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SOMMARIO

L’IPPOGRIFOLaTerra vistadallaLuna

EDITORIALE3 Il sogno, la cultura

e il bla bla bladi Angelo Bertani

SOGNARE, FORSE…7 Sogno, desiderio e soggetto

di Annalisa Davanzo

10 Un sueñodi Luca Taddio

11 Un sognodi Luca Taddio

12 Caro «Ippogrifo» ti scrivodi Piero Fortuna

13 L’utopia è necessariadi Lucio Schittar

14 Utopia e mondo modernodi Flavia Conte

16 Il sogno e l’utopia marxistanegli anni Settantadi Massimo Riccetti

18 Sonno e sogno nella Bibbiadi Renato De Zan

22 Sul sogno. E su Primo Levidi Piero Feliciotti

28 Sognare, forse…di Graziella Bolzan

31 Il sogno architettonicodi Etienne-Louis Boulléedi Stefano Tessadori

Cinema e sogno35 Ma lo schermo sogna?

di Giorgio Placereani

38 Affinità e divergenzefra cinema e sognodi Giorgio Cantoni

40 Sul “doppio sogno” di Kubrikdi Andrea Crozzoli

Il sogno del poeta42 Il Gruppo Majakovskij:

poesia e sogno

44 Escursione onirica nellapoesia di Sandro Zanottodi Luigi Bressan

46 La tomba di Pasolinidi Nico Naldini

48 Ulissedi Giancarla Taddeo

48 Sogno dell’alba,Vajont 9 ottobredi Annamaria Maurizio

49 Uno, nessuno, centomiladi Emanuela Furlan

50 Like a Rolling Stone Revisiteddi Fabio Fedrigo

ASPETTANDO GODO…51 Sogno

di Andrea Appi

52 L’angolo dei ricordi di scuoladi Franco Luchini

IL FILO DI ARIANNA53 Un segreto che può essere

rivelato al mondodi Alessio Pasquini

TESTIMONIANZE56 Il signor Pasolini

e la signora Rosinadi Daniela Tommasi

58 Propheta in Patriadi Giulio Ferretti

60 Il troppo stroppiadi Augusto Colombo

AVVENIMENTI62 Dedica 2001

Associazione per la Prosa

63 Hicetnuncdi Angelo Bertani

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Hanno collaborato a questo Quaderno dell’«Ippogrifo»:

Alunni Scuola Elementare «Guglielmo Marconi» di Sarone. Andrea Appi, cabarettista. Associazione per la Prosa di Pordenone.

Angelo Battel, operatore culturale.Angelo Bertani, critico d’arte. Graziella Bolzan, insegnante. Luigi Bressan, poeta. Giorgio Cantoni, giornalista.Augusto Colombo, missionario del Pime. Flavia Conte, insegnante. Andrea Crozzoli, operatore culturale. Annalisa Davanzo, psicoanalista. Renato De Zan, biblista. Fabio Fedrigo, presidente di cooperativa sociale. Piero Feliciotti, psicoanalista. Giulio Ferretti, architetto. Giulia Ferretti, artista.Piero Fortuna, giornalista.Emanuela Furlan, operatrice culturale.Romano Jus, notaio.Franco Luchini, cittadino italiano.Gruppo Majakovskij.

Annamaria Maurizio, insegnante. Nico Naldini, scrittore. Alessio Pasquini, obiettore di coscienza. Giorgio Placereani, critico cinematografico.Massimo Riccetti, preside. Lucio Schittar, psichiatra. Rodolfo Sorato, tecnico della prevenzione.Giancarla Taddeo, insegnante. Luca Taddio, assistente universitario. Stefano Tessadori, architetto. Daniela Tommasi, assistente sociale.

Si ringraziano per aver reso possibile questa pubblicazione:Luciano Padovese, vicepresidente della Fondazione

Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone.Giulio De Antoni, direttore generale dell’Azienda

per i Servizi Sanitari n. 6 «Friuli Occidentale».Sandra Conte, presidente dell’Associazione «Enzo Sarli».Angelo Cassin, responsabile del DSM di Pordenone.

Sostengono la pubblicazione dell’«Ippogrifo»:Coop Acli, Cordenons; Coop Fai, Porcia; Coop Itaca, Pordenone.Amministrazione Provinciale di Pordenone.

Per la realizzazione un particolare ringraziamento a:Andrea Di Bert, Giovanni, Alessandro e Alberto Dreossi,

Daniele Gortan, Anna Piva e Carlo Sartor.

Questo Quaderno è stato pubblicatocon il contributo della FondazioneCassa di Risparmio di Udine e Pordenone

Per inviare contributi, riflessioni e impressioni, scrivere a:Redazione «L’Ippogrifo» c/o Studio Rigoni, viale Marconi, 32

33170 Pordenone. Telefono e fax: 0434/21559.E-mail: [email protected] [email protected]

Numero unico.Inverno 2000-2001

Questa edizione è pubblicatadall’Associazione «Enzo Sarli».Via Interna, 5 - 33170 Pordenone.

RedazioneCinzia Appi,Luciana Pignat,Francesco Stoppa,Caterina Toffoli,Silvana Widmann,Patrizia Zanet.

Coordinamento di redazione Augusto Casasola,Mario Rigoni,Francesco Stoppa.

Progetto graficoe impaginazioneStudio Rigoni.

FotolitoDreossi & C. - Pordenone.

StampaTipografia Sartor - Pordenone.

[email protected]@tin.it

Stampato nel mesedi febbraio 2001

issn 1590-8852-5

Questo Quaderno è compostoin carattere Garamond Simoncinied è stampato su carta Arcoprintda 100 g/mq della cartiera Fedrigoni.

Copyright© del progetto editoriale:«L’Ippogrifo» by Studio Rigoni.È vietata la riproduzione, senza citarne la fonte.Gli originali dei testi, i disegni e le fotografie,non si restituiscono, salvo preventivi accordicon la Redazione. La responsabilità dei giudizie delle opinioni compete ai singoli Autori.

L’IPPOGRIFOLaTerra vistadallaLuna

In questo numero:••••••••••••••••••••••••••••••••••••

Sognare,forse…

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Quaderno / inverno 2000-2001

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Se navighiamo in Internetalla ricerca di sogni, unodei più efficaci motori di ri-cerca, Yahoo.com., ci segna-la 2852 siti, ovvero 2852

luoghi virtuali in cui si di-scute di dream/s. Poca cosain confronto ai 4257 sitiche si interessano di war(guerra) o gli 8723 che trattano dipower (potere): ma si sa, gli uominiamano soprattutto le cose concrete.D’altra parte è anche vero che non tuttii siti dedicati al sogno sono da prenderein seria considerazione: alcuni sconfina-no nel surreale, molti sono stravaganti,altri ancora sono semplicemente capzio-si, pochi sono veramente seri.Ad esempio, navigando tra i siti italianipossiamo passare senza soluzione di con-tinuità dall’ “Istituto di ricerca per il so-gno lucido” (www.sogni.org) all’attualitàdel “Sogno di Maradona” (www.cnn.ita-lia.it), dalle “Concordanze di sogno nellaBibbia” (www.eulogos.it) al “Sito dei so-gnatori romantici” (www.cassettodeiso-gni.it), da “La vita come sogno. Atti delConvegno” (www. argonauti.it) a “Spiag-ge da sogno” (www.infoelba.it), da “Rac-conta il tuo sogno” (www.dreamson-web.net/.it) a “La bancadei sogni” (www. euro-link.it/.sogni), da “Recen-sione di un Sogno di unanotte di mezza estate”(www.rosencrantz.it) a“Leviathan, aiuto natu-

rale contro l’impotenza”(www. levia.com). Come sivede c’è un po’ di tutto, piùdi quanto qualcuno potreb-be immaginare.Tuttavia, tra tutte le catego-rie possibili quella del so-gno culturale (finora scarsa-mente rappresentata in In-

ternet) appare senz’altro la più interes-sante per una rivista come «L’Ippo-grifo». Infatti che la cultura sia un so-gno è una verità di per sé evidente findalle origini della civiltà, vuoi perché haa che fare con le stesse pulsioni profon-de che originano il sogno, vuoi perchéspesso appare verosimile o realizzabile einvece non lo è.In realtà, sempre a questo riguardo, sipotrebbero distinguere due tipi fonda-mentali di sogni: quello inconsapevoledella cultura materiale, che cerca di da-re concretezza quotidiana allo scorreredel tempo attraverso la costruzione dioggetti, gesti, riti, parole, immagini masenza interrogarsi di continuo sul lorosignificato, e quello consapevole dellacultura tout court, che invece si interro-ga spesso sul significato dell’esistenzacostruendo oggetti, gesti, riti, parole,

immagini. La differenza,dunque, sta solo in quel-l’interrogarsi, in quellaconsapevolezza, in quellaricerca di senso. Proprioper questo la vita quoti-diana è forse simile ad un

EDITORIALE

Il sogno,la cultura

e il blabla bla

Angelo Bertani

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Noi non ci sentiamo vera-mente grati nei confrontidi quelle persone che fan-no realizzare i nostri so-gni; esse rovinano i nostrisogni. Eric Hoffer

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sogno ad occhi semichiusi(spesso non vogliamo aprirli deltutto per naturale difesa), men-tre il sogno della cultura deveessere un sogno ad occhi aperti.Ma in questi nostri anni pareproprio che si voglia procede-re sempre più ad occhi semi-chiusi, rinunciando a porsi do-mande: si vive giorno dopogiorno, seguendo le pulsionioriginate da un principio dipiacere tanto superficiale e va-cuo che irriterebbe perfinoFreud. È chiaro che in tale si-tuazione la cosiddetta culturanon può essere che quella del-lo spettacolo: così il coinvolgi-mento e la partecipazione(obiettivi del passato) si sonotrasformati in audience, la ba-nalità più becera è diventatafonte di consolazione o di eva-sione e la qualità si verifica so-lo in termini di quantità (tantivisitatori, tanti spettatori).Probabilmente il Grande Fra-tello di Orwell ci spia, ci osser-va, ci condiziona nei compor-tamenti e se la ride di noi; ma

ancora più inquietante sarebbescoprire che a spiarci e a gui-darci sia un Grande FratelloScemo, reso ebete dagli stessimedia che egli controlla o cre-de di controllare: e questa ipo-tesi non pare così assurda, se siguarda a ciò che ci circondacon mente sgombra da pregiu-dizi. Infatti l’uomo, per la pri-ma volta nella storia, può di-struggere la propria specie e ilmondo, ma fa finta di niente,rinvia o ignora bellamente ilproblema e chiama tutto que-sto, ancora una volta, progres-so. Allora, quasi quasi, ci vieneda pensare che in realtà diGrandi Fratelli ce ne sianodue: uno tutto scienza e tecni-ca, certamente intelligente,preparato ma dedito solo aisuoi esperimenti di laborato-rio, e un altro tutto scemo, de-dito solo alla superficialità, al-l’immagine e alla ricerca diconsenso. Noi comunque,stando così le cose, non possia-mo essere che vittime, ora del-l’uno ora dell’altro.

Il sogno della cultura, invece,dovrebbe essere il sogno di unadimensione umana più respon-sabile, che aspiri ad essere ge-nuinamente serena, ma chesappia anche confrontarsi conil problema del nulla, dellamancanza di senso. Anzi, se èvero che la nostra esistenza as-sume un significato in relazionealla concezione che noi abbia-mo della morte, ecco allora chela cultura in senso lato, comeespressione non superficialedella vita, è strettamente legataalla consapevolezza stessa dellamorte, all’angoscia della perdi-ta di senso. Considerato daquesto punto di vista tutto il re-sto appare solo vuota retorica ointrattenimento, magari in atte-sa di Godot. Dunque è il casodi fare chiarezza, di fronte aldilagare pervasivo di tante con-cezioni strumentali o superfi-ciali di cultura: cultura è ricer-ca di senso, non è altro. Certosi può fare cultura servendosidel gioco, dell’ozio, della legge-rezza, dell’urlo, della risata,

editoriale

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editoriale

dello svago, della provocazio-ne, dell’ironia (quanti grandiscrittori hanno detto cose mol-to profonde sull’uomo serven-dosi dell’ironia): infatti la cul-tura vera non è mai grigia,plumbea, noiosa, anche quan-do affronta con la dovuta se-rietà temi drammatici. Tuttavianon può mai allontanarsi dal si-gnificato autentico della vita, edunque non può essere evasivanei riguardi della morte.E però il sogno della cultura siscontra continuamente con leragioni dei “realisti”, che cini-camente deridono tutto ciòche non è utile, non è busi-ness, non dà potere. Tale cini-smo è sempre più diffuso e hapreso corpo in una pratica po-litica per larga parte priva disogni, la quale, nella miglioredelle ipotesi, gestisce unica-mente l’ordinaria amministra-zione dell’esistente inseguen-do le emergenze. Ma vi puòessere progresso senza sogni,senza progetti, senza unaqualche utopia? Evidente-

mente gran parte dei politicipensa di sì, e la pensano allostesso modo coloro che li vo-tano. Da qui discende, perimitazione, la scarsissima con-siderazione data alla cultura,che quando non è usata comealibi (“si deve pur dare avvio aun’iniziativa ogni tanto, pernon apparire del tutto insensi-bili”) si confonde oramai conil semplice svago (“se propriodovete fare qualcosa, fateci al-meno divertire”). Invece la cultura autentica nonpuò fare a meno di sogni, diprogetti, sia pure ambiziosi.Anzi si potrebbe osservare chela qualità della cultura è sem-pre direttamente proporziona-le alla quantità di utopia (o diinterrogativi) che essa contie-ne. Tutto il resto, anche se vie-ne chiamato cultura, in realtànon è altro che acquietamento,ricerca di consenso, eserciziodi potere. Infatti la falsa cultu-ra sollecita unicamente pulsio-ni e desideri nella promessa diuna liberazione che invece si

dimostra illusoria, che prestosi trasforma in una prigione, inuna perdita di individualità.Ma allora che cosa ci sta a fareuna rivista come «L’Ippo-grifo», in questi anni e in que-sto contesto non proprio esal-tanti? Evidentemente il suoobiettivo è mettere assieme deisogni per considerare se posso-no diventare progetti, modi diagire, proposte per una vita piùconsapevole e dunque più au-tentica e libera. Tutto ciò è sta-to fortemente voluto anche daAugusto Casasola, il suo diret-tore responsabile prematura-mente scomparso. Certamenteegli sarebbe orgoglioso di sape-re che la rivista continua la suaricerca, continua a dare spazioall’analisi della realtà per darespazio a sempre nuove utopie.Del resto questo impegno è sta-to fatto proprio da tutta la re-dazione, perché nemmeno unodei grandi sogni dell’uomopossa andare perduto: se nonaltro per contribuire alla so-pravvivenza della specie. ■

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SOGNARE, FORSE…L’utopia, il possibile,

il sogno

«I have a dream». Martin Lu-ther King, agosto 1963, dagliscalini del monumento a Lin-coln, a Washington, ci sorpresecon questo ritornello che ripren-deva e alternava sogno e libertà.Adesso è diventato un passag-gio obbligato nelle campagneelettorali: prima un quadroapocalittico di passato e pre-sente, poi una bella pausa e,ben scandito «Io ho un so-gno»: la riscossa degli sfruttati,la pulizia etnica o quella fisca-le, senza vergogna. Non si citaneanche più, il manierismodella Seconda repubblica vuo-le che ogni politico sia capacedi sognare e dimostri così lasua non-politicità, la sua inno-cenza. Il sogno come pretesa diinnocenza, di verità, come se lecanaglie non sognassero.Al contrario, dopo Freud e La-can, il sogno è il primo effettodel peccato originale, di quellacolpa che ci impedirebbe didormire se il sogno non arrivas-se per insegnarci a mentire, atravestire la verità fino a trasfi-gurarla. Con la Traumdeutung,Freud annunciava al secolo unaverità più sconvolgente dellasessualità infantile, una veritàche diventerà costitutiva dellascienza post-einsteniana primadi essere ripresa e isolata, nellapsicoanalisi, da Lacan: «La ve-rità ha struttura di finzione». Proprio per questo, da unaparte, la psicoanalisi può aspi-rare ad uno statuto scientificoe, da un’altra parte, ancora perquesto può avere degli effettisul disagio di chi vi fa ricorso:perché, appunto la verità hastruttura di finzione e, vicever-

sa, «nessuna menzogna sfuggealla china della verità».Il soggetto può ben voler men-tire, volerlo con tutte le sueforze: qualunque cosa raccon-ti, è di sé che parla. Insomma,la verità non si può né centrar-la né mancarla. Il sogno espri-me questo paradosso, motoredel soggetto e della psicoanalisi,con un rigore che non ammetteeccezioni. Come scherzava La-can, se sogno un ombrello è unsimbolo fallico, e se sogno ditrovarmi in una foresta di falli èche vorrei non aver dimenticatol’ombrello. Il sogno non cono-sce il linguaggio “denotativo”,ne denuncia anzi l’inconsisten-za di miraggio nel soggetto checerca di sottrarsi a quello chesta dicendo, come se non lo ri-guardasse. Della serie: quelliche «io dico le cose come stan-no», quelli che «io faccio sogniche riproducono la quotidia-nità, niente di interessante». In-vece è qui il vero enigma: alme-no in sogno, dove tutto può ac-cadere, perché Travet non di-venta Superman, o Bill Gates?

Forse che la sua realtà lo soddi-sfa pienamente? Certo che no,anzi, quello che fa gli sembracosì privo di senso che è venutoa chiedere aiuto all’analisi. E al-lora, perché se lo sogna? Per-ché sogna, di notte, quello chegli dispiace di giorno?La pratica analitica sembracontraddire sistematicamentela scoperta freudiana del sognocome appagamento del deside-rio, o meglio la contraddirebbese Freud ponesse il desideriodel sogno sul drittofilo dellavolontà, delle speranze, dei so-gni ad occhi aperti; ma non ècosì. Fra ciò che il soggetto de-sidera e quello che vuole nonc’è mai coincidenza perché sisviluppano su due piani diso-mogenei, anche alla fine dell’a-nalisi quando, in linea di prin-cipio, il soggetto dovrebbeaver imparato a convivere conle sue contraddizioni, con lanatura paradossale del deside-rio in quanto inconscio. All’i-nizio dell’analisi, ovviamente,la divergenza è massima.L’ossessivo che ha “deciso” diuscire dalla sudditanza a tutti ipadri-padroni che la vita met-te, puntualmente, sulla suastrada, comincia a sognare ilcapoufficio che gli rinfaccia glierrori sulla pratica, e serie ana-loghe. L’isterico che è venuto achiedere all’analisi un’immagi-ne in cui compiacersi, sognaragazze che si allontanano, eche lui allontana, “perché nonva”, nei suoi sogni c’è sempreuno che ce l’ha più grande. Di fronte ad un sogno comequesti, conosciuto come “sognodella bella macellaia”, Freud

Sogno, desiderioe soggetto

Annalisa Davanzo

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Nella pagina precedente: OdilonRedon (1840-1916), Les yeux clos,(1890). Parigi - Museo D’Orsay.

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spiega alla sua paziente chequesto è un sogno malizioso,che appaga il desiderio di con-traddire la sua teoria, e sicura-mente anche oggi chiunque siaccosti all’analisi serba da qual-che parte il desiderio che conlui non funzioni. Ma l’interpre-tazione di Freud lascia in om-bra, aldilà del desiderio attuale,quello più antico che pure, loha detto lui, c’è sempre. Lacanlo riprende e lo esplicita: l’iste-ria, dice, si sostiene sull’insod-disfazione e ciò a cui si dedicaappassionatamente è a mante-nere insoddisfatto il desiderio,quello suo e quello dell’Altro.All’occasione il desiderio diFreud, ma in quanto inserito inuna serie di uomini che comin-cia molto, molto prima, neltempo mitico dell’Edipo, nelmomento in cui il desiderio na-sce insieme al soggetto, difen-dendolo da un rischio che lominacciava, ma anche esponen-dolo ad un rischio che nonsmetterà più di minacciarlo.Alla nascita, infatti, il soggettoè solo virtuale rispetto ad unorganismo totalmente immer-so in percezioni che gli giungo-no dall’interno e dall’esternoin modo indifferenziato. Ri-spetto a ciò che lo eccita comea ciò che lo placa, egli si trovain una «relazione oggettualenel reale». Oggetto tra oggetti.In questa definizione, Lacanscrive in corsivo le parole “nelreale” per distinguerlo dallarealtà comunemente intesa.Questo reale, di cui il bebè èparte, è il tumulto della vita edei suoi accidenti nel loro far-si, e nel loro ripetersi, senza unmotivo, è la vita che c’è perchéc’è, e tanto basta. Questo realeha delle leggi di cui risentiamogli effetti, come quello dellemaree legate alle fasi lunari,senza capirne nient’altro senon che ci sono. Il senso e ilnon-senso, il vero e il falso non

vi hanno posto perché quelloche capita nel reale non potevaandare che così. Il bebè è esso stesso reale, co-me dice Colette Soler, «nellamisura in cui il suo rapportocon la realtà non è ancora co-struito». Non c’è limite che lodifferenzi dal magma con cui fatutt’uno, tanto nel piacere co-me nel dispiacere. Poi capita,quando capita, che nel caosuna legge si delinei, che un rit-mo introduca il tempo lineare,che il soddisfacimento e il di-spiacere acquistino un nome,ma-ma, che designando l’og-getto da desiderare assegna allostesso tempo al bebè il posto disoggetto desiderante. Il deside-rio, circoscrivendo ciò di cui ilsoggetto manca, è una difesadall’angoscia di chi percepivasolo l’assolutezza impotentedella propria mancanza. Il sog-getto ha cominciato a parlare, ea partire da questo cominciapoi a pensare, a costruire, a te-mere, anche, a sognare, insom-ma, a rimuovere: il reale èschermato, il soggetto è nellarealtà che lo avvolge, ci avvol-ge, come una bolla. Ognunonella sua, come ci insegna nonla psicoanalisi ma la meccanicaquantistica, secondo la qualel’universo crea l’osservatoreche registra le informazioni checreano l’universo, ma resta uno

scarto, un buco nel sapere co-noscibile e trasmissibile, ed èl’osservatore, appunto, in car-ne ossa e pensiero registrante:niente lo garantisce che l’uni-verso che ha nelle ossa sia lostesso che ha in testa e che tra-duce in formule sulla carta.Questa assenza di garanzia è ilrischio a cui il desiderio esponeil soggetto. Desiderare equivalead assumersi la responsabilitàdella causa, del senso della di-rezione scelta. È una posizionevertiginosa perché la verità im-plicata è che il soggetto, ognisoggetto che esiste, poteva an-che non esserci o essere altroda quel che è, e questa è anchela colpa, esistere senza ragione,che fonda l’angoscia esistenzia-le e mobilita, dunque, le difese. Il desiderio inconscio, quello in-distruttibile, che percorre ognisogno, possiamo con Freud de-finirlo incestuoso solo in quantopunta a colmare la mancanzaoriginaria che ha scavato e deli-mitato nel soggetto, ma il desi-derio non è un nome, bensì unvettore e si presta dunque a tut-te le metamorfosi e a tutti i tra-visamenti della censura oniricafino al punto che il sogno di-venta «il custode del sonno».«Il sogno non vuol dire niente anessuno, non è un veicolo di co-municazione, anzi è destinato arimanere incompreso».Tuttavia, il suo essersi originatosul punto di discrimine tra rea-le e realtà lo fa testimone dell’u-no e dell’altra e quando capitache il sogno si avvicini al reale,allora il soggetto si sveglia. Percontinuare a sognare, aggiungeLacan. Questa prossimità alreale lo rende abbastanza in-quietante da spingere l’eroe diInsonnia di Stephen King (e,meno tragicamente, l’esercitodi consumatori di sonniferi) inun’insonnia sempre più radica-le fino alla veglia costante. Daquel sogno che è la realtà non

sognare, forse…

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sognare, forse…

c’è possibile risveglio, perStephen King come per Lacan,se non la morte. Ma si può, al-meno, desiderare di svegliarsi.Normalmente, la persona chedomanda l’analisi ha il sonnodisturbato dall’irruzione delreale del sintomo e chiede solodi potersi riaddormentare, ma,e qui è stata la trovata genialedi Freud, il sogno indagato co-me traccia di verità acquistauna funzione diversa ed anziopposta a quella del sogno co-me camuffamento della verità.Raccontarlo apre ad un lavoroetico, ma anche terapeuticodato che, come ci insegna dinuovo la meccanica quantisti-ca, la scelta di ciò che si vuoleosservare ha degli effetti irre-versibili sul fenomeno osserva-to. Secondo le parole di JohnWheeler, il tecnico della“schiuma quantistica”, la scel-ta si può effettuare in modoche gli effetti riguardino eventidel passato. In termini classici,si potrebbe dire che il passatoviene influenzato dal presente.In termini quantistici, e psicoa-nalitici, significa che il passatonon esiste, se non nelle misura-zioni del presente. «La realtà è solo una teoria».La nostra. Con questo dovran-no fare i conti i sognatori delprossimo millennio. Quello diWheeler è un enunciato che faimpallidire l’annuncio nicianodella morte di Dio perché ci fatutti simili a dei, affidandociuna libertà inaudita, ben oltrequella libertà che Luther Kingsognava di veder rotolare giùdalle Montagne Rocciose finoalle colline rosse della Georgia.Diventare dei, anche questosembra un sogno, eppure nonho mai incontrato nessuno chesogni di essere Dio. Si parla delgodimento perfetto di Dio, main questo caso pare che tuttisappiano benissimo, senza averletto Lacan, che il godimento

può non avere niente a che farecol piacere, e tanto meno coldivertimento. Comunque, laformula di Wheeler non è arri-vata alle masse con l’intervistasu «Repubblica» di settembre,era arrivata ben prima. Cometutte le sintesi di valore epoca-le, era stata diffusa dallo Spiri-to del Tempo per chissà qualivie, in chissà quanti modi, e neabbiamo visto gli effetti di resi-stenza e di fuga.Per prima è venuta, come resi-stenza al “ciascuno dio”, la mi-stica. Quella stile New Age,che ha trovato una mediazionetra la causa particolare dell’es-sere individuale e la vocazioneal nascondersi creando le tan-te, piccole sette (più di centosolo nel Veneto), a ciascuno ilsuo dio. Ma anche la mistica diWoityla che, più spudorata-mente, gioca la carta dell’ince-sto, sublimato ma senza me-diazioni: ciascuno in dio, pas-sando per la Madonna.Molto più preoccupante mipare un’altra reazione all’an-nuncio della responsabilitàdel soggetto, una tendenzache ci riporta ai politici di cuiparlavamo all’inizio, e chepuò preludere ad una muta-zione culturale il cui futuro èpreannunciato, per esempio,da film di cassetta (Matrix) maanche d’autore (Strange days,Nirvana). La infantilizzazione,la puerilizzazione, la debiliz-zazione dei soggetti-massa. Lestrutture simboliche che han-no accolto la civiltà dei consu-mi e dei giochi si sono svuota-te delle cause ideali che pote-vano offrire agli umani e si so-no riempite di gadgets e di ri-fiuti con cui rischiano disoffocarli. L’uomo-oggetto siritrova nel piacere/dispiaceredell’ingranaggio che lo muo-ve, simile al bebè in balia delreale, e come quel bebè hapaura. Deve averla.

Nel «Venerdì» di «Repubbli-ca» dello scorso 13 ottobre,Curzio Maltese segnalava suGli strilloni della paura lo stileterroristico di tutta la stampanazionale: non più notizie masolo allarmi: l’allarme pedofilie l’allarme clandestini, ma an-che l’allarme scuola e l’allarmecasa, e via via, argomento dopoargomento, «il messaggio èuno solo: abbiate paura». Tuttia nanna, dopo Carosello. Ep-pure i giornali non si sono mi-ca passati parola.Il marito di un’analizzante,uscito dalla depressione per lavia maniacale, si sente com-mentare i suoi “colpi di testa”(un’inversione a U in tangen-ziale) come Sindrome di PeterPan. Ma non era una trasmis-sione televisiva? Eppure la suapsichiatra è una persona seria,non fa parte del complotto.Il giornalista del «The Indi-pendent», Bryan Appleyard,già alcuni anni fa, quando sicominciava appena a parlar-ne, ipotizzava nell’enfatizza-zione del fenomeno pedofiliaun indice della tendenza adelevare a feticcio l’infanzia.L’Infanzia, non gli infanti rea-li, di cui si fanno ordinazioniall’ingrosso per sperimenta-zione mentre negli Usa vieneabbassato il limite di età perpoterli giustiziare.Nel paese dei balocchi il tem-po è circolare, e i bambini-di-ritorno son lì a stupirsi che ibambini veri sparino con pi-stole vere. Beata innocenza. E ipolitici sognano. Ma attenzio-ne, quando Renato Nicolini,che non è dei peggio, ci ricor-da che «I sogni son desideri»,non sta citando la Traumdeu-tung di Sigmund Freud, ma laCenerentola di Walt Disney.

Tutte le citazioni di Lacan sono trat-te dagli Scritti. Per Freud: Introdu-zione alla psicoanalisi.

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«In un luogo deserto dell’Iranc’è una torre di pietra nonmolto alta, senza porta né fine-stra. Nell’unica stanza (il cuipavimento è di terra e che ha laforma del cerchio) c’è un tavo-lo di legno e una panca. Inquella cella circolare un uomoche mi somiglia scrive, in ca-ratteri che non comprendo, unlungo poema su un uomo chein un’altra cella circolare scriveun poema su un uomo che inun’altra cella circolare… Ilprocesso è senza fine e nessunopotrà leggere ciò che i prigio-nieri scrivono».

Non è qui mia intenzione spie-gare o più modestamente ten-tare di spiegare questo testo diprosa di Borges intitolato «Unsogno», contenuto nel libro Lacifra. Anzi, all’opposto, è miaintenzione mostrarne un puntod’invisibilità che non può in séessere spiegato; ma com’è pos-sibile “mostrare” qualcosa chenon si vede: la cui struttura èinvisibile? Una preliminare ri-sposta a quest’interrogativopuò consistere nel fatto che lastruttura invisibile è in realtàmanifesta nell’essere limitatodel visibile: ne è il coessenzialerovescio. L’esercizio della lette-ratura, scrive Borges, nel pro-logo a questo libro, «ci rivela lenostre impossibilità, i nostriseveri limiti». Vale la pena sof-fermarci più a lungo sul prolo-go che così continua:

«Alla fine degli anni ho com-preso che mi è vietato speri-mentare la cadenza magica, lacuriosa metafora, l’interiezio-ne, l’opera sapientemente ela-

borata o di lungo respiro. Mi èstata destinata quella che suolechiamarsi poesia intellettuale.L’espressione è quasi un ossi-moro; l’intelletto (la veglia)pensa mediante astrazioni, lapoesia (il sogno) mediante im-magini, miti o favole. La poesiaintellettuale deve intrecciaregradevolmente questi due pro-cessi. […] Ammirevole esem-pio di una poesia puramenteverbale è la seguente strofa diJaimes Freyre:Pellegrina colomba immagina-ria / che ravvivi gli ultimi amo-ri; / spirito di luce, di musica edi fiori, / pellegrina colombaimmaginaria. Non vuole dire nulla e, come lamusica, dice tutto.Esempio di poesia intellettualeè quella strofa di Luis de Leónche Poe sapeva a memoria:Voglio vivere con me / e goderedel ben che devo al Cielo / sen-za alcun testimonio / vuoto d’a-mor, di zelo, / di odio, di spe-ranza e di timore. Non c’è una sola immagine.Non c’è una sola bella parola,con la dubbia eccezione di te-stimonio, che non sia unaastrazione. Queste pagine ten-tano, non senza incertezza, unavia intermedia».

Mi si perdoni la lunga citazio-ne del prologo di Borges ma, èun passaggio obbligato, se vo-gliamo essere in qualche modolegittimati, nel riflettere, sullapresenza di immagini e di pun-ti di negazione che vanno acomporre il quadro della prosadi Borges. Infatti, se rileggia-mo nuovamente «Un sogno»

troviamo che il primo pensieroè di facile raffigurazione: «Inun luogo deserto dell’Iran c’èuna torre di pietra non moltoalta, senza porta né finestra».Anche l’immagine del secondopensiero è altrettanto nitida:«Nell’unica stanza (il cui pavi-mento è di terra e che ha la for-ma del cerchio) c’è un tavolodi legno e una panca». Il terzopensiero, il più lungo, è visiva-mente ben più complesso. Va-le la pena rileggerlo con la do-vuta attenzione: «In quella cel-la circolare un uomo che misomiglia scrive, in caratteri chenon comprendo, un lungopoema su un uomo che inun’altra cella circolare scriveun poema su un uomo che inun’altra cella circolare…».Questo pensiero non è rappre-sentabile in un’unica immagi-ne, infatti, mentre lo leggiamo,scorrono nella nostra menteuna serie di raffigurazioni chealla fine permettono, sì, dicomprendere il significato del-la frase ma, il senso ultimo,cioè un’immagine completa-mente nitida, non riusciamo adottenerla. Esattamente come ilsogno che sembra essere “fuo-ri fuoco” e contemporanea-mente possiede uno statuto direaltà, di senso.Si ha la netta sensazione chequalcosa sfugga, infatti, la con-clusione dell’opera ci rimandaal concetto di infinito che nonè rappresentabile: «Il processoè senza fine e nessuno potràleggere ciò che i prigionieriscrivono». Potremmo chiederci a questopunto se esista un qualche rap-

sognare, forse…

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Un sueñoSulla struttura invisibile dell’essere

Luca Taddio

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sognare, forse…

porto costitutivo tra immagineed infinito, l’infinito non si ve-de è invisibile mentre l’imma-gine è visibile. Un quadro, adesempio, è visibile così come ilmondo che quotidianamentevediamo è perfettamente visi-bile, eppure per ogni tessutodel visibile c’è una struttura difibre che nella loro invisibilità

rendono possibile la nostra re-lazione a tutto ciò che è visibi-le. Infinito è proprio questoscarto che definisce ogni strut-tura esistenziale, che esperisceun mondo, partecipandovi einscrivendosi così nel suo Es-sere. Noi siamo in questa ve-rità che ha il carattere del giàAperto, l’arte sembra nella sua

essenza toccare, portare all’e-spressione, se pur indiretta-mente, il senso autentico diquesto scarto. Il silenzio diquesto momento non è un fon-damento, ma è di per sé indici-bile: esiste solo nella sua capa-cità di essere posto in relazionee l’opera ricalca esattamentequesta struttura. ■

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Un sogno

Luca Taddio

Un uomo iniziò a contare:«Uno, due, tre…».

«Un, deux, trois…». Un altrouomo iniziò a contare.

Contemporaneamente, ancoraun altro uomo iniziò a contare:«Ichi, ni, san…».

Il rumore dei numeri diventòassordante: tutti gli uomini,

nello stesso tempo, in luoghidiversi iniziarono a contare.All’improvviso uno smise. Sitrovava in una stanza comple-tamente buia con al centro, so-

spesa nell’aria, una piccola sfe-ra di luce che, progressivamen-te, si stava espandendo. Quando il tempo e lo spaziosmisero di Essere… Tutto eraluminoso, nell’immobilità ogninumero, grande o piccolo, erarappresentato da un suono co-stante. Quando questo suonosmise, mi svegliai. Tutto erabuio e tutto rimase buio. ■

Fu il silenzio che sveglian-domi divenne il peggior ru-more. 28 agosto 2000

Giorgio De Chirico (1888-1978), La Torre rossa (1913). Venezia - Collezione Peggy Guggenheim.

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Caro «Ippogrifo», l’esistenza ècolma di sogni che non si ri-chiamano alla fatuità del Mar-zullo televisivo. Sono desideri,speranze, propositi difficili damettere in pratica, oppureutopie, principi assoluti: ilmondo come dovrebbe esseree purtroppo non è. Non sonoconsiderazioni astratte: bastascorrere le lettere dei lettoripubblicate da quotidiani e set-timanali per scoprire comenell’immaginazione collettivail sogno sia presente più diquanto si immagini. C’è il so-gno di una realtà diversa, diun’etica che si vorrebbe con-divisa o imposta; del rispettodelle proprie vicende umane,delle proprie idee.Ma affiorano anche sogni piùinsidiosi o meno nobili, chemagari non si condividono:l’umiliazione del contradditto-re, l’affermazione di una con-vinzione opinabile. Oppurepatetici, come il rimpianto deitempi andati. O di matrice

gozzaniana: rassegna delle co-se che potevano essere e nonsono state. Infine, sogni daprendere in affitto, (l’invoca-zione «facci sognare…» rivol-ta al centravanti famoso, ad at-tori, cantanti, uomini politici,capaci di indurre emozioniprofonde). E ancora: di estra-zione letteraria, come quellodi Lennie, il gigante scemo diUomini e topi che invoca di-stese sterminate di erba per iconigli, mentre le sue mani in-governabili sprigionano unatremenda forza distruttiva.

Il momento di transizione chestiamo attraversando in predaal turbamento accentua que-sta inclinazione generalizzataal sogno, al quale si chiede diricavare dal passato le certez-ze delle proprie convinzioni.Il sogno dell’imparzialità deglistorici, per esempio. Un argo-mento che le polemiche han-no traghettato verso il risulta-to opposto, perché nulla come

la Storia – sosteneva Salvemi-ni – è figlio del presente. Dunque l’abuso del sogno. Ineffetti, ce n’è troppo, eppure lerichieste sono in aumento, per-ché i sogni “non finiscono al-l’alba” come nella commediadi Montanelli sui “fatti d’Un-gheria”, ma continuano in pie-no sole nella vita d’ogni gior-no, tanto da configurare unaspecie di diritto universale.Appunto, il diritto al sogno.Lo reclamiamo – il sogno – daicalciatori, dal gratta e vinci, daigiudici di Mani Pulite, dai legi-slatori chiamati a pronunciarsiin materia di mucche, di pesci,di cibi in generale, per nonparlare dell’aria che si respira edelle sorti del Pianeta su cuigravano insidie apocalittiche.Come dire che la realtà sbiadi-sce nella banalità del quotidia-no. Non interessa più a nessu-no, è volgare, deludente, peri-colosa. Così è meglio chiuderegli occhi e aspettare il momen-to magico dell’assenza. ■

sognare, forse…

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Caro «Ippogrifo» ti scrivo

Piero Fortuna

Ferdinand Hodler (1853-1918), La notte (1890). Berna - Kunstmuseum.

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sognare, forse…

Come tutti sanno, l’Isola diUtopia, inventata da France-sco Bacone all’inizio del ’600

(anche se già Tommaso Moroaveva lungamente parlato diutopia), non c’è, non esiste, co-me indica lo stesso nome (chesembra derivare dal greco ou-topos: “non luogo”). Tuttavia la necessità di un’uto-pia è sempre stata sentita tra ifilosofi e tra i politici, forse perdare più forza alle motivazioniall’agire, che, stimolato da unalto ideale, poteva appunto ri-ceverne più forza, più spinta.Se proprio vogliamo la stessareligione cattolica è un’utopiaperché propone la sicura rea-lizzazione di propri principi (iNovissimi) – meno uno, laMorte – oltre il tempo di vita,e in uno spazio che non è quel-lo terreno. La stessa frase, che ben cono-sciamo, «Ho fatto un sogno» diMartin Luther King, copiatanell’introduzione di innumere-voli altri discorsi, è in fondo,nell’arte retorica, nell’arte cioèdel discorso, una forma un po’particolare di ricorso all’uto-pia. Quindi anche il sogno, inquesto senso, è utopico; essoindica cose desiderate («i sognison desideri, chiusi in fondo alcuor» dice Cinderella), cosesperate nella vita di ogni gior-no, che aboliscano, estendendolentamente la loro bruma, lebarriere che separano le perso-ne. Però l’utopia, anche se siconosce la sua irrealizzabilità,sembra necessaria agli umani, ein particolare agli adolescenti,perché, nel frattempo, consen-te loro di fare progetti: ciò che

si intravede nel futuro è possi-bile, anche se non è probabile. Dell’utopia si è scritto in molteopere: copioni teatrali, saggi,romanzi, novelle, ecc. di cui quidaremo solo due esempi: Ideo-logia e utopia di Karl Manheim,Utopia e disincanto di ClaudioMagris. Migliaia di uomini sisono battuti fino alla morte perla realizzazione di principi uto-pici, forse sapendo fin dall’ini-zio che quei princìpi non si po-tevano attuare compiutamente:ma a loro non importava. Pen-savano che le generazioni piùgiovani, meno riflessive e menoattente agli insegnamenti dellastoria, ne avrebbero ricevutocomunque una spinta ideale.Anzi, bisogna dire che i piùgiovani sono alla continua ri-cerca di un’utopia che indirizzila loro vita. Essi sono general-mente più rigidi degli adulti(forse perché sentono di esserepiù plasmabili, e in fondo piùfragili), sono da poco tempopadroni del proprio corpo, acui oggi essi, nuovi apprendististregoni, tentano di imporrecon forza una regola con la pil-lola anticoncezionale e la pale-stra, cercando, in opposizioneal mondo degli adulti (che giu-dicano molto spesso un mondodi compromesso), un ideale daseguire, una nuova moralità;meglio, pensano, se la trovanoinsieme al gruppo dei loro coe-tanei. Quindi l’utopia è un veromotore dei sentimenti umani.Anche nella Costituzione degliStati Uniti d’America, stilatadopo la Rivoluzione del 1776, èaccennato un fattore che oggipossiamo definire utopico, e

che forse allora si era originatonel movimento Utilitarista: lafelicità. Infatti, vi si dice cheuno degli scopi del Popolo de-gli Stati Uniti è the pursuit ofhappiness, “la ricerca della feli-cità”. Si noti, non “la felicità”,ma “la ricerca della felicità”.Ricerca che riempie tuta la vitadi uno statunitense, declinataall’inseguimento del cosiddetto“sogno americano”. Mi piacepensare questa ricerca comequella di un cacciatore, che neha visto l’orma sopra la neve, ela insegue per monti e per valli.Come si vede in molti westerns,ciò che è importante, più che ilraggiungimento della meta, è laricerca in sé: immaginiamocianche la ricerca del SacroGraal, che in ogni caso ha coin-volto gente di paesi diversi, eche ha fatto attraversare stagio-ni diverse (e quindi tempo, for-se anni) agli uomini che Lo cer-cavano. Il “sogno americano”si è rivelato difficile da raggiun-gere; non è bastato il GrandeGuadagno che si può realizzarein America, spesso, come de-scrivono alcuni grandi registi,la ricchezza e il lindore si sonoaccompagnati ad una “norma-lità” al confine con la follia.Forse è proprio del sogno dicondurre alla follia chi vive so-lo di sogni, perché l’inevitabileconfronto con la realtà nonpuò che far sorgere delle do-mande sulla propria identità.Quante persone sono statesconvolte da sogni che hannofatto: la psicanalisi ha tentatodi spiegarli con l’inversione delsenso emotivo e con la vicinan-za sonora dei contenuti. ■

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L’utopia è necessaria

Lucio Schittar

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L’utopia è essenzialmente unametafora della temporalità, unmodo, non certo il solo, di pro-vare a dirne la complessa espe-rienza. Ed è solo come figuradel tempo che essa, mi sembra,possa aprirsi come domanda disenso intorno allo “spazio chenon c’è” (ou-topos), uno spazioche potremmo provvisoria-mente chiamare “dell’alterità”,o dell’“esser altrimenti”, nelquale, in un contesto comequello filosofico, il problemaper il pensiero è quello di di-panarne l’intricato concettolungo direzioni che possonoanche divergere fino ad esclu-dersi del tutto. Lo spirito dell’utopia fa la suaprima apparizione alle sogliedella modernità e ne guida sumolti versanti il transito epoca-le fornendo, a noi che di queltransito ci sentiamo spesso in-volontari epigoni, una possibi-le chiave di lettura del sensodel nostro tempo.Utopia e mondo modernosembrano procedere trionfal-mente insieme ma per tramon-tare irrimediabilmente lungo lestesse derive. Ed è solo in un’e-poca di disincanto quale puòessere la nostra, che uno sguar-do retrospettivo pare capace didisegnarne la possibile genea-logia e forse di testimoniarne lastoria. Forse perché il nostrosembra essere un tempo senzapiù utopie (ma allora si trattadi vedere in che senso l’utopia,se tramonta, dà ancora da pen-sare), forse per questo, nel suoapparente guardare oltre, cer-ca dietro a sé le radici del pro-prio smarrimento.

È possibile che il declino del-l’utopia altro non sia che unmodo di dire l’oblio del tem-po, la sua caduta nell’integralepietrificazione del presente.È interessante non perdere divista il fatto che l’utopia fa sto-ricamente la sua prima appari-zione come esemplare di unnuovo genere letterario inun’epoca come quella rinasci-mentale, ispirata dall’invenzio-ne e della volontà di scoperta(o riscoperta), nelle quali veraprotagonista è l’epopea diviaggio dove l’esplorazione dimondi lontani diventa il rac-conto di una sorprendente ri-velazione solo perché (lo si sa-prà dopo) è guidata dal deside-rio di tornare a casa: è il temadell’utopia come eu-topos, illuogo felice che non c’è ma chesi desidera abitare (attraversoil nostos ) e per sempre.In epoca moderna il problemaper l’utopia sarà proprio quel-lo di decidersi sul senso diquesta felicità: se abitare la fe-licità lungo lo stesso viaggio,cioè nel suo desiderio, oppurenella sua conclusione. In quel rinascimento umanisti-co che la associa alle architet-ture politiche di Moro, Cam-panella e Bacone, l’aspirazioneall’altrove dell’utopia, più che

significare l’esser altrimenti deltempo proprio, si pone già su-bito come l’intentio di una vo-lontà che mira al tempo delcompimento prefigurando ildisegno del proprio futuro.L’altrove è non solo vagheggia-to ma è perfino puntualmentedescritto, circostanziato nellasua felice realtà, diviene princi-pio euristico di un’ars inve-niendi concepita razionalmen-te, secondo quella certezza delcalcolo che di lì a poco la rivo-luzione scientifica e la metafisi-ca del meccanicismo dovevanorendere molto concreta.In epoca moderna l’altrove daltempo vissuto, così spesso inpiù direzioni evocato, divienelo scopo di un progetto ordi-nato e previsto nei suoi dettaglidalla ragione e solo apparente-mente si fa esperienza davverospaesante di un’autentica tra-scendenza nell’altrove; e se ciòaccade, essa prende la formadel vagheggiamento autoironi-co dell’umanità ideale nellacittà perfetta, come avvienenella grande letteratura del co-mico in Rabelais (penso alladecrizione dell’“abbazia diThélème” nel Gargantua) op-pure nell’epopea minore deiracconti di mondi alla rovesciaalla ricerca del fantastico “pae-se di cuccagna”, dove essa re-sta confinata appunto ad unadiversione pour rire.Perché questo accade? Forseperché è la trascendenza comesentimento dell’essere altri-menti dell’uomo che divienesempre più comica in epocamoderna; mentre, intanto, ilversante serio dell’utopia ne

sognare, forse…

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Utopia e mondo moderno

Flavia Conte

Le passeé et le present sontnos moyens; le seul avenir estnotre fin. Blaise Pascal

Tutto ciò che è dritto men-te… Ogni verità è curva; iltempo stesso è un circolo.

Friedrich Nietzsche

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sognare, forse…

secolarizza il desiderio tradu-cendo il messaggio cristianodell’attesa di un altrove celestee soprannaturale nel suggeri-mento tecnico di una societàscientificamente funzionale(penso alla Nuova Atlantide diBacone) lungo una filosofiadella storia come progresso eilluminismo della ragione.La vicenda della modernitàcoincide propriamente con iltransito di questa secolarizza-zione nella quale è appunto ingioco l’esperienza della tra-scendenza del tempo in tutta lasua ambiguità. L’utopia mo-derna eredita dall’escatologiaebraico cristiana la propriaconcezione del tempo che ri-pensata alla luce della svoltadel soggettivismo metafisicoinaugurato da Descartes (mapreparato dalla valorizzazionecristiana e agostiniana dell’in-terorità), non può che tradursiin progetto razionale in fieri diumanizzazione dell’intera na-tura. Tramite la mediazionecartesiana, l’attesa escatologicadell’uomo medievale, cosìprofondamente estranea al-l’uomo greco e al pagano (perquesto solo impropriamentepossiamo credere che lo spiritodell’utopia sia già in gestazionenella Repubblica di Platone; ilsuo modello ideale di Politeianon è concepita come un’uto-pia, ma come la sola vera es-senza della vita politica del-l’uomo), diviene idealizzazionedel progresso interamente con-segnato alla terrestrità non giàdell’uomo sic e simpliciter, madel suo progetto come certezzada realizzare, come impresa.Presso la cultura antica tuttoquesto è assente; e ciò perchél’uomo classico non è ancora ilsoggetto portatore della rap-presentazione oggettivante delmondo quale emergerà con lasvolta moderna; soggetto insenso proprio, nel pensiero

greco, è semmai l’orizzontedella natura nella sua inscalfi-bile ciclica necessità della qua-le l’uomo è solo un predicato:per questo nel mondo antico losviluppo della tecnica e in ge-nerale il senso del progetto tra-sformativo del mondo oltre arestare molto ridotto, viene an-che disprezzato: l’esistenzastorica della condizione dellaschiavitù, alla quale solitamen-te viene associata la svalutazio-ne del lavoro manuale ed in ge-nerale ogni applicazione tecni-ca, più che causa è una conse-guenza del peculiare atteggia-mente intellettuale greco neiriguardi della capacità forgiati-va dell’uomo di fronte alla na-tura, la quale è il regno della ri-petizione e della necessità.Perciò la tecnica, ma in genera-

le la progettualità, oltre a riba-dire la finitudine della condi-zione umana, esprime anche lasua impotenza di fronte ad unordine che egli può solo con-templare, ammirare ma nonanche a suo piacimento tra-sformare. Di qui la valorizza-zione classica del theorein sullavita pratica e poietica.Come capacità di progettaremondi ideali e città perfette,l’utopia appartiene solo al mo-derno perché essa nasce nellaconvinzione della possibilitàda parte dell’uomo di emanci-parsi come soggetto da ciò chenel reale è necessità.Della modernità l’utopia vissu-ta come progetto tecnico darealizzare circoscrive il profon-do limite storico e concettuale;il suo bisogno di pensare iltempo come costruzione delfuturo è l’evocazione di una“filosofia dell’avvenire” e delprogresso pericolosamente in-ficiata da una presunzione sog-gettivistica di finalità che volgeal compimento dei tempi, doveogni accadere è già annunciatonell’ordine del previsto dentrouna metafisica totalitaria densadi risvolti inquietanti.È possibile pensare l’utopiasenza la modernità?Se non resta confinata nell’at-tesa dell’eschaton, se non è ri-dotta a scopo di un progetto,oppure a nostalgia di ciò che èremotamente perduto, misembra che un senso oltre lamodernità dell’utopia possaancora dar da pensare se ciparla di una natalità sempreattualmente ricominciata delproprio esserci. Forse il sensodell’utopia è nell’ironia del-l’impensato che il misteriosonome suggerisce: il “luogo chenon c’è”, che non è il moventedi un andare inseguendo, malo “stare presso” nel precarioimprevedibile punto senza di-mensione dell’origine. ■

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Giorgio De Chirico (1888-1978),Nostalgia dell’infinito (1913 ca.).

New York - Museum of Modern Art.

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Negli anni Settanta, e anche unpo’ oltre, quasi tutti eravamo“marxisti”, anche se non moltiavevano avuto la ventura dileggere davvero qualche rigadelle opere marxiane. Si tratta-va di ridurre, un po’ oscura-mente, tutto l’insieme di istan-ze liberatorie, che andavanodalla contestazione dell’ordinetradizionale – familiare, cultu-rale, istituzionale e, soprattut-to, esistenziale – dal desideriodi costruzione di un assetto“altro” dei rapporti che rego-lavano le nostre vite, ad un ge-nerico, totalizzante marxismoche sembrava contenere in séla “logica” di quanto poteva edoveva esser rifiutato.Con la forza degli slogan cheparevano tanto più veritieriquanto più risultava impossi-bile sottoporli ad una verificadi scientificità, si riteneva chequella società, nella quale era-vamo vissuti sino ad alloraavrebbe avuto vita breve, cheun nuovo ordine, più libero,più sincero, più onesto si sta-va preparando per garantireun’esistenza felice. Si credevasinceramente che tutto il ma-le di vivere che si era speri-mentato fosse causato dall’as-setto capitalistico dell’Occi-dente, ma, anche, si era certiche il Capitalismo stesse se-gando da sé il ramo sul qualestava seduto.Certamente – si scoprì dopo –si trattava solo di un sogno:eppure quel modo di pensareaveva avuto, del sogno, tutto ilfascino, tutto il valore simbo-lico, ma, in definitiva, avevaanche provocato la sensazio-

ne, al risveglio, della liberazio-ne da un fantasma.Sì, perché, in realtà, se tale nonfosse stato, avrebbe comporta-to, per tutti noi, un’assunzionedi responsabilità, una necessitàdi coerenza tra idee e praticadi vita, una consequenzialitàche ben difficilmente sarebbe-ro risultate sopportabiliQuando ci si accorse che leideologie erano definitivamen-te tramontate, o, se si preferi-sce, che «il Capitalismo avevavinto» si diffuse, tacitamente,una sorta di sollievo generaliz-zato, che consentiva, a ciascu-no di coloro che avevano ade-rito allo spirito di demistifica-zione delle convenzioni bor-ghesi, di potersi – senza sensodi colpa – dedicare al proprio“particulare” nella professio-ne, nell’acquisizione di beni, o,magari, in continuità con l’im-pegno politico, ad una profi-cua carriera nelle istituzioni.Non mi pare di aver avvertito,in molti di noi, l’amarezza del ri-sveglio, il rimpianto di un sognoinfranto, lo smarrimento difronte ad un’Utopia che si erarivelata, appunto, tale. Il trionfodella Tecnica, che aveva deter-minato la rivelazione dell’Uto-pia come il non-luogo della So-cietà Giusta, si era posto come

un fatto neutro, non più come ilbieco prodotto dell’egoismo ca-pitalistico: anzi, costituiva pro-prio il terreno più fertile nelquale ciascuno potesse, come sidiceva prima ma in tutt’altrosenso, realizzare sé stesso,aprendosi qualche varco nellasocietà. La tecnica, intervenen-do nella manifestazione oggetti-va della realtà, la rendeva dispo-nibile a tutti: e allora perchénon approfittarne per qualcheproprio tornaconto? Il vecchioslogan di Marx, secondo cui ilproblema non doveva esserequello di interpretare la realtàma di trasformarla, trovava, ora,paradossale compimento: sol-tanto che non erano più la lottadi classe, la liberazione dell’uo-mo dalle proprie catene a costi-tuire il mezzo e il fine della “fi-losofia della prassi”, bensì lapossibilità della conoscenza delrapporto uomo-natura, non piùantagonisti, ad offrire il mezzo eil riprodursi della tecnica, checonsente di pro-vocare la natu-ra, a rappresentare il fine.La fine del sogno, dunque, se-gnava, per paradosso – anchese di evidenza non immediata– la propria realizzazione: ed èper questo che, dalla panpoliti-cizzazione che caratterizzòquegli anni lontani si è giunti,oggi, ad un diffuso, anche senon totale, atteggiamento “im-politico”, ma nel senso man-niano del termine.Quando Thomas Mann soste-neva, tra il ’15 e il ’18, nelleConsiderazioni di un impoliti-co, che l’atteggiamento del po-litico è in sé democratico poi-ché la fede nella politica è fede

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Il sogno e l’utopia marxistanegli anni Settanta

Massimo Riccetti

Overath domandò a me e glidissi che ero marxista, comu-nista, rivoluzionario. Egli miabbracciò e mi mostrò l’oriz-zonte marino e mi disse chetutto era rivoluzionario…(Da Corporale, di Paolo Vol-poni, 1974).

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nella democrazia, nel contratsocial, intendeva dire che nonsi dà “politico democratico” o“politico conservatore”: si è

politici o non si è, e quando siè, si è democratici. Oggi siamotutti democratici (chi si auto-definisce diversamente?) poi-

ché siamo tutti moderatamentepolitici (o impolitici), nel sensoche il nostro “essere politico”si manifesta essenzialmente nelconsiderare inalienabili alcuniprincipi di fondo della demo-crazia, che nessuno mette piùin discussione. Perché, in fon-do, ciò che più interessa non ètanto la “forma” della convi-venza democratica, quanto lasostanza, rappresentata dalleopportunità della Tecnica, perla nostra autorealizzazione. Ilche significa, dunque, che sia-mo diventati, modernamente,impolitici, nella convinzioneche il libero scambio è un gio-co nel quale vincono tutti (an-che noi, dunque).Se l’informazione, la cultura,l’arte, l’assistenza fanno tutteriferimento al mercato, ne de-riva che è il mercato stesso adessere condiviso da tutti. ■

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Salvador Dalí (1904-1989), Sei apparizioni di Lenin su un pianoforte (1931). Parigi - Musée National d’Art Moderne.

Renato Guttuso (1912-1987), I funerali di Togliatti (1972). Bologna - Pinacoteca.

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Premessa Nel mondo me-dio-orientale antico esistevanoalmeno tre vocaboli per indi-care contemporaneamente il“sonno” e il “sogno”: halòm,shenàh, tardemàh. Purtropponon è possibile trovare degliusi letterari-linguistici di questitre vocaboli che in qualchemodo sottolineino una denota-zione “sonno” e una connota-zione “sogno” o viceversa.Ogni vocabolo veniva usatocon tutte e due le valenze, son-no-sogno. Ne consegue un da-to interessante e inquietante:tutto ciò che riguarda il sonno-sogno costituisce per l’orienta-le una grossa parte della realtàdel mondo del mistero che toc-ca il divino. Nell’esperienza del sonno-so-gno, infatti, l’uomo antico co-glieva il profondo legame tra ilsonno faticoso, breve, distur-bato e la coscienza inquieta peril rimorso di colpe commesse,per la paura dell’ignoto, per lamalattia e per la preoccupazio-ne delle ricchezze: «L’insonniaper la ricchezza logora il corpo,l’affanno per essa distoglie ilsonno. L’affanno della vegliatien lontano l’assopirsi, comeuna grave malattia bandisce ilsonno» (Sir 31,1-2). Aveva pu-re notato un legame profondotra il sonno tranquillo, ampio ela coscienza serena di chi avevaconsapevolezza di aver fatto ilproprio dovere, si era compor-tato secondo la legge, conduce-va una vita sobria e aveva fidu-cia in Dio: «Io mi corico e miaddormento, mi sveglio perchéil Signore mi sostiene» (Sal3,6); «In pace mi corico e subi-

to mi addormento: tu solo, Si-gnore, al sicuro mi fai riposa-re» (Sal 4,9).Queste caratteristiche del son-no facevano da fondamento alsogno che ne derivava. Agli uo-mini giusti, sogni positivi. Agliingiusti, negativi. Ciò potevasuccedere sia all’interno sia al-l’esterno del popolo di Dio. Inambito extra-biblico, per esem-pio, il Dio Ningirsu appare insogno al giusto re Gudea e glichiede di riparare il suo E-nin-nu (= tempio). In ambito bibli-co Dio manifesta la sua volontànei sogni degli uomini giusti esapienti: i patriarchi (sogni pre-veggenti), i sapienti (sogni er-meneutici), i paleoprofeti (so-gni di consenso e di diniego), igiusti (segni rivelativi). Vedia-mo alcuni esempi.

I sogni preveggenti di Abra-

mo e di Giuseppe Il mondobiblico conosce i sogni preveg-

genti. Due sono gli esempi clas-sici: quello di Abramo e quellidi Giuseppe, figlio di Giacobbe.«Mentre il sole stava per tra-montare, un torpore cadde suAbram, ed ecco un oscuro ter-rore lo assalì. Allora il Signoredisse ad Abram: “Sappi che ituoi discendenti saranno fore-stieri in un paese non loro; sa-ranno fatti schiavi e sarannooppressi per quattrocento an-ni. Ma la nazione che essiavranno servito, la giudicheròio: dopo, essi usciranno congrandi ricchezze» (Gen 15,12).Abramo riceve in dono da Diola rivelazione di ciò che acca-drà ai suoi discendenti: gliEbrei diventeranno schiavi inEgitto per quattrocento anni.Poi verranno liberati con inter-venti straordinari di Dio (ledieci piaghe d’Egitto) e si in-cammineranno verso la terrapromessa, ricchi di doni offer-ti dagli Egiziani stessi. Così, in-fatti, testimonia la narrazionedel libro dell’Esodo: «Gli Isra-eliti eseguirono l’ordine diMosè e si fecero dare dagliEgiziani oggetti d’argento ed’oro e vesti. Il Signore fece sìche il popolo trovasse favoreagli occhi degli Egiziani, i qua-li annuirono alle loro richie-ste» (Es 12,35-36).Un’altra serie di sogni di tipopremonitore si trova narrata inGen 37,5-10: «Ora Giuseppefece un sogno e lo raccontò aifratelli, che lo odiarono ancordi più. Disse dunque loro:“Ascoltate questo sogno cheho fatto. Noi stavamo legandocovoni in mezzo alla campa-gna, quand’ecco il mio covone

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Sonno e sogno nella Bibbia

Renato De Zan

Il sogno di Nabucodonosorin una miniatura del xv secolo.

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si alzò e restò diritto e i vostricovoni vennero intorno e siprostrarono davanti al mio”.Gli dissero i suoi fratelli: “Vor-rai forse regnare su di noi o civorrai dominare?”. Lo odiaro-no ancora di più a causa deisuoi sogni e delle sue parole.Egli fece ancora un altro sognoe lo narrò al padre e ai fratelli edisse: “Ho fatto ancora un so-gno, sentite: il sole, la luna eundici stelle si prostravano da-vanti a me”. Lo narrò dunqueal padre e ai fratelli e il padrelo rimproverò e gli disse: “Chesogno è questo che hai fatto!Dovremo forse venire io e tuamadre e i tuoi fratelli a pro-strarci fino a terra davanti ate?”». Sappiamo che questi so-gni si sono avverati. Giuseppe,infatti, venduto dai fratelli, di-venta schiavo in Egitto e, suc-cessivamente, per una serie al-terna di vicende, diventa viceréd’Egitto. I suoi fratelli, scende-

ranno in Egitto, spinti dalla ca-restia e scopriranno di averchiesto il grano non al viceréd’Egitto, ma al loro fratello.

I sogni ermeneutici dei sa-

pienti Durante la fase piùdolorosa della schiavitù, men-tre era in prigione, Giuseppeviene in contatto con il capodei coppieri e con il capo deipanettieri del faraone. Essihanno ciascuno un sogno, manon lo comprendono. Giusep-pe darà loro la spiegazione. Prima inizia il coppiere: «Allo-ra il capo dei coppieri raccontòil suo sogno a Giuseppe e glidisse: “Nel mio sogno, ecco mistava davanti una vite, sullaquale erano tre tralci; non ap-pena essa cominciò a germo-gliare, apparvero i fiori e i suoigrappoli maturarono gli acini.Io avevo in mano il calice delfaraone; presi gli acini, li spre-metti nella coppa del faraone e

diedi la coppa in mano al fa-raone”. Giuseppe gli disse:“Eccone la spiegazione: i tretralci sono tre giorni. Fra tregiorni il faraone solleverà latua testa e ti restituirà nella tuacarica e tu porgerai il calice alfaraone, secondo la consuetu-dine di prima, quando eri suocoppiere» (Gen 40,9-13). In-coraggiato da questo ottimo ri-sultato, anche il panettiere nar-ra il suo sogno: «Allora il capodei panettieri, vedendo cheaveva dato un’interpretazionefavorevole, disse a Giuseppe:“Quanto a me, nel mio sognomi stavano sulla testa tre cane-stri di pane bianco e nel cane-stro che stava di sopra era ognisorta di cibi per il faraone,quali si preparano dai panet-tieri. Ma gli uccelli li mangia-vano dal canestro che avevosulla testa”. Giuseppe risposee disse: “Questa è la spiegazio-ne: i tre canestri sono tre gior-

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A sinistra: Giambattista Tiepolo (1696-1770), Abramo e gli angeli. Acquarello e inchiostro. Bassano del Grappa -Museo Civico. A destra: Georges de La Tour (1593-1652), Il sogno di San Giuseppe. Nantes - Musée des Beaux-Arts.

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ni. Fra tre giorni il faraone sol-leverà la tua testa e ti impic-cherà ad un palo e gli uccelli timangeranno la carne addos-so”» (Gen 40,16-19). Questo esempio mostra comenel mondo biblico antico cifosse la profonda convinzioneche Dio aveva concesso ai sa-pienti la possibilità di interpre-tare i sogni. Questo modo dipensare rimarrà presente nellacultura e nella fede popolareebraica per parecchio tempo.Ne sono testimoni le interpre-tazioni dei sogni fatte da Da-niele. In Dan 2,1 – prendiamosolo questo episodio comeesempio – si dice che «nel se-condo anno del suo regno, Na-bucodònosor fece un sogno e ilsuo animo ne fu tanto agitatoda non poter più dormire».Vengono chiamati «maghi,astrologi, incantatori e caldei»affinché svelino il sogno e ilsuo significato. Lì dove nonriescono questi specialisti di al-lora, riesce Daniele, il quale so-lo dopo aver pregato e ottenu-to da Dio la rivelazione del so-gno e del suo significato, sipresenta al re, dicendo: «Il mi-stero di cui il re chiede la spie-gazione non può essere spiega-to né da saggi, né da astrologi,né da maghi, né da indovini;ma c’è un Dio nel cielo chesvela i misteri ed egli ha rivela-to al re Nabucodònosor quelche avverrà al finire dei giorni»(Dan 2,27-28).La rivelazione del sogno e delsuo profondo significato, se-condo il dato biblico, derivafondamentalmente da Dio.L’origine della convinzioneespressa dal libro di Daniele(II sec. a.C.) si colloca in untempo molto remoto della sto-ria ebraica.

I sogni di consenso e di di-

niego dei paleoprofeti Al-le origini del profetismo bibli-

co, infatti, si trovano delle figu-re di profeti che non sono taliper vocazione, ma per compe-tenza (sec. XI-XII ca. a.C.).Sappiamo che nel mondo dellaMezzaluna Fertile esisteva unafigura di profeta che diventavatale dopo un lungo e duro tiro-cinio di preparazione (si veda-no le testimonianze delle tavo-lette cuneiformi di Nuzi e diMari). Questi paleo-profetipotevano diventare i profeti dicorte (come Gad e Natan pres-so Davide) o profeti cultuali. Ilcompito di questi ultimi eraquello di dare una risposta diassenso o di diniego divino alquesito posto dal credente.Normalmente il credente “cer-cava Dio” e il suo giudizio neiconfronti di ciò che stava perintraprendere.Tra i modi adoperati dal paleo-profeta cultuale per risponderealla domanda del credente, c’e-ra il rito dell’incubazione. Lecose andavano più o meno così:il credente poneva il quesito inmodo che la risposta potesse es-sere solo affermativa o negativa;il paleoprofeta durante la nottesognava e, il giorno successivo,interpretando quel sogno, davala risposta al credente.Un antico esempio di sognopaleoprofetico di incubazioneè il sogno di Giacobbe a Betel.Il patriarca aveva bisogno disapere se Dio lo avesse appro-vato nel viaggio che doveva in-traprendere. «Egli fece un so-gno: una scala poggiava sullaterra, mentre la sua cima rag-giungeva il cielo; ed ecco gliangeli di Dio salivano e scen-devano su di essa. Ecco, il Si-gnore gli stava davanti e disse:“Io sono il Signore, il Dio diAbramo tuo padre e il Dio diIsacco. La terra sulla quale tusei coricato la darò a te e allatua discendenza. La tua di-scendenza sarà come la polve-re della terra e ti estenderai a

occidente e ad oriente, a set-tentrione e a mezzogiorno. Esaranno benedette per te e perla tua discendenza tutte le na-zioni della terra. Ecco, io sonocon te e ti proteggerò dovun-que tu andrai; poi ti farò ritor-nare in questo paese, perchénon ti abbandonerò senza averfatto tutto quello che t’ho det-to”» (Gen 28,12-15).

I sogni rivelativi di Giusep-

pe Oltre ai sogni preveggen-ti, ermeneutici e di consenso odiniego, nel testo biblico ven-gono testimoniati anche i sognirivelativi. Questi sogni aveva-no come conseguenza l’obbe-dienza del credente che li ave-va sognati. Uno degli esempipiù semplici è costituito dallaserie di sogni avuti da Giusep-pe agli albori della storia diCristo. Per tre volte, in sogno,gli appare un angelo che ordi-na con chiarezza cosa Giusep-pe debba fare. Mentre Giuseppe si chiede seè per lui corretto sposare Ma-ria o rimandarla «ecco che gliapparve in sogno un angelo delSignore e gli disse: “Giuseppe,figlio di Davide, non temere diprendere con te Maria, tuasposa, perché quel che è gene-rato in lei viene dallo SpiritoSanto. Essa partorirà un figlioe tu lo chiamerai Gesù: egli in-fatti salverà il suo popolo daisuoi peccati”» (Mt 1,20-21).Una cosa simile accade alla na-scita di Gesù: i magi «eranoappena partiti, quando un an-gelo del Signore apparve in so-gno a Giuseppe e gli disse:“Alzati, prendi con te il bam-bino e sua madre e fuggi inEgitto, e resta là finché non tiavvertirò, perché Erode stacercando il bambino per ucci-derlo”. Giuseppe, destatosi,prese con sé il bambino e suamadre nella notte e fuggì inEgitto, dove rimase fino alla

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morte di Erode, perché siadempisse ciò che era statodetto dal Signore per mezzodel profeta: Dall’Egitto hochiamato il mio figlio» (Mt2,13-15). Ancora dello stessotipo è l’esperienza di Giuseppequando muore Erode: «MortoErode, un angelo del Signoreapparve in sogno a Giuseppein Egitto e gli disse: “Alzati,prendi con te il bambino e suamadre e và nel paese d’Israele;perché sono morti coloro cheinsidiavano la vita del bambi-no”» (Mt 2,19-20). In tutti e tre i casi Giuseppe di-venta l’uomo obbediente cheesegue senza timore e senzadubbi quanto l’angelo, in so-gno, gli ha ordinato.

Una breve valutazione L’e-braismo cominciò a non vederecon simpatia il sogno come ca-nale di rivelazione quando glipseudoprofeti ne fecero unostrumento che allontanava daDio. Geremia è il primo profe-ta a pronunciarsi chiaramentecontro i sogni che fanno devia-re dalla fede: gli pseudoprofetidavano più importanza al so-gno che alla fiducia in Dio. Sia-mo nel sec. VI a.C. In nome diDio, Geremia così parla: «Ho

sentito quanto affermano i pro-feti che predicono in mio nomemenzogne: ho avuto un sogno,ho avuto un sogno. Fino aquando ci saranno nel mio po-polo profeti che predicono lamenzogna e profetizzano gli in-ganni del loro cuore? Essi cre-dono di far dimenticare il mionome al mio popolo con i lorosogni, che si raccontano l’unl’altro, come i loro padri di-menticarono il mio nome perBaal! Il profeta che ha avuto unsogno racconti il suo sogno; chiha udito la mia parola annunzifedelmente la mia parola. Checosa ha in comune la paglia conil grano? Oracolo del Signore»(Ger 23,25-28).Qualche secolo dopo (sec. IIa.C.), il Siracide sembra di-struggere completamente la fi-ducia nei sogni: «Speranze vanee fallaci sono proprie dell’uomoinsensato, i sogni danno le aliagli stolti. Come uno che affer-ra le ombre e insegue il vento,così chi si appoggia ai sogni»(Sir 34,1-27). Questa mentalitàpassa in parte nel Nuovo Testa-mento. Tuttavia nel Nuovo Te-stamento il sogno continua adavere una sua funzione.Il Nuovo Testamento, oltre al-l’esperienza di Giuseppe, ma-

rito di Maria, conosce anchel’esperienza della moglie di Pi-lato (Mt 27,29: sogno premo-nitore) e quella di San Paolo(At 9,10-12; 16,9; 18,9: sognipremonitori e consolatori).Non c’è, però, mai nel NuovoTestamento una rifiuto dei so-gni in forma esplicita. C’è, tut-tavia, da segnalare una posi-zione per lo meno velata di ri-fiuto nelle parole di una dellelettere più brevi e semplici delNuovo Testamento. Si trattadella lettera di Giuda. In essasi parla probabilmente di alcu-ni cristiani pre-gnostici che innome dei sogni calpestavanocerti valori e modificavano innegativo il loro rapporto conDio: «Ugualmente, anche co-storo, come sotto la spinta deiloro sogni, contaminano ilproprio corpo, disprezzano ilSignore e insultano gli esserigloriosi» (Gd 1,8). Questa breve scheda sul son-no-sogno nel mondo della Bib-bia potrebbe chiudersi con ilparere di uno specialista spa-gnolo sul tema: «Il Cristianesi-mo primitivo si mostra reticen-te davanti al fenomeno dei so-gni in ciò che concerneva unapossibile valorizzazione reli-giosa» (C. Gancho). ■

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Michelangelo Buonarroti (1475-1564). A sinistra: Il Profeta Isaia. A destra: Il Profeta Zaccaria. Part. della Cappella Sistina.

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Quante promesse, nel titoloche ho scelto… Cercare dimantenerle porterebbe lonta-no. Sono sicuro che non miperderei perché amo Levi; an-zi, immagino che troverei fraquesti due termini percorsi fe-condi. Per il momento e conprudenza, tento appena un ap-proccio. Sarà, dunque, Il So-gno di Primo Levi.

…«e non ha cessato di visitarmi,ad intervalli, ora fitti, ora radi,un sogno pieno di spavento. È unsogno entro un altro sogno, varionei particolari, unico nella so-stanza. Sono a tavola con la fami-glia, o con amici, o al lavoro, o incampagna verde: in un ambienteinsomma placido e disteso, appa-rentemente privo di tensione e dipena; eppure provo un’angosciasottile e profonda, la sensazionedefinita di una minaccia che in-combe. E infatti, al procedere delsogno, a poco a poco o brutal-mente, ogni volta in modo diver-so, tutto cade e si disfa intorno ame, lo scenario, le pareti, le per-sone, e l’angoscia si fa più inten-sa e più precisa. Tutto è ora voltoin caos: sono solo al centro di unnulla grigio e torbido, ed ecco, ioso che cosa questo significa, edanche so di averlo sempre saputo:sono di nuovo in Lager, e nullaera vero all’infuori del Lager. Ilresto era breve vacanza, o ingan-no dei sensi, sogno: la famiglia, lanatura in fiore, la casa. Ora que-sto sogno interno, il sogno di pa-ce, è finito, e nel sogno esterno,che prosegue gelido, odo risuona-re una voce, ben nota; una solaparola, non imperiosa, anzi brevee sommessa. È il comando del-

l’alba in Auschwitz, una parolastraniera, temuta e attesa: alzarsi,“Wstawac”» (Se questo è un uo-mo. La tregua, Einaudi, Torino,1989, p.252-253).

La mia cautela è più che giusti-ficata. Questo è sicuramente ilsogno più famoso di Primo Le-vi, il più ricordato. I suoi libri,però, contengono numerosi ri-ferimenti al sogno e ai sogni:per esempio, in Se questo è unuomo, c’è addirittura un sognoraccontato che Levi non hamai sognato. Isolarne uno,dunque, è sì possibile, ma unpo’ troppo semplice. La pru-

denza complica certo le cose espinge più all’analisi che allasintesi, ma almeno non ci espo-ne al rischio di giocare allo psi-cologo, che tutto interpretaperché tutto crede di sapere.Levi non lo avrebbe gradito:per la riservatezza e il pudoreche ne hanno caratterizzatol’opera e la vita (e la morte); epoi per lo stile della sua scrit-tura, concreto e lineare, com-plesso, quasi ipotetico-dedutti-vo; infine perché Levi aborrivala saccenteria. Quella psicoa-nalitica, in particolare, gli davafastidio e non gli piaceva che lasi applicasse al Lager. Molto meglio per me, che dif-fido delle psico-spiegazioni, ri-fuggire dalla psicoanalisi del-l’autore; e anziché ricorrere alsogno per capire come funzio-nava Levi, servirmi dei suoi te-sti per spingermi là dove la psi-coanalisi affonda le proprie ra-dici. E poi non si tratta – bana-le e necessaria osservazione –del sogno raccontato in unacura, ma di parte di un roman-zo. Il che non è trascurabileper uno che si dava la seguen-te regola di chiarezza: «tu scri-verai conciso, chiaro, compo-sto; eviterai le volute e le so-vrastrutture, saprai dire diogni tua parola perché hai usa-to quella e non un’altra» (La ri-cerca delle radici, p. 24). Moltomeglio se queste scarne righesono l’occasione per andarsi arileggere Se questo è un uomo,La tregua o Ad ora incerta. ConLevi non si tratta mai di rovi-stare nel reservoir dell’incon-scio, perché nelle sue paginetutto è squadrato e semplice,

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Sul sogno. E su Primo Levi

Piero Feliciotti

André Masson (1896-1987),Il Labirinto (1938). Parigi.

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luminoso e a portata di mano.In apparenza, almeno.Infatti Levi è anche un essere“ancipite”, ossimorico, con«un ludismo verbale e un gu-sto per il significante – diceMengaldo – che non ci atten-deremmo così marcati in que-sto apostolo della sobrietà etransitività della lingua». Co-me molti suoi personaggi –«esemplari umani scaleni, di-fettivi, abnormi» – anche Levipossiede, insieme alla raziona-lità della sua formazione discienziato, un lato rabelaisia-no, prorompente e oscuro; everso l’inconscio ha una sorta

di consapevolezza reverente eun po’ rassegnata: «Non abbiapaura di fare un torto al suo Esimbavagliandolo – esorta unsuo giovane lettore – non c’èpericolo, “l’inquilino del pianodi sotto” troverà comunquemodo di manifestarsi» (L’altruimestiere, p. 818-819). L’inqui-lino del piano di sotto: incredi-bile! Mi è sempre parsa la mi-gliore traduzione della stance-par-dessous con cui Lacan siburlava della substance delsoggetto inconscio.

Wstawac! Questo sogno sitrova nell’ultimo capitolo de

La tregua, significativamenteintitolato «Il risveglio», dovein quattro pagine è descritto iltratto finale del ritorno da Au-schwitz: da Monaco al Bren-nero, alla sua casa di Torino.Nel complesso, per chi sta ter-minando il bildungsroman eha seguito i due tempi dellasua Iliade e della sua Odissea,un ciclo sembra chiudersi:viaggio dantesco che avent’anni l’ha precipitato den-tro l’inferno; esilio della de-portazione, e nostos che l’hacondotto a peregrinare permezz’Europa. È la fine di unincubo, l’inizio di un’esistenza

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Diego Rivera (1886-1957), Cultura nazista (1933). Affresco. A destra: due fotomontaggi di John Hearthfield (1891-1968):in alto: Adolfo il superuomo ingoia oro e suona falso (1932), in basso: Ein Pangermane (1933).

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normale, il risveglio alla vita. Ma questo risveglio si dimostrasubito ambiguo. Prima di tuttoperché il sogno torna a turbarela ritrovata pace dell’autore egli ricorda che «guerra è sem-pre», che non c’è tregua possi-bile e che dobbiamo sempre ri-manere svegli e stare all’erta:l’Olocausto «è avvenuto, quin-di può accadere di nuovo» (Isommersi e i salvati, p. 164).Ma soprattutto perché ciò chesi conclude qui è la tremendaavventura di umana formazio-ne per un giovane che primadel Lager viveva forse come insogno, «in un mondo scarsa-mente reale… popolato di civi-li fantasmi cartesiani». E checerto ora si risveglia, tuttaviaprofondamente mutato e se-gnato per sempre. Chiudiamoil libro, dunque, e qualcosa dipenoso, vago e incompiuto ciresta nel cuore. Levi, come al solito, non spieganulla. Se però si presta atten-zione alle sue cristalline geome-trie, a come e dove egli ha inse-rito il sogno, se ne può trarreuna comprensione semplice eimmediata. Difatti la fine, que-sta fine rimbalza con implaca-bile simmetria all’inizio del li-bro, cosicché la prima e l’ulti-

ma pagina si corrispondono eformano la cornice entro cui lastoria (la tregua del titolo) èraccontata. Levi riporta in eser-go a La tregua lo stesso sognodella chiusa, questa volta sottoforma di una poesia:

Sognavamo nelle notti feroci /Sogni densi e violenti / Sognaticon anima e corpo: / Tornare;mangiare; raccontare. / […] Oraabbiamo ritrovato la casa, / Ilnostro ventre è sazio, / Abbiamofinito di raccontare. / È tempo.Presto udremo ancora / Il co-mando straniero: / «Wstawac».

Ma c’è di più; conquistati dalgioco dei rimandi, da un incipitall’altro, siamo trascinati all’e-sergo di Se questo è un uomo:

Voi che vivete sicuri / Nelle vo-stre tiepide case, / Voi che trova-te tornando a sera / Il cibo caldoe visi amici: / Considerate sequesto è un uomo / […] Vi co-mando queste parole / Scolpite-le nel vostro cuore / Stando incasa andando per via / Corican-dovi alzandovi; / Ripetetele aivostri figli. / O vi si sfaccia la ca-sa / La malattia vi impedisca, / Ivostri nati torcano il viso da voi.

Si può notare che in questa pri-ma epigrafe i temi della fine ci

siano già tutti. Ma con un’im-portante differenza. Qui l’auto-re si erge davanti agli altri(Voi…voi…), li guarda negliocchi, e con la voce di un pro-feta narra ciò che è stato e am-monisce a meditare. E invocauna punizione terribile semmaigli uomini vengano meno alcompito della testimonianza(O vi si sfaccia la casa /…I vo-stri nati torcano il viso da voi).Nel sogno finale, invece, la po-sizione di partenza dell’Io nar-rante, si rovescia e si sdoppia:l’autore non apostrofa gli altri,non ha più un posto preciso maè avvolto da un caos, «solo alcentro di un nulla grigio e tor-bido». L’Io cade ora sotto lastessa maledizione evocata(tutto cade e si disfa, le personecare se ne vanno o non ascolta-no); mentre una voce sorge,una sola parola e straniera,Wstawac!, in cui sibila un co-mando sinistro ed enigmatico.L’accento profetico che richia-mava al dovere della testimo-nianza si ritorce ora in un’inti-mazione esterna, quasi da ban-co degli accusati: «Alzarsi!»;un’ossessione straziante che,«ad intervalli, ora fitti, ora ra-di», non gli lascia pace e lo im-prigiona. Levi sa dov’è, come

sognare, forse…

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Oskar Kokoschka (1886-1980), L’uovo rosso (1940-41). Praga - Narodni Gallerie.A destra: Max Beckman (1884-1950), La notte (1918-19). Düsseldorf - Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen.

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sognare, forse…

l’ha sempre saputo: in Lager.Nulla è vero all’infuori del La-ger, il resto è «breve… sogno».Già prima ci siamo meraviglia-ti che proprio un sogno venis-se a risvegliare l’autore; cosìora stupisce la connotazione diverità attribuita al Lager. Infat-ti è detto fin dall’inizio chequesto è un sogno dentro a unaltro sogno; quello più interno,il sogno di pace, è contenuto inuno più esterno che si riveleràforse come l’unica realtà, mache nondimeno è un incubo dacui si può ancora uscire. Cosìnon solo si è sempre più pri-gionieri: l’immagine della ma-trioska o delle scatole cinesi èpotente e mortifera, ma al tem-po stesso indefinita, perché laconfusione è totale: l’unicarealtà è sogno di un sogno.Tutto è immobile, dunque.Dalla costruzione dei rimandiai temi evocati, Levi ci parla diun tempo ciclico che è smarri-mento assoluto e al quale nonci si può sottrarre.Sarebbe facile soluzione riferir-si al mito. Ed è proprio l’auto-re a suggerircelo, nel capitoloquinto di Se questo è un uomo,intitolato «Le nostre notti»(pp. 50-57). Passo fondamen-tale, dove si potrà verificareche le mie povere costruzioni ele mie chiavi di lettura sono giànel testo, insieme a moltissimialtri spunti. Levi descrive il

quotidiano strazio che costrin-geva «a scambiare sudore, odo-re e calore con qualcuno, sottola stessa coperta e in settantacentimetri di larghezza». E par-la a lungo dei sogni del Lagerche hanno due temi ricorrenti:appunto, raccontare e mangia-re. Per il sogno dell’impossibi-lità di raccontare, troviamo ilriferimento «a una pena deso-lata, come certi dolori appenaricordati della prima infan-zia… dolore allo stato puro,non temperato dal senso dellarealtà e dalla intrusione di cir-costanze estranee». Si tratta diuna condizione sospesa, al li-mite dell’esperienza del tempoe del senso di realtà. Per il so-gno del cibo che si allontanadalla bocca, Levi parla chiara-mente del mito di Tantalo*. Edice: «Il sogno si disfa e si scin-de nei suoi elementi, ma si ri-compone subito dopo, e rico-mincia simile e mutato: e que-sto senza tregua, per ognuno dinoi, per ogni notte e per tuttala durata del sonno». E conclu-de: «Il sogno di Tantalo e il so-gno del racconto si inserisconoin un tessuto di immagini piùindistinte… incubi informi…sotto l’impressione di un ordi-ne gridato da una voce piena dicollera, in una lingua incom-presa», che alla fine si materia-lizza «nella condanna di ognigiorno: Aufstehen, – o più spes-

so, in polacco: – Wstawac». Èparadossale, ma se si legge ilsogno de La tregua a partire daquesto capitolo di Se questo èun uomo, il comando dell’albain Auschwitz, di cui si dice cheè temuto e atteso, sembra qua-si una liberazione. Non siamo, dunque, nel mito,che è già senso organizzato,racconto, consolazione. «…Iltempo di Levi – dice Domeni-co Scarpa – somiglia piuttostoa un elastico piantato nella du-ra terra della detenzione. L’in-dividuo s’incammina procede,tende la molla, ma a un certopunto non regge più, è rifion-dato all’indietro e deve riparti-re ogni volta daccapo» («Chia-ro/Oscuro», in Riga 13, pp.243-244). Il centro di gravita-zione delle ossessioni di Levi èlo stesso di Adorno che riflette,dopo Auschwitz, sul senso del-l’Illuminismo e sulla ragionemoderna: il Lager è una paren-tesi oppure l’autobiografia del-la specie umana? E l’uomo, èproprio questo l’uomo? E so-no anch’io così?

Oltre l’inconscio Sono con-vinto che questo sogno porti ol-tre l’inconscio. Facile convin-zione, se a partire dall’analisi neabbiamo la benché minimaesperienza. Oppure se veniamodall’orrore di Auschwitz. Levisente perfettamente che il so-

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*«Non si vedono soltanto icibi, ma si sentono in mano,distinti e concreti, se ne per-cepisce l’odore ricco e violen-to; qualcuno ce li avvicina fi-no a toccare le labbra, poiuna qualche circostanza, ognivolta diversa, fa sì che l’attonon vada a compimento». Misembra il rovescio di quellodi Anna Freud bambina,che sognava fragole e lam-

poni. Alcuni analisti hannointerpretato il sogno dellapiccola in chiave di concre-tezza (e di immaturità) delleforme del desiderio infanti-le, più legato, a loro giudi-zio, agli oggetti reali. Bastainvece riferirsi al sogno delLager per rendersi contoche, anche in situazioniestreme come l’affamamen-to, il desiderio inconscio

non può mai coincidere colbisogno di un oggetto. E La-can sottolinea che i lamponie le fragole erano sognatinon come oggetti di un bi-sogno “naturale”, ma inquanto papà Sigmund liaveva di certo proibiti du-rante il giorno. Il sognometteva in scena un deside-rio altro e non il bisogno diun oggetto concreto.

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gno va a toccare qualcosa cheinterpella in maniera direttaogni uomo e ce lo dice moltosemplicemente: in Lager que-sto sogno «è… il sogno di mol-ti altri, forse di tutti». Si puòessere più chiari di così? Con lapazienza del chimico ci aiutaanche a trovare le tracce piùpromettenti: «La parola stra-niera cade come una pietra sulfondo di tutti gli animi. “Alzar-si”». E ci fa le domande giuste,quelle che aprono strade: «Per-ché il dolore di tutti i giorni sitraduce nei nostri sogni cosìcostantemente, nella scenasempre ripetuta della narrazio-ne fatta e non ascoltata?». Ma che cosa ha di fondamenta-le per l’essere umano (infatti,sono in molti a sognarlo), e conche cosa questo sogno confron-ta il soggetto; e oltre quale limi-te lo conduce, tanto che si devesvegliare? Si tratta indubbia-mente di un sogno di angoscia.Se lo paragoniamo con il piùclassico dei sogni traumatici diFreud, L’iniezione di Irma, tro-viamo una concordanza sor-prendente. Oltretutto, il mo-vente del trauma qui è espressomolto più direttamente, senzaquell’accumulo successivo dipersonaggi un po’ buffi e di-storti che fanno da veicolo aldesiderio di Freud. A poco apoco o brutalmente l’Altro sidisfa nella sua funzione di me-diazione e di rappresentazionedel soggetto: famiglia, amici, la-voro, convivio e campagna, ri-poso e piacere; vengono menotutte le identificazioni alle qua-li l’inconscio può fare ricorsoper costruire il sogno e offrireal reale una rappresentazione.E come nel sogno di Freud sor-ge dall’inconscio la formulachimica della trimetilammina,qui, una voce dal Lager si ma-terializza; e riporta il soggettoal suo esservi un numero, unpezzo, un oggetto per l’Altro,

spogliato di tutte le connota-zioni simboliche che ne fannoun essere umano, privato delladimensione del patto e dellalegge, fissato in una consistenzapiena, totalizzante, dalla qualenulla permette una distanza.Insomma, il sogno non tienepiù lontano il reale, e di fronteal materializzarsi del non rap-presentabile, il sognatore sisveglia. Come dice molto beneFrancesco Stoppa: «Qui il so-gno… non assolve il suo com-pito di salvaguardare il sonno;per poter dormire ancora biso-gna prima svegliarsi» (L’offertaal dio oscuro. Il secolo dell’olo-causto e la psicoanalisi, di pros-sima pubblicazione presso leedizioni Franco Angeli). Im-mettere ancora un po’ di im-maginario liberando il soggettoda «quella avvolgente epifaniadi reale che lo stava compattan-do tutto intorno alla crescenteimpossibilità di una fuga». Tutto ciò è facilmente com-prensibile: è questa l’essenzadel Lager, l’annullamento del-l’Altro e dell’inconscio. Il La-ger è incubo, qualcosa da cuinon si esce mai, perché è sognodi un sogno. Mi pare che, infondo, l’idea geniale su cui Ro-berto Benigni ha costruito ilsuo film La vita è bella, debbanon solo qualcosa alla favola,come pure è stato detto e comeè giusto, ma che piuttosto siriassuma, alla lettera, propriocosì: è roba da non credere.Restano però alcune questioni.Perché, fra tante, proprioquella parola è strappata all’or-rore quotidiano e trasposta nelsogno? E perché si tratta di unsogno dentro a un altro? Perché nel punto in cui il sog-getto impatta col reale e si sve-glia noi troviamo questa ambi-gua ingiunzione dell’Altro?Questo “Alzarsi!” non è quelche sembra; esso è piuttosto unnodo, un grumo. Se la voce che

sorge lo accomuna al sognotraumatico, l’eccesso di reali-smo di questa formula tende avelare che si tratta sempre diuna formazione dell’inconscio. In realtà esso è un comando in-sensato; dunque un puro con-fronto del soggetto col signifi-cante colto nella sua autono-mia da ogni possibilità di sen-so. Ne siamo certi? Di questo,sì. Perché il linguaggio, comecampo del simbolico, non puòprescindere dal senso, dallacomunicazione e dalla signifi-cazione, cioè dalla parola. Chenel mondo umano ha la prio-rità in quanto è solo attraversola parola che possiamo artico-lare qualcosa. Ciò vuol direche il senso sorge solo se anchel’Altro parla e desidera; dun-que solo se nell’Altro c’è anchedel non-senso, cioè mancanzae domanda. Ora, nel Lagerogni comando è insensato per-ché non vi si trova né legge népatto di mutuo riconoscimen-to. La legge del Lager è quelladel capriccio, e la sua essenza èla formula seguente: Hier istkein Warum (Qui non c’è nes-sun perché).L’Altro non è questionabile,senso e non-senso coincidono.Così, la voce finale del sogno èaldilà di ogni dialettica. Anchegrammaticalmente, è un’olo-frase. Di più, è un insulto chedice solo: tu sei questo. È la voce stessa del superio cheparla: e infatti significa ti devialzare, in quanto uomo e non tidevi alzare, in quanto “musul-mano” e non-uomo. Cerchia-mo di capire. La crudeltà indi-cibile di questo comando in-sensato giustifica che si tratti diun sogno dentro a un altro.Perché alzarsi non è una paro-la qualunque. Alzarsi è atto umano per eccel-lenza; è il desiderio stesso; è lamano (dell’ominide di 2001:

Odissea nello spazio) che im-

sognare, forse…

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sognare, forse…

pugna e colpisce, afferra unoggetto che è già un significan-te e ne piega l’uso nel gioco –sempre gioco di parole, witzfondamentale –; alzarsi è cam-minare eretti; è prendere la pa-rola; per dire sì oppure no; perdire «il gatto fa bau, il cane famiao miao», come dice Lacan.Alzarsi è testimoniare. Chenon è (solo) prendere parola,ma anche essere superati dalproprio stesso atto. Testimonenon è soltanto chi racconta,perché la testimonianza nonsta tutta dalla parte del detto,del documentato. Il testimoneripristina il posto della veritàfra le cose del mondo, la riabi-lita e si fa causa del senso delleazioni umane. La specificitàdell’atto umano è in questo es-sere-tra-due, tra enunciato eenunciazione che è, in quantospazio della testimonianza,senza garanzia. Ecco che cos’èpropriamente alzarsi.Ecco perché siamo oltre il mi-to. Alzarsi è pensare l’origine,come dice ancora Stoppa; è ilcompito fondamentale delsoggetto etico, in cui l’enun-ciato del mito sfuma e l’enun-ciazione parla invece al pre-sente. Se anche siamo fatti del-la stessa sostanza dei sogni, èper questo alzarsi fondamen-tale che la vita non è sogno.Svegliarsi è una difesa del sog-getto del godimento, ma a sca-pito del sonno. Perché l’incon-scio non può tutto e ci sono

circostanze in cui dormire nonè possibile. In cui, per esem-pio, non si può non vedere,non udire, non parlare. A con-ferma del fatto che la valenzadel soggetto dell’inconscio èsociale e dunque politica, enon risiede nell’intimo della“propria psiche”; perché que-sto soggetto può realizzarsi so-lo se l’Altro ha un limite, cioèsolo a certe condizioni sociali,politiche e giuridiche.Invece qui, alzarsi è un’ingiun-zione che si confonde con ilgodimento dell’Altro: quandol’Altro del significante si disfaè ancora e sempre l’Altro cheparla nel posto stesso del sog-getto e comanda il solo attoche appartenga al soggetto eche lo definisca. Non a caso lavoce è proferita nella linguastraniera; che è l’omologo delsogno dentro a un altro sogno.«Alzarsi!» è uno schiaffo, unpugno, una beffa, uno sputo infaccia a chi? Al “musulmano”,a chi era volontariamente tenu-to in condizione sub-umana. Èla schiavitù stessa inchiodata(rivée, dice Levinas) nel postodell’imperativo etico. Schia-vitù al posto dell’atto: perchése non c’è parola possibile nelLager, allora l’unico atto de-gno della responsabilità del-l’uomo sarebbe il suicidio. Cosa resta al soggetto se nonsmettere di sognare e svegliarsiper uscire da questa condizione? Ma è un supplizio, perché una

vita senza sogno e senza deside-rio è un supplizio peggiore diquello di Tantalo. È uno stareallerta permanente, dove nonc’è alcun Altro al quale fare fi-ducia, dove non si dorme mainel seno fiducioso e nel sensopacificante dell’Altro della buo-na fede, che fa barriera al reale.Dunque, è guerra di tutti con-tro tutti. In questo, la moraledel Lager parla a noi moderni.Ho detto all’inizio che questepoche righe volevano esserepiuttosto un invito a leggereun autore che dal paletto«piantato nella dura terra del-la detenzione» non smette ditestimoniare e di interrogarci.Così il lettore mi perdoneràse, chiudendo questo brevesaggio, sarò costretto a porrel’ennesima domanda. Che ri-guarda ancora la natura delcomando straniero nel puntodi emergenza del reale. Que-sta strana e complessa forma-zione dell’inconscio potrebbeassomigliare a un witz? A vol-te ne ho il sospetto. E perchéno? L’inconscio non può tut-to, ma ha grandi risorse: e inLager bisognava pure poterdormire. Del resto, in mortedell’amico, Massimo Mila hascritto: «Parrà un’enormità,ma se mi chiedessero di defi-nire con una sola parola loscrittore, direi che era unumorista» (Il sapiente con lachiave a stella, «La Stampa»,14 aprile 1987). ■

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Due sequenze da 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrik.

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Gli alunni della classe terza atempo pieno della Scuola Ele-mentare «Guglielmo Marco-ni» di Sarone sono stati invita-ti a realizzare un disegno dapubblicare nel quaderno«L’Ippogrifo». L’argomento èSognare, forse… L’insegnantene parla con gli alunni chie-dendo loro cosa ne pensino edecco in sintesi le risposte.

Si dice “sognare” e penso…Ai sogni che riempiono il no-stro sonno di mondi incantati.

Andrea Rosa

Ai sogni che svegliano il no-stro sonno in modo agitato avolte con incubi che ci fanno

correre dalla mamma e sei sen-za voce. Lisa e Sacha

Al fantasticare a occhi aperti. Arianna

All’aspirare ad essere qualcu-no che vale. Christian

Ai desideri che vorresti si avve-rassero Stephanie

Alla voglia di felicità.Kimberly

Successivamente l’insegnanteinvita gli alunni a visualizzareun sogno, che a loro sta parti-colarmente a cuore, usando lematite colorate perché sono

strumenti pratici e consentonodi applicare le tecniche dellasfumatura e del tratteggio perottenere varie tonalità ancheattraverso la pressione dellematite stesse.Essendo ad anno scolastico ap-pena iniziato (fine settembre)si chiede ai bambini di rispet-tare, se possibile, a secondadelle situazioni, l’uso dei colo-ri caldi e/o freddi per creareatmosfere di serenità o di pau-ra del loro sogno.Ogni alunno “titola” il sognoche sta materializzandosi in di-segno ed è “Sognare, forse…”Sognare, forse… è un’utopiasperare che il mondo sia comelo sognano i bambini? ■

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Sognare, forse…

Graziella Bolzan

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Sognare, forse…Ecco la Regina

Arianna Manfé

Sognare, forse…La felicità

Kimberly Ireland

Sognare, forse…La sirena del mare e del cielo

Lisa Cesaro

Nella pagina precedente:Sognare, forse…Diventare fortissimoChristian Mella

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Sognare, forse…… di avere una fattoriacon tantissimi animaliStephanie Zandonà

Sognare, forse…Sarò la vostra principessaSacha Falcomer

Sognare, forse…Sono un angeloAndrea Rosa Valent

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sognare, forse…

Descrivere il sogno architetto-nico di Etienne-Louis Boul-lée, architetto parigino vissutofra il 1728 ed il 1799 e senzadubbio da annoverare fra i pa-dri dell’architettura moderna,richiede una operazione parti-colare. Si tratta di mettersi incammino – magari con la gui-da di un Philip Dick in marsi-na di velluto e tricorno – e ini-ziare quindi un viaggio in unmondo parallelo dove la cittàè invisibile dietro una porta dititaniche proporzioni circon-data da uno spazio indefinitoma denso di luce e dove ilpaesaggio naturale è prevalen-temente vuoto, con l’unica ec-cezione del cielo, animato daivapori capricciosi di nubi inmovimento. Ma questo viag-gio non è indolore – quello diBoullée è un mondo di ombre– e per andare nella direzionegiusta dobbiamo quindi volta-re le spalle al mondo diurno.Dobbiamo attraversare il pon-te e lasciare che crolli alle no-stre spalle e, se non dovessecrollare, allora lasciamo chebruci (James Hillman: Il so-gno e il mondo infero, a curadi Bianca Garufi, Est, 1996,p. 20). Solo la radicalità diquesto atto ci permetterà dicomprendere la radicalità delpensiero architettonico diBoullée e questo territoriomonocromo, turchino e sep-pia, ci apparirà in tutta la suaevidenza e cioè come una del-le più toccanti e intense fra lepossibili rappresentazioni delmondo infero. Una topografia anche somma-ria di questo territorio com-

prenderà come elementi es-senziali alcuni frammenti trat-ti da Architecture. Essai surl’art, il principale e incompiu-to scritto di Boullée e le imma-gini dei progetti fondamentali.Questo lavoro ha un caratterenecessariamente introduttivo,quasi una ricognizione di ap-punti e di mappe da cui emer-gono fondamentalmente duetemi: quello dell’architetturasepolta e quello dell’architet-tura delle ombre.Boullée delinea il tema del-l’architettura sepolta nei pa-ragrafi dell’Essai dedicati aimonumenti funerari o cenota-

fi; dice l’autore: «Mi è parsoche potevo usare solo propor-zioni basse e – se così possodire – interrate. Dopo essermidetto che lo scheletro dell’ar-chitettura è una muraglia deltutto nuda e spoglia, mi èsembrato che per rendere ilquadro dell’architettura se-polta, io dovevo far sì che daun lato il mio progetto soddi-sfacesse nel suo insieme mache dall’altro lo spettatoresentisse, presumendo, che laterra gliene rubava una parte»(Etienne-Louis Boullée: Ar-chitettura. Saggio sull’arte,con una introduzione di AldoRossi, Marsilio Editori, Pado-va 1967. pp. 120-121).E ancora: «E poiché triste deveessere l’effetto di questi monu-menti, io ho tralasciato di in-trodurre alcuna ricchezza d’ar-chitettura. Non mi sono nem-meno permesso di spezzare escavare la massa, per conserva-re il carattere dell’immutabi-lità». (Op. cit. p. 122). L’invenzione poetica è tutta inquesto senso di gravità, di in-sopportabile peso che provocauno sprofondamento nel ven-tre stesso della terra, quasi unpercorso a ritroso dell’architet-tura, dall’edificio all’archetipodella caverna. Vari sono i pro-getti dove Boullée ha sviluppa-to questo tema e quello quipresentato è forse il più chiaroe suggestivo: si vede un prismadi pietra assolutamente liscio espoglio, una muraglia nuda eassolutamente priva di qualsia-si decorazione aggettante oscavata. Solo una spaccaturacentrale introduce ad uno spa-

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Il sogno architettonicodi Etienne-Louis Boullée

Stefano Tessadori

Particolari del progettodi un “Monumento destinato agli

omaggi all’Essere supremo” (1791).Parigi - Bibliothèque nationale.

Figure 127-128pag. 121

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zio oscuro. L’aria sembra sfer-zata da una tempesta.

Nel medesimo paragrafo, do-po aver delineato l’idea del-l’architettura sepolta, Boulléenarra come è arrivato alla sco-perta dell’architettura delleombre: «Trovandomi in cam-pagna, io camminavo ai bordidi una foresta, al chiaro di lu-na. La mia immagine, prodot-ta dalla luce, suscita la mia at-tenzione (anche se non si trat-tava certo per me di una no-vità). In ragione di una parti-colare disposizione dello spiri-to, l’effetto di questo simula-cro mi parve di una estrematristezza. Gli alberi, disegnatisulla terra dalla loro stessa om-bra, mi fecero la più profondaimpressione. Che cosa vede-vo? La massa degli oggetti chesi stagliava nera su una luce diun estremo pallore. La naturasi offriva in gramaglie ai mieisguardi. Scosso dai sentimentiche provai cercai, da quel mo-

mento, di applicarli all’archi-tettura. Io volevo un insiemecomposto dall’effetto delleombre. Per raggiungere que-sto io mi figurai che la luce(come avevo osservato in natu-ra) mi restituisse tutto ciò chela mia immagine produceva.Così ho proceduto, quando misono applicato alla creazionedi una nuova architettura.[…] Non mi sembra possibileconcepire qualcosa di più tri-ste che un monumento com-posto da una superficie nuda espoglia, da una materia opaca,del tutto privo di dettagli e incui la decorazione è formatada un quadro d’ombre, dise-gnate da ombre ancora più fo-sche». (Op. cit. pp. 123-124).Ombre che disegnano altreombre quindi, elementi di unacomposizione dove la formanon è determinata solo da ciòche resiste, la pietra, quanto daciò che per sua natura muta in-cessantemente in infiniti rifles-si di ombra e di luce. Qui l’ar-

chitettura è finalmente ciò chepermette che qualcosa accada,una scena fissa e per questo ne-cessariamente regolare e sim-metrica: cubo, sfera, cono. Il mondo infero ha bisognodella purezza di queste formeper la sua rappresentazione delgioco di luce e ombra.Di seguito, Boullée incalza illettore del suo Essai con la de-scrizione del suo progetto for-se più noto, quello per il ceno-tafio di Newton. In questoprogetto le idee dell’architet-tura sepolta e dell’architetturadelle ombre trovano una sinte-si straordinaria.«Si vedrà un monumento nelquale lo spettatore si trova, co-me per incantesimo, trasporta-to nell’aria e sorretto da vapo-rose figure nella immensità del-lo spazio». (Op. cit. p. 125-126). Questa è la descrizioneche ne fa l’autore: «La formainteriore di questo monumentoè, come si vede, quella di unavasta sfera in cui è possibile

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Progetto di un “Monumento destinato agli omaggi all’Essere supremo” (1791). In alto: progetto di un Monumentofunerario che esemplifica il genere dell’architettura sepolta. Parigi - Bibliothèque nationale.

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raggiungere il centro di gravitàmediante un’apertura praticatanel basamento; al di sopra diquesta apertura si trova la tom-ba. Ecco il vantaggio, unico,che deriva da questa forma; daqualsiasi parte si volgano glisguardi (come nella natura)non si vede altro che una su-perficie continua senza fine néprincipio; e più lo sguardo per-corre questa superficie, piùquesta si dilata. Questa forma[…] è tale che lo spettatore nonpuò avvicinarsi a ciò che pureha di fronte; egli è obbligato,come se costretto da forze so-vrumane, a stare al posto chegli è assegnato e che, occupan-done il centro, lo tiene a distan-za adatta a favorire effetti dovu-ti all’illusione. […] Isolato datutte le parti i suoi sguardi nonpossono posarsi che sull’im-mensità del cielo. La tomba è ilsolo oggetto tangibile. La lucedi questo monumento che deveessere simile a quella d’una not-te pure è prodotta dagli astri e

dalle stelle che ornano la voltadel cielo. La disposizione degliastri è conforme a quella dellanatura. Questi astri prendonola loro forma da piccole apertu-re ricavate a imbuto nella parteesterna della volta e che nellaparte interna si mostrano con lafigura che è loro propria. La lu-ce esterna, filtrando attraversoqueste aperture nell’internoombroso, disegna tutti gli og-getti della volta con la luce piùviva e scintillante».Aldo Rossi in un suo scritto par-la di Razionalismo esaltato aproposito di questo progetto.Questa esaltazione, quasi unafebbre per la matematica bellez-za, sembra percorrere la storiadell’architettura contempora-nea. Loos e Le Corbusier innan-zi tutto, senza dimenticare lafaccia oscura rappresentata daAlbert Speer che, forse più diogni altro, ha compreso la lezio-ne di Boullée toccandone i limi-ti di una sua applicazione nelmondo diurno. Nelle sue Me-

morie del Terzo Reich, scritte nelcarcere di Spandau nel dopo-guerra, Speer dopo aver descrit-to sinteticamente il progetto perl’Auditorio del Reich, una co-struzione colossale coronata dauna cupola di 250 metri di dia-metro interno per un’altezza di230, rivela un certo sconfortonell’ammettere: «Mi ero sforza-to di dare a questo posto (il po-dio per i discorsi del Führer,Ndr) un rilievo architettonico,ma qui mi ero scontrato con l’i-nevitabile svantaggio di ogni ar-chitettura colossale, fuori di mi-sura d’uomo: in questa cornicela figura di Hitler scompariva inun nulla ottico». (In: AlbertSpeer, Memorie del Terzo Reich,Mondadori, Milano 1995, pp.185-186).E anche: «Durante la progetta-zione dell’Auditorio ero andatoa guardarmi bene la basilica diSan Pietro a Roma ed ero rima-sto allarmato dal fatto che nonesisteva rapporto proporziona-le fra le dimensioni reali dell’e-

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Progetto del cenotafio di Newton, sezione con effetto notte all’interno.Penna e inchiostro. Parigi - Bibliothèque nationale.

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dificio e la valutazione soggetti-va della sua grandezza. Mi eroreso conto che, a quel grado dimisura, la sensazione di gran-dezza che l’osservatore ricevenon cresce più in proporzionedella grandezza reale dell’edifi-cio, e cominciai a temere chel’effetto del nostro Grande Au-ditorio non avrebbe corrispo-sto alle aspettative di Hitler».(Op. cit. pp. 187-188). Forse leforme pure, che nel mondo in-fero sono perfette nella luceturchina dell’architettura delleombre, nel passaggio al mondodiurno diventano incubi.Osservo per ultimo la riprodu-zione di una tavola del proget-to di “Monumento destinatoagli omaggi all’Essere supre-mo”, probabilmente del 1791

e collegato al progetto per unMuseo. L’originale è un dise-gno a penna e inchiostro di40x148 centimetri ed è con-

servato a Parigi alla Bibliothè-que Nationale. Raffigura unmonte la cui forma è quasi in-scrivibile in un trapezio regola-re, una piramide tronca di roc-cia. Quasi un tumulo, conquella cima priva di particolariasprezze e avvolta di vapori.Sulla sinistra le nubi di un tem-porale. Alla base della monta-gna, ad occupare tutto lo spa-zio consentito dal foglio, anzicon l’idea di sfondare questospazio in tutte le direzioni, sor-ge un complesso di terrazzedelimitate da mura e segnate aintervalli regolari da scalinate.Sulla sommità dell’ultima ter-razza sorge un grande edificioa pianta centrale con colonna-to, pronao e cupola. Tutto è as-solutamente bianco e inevita-bilmente deserto, come imma-gino che sia una scogliera. Nel-la parte bassa del foglio si in-tuisce un paesaggio di dolci ri-

lievi, con alberi e campi. L’edi-ficio bianco segna esattamenteil confine fra questo paesaggioe la montagna. È una delleopere più misteriose di Boul-lée, forse perché è l’unica conun’impronta di solare lumino-sità, come se l’autore avessevoluto per un momento toglie-re le gramaglie alla natura. Quella di Boullée non è certol’unica rappresentazione –quanto involontaria? – delmondo infero e nella storiadell’arte come nella letteraturaè possibile rintracciare molticasi che qui sarebbe impossibi-le elencare. Quello più vicino aBoullée, che anzi era stato pre-so a modello dall’architettofrancese per il progetto di am-pliamento della Bibliothèquedu roi, è La Scuola d’Atene do-ve Raffaello ha raccolto sottouna magnifica volta le animedei più nobili pensatori. ■

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Raffaello (1483-1520), La Scuola d’Atene (1509-1510). Roma - Palazzi Vaticani.

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CINEMA E SOGNO

Se andiamo a chiederci qual èla più famosa sequenza di so-gno del cinema americanoclassico, è sicuramente il sognonarrato da Gregory Peck, so-spetto assassino in fuga, aglipsicoanalisti che lo proteggonoin Io ti salverò di Alfred J. Hit-chcock (1945). Sequenza con-cepita da Salvador Dalì, an-nunciano non senza fierezza ititoli di testa – e c’è un motivo.L’«enciclopedia» – come di-rebbe Eco – dello spettatoremedio americano, a) conosceDalì come rappresentante illu-stre di quel mondo misteriosoche è l’Arte; b) è in grado diconnettere vagamente il pitto-

re al surrealismo e quest’ulti-mo al sogno. Così Dalì è ga-rante per il pubblico dei dueaspetti correlati: quello artisti-co e quello onirico.In realtà, la sequenza sembramolto di più un quadro di Dalìche un autentico sogno, di cui

tutti abbiamo esperienza. Que-sto però non è un caso o unacontraddizione. In base all’esi-genza razionalizzatrice del ci-nema classico, che è un cinematrasparente, basato sulla spintaalla leggibilità assoluta, i diver-si statuti del racconto non pos-sono essere confusi. Così, adesempio, vanno ben distinti ilpresente e il passato (la memo-ria/antefatto), ossia il flash-back: esistono convenzioni lin-guistiche per “incapsulare” ilflashback entro la narrazione.Simile sorte tocca al sogno.Nella visione cinematograficanon solo esso va dichiaratoesplicitamente – laddove nella

Ma lo schermosogna?

Giorgio Placereani

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Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (Spellbound, 1945) di Alfred J. Hitchcock.

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vita entra senza avvertire, co-me sa chiunque cui sia capitatodi appisolarsi in treno – maviene reso attraverso una seriedi segni quasi convenzionali,che paradossalmente non han-no una pertinenza necessariacol fenomeno reale. Suoneràcacofonico, ma possiamo direche il cinema classico per ren-dere l’esperienza onirica usauna serie di “segni del sogno”,più che tentare direttamenteuna mimesi del fenomeno (pertrovare quest’ultima all’epocadobbiamo andare ad esempidivergenti da questo cinema,come il grande Luis Bunuel delperiodo messicano: basti pen-sare alla stupefacente sequenzaonirica de Los Olvidados).Come esprime la “qualità disogno” la sequenza hitch-cockiana? Sul piano della for-ma, usa caratteristiche che inrealtà al sogno non apparten-gono, quali la deformazionepercettiva ottenuta attraversoil grandangolo e l’astrazionevisuale, nella parte “all’aperto”con dichiaratissimi fondali pit-torici. Sul piano del contenuto,la sceneggiatura – alla qualedanno corpo fisico i due psi-coanalisti, che sono IngridBergman e il caratterista hitch-cockiano Michael Cekhov –“legge” il sogno in termini disimbolismo totale. Ciò che nonè Freud, come potrebbe pare-re, bensì una volgarizzazioneper le platee americane delfreudismo americano – ch’ègià, absit iniuria verbis, unavolgarizzazione di suo. Che poi tali esigenze non sianosolo hollywoodiane, lo mostraun’altra famosissima sequen-za, europea questa: il sogno diVictor Sjöström all’inizio de Ilposto delle fragole di IngmarBergman, 1957. Anch’esso èfortemente segnalato (nono-stante ci sia la voce off di Sjö-ström a narrarlo, Bergman

sente il bisogno di chiuderloin mezzo a due inquadraturedel personaggio addormenta-to); inoltre, anche se Bergmanè più credibilmente onirico,non usa l’astrazione in modoingenuo, situa il sogno in unarealtà urbana autentica, unelemento accomuna fortemen-te il sogno di Victor Sjöström aquello di Gregory Peck, ed èla sua riduzione a un simboli-smo totalizzante, a un collagedi messaggi. Un freudismo unpo’ più raffinato, ma pur sem-pre deterministico. Qui si parla, naturalmente, diun dato periodo storico. Apartire – grosso modo – daglianni Sessanta il cinema saràmolto più libero nel rapportofra sogno, fantasia, allucina-zione e realtà; per fare un soloesempio, vedi di Bergman L’o-ra del lupo (1968); col che, lastoria del cinema si ricollegasia al cinema pre-classico cheal grande esempio anticipato-re bunueliano. Come s’è avutanel cinema una “liberazione”del flashback, così si è avutauna liberazione del sogno. Ilcui concetto base è: non mo-dellare il sogno su un simboli-smo convenzionale ma recu-perare le sue caratteristicheautentiche: il disorientamentospazio-temporale, la vertiginelogica, la diversa attribuzionedi affettività rispetto allo statodi veglia. Tutto ciò evidentemente puòessere allargato fino a conferireun carattere onirico – anchequi ritroviamo Bunuel – all’in-tero film. Un esempio calzantefra mille possibili è David Lyn-ch: tutto il suo cinema è oniri-co, anche al di là dei suoi sogni“diegetici” come quelli diSheryl Lee in Fuoco camminacon me o di Bill Pullman inStrade perdute. Pensiamo a unascena come il delirante discor-so di Jack Nance a proposito

del suo cane, in Cuore selvag-gio: appartiene sul piano die-getico alla “realtà” effettiva,eppure l’aspetto è chiaramentequello di un incubo. Breve di-gressione: il senso onirico diun film può venire anche da unlavoro sulla location. Dario Ar-gento lo ha mostrato molto be-ne con le città immaginarie delsuo cinema: se quella de L’uc-cello dalle piume di cristallo èuna “città composita” fatta didiverse città italiane, ancorapiù raffinata è la Roma di Te-nebre, “creata” selezionandoalcuni caratteri architettonicidell’urbe, in modo da renderequella che vediamo sulloschermo “squilibrata” rispettoalla realtà effettuale.È, questa, la follia narrativa delcinema. Che, in varie gradazio-ni, può essere intenzionale op-pure può essere un risultato in-volontario, e qui bisogna citarealmeno l’opera dell’ormai fa-moso Ed Wood. Ovvero, i film“deliranti” come risultato del-l’incapacità. Il discorso può al-largarsi all’infinito. Il vero ci-nema onirico è quello che con-tiene – che riesce a restituiresullo schermo – quel senso di“spiazzamento accettato” ch’èproprio del sogno. Si parladunque di aggredire il deter-minismo romanzesco classico:aggredire (come fa il sogno) lalogica della vita. E tanto più lalogica della letteratura; nondobbiamo infatti pensare che ipersonaggi letterari/teatrali/ci-nematografici siano meno logi-ci di quelli del reale, che siamonoi; al contrario, lo sono dipiù. Perché sono macchinenarrative, che procedono im-placabilmente verso uno sco-po. Otello non potrebbe cede-re all’impulso di perdonareDesdemona: è nato per stran-golarla. Amleto dopo il suoesperimento di teatro-nel-tea-tro che mette in scena l’assassi-

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nio del padre non potrebbe ri-tenersi pago e andarsene di-cendo a Claudio sconvolto«Just kidding!». Volgendo alla fine un discorsoche ragioni di spazio possonosolo costringere a uno schema-tismo estremo, conviene peròricordare che (al di là del pro-blema specifico di rendere ilfenomeno onirico) tutto il ci-nema è sogno. «Finalmente,per la prima volta, grazie allemacchine […] i nostri sogni sisono proiettati e obiettivizza-ti», ha scritto in una frase fa-mosa Edgar Morin. E giacchéabbiamo parlato di spiazza-mento spazio-temporale, ricor-diamo che la bella definizionedi “chimera spazio-temporale”è applicata da DominiqueChateau a qualsiasi degli uni-versi che il montaggio cinema-tografico crea. A questo puntonon servirà insistere sul rap-porto stretto fra la visione par-tecipante dello spettatore (ch’èallo stesso tempo perdutaemotivamente nella contem-plazione del film e presente ase stessa in quanto lo spettato-

re non è mai completamenteassorbito) e il “sogno lucido” –la coscienza di star sognandoall’interno del sogno – oggi ar-gomento di attenti studi.Qui vale la pena di introdurreun ultimo ragionamento. Pren-diamo in esame una delle ca-ratteristiche più sottilmente in-quietanti del cinema: l’impo-tenza dello spettatore, che puòsolo assistere e non può inter-venire sul film. Essa è simbo-leggiata in modo definitivodalla celebre scena di Kubrick– Alex che con gli occhi tenutifermi da graffette non può evi-tare di vedere il film proiettato– in Arancia meccanica: è unametafora del cinema stesso, alpari che di quel singolo film(tutto basato, come dichiara inapertura il carrello indietro apartire dall’occhio di Alex, sul-l’identificazione riluttante fra ilpersonaggio e lo spettatore). Ose preferite c’è una scena ana-loga in Dario Argento (Opera)in cui l’occhio viene tenutoaperto da uno strumento contemibili spilloni. L’occhio pa-ralizzato, che non può rifiutar-

si di vedere: metafora dell’ine-luttabilità della visione cine-matografica (sul masochismocinematografico giocano moltigeneri, in primo luogo l’hor-ror, ma anche il mélo). Orbe-ne, questo stato richiama allamente la paralisi fisica del so-gnatore (durante il sogno i no-stri muscoli entrano in stato diparalisi, altrimenti il nostrocorpo compirebbe effettiva-mente i movimenti che sognia-mo di fare). Come lo spettato-re si riflette nel sognatore, cosìl’impotenza del primo si riflet-te nell’impotenza del secondo.E, lo sa chi ha provato l’espe-rienza di fare degli sforzi persvegliarsi da un incubo, l’im-potenza non è una condizionedel tutto piacevole. Eppure è bello andare al cine-ma; eppure è bello sognare.Unico problema: in quest’ulti-mo caso non possiamo sce-gliere il sogno. Approviamo ilmemorabile suggerimento diLinus Van Pelt (Peanuts di C.M. Schulz): «Magari potreb-bero pubblicare delle recen-sioni…». ■

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Malcolm McDowell in Arancia meccanica di Stanley Kubrik. In alto: Scene tratte da Los Olvidados di Luis Bunuel.

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Il cinema è stato spesso chia-mato “la fabbrica dei sogni”:dalla questione (irrisolta) delcinema come rappresentazionedella “realtà-non realtà”, al so-gno come fonte primaria diispirazione, si è attinto per va-rie sceneggiature e narrazionicinematografiche, così comedal cinema si assorbono mate-riali e immagini da riportarenei nostri sogni. Alcuni registi,quali ad esempio David Lynch,Alejandro Jodorowsky, WernerHerzog, ma anche FedericoFellini e Akira Kurosawa, si so-no spesso cimentati con il so-gno nei loro film, creando dellesuggestive variazioni sul tema. Quali sono le attuali conoscen-ze sulle caratteristiche psicolo-giche e cognitive del sogno?Innanzitutto, per quanto biz-zarro possa essere il ricordo diun sogno da svegli, possiamoessere sicuri che mentre lo fa-cevamo non ci trovavamoniente di strano, o quasi. Nei sogni, infatti, la nostra at-tenzione è sviata generalmenteda una distraibilità e un assor-bimento provocato dagli avve-nimenti e dai loro contenuti,che pur mantenendo elevatal’evenienza di emozioni forti(ansietà, rabbia o gioia) o mo-derate (tristezza, rimorso),hanno spesso la forma delle al-lucinazioni (false percezioni) eillusioni (false credenze). I sogni possono essere caratte-rizzati da un disorientamentonello spazio e nel tempo, per-ché l’orientamento è una co-struzione cognitiva adatta a ri-spondere alle domande: chisiamo – dove siamo – che ora è

– sviluppata esclusivamentenello stato di veglia. I sogniviolano i principi aristotelici dicontinuità nel tempo, nel luo-go e nell’azione, e vengonoinoltre confuse le identità dellepersone presenti. Le caratteristiche della bizzar-ria onirica, oltre la dissoluzio-ne dell’orientamento, sono ge-nericamente rappresentate:– dall’incongruenza, ovvero leregole associative della vegliavengono perse e nello scenariodei sogni vengono inserite lecaratteristiche più strane, pos-sibili e impossibili, come osser-vare una mappa che poi si tra-sforma in una veduta aerea; – dalla discontinuità, con im-provvisi cambiamenti di iden-tità e caratteristiche di unapersona, un luogo, un’azione,in modo che l’unità tematicaviene spesso infranta in manie-ra flagrante; – dall’incertezza, la vaghezzache riguarda le unità percettive(le immagini) e i loro attributinominali (i nomi), dato che nelsogno spesso i dettagli “sem-brano” o “rappresentano”, alposto di “sono” qualcosa. I sogni, e Freud lo aveva intui-to, ci dicono qualcosa di im-portante riguardo i nostri istin-ti (sesso, aggressività), i nostrisentimenti (paura, terrore, af-fettività) e il nostro vissuto(luoghi, persone e tempi). Me-morie remote possono esseresorprendentemente accessibili,mentre talvolta le memorie re-centi non lo sono altrettanto. Di fronte a fatti che nel mondodella veglia non presentereb-bero nessun nesso logico, in

sogno si supplisce con l’imma-ginazione (pensare senza rego-le fisse, associando liberamen-te i dati della memoria dell’e-sperienza sensibile) e la confa-bulazione (esprimendo inven-zioni e creazioni fantastiche),che arrangino una spiegazionein quel momento accettabile.Durante i sogni si tende adomettere, infatti, qualsiasi fa-coltà critica, così come la co-nosciamo da svegli.Infine, si è rilevata su larga scalauna discriminante nei contenutidei racconti onirici fra maschi efemmine. I primi sognano di es-sere all’aperto, e spesso la tramadegli eventi è basata su insegui-menti e conflitti (retaggio dellacaccia e della lotta per la so-pravvivenza), mentre le donnesognano degli spazi chiusi in unclima di rapporti affettivi conpersone note (in omaggio allamaternità e all’allevamento filia-le), ricalcando un cliché che ri-sulta talmente prevedibile dasembrare superfluo. Il sogno appartiene al mondodella realtà interiore, ovveroviene elaborato interamente danoi stessi, senza contatto con larealtà esterna. Ma oggi sappia-mo che la realtà è il prodottodella consapevolezza riflessivadei nostri sensi, consolidatadalla conferma abitudinariadelle nostre memorie, e l’evi-denza che abbiamo del mondoè infine estremamente soggetti-va. Prova ne è una discussionetestimoniale ad un processo,dove sullo stesso fatto si con-frontano opinioni e visionimolto diverse, che possono ri-scrivere gli avvenimenti, e as-

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Affinità e divergenze fra cinema e sogno

Giorgio Cantoni

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cinema e sogno

solvere o condannare un impu-tato, a seconda di ciò che il te-stimone sotto giuramento havisto, ascoltato e riconosciuto.Il sogno può essere inteso comela quintessenza, il distillato al-chemico delle nostre attività co-gnitive, il momento topico di in-contro e di definizione delle no-stre nozioni, cognizioni e cono-scenze personali, che in sogno simostrano nel loro stato di “ela-borato puro”, proveniente daframmenti di memorie e sensa-zioni conosciute, riposte nel-l’immenso archivio di neuronidella corteccia cerebrale. In questo senso, sognare è evo-care un cinema personale, do-ve si proiettano intimamenteogni notte i propri film. Comeopera la macchina da presa,come avvengono le proiezioni,quali sono i misteri del sogno,che è uno stato di coscienza frai più consueti, ma al contempouno degli enigmi più inesplo-rarti e sorprendenti della psi-cofisiologia umana?Oggi sappiamo che, per il no-stro cervello, le esperienze nel-lo stato di coscienza onirica so-no vere tanto quanto quelledella veglia, perché nel sognoavviene una sorta di disconnes-sione delle funzioni critiche,

così come le conosciamo dasvegli, e inoltre il cervello rea-gisce alle situazioni oniricheesattamente come nella veglia,attivando le stesse aree prepo-ste all’azione. Ma con una so-stanziale differenza: il corponon esegue i comandi, graziead un “escamotage” biologicoche interviene durante la faseRem (atonia posturale), checonsiste nel paralizzare mo-mentaneamente tutti i muscolivolontari dal collo in giù.Nel sogno esiste almeno unpunto di vista nel quale ci siidentifica. Il protagonista è disolito lo stesso sognatore, chesogna di essere sé stesso qualeattore principale in un set-mondo, accuratamente simula-to da tutte le memorie senso-riali a nostra disposizione. Nellinguaggio tecnico del cinemasi potrebbe comparare ad una“ripresa in soggettiva”, quan-do il punto di vista della mac-china da presa è lo stesso degliocchi del protagonista. Ma cisono spesso delle varianti, e l’i-dentificazione con gli avveni-menti può essere così forte ecompleta da far dimenticare diessere “noi stessi” quali attoriprincipali, per guardarci agiredall’esterno, o per diventare al-

tri personaggi presenti nel so-gno, che diventano di nuovo“noi” anche se mantengono laloro identità precedente.Sulla base degli studi speri-mentali eseguiti dal dottorStephen LaBerge, presso il di-partimento di psicofisiologiadell’università di Stanford inUsa, si è potuto dimostrarel’esistenza dei sogni lucidi, ov-vero i sogni nei quali si è co-scienti di stare sognando.Questa coscienza permette alsognatore addormentato diidentificare la realtà del sognocome tale, e di agire volonta-riamente nel mondo immagi-nario del sogno, con la nettasensazione di trovarsi “den-tro” un film, o in un videoga-me estremamente realistico,che nessuna tecnologia di“realtà virtuale” sarà capace dievocare. Da qui si può inco-minciare ad analizzare i sor-prendenti rapporti esistentifra la ricerca scientifica sulla fi-siologia del sogno e la conce-zione di realtà/irrealtà.

Informazioni presso:

Istituto di Ricerca per il SognoLucido - Telefono 0432 513059

http://www.sogni.orge-mail: [email protected]

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Nella torre dell’alchimista. Alejandro Jodorowsky ne La montagna sacra (1973).

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Dalle sette vacche magre, comeci ricorda la Bibbia, sognate dalfaraone, giù giù fino al più pro-saico: «La vita è un sogno o isogni aiutano a vivere?», tor-mentone del mezzobusto tele-visivo Gigi Marzullo, i sognihanno accompagnato la vitadell’uomo più della vita stessa. Anche il cinema, sul sogno, hacostruito una buona parte del-la sua reputazione. Da GeorgeMéliés a Stanley Kubrick pas-sando per Federico Fellini (in-superabile il suo capolavoroOtto e mezzo), pressoché tuttigli autori di cinema si sono ci-mentati e confrontati con lamateria onirica, trattandola,sostanzialmente, dai due puntidi vista più significativi: quelloarcaico, dove il sogno è antici-pazione del presente, rivelazio-ne mistica, premonizione, aquello moderno, freudiano,con il sogno stratificazione delpassato, accumulazione razio-nale e subconscia di un vissu-to, sublimazione di desideri epulsioni inespressi. Non basterebbero cento nume-ri di questa rivista per trattareun argomento vasto, articolatoe complesso come quello delsogno. Ci limiteremo – per ra-gioni di spazio e di pazienza deilettori – a soffermarci breve-mente, fra i tantissimi film re-centi che hanno avuto come og-getto – principale e/o seconda-rio – il sogno, Eyes Wide Shut diStanley Kubrick perché ci sem-bra il più emblematico e signifi-cativo, quasi una sineddoche,di tutto il cinema onirico e pan-onirico. Uscito a cento anni dal-la pubblicazione di Die Traum-

deutung (L’interpretazione deisogni), il testo di Freud che get-ta le basi della psicoanalisi, ilfilm è largamente debitore sia aFreud che a Schnitzler e al suoDoppio sogno da cui è tratto eche, già dal titolo, esplicita sia lamateria (sogno) che la consi-stenza (doppio). Stanley Kubrick, come opera-testamento, prima di morire, hatradotto per lo schermo, (dopoaverlo tenuto nel cassetto pertrent’anni) un film dove il giocodei rimandi e la materia oniricasono i protagonisti assoluti a di-spetto dei due personaggi: Bill-Fridolin (Tom Cruise) e Alice-Albertine (Nicole Kidman),sempre in sospeso fra fedeltà etradimento, fra desideri e delu-sioni. Lui (Cruise) è medico ti-po medico-di-base-con-poliam-bulatorio; lei (Kidman) è mo-mentaneamente disoccupata: lagalleria d’arte che gestiva è fal-lita. Vanno ad una festa borghe-se in una villa dove scoppia ilvirus della gelosia incrociata.Lei incontra un attempato mar-pione che la invita di sopra avedere una collezione di statue(ma potevano benissimo essereanche farfalle) e quando il sati-ro scopre che lei è sposata lesussurra: «Le donne un temposi sposavano per perdere la ver-ginità e poter scopare con tuttiquelli che desideravano». Lei,

proba, non cede ugualmente. Ilmarito intanto, dal canto suo, sisfila di dosso, perché richiestoper un pronto intervento, duesirenette che lo stavano amma-gliando con i loro canti.Rientrati a casa lei fuma un di-sinibente spinello – tiene l’erbain bagno, tra i cerotti Band-Aid– e comincia, con il marito, asocializzare i suoi sogni eroticied i suoi desideri sessuali. È lei, così, a dare il via al dram-ma della gelosia. Racconta del-le pulsioni avute alla vista di ungiovane militare durante l’ulti-ma vacanza. Lui ci rimane ma-le, credeva d’essere l’unico asuscitarle tempeste ormonali e,per rifarsi, esce di casa e correnella notte in cerca di avventu-re o pseudo tali. Sono infattiavventure sublimate, incom-piute, mai realizzate fino infondo. Mentre continuamenteronzano nella sua testa, e si vi-sualizzano sullo schermo in im-magini in bianco e nero, la mo-glie e il “milite ignoto” avvin-ghiati in ardite esplorazionianatomiche. Di giro in giroBill-Fridolin (Tom Cruise) fini-sce nella casa delle orge, dovetutti hanno il volto coperto dauna maschera veneziana e dovesi respira più un’aria di morteche di lussuria. Le donne, tuttealla Weston, alte e “vestite” so-lo di una maschera sul volto escarpe con tacchi a spillo, nonsono scalfite o turbate minima-mente da penetratori con man-tello, ligi al dovere come malin-conici impiegati di banca. Erose Thanatos, più il secondo cheil primo, segnano il percorso diquesta storia fra pulsioni, gelo-

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Sul “doppio sogno” di Kubrik

Andrea Crozzoli

«Io t’ho sognato stanotte».«Ah sì? Anche a me piace-rebbe sognarti. Però mi met-to lì, e poi mi addormento».

Da Amore e chiacchere, 1957

di Alessandro Blasetti

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cinema e sogno

sie e tentazioni. Ma alla fineBill, psicologicamente più de-bole e fragile di lei, prevedibil-mente crolla e in un pianto li-beratorio, appoggiando la testasul ventre della moglie, le con-fessa tutto. O meglio, niente difatto, solo sogni che diventanoperò incubi. Solo ora si posso-no finalmente svegliare dai“doppi sogni” incrociati e rico-minciare a vivere la realtà. Fa-cendo cosa glielo dice, ancorauna volta, lei: «Fuck!».Segue fedelmente la scansionedegli avvenimenti Stanley Ku-brick, come nel libro, aggior-nando però la vicenda nellaNew York odierna, metropoliche è anche apologo e metafo-ra dello smarrimento, madre ditutte le città. Le ottocenteschecarrozze del libro diventanoyellow cab ovvero taxi new-yorkesi ma il resto rimane ap-parentemente intatto, comenel libro di Schnitzler. Solo apparentemente però, inquanto il grande Kubrick spo-sta la centralità del racconto

sulla figura femminile di Ali-ce/Kidman che tiene salda-mente in mano la trama e l’or-dito della storia, che cadenza ilracconto, che ha l’iniziativa fi-no alla fine, con quel fulminan-te «fuck» che, prima dei titolidi coda, suona come una salu-tare frustata nei confronti diBill/Cruise, che nel libro erauna figura centrale, mentre nel-la trasposizione cinematografi-ca la sua statura perde quota.

Questo ennesimo e ultimoviaggio di Kubrick nei misteriprofondi dell’uomo è un viag-gio all’interno della naturaumana, un viaggio che ha perprotagonista la donna, fisica,carnale, vera, reale, propositi-va, che alla fine ritrova la smar-rita via e illumina con quel«fuck» il buio esistenziale delmarito, sempre più lesso. Lo faalla fine del percorso quandocomprende che lui si è definiti-vamente perso, riaffermandola concretezza, la capacità disintesi, l’equilibrio dell’univer-

so femminile che, uscendo dalmillennio maschilista di Sch-nitzler, ci condurrà (quasi permano) nel terzo millennio. «Non è nuova la psicoanalisi,ma Freud» annotava nel 1924

il viennese Arthur Schnitzlernei suoi appunti, riuniti inÛber Psychoanalyse, mentrestava terminando Traumnovel-le (Doppio sogno), quasi a si-gnificare che l’opera preesisteall’artista. Come questo filmquasi preesiste a Kubrick cheha sempre rivisitato angoli dicinema (e di umanità) riscri-vendoli e ponendo sull’argo-mento la parola fine. In questo viaggio nell’inconscioe nel conscio della coppia, dellagelosia, della sessualità, Ku-brick ha posto la parola defini-tiva che solo il suo unico occhio“aperto e chiuso” (eyes wideshut appunto) – altro elementosempre presente nel suo cine-ma, basti pensare ad Aranciameccanica – e il suo prolunga-mento nella cinepresa potevanocogliere con tanta potenza. ■

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Bill e l’orgia virtuale. Scena da Eyes Wide Shut di Stanley Kubrik.

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IL SOGNODEL POETA

Il Gruppo Majakovskij, cheha sede a Ligugnana di SanVito al Tagliamento, è statofondato nel 1993 dal poeta escrittore Giacomo Vit. Attual-mente ne fanno parte, oltre aVit, Anna Rita Gusso, France-sco Indrigo, Manuele Moras-sut, Silvio Ornella e RenatoPauletto.Il Gruppo Majakovskij hapubblicato testi su riviste e an-tologie. Inoltre, in più di

un’occasione, ha presentato inpubblico le opere dei suoi

componenti nel corso di inter-venti poetici. Il Gruppo è ac-compagnato, con musiche ap-positamente composte, dalchitarrista e flautista sanviteseNuccio Simonetti.Nel mese di settembre del2000 è uscita, per i tipi dellaBiblioteca dell’Immagine diPordenone, l’antologia Da unvint insoterat, che raccoglie iprogetti poetici realizzati dal1996 al 2000.

Il GruppoMajakovskij:

poesiae sogno

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Dentri il caligu dai sunsFrancesco Indrigo

Tai serclis a coda di drago ch’al fa il cafèdi bol cuant ch’al va su, a cjaminâ tal sufit, o chel soflâ tai veris par fora ch’a impanali’ lastris e tu di dentri nu ti viodis pì nuja, nencja li’ figuris, doma vôs ch’a claminno si sa cui, e po j son odôrs ch’a passintraviars li’ siaraduris, di no essi boins di dajun colôr, la guera che la lûs a fa cu li’ peraulisda la memoria a cundùra encja la fiesta, ta chê roba ch’a cruncia i dinc dentriil caligu dai suns, fin che dal pantagnecda li’ oris nol scaturîs il tiô sun pi brut:no j è nuja ch’a fedi pì scjàss di un sfuei blanc.

Dentro la nebbia dei sogni. Nei cerchi a coda di dragoche fa il caffè / bollente quando va su, a camminare sul sof-fitto, / o quel soffiare sui vetri all’esterno che appanna / le fi-nestre e tu da dentro non vedi piu nulla, / neanche le figure,solo le voci che chiamano / non si sa chi e poi ci sono odoriche passano / attraverso le serrature, da non essere capaci didargli / un colore, la guerra che la luce fa con le parole / del-la memoria resiste anche la festa, / in quella cosa che digri-gna i denti dentro / la nebbia dei sogni finche dalla fanghi-glia / delle ore non sortisce il tuo peggior incubo: / non c’ènulla di più minaccioso di un foglio bianco.

XVIIIGiacomo Vit

«Duncia, ‘na voltadrenti, ti viodaràsmurs ditimp ingrumàt,pavimins di stelisínfondàdis.Uli ti podarèssisfrutào copà. Pi avant-o indriu?-‘na stirula di siunsch’a ti còlin intor…Uli il to zemàal doventadopli, triplo,infinit …Duncia, (i sens agadis, li’ talpàdisdi aria…)…».

XVIII. «Dunque, una volta / dentro, vedrai / muri di /tempo raggrumato, / pavimentí di stelle / affondate. / Lì po-tresti / generare / o uccidere. Più avanti- / o indietro?- / unostuolo di sogni / che ti franano addosso… / Li il tuo ansi-mare / diventa / doppio, triplo, / infinito… / Dunque. / (isegni acquosi, / le orme / di aria…)…».

Tratto da G. Vit. Chi ch’i sin, Campanotto, Udine, 1990.

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Conserto sul TajamentoAnna Rita Gusso

A veniva da lontan, soe grave de agosto‘na musica che spandevasul Tajamento e so storie, ‘a luna dell’est le inpirava, co’ grisoò el vento le distirava.Picàe al giarin‘e figurine de cartano’ e podeva scanpardal tabaro scuro del monte:l’aqua ghe dispirava ‘a tera.«Dove ndè, cossa fazè?»cantava ‘na voze e intantoel vento ai microfoniel meteva su i socòi, l’alsava i so tendoni«ancora no’ se dismonta dal sognoancora xe da comediare ninte resta, tuto svaporaaneme e barbe sgionfe de ventopensiero e conbatimentotuto xe nuvòa e spolvarin:n’isoa legera che se alsa… se alsa».

Concerto sul Tagliamento. Veniva da lontano, / sul gre-to di agosto / una musica che versava / sul Tagliamento lesue storie, / la luna dell’est le infilava / con brivido il ventole stendeva. / Appese al ghiaino / le figurine di carta / nonpotevano fuggire / dal cappotto scuro del monte: / l’acqua glisfilava la terra. / «Dove andate, cosa fate?»/ cantava una vo-ce e intanto / il vento ai microfoni / si infilava gli zoccoli, /alzava i suoi sipari / «ancora non si smonta dal sogno/ an-cora c’è da recitare / e niente resta, tutto evapora / anime ebarbe gonfie di vento / pensiero e lotta / tutto è nuvola e sab-bia fine: / un’isola leggera che si alza / … si alza».

FioreriaManuele Morassut

Senza parole, solo con un cenno, le fioriste mi mostranola luce dei petalie il riflesso delle foglie.

E mi ricordanoche ogni sogno ha la sua strada.

Tratto da Gruppo Majakovskij, Da un vint insoteratEdizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 2000.

Ciaminànt al scur ta la ciera daradaSilvio Ornella

Ciaminànt al scur ta la ciera daradacu na mas’cela in man par zî a toi l’aga.Al passa un in bicicletata un sfriguiassi di rais.Al vàia o si fèrmia?E il cour al si ziracoma la surìs tal bus.E l’aga a è infondada.Andèa altris davòu la curvasot i capòs dai poi?

Camminando al buio sulla terra arata. Camminando albuio sulla terra arata / con un secchio in mano per andare aprendere l’acqua. / Passa uno in biciclctta / in uno sbricio-larsi di raggi. / Va o si ferma? / E il cuore si gira / come ilsorcio nel buco. / E l’acqua è sprofondata. / Ce ne sono altridietro la curva / sotto i cappotti dei pioppi?

il sogno del poeta

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Il mio amico Sandro, poeta,dorme ormai da quattro anni evorrei dirgli: «Su, ricomincia asognare». Quando si dorme, infatti, nonsi sogna; tutt’al più si assiste aldileguarsi dei sogni: le loroparti si sconnettono e, in appa-rente confusione, capace an-che di combinare belle e fug-gevoli istorie o di stringere mo-mentanei nodi oppressivi, ri-tornano là dove s’erano forma-te. Composita solvantur, direb-be, anzi ha scritto Franco For-tini, che di composizioni s’in-tendeva, al punto da lasciaread altri le cure della veglia. An-ch’io, temo, mi ritrovo tra lemani l’analoga eredità di San-dro, parole ordinate in sequeleora compatte ora articolate esnelle, grumi di segni, residuid’un sognare assiduo. Temoperché, nonostante l’amicizia,cara, fraterna, in-vestire d’al-tra parvenza le spogliate, osfogliate, essenze non si fasenza il brivido del trapasso,senza esperire di sé e d’altruialcunché d’irrevocabile. Mache altro è, questo timore, senon un sogno già incomincia-to, anzi ininterrotto? Tutto ac-cade e noi ci siamo dentro, acercare di connettere, di capi-re, seguendo esili fili e impro-babili trame. Nel caso di San-dro e me, buona parte del tut-to è acqua, elemento primor-diale, il fiume Oceano che av-volge e s’avvolge e ritorna in séstesso, viaggio e meta insieme.Vi scorre il Galioto1, domesticoe coraggioso vascello, che San-dro, solitario, governa con latranquilla sicurezza dell’esper-

to, con gesti radi e misurati. Èammessa, eccezionalmente, lamia “assenza”: si nota dal risal-to, momentaneo, che acquista-no i suddetti gesti abituali, per-ciò normalmente mimetizzati,invisibili; si sente dal parlareveneto, limitato peraltro a po-che battute, nostalgiche di si-lenzio, veneto anch’esso. D’orain avanti potrà non avere piùmolta importanza di chi il so-gno sia o chi sia nel sogno2.Quand’è incominciato il viag-gio? Difficile dirlo: potrebb’es-sere ieri come molto tempo fa;potrebbe non essere mai avve-nuto. La terraferma in fermen-to di scirocco, il vento infingar-

do che disordina dentro lagente e le cose, confonde iltempo della veglia e del sonnoin una generale deriva3. «Elsente el tenpo», si diceva; oggiqualcuno butterebbe là: «È unmeteoropatico», eliminando ilproblema di scoprire che iltempo meteorologico e il tem-po “cronologico” vengono acoincidere in un “sentirsi”dentro una sofferenza, un’an-sia-ansima-asma di altri checercano, dal lato che manca oda ogni lato, un sostegno, untoccare e essere toccati, nonfoss’altro con uno sguardo, ad-dirittura con un pensiero. Sì, ipensieri, e i sogni, si sentono esi risentono, anche tra loro,hanno legami come le cellule,serie di contatti simpatici.Nel respiro inquieto dei vecchiricoverati in città s’estende e sicomprime, affiorando, il so-gno dipinto di tutta la vita allamagra libertà dei campi: il ver-de tenero della spagneta (erbamedica in germoglio) il venti-

cello che rinfresca i piedi, d’u-na tinta d’aria forse simile sol-tanto alla sete e al pianto dellanovizia. La vita, tutta, è giova-ne, per definizione. S’invecchiadi colpo, quando lo spazio delpensiero-sogno non può espan-dersi più della “realtà”, quan-do i legami, sciolti, fluttuanonel vuoto, anche se puoi avereancora un tuo caro che sa, checapisce ma, non potendo, taced’un silenzio inespugnabile. Si rientra nel giro largo delloscirocco: «Siroco de matinasporca la marina». Ma è da unapalude, da uno stige acquitri-noso, limoso, che giungono an-

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Escursione oniricanella poesia di Sandro Zanotto

Luigi Bressan

Gustave Moreau (1826-1898),Il poeta viaggiatore (1891).

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il sogno del poeta

cora i segnali, numerosi e am-bigui, di una navigazione impe-dita. S’aspetta una tempestache non arriva, se arrivasse siporterebbe via i tetti, non arri-vando si porta via il tempo, lavita4. Ahi! Io, uomo d’acqua,devo mentirmi di terra, pensar-mi vescola, arenicola, e avvol-germi di nascondimenti, sem-pre nudo come resto, sognouna buriana-coltre, per nascon-dermi in lei, da lei, ché non gri-di per me. Sono io, invece, agridare senza voce: «Mi sonqua e no go barche par mar».Come può dirsi marinaio, in-fatti, un verme senza barca?Sperare e temere, temere e spe-rare: quanto peseranno sui duepiatti della bilancia questi sedi-centi infiniti? Un timore si stempera quasisubito in acque familiari, mainotate però così varie: fossi efossati, rivoli e scoli, rogge echiuse e chiaviche; e poi verdid’erbe, torbide, stracche, mar-cescenti, morte, addiritturaeterne, eternate in biascichiiinestinti di giaculatorie. Tutte,si sa, finiscono per raccogliersie gettarsi in mare, anzi nei ma-ri – che, tali, appaiono più lon-tani – dopo un lento fluire5. Lasperanza boccheggia poco piùin là: un gorgo s’avvolge nel-l’acqua ferma e involve e in-ghiotte ogni cosa, né mai resti-tuisce piuma. È una buca sen-za fondo, un inferno d’acqua:sotto c’è una voce legata chechiama, un demonio che tiraridendo; vi scompaiono comefuscelli i ragazzi annegati. Saràparso loro di ritornare nelgrembo della madre... Ma que-sto è un sogno abortito6.Anche i sogni possono suddi-vidersi in rivoli, come le acque,che sono sogni, permeare,confondersi, marcire, inghiot-tire, confluire e – come dicevoin sogno – scomporsi e ritorna-re... Dove? C’è un mare per i

sogni, come per i sargassi? Sec’è, è un sogno esso stesso? So-no preoccupato: ho perso divista Sandro, mi sono personella rete d’acque interne tesadal sogno tra me e lui. Ho lasensazione che il mio amico sisia lasciato prendere da unaprofondità ombrosa che da quinon si riesce a valutare. Provoa cercarlo lungo il filo delle pa-role, come se calassi una lenzacon l’amo ben guarnito di ri-torte lusinghe. Incomincio lamia tesa, l’attesa che così vibrae al fondo risuona: «Avevo sempre associato la tuavicenda umana alla navigazio-ne, al tenerti al largo da orpellie inciampi di terra- ferma, libe-ro, sciolto. Sì, perché m’intri-gava quel tuo mito marinare-sco del Delta di Venere7, solitu-dine “pubica” del puro tende-re e intendere, velata di vele tracime e bomi e trasti e spie me-teorologiche, scandite da un ri-tuale di raffinata sopravviven-za, “condiviso” con un simula-cro venereo in inquietanti, mu-ti conversari, mutevoli umori epreparati amplessi. Mi pareva,e mi pare tuttora, provenire daacque con tratte profonde –laddove il tuo sogno è tratte-nuto – ancorché di paraggi, disbocchi e rimbocchi, epperòd’insidie non meno alte ed al-terne che l’aperta navigazione.Perché, allora, nasconderti persalpare? Perché gettarmi tra ipassi che ti seguono, a confon-dere le orme, questo sartiameliquato senza fine?».Già distinguo la sagoma diSandro mentre riemerge in unlento abbandono, cullata da unsorriso di lontananze. Può par-lare a bocca chiusa, il suo spiri-to veleggia dietro le mie orec-chie, sembra che canti o checanticchi qualche motivo dilunga memoria di cui raccolgobrandelli, come alghe vagantidal flusso.

«Vuoi sapere perché mi sonoaffidato al vento? Volta unacarta! Ecco, vedi, quella era lamia sirena. Ma tu, che ti fai gi-rare lo sguardo intorno dall’o-rizzonte, sai la rosa dei venti, iventi della rosa, le venti rose etutte, tutte le altre? Via, ciò cheè raccontato non può esseredetto intero, sibbene soltantoin parte, una costola, una costa,appunto, immemore di spaziche non siano luoghi d’incon-tro, o magari di scontro, dicontrasto, memorabili d’altrabellezza che non sia l’infinita il-lusione d’infinito. Ora io stovoltando altre carte... ». «Come sono » chiedo. «Ah, belle! Un sogno» rispon-de. «Guarda: Comisso a Chiog-gia che parla col bragosso Zo-gielo; in quest’altra De Pisis aVenezia, in gondola con Brunoe il pappagallo. Vedi il teschiosotto il berretto?8 Guarda: l’ac-qua corre al mare grande; an-ch’io, sai, anche tu!». Lo seguo come dentro a un ca-leidoscopio. Mi sembra sere-no, sollevato, pur consapevoleche le carte stanno per finire,forse proprio per questo. Mano, alcune rimarranno persempre attaccate al sogno: «La rosa che sa da bon, / el ca-pelo fora ala piova, / el matoche zuga la tria».

1. Nome del battello testimonedelle imprese solitarie del poetalungo i fiumi del Friuli, del Vene-to, e sul delta del Po.2. D’ora in avanti la “navigazione”procede lungo le pagine del libro:Sandro Zanotto, Antologia perso-nale, Udine, Campanotto, 1996.3. Siroco, pag. 21.4. Buriana in vale, pag. 26.5. Aque del me paese, pag. 44.6. L’aqua ferma fa el gorgo, pag. 46.7. Cfr.: Sandro Zanotto, Il delta diVenere, Milano, Rusconi, 1975.8. Insoniarse de aque, pag. 75.

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Attilio aveva diciassette anni, lavorava in un ne-gozio di alimentari e qualche volta, in estate,veniva al laghetto dietro la scarpata ferroviariadove noi andavamo a nuotare tutti i giorni.Era una risorgiva profonda al centro di terreniscavati e acquitrinosi, avvoltada gruppi di canne, che per-cuotevano i più leggeri aliti divento. Moscerini, farfalle, fa-lene, libellule, girini e altrianimaletti subacquei o sospe-si sul pelo dell’acqua gremiva-no quel luogo limpido e sfer-zante. Vi si arrivava per viot-toli incerti disseminati dimucchi di sterco, coperti dimosche, e quello era il ru-more dell’estate.In certi giorni il laghetto siriempiva di ragazzi, anche fi-gli di contadini che invece inquella stagione dovevano an-dare nei campi. In altri giorninon arrivava nessuno e le rane saltavano nell’ac-qua e il vento frusciava nel silenzio.Quando c’era, Attilio andava con un gruppo diragazzi più grandi a distendersi al sole e a fu-mare sull’unica sponda erbosa e quando si al-zavano avevano le gambe e la schiena striatedall’impronta degli steli.L’acqua del laghetto invitava a nuotare, finchéun giorno innalzarono un trampolino con zolledi erba e sassi e allora, uno dietro all’altro, silanciarono nell’acqua. Ma era una delle giorna-te più calde e l’aria era smossa soltanto dal pas-saggio dei treni.

Alla fine di agosto l’aria splende più chiara e incerte ore del giorno è calda come in piena estate.Fu in uno di questi pomeriggi, il laghetto eradeserto intorno alle sue sponde, che Attilio ar-rivò subito dopo mangiato. Si era spogliato vi-cino alla bicicletta appoggiata a un albero e su-bito era scomparso dentro il boschetto vicino.Non era una semplice scomparsa.Mi arrivò dietro alle spalle e mi domandò sel’acqua era fredda. Si immerse fino ai fianchi:

era snello, mentre gli altri ragazzi contadini siirrobustivano in fretta. L’acqua quel giorno noninvitava a nuotare; si allontanò seguito da unanuvola di moscerini e si distese in un praticellonascosto da cespugli. Dormiva? No, ogni tanto

un sasso faceva un tonfo nell’acqua;li lanciava stando disteso sull’er-ba. Mi chiamò, ma forse fu un ri-chiamo immaginario o forse il

grido di un uccello di passaggio.Andai a stendermi accanto a lui.Il pomeriggio sprofondava nell’o-ra piu silenziosa; non c’era ventoe soltanto qualche animale si se-gnalava con un tonfo e uno stri-do. La voce di Attilio e i suoi si-lenzi facevano vibrare l’aria. Perrispondergli non avevo che il ri-cordo di lontani o recenti incan-tesimi solitari; forse più interes-santi erano i luoghi prescelti, icampi di granoturco che creano

un’intima solitudine vegetale, l’odo-re della terra ammuffita nell’ombra e vicina, masfuggente, un’immagine sognata, come una ca-rezza dell’aria sconvolgente, fino allo spargi-mento dello sperma verso cui si avviavano in-curiosite le formiche.Attilio mi era vicino, non più supino ma diste-so sul fianco e qualcosa mi sfiorava, forse un ra-mo o una mano.

All’arrivo del freddo gli animaletti della risorgi-va andarono a nascondersi nelle loro tane o mo-rirono. Solo qualche libellula faceva ancorasplendere le sue ali di vetro e anche per quel-l’anno il laghetto fu disertato dai suoi nuotatori.Senza più l’estate, i nascondigli tra le canne el’amore improvviso subito lavato nell’acquadel laghetto, non avrei più rivisto Attilio, e in-vece qualche volta lo incontravo coi suoi amicivestito a festa.Un giorno mi chiamò lanciando un fischio; eroin bicicletta e cominciai a fare dei giri concen-trici attorno a lui che camminava in fretta conuna chiave in mano come per mostrarmela. En-trò in un edificio isolato che era il forno del suo

il sogno del poeta

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La tomba di Pasolini

Racconto di Nico Naldini

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negozio, lasciando la porta socchiusa. Avevoquattordici anni e la bicicletta fiammante eraun regalo di mia madre. Il movimento fruscian-te dei pedali e la luccicante rotazione dei raggidelle ruote erano come le sue carezze che miraggiungevano dovunque con la sua felicità.

Attilio è sorridente. È inverno dal momento cheha il cappotto con il bavero rialzato ma forse èuna sciarpa. Davanti al suo viso sorridente c’èun prato con un’intensità di colore che lo rasso-miglia allo smeraldo e un sole fermo sul pratocimiteriale con le ombre nette che lo rigano.Ho trovato casualmente la suafotografia mentre correvo conlo sguardo alla ricerca di un al-tro volto e adesso mi avvicino aidue volti sospesi ciascuno nelsuo riquadro marmoreo.Certi tramonti a Casarsa ravvi-cinano le montagne che diven-tano una sagoma blu scuro e aldi là dilaga una luce che distan-zia i confini del cielo. I baglioridi questo vespro rischiarano lafissità dei due sorrisi.

C’era la guerra e i treni arriva-vano con grandi ritardi, qual-che volta si fermavano in mezzoalla campagna. Nell’atrio dellastazione Attilio mi sfiorò nel buio. Anche lestrade erano oscurate e tutto si confondeva inombre più cupe e altre più scialbe. La sola luceche attraversava i grandi archi del fienile doveero salito con Attilio cadeva dal freddo cielonotturno, ma nella buca scavata c’era il teporedel fieno fermentante.I soldati tedeschi di notte cantavano canzoninapoletane, entravano nelle cucine delle fami-glie per riposarsi; allungavano le gambe sui fo-colari, si toglievano gli stivali; le fatiche dellaguerra li avevano fatti struggenti.Durante quell’inverno furono distrutte moltecase; gli aerei venivano dal mare e passavanonel cielo con un grande volo luminoso mentre ilfrastuono che scendeva da quel volo faceva tre-mare tutto ciò che era vivo e sospeso. Nelle stal-le le vacche sbattevano le catene e anche le gal-line si azzittivano sotto quel nuovo temporale.

Attilio era andato a lavorare dai tedeschi. Partivaogni mattina con la tuta mimetica su un camionin mezzo ai soldati con i mitra. Pensavo a come iloro sguardi si incontravano mentre stavano se-

duti uno accanto all’altro. Gli scrissi un bigliettoche l’avrei atteso al passaggio a livello, da doveuna ripida scarpata scendeva in un fosso buio.Il giorno dopo la consegna del biglietto – l’a-veva letto oppure no – al ritorno dal bosco do-ve era andato a tagliare alberi, scese dall’auto-carro e, con un balzo dietro a lui, un suo com-pagno tedesco. Se aveva letto il biglietto forsepensava a come arrivare al passaggio a livello ecosì, come altre volte, il suo desiderio si sareb-be manifestato nel trattenere per un poco qual-cosa che voleva volare via e un solo, breve sa-luto, avrebbe preceduto quel volo.

Oppure, anche se aveva lettoil biglietto, al momento discivolare giù dal camion, l’a-veva già dimenticato, mentreguardava l’ala bionda delgiovane tedesco che gli pre-

cipitava al fianco. Fu l’istantein cui il mitra a tracolla sbattèsulla coscia del soldato e dallasua bocca uscì un ventaglio dibolidi luccicanti, uno solo tra-passò Attilio. Cadendo forsevide vicino al suo viso le duepietre celesti degli occhi delgiovane soldato come un ulti-mo smalto del cielo.Il crepitio del mitra fu udi-

to anche in fondo al fosso,sotto alla scarpata, ma fu scambiato per unodei tanti rumori della guerra.

Quando trent’anni dopo morì anche la madredi Attilio, le loro ossa furono mescolate in un’u-nica tomba sospesa, dove oggi ci sono le lorofotografie; l’altra fotografia di Pier Paolo sorri-dente, ritagliata da un giornale illustrato, è sot-to la loro e davanti c’è il praticello di smeraldo.

P.s.: Per qualche tempo la cassa di legno conte-nente i resti di Pasolini è stata chiusa in un loculodel recinto nordovest del cimitero di Casarsa.Dopo è stata interrata vicino all’ingresso principa-le, a sinistra di chi entra. Gli è accanto sua madreSusanna Colussi e pochi passi lontano nella filaantistante Giannina Colussi, sorella di Susanna.

Questo racconto ci è stato segnalato da Angelo Battel.A lui e a Nico Naldini va un sentito ringraziamento.

© Nico Naldini, Philippe Di Meo& Jean-Pierre Thomas, 1998.

Opere grafiche di Jean-Pierre Thomas.

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UlisseGiancarla Taddeo

Verrà ancora l’estate, stagione dell’anima, paradiso terrenoove l’albero della vitalussureggiante fiorisce.Estate delle luminose, limpideaurore dalle dita di rosa, dei cieli chiari, di abbagliante splendore, trasparenti all’Eterno.Profonda prostrante quietenella densa calura.Allora il mio amore andrà, novello Ulisse per l’immenso azzurro, la bianca vela spiegata ai tumultuosi venti.Il bel viso bagnato dalla brezza odorosanavigherà i luoghi del desiderio, negli spazi infiniti, sulle onde radiose, lamine lucenti di raggisotto un cielo traboccante di sole.Sarà nelle grandi nottidove il mare solo, parla all’anima dai tenebrosi abissie nella volta bruna, del Cane volge la stella, Sirio, radiosa fra le gioie celesti.La mia anima sarà con luifra queste pagine.Per lui canterà il soave cantodelle Sirenee ad ogni leggero toccodelle bianche dita, gli parlerà di un amore infinito.

Sogno dell’albaAnnamaria Maurizio

Lento e insondabilenel sogno mi appari

amore nato nella tenera primavera dell’avvenire.

Profondo e complice il tuo sguardo, vincolo di fluido reale

ed eterno;le emozioni improvvise hanno radici antichecome i nostri nomi.

Come un magma caldo e prorompenteci apparteniamo e fermiamo il tempo.

Non voglio che tu svaniscainghiottito dal giorno,

dal frastuono, dall’infinito.

Stringi con febbrile e perpetua speranzaquesto corpo d’aria e di luce e…scolpisci il suo ricordo nell’universo immortale.

Vajont 99 ottobreAlba di sogni infrantiAnnamaria Maurizio

Secondi…e fu la fineC’era un paese…Poi… più niente.

C’era l’esistenzafu subito recisaC’erano pensieri pulsantiil fango li annientò.

I progetti segnavano il percorsol’acqua li travolse e… soloil nulla parve esisterecompatto.

Tomba universale sulle attese, silenzio marmoreo ricoprì gli amorie… un urlo muto sommerse i sogni dell’alba.

Ma lo Spirito…moltitudine tacita si sparse ovunqueLongarone si riebbe dall’acqua sepolcrale:il dolore rigenerante partorìnuovi sussulti di Speranza.

il sogno del poeta

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il sogno del poeta

«Uno che si cerca e si cercheràsempre»: così si definisce Anto-nio Tabucchi, uno dei maggioriscrittori europei contempora-nei, che nel marzo del 2001 saràprotagonista, a Pordenone, del-la rassegna monografica «Dedi-ca» organizzata dall’Associazio-ne provinciale per la Prosa. Sa-pere quanti si è, si può essereessendo uno, è – assieme a so-gno e finzione – uno dei temi ri-correnti nelle opere di Tabuc-chi. Non a caso lo scrittore, chedivide il suo tempo tra Vecchia-no nella campagna pisana, Li-sbona e Parigi, è uno dei princi-pali studiosi e traduttori della fi-gura e dell’opera del poeta por-toghese Fernando Pessoa per ilquale il problema centrale dellapersonalità era il moltiplicarsidelle identità. La sintesi di ciò –Una sola moltitudine – è lostraordinario titolo sotto il qua-le Tabucchi ha raccolto la tra-duzione italiana di Pessoa e deisuoi tanti eteronimi. «Nel tra-durre Pessoa – dice Tabucchi –mi sdoppiavo, moltiplicavo inognuno dei suoi personaggi cheerano altrettanti scrittori, per-chè Pessoa non è un autore, èuna vera e propria letteratura».Anche altri autori del Nove-cento vicini a questo tema ri-tornano nella sua opera. Piran-dello, che sentenziò rigorosa-mente che «la vita o si vive o siscrive», era anche persuasoche uno contiene molti o an-che parecchi.Tabucchi, nel testo teatrale Ilsignor Pirandello è desideratoal telefono, lo fa così incontra-re con Pessoa che gli telefonao, meglio, che si propone di te-

lefonargli. Il poeta portogheseritorna ancora oggetto dellanarrazione di Tabucchi in Gliultimi giorni di Fernando Pes-soa, un breve lavoro nel qualedescrive il viaggio verso lamorte del protagonista e quel-lo più intenso, interiore, con isuoi amici e con i suoi eteroni-mi, scrittori inventati, ma per-fettamente definiti nell’eternogioco di sdoppiamento dellapersonalità proprio di Pessoa.Il tema ritorna anche in altri la-vori di Tabucchi. In Notturnoindiano – per molti aspetti unlibro autobiografico – il viag-gio alla ricerca di un amicoscomparso diventa un itinera-rio privato alla ricerca di sestessi, un incontro con gli esse-ri più diversi tra loro e dal pro-tagonista, ma ognuno utile afornire un altro volto dell’ami-co cercato che non sarà ritro-vato, o forse sì e che altri non èche il viaggiatore-cercatore.Nel racconto Il gioco del rove-scio, che nel 1981 apre il libroomonimo, è impossibile fissarel’immagine vera di Maria doCarmo Meneses de Sequeiraperchè essa è un fascio di im-magini vere.La letteratura – che è sogno, ri-cordo, finzione, e molto altroancora – permette proprio, co-me avrebbe detto Pessoa, di«diventare un altro continuan-do a essere se stesso».«Amo i romanzieri che inven-tano dei personaggi (Steven-son, Kipling, Conrad e tanti al-tri) – dice Tabucchi – perchèamo lo scrittore che esce dallastrettoie del proprio ego, in-venta un personaggio e si tra-

sferisce in lui. Il fatto di crearepersonaggi molto diversi dame che in qualche modo miimplicano, mi riguardano e miconcernono, mi consente divedere il mondo con altri occhiche in fondo continuano ad es-sere i miei. Non possiamo in-fatti cambiare occhi, ma è im-portante imparare anche a ve-dere con quelli di un altro».Calderòn diceva la vida essueño, forse la letteratura è an-cora più “sueño”. «La lettera-tura – sostiene Tabucchi – cheè uno specchio della vita, un ri-flesso della vita, evidentementeè più sogno della vita, e quindiè un sogno di un sogno.Quando noi scriviamo in fondosogniamo, sogniamo di esserenoi stessi diversi da noi stessi,sogniamo di essere qualcun al-tro, di vivere un’altra vita. […]Come ci ha insegnato Breton,la letteratura è uno spazio oni-rico molto privilegiato che civiene riservato per esprimerequello che i nostri sogni nonriescono ad esprimere.[…] Credo che un grandescrittore sia quello che riesce afar riconoscere ad ognuno ipropri sogni perché in unbuon romanzo possiamo tro-vare i sogni di tutti».(Per chi volesse approfondireil “sogno” secondo Tabucchi,imperdibile il suo Sogni di so-gni, edito da Sellerio: i sogni diDedalo, Ovidio, Apuleio, Cec-co Angiolieri, Villon, Rabelais,Caravaggio, Goya, Leopardi,Collodi, Stevenson, Rimbaud,Cechov, Debussy, Toulouse-Loutrec, Pessoa, Garcia Lor-ca, Freud). ■

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Uno, nessuno, centomila

Emanuela Furlan

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Like a Rolling StoneRevisited

Vedette del nostro tempo

Fabio Fedrigo

Su quella striscia di sognoai confini dell’anima

eravamo vedette,piccole vedette del nostro tempo.

Su quella terra di vetrole stagioni erano ombre lunghe

e gli orizzonti sferragliavanoavanti e indietro, avanti e indietro.

E noi, casellanti e volatori,avevamo mani senza mestierepiccole stazioni per scendere,piccole stazioni per partire.

Avevamo parole per rifugiaree rifugi che non bastavano mai,

come non bastava l’amore che non bastava,l’amore che non bastava.

A volte capitava di capire la vita,per un attimo,

capitava di capire e ricapire la vitamagari nella breve curva di uno sguardo.

Eravamo come siamo,amori cigolanti,

parole socchiuse, anime rotolanti,piccoli paesi confinanti.

[Buon viaggio, Augusto]

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Mia figlia l’altra sera mi ha coc-colato. È piccola, ha sei anni eprima di addormentarmi ha rac-contato una favola. Io, dopo po-chissimo tempo… sono partito.Destinazione: mondo dei sogni!Ed eccomi catapultato in unastrana città. Nella graziosa piazzac’era ogni giorno il mercato, maera un mercato strano, variopin-to, con tanti colori, tanti odori emille suoni e voci diverse; la gente si affacendavasenza l’ombra inquietante dei parchimetri a pa-gamento o dei segnali di sosta con disco orario.Gli edifici vecchi più belli erano stati sistemati ese ne riconosceva chiaramente l’antica struttura.Non sembravano asettici reperti di un mondopassato incartapecoriti dai lifting; era come sefossero dei bei signori vecchi rimessi in forma aforza di sistemi di cure naturali. Anche le co-struzioni nuove avevano un che di tradizionale,pur rispettando le nuove tecnologie e i gusti este-tici contemporanei. Si avvertiva che erano statepensate così perché si adattavano meglio a quel-l’ambiente e in un altro posto sarebbero sembra-te fuori luogo, finte, artificiose e la gente leavrebbe considerate come case “senza anima”.Il Municipio non mostrava esternamente la mini-ma traccia di cemento armato e quindi nemmenodelle antipatiche strisciate di ruggine trascinatadalle acque piovane. In quel paese chi progettavacostruzioni brutte ne doveva rispondere in primapersona, preoccupandosi di apportare eventualimodifiche anche nel corso degli anni. Al di là di manifestazioni sfarzose e costose digrande effetto immediato ma di dubbia efficaciasociale la Biblioteca, il Teatro e anche il CentroCulturale sembravano quasi fossero stati messilì per essere utilizzati dal pubblico ogni giorno,con costanza, garbo, sobrietà ma soprattuttocon un preciso intento educativo. E gli abitantidella città frequentavano quelle strutture con lastessa normale assiduità e cura con cui facevanola spesa o con cui facevano lavare l’auto. Gli amministratori amministravano, nei loropiccoli ma efficienti uffici senza moquette. Nonpresentavano manifestazioni folkloristiche, non

presenziavano a serate benefi-che, non intervenivano con ca-denze fisse nei talk show televisi-vi, non spingevano pseudoscoop giornalistici contro gli av-versari politici e soprattutto nonintendevano continuamente per-suadere la gente della bontà delloro operato.Operavano e basta, come megliopotevano e con i mezzi che ave-

vano a disposizione. E la gente si incazzava sequalcheduno di loro la sparava grossa o sespendeva un’esagerazione di denaro per farequalche cretinata tutta chiacchiera e distintivo.E poi c’erano le famose “Priorità”, che prima diessere tali nello statuto municipale lo erano nelcuore degli amministratori.Non occorreva discutere per convincere l’inte-ra Comunità a dare i finanziamenti per un tettoai vecchi rimasti soli o per i colori a tempera aibambini degli asili. E il bello era che non lo sifaceva perché da ente autonomo il Municipioera passato alla Regione o perché adesso ciò erapossibile grazie ai finanziamenti europei o per-ché da unità territoriale si era passati a aziendaprivata nè tantomeno perché il sindaco non di-pendeva più dal Ministero degli affari regionalima era diventato manager.No, lo facevano perché quel mondo aveva rag-giunto un livello di maturità tale per cui tutticapivano che quella era la direzione giusta daimboccare e che certe cose erano “naturalmen-te” più importanti di altre.Anche la società di pesca locale aveva qualchefinanziamento in occasione della nota Gara del-la bisata, ma solo dopo che tutti gli ammalati didistrofia muscolare del comune avevano garan-tita la loro piccola carrozzina. In una sola occa-sione c’erano state delle polemiche al riguardo,ma si trattava di un distrofico talmente appas-sionato di pesca della bisata che non sapeva dache parte stare, se garantirsi primariamente unmezzo di locomozione o un mezzo di diverti-mento sportivo. Un consigliere del partito dicentro aveva cercato il compromesso offrendoal distrofico di cui sopra i finanziamenti per ot-

ASPETTANDOGODO…

Sogno

Andrea Appi

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tenere una ruota della carrozzina e il diritto dipescare mezza bisata, ma aveva finito per crea-re ancor più confusione.Anche i media erano equilibrati: le notizie era-no distinte dai commenti e non c’era nessun ri-ferimento ai nomi né tantomeno ai volti dellepersone messe sotto accusa. Chi sbagliava veni-va punito ma senza essere abbandonato in qual-che buia cella e soprattutto senza essere messoalla gogna di fronte al mondo intero.E il comune non si faceva bello patrocinandocampagne di consumo di cibi “biologici” utiliz-zando grandi cartelloni esteticamente “non bio-logici”, perché in quella città immaginaria tuttii cibi, per loro natura, erano biologici e quelliche non lo erano venivano chiamati “plastica”o “derivati del petrolio”.In modo normale, quotidiano, silenzioso ma effi-ciente l’amministrazione vegliava e controllava inmodo scientifico sulla bontà di tutti gli alimenti,e se andavano bene continuava a chiamarli ali-menti, mentre se pensava che potessero far male

li definiva semplicemente “alimenti adulterati”.E poi, mentre sognavo di entrare in una fabbri-ca per vedere come lavorava la gente di quellacittà… mi sono addormentato.E sì, perché solo il mattino dopo mia figlia miha spiegato che questa città non faceva parte diun mio sogno; era proprio la favola che mi ave-va raccontato e che parlava della città in cui leiavrebbe voluto vivere da grande.Mi dispiace solo di essermi addormentato aquel punto, perché mi sarebbe piaciuto vederequante ore lavoravano in quella fabbrica, se fa-cevano anche i turni, se la gente li faceva volen-tieri, se il lavoro era brutto, se… eccetera ecce-tera eccetera… Purtroppo sono inciampato nella gamba diMorfeo e ci sono cascato in braccio, finendoper sognare le solite scale a chiocciola, cadutein pozzi senza fondo, improbabili avventurecon mulini a vento, insomma il solito pane (raf-fermo) quotidiano per psicoanalisti. Mai che sifacciano sogni socialmente utili! ■

aspettando godo…

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Il fruttivendoloA Mompiano, ridente quartie-re residenziale di Brescia, dovesono vissuto cinque anni, vivo-no parecchi personaggi inte-ressanti. Tra questi, il frutti-vendolo della piazza, un tipofaceto, dalla corporatura mol-to robusta. Esasperato dallamaleducazione delle clienti, unbel giorno espose in grandeevidenza il seguente cartello: «Le gentili signore che sarannosorprese a palpare la merce, su-biranno lo stesso trattamento».

L’acido Pilus«Vorrei dell’Acido Pilus».«Acido Pilus? Mai sentito no-minare!».Anche il lettore, se facesse ilfarmacista e si sentisse rivolge-re una simile richiesta, rispon-derebbe più o meno così. E così si sentì rispondere, perben quattro volte nella stessamattinata, Luigino, in altret-tante farmacie bresciane.

Luigino era un bravo ragazzoche, con moglie e bambina,abitava nel nostro condominioa Mompiano. Ogni tanto, do-po cena, i tre salivano da noi afare quattro chiacchere. Luigi-no, che non aveva completatole scuole medie, faceva l’auti-sta per una ditta bresciana e amezzogiorno, spesso, era co-stretto a mangiare fuori di ca-sa. A questa circostanza – cidisse una sera – imputava i di-sturbi di stomaco che da qual-che tempo lo affliggevano.Mia moglie scrisse su un bigliet-to Lactobacillus Acidophi-

lus, «Domani va’ in farmacia e

fatti dare questa roba qua».La sera dopo, rincasando, miimbattei in Luigino. Dopo iconvenevoli di rito, «Roba damatti» mi disse, «stamattina hofatto quattro farmacie e nessu-na ce l’aveva quell’acido là». «Vieni su dopo cena e parlanecon Pia» gli dissi.Bevendo il caffè apprendem-mo che Luigino aveva perso ilbiglietto e, avendo memorizza-to (a modo suo), solo la secon-da parola, si era rivolto a duefarmacie di Brescia, una di Ca-stenedolo e una di Montichia-ri, chiedendo Acido Pilus!

L’angolo dei consigliVoi che vi lamentate continua-mente di non avere mai soddi-sfazioni dalla vita, volete unconsiglio? Portate scarpe nu-mero 42? Compratene un paionumero 41.Dite che vi faranno male? Cer-tamente! Ma volete mettere lasoddisfazione quando ve le ca-verete?

L’angolodei ricordidi scuolaFranco Luchini

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IL FILO DI ARIANNAAPPUNTI SULLA

SALUTE MENTALE

«Sai qual è la differenza trauna puttana e una troia?» Fla-viana mi guarda con i suoiprofondi occhi lucidi, mi co-glie un po’ di sorpresa. «No,non la so»; «La puttana tornasempre a casa per pranzo». Mimanca il resto: «E la troia?».Mi restituisce lo sguardo stu-pito, come se tutto fosse perfi-no ovvio: «La troia è una zam-pa di dinosauro!», poi sorrideed è contenta di aver trovato ilfilo del pensiero che le sfuggecosì spesso dalle mani ed oraha iniziato come di consuetoad intrecciare le trame dellesue complicate evoluzioni diidee e immagini. Convivo conle sue bizzarrie da alcuni mesi,ma riesce sempre a lasciarmiinsoddisfatto di comprensio-ne, vuoto di senso, anche secredo che un senso, in quelloche dice, vi sia. Credo si rendaconto dell’effetto straniantedelle sue parole, si è perfinoinventata un nome per il suomodo di esprimersi, il lin-guaggio “Ufo”, frutto forse diuna misteriosa donazione so-prannaturale. Così spesso, daquando sono qui mi sento co-me l’invitato di Shakespeareche va al grande banchetto dellinguaggio e ruba gli avanzi,accontendandosi di buttarequalcosa nello stomaco.Eppure ho ancora fame e vor-rei capire.«Non so che cosa dico ma tut-to è complicato come un so-gno», aggiunge Flaviana comea voler gettarmi una bricioladi chiaroveggenza, ed ora si ri-corda di quando una settima-na fa le chiesi di dirmi che co-

sa fosse il sogno per lei. Stava-mo trattando l’argomento, vo-levo anche la sua opinione, no-nostante non avesse mai parte-cipato ad alcun nostro incon-tro. «Non so niente, a volte ve-do i defunti che vengono aconsigliarmi»; mi ha rivelatogià molto, la ringrazio.Giulio è particolarmente riccodi definizioni: «Il sogno è lagioia di chi dorme», con que-sto riassume un’ora di conver-sazioni sull’Interpretazione deisogni di Freud che ha aperto ilnostro dibattito sull’esperien-

za onirica. «Il sogno è il ripo-so della memoria», «il sogno èun’oasi in un deserto oscuro»,è così vivace e contento di po-ter intervenire con un sorriso.Ha una fervida immaginazio-ne, ci corregge quando sba-gliamo la sintassi italiana e sipremura di ritoccare la pro-nuncia di alcuni celebri pittorisimbolisti di cui ammiriamo leopere dedicate al sogno. I pa-puani temono di perdere lapropria anima durante la not-te se essa si allontana troppodal corpo, mi chiedo dove va-da l’anima di questi nostriospiti così interessanti. Cinziaci rivela che, dopo un sogno,non si è mai gli stessi di prima.Vorrebbe capire perché i no-stri desideri più nascosti si ri-velino solo di notte. È segnoche stiamo raccogliendo unpoco di interesse per l’argo-mento scelto. Scegliamo alloradi spaziare a largo giro, vorreiproporre spunti diversi, sti-moli nuovi, vorrei farli parla-re, raccontare di sé: facciamodel cinema, decido di mostra-re alcune pellicole: Eyes WideShut di Kubrick e Passion ofmind con Demi Moore. Que-st’ultima racconta la storia diuna donna che vive due vitediverse, il sonno è il momentoin cui passa da una vita all’al-tra, da una parte riveste il ruo-lo di una redattrice in carrieradi New York, dall’altra quellodi una affettuosa madre chevive nella campagna francese.Il problema che si pone è dicapire qual è il sogno e qual èla realtà. Ci chiediamo se ècosì facile distinguere le due

Un segretoche può essere

rivelato al mondoAlessio Pasquini

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Johann Heinrich Füssli (1741-1825),Titania e Bottom con la testa d’asino

(1793-94). Zurigo - Kunsthaus

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cose, perché alcuni incubi ciappaiono così reali e intensi.Quando qualcuno di noi in-terviene spontaneamente in-terrompendo il discorso perconfessarci un proprio sognoè buon segno, significa chesiamo riusciti a porre una buo-na domanda. Caterina sognaspesso di essere rincorsa da unuomo incappucciato che lavuole affettare con un’ascia,ma quando la raggiunge, anzi-ché colpirla, se ne serve perscavarle una fossa. Giulio in-contra spesso un angelo chevuole spingerlo giù da un bur-rone, Laura si trova invecemolte volte a metà di una lun-ga scalinata che non sa doveporta ed invece di salire si fer-ma a guardare le pareti colmedi dipinti ricchi di colori. Hocome l’impressione che non cichiedano nulla, non una spie-gazione, non una “lettura”delle loro esperienze notturne,è già un enorme risultato chetrovino l’interesse e il piaceredi descrivercele. Li guardomentre parlano e vedo che sientusiasmano se riesce lorotrovare l’immagine giusta, sesono capaci di ricordare dove

sono stati durante il sonno. Èlo stesso luccichio che passaattraverso il loro sguardomentre osservano i quadri diRedon, di Bosch, di Dalì, diFüssli. Si ritrovano quando ve-dono qualcun altro che ha ten-tato di dar “forma” ai proprisogni. Sì, perché il sogno hamolto a che vedere con la for-ma. Abbiamo parlato di Mor-feo, figlio di Ipnos, il Sonno, edella Notte. Del suo nome le-gato alle molteplici “forme”della sua manifestazione.L’aspirazione di dare al sognoun significato leggibile genera-le e lessicale, di oggettivarlo, ditrarne auspici, risposte, indica-zioni, conoscenza, si perde nel-la notte dei tempi. Con i nostrifedeli amici, operatori e utentiabbiamo ripercorso a granditappe la storia dell’interpreta-zione dell’esperienza oniricanel corso dei secoli, dalle po-polazioni primitive alle tribùdegli scienziati di oggi, affron-tando modalità di espressionedifferenti, dal cinema alla pit-tura simbolista, dalla letteratu-ra ai manuali scientifici. Tutta-via i sogni, per loro intrinsecanatura, continuano a sfuggire

una classificazione precisa. Adifferenza degli altri fenomenitrattati dalle scienze naturaliche sono verificabili da piùpersone, che persistono neltempo e che in condizioni pre-vedibili tornano a manifestarsi,i sogni possono essere osserva-ti solo da chi li sogna, riferitima non trasmessi direttamenteed, essendo irrepetibili, non sipuò esaminarli una secondavolta. Presentano insommadue aspetti del tutto contra-stanti: l’irriducibile soggetti-vità dell’esperienza e l’univer-salità della stessa. È singolare,considerato ciò, come nel no-stro dibattito siano sorti spes-so unanimi interrogativi: Cin-zia esprime un dubbio che è

di tutti: «Qual è il rapporto trasogno e realtà?»; leggiamo in-sieme che qualche secolo pri-ma Pedro Calderon de la Bar-ca si era posto lo stesso dilem-ma: «Se adesso mi rendo contodi dormire vuol dire che sognoquando sono sveglio», e anco-ra prima il filosofo cineseChuang Tzu narrava: «Sognaiuna notte, di essere una farfal-la, che svolazzava felice del suodestino. Poi mi svegliai e miaccorsi di essere Chuang Tzudi nuovo. Ma chi sono inrealtà? Una farfalla che sognadi essere Chuang Tzu, oChuang Tzu che immagina diessere una farfalla?». I nostriospiti sono affascinati dalle ci-tazioni, le ascoltano con atten-zione e ne riconoscono l’effica-cia, ci interrompono spesso, levogliono copiare nei loro ap-punti, sono avidi di curiositàstoriche e si appassionanoquando facciamo un po’ di an-tropologia, andando a cono-scere i costumi delle tribù in-diane e della Nuova Guinea.Questo ci aiuta a portare avan-ti il discorso, se riusciamo aproporre loro un sufficientenumero di stimoli prima o poi

il filo di arianna

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Henri Rousseau (1844-1910), Zingara addormentata (1897).New York - Museum of Modern Art.

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il filo di arianna

qualcuno del gruppo prende laparola per raccontarci di sé.Tutti sono concordi nella con-vinzione che i sogni siano co-me dei messaggi, ma da partedi chi? Forse noi stessi siamodei sogni. Scrive Jung: «Noinon sogniamo, siamo sognati.Siamo sottoposti al sogno, nesiamo gli oggetti». E questa èl’impressione di chi ce li haraccontati in questi mesi di se-minario. Sono descrizioni par-tecipate, entusiastiche, ricchedi immagini e fantasia e le pa-role che li regalano alla sferadel conscio si fanno mezzi do-minati, assoggettati da unaenergia creativa molto più va-sta ed incontrollabile. Giuliochiede al suo sogno di fargli vi-sitare l’Alaska, Francesca vedeboschi pieni di gnomi, France-sco assiste seduto su una sediaad una strana processione dicotolette crude che cammina-no di vita propria sul pavimen-to, Flaviana partecipa alla con-quista di Fort Alamo. I nostritaccuini d’appunti si riempio-no di visioni e racconti. Giunti alla fine di questa av-ventura, il nostro interrogativoè ancora una volta utilitario: ci

chiediamo se aver parlato cosìtanto di sogni ed incubi sia ser-vito a qualcosa. Ma come suc-cede spesso, nelle situazioni dispontanee risoluzioni, le rispo-ste arrivano prima ancora diformulare le giuste domande.Giulio ci dice di essersi accor-to di aver ripreso a sognare dalmomento in cui lo abbiamosollecitato a raccontare i suoisogni. Flaviana sembra ricor-dare in modo molto più detta-gliato le sue bizzarrie notturne,Cinzia prende la parola perringraziarci del nostro lavoro:da quando le abbiamo chiestodi raccontarci i suoi sogni sisente meglio, ci dice che è sta-ta un’esperienza terapeutica,un appendice significativa del-la sua analisi. Caterina hasmesso di fare il suo incubo ri-corrente: ora sogna la madreche la chiama per nome. Que-sto, è quasi inutile sottolinear-lo, va molto al di là di quantoci eravamo proposti all’iniziodi questo viaggio nel mondoonirico, e ovviamente ci rendeuna testimonianza importantee una conferma della validità edell’opportunità di un Gruppodi parola, che selezioni temi,

soggetti interessanti e stimoliadatti alla “parola”. Per perso-ne che solitamente presentanomolte difficoltà e resistenze aesprimersi, «tutto ciò che sipuò dire», diventa «una cosaessenziale da dire». «Enea, Ulisse, Dante sono sce-si all’inferno nel sogno, lo han-no raccontato con le immaginipiù vivide e colorate, poi, dal-l’inferno sono passati al Para-diso, e attraverso le loro de-scrizioni anche noi abbiamocercato di immaginarlo».«Anche noi, ogni volta che so-gniamo, scendiamo all’infernoper poi risalire in Paradiso»,precisa Flaviana, come se sitrattasse di un segreto che fi-nalmente può essere rivelato almondo.

P.s.: Ringrazio Francesco,Paola, Luana, Francesca, Pa-trizia che mi hanno permessodi dare il mio contributo algruppo e che hanno collabora-to attivamente alla riuscita deinostri incontri. Un grazie spe-ciale agli ospiti delle riunioni.Senza di loro, la nostra imma-ginazione sarebbe molto piùpovera. ■

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Henri Rousseau (1844-1910), Il sogno (1910). New York - Museum of Modern Art.A destra: Salvador Dalì (1904-1989), Viandanti notturni.

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TESTIMONIANZE

Alla fine degli anni Settanta permotivi professionali (assistentesociale di base) ebbi modod’incontrare Rosina e Bruto,una coppia di mezza età, senzafigli che, pensionati, rientrava-no da Roma, per trascorrere ilresto della vita a Pordenone,paese di origine della donna.Rimasi subito colpita dal “vi-setto” della signora Rosina,donna di statura minuta, ma diforte carattere. L’espressionesorridente del volto era ancorpiù illuminata dagli occhiettiscuri e vivaci.Il cambio di ruolo professiona-le agli inizi del 1992 (Coordina-tore del Servizio Sociale di ba-se) mi privò del rapporto diret-to con la coppia Rosina-Bruto.Rimanendo tuttavia nel medesi-mo settore di lavoro, ebbi mo-do di reincontrarli alcune volte:era bello vederli sempre uniti,nonostante l’avanzare dell’età ele mutate esigenze di vita.Nell’estate del 1995, durante lecelebrazioni per il ventennaledella morte di Pier Paolo Paso-lini organizzate da Cinemazero,assistetti alla proiezione del filmUccellacci e uccellini presso lasala intitolata al regista-poeta. Durante la scena dei “cinesi”,rimasi folgorata: riconobbi im-mediatamente nell’anziana chevestita di nero scendeva le sca-le, la signora Rosina.Il mattino seguente, ben ricor-dando il cognome della coppiadi pensionati prevenienti daRoma, telefonai alla signora Ro-sina, facendole i complimentiper la sua interpretazione nelfilm di Pasolini Uccellacci e uc-cellini: confermando la sua in-

terpretazione, fu piacevolmentesorpresa della mia scoperta.Alcuni giorni dopo Rosina fuben contenta di accogliermi incasa per soddisfare la mia im-paziente curiosità di come co-nobbe Pasolini e come entrò afar parte del cast di Uccellacci euccellini.Informai Cinemazero della“mia scoperta”. Si ipotizzava diarricchire le celebrazioni paso-liniane in corso, inserendoviuna serata con l’anziana Rosina,interprete “ritrovata a Porde-none” di Uccellacci e uccellini. Le visite successive in casa dellacoppia mi fecero approfondiregli anni in cui i coniugi eranoportinai al palazzo dove vivevaPasolini, in zona Eur. Con ilpoeta vivevano la cugina Gra-ziella Chiarcossi e la madre, Su-sanna Colussi. Fu proprio que-st’ultima a proporre a Rosinad’interpretare la parte della po-vera madre con un figlio picco-lo da sfamare e che il proprieta-rio della catapecchia, interpre-tato da Totò, voleva sfrattare: lacosiddetta scena dei “cinesi”,dove l’anziana si muove a picco-li passettini per la misera stanza,adibita a cucina e ingresso.Rosina accettò la parte, machiese una controfigura per la

discesa dalla scala: da quell’al-tezza non era certa di reggerela scena. Dei rapporti con la fa-miglia Pasolini ricorda partico-larmente la bontà della madre,ma soprattutto quella del «si-gnor Pasolini» che «era buonoe generoso con tutti, comunistie democristiani».In quel periodo Ninetto Davo-li frequentava quasi quotidia-nemente la casa del regista. Ilrombo di una grossa motoci-cletta annunciava il suo arrivo.Le sue impazienti e insistentiscampanellate infastidivanoBruto, marito portinaio di Ro-sina, che non riusciva ad ac-contentare Ninetto: il cancellonon si apriva immediatamente,come voleva Ninetto. I battibecchi tra i due erano al-l’ordine del giorno. GraziellaChiarcossi cercava di riconci-liarli, invitando Bruto a tratta-re Ninetto come uno di casa,ma con scarsi risultati.Rosina, nata a Pordenone in vi-colo del Campanile, dopo le pri-me scuole, iniziò a lavorare allaceramica Galvani di via Mazzini. Le condizioni ambientali dellafabbrica le procuravano mal distomaco e una specie di ecze-ma alle mani. Lasciò questo la-voro e raggiunse una cugina inSvizzera, per un posto di quar-darobiera. Dopo un po’ ditempo risentì negativamentedel “mangiare svizzero” e delclima. Consigliatasi con la fa-miglia a Pordenone, rientrò inItalia. Per un breve periodo fupure bambinaia presso i Contidi Porcia. Emigrò a Roma, do-ve svolse vari lavori, tra i qualila fattorina di autobus. Si spo-

Il signor Pasolini e la signora

RosinaDaniela Tommasi

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sò con Bruto. E continuò pervari anni la sua vita nella capi-tale, come portinaia assieme almarito in vari palazzi, nelle zo-ne di Santa Maria Maggiore,delle Piramidi. Per cinque annifu occupata nel palazzo di Pa-solini all’Eur. Ma i contrastitra il marito Bruto e NinettoDavoli costrinsero i coniugi acambiare ancora lavoro. Nell’incontro approfonditocon Rosina nel 1995, dopo lascoperta della sua partecipa-zione al film, si intendeva rea-lizzare una intervista televisivasulla sua storia, in collabora-zione con Cinemazero. Di que-sta possibilità Rosina era moltoentusiasta e disponibile. Il ma-rito Bruto sulle prime accettòle mie visite e interviste. Inveceal momento di realizzare la se-rata pubblica si oppose catego-ricamente e così non se ne fecenulla. Rosina lo giustificò di-cendo che era sempre stato unpo’ “asociale”.Nel 1997 il marito venne amancare. Nel 1998 mi rifeci vi-va con Rosina. Le riproposil’intervista a Cinemazero: fusubito d’accordo. Aveva alloraottantasette anni.Sfortunatamente nel novem-bre del 1998 si ruppe un fe-more. Fu ricoverata in Ospeda-le e ospite per un periodo diriabilitazione in Residenza Sa-nitaria e Assistenziale. Solo do-po Natale, al suo rientro in ca-sa potei farla conoscere perso-nalmente a Cinemazero. Sim-patico fu il primo incontro conAndrea Crozzoli, curioso e in-sistente per carpire e conosceretutti gli aneddoti di questo in-contro eccezionale con PierPaolo Pasolini. Alla presenzadel cineoperatore Mario Cattofu entusiasta nel ricordare glianni trascorsi nella casa del re-gista descrivendo vari aneddotie particolari degli amici e deipersonaggi che frequentavano

“il signor Pasolini”. E… cosìalla fine la signora Rosina potèavere una bella festa, in SalaPasolini, in onore alla sua pas-sata esperienza di “attrice”,grazie anche al Totò Fans Clubdi Pordenone.Quando raccontai la mia sco-perta a Graziella Chiarcossi,tra le altre cose mi confidò chedoppiò personalmente la vocedi Rosina nel film, in quantonon parlava molto bene il “dia-letto romanesco”.Rosina era contenta, quasi ras-serenata dei contatti ripresicon Graziella Chiarcossi, cherispose ad una sua cartolina diauguri. Il cibo e “i cinesi” han-

no avuto curiose coincidenzenella vita di Rosina. Non sem-pre facile fu il rapporto con ilcibo che era anche l’elementodominante per la povera fami-glia del film pasoliniano. Infat-ti la mamma “cantalenava” albambino di dormire in quantonon c’era niente da mangiare.E… ironia della sorte, a finescena, non poté nemmeno gu-stare un pezzetto di cioccolatocon cui erano fatti i nidi di ron-dine che la moglie aveva pre-parato per cena al marito.Attualmente Rosina Fantuzzivive a Pordenone (in via Ma-meli), in una casa del così det-to “quartiere cinese”! ■

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Rosina Fantuzzi con i soci del Totò Fan Club a Cinemazero, nel novembredel 1999. In alto: con Totò e Davoli nella scena del film Uccellacci e uccellini.

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«Addio Meduna, addio Non-cello, addio giochi e vita all’ariaaperta... ormai il Noncello e ilMeduna non sono più dei fiu-mi». Questo si legge, tra le altrecose, in un libro di Gianni Zu-liani, Gente di casa, pubblicatodalle Edizioni Concordia Settenel 1995. L’autore, nella conclu-sione del racconto intitolato «Ilfiume», afferma che solo qual-che pescatore si ostina ancora alanciare la lenza in acqua, e soloqualche sentimentale naturali-sta (specie a cui appartengo) siinteressa dell’avifauna acquati-ca. Zuliani termina il raccontofacendo sua la speranza di tantepersone affinché il fiume, anzitutti i fiumi, «possano tornarenostri, puliti e godibili, comeun tempo, per far rivivere un so-gno di tanti anni fa».Dei sogni ha recentemente par-lato Mario Vigiak a Oderzo, al-la mostra e presentazione del li-bro, edito dalle Edizioni Biblio-teca dell’Immagine, sulla storiadi Quadragono [studio di pub-blicità e comunicazione, e casaeditrice, Ndr], nato proprio aPordenone e che pochi specia-listi (tra cui lo stampatore diquesta rivista Carlo Sartor) epochi altri conoscono. Tra i po-chi altri è compreso, piaccia ono ai lettori dell’«Ippogrifo»,anche l’ex sindaco di Pordeno-ne Alvaro Cardin, sempre at-tento a quanto succede a Por-denone, in particolare nel setto-re grafico-pubblicitario. Vigiak, durante l’inaugurazio-ne (era presente, tra gli altri,anche l’architetto pordenoneseGiorgio Raffin), ricordandoquell’esperienza e confrontan-

dola con il “tran tran” dei no-stri giorni, ha affermato chesente nostalgia della vita diqualche decennio fa, perché,allora, si poteva ancora sogna-re. Che significava, nel 1970 –all’epoca dei primi vagiti diQuadragono insediatosi poi aConegliano, partire e andare acercare di continuare il lavorodi notte, dopo aver posato lematite (il computer e l’informa-tica le conosceva solo EnnioChiggio, che, quando lo anda-vano a trovare a Padova, ci fa-ceva una testa così sul futurodell’elettronica). Per chi non sachi era Chiggio preciso che sitrattava di un operatore del set-tore del design che faceva par-te anche del Gruppo Enne, al-tro studio di riferimento delNordest che si occupava di ar-te figurativa d’avanguardia. Perchi non ha memoria storica delGruppo, ricordo che si occu-pava dell’arte programmata,

quella, semplificando, dei gio-chetti ottici, più volte grossola-namente inserita all’internodella categoria “Optical” deiquadretti bianchi e neri, e cheaveva riferimento importantenella Galleria Danese a Milano,a pochi passi dal Teatro allaScala, dove esponevano ancheBruno Munari ed Enzo Mari.Oltre ad andare a trovare Chig-gio, che si occupava anche dielementi d’arredo futuristicicon la ditta friulana Nikol, lasera e la notte quelli di Qua-dragono potevano passarle alLido di Venezia, a casa di UgoPratt, dove si discorreva di tut-to, a cominciare dagli orizzon-ti sterminati della pampa. Siparlava di lavoro solo alla fine,

quando tutti eravamo suonati,e si accettava qualsiasi propo-sta reciproca, perché il sonnoaveva preso quasi del tutto ilsopravvento. C’ero anch’io inquel periodo in Quadragono,sì, Giulio Ferretti «quel de lebestioline del Nonsel» e dellefrasche, del Wwf insomma.Questa mia appartenenza aquel Gruppo, spesso ignorata,sono costretto a ricordarla conpetulanza ad ogni passo, maquasi inutilmente. Non possoinsistere nella lamentela per-ché, purtroppo, molto peggiodi me sta il mio amico RinoMaturi, anche lui “quadragoni-sta”, che, nell’ottobre del ’73,cessò di vivere in seguito di unincidente stradale dopo il pon-te del Meduna, mentre rincasa-va verso Valvasone. Questo scritto mi permette diricordare ai pordenonesi quel-le esperienze che possono tor-

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Propheta in Patria

Giulio Ferretti

Disegno di Giulia Ferretti

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nare solo nei sogni: Maturi nonc’è più, anche Hugo Pratt –che mi ha insegnato a prepara-re la pasta alla carbonara – sen’è andato e ci ha lasciato, ol-tre che i disegni, racconti inter-minabili d’avventure lontane, eanche indicazioni di caratterepratico. A Pordenone è un so-gno che certe esperienze comequella di Quadragono venganoriconosciute e ricordate. AdOderzo, a mezzora d’automo-bile, dove è stata organizzata lamostra, è invece realtà. In altriposti, se non altro, si registra-no i fatti più importanti che so-no accaduti e se ne tiene conto. Il mio sogno personale, quindi,è che ci sia giustizia, che i rico-noscimenti vadano veramentealle persone più valide dellacittà, senza dare niente di piùdi quello che si meritano: risul-tare, insomma, dei profeti inpatria. Altro sogno è che Por-denone smetta di vivere a com-partimenti stagni, pensandoche con le separatezze si possaottenere più del dovuto, e chele istituzioni si interessino aquanto succede in città ancheal di fuori delle loro manifesta-zioni ufficiali, che esse parteci-pino a quanto avviene fuori deiloro uffici, senza che lo si deb-ba ricordare a questo o quelfunzionario o politico, soppor-tando fastidiose anticamere. Piero Gaspardo, in un recenteeditoriale del «Gazzettino», ri-pete giustamente che occorro-no idee per far crescere il capo-luogo del Friuli Occidentale;questo vale comunque ancheper il suo giornale, che dovreb-be riuscire a dare il giusto spa-zio a tutti, niente di più e nien-te di meno, come detto sopra.Il sogno è che anche i giornalipossano far crescere una comu-nità, che riescano a trovare spa-zio per diffondere sempre tuttele notizie riguardo all’attivitàdei cittadini nei vari campi, per

dare un contributo positivo al-la crescita della città tutta. Ma un mio sogno ecologico si èavverato – e torno all’argomen-to iniziale (calmi pordenonesinon è una questione di soldi) –«Xe tornae le trute nel canal»,sono tornate le trote nelle ac-que della roggia Codafora. «Echi sene frega», mi immaginopossa essere la risposta del por-denonese-tipo, quello delle do-meniche fuori porta, la doman-da più comune del quale risul-ta essere: «Ti pagano?», a cuisegue l’altra più usata «Quantocosta?» e che a un’indiscrezio-ne aggiunge: «Mi raccomandonon fare il mio nome». Insomma, basta con le ameri-canate, tutto jet bombe e soldi.Pensiamo anche all’ambientein cui viviamo; gli amerikani,nostri principali referenti per icomportamenti di massa, l’am-biente lo curano a casa loro,mentre da noi ci scaricano lebombe in mare. Non sognohamburgher e Coca Cola e di-re “okej” continuamente e fu-mare Malboro light anchequando posso mangiarmi unasardella “in saor” e fare un cen-no col capo bevendo un no-strano Merlot. Mi piacerebbe anche osservaredal ponte, gratuitamente, insie-me a qualche passante, le trotee, finalmente, dal bordo dellaroggia Codafora lo posso dinuovo fare, dopo trent’anni discarico nel corso d’acqua di de-tersivi che oggi sono stati devia-ti verso il depuratore. Mi piacemeno dal ponte di Adamo edEva, sul Noncello, constatareche tutti i pesci che si vedono, oquasi, non sono trote ma i cosi-detti “squali”, i cavedani, checostituiscono una vera e pro-pria banda specializzata di ma-gna merda. Il detto pordenone-se «Te val manco de un squal delMeduna» (e il detto vale ancheper l’affluente Noncello) con-

ferma le particolari caratteristi-che del diffusissimo pesce. Conuno sguardo dal ponte si vedo-no però anche rare trote, maanche qui sono le “amerikane”,quelle degli allevamenti e dellerogge di San Vito, che sanno so-pravvivere anche in debito diossigeno nelle acque eutrofizza-te del fiume cittadino. Ah, che sogno, quella grandetrota marmorata, catturata daibracconieri con la corrente elet-trica, bollita e mangiata con lamaionese con i genitori e i fra-telli al Dopolavoro Ferroviario,all’epoca in cui era ubicato nelvecchio edificio in via Mazzini!L’altro sogno, quindi, è che aipordenonesi piaccia la propriacittà, e che, da domani, faccia-no di tutto perché Pordenoneridiventi quel bel posto cheera, con i grandi storioni nelfiume. Che significa farla ritor-nare un centro abitato circon-dato da acque limpide, quasitutte potabili pochi decenni fa,e che i cittadini ridiventino or-gogliosi del posto in cui si vive.Un luogo a misura d’uomo, ag-giungerei anche di donna e dibambino, dove la felicità nonsia solo conseguenza di mo-menti di consumo e/o esibizio-ne di ricchezza.

P.s.: Non è un sogno ma undesiderio: che da tutte le fonta-ne sgorghi acqua che si possabere, un po’ come è possibilenella maggior parte delle città,senza dover sborsare da millelire in su per un bicchiere d’ac-qua. Spesa che qualche anno fasembrava inimmaginabile eche oggi comincia a farsi senti-re nei bilanci familiari come labenzina; non per niente si co-mincia a parlare di “petrolizza-zione dell’acqua”, con Enti im-portanti indaffarati a sfruttarequesta risorsa che diventa sem-pre più preziosa. ■

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Warangal, Andhra Pradesh,

India. Settembre 2000

Carissimi Genitori adottivi deinostri bambini, ringrazio so-pratutto Iddio e poi anche voitutti perché finalmente sono ingrado di parlare del mio cin-quantesimo di Sacerdoziousando i verbi al tempo passa-to, anche se, per ora, prossimo.Ho un senso di grande sollievoe voglia di ricominciare qua-si… da capo. Infatti qui tutto procede a rit-mo intenso, inclusa la pioggiadel monsone che ha quasiriempito i pozzi, e gli studi deinostri bambini che hanno giàscritto gli esami del primo tri-mestre. Sono sicuro che anche voi sie-te di nuovo pronti a darci unamano perché vi sarete tuttipreoccupati di fare un po’ diferie per rallentare lo stress cheoramai pervade la vita di tuttigli italiani. Devo dire che pur-troppo, con l’aria di globaliz-zazione che tira sui cinquecontinenti, questa malattia stadilagando anche in India. Una volta si scriveva una lette-ra e ci si poteva rilassare un me-se prima di ricevere la risposta.Poi arrivò la posta “espresso”che ridusse la pausa a 15 gior-ni. Il fax, incluso il beneficiodel dubbio, richiese la rispostanel giro di una settimana. Poi iltelefono, inclusa la segreteriatelefonica, concedeva al massi-mo tre giorni di tempo. Orasiamo alla e-mail <[email protected]> e se la rispostanon arriva in due giorni parte ilmailer daemon cioè, una speciedi parolaccia che ti richiama al-

l’ordine, perché oramai è unobbligo viaggiare in tempi rea-li; cioè chi parla vuole la rispo-sta lì sui due piedi. Provare per credere; ma nonarrabbiatevi, perché io ho lavalvola di sicurezza dei mieivillaggi dove il tempo e calco-lato ancora a giorni e non a mi-nuti secondi o anche peggio. Per cui in questa lettera sonoarrivato a fare una considera-zione un po’ pessimistica sullasocietà in cui viviamo. Sono stato un mese in Italia, equando sono riuscito a starecon una persona il temposufficiente per tirare il fiato edaprire la bocca, la prima espres-sione che solitamente ne uscivaera: «Ma questa non è vita. Bea-to lei che vive in India».Ed allora in questi giorni hofatto una panoramica della no-stra vita in India e questi sonoi risultati. Oramai anche qui inIndia abbiamo molti casi evi-denti che illustrano il prover-bio usato dai nostri vecchi: «iltroppo stroppia». Pigliamo l’e-sempio del progresso: è andatotalmente avanti che ora tornia-mo indietro. Cinquant’anni fa, i contadiniche avevano un piccolo pozzo,riuscivano ad irrigare un fazzo-letto di terra dal quale tiravanofuori a sufficienza per vivere. L’irrigazione avveniva a mezzodi un grosso secchio tirato sudal fondo del pozzo con l’aiutodi due buoi, e, più o meno, senon proprio tutte, quasi tuttele famiglie mangiavano. Poi ar-rivò il progresso delle pompe.Prima quelle diesel poi quelleelettriche, ed i contadini co-

minciarono a coltivare l’illusio-ne di poter diventare ricchi: in-fatti con una pompa potevanoirrigare non un acro ma dieciettari: venti volte tanto. Cosìdove c’era un pozzo ne venne-ro scavati dieci, e dove il pozzoera profondo dieci metri, ven-ne approfondito a venti, ed in-vece di una secchia d’acqua alminuto l’acqua venne pompataad ettolitri al secondo, in mo-do che tutto il sottosuolo ven-ne prosciugato e la falda acqui-fera praticamente esaurita.Con l’avvento delle trivelle ilprocesso venne ripetuto finoalla profondità di cento metri,ed al punto che anche l’acquada bere è diventata un generedi lusso. Siccome nelle nostrevicinanze non ci sono ne laghi,né ghiacciai, né fiumi perenni,l’unica speranza di salvezza èun’alluvione, un ciclone oqualcosa del genere. Insommaè proprio il caso di dire che iltroppo stroppia. Questa situazione influiscemoltissimo sulla vita dei nostribambini. La maggioranza deiloro genitori sono dei fuori ca-sta, cioè dei lavoratori a gior-nata nei campi, e quando neicampi non c’è lavoro, fanno lafame, e per salvarsi devonospesso emigrare nelle città do-ve almeno possono rimediarequalcosa nel mucchio dellaspazzatura. I bambini seguonoi genitori, e nei bassifondi del-le città si può imparare tutto,eccetto la scienza e la morale. Ma la vita dei nostri bambini ètoccata ancor più direttamentedal progresso selvaggio. Il progresso selvaggio ha porta-

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Il troppo stroppia

augusto Colombo

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to l’elettricità in tutti i villaggi.O meglio, ha portato trasfor-matori e fili elettrici in ognistrada e spesso in ogni capan-na. Chi vuole qualche ora di lu-ce gratis al giorno, non ha cheda connettere la capanna condue uncini e due fili elettrici,alla linea che passa sopra la ca-sa. L’elettricità è prodotta e di-stribuita dal governo e noi tuttisiamo il governo. Siccome tuttiprendono a volontà, quando lacorrente arriva, una lampadinada 100 candele al massimo illu-mina per dieci; ma è sempre lu-ce, e gratuita. Ed allorché lastazione di servizio distribuiscela corrente a turni, qualche oraqua, qualche ora là, nessuno saquando e come. Così il nonnodi un nostro bambino, mentrefaceva passare il filo elettricoattraverso la paglia bagnata deltetto della capanna, non videche il filo era vecchio e scoper-to; prese in mano il filo con lacorrente e si trovò scaraventatogiù dal tetto. Fortunatamentela capanna era alta solo duemetri, ed il vecchietto, invecedi rompersi l’osso del collo, sela cavò solo con una gamba rot-ta in due punti. Più seria fu la sorte di Devaiah,il papà della nostra bambina,

Rajarapu Lata. Il tecnico checura il trasformatore vicino acasa sua abita nessuno sa dove,e chi ha il coraggio di mettercile mani ha libero accesso ad in-terruttori, valvole, connettori,ecc. ecc. Il nostro bravo uomo,vedendo fiamme sul palo deltrasformatore, staccò i contattie salì sul palo per vedere di ri-parare il guasto. L’aveva fattoaltre volte, ma questa non sape-va che il giorno prima, il tecni-co aveva messo un ponte pereliminare un interruttore difet-toso. E così quando Devaiaharrivò in cima al palo e mise lamano sul filo, vi rimase attacca-to. Grazie a Dio era una fasesola e dopo pochi secondi lacorrente venne levata. Ma il pa-lo era alto cinque metri e la ca-duta gli mise fuori posto un gi-nocchio ed un’anca; in più ipochi secondi di scossa elettri-ca erano bastati a spelargli tut-to un braccio e la spalla. Io tiraiun respiro di sollievo quandodopo 15 giorni uscì dall’ospe-dale ancora vivo. Il progressol’aveva proprio stroppiato, omeglio, storpiato. Disgraziatamente un nostrobambino, o meglio, un nostroragazzotto, non fu altrettantofortunato. Nelle mie prediche,

alla domenica nei villaggi, rac-comando sempre caldamenteai bambini di aiutare i loro ge-nitori. Così feci nel villaggio diRampur il 16 Luglio 2000.Così il lunedì 17 luglio, BottlaArunkumar, anni 16, classedecima, non essendo andato ascuola perché pioveva a dirot-to, si prestò ad aiutare il papàa piazzare la pompa nel pozzo,per iniziare il trapianto del ri-so. Come al solito non c’eracorrente, e così il ragazzo siprese la libertà di staccare conle mani i contatti del motore atre fasi. Proprio allora arrivò lacorrente, eccezionalmente tut-te e tre le fasi: 440 volts. “For-tunatamente” il papà era lon-tano nei campi e così morì so-lo il ragazzo. Questa amara esperienza mi hafatto fare i commenti di questalettera in tono un po’ pessimi-stico. Ma qualche altro più ot-timista di me farà notare chetutti questi incidenti sono ilprezzo inevitabile da pagarsiper ottenere il progresso. Io vorrei invece che tutti i no-stri bambini arrivassero a co-struirsi una vita decorosa senzafarsi fulminare dalla correntein fondo ad un pozzo o in cimaad un palo. ■

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Un’immagine dall’archivio storico del Pime di una antica missione nell’Andhra Pradesh. A lato: un piccola tribale.

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Antonio Tabucchi – uno deimaggiori scrittori europei se-gnalato recentemente nel grup-po di autori che, secondo ungruppo di critici svedesi, meri-terebbe il Nobel per la lettera-tura perchè «ha scoperto i ner-vi dell’esistenza umana e li haseguiti, tra impulso e reazione,trascrivendo tutto questo caosin una prosa segnata daprecisione e bellezza» –sarà il protagonista di«Dedica 2001», la rasse-gna monografica che siterrà a Pordenone dal 3 al31 marzo, organizzata dal-l’Associazione per la Pro-sa di Pordenone, manife-stazione che da alcuni an-ni si è costruita un ruolo diprimo piano nel panoramadegli eventi culturali delNord-Est.Nato a Pisa nel 1943, Ta-bucchi ha compiuto glistudi nella sua città natale,laureandosi in lettere conuna tesi sul Surrealismo inPortogallo.Perfezionatosi alla Nor-male, attualmente inse-gna Lingua e Letteraturaportoghese all’Universitàdi Siena e si dedica allasua attività di romanzieree saggista.«Dedica» approda a Ta-bucchi dopo il successo dicritica e di pubblico ri-scosso nel febbraio scorsocon Dacia Maraini. Primadi lei i riflettori si eranoaccesi su Il LaboratorioTeatro Settimo, CesareLievi, la Compagnia I Ma-gazzini, Moni Ovadia e

Claudio Magris. Negli anni,«Dedica» è dunque approdataa scelte che permettono unpercorso culturale più ricco,fatto di generi diversi – teatro,cinema, musica – di linguaggiche si intersecanoNel 2001, l’articolato e sugge-stivo itinerario in undici tappesarà segnato all’esordio dalla

presentazione del libroDedica ad Antonio Tabuc-chi che si avvale di contri-buti prestigiosi di critici,scrittori, docenti. Oltreagli ormai abituali incontridel pubblico con l’autoree agli approfondimentiletterari, tra gli altri eventinon mancano appunta-menti con il teatro, deiquali anticipiamo la lettu-ra drammatizzata di Gian-carlo Dettori, interpuntatacon la voce registrata diGiorgio Strehler, de Gliultimi giorni di FernandoPessoa, allestito constraordinario successo nel’95 dal Piccolo Teatro diMilano. Grande spazioanche alla musica chechiuderà la rassegna, saba-to 31 marzo, con due si-gnore della canzone legateentrambe all’opera lettera-ria e al sentire di Tabuc-chi: la cantante portoghe-se di fado Bevinda, che aPordenone approderà conun “viaggio” particolarenell’opera di FernandoPessoa e Caterina Buenocon la sua ricerca musicalededicata ai canti popolaritradizionali e anarchicidella Toscana. ■

AVVENIMENTI

Dedica 2001

Associazione

per la Prosa

di pordenone

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Disegno di Rodolfo Sorato. In alto: A. Tabucchi.

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avvenimenti

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Hicetnunc

Angelo Bertani

Hicetnunc è nata dieci anni fa,nel 1992. Dieci edizioni sonomolte per una rassegna annua-le di arte contemporanea, se sitiene conto delle inevitabili dif-ficoltà organizzative e dellemolteplici resistenze che ha do-vuto superare. Ma dieci annisono pure pochi, se si conside-ra la necessità di dare seguitocon costanza e certezza meto-dologica ad una ricerca incen-trata sull’oggi, sul flusso tem-porale del presente, su un “quie ora” che di continuo deve es-sere ridefinito. Quando la rassegna ha avutoinizio, la situazione nella nostraregione era molto diversa perquanto riguarda l’attenzionenei confronti dell’arte contem-poranea. Le mostre organizzatedalle istituzioni museali eranoin prevalenza a carattere stori-co e solo poche, meritorie gal-lerie private o associazioni cul-turali presentavano opere in li-nea con le più attuali tendenzeartistiche. Ma non vi era anco-ra un progetto organico riguar-dante la ricerca, mancava unarassegna che potesse garantirecontinuità e coerenza all’analisitrasversale dei diversi linguaggiartistici. In tal senso Hicetnuncè giunta a colmare un vuotoculturale rispondendo ad un’e-sigenza di aggiornamento cheancora è più che mai sentita sianell’ambito degli artisti, sia inquello del pubblico attento allacultura della contemporaneità.Ora l’attenzione per l’arte delpresente è senz’altro più viva:le iniziative espositive si sonomoltiplicate, sono sorti nuovigruppi, sono nate nuove ras-

segne e sempre più spesso gliartisti si confrontano con ambi-ti espositivi non canonici, cioèstorici, naturali e urbani. Cre-diamo che oggi tutto ciò possaaccadere anche per merito del-la nostra rassegna, che ha aper-to la strada e ha esplorato nuo-vi territori. Nel corso di diecianni Hicetnunc, infatti, ha pre-sentato le opere di circa quat-

trocento artisti, ma soprattuttoha offerto a molti di essi la pos-sibilità di misurarsi con spazidi vaste dimensioni e di grandesuggestione (antiche architet-ture, edifici industriali, parchiurbani, centri storici) per poteresprimere al meglio le propriecapacità di relazione con lospazio vivo degli uomini in uninesauribile confronto dia-lettico con la storia e la cultura.Così facendo la rassegna hafatto emergere energie chemolto probabilmente sarebbe-ro restate per larga parte ine-spresse, ha dato voce a una ge-nerazione di artisti che altri-menti sarebbe rimasta quasi“invisibile” (se non altro a li-

vello istituzionale), ha contri-buito a creare un pubbliconuovo e allargato, attento esensibile anche nei confrontidelle proposte più innovative.Del resto l’obiettivo primario diHicetnunc da sempre è quellodi porre la questione stessa delpresente, della cultura dellacontemporaneità con la forzaespressiva delle immagini e piùin generale della creatività percontrastare l’apatia e la stri-sciante rinuncia allo spirito cri-tico. La rassegna pone in cam-po le ragioni dell’arte senza inu-tili ingenuità ma anche senzafumismi intellettualistici o fur-berie e per questo chiede cu-riosità intellettuale, capacità dimettersi in gioco, partecipa-zione convinta, non certo faciliconsensi. Hicetnunc non vuoledunque sollazzare con ridicolifunambolismi, scandalizzarecon inutili provocazioni, striz-zare l’occhio a chi si muove neltorbido dell’indistinto. Al con-trario, intende presentare consemplicità e schiettezza ciò chedi interessante e di sintomaticol’arte d’oggi va elaborando, aldi là di ogni classificazione, ge-nere, tendenza, moda, stile, tec-nica, opportunità, occasione,tematica e perfino divisione ge-nerazionale. In ogni caso, alla fi-ne, le opere dovranno risultaresignificative di per sé, non certoper il merito vano di qualcheetichetta, di qualche trovatina.E lo saranno per ciascuno di noimagari in un certo contesto, inun certo momento, anzi forseper un solo istante: ma sarà pro-prio l’istante irripetibile e asso-luto del “qui e ora”. ■

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L’AmiciziaCompagni di viaggio nel xxi secolo

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