senza un aiuto esterno la valorizzazione del capitale finanziario non avrebbe conosciuto lo slancio e la dimensione che ha avuto. A questo hanno provveduto le banche centrali con la loro politica monetaria di inflazione finanziaria e deflazione salariale, come vedremo fra poco.

L’economia globalizzata: l’equilibrio economico globale La ristrutturazione produttiva sopra succintamente accennata, con lo spostamento dei centri manifatturieri in

aree a bassi salari, soprattutto asiatiche, comportava però il problema della realizzazione del plusvalore complessivo che in tal modo si riusciva ad ottenere. Per esprimermi in termini keynesiani, si riproponeva comunque la questione della domanda effettiva ormai però in scala globale. Ciò ovviamente a causa di due fattori. Il primo era la riduzione dei salari e della spesa sociale nei paesi capitalistici occidentali, che ovviamente abbassava la capacità di consumo di larghe fasce di popolazione, a cui va aggiunta la riduzione degli investimenti di cui si è prima detto, e cioè la domanda di beni strumentali da parte delle imprese. Il secondo erano proprio i bassi salari praticati nelle nuove aree produttive, che consentivano sì alti profitti, ma proprio per questo non potevano esprimere al loro interno una domanda adeguata in grado di realizzarli. In altre parole, occorreva uno sbocco esterno alla produzione, sia quella asiatica, sia quella europea soprattutto per paesi che ormai volutamente miravano a massimizzare i profitti per le loro imprese con l’esportazione, dal momento che il rilancio della domanda interna avrebbe richiesto ovviamente aumenti salariali pari alla crescente produttività del lavoro. L’attivo commerciale con l’estero permetteva e permette, invece, di tradurre in profitto delle imprese tutti gli aumenti di capacità produttiva, anziché ridistribuirli anche verso il lavoro. In altre parole, siccome in Europa ed Asia la domanda interna diminuiva relativamente alla accresciuta produzione, occorreva esportare il conseguente surplus.

Ma perché fosse possibile una loro bilancia commerciale in attivo, occorreva una corrispondente bilancia commerciale passiva, in modo da equilibrare il processo economico globale ed evitare così crisi di sovrapproduzione e di competizioni devastanti. Questa funzione economica di assorbimento del surplus globale o, se vogliamo usare altri termini, di realizzazione del plusvalore globale, è stata assunta dagli Stati Uniti d’America. Il passivo della loro bilancia commerciale, consentito senza creare problemi dalla sovranità del dollaro come moneta internazionale e, quindi, senza alcun vincolo esterno, ha equilibrato perciò l’attivo asiatico ed europeo. In altre parole, gli Stati Uniti sono diventati il “consumatore keynesiano globale”28, nel senso appunto di avere assicurato al sistema dell’economia globalizzata la domanda effettiva necessaria ad assorbire la produzione complessiva, visto che questo compito non era più realizzabile all’interno delle singole economie nazionali a causa della ristrutturazione produttiva di cui si è detto. Ovviamente il presupposto per svolgere questo decisivo compito consisteva nel creare una domanda effettiva statunitense superiore alla produzione interna, ovvero un consumo superiore al reddito nazionale. Viene allora da chiedersi qual è stata la fonte di questa enorme capacità di consumo statunitense. Certamente non i salari, rimasti stagnanti anche in quel paese in termini reali dagli anni Settanta, come abbiamo visto precedentemente. L’attenzione si sposta allora sulle rendite finanziarie e sui loro effetti economici. La domanda Usa trovava infatti il principale sostegno nelle varie bolle speculative che hanno contrassegnato il mercato finanziario statunitense, e non solo, negli ultimi decenni, a cui va collegato anche la grande espansione delle concessioni di credito, peraltro estremamente facilitate sotto gli stimoli delle politiche monetarie della Fed e di tutte le banche centrali del mondo. Infatti, con gli anni Novanta esse hanno iniziato a creare masse immense di liquidità monetaria che non sono andate a finanziare il settore produttivo dell’economia,

28 C’è tuttavia una differenza radicale rispetto alle politiche economiche prospettate da Keynes. Infatti per l’economista inglese il problema della domanda effettiva è quello di raggiungerne un volume tale da assicurare il pieno impiego della mano d’opera, che costituisce l’obiettivo cardine, per realizzare il quale i meccanismi del mercato si mostrano insufficienti, per cui occorre l’intervento dello Stato. Nella politica economica che ha preso piede dopo gli anni Settanta del ‘900 la priorità della piena occupazione è stata accantonata in favore del ripristino dei meccanismi del mercato anche per creare posti di lavoro, ovviamente secondo la logica mercantile ispirata ai principi dell’economia neoclassica, soprattutto alla teoria distributiva dei fattori della produzione, che è stata il sostrato culturale che ha ispirato le cosiddette “riforme” del mercato del lavoro degli ultimi decenni, nonostante la sua insostenibilità scientifica come ha dimostrato nel 1960 Piero Sraffa. Vedi il suo “Produzione di merci a mezzo merci” – Ed. Einaudi. Ne è conseguito, sì l’equilibrio commerciale globale, ma non a livello di piena occupazione.

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se non marginalmente, ma sono state indirizzate a sostegno dei mercati finanziari, ad agevolare i quali ha poi contribuito la manovra dei tassi di interesse. In breve, in scala globale, ne è risultata una “inflazione finanziaria” ed una “deflazione salariale”, il cui segno di classe è di chiara evidenza. Ciò perché le banche centrali si sono preoccupate di favorire l’accumulazione degli assetti finanziari e delle rendite che ne sono derivate, col controllare rigidamente l’andamento dei prezzi delle merci e dei servizi, in modo da evitarne quegli aumenti che avrebbero vaporizzato l’accumulazione finanziaria del capitale ed i suoi rendimenti. Insomma la moneta è stata resa scarsa nella cosiddetta “economia reale” e, soprattutto a livello salariale, visto che l’accumulazione in questo settore è andata diminuendo, come si è visto sopra, mentre c’è stato una continua alimentazione di liquidità delle attività finanziarie, che ha avuto un ruolo non trascurabile nelle formazione delle bolle speculative e nella crescita di quella forma di accumulazione capitalistica, che ha rinforzato il nuovo indirizzo assunto dalle imprese che, come si è visto, ha avuto nella finanza il suo polo di orientamento29. In linea generale si può dire che anziché creare domanda effettiva attraverso la spesa pubblica, delle famiglie con la crescita dei salari e delle imprese con gli investimenti produttivi, ci si è affidati ai valori finanziari e dei beni patrimoniali, accresciuti artificialmente da questo continuo afflusso di moneta proveniente dai profitti imprenditoriali, dalle banche, dai vari fondi di investimento su cui si è concentrato anche il piccolo risparmio, e dalle banche centrali. Detto altrimenti, la grandezza della liquidità crescente immessa in questo settore, soprattutto con la creazione di nuova moneta da parte delle banche centrali, ha avuto effetti inflativi (inflazione finanziaria) ed è stata (ed è permanendo l’attuale politica monetaria degli istituti di emissione) la contropartita contabile degli aumenti di valore dei beni finanziari e patrimoniali. Ne sono scaturite quelle bolle speculative – nelle borse valori, nei valori delle materie prime, ed infine nell’immobiliare – da cui è uscita la rendita che ha rappresentato e rappresenta la nuova capacità di spesa, essendo potere di prelievo sul prodotto sociale, senza che chi ne è il portatore abbia contribuito a crearlo. In breve, al keynesismo sociale dell’immediato secondo dopoguerra si è sostituito una sorta di keynesismo finanziario e creditizio. Non stupisce allora che questa formazione di ricchezza artificiale in pura forma monetaria abbia di per sé contribuito a gravare negativamente sul livello salariale, cioè su quella classe lavoratrice che era ed è la produttrice della ricchezza reale, una parte della quale veniva appropriata mediante le rendite monetarie che scaturivano da questo meccanismo. E non meraviglia neppure che la politica monetaria gestita dalle banche centrali abbia avuto per obiettivo principale il contenimento dei prezzi dei beni e dei servizi, al fine appunto di accrescere il potere di acquisto della moneta che veniva incanalata nei settori speculativi.

Il meccanismo appena descritto ha riguardato l’intera economia globale, concentrandosi in alcuni paesi, ma, come si è detto sopra, ha avuto il suo centro negli Stati Uniti d’America, nei quali la domanda interna è aumentata al di sopra del reddito prodotto, soddisfatta dalla bilancia commerciale sistematicamente passiva, finanziata dall’afflusso di capitali provenienti da quelle aree globali che trattenevano negli Usa la quota maggiore degli incassi delle proprie esportazioni. Fino alla primavera del 2000 a sostenere la domanda erano i proventi del grande boom borsistico della cosiddetta “New Economy”. Dopo la sua crisi e gli eventi del settembre 2001, il fattore decisivo è stata la grande espansione del settore immobiliare, i cui prezzi crescevano vertiginosamente sostenuti dalle concessioni in massa dei crediti ipotecari. D’altronde la grande crescita speculativa era connessa proprio al boom dell’indebitamento, che ne costituiva uno dei pilastri. E ciò ha riguardato l’economia americana nel suo complesso, il cui debito totale (privato e pubblico) si è accresciuto, dal 1952 al 2008, dal 102% al 320% del Pil. La cosa interessante è però il fatto che mentre il debito delle imprese non finanziarie e della pubblica amministrazione cresceva relativamente poco, ha avuto eccezionali aumenti quello legato alla finanza, ossia il debito delle famiglie, che è servito ad accrescere i consumi al di sopra del loro reddito30, e quello delle società finanziarie, che è passato dal nulla o quasi al 40% del debito totale nel giro di venticinque anni. C’è da aggiungere inoltre che la crescente liquidità del denaro fornito a credito ha determinato l’andamento al ribasso dei tassi di interesse che dal massimo del 18,2% del 1982 sono passati al 2,2% nel 2006, facilitando così l’indebitamento31.

L’elemento da mettere in rilievo in questo processo economico è l’eccezionale moltiplicazione del credito e del debito. Ciò è avvenuto con la smobilitazione del credito bancario, nel senso che le banche che concedevano

29 Vedi nota 22 30 Questo sistema ha avuto il vantaggio per il sistema economico capitalistico di permettere una domanda elevata senza doverla sostenere con aumenti salariali, non solo, ma anche quello per le banche creditrici di ricavare un interesse sui prestiti concessi e, quindi, sui consumi superiori a quelli consentiti dal reddito disponibile delle famiglie. 31 I dati sono forniti da P. Giussani – Il vestito nuovo del capitalismo cit.

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prestiti per acquistare case, non aspettavano la loro scadenza per rientrare in possesso del denaro erogato, ma rendevano immediatamente liquido il proprio credito, in modo da poter continuare queste concessioni. Questo avveniva con le cosiddette “cartolarizzazioni”. La banca erogatrice del prestito, cioè, raggruppava gran parte dei propri crediti in un pacchetto che veniva ceduto ad un soggetto giuridico ad hoc, che pagava questo acquisto attraverso l’emissioni di obbligazioni garantite dagli attivi sottostanti, ossia dall’incasso periodico di cedole di attività finanziarie, come altre obbligazioni, o da pagamenti periodici, come le rate dei mutui immobiliari. Con questo procedimento si è creato una immensa piramide finanziaria, però capovolta nel senso che il vertice ha costituto la base su cui è cresciuto poi l’intero volume la cui grandezza è rimasta di difficile quantificazione. Così da una base di 1700 (1,7)miliardi di dollari di mutui immobiliari subprime (cioè quelli concessi a soggetti a basso reddito ed a rischio, come un debitore che sia già stato insolvente, (i cosiddetti mutui Ninja, No income, no job, no asset) si è creato un castello finanziario che alla fine del 2007 era pari 531.200 miliardi di dollari (531,2) che era il valore complessivo di mutui e cartolarizzazioni immobiliari Usa e dei prodotti derivati su scala mondiale32. Ciò perché appunto questi prodotti sono stati venduti in tutto il mondo, coinvolgendo quindi si può dire l’intero sistema bancario e finanziario mondiale, salvo qualche eccezione.

Naturalmente ciò che ha spinto banche e fondi di investimento ad immergersi in questo vorticoso giro di affari, è stata la facilità di realizzare rapidamente alti profitti. Si consideri che nel periodo 2000-2007 i tassi di profitto delle compagnie finanziarie ed i bonus per i manager sono diventati astronomici. I primi, al netto dell’imposizione fiscale sono passati dal 10% del 1980 al 41% del 2007, mentre il settore finanziario rappresentava solo il 5% del lavoro salariato ed il 16% del valore aggiunto totale33.

Arriva la crisi, ma banchieri, politici ed economisti “ortodossi” non la vedono Che l’andamento dell’economia globale non potesse continuare a camminare su questi binari era evidente.

Alcuni lo avevano segnalato, come abbiamo visto all’inizio. Ma il pensiero economico “ortodosso” dominante che guidava e continua a guidare governi e banche centrali non possedeva, come continua a non possedere, antenne percettive dell’uragano che stava arrivando e di quelli che arriveranno. I prodotti derivati, ad esempio, fin dal 1999 erano stati elogiati da Greenspan (l’allora presidente della Federal Riserve) come “un sempre più importante veicolo per diversificare i rischi e per allocarli agli investitori più capaci di gestirli”. Seguendo questa impostazione ottimistica siamo arrivati a quella cifra prima riportata di 531,2 trilioni di dollari. Dieci volte superiore al Pil mondiale. Pur con qualche dubbio che è cominciato a serpeggiare nel 2005 sulla crescita spropositata di alcuni prodotti34, l’ottimismo restava comunque la nota dominante. Ce lo conferma un rapporto del Fondo Monetario Internazionale del 2006, in cui è detto che “Questi nuovi attori [cioè fondi di investimento vari, banche lanciate ormai nella speculazione finanziaria] che hanno una gestione del rischio e delle prospettive di investimento differenti, aiutano ad attenuare ed assorbire gli shock che, nel passato, colpivano essenzialmente alcuni importanti intermediari finanziari”35. L’idea portante rimaneva dunque quella che questi nuovi prodotti suddividevano il rischio di insolvenza del debitore, trasferendolo così in frazioni ridotte ad una pluralità di soggetti, in modo da evitare il collasso del sistema creditizio e finanziario qualora esso rimanesse concentrato in chi ha erogato il prestito iniziale. Non sorprende, perciò, che la capacità degli economisti ortodossi, dei governatori delle banche centrali, dei governi, di prevedere il ciclone che stava ormai avanzando rapidamente all’orizzonte, si sia rivelata uguale a zero. Lo dimostra l’insistenza con cui Greespan e Bernanke, che gli succedeva nel governo della Federal Riserve, negavano ad esempio l’esistenza di una bolla immobiliare. Di fronte alla cessazione dell’aumento dei prezzi in quel settore dall’aprile del 2006, il primo scriveva a inizio 2007: “Io dissi che non ci trovavamo di fronte a una vera e propria bolla, ma più che altro a della schiuma, tante piccole bolle locali incapaci di crescere al punto di minacciare la salute dell’economia”. Insomma alla domanda se ci

32 Dati riportati nel libro “La grande crisi” del Il Sole 24 Ore cit. Per una descrizione analitica del processo pagg. 30/31 33 Vedi l’articolo di Martin Wolf nel “Financial Times” del 5 febbraio 2008 che riporta questi dati. 34 Nel settembre 2005 la Fed convocava a New York le Autorità di controllo di Gran Bretagna, Svizzera e Germania e quattordici grandi banche per elaborare una riforma che istituisse un qualche controllo su alcuni tipi di transazioni, principalmente i Cds, cioè i “credit default swap” che avvenivano al telefono e non per via informatica. Tuttavia dal vertice non uscì nulla di concreto. “La grande crisi” del Il Sole 24 Ore cit. 35 FMI, Global Financial Stabilty Report, aprile 2006, pag. 51

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dirigevamo verso un crac immobiliare doloroso, rispondeva con un no convinto36. Anche Bernanke non si discostava da quella chiave di lettura. Anzi, siccome l’inflazione restava la principale preoccupazione della Fed, quel rallentamento dei prezzi immobiliari nel 2006 era giudicato positivamente, e non se ne vedeva un tracollo che mettesse in difficoltà le banche mutuatrici, il cui credito ipotecario potesse rimanere scoperto in una certa misura rispetto al valore dell’immobile. A suo parere “questo settore conoscerà probabilmente più un rallentamento progressivo che un declino veloce”. Un anno dopo, nel 2007, quando ormai la correzione dei prezzi immobiliari era più pronunciata, osservava che “L’impatto delle difficoltà del mercato subprime sull’economia nel suo insieme e sui mercati finanziari sembra essere contenuto”, benché a fine marzo 2007 tornasse a pensare che il prezzo degli immobili statunitensi avrebbe continuato a rivalutarsi, per quanto ad un ritmo più rallentato. D’altra parte è da notare che molti studi accademici , basati su analisi econometriche negavano che l’evoluzione dei prezzi immobiliari fosse da ritenersi una bolla. Il fatto è che nell’estate del 2007 i mercati ormai erano in grandi difficoltà. Nonostante ciò, in occasione di una conferenza sul settore immobiliare tenutasi il 31 agosto, Bernanke scriveva che “La transazione da un finanziamento del credito attraverso i depositi a un ricorso sempre più massiccio ai mercati di capitali ha costituito la seconda rivoluzione della finanza ipotecaria, la cui rilevanza può essere paragonata solo agli avvenimenti del New Deal”. Non solo ma aggiungeva con serenità ed ottimismo che “La cartolarizzazione e lo sviluppo sconfinato dei mercati di derivati ad alta liquidità ha facilitato la diffusione e lo scambio del rischio…le ipoteche sono diventate degli strumenti più liquidi, sia per i prestatori che per i mutuatari”37. Certamente il presidente della Fed prendeva atto delle difficoltà del mercato immobiliare, tanto che nel luglio 2007 conteggiava le perdite dei crediti subprime tra i 50 ed i 100 miliardi di dollari., tuttavia le giudicava “una frazione minuscola del capitale totale delle banche occidentali o della attività detenute dai fondi globali di investimento”38 Né d’altra parte tenevano un atteggiamento più predente le famose agenzie di rating, tanto che i crediti subprime erano stati classificati al 95% sotto forma di A, AA, AAA. Del resto, nel suo rapporto dell’aprile 2007, quando cioè già comparivano le prime crepe dell’edificio, il Fondo Monetario Internazionale scriveva che “l’importo delle perdite potenziali sui titoli subprime dovrebbe essere largamente contenuto. In effetti, anche le tranche relativamente rischiose classificate BBB cominciano ad essere toccate solamente quando i prezzi degli immobili conoscono un abbassamento del 4% all’anno” 39. Forse non ci si rendeva conto degli enormi rischi che si stavano accumulando perché nel trentennio del keynesismo sociale non si erano mai verificate crisi finanziarie, per cui questa esperienza aveva eliminato o comunque attenuato l’attenzione critica e la capacità di percezione intorno all’andamento dei mercati finanziari, benché la fine del sistema dei cambi stabili dopo l’abbandono della convertibilità del dollaro in oro nel 1971, e l’enorme crescita dei valori finanziari a partire dai primi anni Ottanta, una qualche precauzione ai massimi dirigenti della politica monetaria e dei governi l’avrebbero dovuta suggerire. Il fatto stesso che Bernanke cominciasse ad alzare i tassi di interesse, dall’1% nel 2004 a cui erano stati portati dal 6,50% del 2000, al 6,25% a metà 2007, sotto l’ossessione del controllo dell’inflazione, in un paese ad elevatissimo debito, pubblico ma soprattutto della famiglie e quindi a rischio di renderlo insostenibile, attestava, a mio avviso, questa mancanza di percezione della realtà.

Così, nonostante il parere degli economisti accademici e dei grandi “scienziati” dell’economia di bolla si trattava e quando arrivò il momento del suo scoppio, si scatenò il panico. Infatti , la discesa dei prezzi degli immobili in Usa non poteva non compromettere il valore dei mutui concessi, che in precedenza erano rinegoziati al rialzo basandosi appunto sulla crescita del prezzo dell’immobile ipotecato. Ora, non solo ciò diventava improponibile, ma le banche scoperte cominciavano a richiedere ai mutuatari il reintegro del valore diminuito, mettendo subito fuori gioco proprio i debitori peggiori, quelli marginali dei subprime, impossibilitati a soddisfare quella richiesta. Iniziava così la spirale al ribasso con l’escussione delle ipoteche e la vendita del bene ipotecato, che contribuiva a sua volta ad abbassare i prezzi delle proprietà immobiliari. Ovviamente questa svalorizzazione dei mutui non poteva che ripercuotersi su quei prodotti derivati, che erano stati creati proprio sulla base del valore dei prestiti ipotecari concessi, come abbiamo visto sopra. Così la crisi prendeva gradatamente a coinvolgere il settore finanziario, ormai dilatato in scala globale col collocamento presso la maggior parte delle banche sparse

36 A: Greespan – L’era della turbolenza – Sperling & Kupfer, Milano 2007, pagg. 255/6 37 B. Bernanke – “Housing, housing finance and monetary policy” in Simposio economico della Federal Reserve Bank di Kansas City, 31 agosto 2007 38 Gillian Tett, Big Freezy part 1 nel Financial Times del 3 agosto 2008 39 FMI – Global Financial Stability Report – aprile 2007

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nel mondo di quei prodotti. Nel giugno 2007 la banca d’affari statunitense Bear Stearns era costretta a liquidare due dei suoi hdge fund, subendo pesanti perdite. Ma la reazione a catena abbracciava ormai tutto il mondo, trasformandosi in crisi creditizia che colpiva con particolare veemenza, oltre agli Usa, anche la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Spagna. Il culmine della crisi dei subprime si toccava nell’estate del 2007, con banche precipitate in una vera e propria crisi di liquidità, come la Düsseldorf Internazionale Kredit Bank, e con enormi deficit e perdite come quelli della svizzera Ubs (Unione banche svizzere). A metà di quell’anno si era ormai precipitati in una vera e propria crisi bancaria globale, col congelamento della concessione di crediti e di prestiti a breve anche fra le banche stesse. Ormai nessuno si fidava più di nessuno, benché, come si è visto sopra, Bernanke a fine agosto continuasse ad elogiare il sistema che ormai iniziava a precipitare40.

Ma non era solo il presidente della Fed a spargere ottimismo. Il pensiero economico “ortodosso” non era da meno. Ad esempio in Italia, sul Corriere della Sera del 4 agosto 2007 l’economista Giavazzi scriveva che “la crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l’economia continua a crescere rapidamente”. Ed il suo collega Alberto Alesina su Il Sole 24 Ora del 7 settembre 2007 aggiungeva che “finora non è accaduto nulla di catastrofico, né a mio parere accadrà”. Ma anche altri “esperti” economici brindavano all’ottimismo. Su Affari e Finanza di Repubblica del 24 settembre 2007, Arturo Zampiglione nella sua analisi scriveva che “Wall Street tira il fiato [perché anche la Borsa ovviamente aveva risentito in negativo di quella che si riteneva essere una crisi di liquidità], forse il peggio è passato”. E sullo stesso giornale, nel numero dell’8 ottobre 2007, Ettore Livini annunciava trionfalmente. “Borse: i mercati corrono sicuri, la ‘crisi subprime’ è alle spalle”.Il fatto è che la crisi, di cui ormai era impossibile non costatare l’esistenza, era giudicata di natura monetaria, cioè blocco di liquidità che congelava la concessione di crediti anche fra le banche, insomma una crisi dovuta ad atteggiamenti eccessivamente prudenti in attesa che il cielo si rischiarasse, e quindi di natura contingente, che bastava eliminare con iniezioni di moneta da parte delle banche centrali. Che alla radice del problema stesse un’insolvenza crescente, le cui ripercussioni andavano a destabilizzare l’immane edificio finanziario che su questi fragili fondamenti era stato costruito, è un’idea che non è passata minimamente per la testa dei grandi economisti mainstream, dei banchieri centrali e della classe politica dirigente nei vari paesi. Essendo, a loro parere, crisi di liquidità, è evidente che la risposta al problema non poteva che essere immissione di nuova moneta. E’ quello che iniziò a fare per prima la Banca Centrale Europea nell’agosto 2007, quando iniettò 95 miliardi di euro nel mercato interbancario, dando così inizio ad una serie di interventi straordinari da parte di tutte le altre banche centrali. La seguì subito infatti la Federal Reserve con l’immissione di 38 miliardi di dollari. Nei mesi successivi, fino al maggio 2008, fu tutta una serie di interventi di questa natura delle varie banche centrali. Eppure i segnali che si trattasse di qualcosa di importante non mancavano. Già nel luglio alcune agenzie di rating avevano declassato per un totale di 12,3 miliardi di dollari varie obbligazioni ipotecarie. Anche i Germania si cominciavano a denunciare perdite collegate ai mutui subprime ed in Francia, in agosto, la BNP Paribas congelava i rimborsi di tre fondi di investimento. Nel settembre 2007 la banca Northern Rock, specializzata nel credito ipotecario, precipitava in una vera e propria crisi di liquidità, tanto che fu costretto ad intervenire il governo britannico per garantire i depositanti, in modo da evitare una corsa agli sportelli. Era la prima avvisaglia di quello che sarà lo scenario di un anno dopo. Nel marzo del 2008 la Bear Stearns statunitense, venne salvata dall’intervento della Fed ed infine acquistata, sempre sotto regìa Fed, dalla JP Morgan. Che stesse maturando una situazione nuova lo segnalavano altresì i primi licenziamenti di personale bancario e di istituti finanziari. Anche sotto questo riguardo l’euforia e l’espansione del settore ormai appartenevano al passato.

Quello che colpisce è il fatto che nei mesi successivi che vanno fino a circa metà del 2008, in parallelo alla continua immissione di moneta nel sistema bancario da parte delle banche centrali, crescevano i declassamenti dei vari prodotti finanziari, soprattutto obbligazioni subprime, e vari soggetti cominciavano a denunciare perdite. Ma anche questo progressivo deterioramento della situazione finanziaria non era ancora sufficiente a scalfire l’ottimismo dei banchieri centrali. Il 31 maggio 2008, all’assemblea della Banca d’Italia, nelle sue considerazioni finali, il governatore Draghi affermava: “Quando è apparso che la turbolenza poteva avere implicazioni sistemiche le banche centrali sono intervenute. La dimensione degli interventi, la loro flessibilità e prontezza, il grado di coordinamento internazionale sono stati senza precedenti. Hanno scongiurato una crisi sistemica che

40 Per una cronaca giornaliera della crisi in questo periodo si può vedere “La grande crisi” ed. Il Sole 24 Ore cit. pag. 114 e segg.

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avrebbe potuto avere effetti devastanti sull’economia reale. Hanno impedito che venissero brutalmente colpiti anche coloro che non avevano responsabilità”41. In occasione del G8 di Osaka del giugno 2008, lo stesso Draghi riconosceva che c’era uno scenario di “fragile stabilità” e tuttavia si riteneva che fossero ormai superati i rischi di una crisi di sistema con i mercati tornati ad essere più solidi. Si ammetteva, è vero, che esisteva l’indebolimento dei mercati immobiliari che avrebbe comportato per qualche tempo “le svalutazioni di attivo nel settore finanziario”. Ma per l’economia reale, oltre s’intende agli effetti negativi della discesa dei prezzi degli immobili, il pericolo era sempre ravvisato nell’inflazione e nel prezzo del petrolio42. Si tornava, insomma, ad una visione di normalità, dove, secondo la concezione teorica dominante, a cui è difficile non riconoscere il crisma di una vera e propria ideologia, ispiratrice delle politiche monetarie delle banche centrali, ed anche dei governi, la questione principale rimaneva ossessivamente quella dell’inflazione, soprattutto per evitare una rincorsa salariale. Trichet ribadiva decisamente che “non si può continuare a rincorrere l’aumento dei prezzi con la crescita corrispettiva dei salari nominativi”43. Da qui la decisione della Bce di aumentare il tasso di riferimento dello 0,25% portandolo al 4,25%. Indubbiamente a partire dall’inizio del 2008 i prezzi del petrolio e dei prodotti alimentari avevano preso una impressionante rincorsa verso l’alto. Il motivo risiedeva però nello spostamento di masse ingenti di capitale speculativo, in fuga dai settori finanziari ormai palesemente colpiti dalla crisi, verso aree dove realizzare facili guadagni con l’aumento drogato dei loro prezzi. Ma proprio quegli aumenti speculativi avevano per effetto di restringere la domanda in scala globale, con drammatiche conseguenze sociali soprattutto per i generi alimentari di prima necessità, grano e riso, nei paesi più poveri e quindi più esposti a questa vera e propria violenza economica del capitale finanziario. E’ comunque evidente che per Trichet erano e sono sempre i salari a dover pagare il costo sociale di quelle speculazioni.

Insomma, nell’estate del 2008 si stava ormai saturando una camera a gas esplosiva, composta dalla insolvenza dei debitori sotto ipoteca, dalla ripercussione che ne discendeva sui prodotti finanziari creati su quei debiti, dalla conseguente riduzione della domanda statunitense e di altri paesi sostenuta dal credito che ormai veniva meno, alla quale si aggiungeva l’effetto negativo sul livello dei consumi globali della speculazione sul petrolio e sui prodotti alimentari (che rientrava comunque intorno alla metà dell’anno), quindi calo della produzione nei paesi esportatori e, di conseguenza esplosione del fenomeno della disoccupazione con ulteriore incidenza sul livello della domanda. Nel settembre del 2008 quella camera a gas esplodeva davvero.

Il settembre nero ed il ritorno dell’intervento statale Commentando gli eventi drammatici del settembre 2008 l’economista statunitense Stiglitz affermava: “Il

settembre nero equivale per il fondamentalismo di mercato al crollo del muro di Berlino per il comunismo”. Ancora nel 2009, sul Financial Times dell’8 marzo una serie di articoli discuteva sul futuro del capitalismo, il primo dei quali scriveva: “Un altro dio ideologico è fallito, le ipotesi che hanno retto le politiche…per un trentennio appaiono di colpo superate quanto lo è il socialismo rivoluzionario” Vediamo allora gli accadimenti cruciali di quel mese. Domenica 7 settembre il governo degli Stati Uniti d’America nazionalizzava le due più grandi banche americane che concedevano mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, che da sole detenevano circa la metà dei mutui statunitensi. In tal modo lo Stato si assumeva il rischio di mutui per 5000 miliardi di dollari. Tuttavia un’altra banca, la Lehman Brothers veniva lasciata fallire il 15 di quel mese. Il 17, però, era necessario un intervento straordinario della Fed di 85 miliardi di dollari per il salvataggiodell’American Intarnational Group, (AIG) che era la maggior compagnia assicurativa degli StatUniti. Ma ciò non bastava perché mercoledì 8 ottobre occorrerà un altro intervento della Fed di 37,8 miliardi di dollari. La crisi dilagava. Il 21 settembre, domenica, due grandi banche d’investimento, Goldman Sachs e Morgano Stanley, cambiavano status, ottenendo l’immediata approvazione della Fed per diventare holding bancarie, in modo da potere accedere ai prestiti di emergenza della banca centrale. Anche un’altra grande banca d’investimento, Merril Lynch, andava verso il precipizio e veniva salvata con una vendita di emergenza alla Bank of America, la quale però a sua volta ad ottobre cominciava ad incontrare difficoltà, tanto da ritrovarsi in una crisi creditizia, per superare la quale dimezzava i dividendi ed

41 Draghi – Le considerazioni finali – pubblicate su Il Sole 24 Ore del 1° giugno 2008. 42 Vedi resoconto su Il Sole 24 Ore del 15 giugno 2008 43 Vedi l’articolo “Trichet è chiaro: a luglio aumenta il costo del denaro” su Il Manifesto del 26 giugno 2008

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annunciava un piano per rastrellare sul mercato 10 miliardi di dollari. Non credo ci sia bisogno di continuare nell’elencazione dei disastri bancari e finanziari di quell’autunno. C’è soltanto da aggiungere che gli effetti della crisi statunitense si propagarono immediatamente in tutto il mondo, data la struttura della finanza globale di cui si è parlato sopra, e determinarono interventi straordinari delle varie banche centrali che consisterono in immissione di liquidità nel sistema e nella riduzione dei tassi di interesse. Ad esempio, per quel che riguarda l’eurozona, il 12 ottobre, domenica, i quindici paesi varavano un piano che comprendeva la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà, la garanzia pubblica a tutti i prestiti interbancari (questo dimostra che si pensava ancora ad una crisi dovuta sostanzialmente al blocco della liquidità), ed una revisione delle norme contabili a livello europeo. Una delle banche del nostro continente che venne a trovarsi in gravi difficoltà fu la Royal Bank of Scotland, salvata con la statizzazione da parte del governo britannico. Ma non è stata l’unica. In sostanza, a metà 2009, il costo di salvataggio delle banche europee richiedeva nei vari paesi interessati diverse centinaia di miliardi di euro44.

Ovviamente anche gli indici di Borsa statunitensi, europei e giapponesi, presero a cadere rovinosamente, dopo che peraltro la loro discesa era già iniziata dai primi mesi del 2008. Le stesse borse del cosiddetto Bric (Brasile, Russia, India e Cina) avevano perso in un anno il 60-70%. C’è da aggiungere infine che dopo metà anno, era scoppiata anche l’altra bolla, di cui si è fatto cenno in precedenza, che aveva innalzato a livelli altissimi i prezzi dei beni alimentari e del petrolio. In breve, se consideriamo anche la inevitabile flessione della domanda effettiva, è evidente che si stava precipitando in una situazione deflativa che stava evidenziando la crisi strutturale del capitalismo nella fase storica dell’accumulazione di capitale nella prevalente forma finanziaria. Ovvio, di conseguenza, che mancasse uno strumento di compensazione alla caduta della domanda precedentemente alimentata dalle varie bolle e dal credito facile (keynesismo finanziario e keynesismo creditizio), a causa dell’erosione dello Stato sociale e dei bassi salari.

A questo punto, oltre alla massiccia iniezione di liquidità da parte delle banche centrali45, entrava in azione anche lo Stato. Abbiamo già visto sopra gli immediati salvataggi del governo Usa sulla Fannie Mae e sulla Freddie Mac. Oltre a ciò veniva presentato il “piano Paulson” di 850 miliardi di dollari, poi ridimensionato nell’entità dal Senato a 700 miliardi circa, volto all’acquisto di titoli di debito e mutui a rischio. Si trattava, dunque, sempre di intervento finanziario. Lo stesso facevano gli altri governi, con alte percentuali di incentivi rispetto al Pil, tanto da portare i bilanci degli Stati in forte deficit con conseguente rapido e consistente aumento del debito pubblico. Complessivamente, in scala globale, da bilanci statali, Banche centrali ed enti di garanzia sui depositi (pubblici anch’essi) per il salvataggio del sistema erano arrivate risorse pari a 23mila miliardi di dollari, di cui la metà di provenienza statunitense. Si consideri, per un confronto, che la seconda guerra mondiale costò agli Usa 3600 miliardi di dollari ed il New Deal 500 miliardi46. Si è trattato soprattutto di salvataggi finanziari. A questi valori vanno poi aggiunti quelli del piano Geithner-Summers varato nel 2009, calcolati in circa mille miliardi di dollari, per liberare le banche dai titoli tossici, in modo che tornassero a svolgere la loro funzione creditizia. Naturalmente il ritorno massiccio dello Stato era parallelo a quello delle banche centrali che, oltre a iniettare continuamente liquidità, continuavano a ridurre i tassi di interesse allo scopo di facilitare il ritorno dell’indebitamento e quindi della domanda. In una parola era ricomparso una sorta di socialismo però declinato ora verso la difesa della accumulazione finanziaria, od anche, potremmo dire, un nuovo statalismo, e con un ossimoro uno statalismo liberista.

La cosa sorprendente, però fino ad un certo punto, è che lo Stato, che secondo il presidente Reagan era il problema, tornava ad essere la soluzione. Non solo, ma erano proprio quelli che fino ad allora avevano decantato le virtù del libero mercato, a richiedere questo sostegno. “Lo stato sostenga la domanda ma non aiuti una singola azienda” chiedeva l’iperliberista Alesina47. Ancora sul Corriere della Sera dell’8 dicembre 2008 l’economista

44 Tabella dati su Il Sole 24 Ore del 20 giugno 2009 45 Si tenga presente che la Fed negli ultimi tre mesi del 2008 ha erogato prestiti di emergenza per quasi 2000 miliardi di dollari, accettando in cambio titoli spazzatura, cioè ormai privi di un prezzo di mercato. Per compiere tale operazione veniva stampata nuova moneta, per cui la base monetaria (riserva complessiva più contante in circolazione) tra settembre e dicembre 2008 aumentava del 76%. Il precedente record di crescita era del 28% e risaliva al 1939. Il risultato in termini di rilancio della crescita è stato però nullo, perché l’effetto vero in quei giorni fu di fare entrare il sistema in una “trappola di liquidità”, perché le banche anziché ripristinare la circolazione del denaro preferirono accantonarlo, se non altro per ristabilire la loro riserva valutaria. 46 Mario Margiocco – Un salvataggio da 23mila miliardi – su Il Sole 24 Ore del 22 marzo 2009 47 Su Affari e Finanza di Repubblica del 17 novembre 2008

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Giavazzi argomentava a favore della spesa pubblica in deficit, osservando che una politica di rigore per tranquillizzare i mercati era sbagliata, perché ciò che li preoccupava era la sostenibilità del debito pubblico sul medio periodo e non il deficit di un anno. Il messaggio da dare ai mercati era allora quello di proseguire la politica delle riforme, a partire da quella delle pensioni. La crisi, insomma, doveva essere l’occasione da non perdere per completare lo smantellamento dello Stato sociale48. Lo stesso argomento era stato proposto da Alesina il primo dicembre, che insisteva sempre sulla necessità della riforma pensionistica in Italia per evitare l’eccessiva crescita del debito pubblico49. In breve, lo Stato doveva intervenire rapidamente anche nel nostro paese, solo che questo intervento avrebbe dovuto essere provvisorio, in modo da restituire l’economia ai processi di mercato con la sua ritirata, dopo la soluzione della crisi attraverso l’intervento pubblico, il cui onere doveva essere scaricato su pensioni e salari. Nella mente di questi economisti sostenitori del liberismo estremo anche nelle circostanze della crisi, la giustificazione rimaneva sostanzialmente il principio della bontà dell’economia di mercato, e non sorgeva alcun dubbio sul fatto che la disuguaglianza sociale ed i bassi salari, quali effetti delle politiche economico-sociali degli ultimi decenni, e che ora si continuava a propugnare aggravandoli, potessero ripercuotersi negativamente sulla domanda effettiva, quindi sulla produzione e sulla stessa crescita. Si è arrivati addirittura a sostenere che “Il sogno americano prevarrà sulla crisi, se la politica non sarà troppo invadente”. Ciò perché “Il credit crunch non è colpa del mercato” e “L’economia reale è solida e tiene”.50 In breve, risulta evidente che dietro queste esternazioni rimaneva l’idea che la crisi fosse un semplice incidente di percorso, senza nulla di strutturale e quindi di storico, per cui bastavano alcune azioni correttive per rimettere in sesto l’andamento dell’economia, da restituire poi alle sue stesse leggi, senza alcuna ingerenza statale. Affermava, infatti, Giavazzi: “Una delle rarissime modernizzazioni avvenute in Italia nel dopoguerra risale agli anni Novanta e consiste nell’aver reso l’economia indipendente dalla politica”51.

Ovviamente queste idee collimavano e collimano perfettamente con le richieste del mondo imprenditoriale. All’assemblea della nostra Confindustria il 21 maggio 2009, la presidente Marcegaglia chiedeva al governo italiano di spendere di più, però indirizzando le risorse verso le imprese perché “non devono vincere le forze che tendono sempre a statalizzare l’economia”. Il male, infatti, non sta “nel capitalismo in sé che crea benessere”, bensì nell’anarchia del capitalismo “quando sono mancati i meccanismi di vigilanza”. Per quel che riguarda il reperimento dei fondi si indicava certo la lotta all’evasione fiscale (che certamente ha poco a che vedere con i lavoratori salariati, ma almeno in una certa misura riguarda proprio il mondo imprenditoriale), ma soprattutto si insisteva sulla riduzione della spesa corrente, con l’innalzamento dell’età pensionabile, con la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. In conclusione “Lo Stato deve rimettere in carreggiata l’economia e ridefinire le regole”. Una volta svolto questo compito “dovrà rientrare nei suoi confini”. Fra queste regole da ridefinire veniva indicata la riforma del meccanismo contrattuale perché “valorizza la cultura della condivisione fra impresa e lavoro”. In queste richieste confindustriali emergevano alcuni elementi degni di sottolineatura. Da un lato si invocava l’intervento salvifico dello Stato, sia pure giustificato dalla mancanza di vigilanza sui mercati. D’altronde non si può chiedere alla cultura dei nostri imprenditori una visione critica dei meccanismi economici propri del capitalismo. Il sistema per loro va bene così com’è, purché vengano assicurati i profitti e le condizioni di lavoro siano rese compatibili con questo obiettivo primario. A questo scopo, quando il sistema vacilla torna comodo l’intervento statale con la spesa pubblica, purché la presenza dello Stato nel processo economico sia provvisoria, serva ad evitarne il crollo per lasciarlo di nuovo libero di funzionare secondo le sue leggi. Ovviamente fino alla prossima, inevitabile, crisi strutturale, come la storia dell’economia capitalistica dall’Ottocento in poi dimostra abbondantemente.

In linea generale, era comunque evidente che il mercato da solo non era in grado di creare autonomamente la domanda sufficiente a far ripartire l’economia, dopo il crollo dei consumi statunitensi. Questo, come si è appena

48 F. Giavazzi – Trovare il coraggio – Corriere della Sera 8 dicembre 2008 49 Intervista ad Alberto Alesina su il Corriere della Sera del primo dicembre 2008 50 Carlo Stagnaro – L’America ce la farà perché è l’America – in Limes n.5, 2008 – Il Mondo dopo Wall Street 51 Su Il Sole 24 Ore del 30 novembre 2008. Lo stesso concetto veniva espresso da I. Cipolletta, secondo il quale si dovevano sì correggere alcune regole dei mercati, in modo però da salvaguardare le riforme degli ultimi trent’anni, e soprattutto evitare il ritorno della politica a regolamentare i salari. Anche l’economista Nicola Rossi, senatore PD nella legislatura iniziata nel 2008, sul Corriere della Sera del primo dicembre 2008, insisteva che per impedire che il nostro paese uscisse indebolito dalla crisi occorreva aumentare la durata del tempo di lavoro, compreso quello delle donne alle quali si doveva chiedere “di rinunciare all’iniquo privilegio di un’età pensionabile inferiore a quella maschile”.

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visto non veniva riconosciuto, anzi si continuava in sostanza da parte di questi estremisti sostenitori del laissez faire a mantenere l’idea, su cui costruivano le loro argomentazioni, dell’efficienza, della razionalità, della capacità di autoequilibrio del libero mercato. Nondimeno qualche dubbio cominciava a serpeggiare se sul Financial Times del 12 novembre 2008 si poteva leggere che “Il capitalismo non può essere considerato un dogma in ogni circostanza”. Ed ancora, Strauss-Khan, presidente del Fondo Monetario Internazionale, dichiarava che “Il mercato non risana il mercato”, mentre il suo Direttore generale, Rato, riconosceva che “la disuguaglianza frena la crescita”. In breve si registrava una vera e propria conversione al principio dello Stato interventista, come già nel marzo 2008 segnalava il sociologo tedesco Ulrich Beck52. Il mito di lasciar fare al mercato subiva perciò un drastico ridimensionamento e non appariva più del tutto credibile53. In Italia, anche l’ex ministro Padoa Schioppa dichiarava essere ormai evidente “la crisi di una visione ideologica dell’economia, quella secondo cui i mercati hanno sempre e comunque ragione e non hanno bisogno di interventi”54.

Se queste correzioni teoriche, potremmo dire, erano imposte dall’evidenza dei fatti, non per questo, però, i principi fondanti l’ideologia neoliberista venivano del tutto abbandonati, come si è notato sopra. In altri termini, non si poteva fare a meno di chiedersi com’era possibile che un’era di liberalizzazioni, di deregolamentazioni, di privatizzazioni, di crescita soprattutto finanziaria, fosse andata a precipitare in una crisi così rovinosa. Non solo, ma gli interventi politici che avevano consentito all’economia di superare la crisi degli anni ’70, globalizzandosi, erano stati esaltati e salutati come la corretta azione dei governi per restituire al sistema economico quella piena libertà che ne assicurava l’efficiente funzionamento e garantiva in tal modo la crescita della ricchezza senza incontrare squilibri destabilizzanti. Ed allora, come giustificare la richiesta dell’intervento dello Stato al fine di arrestare il crollo del mercato, non solo, ma anche per rivitalizzarlo e rimetterlo sul binario dello sviluppo?

Una buona parte di coloro che fino al 2007 avevano esaltato l’economia globalizzata, e quindi la politica che l’aveva consentita, compresa quella delle banche centrali a cui, con decisione politica delle autorità governative e dei parlamenti, era stato consegnato il governo della moneta in piena libertà, hanno perciò iniziato ad andare alla ricerca del colpevole. In altre parole, si trattava di individuare il capro espiatorio su cui scaricare la responsabilità di tutto quello che stava accadendo, in modo da poter salvaguardare l’idea della piena affidabilità dell’economia liberalizzata, turbata solo da errori umani e da fattori soggettivi. Bisognava, insomma, fronteggiare il diffondersi della sfiducia dopo il settembre nero anche fra coloro che avevano fino ad allora sostenuto la bontà del neoliberismo e dell’economia globalizzata, ed erano stati la stragrande maggioranza degli economisti, dei giornalisti economici e degli uomini politici. Cominciavano così ad apparire scritti che tentavano ancora una volta la difesa accanita dell’ordine economico fondato sui mercati liberalizzati. Giavazzi ed Alesina, ad esempio, in un loro libro uscito nell’autunno del 2008, ammonivano che troppo Stato fa male all’economia e che le crisi, anche quella del 1929, erano dovute ad errori di politica economica e monetaria. La conclusione era che la politica non può salvare l’economia e che, quindi, i responsabili politici devono seguire le indicazioni di “color che sanno”, ossia degli esperti quali sono gli economisti, ovviamente di scuola liberista, che possiedono il vero sapere economico55.

A sostegno di questa tesi si è fatta la comparazione con la crisi degli anni Trenta, osservando che domanda, produzione ed occupazione non sono cadute come allora, senza però minimamente preoccuparsi di accertare se i dati messi a confronto fossero omogenei. Perché, a ben guardare, il crollo nelle dimensioni del 1929 non è avvenuto, proprio perché è stato impedito dal livello più alto delle pensioni, dal fatto che è rimasta ancora una spesa pubblica consistente, come pure hanno esercitato un effetto positivo le difese sociali per i disoccupati, per quanto insufficienti. In breve, ad impedire che il sistema dell’economia capitalistica precipitasse nella situazione conosciuta nel quarto decennio del ‘900, e forse in una ancora peggiore, ha provveduto ciò che resta dello Stato sociale, compresa una quota più alta di dipendenti pubblici rispetto al 1929. Per di più, nell’attuale crisi, gli Stati e le banche centrali sono intervenuti prontamente per evitare il collasso del sistema nel momento in cui, anche i

52 U. Beck – I convertiti allo Stato interventista – La Repubblica del 29 marzo 2008 53 M. Niada – Intervista all’economista W. Buiter, in Il Sole 24 Ore del 20 settembre 2008; M. Skapinker - Every fool knows it’s a job for government, Financial Times del 18 novembre 2008 54 Interviste di M. Giannini su La repubblica delo 6 ottobre 2008 e di A. Orioli su Il Sole 24 Ore del 9 novembre 2008. Anche M. Vitale – L’economia malsana, l’economia vera – Il Sole 24 Ore del 28 settembre 2008 55 Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – La crisi. Può la politica salvare il mondo? – Ed. Il Saggiatore

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ciechi si erano accorti che la caduta dell’economia stava delineando effetti catastrofici, diversamente da quello che avvenne allora quando si attesero quattro anni e cioè fino al 1933, perché si desse avvio ad interventi pubblici.

Sulla base della impostazione neoliberista ed allo scopo di difendere ideologicamente l’economia capitalistica nella forma che aveva assunto negli ultimi tre decenni, si è allora iniziato a ricercare l’indiziato sul quale scaricare la responsabilità di ciò che era accaduto a partire dall’estate del 2007. A dire il vero con molte contraddizioni e paradossi. Infatti, proprio una parte di coloro che avevano sostenuto ed esaltato le politiche di deregolamentazione e di piena liberalizzazione, cominciava a chiamare in causa il sistema delle regole, giudicato ora troppo permissivo e carente sotto il profilo del corretto funzionamento dei mercati56. Si sono fatti anche dei nomi, a partire da quel Greespan tanto lodato nel passato ed ora invece sottoposto a severa censura57. E’ stato tirato in ballo pure il fattore morale, attribuendo le speculazioni che hanno creato le bolle finanziarie a soggetti senza scrupoli, avidi di rapidi guadagni, che con la loro spregiudicatezza avrebbero finito per contagiare anche i settori sani dell’economia58. Come se questi speculatori non avessero agito secondo le leggi del sistema, ossia con lo scopo di massimizzare gli utili delle loro banche e dei loro fondi di investimento e, conseguentemente, i loro bonus personali, con qualsiasi nuova strumentazione finanziaria59. Altri hanno rimarcato lo scarso controllo sulle operazioni di Wall Street da parte della SEC, cioè dell’ente preposto a questo compito, come se la mole dei derivati, i tipi di contrattazioni per via privata e non ufficiale, potessero consentire la salvaguardia di un sistema creato proprio politicamente per permettere la crescita illimitata del capitale finanziario. Il fatto è, lo abbiamo notato sopra, che questi critici severi non solo avevano taciuto, ma anzi avevano lodato e sostenuto quel tipo di processo economico ed ora si arrampicavano sugli specchi per sfuggire alla questione di fondo e cioè se la radice della crisi non si dovesse in realtà andare a cercarla nel sistema nel suo complesso e non coinvolgesse lo stesso modo di produzione capitalistico. Insomma, non ci si voleva rendere conto, per citare ancora Guido Rossi, che“Ad essere venuto meno è l’intero complesso degli ingranaggi del sistema” 60

La crisi si estende all’economia “reale” Ovviamente, e non poteva essere altrimenti, la crisi finanziaria finiva per ripercuotersi sul livello di produzione

e quindi di occupazione. La caduta del “keynesismo finanziario e creditizio”, di cui si è parlato in precedenza, determinava quella della domanda statunitense che aveva assorbito tutto il surplus mondiale. Di conseguenza, il venir meno di questo sbocco o, comunque, il suo forte ridimensionamento, metteva in forti difficoltà le economie dei grandi esportatori e, con effetti a catena, più o meno di tutti i paesi. Ne dava conferma la diminuzione del Pil statunitense che nell’ultimo trimestre del 2008 era pari al 6,2%, quello giapponese del 13,3% e quello dell’Unione Europea del 3,2%. Nello stesso periodo le spese reali per consumo negli Stati Uniti calavano del 4,3%. A loro volta gli investimenti delle imprese statunitensi in capitali fissi si riducevano intorno al 40% e forse più, considerato che la spesa del governo federale aumentava del 6,7%. Se teniamo presente che nei primi tre mesi della depressione del 1929 il Pil americano diminuì del 5,5%, con un incremento delle spese federali del 4,2% ed il calo degli investimenti fu del 35,2%, si può dire che a fine 2008 l’economia statunitense presentava un

56 Vedi la critica di Guido Rossi a questa lettura nell’intervista– Questo non è più capitalismo – su Limes cit. 57 La difesa da parte di Greespan del proprio operato si avvaleva del giudizio del premio Nobel dell’economia Smith, secondo il quale niente era prevedibile. Su Il Sole 24 Ore del 24 maggio 2009. Sempre sullo stesso giornale e nella medesima data, in senso del tutto opposto l’articolo di Marco Vitale – Sbagliare non era obbligatorio. Molti avevano intuito la crisi. Ora le banche tornino a fare le banche. Vi si sostiene, anche, che una delle avvisaglie della crisi era la crescente polarizzazione fra ricchi e poveri. 58 L’episodio più clamoroso è stata la truffa di circa 50 miliardi di dollari del finanziere americano B.Madoff, col cosiddetto sistema Ponzi. 59 André Orlèan – Dall’euforia al panico – Ombre corte 2010 60 Intervista a Guido Rossi cit. A parere di Rossi questa crisi è diversa da quella del 1929, che fu una crisi di un sistema basato sull’economia reale, mentre quella odierna “è maturata in seno a speculazioni finanziarie, e solo ora sta cominciando ad avere conseguenze evidenti sull’economia reale”. Io credo, al contrario, che anche questa crisi oltre che essere di natura sistemica, coinvolgendo appunto l’intero apparato, finanziario e produttivo, abbia la sua radice nel modo di produzione capitalistico. Questo tema è di importanza tale da richiedere una trattazione specifica e talmente ampia che non è possibile svolgere nell’ambito della presente ricerca.

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andamento che aveva aspetti catastrofici, tenuto conto inoltre della enorme massa di liquidità monetaria immessa dalla Fed per tamponare il crollo finanziario. Anche il flusso di capitali privati in entrata ed uscita dagli Stati Uniti d’America passava dal 15% del Pil a zero61. Più o meno lo stesso, del resto, accadeva nelle altre due grandi aree economiche, quella europea e quella asiatica, la cui crescita era stata trascinata dalla locomotiva americana, come abbiamo visto sopra62.

Ovviamente la conseguenza inevitabile di questo andamento economico era l’aumento rapido ed intenso della disoccupazione. A partire dal 2007, per il 2008 ed il 2009 ed anche il 2010, almeno finora, l’aumento dei disoccupati è stato costante in tutti i paesi. Negli Usa a settembre 2009 il tasso di disoccupazione era salito al 9,8% con sette milioni di posti di lavoro persi. Nell’UE, Eurostat stimava ad agosto 2009 una cifra di circa 22 milioni di senza lavoro, di cui oltre 15 milioni nell’area euro. Ocse e Fmi prevedevano per il 2010 un aumento del fenomeno . Anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro calcolava che dalla crisi emergeranno quasi 60 milioni di disoccupati, con oltre 200 milioni di lavoratori spinti verso la soglia della povertà63. I dati ad ottobre 2010 confermavano questo trend negativo. Nell’area euro si raggiungeva il 10,1%, con alcuni paesi a livelli altissimi: la Spagna al 20,5%, l’Irlanda al 13,9%, la Grecia al 12,2%, ed i paesi baltici a grandezze di poco inferiori al 20%. L’Italia era all’8,2%, la Francia al 10,1%, la Germania 6,8%, il Regno Unito al 7,8. L’aspetto più preoccupante era il fatto che la maggior parte delle disoccupazione era giovanile. In Spagna addirittura raggiungeva il 41,6%, mentre il dato italiano era del 25,9% (ossia un giovane su tre) e quello Usa del 18,1%64. A livello globale, secondo il New Global Albert System, la disoccupazione avrebbe potuto salire a 61 milioni di lavoratori, con una crescita di cento milioni di nuovi poveri, mentre i licenziamenti imperversavano ovunque, compresi Giappone e Russia65. Anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) accertava ad ottobre 2009 una netta discesa dei salari mensili reali nei 35 paesi rilevati, rispetto alla media del 2008 a sua volta in riduzione relativamente al 2007, dietro il quale comunque c’era stato un decennio di moderazione salariale. Secondo l’Ilo questa deflazione salariale privava le economie nazionali della necessaria domanda per la ripresa66.

La cosa sconcertante è che di fronte a queste cifre, soprattutto quelle della disoccupazione giovanile, come abbiamo visto e continueremo a registrare anche successivamente, si continuasse a chiedere da parte degli economisti “ortodossi”, delle istituzioni economiche internazionali (Fmi, Ocse, Bce ecc.), della nostra Confindustria e di molti politici, che soprattutto venisse politicamente attuato l’aumento dell’età pensionabile, con l’inevitabile effetto di mantenere gli anziani al lavoro mentre la maggior parte dei giovani ne rimanevano esclusi. Fra l’altro ciò porta a riflettere sul tema della produttività continuamente invocato dai soggetti sopra richiamati, con l’interrogativo se effettivamente interessasse ed interessi alle nostre imprese sviluppare una maggior capacità produttiva quando i soggetti più dotati ed aperti alle innovazioni tecnologiche, quali sono i giovani rispetto agli anziani, rimanevano e rimangono a comporre la quota più alta della disoccupazione. C’è infine da aggiungere che a sua volta la crescita della massa di lavoratori disoccupati ha avuto ed ha per effetto quello di comprimere ulteriormente la domanda verso il basso, producendo in tal modo un effetto moltiplicatore keynesiano rovesciato. D’altra parte, le cosiddette riforme realizzate in Italia e non solo, dagli anni Novanta in poi, del mercato del lavoro con la conseguenza di creare nuove figure lavorative contrassegnate dalla precarietà e dalla bassa remunerazione, delle pensioni sistematicamente svalutate con una crescita inferiore all’inflazione, come abbiamo visto dai dati riportati in precedenza, della riduzione della spesa pubblica soprattutto sociale, su cui ritornerò più avanti, non potevano avere per conseguenza che l’ulteriore riduzione della domanda, con l’inevitabile incidenza

61 I dati sono ricavati da P. Giussani – Il vestito nuovo del capitalismo cit. 62 C.L. Del Bello – Globalizzazione al bivio – Il Manifesto del 31 dicembre 2008 63 Il Sole 24 Ore del 3 ottobre 2009 64 Il Sole 24 Ore del 3 luglio 2010 ed Il Sole 24 Ore del 10 ottobre 2010. Questi dati sono in realtà per difetto, dato che, ad esempio, non vengono considerati disoccupati coloro che non cercano lavoro perché ormai scoraggiati, che non lavorano neppure un’ora la settimana in quelle di riferimento per il calcolo e così via. Per l’Italia, si è calcolato che la disoccupazione effettiva raggiunga la grandezza di circa il 17% della mano d’opera attiva. Sempre per il nostro paese l’Istat calcolava che ad ottobre 2009 nell’industria l’occupazione era calata dell’8,1%, con le ore di Cassa integrazione (Cig) al 9,4% di quelle lavorate. 65 Il Sole 24 Ore del 26 settembre 2009 66 Insomma a novembre 2009, se guardata dal lato della disoccupazione, la crisi mordeva ancora, tanto che per gli Usa si poteva parlare di emergenza lavoro per 17,5% degli americani. Articolo di M. Platero su Il Sole 24 Ore dell’8 novembre 2009, che riprendeva i dati apparsi sul New York Times del 6 novembre.

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negativa sul livello della produzione e quindi dell’occupazione stessa, come aveva sottolineato l’Ilo. Insomma, si era precipitati in una crisi di sovrapproduzione, a cui si rispondeva ridimensionando il processo produttivo e quindi, lasciando inutilizzati quelli che l’economia ortodossa definisce i fattori della produzione, cioè capitale e lavoro. Del resto i dati sul Pil a fine 2009 erano inequivocabili. Sull’anno precedente, che era stato già un anno già di sofferenza, soprattutto nell’ultimo trimestre come abbiamo visto sopra, in Europa, ad esempio, la caduta era rovinosa: Italia meno 5,0%, Francia meno 2,2%, Germania meno 5,0%, Spagna meno 3,6%, Regno Unito meno 5,0%, media UE a 27 meno 4,2%. Ovviamente retrocedeva anche il livello del Pil procapite in tutti questi paesi67. Nei paesi dell’Ocse il declino del Pil nel 2009 è stato del 3,4%68.

Era esplosa quindi una crisi di dimensioni globali, segnalata appunto dai fenomeni appena descritti che hanno interessato tutti i paesi, in misura più o meno grande. Ne risentiva ovviamente anche il commercio internazionale, la cui grandezza cadeva bruscamente come indicava il Baltic Dry Index, crollato del 92%69. Naturalmente la caduta della cosiddetta economia reale si ripercuoteva a sua volta sulle banche, non solo perché mancando gli investimenti si riducevano anche i crediti e quindi una importante fonte di utili, ma soprattutto perché aumentavano le insolvenze dei debitori pregressi, non solo famiglie in grossa difficoltà per la diminuzione dei redditi da lavoro e per la disoccupazione, ma anche di imprese che a causa della brusca ridotta domanda si trovavano impossibilitate a collocare una parte della loro produzione precedentemente programmata. Erano soprattutto le piccole banche a subire questi contraccolpi, tanto che in Usa a dicembre del 2009 ne erano già fallite 133, con molte altre vicine allo stato di insolvenza. Anche in Europa la preoccupazione aumentava. Nell’area euro erano soprattutto le esposizioni delle banche occidentali, tedesche soprattutto, verso i paesi dell’est in grosse difficoltà, mentre anche la Bank of England segnalava la fragilità delle banche britanniche70.

Di fronte all’andamento appena descritto non c’è da meravigliarsi del peggioramento delle condizioni sociali in tutto il mondo, di cui l’indice più triste era l’aumento della popolazione affamata che raggiungeva la cifra impressionante di un miliardo e venti milioni a fine 2009, mentre andavano diminuendo gli aiuti dei paesi più ricchi71. Peraltro anche nei paesi sviluppati, a causa della disoccupazione e dei bassi salari, le disuguaglianze sociali aumentavano. In Italia l’Istat segnalava a fine dicembre 2009 che erano sempre più numerose le famiglie che col loro reddito non arrivavano a fine mese. Per la Cgil il dato era di una su quattro. La crisi, insomma, faceva aumentare le distanze sociali, con l’indice Gini che da noi raggiungeva la grandezza di 35, in Polonia 37, in Usa 38, in Portogallo 42, in Turchia 43, in Messico 4772 e quindi con l’ulteriore aumento dei “working poor , dei lavoratori poveri. In Usa il rapporto fra il reddito del 10% più ricco della popolazione e quello del 10% più povero era cresciuto del 40% rispetto al 1975.

2009: la crisi è finita e torna la ripresa? Di fronte ai dati appena esposti dovrebbe essere stato ed essere difficile dichiarare che ormai si era e si è usciti

dalla crisi e che la crescita economica aveva ed ha ripreso il suo cammino. Eppure a partire da aprile del 2009 queste valutazioni hanno cominciato gradatamente a prendere campo73. L’economista Alesina, intervistato da La Repubblica affermava che “L’emergenza è passata…I fatti mi danno ragione”. Infatti “credo che il mercato si

67 Elaborazione di La Repubblica su dati Eurostat, Istat e Banca d’Italia. 68 Affari e Finanza di La Repubblica del 15 febbraio 2010 69 Il Baltic Dry Index è l’indice delle quantità trasportate di materie prime, minerali ed altre per effetto del commercio mondiale. 70 Il Sole 24 Ore del 19 dicembre 2009 71 Vedi grafici su www.wfo.org e La Repubblica del 20 settembre 2010 72 L’indice Gini è già stato definito nella precedente nota 18. I suoi valori di 35 e superiori segnalano forti disuguaglianze Fitoussi e Stiglitz sostenevano che all’origine della crisi c’era stato proprio l’aumento delle disuguaglianze sociali, che hanno fatto esplodere il sistema finanziario. Dati e commento su La Repubblica del 5 luglio 2010 73 Su Il Sole 24 Ore del 9 giugno 2009 – R. Sorrentino – Si riaffaccia la crescita. E’ Finita? Sembra proprio di sì. Il mondo sta uscendo dalla crisi. Si parla così di fine della crisi, chissà forse perché in un anno terribile come è stato il 2009 col Pil mondiale sceso del 4%, con la distribuzione del reddito ancor più disuguale, se non altro a causa della riduzione del monte salari dovuta in parte anche all’accresciuta disoccupazione, l’agenzia Forbes annuncia che gli uomini più ricchi del mondo passano da 793 del 2008 ai 1001 del 2009, con un patrimonio complessivo di 3600 miliardi di dollari, cresciuto in un anno del 30%. Vedi anche nota 1

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autoregoli e sia in grado di trovare i meccanismi di recupero”. Il problema che veniva posto allora era l’eccesso di deficit dovuto appunto alle azioni di salvataggio ritenute sì necessarie, però di misura eccessiva, tanto che “Diversi interventi potevano essere risparmiati”74. A settembre del 2009 lo stesso economista si faceva più cauto, osservando che “sembra [quindi nessuna certezza] che la ripresa ci sia, prima delle previsioni…”. Certamente rimanevano dei problemi da affrontare: il deficit pubblico americano, la necessità di sostenere la ripresa spostando la domanda dal pubblico al privato, la disoccupazione che continuerà a crescere, per cui occorreva proseguire la riforma del mercato del lavoro “nella direzione di evitare le dicotomie estreme tra contratti a termine e illicenziabilità”75. In breve, veniva riproposta quella stessa politica ultraliberista che pur qualcosa aveva avuto a che vedere con lo scatenamento della crisi, se per bloccarla lo stesso Alesina a suo tempo aveva invocato l’intervento dello Stato, come abbiamo già visto sopra. Per di più veniva invocata la piena libertà di licenziare, dimostrando in tal modo, ove ce ne fosse ancora bisogno, di tenere separate ripresa economica ed occupazione, per cui alla prima può corrispondere la diminuzione della seconda. Insomma, la piena occupazione finiva cancellata definitivamente in qualsiasi obiettivo di politica economica, giacché non è compatibile con l’economia capitalistica, che ha nell’«esercito industriale di riserva» la risorsa basilare per estrarre il massimo rendimento dall’utilizzazione senza lacci e laccioli della forza lavoro.

Il fatto nuovo che forse può avere sospinto questo ottimismo è stato l’improvvisa impennata verso l’alto delle borse valori che il 9 marzo hanno ripreso appunto a crescere rapidamente. Ma di che cosa si trattava? Era davvero un segnale che anticipava la ripresa dell’economia produttiva, secondo una tradizionale opinione, oppure si prospettava ancora una volta una crescita fittizia di puri valori speculativi? Gli analisti americani la motivavano con l’aumento degli utili delle imprese. In realtà, dal 1936, cioè da quando sono iniziate le statistiche, non si era mai visto un crollo dei profitti così grande dopo il terzo trimestre del 200876. Nonostante ciò i valori borsistici dei titoli bancari a metà aprile avevano fatto un balzo addirittura fino al 33%. E la crescita proseguiva per i mesi successivi, sia pure con alcune pause e piccole retrocessioni, tanto che a fine anno ormai la speculazione era ritornata tale e quale al passato da cui era uscita la crisi, con livelli altissimi sui prodotti creativi di ogni genere, dai crediti “default swap”, fino ai mutui immobiliari cartolarizzati, nonostante a settembre il 14% delle famiglie statunitensi con mutuo fosse in ritardo sulle rate della casa e 4 milioni di famiglie rischiassero di perdere il loro appartamento77. Non solo, ma il Fmi correggeva al rialzo le svalutazioni globali, soprattutto a carico delle banche, cariche di titoli tossici. Nei soli Stati Uniti si passava da 1400 miliardi di dollari a 2700 miliardi78. In Europa le svalutazioni erano calcolate nella grandezza di 737 miliardi di euro, di cui 551 miliardi di prestiti alle imprese e 186 miliardi di titoli tossici. Inoltre rimaneva critica la situazione dei paesi dell’est europeo, che avevano debiti con le banche occidentali talvolta superiori al loro Pil. Date queste condizioni il Fmi stimava perciò positivi gli aiuti dei governi per ricapitalizzare le banche, anche eventualmente con la loro nazionalizzazione purché temporanea.

Com’era stata possibile allora questa ripresa finanziaria che andava riproponendo una crescita spropositata di derivati, come pure nuove ondate di speculazione su petrolio, materie prime e prodotti agro-alimentari? Per quel che riguarda i derivati ormai nessuno nel 2009, ed anche oggi, era ed è in condizioni di calcolare con precisione il loro nuovo ammontare. Il fatto significativo è che, nonostante l’ottimismo profuso a piene mani da organismi internazionali, banche centrali, economisti ortodossi e politici, in realtà c’era stato prima un rallentamento della caduta e successivamente una ripresa però stentata, tanto che ad agosto e settembre del 2010, ad esempio, la diagnosi della Fed sull’economia statunitense esprimeva valutazioni poco lusinghiere79. Ma nonostante ciò Wall Street continuava a salire. Il motivo veniva indicato in un articolo su Il Sole 24 Ore, dal titolo significativo: “La liquidità fa lievitare Wall Street”, dove si diceva chiaramente che l’aumento dell’offerta di moneta aveva messo le

74 Su La Repubblica del 12 aprile 2009 75 A. Alesina – Passata la tempesta ma senza far festa – su Il Sole 24 Ore del 20 settembre 2009 76 W. Riolfi – La bolla lievita con il gioco delle stime – su Il Sole 24 Ore del 2 agosto 2009. 77 Affari e Finanza di L Repubblica del 23 novembre e del 30 novembre 2009 78 Il Fmi ha calcolato che in Usa e nel Regno Unito le perdite siano state nel 2008 pari rispettivamente al 22% ed al 31% del Pil. 79 Bernanke riconosceva che “La crescita si è rivelata più debole del previsto” e pertanto prometteva misure non convenzionali per sostenere la ripresa Usa. Su Il Sole 24 Ore del 28 agosto 2010

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ali ai mercati finanziari80. In altre parole si stava chiaramente manifestando il paradosso della crisi. Da un lato le imprese produttive rimanevano inchiodate alla stretta del credito, anche perché in uno scenario di mercati a crescita limitata e lenta venivano meno le prospettive di ulteriori investimenti redditizi, col conseguente calo degli occupati, come abbiamo visto in precedenza. Dall’altro però si assisteva ad un boom di iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali. Il fatto che a fine agosto 2009 le borse, dai minimi di marzo, avessero guadagnato il 54% in Europa ed il 52% negli Stati Uniti, stava ad indicare senza alcuna ombra di dubbio, dove si era andato ed andava (e va tuttora) a collocarsi l’elevatissimi iniezione di liquidità da parte delle banche centrali e dei governi. Detto apertamente, questa enorme massa di denaro anziché finanziare imprese e famiglie finivano in acquisto di azioni, di titoli di stato, di corporate bond e materie prime ed in speculazioni valutarie. Si consideri, ad esempio, che la liquidità immessa dalla Fed a metà 2009 rispetto al 2007 era maggiore di mille miliardi di dollari, con un aumento dei contanti in circolazione più riserva delle banche, del 99% in un anno. Anche la Bce si comportava nella stessa maniera, ad esempio con un prestito a un anno di 442 miliardi di euro all’1%, offerto a circa mille banche europee il 24 giugno 2009. Da notare che questo fiume di denaro veniva concesso al sistema bancario dalle banche centrali senza alcun vincolo di destinazione. A tutto ciò si aggiungevano i miliardi spesi dai governi per soccorrere i mercati finanziari, di cui si è detto. Da tenere presente che su questi finanziamenti gravavano (e gravano) tassi bassissimi, essendo stato il tasso di interesse della Fed portato allo 0-0,25% e quello europeo all’1%, come è stato ricordato sopra. In breve, le banche sopravvissute alla crisi sono diventate molto più grandi di prima, continuando ad usufruire delle garanzie implicite (too big to fail, troppo grandi per fallire) sia delle banche centrali, sia degli Stati.

In definitiva, le banche hanno fatto ancora una volta un uso speculativo di questa enorme massa monetaria. Le imprese sono state finanziate in grandezza molto ridotta o in gran parte per niente. Si consideri che a livello mondiale i prestiti concessi dalle banche alle imprese produttive ammontavano appena a 1073 miliardi di dollari, mentre nel 2008 erano 3000 miliardi e nel 2007 raggiungevano i 4900 miliardi di dollari. Quindi la quasi totalità del denaro ricevuto era investito dalle banche nei mercati finanziari e ciò spiega l’impennata verso l’alto dei valori borsistici. Una operazione speculativa particolarmente lucrosa era ed è quella del cosiddetto “carry trade”. La banca, cioè, si finanzia presso la banca centrale ai tassi bassissimi che abbiamo visto, ed investe poi quel denaro in operazioni finanziari dai rendimenti più elevati, compreso l’acquisto dei titoli di stato, lucrando sul differenziale dei tassi. In breve, soprattutto per le grandi banche di livello mondiale (Goldman Sachs, J.P. Morgan ed altre), ormai ridotte di numero a causa dei fallimenti e delle incorporazioni, gli utili tornavano in misura consistente. Naturalmente rimaneva e rimane l’interrogativo se questa massa enorme di liquidità, cresciuta circa del 100% in un anno, poteva servire e servirà per uscire dalla crisi o creerà una nuova bolla, considerato che molte di queste operazioni speculative si presentavano e si presentano ad alto rischio81. Si tenga presente che già nei primi mesi del 2009 la Sec (cioè la commissione di controllo della borsa americana) stimava in 596 mila miliardi di dollari l’ammontare dei derivati in circolazione, mentre la Banca dei Regolamenti Internazionali (Birs) elevava quella grandezza ad un milione di miliardi di dollari. Un anno dopo, il commissario europeo Barnier esprimeva grande preoccupazione perché, secondo i suoi dati, il mercato dei derivati era di nuovo tornato a livelli

80 Su Il Sole 24 Ore del 25 settembre 2010. Da notare che le riserve valutarie sono cresciute nel mondo vertiginosamente fino a raggiungere l’imponente mole di 7700 miliardi di dollari, alimentate soprattutto dalle banche centrali occidentali e da quella giapponese. E’ stato rilevato un preciso legame statistico fra liquidità in circolazione e rendimento delle azioni. Il Sole 24 Ore del 25 aprile 2010. In precedenza, sullo stesso giornale il 28 giugno 2009, Marina Mangano osservava che “gli interventi dei governi e della banche centrali hanno favorito il recupero delle borse” e nel numero del 2 gennaio 2010 si poteva leggere che “L’enorme liquidità è stata il carburante che ha spinto i listini”. Peraltro la Mangano faceva notare la stranezza che l’inizio della ripresa delle borse il 10 marzo 2009, coincidesse col giorno in cui la pubblicazione delle statistiche Usa confermava la più marcata contrazione del Pil dal 1982. A sua volta, sul Corriereconomia del Corriere della Sera in data 21 settembre 2009, Ivo Caizzi prendeva in esame la politica monetaria europea nell’articolo “Le scelte della Bce pesano su occupazione e Bot people”, annotando che “La politica monetaria di Francoforte per ora ha favorito principalmente i guadagni finanziari e degli speculatori”. Insomma, le autorità monetarie europee non si discostavano e non si discostano tuttora di un millimetro dalla linea adottata da sempre. In altre parole, la politica monetaria di inflazione finanziaria, allo scopo di difendere quella forma di accumulazione di capitale, restava e resta al vertice delle loro decisioni. 81 G. Turani – Wall Street spera nella volata d’autunno – Affari e Finanza di La Repubblica del 20 luglio 2009; sempre sullo stesso giornale A. Zampiglione – E le banche riscoprono la propensione al rischio; M. Longo – Paradossi della crisi: stretta sulle imprese e boom di liquidità – Il Sole 24 Ore del 30 agosto 2009

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altissimi, pari a 600 mila miliardi di dollari, di cui l’80% sfuggiva a qualsiasi controllo82. Da qui l’istanza europea ad una regolamentazione finanziaria più rigida a cui si opponevano Stati Uniti e Regno Unito. Quello che comunque appare evidente è che questa massa di liquidità monetaria non è andata a sostenere l’economia industriale, diversamente da quello che si fece nel 1933, quando si separò il sistema bancario commerciale dal mercato azionario. E questo spiega il perdurare ed, anzi, la crescita della disoccupazione, se non altro perché in una situazione di domanda stagnante se non addirittura calante, le imprese industriali hanno cercato di recuperare profitti aumentando la produttività del lavoro, ossia producendo la stessa quantità di merci con personale ridotto83. In sostanza la disoccupazione continuava a crescere84, mentre le banche riprendevano a macinare profitti ed i loro manager ad incassare prebende da favola85. Tanto che il Wall Street Journal stimava che a fine 2009 i bonus per gli alti dirigenti bancari sarebbero tornati a 130 milioni di dollari superando il livello del 2007, proprio quando si calcolava che i senza lavoro nel mondo avrebbero raggiunto a fine anno la ragguardevole cifra di 61 milioni e la crescita continua dei debiti pubblici nella media generale stava tendendo a superare il 100% del Pil86. In definitiva “Ancora una volta l’economia di carta e quella reale hanno preso strade diverse. La prima ha corso con euforia, mentre la seconda è affondata sotto gli occhi di tutti “col tasso di disoccupazione che è salito alle stelle” 87

In definitiva, quello che emerge con estrema chiarezza è che la preoccupazione maggiore della politica interventista degli Stati ha avuto per obiettivo principale quello non solo di salvare, ma di continuare a sostenere un sistema finanziario, che ormai aveva ripreso la sua connotazione precedente alla crisi, cioè la ricerca di profitti a breve usando spregiudicatamente tutti gli strumenti speculativi ancora utilizzabili. Se ne può cogliere un segnale particolarmente significativo negli Stati Uniti nel piano Geithner-Summer (ministro del tesoro il primo e consigliere economico del nuovo presidente Obama l’altro), volto a liberare le banche dai cosiddetti “titoli tossici”, cioè quei titoli ormai di valore estremamente ridotto, se non addirittura nullo, rispetto al loro prezzo di acquisto, caricandone il costo, qualora non si riuscisse a rivalutarli, sullo Stato, con una previsione di spesa di mille miliardi di dollari, benché altre valutazioni indicassero un ammontare ben superiore, fino a tremila miliardi di dollari. A giustificare questa operazione si sosteneva che così ripulite da queste passività, le banche sarebbero tornate a finanziare consumatori ed imprese in modo riattivare la domanda e la produzione. L’idea era, ed è, quella che la radice della crisi che aveva investito anche l’economia produttiva, fosse di natura bancaria e finanziaria, per cui liberare i soggetti bancari e finanziari dalle loro passività diventava un passaggio obbligatorio. Veniva quindi del tutto scartata qualsiasi altra ipotesi, come quella, ad esempio, che richiamasse la caduta della domanda come il vero fattore scatenante delle stesse difficoltà bancarie e finanziarie, con l’effetto inevitabile di determinare un eccesso di produzione. L’unico problema che veniva posto sul tappeto diventava allora quello di regolare i mercati finanziari, in base alla convinzione che il punto debole del sistema fosse stata una regolazione poco accorta, che lasciava scoperti troppi elementi, e comunque anche poco seguita da chi di dovere. Comunque, nonostante l’enormità della crisi bancaria e finanziaria, non si intendeva ritornare alle limitazioni poste a Wall Street negli anni Trenta. La premessa concettuale di Geithner era che il sistema finanziario americano soddisfacesse alle esigenze economiche e sociali meglio di qualunque altro sistema al mondo, e che fosse stato un’enorme risorsa per l’economia statunitense. Infatti il segretario al tesoro dichiarava che la basilare funzione della finanza Usa fosse quella di mirare a “trasformare i guadagni ed i risparmi dei lavoratori americani in prestiti che finanziano una casa, un’automobile, un college, ed allocare risparmi ed investimenti nel loro migliore uso produttivo”. In conclusione, il superiore modello della finanza Usa rimaneva a suo parere sostanzialmente valido. Era certamente necessario introdurre regole, però formulate secondo il principio fondamentale che dovesse essere la regolazione ad adattarsi al sistema finanziario, ma non viceversa il sistema

82 Il Sole 24 Ore del 12 aprile 2009 e Il Manifesto del 18/3/2010 83 Negli Stati Uniti d’America la produttività del lavoro nel terzo trimestre del 2009 è cresciuta del 9,5%, con l’effetto di ridurre il costo del lavoro del 5,2% ed aumentare la disoccupazione. Notizia su Il Manifesto del 6 novembre 2009 84 Anche il 2010 iniziava con la disoccupazione in aumento. Nella Ue i senza lavoro avevano raggiunto i 23 milioni e negli Usa i 15 milioni, proseguendo la ristrutturazione delle imprese con la riduzione degli occupati. Il Sole 24 Ore del 9 gennaio 2010 85 M. Naim – Le rose e le spine di Obama – Lavoro, sanità, guerra. Il Sole 24 Ore del 20 settembre 2009. Sempre sullo stesso giornale in data 17 ottobre 2009 W. Riolfi scriveva che “E’ la forte liquidità creata dalla Fed ad aver favorito le banche ed i rialzi dei mercati finanziari”. 86 M. Longo – A Mr. Smith il costo della recessione. – Il Sole 24 Ore del 25 ottobre 2009 87 M. Fracaro – E’ importante avvicinarsi all’uscita - Il Corriereconomia del Corriere della Sera del 21 dicembre 2009

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finanziario alla regolazione88. Non c’è quindi da meravigliarsi se Wall Street accoglieva il progetto con grande giubilo, dando inizio alla sua opera di persuasione sul Congresso perché le regole da introdurre non fossero troppo rigide, anche con la pressione lobbistica di una spesa di circa 600 milioni di dollari in 18 mesi per orientare le scelte dei legislatori. Ed, infatti, nell’accordo raggiunto in sede congressuale nel giugno 2010 i paletti introdotti su dimensioni ed investimenti (la cosiddetta Volcker rule) restavano poco stringenti, ed inoltre i controlli continuavano a rimanere affidati alle stesse autorità che in precedenza avevano controllato male89. Il Congresso, insomma, decideva di non creare troppi problemi alle banche ed a Wall Street. In sostanza, come denunciava Paul Krugman, il governo Obama anziché cambiare decisamente rotta rispetto all’era Bush continuava sulla linea del predecessore di Geithner, cioè di Paulson. Insomma, oltre che chiusa negli interessi nazionali, la proposta del segretario al tesoro rimaneva legata mani e piedi a Wall Street. Il disegno della riforma americana delle regole non delineava una vera e propria ristrutturazione del sistema finanziario, tanto che era giudicato non in grado di evitare future crisi, del resto connaturate al capitalismo, come pure di riuscire a riequilibrare il rapporto fra finanza e produzione90. D’altra parte anche in Europa permaneva l’interesse a mantenere incertezza ed opacità sui mercati. Basti focalizzare criticamente il progetto di riforma bancaria internazionale, la cosiddetta «Basilea 3», per accorgersi che si è trattato di un vero e proprio salvacondotto per le grandi banche, con l’opposizione a regole più rigide di Francia, Germania e Giappone, giacché le banche francesi e tedesche erano e sono piene di titoli tossici da mantenere gelosamente occultati, ai quali bisognava e bisogna aggiungere la quota ragguardevole nel loro portafoglio di titoli greci, spagnoli e portoghesi. Non ha caso l’esperta statunitense di crisi finanziarie, Carmen Reinhart, giudicando queste regole, osservava che “La carta straccia è ancora nei bilanci bancari”. Restava quindi confermato che la finanza allo stato puro rimaneva e rimane favorita rispetto all’esercizio del credito rivolto verso le imprese ed i consumatori91.

Il fatto è, come si è accennato sopra, che il potere degli interessi finanziari in grado di condizionare governi e parlamenti, era ed è tale, che in Usa e nel mondo sono sorti sempre maggiori ostacoli ad introdurre una effettiva e rigorosa regolazione della finanza. Di conseguenza si è riprodotta, o quasi, la situazione precedente la crisi, salvo qualche operazione cosmetica , senza intaccare la logica e gli interessi forti del sistema. In conclusione l’immissione di liquidità monetaria ha avuto per obiettivo principale il sostegno ai mercati finanziari ed alle banche, che così hanno ripreso ad ottenere profitti a breve con la speculazione. In tal modo si è abbandonata a sé stessa la sfera produttiva e commerciale, con l’inevitabile aumento della disoccupazione ed inoltre dei debiti pubblici, se non altro, fra le altre cause, dovuto anche al crollo delle entrate tributarie determinato dalla crisi economica92. Del resto appariva ed appare chiaro che anche sul nuovo governo statunitense, entrato in carica a gennaio 2009, gravava e grava l’ombra di Wall Street, che ha assunto almeno da venti anni un indebito potere sulla compagine governativa e sul Congresso, tanto che non si è saputo cogliere l’occasione della crisi per varare riforme strutturali del sistema finanziario93.

A dire il vero, il presidente Obama si era interessato anche dell’economia “reale”, con un piano di 787 miliardi di dollari volto a rilanciare sia la produzione industriale interna che i consumi, concentrandosi sul settore ambientale, sull’industria automobilistica, sulle infrastrutture sociali per creare occupazione e sui benefici fiscali per il ceto medio-basso con l’intento di rilanciare la domanda. Il fatto è, però, che questi stimoli avevano poco impatto positivo. In un paese ad alto indebitamento privato la riduzione dell’imposizione fiscale, ad esempio, è stata usata dalle famiglie per ridurre la propria esposizione debitoria, piuttosto che tornare ad accrescere i

88 Articoli sul New York Times del 24 marzo, Il Sole 24 Ore del 27 marzo e Affari e Finanza di La Repubblica del 30 marzo 2009 89 D.Masciandaro – La rivincita della «banca ombra» - Il Sole 24 Ore 31 luglio 2010 90 C. Bastasin – Chef Obama, la sua torta ha il sapore di cartoncino – Il Sole 24 Ore del 17 giugno 2010 91 M. Mucchetti – Il delitto perfetto di Basilea 3 – Il Corriereconomia del Corriere della Sera del 20 settembre 2010 92 Questa tesi è sostenuta da M. De Cecco in articolo – Il ricatto della grande finanza – su Affari e Finanza di La Repubblica del 14 settembre 2009 93 Lo sostengono Simon Johnson e James Kwak nel libro “13 banchieri, la conquista di Wall Street ed il prossimo collasso finanziario”. Secondo i due autori la causa della crisi non va attribuita a comportamenti criminali degli agenti finanziari, benché ci siano stati, quanto piuttosto nell’arrendevole compiacenza di Washington nei confronti del rampante clima di laissez faire voluto da Wall Street. Arrendevolezza che continua con la nuova presidenza, vista la pochezza delle riforme presentate. Questo libro è stato presentato da E. Brivio nell’articolo “Su Obama l’ombra di 13 uomini d’oro”. Il Sole 24 Ore del 18 aprile 2010.

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consumi, mentre gli aiuti all’industria automobilistica comportavano comunque riduzione di mano d’opera, dei salari e delle tutele sanitarie e pensionistiche94. In breve, una volta terminati gli stimoli, la crescita, pur modesta che si era registrata e che aveva fatto gridare alla fine della crisi, come si è visto sopra, tornava a ridimensionarsi, con il blocco del mercato immobiliare, che era stato il fattore propulsivo dello sviluppo negli anni precedenti. Anche in Europa del resto la ripresa non offriva dati esaltanti se a settembre di quest’anno veniva registrato un rallentamento, soprattutto nella locomotiva tedesca95.D’altra parte, questo recupero americano oltre che debole, al punto far temere un’altra recessione, era ed è anche poco equilibrato. Infatti il reddito da lavoro sul Pil ha continuato e continua a calare. Nel secondo trimestre del 2010 la sua quota è scesa ai minimi del dopoguerra. Nel passato, sul lungo periodo si attestava sul 65%, mentre dopo il ’99 scendeva al 60% per cadere ancora recentemente al 59,8%. I profitti nel frattempo salivano ad un ritmo del 4,6% trimestrale, per giungere al 15% del Pil, mentre la quota restante andava ai lavoratori autonomi e rappresentava il reddito personale dei datori di lavoro96. La crescita della disoccupazione97 e la diminuzione dei consumi, non più sostenuti dalle concessioni di prestiti, ha reso quindi evidente che questa crescita dei rendimenti del capitale produttivo non si è tradotta in investimenti industriali, ma ha continuato anch’essa a dirigersi verso il settore finanziario come negli anni precedenti la crisi, contribuendo a gonfiarne la dimensione. Resta comunque il fatto che gli sforzi maggiori sono stati fatti nella salvaguardia dei mercati finanziari, in base all’idea base che continuava a presiedere anche alla politica economica di Obama, che la causa di fondo della caduta economica fosse sostanzialmente di natura finanziaria, che tale settore dovesse di conseguenza ricevere il massimo sostegno possibile, in quanto ritenuto la forza trainante dell’intero sistema economico, di cui sostanzialmente si accettava la configurazione c he esso aveva preso negli ultimi decenni, senza pensare ad alcuna correzione strutturale.

Mi sono soffermato sugli Stati Uniti d’America perché, come si è visto all’inizio, la domanda interna statunitense assorbiva l’intero surplus globale e quindi funzionava da locomotiva per la crescita di tutti gli altri paesi. A dire il vero il loro sganciamento dal traino dei consumi americani non è tuttora avvenuto, se la bilancia commerciale Usa continua a segnare un saldo negativo, sia pure in misura più ridotta rispetto ai valori del passato. Ciò non toglie che la caduta della domanda negli Stati Uniti si sia ripercossa negativamente sulla produzione europea, tedesca in specie, ed asiatica, come si è visto nella prima parte. Per quanto riguarda la Cina, ad esempio, il suo prodotto lordo da due cifre è calato intorno al 7%, con una disoccupazione di circa venti milioni di lavoratori. Anche la Germania si è trovata in profonda crisi e con un aumento consistente del tasso di disoccupazione. Lo stesso fenomeno ha investito più o meno tutta l’Europa, ovviamente compresa l’Italia. Con la piccola ripresa di cui si è detto anche il Pil europeo ha iniziato a crescere, specialmente in alcuni Stati, con la Germania in prima linea, mentre altri hanno avuto ed hanno maggiori difficoltà. L’Italia era ed è uno di questi. La ripresa più robusta si è però registrata in Cina, dove il governo ha utilizzato buona parte delle riserve accumulate per rilanciare la produzione. Comunque sia in linea generale la crisi ha proseguito la sua marcia per tutto il 2009 e per i primi dieci mesi del 2010, a cui si arresta la presente analisi, dimostrando che la manovra dei bassi tassi di interesse praticata dalle banche centrali non ha avuto alcun effetto sul rilancio della produzione e della domanda, mentre ha favorito esclusivamente o quasi la ripresa speculativa dei mercati finanziari. Il fatto strutturale è che permangono profonde contraddizioni sistemiche che riguardano da un lato la questione dell’equilibrio economico globale e dall’altro quella sociale di chi deve pagare il costo della crisi, come emerge chiaramente dai vari incontri G20 che si sono susseguiti dall’autunno 2008 in poi e dalle frequenti riunioni ai vertici dell’Unione europea. D’altra parte, coloro che ritenevano e ritengono essere ormai avviata decisamente la ripresa non potevano e non possono ignorare che si tratta di una crescita, oltre che di grandezza modesta, contrassegnata della

94 Peraltro, in generale, nel 2010 è continuata la ristrutturazione produttiva con la riduzione di personale e l’intensificazione del lavoro nelle singole imprese. In Italia basta ricordare le richieste dell’A.D. Fiat Marchionne ai sindacati. Vedi l’articolo “Marchionne ai sindacati: serve flessibilità alla polacca” su Il Sole 24 Ore del 24 aprile 2010 95 Vedi l’articolo “Tante ricette per una crescita debole” su “Il Corrieconomia” del Corriere della Sera del 27 settembre 2010 96 R. Sorrentino – Disuguaglianze. Si apre la forbice fra i profitti e le retribuzioni – Il Sole 24 Ore del 5 settembre 2010 97 E’ da rimarcare il fatto che la disoccupazione accresciuta, le ristrutturazioni produttive con eliminazione di forza lavoro, hanno messo in crisi negli Usa i fondi pensione, data la riduzione del gettito delle entrate, dovuta appunto all’andamento negativo del mercato del lavoro in termini occupazionali. Addirittura l’Economist è arrivato a sostenere che la crisi previdenziale statunitense potrebbe essere la prossima fonte di rischio sistemico. Il Sole 24 Ore del 16 ottobre 2010.

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disoccupazione crescente anche in questa fase, con effetti negativi sul livello della domanda, come pure che è tornata di nuovo a gravare un’incertezza finanziaria di dimensioni non trascurabili, visto il ritorno della speculazione con le banche in prima linea, perché trovano più convenienti gli investimenti nella finanza piuttosto che i prestiti all’economia reale giudicati in confronto poco redditizi98.

Mi pare a questo punto che dall’analisi precedentemente svolta si possano trarre alcune conclusioni. Intanto, è da ribadire e ricordare che il sistema economico “globalizzato” se fosse stato lasciato a sé stesso nel settembre del 2008 sarebbe andato incontro ad un crollo rovinoso dalle dimensioni incalcolabili, probabilmente con effetti devastanti superiori alla crisi del 1929. Soltanto i massicci interventi delle banche centrali e dei governi ha evitato un simile esito e ciò conferma l’intreccio profondo fra l’attuale economia capitalistica e le politiche monetarie delle banche centrali e quelle economiche dei governi, nel senso appunto che uno dei pilastri strutturali su cui poggia il sistema economico ha tuttora natura politica, nonostante il velo ideologico delle dottrine neoliberiste che cercano di occultare questa realtà sostanziale, continuando a riproporre l’interpretazione congiunturale della crisi. Uno dei principi basilari della loro ideologia, impiegati appunto in questa operazione di nascondimento, è l’idea che il fattore base della crescita economica e del buon funzionamento del mercato sia la flessibilità del lavoro. La recessione smentisce in pieno questa concezione, perché, nonostante i bassi salari, la disoccupazione è continuata e continua a crescere. Ma questo, come si è visto, non è motivo di preoccupazione per economisti ortodossi, imprenditori, governi e forze politiche in genere, almeno finché rimane immutato di sopportazione delle vittime del sistema. Quello che li interessa è, al contrario, l’aumento dei profitti, fattore decisivo del quale giudicano appunto essere il lavoro flessibile e remunerato il meno possibile. Ma non riescono, però, a farci capire perché questa già realizzata flessibilità negli anni precedenti non è riuscita ad evitare la crisi. Fa difetto a questi soggetti la memoria storica della globalizzazione, perché il processo di ristrutturazione delle condizioni di lavoro (salari abbassati, flessibilità, precarietà e disoccupazione) è stato l’effetto dell’attacco capitalistico partito negli anni Ottanta per arrestare la precedente caduta del saggio di profitto ed invertirne la tendenza. Pertanto anche la bassa domanda che ne è conseguita, va intesa, a mio giudizio, quale effetto del processo capitalistico di ricerca della massima valorizzazione del capitale, soprattutto nel settore finanziario, e non come causa della sua crisi e della bassa crescita. In definitiva l’insegnamento da trarre è che l’anello debole del capitalismo non è stato il mercato del lavoro, ma proprio quel mercato finanziario dove si sono diretti e si dirigono gli stessi profitti industriali, come abbiamo visto in precedenza. In altre parole è l’accumulazione del capitale, oggi in forma finanziaria prevalente, che si è dimostrata e si dimostra priva di una sua sostanziale stabilità, scaricando poi sulla società intera i costi del suo salvataggio politico.

Per quel che riguarda, infine, i parametri ufficiali adottati per misurare i valori economici che avrebbero indicato la fine della recessione e l’inizio della ripresa, abbiamo visto che si è trattato del recupero delle borse e della modesta crescita del Pil. E’ significativo che siano stati e tuttora siano esclusi misuratori di natura sociale, come la riduzione della disoccupazione che, al contrario, come detto, continua a crescere, e come la disuguaglianza nella ripartizione del reddito anch’essa in ascesa, col lavoro sempre più penalizzato nel livello salariale e nelle condizioni lavorative99. In sostanza, ciò che per la teoria economica dominante, per le istituzioni economiche internazionali (Fmi, Ocse, Bce.) e nazionali (banche centrali e governi) ha importanza è il puro aumento quantitativo di valore economico astratto, ma non la vita reale, concreta, di milioni, di miliardi di persone. E’ impossibile, allora, non vedere la natura classista dei criteri utilizzati per valutare lo stato di salute dell’economia capitalistica nell’attuale frangente storico, come pure quella della difesa politica ad oltranza degli interessi della classe sociale che sta dominando il mondo100.

Le contraddizioni del sistema: il problema dell’equilibrio economico globale

Come abbiamo visto l’economia globalizzata aveva raggiunto il suo punto di equilibrio sostanzialmente nell’equazione fra il deficit della bilancia commerciale statunitense e l’attivo di quella asiatica ed europea. Un

98 Intervista a Bini Smaghi su Il Sole 24 Ore del 9 giugno 2009 99 Lo dimostra il fatto che il tema della disoccupazione, del livello dei salari, delle condizioni lavorative, del precariato e via dicendo, sia stato sostanzialmente assente nei vari G20. Solo in quelli ultimi si sono uditi alcuni richiami al problema della mancanza di lavoro, peraltro in toni assai sfumati e con accenni piuttosto marginali. 100 Vedi nota 1

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passivo commerciale, quello americano, cui si doveva aggiungere l’indebitamento interno di famiglie ed imprese ed il debito pubblico, federale e dei vari stati dell’unione, finanziato dalle aree esterne che incassavano dollari col collocamento del loro surplus produttivo negli Stati Uniti, e poi li reinvestivano in gran parte nel debito americano. Con la crisi nasceva fatalmente un problema. Si trattava di una crisi congiunturale, per cui passata la bufera tutto avrebbe poi ripreso come prima? Oppure ci trovavamo di fronte ad una svolta storica nell’economia capitalistica, con la conseguenza della impossibilità di riproporre la situazione ante-crisi. In altre parole, si poteva tornare a ripresentare un’ipotesi di ripresa della crescita produttiva e quindi il riassorbimento della disoccupazione, sempre affidata alla domanda americana, per di più in un quadro di permanenza dei bassi salari? Si può esporre la questione anche in un altro schema. Vale a dire, siccome in linea generale e globale la politica seguita dai vari paesi dell’economia globalizzata è stata quella dell’offerta, con l’abbandono della politica della domanda di marca keynesiana, con il corollario necessario di porre l’impresa ed il suo profitto come variabile indipendente cui subordinare il salario ed i diritti dei lavoratori, messi a dura prova come abbiamo visto, in che modo potrebbe essere possibile recuperare un rilancio della domanda mantenendosi sempre all’interno di un simile paradigma economico? Col forte ridimensionamento della capacità di consumo degli Stati Uniti d’America, con la crisi insomma del “consumatore keynesiano globale” era inevitabile che cadessero le esportazioni europee ed asiatiche, specialmente quelle dei grandi esportatori: Germania, Cina e Giappone101. Addirittura dall’attivo commerciale si era precipitati nel passivo, com’era il caso del Giappone a fine 2008 ed inizio 2009. Ed era altresì inevitabile che di fronte alla caduta degli sbocchi della propria produzione ed alla conseguente crescita della disoccupazione interna, cominciassero ad affiorare tentazioni protezionistiche e neomercantiliste, comprese le svalutazioni monetarie102. A questo proposito, trattandosi di prezzi relativi, è evidente che la diminuzione di valore di una moneta comporta l’aumento delle altre con cui essa si scambia. Perciò la svalutazione del dollaro, alimentata dalla continua emissione di liquidità da parte della Fed già vista sopra, si era tradotta in aumento del valore di scambio di diverse altre valute, fra cui il real brasiliano, la moneta di Taiwan e di altri paesi. Ciò perché molti capitali si dirigevano sulle monete solide allontanandosi da quelle che si stavano svalutando, incrementando in tal modo il processo rispettivamente svalutativo delle une e rivalutativo delle altre.Trattandosi di paesi fortemente esportatori ne era conseguita una difficoltà crescente a collocare sui mercati mondiali i loro prodotti. Per sfuggire a questo esito negativo che colpiva il loro sistema produttivo, generando disoccupazione, ad iniziare dal Brasile la cui moneta si era rivalutata del 34%, essi cominciavano ad introdurre un controllo sui capitali in entrata, sottoponendoli ad una tassazione.

Certamente la competizione commerciale internazionale metteva e mette in gioco altri fattori, oltre all’introduzione di dazi doganali protettivi e della svalutazione monetaria. La deflazione salariale, di cui si è parlato più volte, diventava e diventa anch’essa uno strumento di lotta commerciale, nel senso appunto che per vendere all’estero i propri prodotti si cercava e si cerca di mantenerne basso il prezzo con la riduzione salariale. La politica dei bassi salari è diventata in tal modo un forte strumento competitivo, anche nei paesi ad alta tecnologia, come la Germania, considerato che il salario relativo tedesco103 è fra i più bassi dei paesi Ocse. In breve, il panorama economico internazionale veniva a denotarsi nella forte riduzione della domanda globale dovuta all’esaurimento della sua alimentazione da parte delle rendite finanziarie e del credito diffuso, mancando una compensazione nella crescita dei redditi salariali, addirittura ancora in diminuzione. Ne risultava, perciò, la contrazione dei mercati e ciò accentuava ed accentua la competizione fra imprese ed aree che richiamano, sia pure

101 Sui dati relativi alla diminuzione del commercio fra Usa e Cina vedi Il Sole 24 Ore del 7 febbraio 2010. Un altro paese che ha affidato il proprio sviluppo alle esportazione è Singapore. Sui danni che esso ha subito a causa del crollo del commercio internazionale R. Sorrentino – Le economie in surplus si scoprono vulnerabili – Il Sole 24 Ore del 29 marzo 2009. La crisi tedesca sta nei seguenti dati: il Pil crolla fra fine 2008 ed il primo trimestre 2009 a meno 6%, dal momento che le esportazioni diminuiscono del 30%, rappresentando il 40% del Pil. M. De Cecco – Alla Germania servirebbe l’Europa che non ha voluto – Su Affari e Finanza di La Repubblica del 15 giugno 2009. Secondo altri rilevamenti il peso dell’attivo commerciale tedesco sul Pil raggiunge addirittura il 48%. 102 Vedi l’articolo “Cina contro Usa per i dazi sui tubi. Abuso di misure protezionistiche” su Il Sole 24 Ore del 7 novembre 2009. 103 Il salario relativo corrisponde al rapporto fra salario e produttività del lavoro. La produttività del lavoro può essere altissima e quindi anche il salario reale può essere alto, rispetto a quello di altri paesi, con il salario relativo invece basso. E’ il caso della Germania, in cui la produttività del lavoro è a livelli elevatissimi ed il salario reale superiore alla media europea.

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in consistenza ridimensionata e con significative differenze104, scenari di altre epoche, come il periodo dei conflitti infracapitalistici precedenti la prima guerra mondiale e gli anni ’30 del ‘900.

Come si vede la protezione dell’economia nazionale si avvaleva e si avvale di vari metodi, dai dazi doganali alla svalutazione della moneta nei rapporti di cambio, alla politica del lavoro ed anche a quella fiscale, esonerando o tenendo bassa l’imposizione sulle imprese. Orbene, questo neomercantilismo che cominciava a diffondersi, se da un lato si presentava e continua a presentarsi come effetto della crisi del consumatore americano, dall’altro però segnala un problema di rilevanza fondamentale per l’economia capitalistica globalizzata. E’ possibile, cioè, evitare il ripetersi della situazione degli anni Trenta, quando ogni paese cercò di esportare la propria disoccupazione con le svalutazioni competitive, determinando poi come conseguenza l’arroccamento protezionista da parte di tutti? In altre parole, è possibile ristabilire ancora l’equilibrio dell’economia globale restaurando tale e quale la situazione precrisi, con un unico consumatore di tutto il surplus creato in tutte le altre aree produttive mondiali? In altre parole, si può avanzare l’ipotesi che, passata la bufera, siano ancora gli Stati Uniti d’America a svolgere la funzione di creare la domanda necessaria ad assorbire l’eccedenza degli altri paesi, che dovrebbero anch’essi essere restituiti ad una politica economica di stampo neomercantilista, votata cioè all’esportazione? Secondo qualcuno il problema non riguarda tanto il sistema in sé, che rimarrà sostanzialmente inalterato, quanto piuttosto quello di individuare chi possa sostituire il consumatore statunitense. Basta cioè che emerga una nuova locomotiva trainante, fornitrice della domanda indispensabile a realizzare il plusvalore globale, anche nel caso in cui non siano più gli Usa a svolgere questo compito. Ciò si verificherà sicuramente e sarà, si sostiene, “il ceto medio cinese, indiano e brasiliano” che “sostituirà gradualmente il consumatore americano come propulsore dell’economia globale”105. Che questa sostituzione possa avvenire nessuno è in grado di poterlo escludere. Ma anche ammettendo che il fenomeno troverà il suo sbocco storico - il che non è poi così sicuro richiedendo l’abbattimento delle disuguaglianze sociali che colpiscono quei paesi - si tratta di un processo graduale, lento, che richiederà decenni. E’ quello che ha fatto presente la dirigenza cinese osservando che la Cina è un paese dove prevale la popolazione giovane che produce più di quello che consuma. Occorre perciò l’aumento della quota della popolazione anziana, puramente consumatrice, per accrescere il livello di consumo interno rispetto alla produzione. Ma ciò non avverrà prima degli anni ’30 di questo secolo. Insomma, la politica economica cinese, come del resto quella brasiliana ed indiana continua a puntare sulle esportazioni come volano per la crescita di quelle economie. Per non considerare poi che il paese (od i paesi) che dovrà eventualmente sostituire gli Stati Uniti d’America, quale consumatore keynesiano globale, potrà svolgere questa funzione solo se ne ripeterà il comportamento, cioè solo se i suoi consumi supereranno la produzione interna, se sarà disposto ad indebitarsi con l’estero e se la sua moneta assumerà il ruolo internazionale che svolge attualmente il dollaro. Tutto ciò francamente appare estremamente improbabile, almeno nei prossimi decenni. In sostanza la questione dell’equilibrio economico globale, almeno per diversi lustri, resta sostanzialmente aperta e con essa la conflittualità prima accennata106.

104 Una di queste è l’attuale presenza nell’economia capitalistica mondiale di istituzioni internazionali, quali il Fmi, la Banca Mondiale, il Wto, che fungono da centri di mediazione fra i grandi interessi capitalistici in conflitto. Naturalmente in questi enti ha prevalso finora il peso degli Usa, quale primo attore del capitalismo mondiale, seguito da quello dei paesi europei e del Giappone. Il recente sviluppo di altri paesi, come la Cina, l’India, il Brasile, sta modificando il potere all’interno di queste istituzioni, con l’ingresso appunto di questi paesi in ascesa ed il ridimensionamento di quelli occidentali, pur rimanendo ancora primaria la posizione statunitense. 105 E’ quello che scrive Rampini su La Repubblica del 28 giugno 2010. 106 Per rendersi meglio conto del problema è opportuno prendere in considerazione anche i seguenti dati. Il reddito del ceto medio cinese è mediamente pari a 300 dollari mensili, mentre quello operaio oscilla fra i 50 ed i 100 dollari. Da tenere conto anche che il consumatore americano è stato sostenuto finora da un reddito medio pro-capite annuo di 45,500 dollari, oltre che dalle facilitazioni creditizie, mentre il reddito medio pro-capite cinese si attestava intorno ai 2450 dollari. Ne consegue che con un aumento del Pil dell’1%, il reddito medio del consumatore americano cresce in un anno di 455 dollari, mentre in Cina con una crescita annua del 10% l’incremento è di 245 dollari. E’ vero il numero dei consumatori cinesi raggiunge cifre molto superiori a quelle americane. E’ anche su questo che puntano coloro che sperano nella Cina quale forza economica trainante dell’economia mondiale. Non ho però rintracciato calcoli precisi sulla quantità di consumatori cinesi, dati quella crescita e quel reddito medio pro-capite, necessaria per compensare l’enorme differenza con le disponibilità di spesa del consumatore statunitense. Resta in ogni caso decisivo, a mio parere, l’indirizzo strategico della politica economica del governo di Pechino di puntare sull’esportazione quale traino principale della crescita, per quanto ovviamente aumentino anche i consumi interni.

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Per comprendere meglio la situazione è allora opportuno prendere visione più da vicino quella statunitense. E’ subito da premettere che in tutte le riunioni internazionali il governo di Washington ha difeso a spada tratta il dollaro come moneta internazionale, rigettando le proposte cinesi e russe di sostituirlo in quella funzione con un nuovo strumento monetario107. Ciò ha assicurato ed assicura agli Usa il privilegio dell’indipendenza dai vincoli esteri, potendo, ad esempio, pagare in dollari tutte le loro importazioni. Il loro problema fondamentale è invece un altro e presenta varie facce: deficit di bilancio e debito pubblico, che vedremo nel prossimo paragrafo; passivo della bilancia commerciale, che, come si è accertato, con la crisi è andato riducendosi nella misura del 3% del Pil, pur permanendo a livelli ancora alti; il debito con l’estero, dovuto ai finanziamenti esteri delle loro posizioni debitorie di cui si è appena detto. Inoltre permane ancora alto l’indebitamento privato, soprattutto quello delle famiglie. In queste condizioni appare difficile che gli Stati Uniti possano riprendere la loro precedente funzione di consumatori globali. Come avviene in tutti gli altri grandi paesi, la politica economica statunitense tende infatti ad assumere sempre più una connotazione nazionale, a concentrarsi sui propri problemi che sono, come si è appena notato, quelli dell’indebitamento e del passivo commerciale. E’ per questo motivo che nei vari consessi internazionali Geithner e lo stesso Obama non si stancano di ripetere che il loro paese non è più in grado di assorbire l’eccedenza dei paesi in attivo commerciale, ai quali viene continuamente richiesto di espandere la loro domanda interna, ovviamente riequilibrando le rispettive bilance del commercio. Fino ad ora le risposte dei grandi esportatori, come Germania e Cina, sono state negative. La prima ha addirittura costituzionalizzato il pareggio del bilancio pubblico, per cui a qualsiasi governo tedesco resterà inibito a partire dal 2016 una politica di spesa pubblica in deficit, che è componente della domanda effettiva, da mantenere quindi sotto controllo. La seconda non intende minimamente rivalutare la propria moneta del 20% come viene invitata a fare, perché ciò comprometterebbe il proprio slancio produttivo e quindi la crescita. In altre parole, nessuno vuole uscire dal neomercantilismo. E’ in questo clima che rinascono ovunque tentazioni protezionistiche. Negli Usa, ad esempio Krugman ha approvato i dazi doganali all’importazioni posti da Obama sui pneumatici cinesi. Il protezionismo, ha osservato l’economista americano, è giustificato quando c’è alta disoccupazione. A sua volta Wolf sul Financial Times ricordava che anche la politica di svalutazione monetaria praticata dalla Cina è protezionista, come lo sono del resto i bassi salari che rendono più competitive le merci cinesi108. D’altra parte, come si annotava sopra, le svalutazioni monetarie costituiscono anch’esse un potente mezzo di competizione commerciale, per di più in una situazione di mercati non espansivi, e gli stessi Usa non hanno esitato a praticare una simile politica attraverso la continua emissione di moneta da parte della Fed ed i bassi tassi di interesse. Naturalmente questa politica non è esente da contraddizioni. Da un lato, infatti, ha senz’altro favorito l’esport americano, e reso meno convenienti le importazioni. Tuttavia è da tenere presente, non solo in relazione agli Stati Uniti, ma anche ad altri paesi dell’occidente e al Giappone, che in Cina sono andate a collocarsi le produzioni di molte imprese occidentali e nipponiche. E’ evidente allora che qui affiora la complessità della situazione, perché da un lato un rafforzamento del dollaro, dell’euro e dello yen rispetto alla moneta cinese, fa aumentare il valore dei profitti trasferiti dalla Cina nei paesi di origine; dall’altro però ostacola l’esportazione dei prodotti di queste imprese occidentali e giapponesi che rappresentano circa il 40% dell’export cinese. Rimanendo alla situazione americana, essendo i debiti Usa denominati in dollari, la loro svalutazione riduce il peso reale dell’indebitamento, colpendo però gli interessi dei creditori, soprattutto della Cina e del Giappone che sono stati finora i grandi finanziatori del Tesoro statunitense. D’altra parte è da tenere presente che se per un verso le svalutazioni monetarie nei rapporti di cambio favoriscono le esportazioni, come si è appena notato, dall’altro però rendono più difficile il finanziamento dei debiti pubblici di tutti gli Stati, saliti vertiginosamente negli ultimi due anni per le operazioni di salvataggio delle banche e degli stessi mercati finanziari, giacché i detentori di capitale monetario preferiscono ovviamente investire in valute solide anziché in monete che si svalutano.

In definitiva, senza l’espansione della domanda interna dei grandi paesi esportatori in sostituzione della quota ridotta di quella statunitense, non c’è uscita dalla crisi. La sua permanenza rischia di conseguenza di aumentare la conflittualità competitiva in un mercato mondiale che rimane di bassa crescita non solo oggi, ma anche nelle previsioni del prossimo futuro. Da notare ancora che questo squilibrio oltre che concernere l’economia nella sua configurazione globale, ha anche una dimensione interna all’Europa. Nel nostro continente la Germania è il grande esportatore, non solo verso i mercati mondiali, ma in misura maggiore verso i paesi dell’Unione Europa

107 Notizia su Affari e Finanza di La Repubblica del 6 aprile 2009 108 M. Cappellini – E Krugman apre al protezionismo – Il Sole 24 Ore del 31 dicembre 2009

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dove finora è andato a collocarsi il 63% delle esportazioni tedesche. Si è sottolineato sopra che la propensione della politica economica di quel paese è stata ed è rimasta anche con la crisi, di impronta nettamente mercantilista. Tanto che, la stessa spesa pubblica tedesca nel settore economico non ha avuto finora, l’obiettivo di accrescere la domanda interna, né di fronte alle difficoltà create dalla recessione ha cambiato indirizzo. Al contrario, essa ha mirato a sostenere la ristrutturazione dell’industria tedesca verso l’esport, aumentando la produttività a scopi competitivi col continuare a diminuire il salario relativo, cioè, come già si è detto, la quota che sul prodotto globale percepiscono i lavoratori, che possono vedere anche aumentare il salario reale ma abbassare la sua percentuale rispetto alla ricchezza creata dal loro lavoro. Ovviamente l’attivo commerciale della Germania ha avuto ed ha per contropartita il passivo commerciale di molti altri paesi europei, soprattutto mediterranei, la cui domanda interna è stata sostenuta anche e soprattutto da un ragguardevole indebitamento pubblico e privato, magari finanziato in buona parte dal sistema bancario tedesco, con la conseguenza di innestare su questo tronco il problema, esploso dall’inizio del 2010 con la crisi greca ed in fase di ulteriore espansione con quella irlandese e probabilmente portoghese, forse anche spagnola, e chissà se non addirittura italiana, dei deficit di bilancio e del debito pubblico di questi paesi da finanziare. Su questo intreccio fra gli squilibri nel commercio infraeuropeo e mondiale da un lato e la questione della finanza pubblica dall’altro, come pure sulle contraddizioni che colpiscono il panorama economico globale e della stessa Unione Europea mi intratterrò nel prossimo paragrafo. Al momento quello che mi pare debba essere sottolineato è il fatto che la crisi non solo ha scaricato, ma sta scaricando proprio negli ultimi mesi, i suoi effetti destabilizzanti su una economia europea basata su un mercato unico delle merci, sulla libertà di movimento dei capitali anche verso l’esterno dell’Unione, sull’euro quale moneta soltanto di 16 paesi su ventisette; un’economia tuttavia ancora frazionata in comparti nazionali, dove quello tedesco ha assunto un ruolo dominante, in una competizione interna sempre più feroce. Il rischio è che a causa della maggior competitività delle imprese tedesche vengano messe fuori gioco quelle dei paesi più deboli, con la conseguenza di assicurare alla Germania una posizione di superiorità industriale e finanziaria su tutti o quasi tutti i paesi europei109. In breve, il perdurare delle politiche neomercantiliste tedesche non fa altro che esprimere una lotta feroce fra capitali, quelli collocati soprattutto in Germania, forti della loro potenza industriale e finanziaria, e i capitali deboli dei paesi cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda – forse Italia – Grecia e Spagna). In altre parole, nell’attuale contesto economico, la competizione commerciale fra i paesi europei, ma anche in generale nel mondo, assume sempre più il carattere della selezione che esclude ed elimina gli sconfitti in questa lotta hobbesiana, potremmo dire, col risultato di accentuare il potere economico dominante di alcuni e di scaricare i perdenti in aree periferiche fornitrici di mano d’opera a basso costo110.

109 Questa situazione comincia a pesare anche alla Francia. Infatti la ministra francese c. Lagarde ha accusato la Germania di minare la coesione della zona euro puntando tutto sull’export, al prezzo di comprimere i propri salari e mantenere bassa la domanda interna. La conclusione della Lagarde è che la buona salute tedesca è costruita sul debito dei paesi deboli. Secondo i suoi calcoli, infatti, il peso dell’attivo commerciale tedesco sul mercato interno della zona euro nel 2009 è salito dal 25% al 27%. Contemporaneamente la Francia è calata dal 18,5% al 12,9% e l’Italia è passata dal 17% al 12,9%. A queste osservazioni ha risposto l’economista tedesco Otmar Issing: “Alzare i salari tedeschi sarebbe un autogol” perché aumenterebbe la disoccupazione in Germania, e neppure è praticabile un aumento della spesa pubblica in deficit, come pure una politica salariale europea”. Il Sole 24 Ore del 20 marzo 2010. Evidentemente il mainstream tedesco è abbarbicato ad un profondo nazionalismo economico. Vedi anche l’articolo di M. de C ecco su Affari e Finanza di La Repubblica del 22 marzo 2010: “Perché la Germania manda in tilt la Unione Europea. La minaccia sulla Grecia ed i rischi per l’export”. 110 Su Il Sole 24 Ore del 4 settembre 2009, Draghi ammonisce il nostro paese: “l’Italia segua Berlino”. Su Affari e Finanza di La Repubblica del 22 febbraio 2010 Massimo Riva scrive: “l’Italia ha oggi assoluto bisogno di intercettare una quota maggiore di commercio mondiale per sostituire la spesa pubblica e i consumi interni”. Come è evidente la visione resta sempre nazionale, manca un respiro europeo e davvero globale. Perché se tutti i paesi perseguissero l’obiettivo neomercantilista di produrre un surplus da collocare all’estero, in modo da consentire alti profitti alle proprie imprese tenendo bassi i salari per essere concorrenziali, in un contesto economico in cui il consumatore keynesiano globale, cioè gli Usa, ha fortemente ridimensionato la propria funzione di assorbimento dell’attivo commerciale di tutti gli altri paesi, chi è che può fornire d’ora in poi la domanda sostitutiva necessaria? Lo scenario rimane quello di una lotta feroce che eliminerà i più deboli, in un conflitto intercapitalistico che richiama situazioni del passato, dove il capitalismo di paesi meno attrezzati tecnologicamente, come l’Italia, cercherà una via di uscita con una pressione al ribasso sul salario e sulle condizioni di lavoro, anche per ridurre il debito pubblico con la contrazione della spesa sociale.

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Certo è che l’Unione Europea e la stessa moneta unica, mancando una effettiva unità politica del nostro continente, sono investite da una bufera economica dagli esiti imprevisti, che potrebbero condurre ad un collasso delle istituzioni europee o, comunque, a problemi tali che l’attuale assetto istituzionale, se non verrà strutturalmente riformato, avrà, a mio parere, grosse difficoltà ad affrontare positivamente. . .

L’accresciuta competizione commerciale attraverso manovre valutarie (Cina-dollaro, Cina-euro, Cina-yen) e protezionistiche, e che ha, come si è appena detto, per contesto di riferimento un’economia globale di bassa crescita e, quindi di domanda effettiva limitata rispetto ai surplus produttivi da collocare sui mercati, ha accentuato ed accentua la pressione al ribasso sui salari e sulle condizioni di lavoro più o meno in tutti i paesi del mondo. Come si è notato sopra, infatti, uno degli strumenti concorrenziali in un contesto economico globale prima di arretramento e poi sostanzialmente di limitata espansione, è rappresentato proprio dalla accentuazione delle riduzioni salariali, in termini reali ed anche relativi, dell’aumento di durata del tempo lavorativo, anche ai fini pensionistici, dell’intensificazione dei ritmi produttivi, insomma dalla crescita dello sfruttamento del lavoro, già peraltro giunta ad un livello ragguardevole negli ultimi decenni prima dell’arrivo della crisi. Per non considerare, come si è accennato prima, che nel problema del disequilibrio commerciale globale è presente anche quello della disoccupazione, non risolvibile sul piano dei rapporti di scambio fra i vari paesi, giacché il fenomeno della mancanza di lavoro era già ben presente e la crisi che lo ha soltanto accresciuto, col risultato di accentuare le tentazioni neomercantiliste di scaricarlo sugli altri paesi.

E’ evidente, allora, che immettendoci nel tema del lavoro, andiamo ad incontrare quella che è la vera, reale sostanza dell’economia, cioè la sua natura sociale, ovviamente nella configurazione assunta nella forma dei rapporti di produzione capitalistici. Perché in un sistema economico definito appunto storicamente da questo particolare modo di essere capitalistico, e non secondo coordinate naturali a-storiche, come pretende la teoria economica “ortodossa”, il problema di fondo che sta, a mio parere e come ho già osservato, alla radice della crisi, è quello della valorizzazione del capitale e quindi del suo continuo illimitato accrescimento. Risale perciò a questa istanza primaria e alle contraddizioni che l’accompagnano la causa della destabilizzazione degli equilibri finanziari e commerciali, di cui ho parlato sopra, come pure della connessa questioni dei debiti sovrani, che sarà analizzata nel prossimo paragrafo,. In altre parole la produzione capitalistica non ha per scopo la soddisfazione dei bisogni umani, bensì la realizzazione del profitto da reinvestire in una riproduzione allargata da cui ottenere nuovo profitto e così via111. Ebbene, abbiamo visto che questo processo era già andato in crisi negli anni ’70 del ‘900, ma la soluzione adottata allora è anch’essa finita in una difficoltà che ha tutta l’apparenza di essere insuperabile o quasi, almeno ad oggi. Perché il problema della valorizzazione del capitale rimane interamente sul tappeto, nonostante gli interventi delle banche centrali con la loro politica monetaria di inflazione finanziaria e di deflazione salariale già prima dello scoppio della crisi, e successivamente col proseguimento accentuato di quella politica a cui si è aggiunto l’intervento salvifico della spesa statale. Il fatto che la speculazione finanziaria abbia ripreso alla grande, con l’aiuto della immensa mole di liquidità monetaria da cui è stata soccorsa, non ne elimina la natura artificiosa, drogata, fittizia, con la formazione di bolle che prima o poi finiranno di nuovo per scoppiare, per di più perdurando il quadro attuale di bassa crescita dell’economia reale, addirittura con la prospettiva di ulteriore riduzione della domanda effettiva dovuta sia ai ribassi salariali di cui si è detto, sia alle politiche economico-sociali di demolizione del Welfare come principale strumento di abbattimento dei debiti pubblici, su cui dobbiamo spostare ora la nostra attenzione.

Il problema dei debiti pubblici:chi paga il costo della crisi? Come abbiamo visto gli Stati sono intervenuti massicciamente per salvare il sistema creditizio e finanziario

giunto sull’orlo di un precipizio rovinoso. Ciò è avvenuto anche con vere e proprie statizzazioni, oltre che con la liberazione dai titoli tossici nei portafogli degli istituti di credito, come ha provveduto negli Usa il piano Geithner-Summers ed in Germania con la legge sulla “bad bank” che permette alle banche di scaricare i titoli tossici

111 A. Smith – Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni – 1776 Libro I, cap. 2: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi”. Ed. italiana Isedi 1973

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ricevendo in cambio obbligazioni garantite dello Stato. Queste operazioni statali di salvataggio sono state talmente ampie che qualcuno ha intravisto nel nuovo scenario la ricomparsa del socialismo, però stavolta “il socialismo dei ricchi”. Naturalmente il meccanismo messo in atto è consistito nel trasferire allo stato le passività private mediante la crescita imponente dei deficit di bilancio scaricatasi poi sui debiti pubblici, anch’essi impennatisi verso l’alto dal 2008 in poi. Tanto per dare un’idea basta citare i seguenti dati riferiti a giugno 2009 e riguardanti i finanziamenti dei governi al settore finanziario in percentuale del Pil: Regno Unito 18,9%; Stati Uniti 7,5%; Germania 3,7%; Francia 1,6%; Italia 0,8%; Giappone 0,8%. La crisi, insomma, investiva come un macigno l’equilibrio dei bilanci degli Stati, tanto che le stime del Fmi di questo impatto sui conti dei grandi paesi avanzati erano per il 2009 pari al 5,5% e per il 2010 all’8% del Pil112. Il risultato non poteva che essere l’aumento dei debiti pubblici, i cosiddetti “debiti sovrani”. Le seguenti percentuali fotografano la situazione di alcuni paesi europei e degli Stati Uniti a fine 2009 sempre in rapporto col Pil, ma dobbiamo tenere presente che nel 2010 questi valori sono andati ancora crescendo, in modo particolarmente ampio per alcuni: Italia 115,8%, Grecia 115,1%; Stati Uniti 86,4%; Irlanda 84,6%; Francia 77,6%; Portogallo 76,8%; Germania 73,2%; Regno Unito 68,2%; Spagna 53,2%113. Anche il Fmi presentava le sue previsioni, sempre in percentuale del Pil: Stati Uniti 2010 93,6%, 2014 108,2%; area Euro 2010 83,6%, 2014 95,6%; Italia 2010 120,1%, 2014 128,5%.114. Per quel che concerne la sola economia tedesca si tenga presente che altre previsioni portano il suo debito pubblico nel 2014 intorno al 100% del Pil115. Con questi dati la prima considerazione da fare mi pare sintetizzabile nel giudizio del Sole 24 Ore del 5 luglio 2009: Maastricht addio, visto appunto che quando la realtà economica non ha corrisposto ai parametri a suo tempo convenzionalmente stabiliti, in sostanza riproposti dal secondo trattato degli accordi recenti di Lisbona, cioè dal “Trattato di funzionamento dell’Unione Europea”, non si è avuto esitazioni a sfondare i limiti dei deficit di bilancio e del debito pubblico. E’ da rimarcare che le passività da coprire erano state create dalle speculazioni interne all’enorme accumulazione finanziaria del capitale e non certo dai salari e dai diritti dei lavoratori.

Naturalmente la situazione debitoria dei vari paesi è ancora più pesante se aggiungiamo a quello pubblico il debito dei privati. Si consideri che per gli Stati Uniti questo ammontare ad inizio 2009 rappresentava il 365% del Pil116. Mi fermo qui sui dati per non appesantire ulteriormente la già forse troppo lunga esposizione. A questo punto sorge un problema. Gli Stati sono intervenuti per salvare i mercati finanziari e con finanziamenti di grandezza minore, per quanto in alcuni casi di importo significativo (ad esempio 787miliardi di dollari nel piano Obama) per rilanciare la crescita dell’economia reale, senza peraltro raggiungere in questo settore risultati apprezzabili, come è già stato notato. Dal 2008, per tutto il 2009 e fino ai primi mesi del 2010 aveva quindi prevalso il programma politico di salvare prima di tutto il sistema finanziario e di stimolare la ripresa economica mediante la spesa pubblica, generando ovviamente deficit di bilancio ed ulteriore debito pubblico117. Dagli inizi del 2010 cominciava però gradatamente ad essere posto nella pubblicistica ed anche politicamente il tema della cosiddetta “exit strategy”. Visto che deficit di bilancio e debiti pubblici erano saliti così vertiginosamente si prendeva a calcolare l’ammontare da finanziare anno per anno alle loro scadenze, e si prospettava in toni preoccupati la difficoltà del loro finanziamento, come se le risorse finanziarie in circolazione nel mondo fossero insufficienti a coprire i debiti pubblici ed anche quelli privati. La questione presentava e presenta due aspetti. Da un lato, infatti, la crescita economica era e resta tuttora debole, incerta, con la disoccupazione che continuava e continua a crescere anziché ridursi significativamente, nonostante il sostegno della spesa pubblica, peraltro giudicata da alcuni keynesianamente insufficiente, come P. Krugman. E ciò portava nei vari G20 e consessi internazionali, i governi ed i governatori delle banche centrali rappresentanti l’85% dell’economia mondiale a ribadire che per tutto il 2010 si doveva continuare l’azione di stimolo fiscale alla crescita, rimandando al 2011 l’inizio del consolidamento dei conti. Questo indirizzo era ribadito a fine aprile. Ai primi di giugno le cose cambiavano bruscamente. Nella dichiarazione del G20 di quel mese si dichiarava che “I paesi con forti problemi

112 Il Sole 24 Ore del 5 luglio 2009 113 Elaborazione Fondazione Edisoa su dati Eurostat 114 Il Sole 24 Ore del 25 0ttobre 2009 115 M. De Cecco – Perché la Germania manda in tilt la Ue cit. 116 M. Longo – Così è crollato il castello di carta – Il Sole 24 Ore 1 marzo 2009 117 Paradossale, priva, a mio parere, di qualsiasi coerenza logica, la posizione di Trichet, che da un lato invitava i governi al rigore ed al rispetto del patto di stabilità e dall’altro li invitava a spendere per uscire dalla crisi. Articolo di N. Saldutti – Doppio Trichet, spesa e rigore. In Corriereconomia del Corriere della Sera del 15 dicembre 2009 -

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di bilancio devono accelerare il ritmo del consolidamento”. Il tema principale che veniva quindi messo sul tappeto era quello del rientro dal debito pubblico col passaggio da politiche economiche di stimolo a politiche di rigore finanziario. Alle prime rimaneva ancora attaccata la posizione statunitense, benché non più nell’ampiezza e sistematicità precedente, giacché anche in quel paese il problema dell’enorme indebitamento iniziava a trovare una qualche udienza. Ma era soprattutto l’Europa, con la Commissione europea, la Banca Centrale Europea e la Germania come capofila dei paesi europei, a dare priorità alla questione del rientro dal debito. L’idea, esplicitata dal Fmi, a sostegno di questa linea del rigore era ed è che i paesi ricchi avrebbero dovuto ridurre il debito, perché altrimenti con questi conti sarebbe stata penalizzata la crescita dello 0,5% all’anno. Mi pare però evidente che a questa valutazione rimanesse sottostante la concezione “ortodossa” del libero mercato come migliore allocatore delle risorse, secondo la quale gli Stati si devono ritirare dal settore economico con le privatizzazioni dei servizi pubblici, con la riduzione della spesa pubblica fino a pareggiare il bilancio e ad estinguere il debito, con la diminuzione quindi del carico fiscale sui cittadini, in modo che il grosso delle risorse torni in mano al settore dell’economia privata ritenuta la migliore utilizzatrice. Naturalmente questa ideologia ignorava ed ignora la domanda che chiedeva e chiede perché il mercato è crollato e perché lo Stato sia dovuto intervenire per salvarlo da una catastrofe forse irrimediabile118. La giustificazione addotta è stata quella già vista in precedenza, che la crisi risaliva a cause extra-economiche, soprattutto a responsabilità di condotta politica, per cui spettava ai governi ed alle banche centrali che hanno gestito la politica monetaria, rimediare ai loro errori e dopo farsi da parte. Ma c’era e c’è anche una motivazione pragmatica di questa linea del rigore, articolata in due elementi. Il primo era la convinzione che la crisi fosse superata. Scriveva Alesina che “I mercati del dopo crisi sono molto nervosi e molto sensibili ai «rischi paese»”, per cui occorreva, senza perdere tempo, mettere sotto controllo i bilanci riducendo deficit e debiti119. Ancora nel 2010 lo stesso ribadiva che era venuto il momento di ridurre la spesa pubblica, in modo da sostenere la crescita con riforme strutturali e stabilità finanziaria, perché – e qui riaffiora la componente ideologica – l’unica via per aiutare la ripresa, peraltro già in corso, sarebbe rappresentata dal settore privato120. L’altro elemento è stata l’ufficializzazione di questa politica del rigore con i provvedimenti decisi al G20 del giugno 2010 presi allo scopo di rassicurare i mercati finanziari.

Questo indirizzo del rigore da perseguire ad oltranza e con determinazione assoluta, se del caso anche imponendolo, come lascia intravedere l’accentuazione di rigidità del patto di stabilità europeo, si presentava e si presenta, a mio parere, carico di contraddizioni insuperabili. Intanto, per rimanere nell’ambito dell’Unione Europea, su cui ritornerò fra poco, viene da notare che quel patto non solo non ha evitato la crisi, ma addirittura lo si è dovuto violare sistematicamente, proprio per evitare il fallimento del sistema economico anche europeo. E’ perciò paradossale, almeno a prima vista, che si volesse e si voglia rafforzare in funzione anti-crisi lo stesso strumento che non è stato capace di immunizzare l’Europa dagli effetti del contagio partito dagli Stati Uniti. In altre parole si è restati bloccati così rigidamente all’ideologia su cui è stata edificata la costruzione europea, da perdere qualsiasi flessibilità di valutazione e quindi di capacità di proposta politica di fronte al mutare degli eventi storici. Insomma, quando si concepisce come natura, e quindi al di fuori della storia, un sistema economico

118 Si tenga presente in proposito che il governo irlandese era stato proprio un fedele esecutore di questo indirizzo di politica economica, con una bassa tassazione ed una bassa spesa. Prima della crisi, infatti, la spesa pubblica di quel paese era mediamente del 33,8% del Pil, rispetto alla media complessiva dell’area euro del 47,5%. Tuttavia ciò non ha evitato all’Irlanda il crollo del suo sistema bancario e della sua economia. Ue, Euro Area Report, Winter 2010, Statistical Annex 119 A. Alesina – La spesa in fondo al tunnel – Il Sole 24Ore del 14 febbraio 2009. 120 A. Alesina – Il Fondo torna ortodosso: meno spese e banche sane – Il Sole 24 Ore del 10 luglio 2010. Lo stesso autore peraltro già in piena crisi e cioè sul Corriere della Sera del 1° dicembre 2008, da un lato chiedeva che in Italia si mettesse mano ad una politica espansiva, ma nel medesimo tempo, cioè proprio nella fase in cui gli Stati in generale intervenivano massicciamente accollandosi le passività che avevano fatto precipitare i mercati finanziari, invitava a tranquillizzare quegli stessi mercati salvati dalla mano pubblica, con una politica di restrizione che riducesse la spesa sociale, a partire dalla riforma delle pensioni. Vale a dire veniva ancora una volta proposta una delle truffe economiche perpretate nel nostro paese, giacché, come sappiamo, le pensioni private sono pagate di fatto coi contributi versati da imprese e lavoratori in attività, e non dallo Stato, tanto che il bilancio dell’Inps e della stessa Inail (Infortuni sul lavoro) sono stati e sono abbondantemente attivi. Comunque ancora a febbraio 2010 le proposte di Alesina continuavano ad insistere sulla riduzione della spesa specialmente “di certe voci come pensioni, trasferimenti e impiego pubblico” Ciò permette in prospettiva di ridurre le imposte. Articolo La spesa in fondo al tunnel già citato.

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anziché come realtà storica è evidente che non si riesca poi sviluppare la capacità critica di giudizio sui processi concreti e di adesione alle necessità che ne sorgono.

Ma la vera questione non è tanto ideologica, se non per il fatto che l’ideologia economica dominante ha svolto e svolge una funzione pratica di sostegno ad un preciso disegno politico che ha avuto ed ha per obiettivo interessi ben concreti. Secondo un linguaggio comunemente accettato e diffuso dai “guru” della teoria economica ortodossa, gli stati per finanziarsi devono rivolgersi ai cosiddetti “mercati finanziari”. Ma davvero esistono i “mercati finanziari”, come del resto ogni qualsiasi altro tipo di mercato? In altre parole i mercati ci vengono presentati come se fossero dei soggetti dotati di una loro consistenza ontologica. Per capire meglio la questione ci possiamo avvalere di un approccio filosofico nominalistico. Se lo seguiamo ci accorgiamo che in realtà i “mercati” non sono altro che un nome per designare l’insieme degli scambi messi in atto da una pluralità di soggetti economici, persone giuridiche o fisiche, relativamente ad un determinato settore. Caso mai il mercato lo potremmo intendere come luogo o, oggi, spazio informatico, in cui avvengono le transazioni mercantili. Ma il mercato non ha soggettività, quindi non vuole niente, non richiede niente. Sono soggetti concreti quelli che agiscono, esprimono domande ed offerte e via dicendo. Ed allora, per tornare alla questione del debito pubblico la domanda da porci è: chi sono i soggetti che hanno finanziato e finanziano, od hanno avuto ed hanno la possibilità di finanziare, il debito pubblico degli Stati? La risposta è che sono le banche ed i fondi di investimento salvati dalle banche centrali e dagli stessi Stati. Questi soggetti, come abbiamo visto, ricevuto questo sostegno salvifico, hanno ripreso a macinare utili, anche utilizzando il denaro delle banche centrali concesso a tassi bassissimi, e con questa enorme crescita di volume di affari hanno finanziato e finanziano gli Stati acquistando i titoli che questi ultimi hanno emesso ed emettono per coprire il debito cresciuto proprio per compiere le operazioni di salvataggio. Il paradosso è che le banche sopravvissute alla crisi sono in generale diventate molto più grandi di prima, per cui ancora oggi godono la garanzia implicita dello stato (too big, to fail – troppo grandi per fallire), verso il quale però esercitano una enorme forza ricattatrice. In altre parole, i salvati dagli stati senza alcuna condizione, impongono ai salvatori le loro condizioni.

Ma che cosa vogliono le banche ed i fondi di investimento, ovvero per usare la terminologia comune, che cosa vogliono i “mercati finanziari”, che cosa chiedono per sottoscrivere le emissioni dei titoli pubblici con cui gli Stati coprono il loro debito? Ce lo indicava l’iperliberista Giavazzi osservando che per tranquillizzaare i “mercati finanziari” è sempre necessario assicurare la sostenibilità del debito pubblico, aggiungendo che di conseguenza il messaggio da dare come garanzia del rapporto fra debito pubblico e Pil dovesse e debba essere di nuovo la riforma delle pensioni121. Un altro economista “mainstream”, G. Tabellini, ha fornito una chiara spiegazione di questo indirizzo riformistico. A suo parere, infatti, bisognava scambiare la spesa degli ammortizzatori sociali, [necessariamente crescente a causa della disoccupazione in consistente aumento] con la riforma delle pensioni. Per quale motivo? Perché riducendo il loro ammontare a chi lascerà il lavoro fra i 57 ed i 65 anni si risparmierebbero circa 10 miliardi di euro. Se poi si avesse il coraggio di innalzare anche la finestra dell’età di pensionamento i risparmi sarebbero ancora più grandi122. In sostanza la proposta consisteva, e tuttora consiste da parte degli economisti ortodossi e degli ideologi del sistema, nel far pagare il costo della disoccupazione ai lavoratori stessi, ossia a mettere in esecuzione un processo di ridistribuzione del reddito all’interno del monte salari, quindi fra i lavoratori stessi, escludendo di conseguenza qualsiasi politica distributiva generale, che cercasse e cerchi di livellare la ripartizione del prodotto fra rendite, profitti e salari, col chiedere il contributo dell’intera società e non dei soli lavoratori attivi al sostegno dei salariati che la crisi ha espulso dal lavoro. Si capisce agevolmente perché simili proposte siano per i “mercati finanziari”, ossia per i detentori degli attivi finanziari, per le banche e per i fondi di investimento, un messaggio tranquillizzante. In sostanza, per quel che riguarda il nostro paese, la crisi veniva presentata come un’occasione da non perdere per completare riforme strutturali, come appunto quella delle pensioni, peraltro già colpite fino dal 1992 da politiche riduttive, e quella del mercato del lavoro, peraltro anch’esso sottoposto negli ultimi decenni ad un processo di segmentazione e di

121 F. Giavazzi – Trovare il coraggio – su Il Corriere della Sera dell’8 dicembre 2008. 122 G. Tabellini – I tre rischi che possono aggravare la recessione – Il Sole 24 Ore del 1° febbraio 2009. L’obiettivo di “rapido innalzamento dell’età pensionabile” per affrontare il problema del debito pubblico in Italia viene ribadito dallo stesso autore su Il Sole 24 Ore del 25 ottobre 2009 nell’articolo “Non ci sono obiezioni serie al taglio delle tasse”. Se si deve diminuire l’imposizione fiscale di fronte ad un grosso debito pubblico, è evidente che la sua riduzione ricadrà interamente sul lavoro con le riforme che vengono suggerite allo scopo.

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precarizzazione per via politica, che altrimenti avrebbero avuto ed avrebbero difficoltà a passare123. D’altra parte in un suo discorso nell’ottobre 2009 lo stesso governatore della Banca d’Italia Draghi si poneva sulla stessa linea sostenendo che per coprire il costo degli ammortizzatori sociali da ampliare di fronte alla crescente disoccupazione, occorresse un aumento significativo dell’età pensionabile, una maggiore flessibilità del lavoro, con l’aggiunta di un impulso alla pensione complementare [ossia ai fondi pensione] riducendo i contributi alla pensione pubblica124. Insomma per il governatore occorreva praticare una politica finanziaria di rigore in modo da non gravare eccessivamente deficit e debito pubblici. Di conseguenza il patto di stabilità europeo tornava nel 2010 ad essere presentato come modello cui i paesi dovevano attenersi con misure di rientro dal deficit e dal debito pubblici, esplosi proprio per evitare il fallimento del sistema bancario mondiale, mentre era rimandata la tanto decantata ed invocata regolazione dei mercati finanziari, con le parole di Draghi quale presidente del Financial Stabilty Board: “la riforma della finanza sarà realizzata solo quando la ripresa sarà consolidata”.

Qualche dubbio in realtà sulla correttezza di questa drastica politica di rientro dai deficit e dal debito pubblici, qualcuno l’aveva avanzato. Ad esempio veniva ripreso un argomento con cui l’economista Luigi Pasinetti aveva criticato nel 1992 il trattato di Maastricht e cioè che utilizzare il debito pubblico come indice della salute finanziaria di un paese è estremamente riduttivo, in quanto occorre aggiungere altri parametri che hanno un peso molto maggiore e cioè il debito privato ed il risparmio delle famiglie. Di fronte alla crisi maturata ed esplosa proprio nel settore privato, si presentava ora la necessità di coniugarli con ulteriori elementi come le passività delle banche da salvare e la leva finanziaria125.

Ma c’era e c’è un altro fattore di cui tenere conto. Infatti le politiche di rientro da deficit e debito pubblici hanno lo scopo di ridurre il rapporto di queste grandezze con quella del Pil. Se esse vengono abbassate con la diminuzione della spesa pubblica ma contemporaneamente scende anche il Pil in uguale misura, e forse anche di più per effetto del conseguente abbassamento della domanda effettiva e quindi del reddito, allora quel rientro non avviene e probabilmente il rapporto peggiora contabilmente ma, soprattutto socialmente, perché provoca l’allargamento della disoccupazione. Per non considerare poi il fatto che con un reddito diminuito calano anche le entrate fiscali, mettendo di nuovo in difficoltà il bilancio statale anche da quel lato, perché alla riduzione delle spese si accompagna anche quella delle entrate. E’ quanto denunciava ai primi di novembre del 2009 l’Ilo (Organizzazione Internazionale del lavoro) tornando a mettere l’accento sul fatto che la deflazione salariale privava le economie nazionali della necessaria domanda per la ripresa. Ma già in precedenza, ad ottobre dello stesso anno era stata l’Organizzazione mondiale del commercio, il Wto, a constatare che, mentre il commercio internazionale incideva sul Pil mondiale fra il 30% ed il 60%, il lavoro informale (precario ed al nero) pesasse ancora per il 60% dell’occupazione globale. La Wto consigliava allora i paesi a “stabilizzare il lavoro” giacché tollerare la precarietà avrebbe comportato il pagamento di un prezzo pari al 2% del Pil. In breve, in un rapporto numerico fra un numeratore ed un denominatore, la riduzione del primo abbassa la sua percentuale sul secondo se quest’ultimo rimane fermo o cresce. Ma se anch’esso retrocede, e forse anche in misura maggiore nel nostro caso

123 Lo sostiene Giavazzi negli articoli prima citati. Ma su quella scia si è inserita prontamente la nostra Confindustria. Basti ricordare le opinioni espresse dalla Marcegaglia su Affari e Finanza di La Repubblica del 27 aprile 2009 e ad un convegno a Cagliari dove la stessa torna a propugnare l’accelerazione delle riforme anche con “interventi impopolari”. Su Il Sole 24 Ore del 17 maggio 2009. 124 R.F. Pizzuti replicava a Draghi dalle pagine de Il Manifesto del 14 ottobre, facendo notare che i bassi salari comportano bassi contributi anche ai fondi pensione; che, con una disoccupazione reale intorno al 10%, non ha senso, anche sotto il profilo della produttività del lavoro, mantenere gli anziani al lavoro ed i giovani fuori; che con la pensione complementare il risparmio nazionale esce dal paese verso rendimenti più remunerativi, magari in imprese concorrenti delle nostre; che l’Inps è in attivo e quindi non ha carico dello Stato; che il livello delle pensioni italiane è nella media europea. 125 Isabella Biagini su Il Sole 24 Ore del 7 dicembre 2008, riprendendo e sviluppando la tesi di Pasinetti, portava l’esempio dell’Irlanda gratificata fino ad allora dalle agenzie di rating con la massima valutazione delle tre A, e che in quel momento doveva rapidamente portare il suo deficit di bilancio pubblico intorno al 10% per salvare il suo sistema bancario, sull’orlo della bancarotta, senza poter fare affidamento al risparmio interno dato che i suoi cittadini erano anch’essi fortemente indebitati. Si tenga presente che le famose agenzie di rating non hanno previsto la crisi e ciò non depone certo a favore della loro capacità analitica. Inoltre, ed è forse un elemento ancora più grave, molte di esse fanno capo agli stessi grandi soggetti che dovrebbero valutare. Ad esempio Warren Buffet ed i grandi fondi di investimento Usa controllano Moody’s e S & P. – Il Sole 24 Ore del 9 maggio 2010

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per effetto della caduta della domanda effettiva dovuta alla diminuzione della spesa pubblica e dei salari, allora il rientro dal deficit e dal debito pubblici diventano molto problematici126.

Ad accreditare la tesi della necessità urgente di risanare i bilanci pubblici, è stata utilizzata la crisi dei cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Spagna, Grecia, con l’Italia sullo sfondo). Il primo paese ad entrare nell’occhio del ciclone è stata la Grecia, quando già a fine 2009 ma soprattutto con l’inizio del 2010 i cosiddetti mercati finanziari davano segni di nervosismo, alimentato dalle valutazioni sempre più negative delle agenzie di rating americane sulla situazione finanziaria di quel paese. Deficit e debito pubblico erano infatti effettivamente cresciuti in misura spropositata rispetto al Pil. A fine 2009 avevano raggiunto rispettivamente il 12,2% ed il 124,9%127. Ma già le stime a marzo del 2010 avevano portato il debito pubblico al 129,5% del Pil128.

Sulla base di questi dati e sulle valutazioni delle agenzie di rating, proprio di quelle che non si erano accorte per nulla della crisi che stava arrivando nel 2007, è partito l’attacco alla Grecia della speculazione finanziaria, ponendo a rischio la possibilità di quel paese di finanziare le quote del proprio debito in scadenza. Infatti, nelle situazioni in cui si trovano ormai tutti i paesi europei, gli Stati Uniti ed il Giappone, il debito che scade viene rimborsato con l’emissione di nuove obbligazioni statali. Se esse non trovano sottoscrittori lo Stato finisce in default, cioè non è in grado di rimborsare i titoli emessi in precedenza ed il debito viene ristrutturato, ossia il paese in questione lo redifinisce nell’ammontare (ad esempio svalutandolo di una certa percentuale) e nelle scadenze, che ovviamente sono procrastinate nel tempo129. Per attirare capitali diventa allora per prima cosa necessario aumentare il tasso di interesse sulle nuove emissioni. Ma se ciò non è ancora sufficiente occorre un intervento di aiuto di altri paesi e di istituzioni internazionali nella forma di un fondo di finanziamento cui potere attingere nel caso in cui il paese sotto attacco della speculazione finanziaria non riesca a collocare le proprie emissioni di titoli. E’ quello che è già accaduto alla Greciaed all’Irlanda ed in parte sta accadendo anche al Portogallo, alla Spagna come pure all’Italia. I titoli di questi paesi stanno infatti conoscendo un rialzo ragguardevole negli interessi corrisposti rispetto alla stabilità di quelli tedeschi, che fanno da punto di riferimento.

Tuttavia, per ritornare agli eventi greci, resta aperto un interrogativo, che riguarda in parte anche gli altri Stati sopra richiamati. Perché questo attacco speculativo? In fondo la situazione di bilancio e di debito pubblico da finanziare della Grecia non è peggiore di quella di altri paesi. La stessa Gran Bretagna, ad esempio, è indebitata complessivamente (debito pubblico e privato aggregato) del 469% del Pil; gli Stati Uniti veleggiano intorno al 360% del Pil. Quanto al Giappone, si consideri che ormai il solo debito pubblico tende decisamente intorno al 200% del Pil. Il famoso economista francese Jean-Paul Fitoussi in un articolo su La Repubblica del 3 maggio 2010, scriveva: “In materia di finanziamento pubblico la zona euro è la regione più «virtuosa» del mondo. In termini di punti di Pil il suo deficit è di 6,9 ed il suo debito pubblico di 84, quando negli Usa gli stessi dati .sono 10,7 e 92 ed in Giappone 8,2 e 197”. Inoltre è da tenere presente che in un regime di moneta unica ciò che conta è il volume del debito dei partecipanti, non la sua percentuale del Pil. Se il paese è piccolo e quindi il suo Pil è modesto, anche una percentuale altissima comporta un volume di debito modesto. Da questo punto di vista, allora, il massimo debito pubblico in Europa era ed è quello tedesco con circa 1900 miliardi di euro, seguito dall’Italia con circa 1800 miliardi di euro. Se si considera poi il debito complessivo della Germania (stato, land e privati), stime accreditate lo davano all’inizio del 2010 a 6200 miliardi di euro, cioè due volte e mezzo il Pil tedesco. Se poi teniamo presente che la Banca Centrale Europea detiene una riserva di 4150 miliardi di euro, dovuta al deposito del 69% della riserva dei vari paesi partecipanti all’euro ed al 7% di quella dei paesi non partecipanti, vediamo che le disponibilità non mancano purché le si voglia utilizzare in situazioni di necessità130. Alla luce di questi dati, possiamo porre la questione anche in altri termini. Se esiste un problema del finanziamento dei debiti sovrani, esso dovrebbe dipendere dalla mancanza di liquidità dei mercati finanziari rispetto all’ammontare dei debiti in scadenza da finanziare. Ed allora sotto questa angolatura non possono essere le poche centinaia di miliardi del debito greco o di quello portoghese a far problema, ma, al contrario, le migliaia

126 La Seb (Skandinaviska Enskilda Banken, una delle maggiori banche d’Europa) ha messo in evidenza una ricerca del Fmi, nella quale si sostiene che, nelle circostanze attuali, ogni taglio alla spesa pubblica, porterà ad un calo della produzione di due volte nel primo anno, e un calo complessivo di sei volte il taglio iniziale nell’arco di cinque anni. Vedi Imf (Fmi), World Economic Outlook, ottobre 2010, capitolo 3 127 Il Sole 24 Ore del 16 gennaio 2010 128 Affari e Finanza di La Repubblica dell’8 marzo 2010 129 L’esempio più noto di default di un debito sovrano è quello dell’Argentina nei primi anni del nostro secolo. 130 Dati riportati da Luigi Vinci su Liberazione dell’8 maggio 2010

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di miliardi di debito dei paesi più grandi. Eppure l’attacco della speculazione finanziaria è partito proprio dai paesi più piccoli ed europei, ritenuti l’anello più debole della catena e quindi a più alto rischio. In breve, il caso greco come quello preannunciato degli altri, sembra voler dire che la crisi finanziaria non è per niente finita e che il suo centro si è spostato dagli Stati Uniti all’Europa131.

In realtà la situazione si presenta, ormai possiamo parlare al presente, ben più complessa di quanto possa sembrare seguendo l’andamento del fenomeno. Sorgono almeno due domande. La prima: perché la speculazione finanziaria ha iniziato il suo attacco prendendo di mira la Grecia e di conseguenza l’euro? La seconda: perché la Germania ha impedito per mesi che si intervenisse con aiuti alle finanze greche peggiorando la situazione, quando un intervento agli inizi dell’anno avrebbe limitato i danni132?

E’ circolata l’idea che dietro l’aggressione alla Grecia, in realtà ci sia l’attacco al debito sovrano degli Stati europei e quindi all’euro da portare in parità col dollaro. Ciò perché nel 2012 scadrà una montagna di debito privato e di debito pubblico, per finanziare i quali non basterà il risparmio esistente. Si è scatenata, quindi, una lotta intercapitalistica per accaparrarsi i finanziamenti necessari col valorizzare la propria moneta, in modo da attirare il risparmio mondiale. L’iniziativa quindi di mettere in crisi l’euro sarebbe partita da Wall Street che intende difendere il valore del dollaro perché i capitali mondiali si dirigano in quel mercato, facendo così lievitare asset e rendite finanziarie. Questo spiegherebbe l’iniziativa delle agenzie di rating, sotto controllo di soggetti finanziari Usa, per declassare la valutazione delle esposizioni di molti paesi europei, ma non degli Stati Uniti ad esempio anch’essi superindebitati, come si è visto. Se così fosse, a mio avviso la situazione presenterebbe aspetti più complessi perché il conflitto sarebbe interno anche agli stessi Stati Uniti, fra l’istanza finanziaria di Wall Street e quella dell’abbattimento del deficit commerciale che richiede al contrario un dollaro debole. Per non considerare poi che la Federal Reserve ha ripreso ad acquistare i titoli di Stato e quindi a finanziare il debito pubblico emettendo moneta, come i recenti 600 miliardi di dollari, per cui la necessità di rivolgersi ai mercati viene ridimensionata. Non possiamo comunque dimenticare quello che è stato richiamato più volte all’attenzione, e cioè che la finanza americana ha esercitato almeno dal 1987, ed esercita tuttora, un vero e proprio ricatto nei confronti della politica monetaria, specialmente quando si manifestano difficoltà. Come osserva De Cecco, “La vera exit strategy sarebbe una decisa politica di graduale diminuzione del peso della finanza sugli altri settori dell’economia”. Ciò a motivo del fatto che “Negli ultimi anni il settore finanziario americano ha generato l’8% del Pil assicurandosi il 48% dei profitti”. Putroppo, conclude il nostro economista “la dirigenza americana non vuole riforme”, per cui “il peso della finanza sull’economia è destinato a perpetuarsi con il rischio di nuove bolle speculative e nuove crisi, a breve” 133.

131 Si consideri che nella Ue, dal 2006 al 2009, il debito privato e quello statale complessivamente sono passati dal 250% del Pil al 300%. Per quel che riguarda le banche europee, secondo la Bce, nel 2000 gli attivi bancari ammontavano a 15600 miliardi di euro, mentre oggi superano i 31mila miliardi di euro. Circa le esposizioni delle banche europee verso Grecia, Portogallo e Spagna i dati della Bri (Banca dei regolamenti internazionali) segnalano una esposizione di 1200 miliardi di euro. M. Longo – Stati e banche, debiti incrociati, su Il Sole 24 Ore del 15 maggio 2010 132 A questi interrogativo occorrerebbe aggiungere quello riguardante l’Irlanda, che tralascio per brevità, arrestandosi la presente analisi all’ottobre 2010, mese in cui peraltro la situazione irlandese cominciava a mostrare i suoi elementi di difficoltà. In quel paese l’aspetto più rilevante è il crollo del sistema bancario sovraesposto nel settore immobiliare caduto con la crisi propagatasi dagli Usa, che ha colpito peraltro anche il sistema produttivo irlandese orientato soprattutto alle esportazioni facendo crollare il Pil. Come per la crisi più vasta scatenatasi negli Usa, anche nel caso irlandese è da far rilevare la natura in buona parte speculativa della crescita di quel paese, con l’abbondanza di facilitazioni creditizie rese possibili dalla grande creazione di liquidità creata dalla Bce. Il basso costo del denaro, cioè, permetteva di indebitarsi a tassi bassi per investirlo in speculazioni immobiliari, che facevano lievitare i prezzi degli immobili, in una rincorsa senza freni fra concessioni di credito ed i valori immobiliari crescenti che nella fase della grande ascesa le garantivano. Finché anche in Irlanda, come negli Usa, la bolla è scoppiata, travolgendo il sistema bancario. La necessità di salvare le banche in una fase di decrescita, ha lievitato bruscamente il livello del deficit di bilancio e del debito pubblico. Una situazione ideale per gli attacchi speculativi delle banche che si finanziano presso la Fed e la Bce a tassi bassissimi ed esigono interessi elevatissimi per sottoscrivere le emissioni dei titoli statali irlandesi. Da notare che nonostante la recente copertura di 85 miliardi di euro assicurata all’Irlanda dal Fmi e dall’Europa non ha scoraggiato la speculazione che continua ancora spostando i suoi attacchi sugli altri paesi posti come obiettivo del fronte speculativo, come Portogallo, Spagna ma anche Italia. 133 M. De Cecco – Il ricatto della grande finanza blocca l’exit strategy di Obama – Affari e Finanza di La Repubblica del 14 settembre 2009. Il fatto è, come del resto dimostra la denuncia di De Cecco e di altri già citati, che ormai la politica dei governi è asservita agli interessi dell’accumulazione capitalistica che, nella fase storica che abbiamo

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Dal lato europeo ad essere messi a fuoco sono da un lato la politica tedesca e dall’altro quella della Ue e della Bce. Della prima ho già sottolineato in precedenza il suo carattere neo mercantilista, aggressivo verso gli altri paesi con una massa di esportazioni del 60% del totale. Di fronte alle difficoltà della Grecia quello che colpisce è la rigidità del governo tedesco che, come è detto sopra, ha inizialmente impedito l’aiuto necessario a coprire il debito greco. La cosa appare ancora più strana se si considera che in realtà il debito della Grecia era coperto in misura altissima dalle banche tedesche e francesi134, per cui in realtà i finanziamenti concessi con la creazione di un fondo di salvataggio, sono serviti, servono e serviranno, a salvare in gran parte capitali tedeschi. Come pure appare una follia le condizioni imposte a quel paese per ricevere gli aiuti, e cioè la riduzione drastica della spesa pubblica, soprattutto sociale, il blocco dei salari ed addirittura la riduzione di quelli dei dipendenti pubblici e così via. Tutto ciò non può comportare altro che una caduta della domanda, dei redditi, quindi delle entrate fiscali e del Pil, con il rischio di ottenere sul medio-lungo periodo un risultato opposto a quello desiderato. Per non considerare poi l’aspetto più volte segnalato e cioè che un paese che ha nelle esportazioni la componente fra il 40% ed il 48% del Pil, come la Germania, dovrebbe, a mio parere, cercare di favorire l’espansione della domanda dei paesi dove prevalentemente esporta, quali sono i paesi europei, specialmente in una situazione globale di riduzione dei consumi statunitensi. D’altra parte su questa linea del più drastico rigore finanziario si è mossa e si muove la stessa Commissione europea, col sostegno del Consiglio dove il governo tedesco esercita tutto il suo imponente peso. Quanto alla Banca Centrale Europea il Trattato di Maastricht, riportato ora integralmente negli articoli 127-132 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, facente parte del Trattato di Lisbona, fa divieto di concedere prestiti a Stati ed altre istituzioni pubbliche, come land, dipartimenti, regioni, province, comuni. Di conseguenza la Bce, come si è già notato, ha finanziato le banche a tassi bassissimi in modo che esse potessero a loro volta coprire i debiti sovrani, però ponendo la condizione di tassi più elevati. In sostanza la Bce non ha fatto altro che consentire alle banche di ottenere alti profitti, gravandoli ovviamente sulle finanze pubbliche e quindi su quella massa di cittadini su cui si sono scaricate le politiche di aggiustamento strutturale, di cui si è più volte parlato. Tuttavia, recentemente, il trattato di Lisbona è stato abbandonato anche da questo lato. Si era cominciato col violarlo sistematicamente oltrepassando abbondantemente i parametri posti e rafforzati col patto di stabilità, quando si è trattato di salvare il sistema bancario e finanziario dal crollo addossando agli Stati l’onere di quel salvataggio, che per i salvati è stato quindi a costo zero. Di fronte all’aggravarsi degli attacchi speculativi praticati dalle stesse banche liberate delle loro passività, anche la Banca Centrale Europea ha rotto i vincoli dei trattati europei ed ha preso ad accollarsi i titoli emessi dagli Stati. In altre parole, oltre che a mantenere i tassi di interesse ai minimi storici, a proseguire la politica della creazione di liquidità immessa nei mercati finanziari, la Bce ha varato un programma di acquisto di titoli governativi con ulteriore creazione di moneta. Ove ce ne fosse ancora bisogno, ciò dimostra i limiti strutturali dei trattati europei ispirati sul piano economico alle idee delle teorie ortodosse, per le quali l’ordine dell’economia possiede carattere a-storico e naturale. E’ evidente che di fronte alle mutazioni della situazione reale un simile approccio conduca ad un fanatismo ideologico, rimanendo bloccati al quale si rischia di far davvero sprofondare il sistema in una catastrofe irreparabile. Per di più ad aggravare la situazione europea sta la sua inconsistenza politica. Abbiamo un’unità monetaria, l’euro, a cui aderiscono soltanto 16 paesi su 27, dietro la quale non c’è nessuno Stato e quindi manca una politica economica e di bilancio unitaria non esistendo un effettivo governo europeo, dotato dei poteri propri di ogni istituzione governativa. A differenza del dollaro, l’euro non possiede questa copertura politica. E’ questo, ritengo, l’elemento decisivo. Perché come è stato segnalato da Fitoussi, citato sopra, in fin dei conti rispetto al Pil europeo, anche limitatamente a quello aggregato dei paesi della zona euro, il debito pubblico di Grecia, Irlanda, Portogallo ed anche Spagna, è molto basso. Però questa limitatezza non riceve attenzione e non ha peso, proprio perché manca un’unità politica con un suo bilancio ed un suo debito pubblico, entro i quali verrebbero a scomparire le situazioni particolari isolate dei vari paesi, come succede attualmente. Se ciò fosse il riassorbimento delle difficoltà

attraversato negli ultimi decenni e nel presente, è andata ad assumere la prevalente forma finanziaria, come ho cercato di illustrare, spiegandone i motivi nel paragrafo secondo sull’economia globalizzata, punto 4. 134 Il giornale francese Le Monde del 18 maggio 2010 osservava che l’esposizione nel debito greco delle banche francesi fosse di 50 miliardi di euro e delle banche tedesche di 28 miliardi di euro. A proposito di quest’ultime un rapporto di Barclays Capital del 28 aprile 2010 segnalava che la Hypo Estate Holding, salvata dal governo nel 2009, era esposta da sola nella misura del 30% dei titoli greci posseduti da tutto il sistema bancario tedesco. Il Sole 24 Ore del 22 maggio 2010

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maggiori di alcune aree europee, sarebbe molto facilitato e non incontrerebbe gli ostacoli che devono affrontare ora i singoli paesi, e cesserebbero anche le occasioni di speculazione che ingrassano di utili banche e fondi di investimento.

Per concludere questa parte non si può tuttavia fare a meno di notare che la concezione privatistica secondo cui lo Stato è il problema, non la soluzione, adottata negli ultimi decenni come un dogma irriformabile, quando ci siamo trovati di fronte al precipizio si è provveduto prontamente ad abbandonarla ritornando ad un vero e proprio statalismo, col sostegno di emissioni illimitate di moneta da parte delle banche centrali. Tuttavia, passato il momento peggiore della bufera, quello del crollo senza possibilità di recupero, si è tornati a riproporre le vecchie ricette, come dimostra il progetto di irrigidimento del patto di stabilità europeo, cioè proprio di quel patto che non è servito per nulla ad evitare la crisi ed anzi è stato necessario violarlo per evitare i guai maggiori. Da un punto di vista di coerenza logica, ma anche economica, tutto ciò appare contraddittorio. Com’è possibile, razionalmente, ripristinare strumenti che si sono rivelati fallimentari rispetto agli scopi loro assegnati? Eppure questo è l’indirizzo politico europeo e generale. Il senso logico di questa politica non va però ricercato nei fenomeni economici in sé stessi, nei meccanismi di funzionamento delle varie dinamiche in cui fenomenicamente si manifesta il processo economico. La logica strutturale, fondante l’economia capitalistica è sociale. Occorre cioè guardare agli interessi sociali che questi provvedimenti politici hanno inteso ed intendono tutelare. Rimandando alla conclusione generale considerazioni un po’ più ampie, a mio parere questi interessi sono quelli dei grandi soggetti finanziari e bancari, o, per parlare in termini impersonali, del capitale nella forma finanziaria in cui attualmente si esprime la sua accumulazione. Ovvio, quindi che, perdurando la forza impositiva del potere capitalistico anche sul piano politico, a pagare il costo della crisi, ossia il risanamento dei conti pubblici su cui sono state trasferite le passività bancarie e finanziarie, vengano ancora una volta chiamati coloro che già avevano subito gli effetti socialmente devastanti del processo economico della cosiddetta globalizzazione. Si tratta del mondo del lavoro, che con la disoccupazione, i salari reali o relativi abbassati, i salari indiretti (le prestazioni dei servizi pubblici dello Stato sociale) ridotti, i salari differiti (le pensioni) anch’essi calati , la precarietà dei giovani che si affacciano sulla scena sociale lavorativa, sta pagando il costo di una crisi nata all’interno dei meccanismi capitalistici di accumulazione, i cui interessi permangono ancora al vertice degli obiettivi dell’iniziativa politica dei governi e delle banche centrali Non è un caso che mentre i provvedimenti imposti ai paesi sotto attacco speculativo hanno previsto tagli salariali, non si sia preso alcun provvedimento a carico dei patrimoni, delle rendite o dei redditi più alti; che i diritti acquisiti considerati finora intoccabili, ora non lo siano più; che i salari nominali che dal 1930 non erano mai scesi, ora lo sono per i dipendenti pubblici in Irlanda, Grecia, Spagna, Romania, Portogallo; che negli ultimi 25 anni nei paesi Ocse fra 8 e 12 punti del Pil si sono spostati dal lavoro alle rendite; che a pagare si continui a chiamare chi ha già avuto una riduzione così forte della sua partecipazione alla ripartizione della ricchezza prodotta; che mentre i tagli agli stipendi ed al Welfare sono stati decisi rapidamente, la tassazione degli intermediari finanziari che hanno fatto miliardi creando la bolla, ancora non sia decollata135. Tutto ciò per gli ideologi del sistema non solleva alcun dubbio o problema. Al contrario lo si esalta come una condizione ottimale. Dopo avere ammesso che “è alle banche che ha guardato l’ingente massa di spesa pubblica mobilitata dal mondo per evitare il peggio”, e dopo avere riconosciuto “che non è ancora chiaro se il risultato è stato raggiunto”, Orioli sostiene apertamente che per affrontare la crisi dei debiti sovrani occorre abbandonare ogni operazione di ridistribuzione delle risorse, e si è obbligati ad una vera e propria riduzione della spesa pubblica, perché per la ripresa occorrono forti iniezioni di mercato. Ormai infatti “al Welfare state tradizionalmente destinato al lavoro si è aggiunto il Welfare finanziario” e fra i due c’è incompatibilità, ed il primo deve essere eliminato136. Ma davvero come sostiene qualcuno il conflitto sociale è una realtà del passato ed oggi è finito?

Conclusione Quale conclusione generale trarre dall’insieme dell’analisi precedentemente svolta? Prima di tutto mi pare

necessario sottolineare l’estrema flessibilità del capitalismo. Iperliberismo, monetarismo, Trattato di Maastricht e poi di Lisbona con il patto di stabilità, privatismo, antistatalismo e via dicendo, sono andati bene quando

135 M. Panara su Affari e Finanza di La Repubblica del 17 maggio 2010 nell’articolo “La crisi preme, il Welfare paga”. 136 A. Orioli – Il mondo è al futuro, il Welfare è al passato – Il Sole 24 Ore del 15 maggio 2010

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servivano a difendere gli interessi del capitale, accumulato prevalentemente in forma finanziaria. Ma quando quegli stessi interessi sono stati colpiti proprio in quel sistema accumulativo, a suo tempo sostenuto dalla liquidità di miliardi di dollari, di euro, di sterline, di yen, e che ciononostante era finito in una voragine fallimentare che rischiava di portarlo al crollo completo, allora, in quel momento, non si è avuto scrupoli a richiedere e praticare tutto l’opposto. Registriamo allora l’intervento dello Stato nel processo economico, la violazione sistematica da parte della Banca Centrale Europea delle norme vincolanti la sua attività, da parte degli Stati europei quella dei parametri riguardanti i deficit di bilancio ed i debiti pubblici e per quel che riguarda gli altri Stati ugualmente sono state accantonate le prescrizioni di rigore finanziario che l’ideologia economica ortodossa nei decenni precedenti aveva posto alla finanza pubblica come condizione naturale ed inviolabile per una sana ed equilibrata economia. Nondimeno, quella stessa ortodossia economica iperliberista ed antistatalista, sospesa quando gli interessi dominanti del sistema rischiavano il collasso come si è appena notato, è rimasta implacabilmente confermata ed operante nei confronti del mondo del lavoro, ancora consegnato alla riduzione di salari e diritti sociali, alla disoccupazione, al precariato, a subire insomma l’ulteriore il ridimensionamento dello Stato sociale e delle sue tutele, proprio per coprire le passività dei soggetti imprenditoriali privati, finanziari e non, di cui si era fatto carico lo Stato.

Dopo la precedente constatazione, a mio parere si pone conseguentemente un primo interrogativo. Visto che il sistema dell’economia capitalistica globalizzata è stato salvato dal massiccio aiuto fornito dalle banche centrali e dagli Stati, anche quelli oggi ritenuti più forti come la Germania, il salvataggio delle cui banche è costato a quel governo il 24% del Pil137, con una crescita imponente del debito pubblico su cui sono andate a scaricarsi le passività bancarie e quelle di alcuni importanti istituti finanziari, è accettabile che i soggetti finanziari così beneficiati senza pagare alcun costo, così rimpinguati di denaro, per sottoscrivere i titoli emessi dagli Stati necessari a coprire questo loro debito accresciuto, debbano porre condizioni ai governi obbligati a dare assicurazioni in tal senso? Che questi segnali, come abbiamo visto debbano essere solo ed esclusivamente di natura sociale, con la riduzione della spesa pubblica nel settore dei servizi collettivi, scuola, università, sanità, trasporto pubblico e via dicendo, con l’abbassamento dei salari, l’abbattimento dei diritti del lavoro, la permanenza della disoccupazione e della precarietà, la reintroduzione di condizioni lavorative che ricordano scenari ottocenteschi? Che non si debba parlare di imposte patrimoniali e di riduzione della spesa militare ad esempio o di altri provvedimenti di questa natura piuttosto che colpire il settore sociale e del lavoro? E tutto ciò col rischio, sottolineato in precedenza, di scatenare una deflazione che renderà ancora più disperata la situazione dei conti pubblici, con le entrate che diminuiranno e le necessità sociali che aumenteranno. E’ evidente, allora, che questa politica di rigore richiesta dai cosiddetti mercati finanziari, non fa altro che proseguire e ribadire le linee portanti delle politiche monetarie, economiche e sociali che hanno guidato il processo economico degli ultimi decenni, imperniato sulla prevalente accumulazione capitalistica in forma finanziaria e sul mantenimento della produzione reale a livelli modesti rispetto alle possibilità della riproduzione allargata del capitale che, come detto, ha privilegiato la finanza rispetto gli investimenti produttivi. Ad evitare il rischio di sovrapproduzione si è provveduto con la creazione di domanda effettiva attraverso le rendite finanziarie ed il credito agevolato, sostituendo cioè il keynesismo sociale col keynesismo finanziario e creditizio, permanendo sempre il keynesismo militare. Il tutto incentrato sugli Stati Uniti quali consumatori keynesiani globali del surplus creato in Asia ed Europa. Eppure, come abbiamo visto, la crisi partita nel 2007 ha scompaginato completamente questi equilibri e pur tuttavia le direttive politiche che hanno accompagnato nei decenni passati la cosiddetta globalizzazione, hanno continuato ad essere praticate come medicina per curare il male che si era scatenato e come prospettiva del futuro, pur in presenza delle contraddizioni che sono state segnalate nelle pagine precedenti. L’unica preoccupazione sembra perciò essere quella della difesa del capitale finanziario, cioè quella forma di accumulazione capitalistica che ha cercato, vanamente però, di evitare una crisi di sovrapproduzione dagli effetti devastanti. Si parla infatti già dagli ultimi mesi del 2009 di fine della crisi, di inizio della ripresa, ma, come abbiamo visto, e come ci stanno segnalando i dati più recenti del Pil in realtà, almeno nelle economie capitalistiche sviluppate, si tratta di una crescita modesta, accompagnata sempre da una disoccupazione in aumento, di cui peraltro, al di là delle dichiarazioni di facciata, la politica concreta non si sta dando molta preoccupazione e tanto meno se ne dà il mondo imprenditoriale, a cui in fondo l’esistenza di un esercito di riserva

137 M. De Cecco – La cura la decide l’America e l’Ue – Affari e Finanza di La Repubblica del 17 maggio 2010

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consente di esercitare un forte potere di ricatto sui salari e sulle condizioni di lavoro. In una parola, sembra che al suo livello massimo di sviluppo, il sistema economico capitalistico rinunci alla crescita reale e quindi all’espansione della domanda, che viene al contrario proprio penalizzata dalle politiche di rientro dal debito pubblico, soprattutto per il loro impianto antisociale che accentua ancor più la ridistribuzione disuguale del reddito, anch’essa fattore di riduzione del potere di acquisto della maggior parte della popolazione. Sembra, insomma, profilarsi uno scenario di povertà futura ancora maggiore, una enorme frattura della società con una esclusione sociale gigantesca, un vero e proprio apartheid planetario. E ciò marca nettamente le differenze fra le politiche odierne e quelle che presero avvio negli anni ’30 di fronte al crollo del ’29, quando l’indice della fuoriuscita dalla crisi era rappresentato dalla riduzione della disoccupazione e dalla crescita dei redditi compresi i salari, mentre attualmente il paradigma finora dominante viene non solo praticamente confermato ma addirittura approfondito ed esteso138.

C’è a questo punto da chiedersi se questo capitalismo iperfinanziarizzata non rimanga alla fine sospeso in un vuoto che lo farà precipitare, data la natura fittizia del capitale finanziario, e data la mancanza del sostegno materiale dell’economia reale a quel castello artificiale drogato dall’enorme massa di moneta iniettata dalle banche centrali; un’economia reale che richiede investimenti, produzione e domanda effettiva. In breve, se studiamo il processo capitalistico nelle sue radici, ci imbattiamo inevitabilmente nella contraddizione strutturale fra estensione ed intensificazione dello sfruttamento del lavoro da un lato, che aumenta la produzione per unità lavorativa, e, dall’altro, la progressiva riduzione delle capacità di spesa, sicuramente in termini relativi139.

Quello che infine colpisce e che, a mio parere, occorre ribadire con forza, è il fatto che le politiche adottate dai governi si sono mantenute tutte sulla linea di quelle precedenti la crisi, cioè difesa ad oltranza dell’accumulazione finanziaria del capitale, con la novità importante del ritorno dello Stato nell’agone economico, richiesto dagli stessi iperliberisti, per salvare il sistema dalla caduta nel precipizio di una crisi irrimediabile. L’obiettivo è rimasto sempre lo stesso: difendere ad oltranza il capitale finanziario mantenendo alla politica di intervento la precedente impostazione antisociale con lo scaricare sul mondo del lavoro, in tutte le sue componenti e configurazioni, dal precariato al lavoro a tempo indeterminato, il peso economico del salvataggio effettuato. E’ difficile in questa situazione non pensare alla permanenza di un conflitto sociale di classe lungo tutto il processo di globalizzazione e durante la sua crisi. Un conflitto che oggettivamente perdura tuttora, avendo per soggetto attore che lo governa secondo le coordinate dei propri interessi la “transnational capitalist class”140, piuttosto che quella classe lavoratrice mondiale di tre miliardi di individui che lo ha subito e lo sta ancora subendo. A questo punto credo opportuno riprendere un concetto dell’economista francese Suzanne de Brunhoff e cioè che è difficile concepire un cambiamento economico e sociale che parta dall’alto in assenza di una crisi del sistema, che attualmente peraltro esiste, ma anche senza i movimenti dal basso dei salariati colpiti dalle politiche economico-sociali praticate finora e che continuano ad essere praticate141.

Indubbiamente alla ribellione delle vittime occorre offrire un progetto alternativo per uscire dalla crisi dell’attuale assetto capitalistico dell’economia con una trasformazione strutturale del sistema, consentita peraltro dall’enorme ricchezza accumulata, il cui utilizzo deve trasferirsi dalla speculazione finanziaria all’utilizzazione sociale per creare migliori opportunità di vita per tutti gli abitanti del pianeta. Su questo piano incontriamo una ricca varietà di analisi e di proposte la cui esposizione esula però dal piano assegnato alla presente ricerca che qui si conclude.

Novembre 2010

138 Scrive S. Folli nell’articolo Il punto, su il Sole 24 Ore del 30 maggio 2009, commentando le Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Draghi, che la crisi è l’occasione per rimediare ai difetti strutturali del nostro paese. Insomma, tutte le riforme già fatte del mercato del lavoro e delle pensioni non sono sufficienti. Occorre avanzare ulteriormente sulla strada su cui peraltro già camminiamo da qualche decennio. 139 Non è un caso che l’economia capitalistica, dopo le crisi cicliche dell’Ottocento, dagli ultimi decenni di quel secolo ad oggi sia stata periodicamente colpita da profondi rivolgimenti che segnano dei veri e propri passaggi di fase: la Grande Depressione 1873-1896; il crollo del 1929; la crisi del decennio Settanta del Novecento; quella in corso ai nostri giorni. 140 L. Sklair – The Transnational Capitalist Class – cit. 141 Suzanne de Brunhoff – L’instabilité monétaire internazionale – in La mondialisation financière – a cura di F. Chesnais – Syros 1996