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1 RIFORMA FISCALE E RICAPITALIZZAZIONE DELLE IMPRESE Profili economici 2

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RIFORMA FISCALE E

RICAPITALIZZAZIONE

DELLE IMPRESE

Profili economici 2

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RIFORMA FISCALE E

RICAPITALIZZAZIONE

DELLE IMPRESE

Seminario 2 marzo 1998

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E’ consentito l’utilizzo, anche parziale, del contenuto degli interventi riportati, purché venga fatto riferimento alla fonte ed al Convegno.

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Programma

- Saluto di apertura

Giuseppe Zanini Presidente C.C.I.A.A. di Treviso

- Attività e programmi camerali in tema di ricapitalizzazione delle imprese dott. Renato Chahinian Segretario Generale C.C.I.A.A. di Treviso

- Sistema fiscale e finanziamento delle imprese: verso una penalizzazione dell’indebitamento prof. Gilberto Muraro Università di Padova

- IRAP e DIT come strumenti per la ricapitalizzazione delle PMI

dott. Michele Zanette Università Ca’ Foscari di Venezia

- Considerazioni sugli aspetti economici ed operativi derivanti dai recenti interventi normativi in materia fiscale dott. Pierluigi Bortolussi Presidente Club Fiscale - Unindustria Treviso

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Saluto del Presidente della Camera di Commercio Giuseppe Zanini Porgo il saluto, mio personale e della Camera di Commercio, a tutti i presenti. Un saluto particolare ai relatori, al prof. Gilberto Muraro, ordinario di Scienza delle Finanze e già Rettore dell’Ateneo padovano, al dott. Pierluigi Bortolussi del Club Fiscale di Unindustria Treviso, al dott. Michele Zanette dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e naturalmente al dott. Renato Chahinian, Segretario Generale della Camera di Commercio, che ci illustrerà in dettaglio le attività che abbiamo realizzato e che stiamo realizzando in materia di credito e finanza d’impresa. A questo proposito, mi preme sottolineare come si tratti di questioni estremamente importanti, la cui corretta impostazione da parte di ciascuna azienda risulta essenziale se non addirittura vitale, tanto più considerando, da un lato, l’ormai prossima unificazione dei mercati finanziari europei, dall’altro, la crescente globalizzazione di quelli internazionali. L’incontro di oggi fa seguito alla realizzazione di una ricerca sui “Problemi finanziari e creditizi delle p.m.i.”, commissionata dalla Camera di Commercio alla Società Progest, i cui risultati sono già stati presentati in occasione di un Convegno tenutosi lo scorso 15 dicembre. Tale studio, condotto analizzando un campione significativo di aziende trevigiane, ha evidenziato una diffusa sottocapitalizzazione ed un altrettanto deciso e pericoloso ricorso al debito bancario, spesso a breve termine. Questo comporta, come conseguenza necessaria, l’assunzione di pesanti oneri finanziari. Si tratta di una situazione che sembra accomunare sia le imprese artigiane sia quelle medio-piccole. Solo spostando l’analisi alle imprese di maggiori dimensioni, si registra il tentativo, peraltro in molti casi riuscito, di cercare strategie finanziarie più complesse, più articolate e certo anche più vantaggiose. Non sono comunque esempi statisticamente abbastanza importanti da modificare il quadro complessivo e da giustificare un allentamento dell’attenzione su quello che rimane il problema generale, riassumibile in due parole: l’indebitamento bancario. Le ragioni sono molteplici e derivano sia da quella che può essere genericamente definita come la “cultura aziendale” tipica delle nostre imprese, sia dalla scarsità degli strumenti finanziari alternativi ed

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anche appetibili - in termini di costi diretti ed indiretti - messi finora a disposizione dal sistema bancario italiano. Un ulteriore importante motivo - e questo ci porta all’oggetto specifico dell’incontro odierno - va comunque senz’altro ricercato nella disciplina fiscale propria del nostro paese. Si può infatti ragionevolmente affermare che il ricorso all’indebitamento è stato storicamente favorito, se non addirittura determinato, dal fatto che, mentre gli interessi passivi erano completamente deducibili dalla base imponibile, il finanziamento con capitale di rischio è stato via via sempre più colpito dalla pressione fiscale sia attraverso forme di indetraibilità sia attraverso l’istituzione di specifiche imposte sul patrimonio netto. Al medesimo risultato conduceva inoltre il diverso trattamento riservato al reddito percepito a titolo di interessi, rispetto a quello percepito come dividendi, con soluzioni di netto vantaggio per il primo. Sappiamo che con la legge finanziaria del 1996 molte cose sono cambiate. Ad essa si deve infatti l’avvio di una completa ed articolata riforma dell’intero sistema fiscale finalizzata, tra l’altro, a promuovere la ricapitalizzazione delle imprese: a favore di quest’ultima sembrano infatti congiuntamente tendere sia la razionalizzazione delle imposte, sia il riordino della tassazione dei proventi da attività finanziaria. L’obiettivo del seminario odierno è proprio quello di capire come ed in quale misura detta riforma sia in grado di modificare la politica di reperimento delle risorse finora condotta dalle imprese, con un’attenzione specifica alle esigenze di ricapitalizzazione, esigenze - come abbiano detto - diffusamente presenti nelle aziende di minori dimensioni le quali, in maniera del tutto corretta, si stanno rendendo conto del fatto che l’assetto finanziario può effettivamente rappresentare un vero e proprio tallone d’Achille. Ai relatori il compito di chiarirci questi aspetti, evidenziando, da un lato, i contenuti più significativi del nuovo sistema impositivo, dall’altro, le possibilità che esso offre nella promozione di forme più mature e stabili di finanziamento. Prima di concludere, un grazie ancora ai relatori per aver accolto il nostro invito. La parola ora al dott. Chahinian.

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ATTIVITA’ E PROGRAMMI CAMERALI IN TEMA DI RICAPITALIZZAZIONE DELLE IMPRESE

dott. RENATO CHAHINIAN

Segretario Generale della C.C.I.A.A. di Treviso

Prima di entrare nel vivo dell'argomento di questo seminario, è opportuno richiamare quanto è già stato analizzato, nel convegno di dicembre, sui problemi finanziari delle nostre piccole e medie imprese e sugli strumenti pubblici a sostegno di uno sviluppo finanziario a livello locale. E, quindi, è il caso - molto brevemente - di tratteggiare un quadro sintetico di quello che sta facendo la Camera di Commercio nello specifico campo della ricapitalizzazione delle imprese. Ovviamente, delle imprese minori, cioè delle cosiddette piccole e medie imprese. Se per ricapitalizzazione intendiamo lo sviluppo del capitale di rischio, cioè la crescita del capitale proprio necessario allo sviluppo, cioè ancora di un capitale che, incrementandosi, permetta anche un aumento del capitale di credito e, quindi, uno sviluppo finanziario in grado di coprire i maggiori fabbisogni, che si determinano nell'impresa, nel momento in cui entra nella fase di un vero e proprio sviluppo aziendale, allora risulta evidente l’importanza di questo fattore per l’evoluzione economica della nostra provincia. Sappiamo tutti, però, che questo aumento di capitale di rischio è scoraggiato da varie norme che condizionano, soprattutto, le esigenze delle piccole e medie imprese. Basti pensare, ad esempio, ai mercati mobiliari locali, che erano già stati, da tempo, studiati e teorizzati e di cui già in altri Paesi esistono esperienze, e che da noi non sono decollati; anzi la loro regolamentazione è stata ulteriormente procrastinata. Su questi problemi, la Camera di Commercio, ovviamente, non può incidere direttamente, ma può solo fare delle proposte ed un’opera di sensibilizzazione, come ha fatto, anche attraverso la costituzione di una Società per la gestione dei mercati locali. Società che attualmente - appunto - non è potuta decollare, proprio perché questi mercati mobiliari non sono stati effettivamente istituiti. Ma, al di là di questi problemi, in cui la Camera di Commercio tenta di fare qualcosa ma, ovviamente, può influire solo marginalmente, essa ha dato vita e sta dando vita ad altri servizi, che riguardano più direttamente le imprese, soprattutto per renderle più preparate nelle

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difficili scelte per quanto riguarda l'approvvigionamento del capitale di rischio. In realtà, già è stata presentata nel convegno di dicembre una ricerca, condotta dalla Progest, con il coordinamento del professor Bresolin, sulle tematiche della piccola e media impresa e sulle difficoltà che hanno le PMI trevigiane a reperire un capitale di rischio soddisfacente. In più, questa occasione odierna di formazione costituisce un ulteriore passo verso una migliore conoscenza delle problematiche fiscali che, anche per questa via, ci permettono di programmare meglio le scelte finanziarie ai fini, sempre, di un incremento del capitale di rischio, considerato che, ora, le agevolazioni fiscali stanno mutando direzione in favore di tale tipo di capitale. Altri incontri sono in programma, tra cui, prossimamente, uno riguarderà le problematiche economico-finanziarie delle imprese, in relazione all'introduzione dell'Euro. E anche in questo campo, ovviamente, il problema della capitalizzazione delle imprese sarà uno dei temi principali, anche in relazione alle sfide, competitive delle aziende europee certamente meglio strutturate pure sotto l’aspetto finanziario. Inoltre, sotto l'aspetto dell'informazione e della consulenza, è da tener presente che la Camera ha aderito recentemente ad un Consorzio Nazionale tra le più grandi Camere di Commercio italiane, per il coordinamento dei mercati locali e dei servizi innovativi alle imprese. Attraverso questo Consorzio, prossimamente, sarà disponibile la pubblicazione di una guida operativa molto specifica, sugli strumenti finanziari a disposizione delle piccole e medie imprese per l'accesso al capitale di rischio, inoltre uno sportello telematico, che offrirà una prima consulenza di base su questi problemi, ed infine iniziative di assistenza formativa sui temi della finanza che riguardano le piccole e medie imprese. Inoltre, sotto l'aspetto della promozione, verrà avviato un repertorio mobile delle aziende da monitorare sui temi finanziari. In altre parole, verranno monitorate alcune imprese che, ovviamente, hanno una certa capacità di sviluppo, per poter tenere sotto controllo i loro principali parametri standard, ai fini, poi, di una successiva quotazione oppure di facilitare l’accesso a degli strumenti finanziari evoluti della finanza internazionale. Per finire, diciamo che tutte queste sono iniziative che riguardano la ricapitalizzazione delle imprese. Ma la Camera di Commercio, parallelamente, sta portando avanti altre iniziative di tipo più tradizionale, ma comunque valide, per lo sviluppo del mercato del credito. Tra queste, abbiamo: i contributi ai consorzi fidi, che

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ultimamente si sono arricchiti di un'altro supporto per quanto riguarda l'aiuto ai fenomeni dell'usura; uno sportello informativo in progetto sulle agevolazioni per le diverse problematiche relative agli investimenti aziendali; concorsi annuali finalizzati alla concessione di agevolazioni in conto capitale, per particolari tipi di investimenti innovativi, quali possono essere quelli relativi alla qualità ed all'ambiente. Per il futuro, è in progetto - anche se sarà difficile e, comunque, lungo attuarla - la realizzazione di analisi settoriali, in grado di indicare le principali linee di sviluppo dei diversi settori che dovrebbero fungere da guida, non solo per i futuri investimenti nelle imprese, ma anche per la valutazione, poi, che gli istituti di credito possono fare, ai fini dell’individuazione della capacità di credito delle imprese stesse. Infatti, in questo modo, se effettivamente si riuscirà a disporre di programmi generali, in grado di indicare quali siano gli investimenti che hanno migliori prospettive, ai fini di uno sviluppo settoriale, anche le analisi di fido delle banche potrebbero essere più propense a valutare una capacità di credito futura, cioè orientata sulle possibilità di sviluppo future dell'impresa, e non sulla sua situazione attuale. Speriamo di riuscire nell’intento.

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SISTEMA FISCALE E FINANZIAMENTO DELLE IMPRESE: VERSO UNA PENALIZZAZIONE DELL’INDEBITAMENTO

prof. GILBERTO MURARO

Ordinario di Scienza delle Finanze - Università di Padova Il sistema fiscale influenza il finanziamento delle imprese sotto il duplice

profilo del livello e della forma del finanziamento stesso. Le due influenze sono spesso intrecciate, poiché il trattamento tributario di un particolare canale finanziario, oltre che modificare per definizione la convenienza relativa di detto canale rispetto agli altri, può incidere in modo non trascurabile sull’equilibrio del mercato dei capitali e quindi sul costo in generale del finanziamento (in astratto, vi incide sempre, anche se spesso l’effetto pratico può essere considerato irrilevante per la scarsa quota di mercato interessata al canale finanziario colpito). Per semplicità espositiva, le due influenze si considerano inizialmente separate, salvo tentare una sintesi finale.

1. Fisco e risparmio

Il tema del livello complessivo di finanziamento disponibile per le imprese chiama in causa gli aggregati e le variabili di aggiustamento del sistema macroeconomico: reddito, consumo, risparmio, investimento, saggio d’interesse, ecc.

L’analisi può essere semplificata considerando un’imposta generale sul reddito. Dato un certo reddito, tale imposta può in alcuni casi indurre il contribuente a limitare i consumi, perché egli si è posto un obiettivo di accumulazione patrimoniale che è rigido nel livello e nel tempo. Più spesso, tuttavia, l’effetto è ripartito tra consumi e risparmi, e anzi cade sui secondi più che sui primi, che sono a volte incomprimibili per il basso livello o che non vengono comunque compressi per la volontà di mantenere lo standard relativo di vita raggiunto.

Si intuisce quindi come la tassazione sul reddito, specialmente se fortemente progressiva, faccia diminuire l’offerta di risparmio e aumentare il costo del finanziamento per le imprese. Essa induce una rarefazione del risparmio che si indirizza al sistema economico interno anche attraverso l’esportazione di capitale verso i paesi a minore pressione fiscale. Infine, essa stimola l’evasione.

D’altro lato i servizi pubblici sono essenziali per lo sviluppo economico, e la tassazione sul reddito è una forma efficiente, oltre che equa, di finanziare lo Stato. A parità di spesa pubblica, infatti, le imposte indirette trasferiscono comunque lo stesso potere di acquisto dai privati all’erario e in

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più creano distorsioni nell’uso dei fattori produttivi che riducono l’efficienza del sistema.

Né appare convincente, nonostante l’autorevole appoggio di Einaudi, la tesi della doppia tassazione del risparmio che sarebbe implicita nella tradizionale imposizione sul reddito: la prima colpendo il reddito originario, ossia colpendo in modo uniforme il consumo e il risparmio che da quel reddito promanano; e la seconda colpendo i frutti del risparmio stesso. Vale infatti l’obiezione che il risparmio non è fruttifero di per sé ma produce nuovo reddito solo in quanto partecipa ad un nuovo ciclo produttivo che si avvale anche dei servizi pubblici; e per il finanziamento di tali servizi è giusto colpire tutto il reddito di questo secondo ciclo, quindi anche il frutto del risparmio. Senza contare che molti consumi sono necessari a mantenere e sviluppare quel capitale umano che produce nel successivo ciclo il reddito da lavoro; sicché, se si dovesse esentare dall’imposta il risparmio, limitando l’imposizione al reddito consumato, bisognerebbe anche esentare la parte considerata necessaria dei consumi. Ma lo Stato moderno non può finanziarsi solo colpendo i consumi superflui, e quindi bisogna concludere, come osserva Steve1, che se doppia tassazione c’è, essa c’è per gran parte dei consumi e non solo per il risparmio, e quindi non si vede motivo di invocare per questa via un “diritto” all’esenzione del risparmio.

Il problema non sta quindi nella tassazione sul reddito e di conseguenza sul risparmio e sugli interessi, bensì sul rapporto tra quanto i cittadini danno allo Stato e quanto dallo Stato ricevono. E qui sì è opportuno seguire l’insuperata lezione di Einaudi, che parlava di imposta economica e di imposta grandine e di imposta taglia per caratterizzare tre tipi emblematici di azione pubblica: quella virtuosa, che ha una resa in servizi superiore al prelievo, così incrementando il reddito e il risparmio e facendo diminuire il tasso d’interesse; quella che nulla rende in cambio del sacrificio del contribuente, così riducendo lo sviluppo e incrementando il saggio d’interesse; e quella che addirittura provoca danni addizionali rispetto al prelievo monetario2.

In Italia lo sviluppo c’è stato, ma il contributo dell’azione pubblica a tale riguardo trova ben pochi sostenitori. Molti anzi sostengono che il Paese si sé sviluppato nonostante il peso dell’apparato pubblico: peso fiscale diretto; peso fiscale indiretto, legato ad un sistema impositivo mutevole, complicato, esigente, che obbliga a ricorrere al consulente perfino per gli adempimenti

1 Cfr. STEVE S., Lezioni di Scienza delle Finanze, VII edizione, Cedam, Padova, 1976, pp.299-306. 2 Cfr. EINAUDI L., “Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta” (1919), rist. in Saggi sul risparmio e l’imposta, Torino, 1958, p. 181.

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minori; peso dell’apparato regolamentare (i 24.000 miliardi di costo per le imprese italiane derivante dai tanti lacci burocratici, di cui parla una recente stima); sprechi in determinate zone e strozzature per mancanza di investimenti collettivi in altre zone, in particolare nel Nordest, come si sa per quotidiana vita vissuta, ecc.

Nel lungo e convincente quaderno delle doglianze va sottolineato, nel campo che stiamo esaminando, l rastrellamento del risparmio operato dallo Stato nell’ultimo trentennio, specialmente a partire dagli anni ’80. Sono gli anni in cui il debito pubblico tocca e supera la soglia del 60% sul Prodotto interno lordo e il tasso di interesse reale diventa ben superiore al saggio di crescita reale dell’economia.

La cultura di Maastricht ci rende oggi consapevoli che il 60%, pur con tutti i limiti di una regola spacciata per generale a dispetto delle peculiarità di ogni situazione storica, va visto come una soglia di pericolo per la tenuta della moneta e della finanza pubblica. Il pericolo aumenta quando il debito sia stato creato non a fronte di investimenti che nel lungo periodo si ripagano attraverso un aumento della capacità produttiva del Paese, bensì per consentire di andare avanti con spese correnti superiori alle entrate correnti. E tale era il caso dell’Italia, già allora, con la rapida dilatazione della spesa sociale non compensata da un pari aumento di pressione fiscale. I risparmiatori, che dal 1974 erano stati sfruttati pesantemente con saggi d’interesse nominale inferiore al saggio d’inflazione (erano gli anni del rapido aumento dei prezzi indotto dalle crisi petrolifere del ’74 del ’79), cominciano a prendere familiarità con l’inflazione e a cautelarsi. Dal 1981 il governo, per continuare a piazzare i titoli del debito pubblico, è costretto ad accettare un brusco aumento dei rendimenti su tali titoli, con tre conseguenze.

La prima è che i risparmiatori diventano una categoria privilegiata, anche se costretti a vivere nell’angoscia sulla capacità dello Stato di onorare gli impegni assunti.

La seconda è che il debito pubblico aumenta più di prima, perché non cessa la spinta del disavanzo corrente trainato dalla dinamica della spesa sociale e inoltre si manifesta la forte spinta dei pagamenti per interessi (in mancanza di un immediato risanamento della finanza pubblica, il debito comincia ad autoalimentarsi fino a raggiungere il massimo del 124,% del Pil nel 1994, da cui scende al 121,6% a fine 1997, mentre continua ancora oggi a crescere in valore assoluto data la persistenza di un deficit annuale, sia pure inferiore al fatidico 3% del Pil imposto dal Trattato di Maastricht).

La terza conseguenza è che il costo del denaro diventa elevato per le imprese, aggravando la situazione di quelle indebitate e di quelle nuove o in fase di espansione che hanno bisogno di credito. E tale problema rimarrà grave fino ai giorni nostri, quando il risanamento della finanza pubblica

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riesce finalmente ad abbassare il saggio d’interesse reale, anche se ulteriori riduzioni appaiono auspicabili e possibili.

Per le imprese il problema è aggravato dai tassi penalizzanti che incontrano nell’indebitamento sul sistema bancario, a causa della insufficiente concorrenzialità di tale sistema. Appare infatti come uno dei patti non scritti ma più osservati negli ultimi decenni di storia patria quello che ha legato le autorità monetarie e le banche: le seconde impegnate ad assecondare la grande domanda di risparmio da parte dell’operatore pubblico, anche accettando in certi periodi vincoli severi sulla dinamica delle operazioni con i loro clienti, e le prime impegnate a proteggere la struttura e le regole di comportamento di un grande oligopolio contro gli attacchi concorrenziali endogeni o esogeni. E bisognerà arrivare agli ultimissimi anni per vedere un forte rimescolamento interno nel sistema bancario italiano alle prese con lo scenario competitivo derivante dalla prospettiva dell’Unione monetaria.

Nel diventare il grande rastrellatore del risparmio nazionale, lo Stato cerca di darsi carico anche del problema delle imprese e aumenta il numero e il livello degli interventi agevolativi, a volte sul fronte fiscale ma più spesso sul fronte creditizio, in tal modo configurandosi come Stato-banchiere. E’ un ruolo anomalo, che allunga e rende più costoso il circuito tra risparmio delle famiglie e investimento delle imprese, che sostituisce alla imparzialità e celerità dei rapporti di mercato la discrezionalità e la lunghezza delle istruttorie attuate o guidate dalla mano pubblica, che è inevitabile fonte di abusi, privilegi, corruzioni e concussioni. Ma a nulla valgono le aspre critiche di molti autorevoli studiosi, a cominciare da Mario Monti, poiché è evidente come tale ruolo sia anomalo rispetto ai canoni del buon governo ma sia invece funzionale, oltre che alle esigenze del finanziamento illegale di numerosi esponenti e gruppi politici, alle esigenze del consociativismo.

Pure su questo fronte, è solo con il cambiamento di cultura politica e di classe politica avvenuto nell’ultimo quinquennio, grazie anche e forse soprattutto alla disciplina sulla concorrenza imposta dalla Comunità Europea, che si inizia a invertire la rotta.

Nell’anzidetto scenario dominato da variabili extratributarie, come ha giocato il fisco? In estrema sintesi, la storia fiscale del nostro Paese dopo dalla riforma del '73-74 ad oggi vede una iniziale impostazione strategica corretta, date le previsioni allora dominanti sull’evoluzione strutturale dei sistemi economici, che però comincia subito a deviare per la crescita puramente nominale degli imponibili nel periodo della forte inflazione iniziata nel 1974, e che cozza presto contro l’inadeguatezza dell’apparato amministrativo.

L’aumento delle imposte dirette rispetto alle indirette era il principale obiettivo della riforma; ma la loro crescita accelerata nel primo decennio di

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applicazione, sfruttando l’inasprimento automatico in inflazione dell’Irpef in quanto imposta progressiva sul reddito nominale, è responsabile di una crisi di rigetto che ha impedito di assimilare i valori etici di tale imposta, ha rafforzato l’esportazione di capitale, ha impedito la diffusione generalizzata della condanna morale dell’evasione che è invece un connotato fondamentale di altri sistemi tributari (e se al fatto delle aliquote troppo alte si aggiunge il cattivo uso pubblico del gettito tributario, si comprende come l’evasione tributaria sia stata da più parti considerata non solo perdonabile ma addirittura provvidenziale quando essa andava ad alimentare l’autofinanziamento di tante piccole imprese che hanno consentito al Paese di svilupparsi nonostante gli ostacoli creati dall’assenza o dall’inefficienza dell’intervento pubblico).

Da questo punto di vista è da approvare la recente riforma dell’Irpef che ha abbassato al 46% l’aliquota marginale massima, al contempo regolando il trattamento fiscale all’estremo inferiore attraverso un aumento delle detrazioni che più che compensano per i redditi bassi l’aumento dell’aliquota nel primo scaglione (anche se ciò non è stato da tutti ben compreso). Mi si consenta al riguardo l’autocitazione di un mio intervento del 19813, in cui dichiaravo quanto segue.

“Ritengo che un ragionevole campo di variazione delle aliquote debba essere incluso tra il 20% e il 50%. Non conviene andare sotto perché del problema dei bassissimi redditi bisogna tener conto attraverso le deduzioni e non abbassando oltre misura l'aliquota marginale; e sopra il 50% non conviene andare perché significherebbe semplicemente autoingannarsi: salvo casi rari che confermano la regola, aliquote maggiori i contribuenti non le pagano, pagano piuttosto i consulenti perché trovino vie più o meno legali di evitare tale tassazione, e lo fanno con la coscienza tranquilla di evitare non già un giusto debito tributario ma un'autentica vessazione4. Meglio dunque

3 Cfr. MURARO G., “L’imposizione personale in un contesto inflazionistico”, in MOSCHETTI F. e MURARO G. (a cura di), Inflazione, bilancio e fisco, Cedam, Padova, 1982,pp. 75-91citazione:pp. 89-90). 4 Del resto lo stesso legislatore è costretto a tener conto di queste reazioni, sicchè, anche all’estero, l’imposta personale con alte aliquote si accompagna di fatto a trattamenti preferenziali - nei confronti dei guadagni di capitale finanziario e delle spese deducibili - di cui si giovano soprattutto i contribuenti più agiati e che hanno l’effetto di diminuire notevolmente l’aliquota effettiva rispetto a quella nominale: ma in tal modo si rinuncia a quel carattere onnicomprensivo dell’imponibile dell’imposta personale e a quella trasparenza nel rapporto tributario che sarebbero invece essenziali per perseguire i conclamati obiettivi di ridistribuzioni senza creare discriminazioni indesiderate. Si vedano al riguardo le magistrali osservazioni di Sergio Steve (Lezioni di Scienza delle Finanze, cit., pp. 312-317).

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puntare ad una progressività ridotta, che abbia maggiori probabilità di essere applicata.”.

A distanza di 17 anni, annoto con soddisfazione che l’auspicio si è realizzato.

Si può quindi concludere questa succinta analisi macroeconomica osservando che il finanziamento delle imprese è stato in passato penalizzato dal rastrellamento del risparmio fatto dallo Stato, dal conseguente forte saggio d’interesse (che nei riguardi delle imprese debitrici del sistema bancario saliva a livelli ancora più penalizzanti per la scarsa concorrenzialità di tale sistema) e dalla forte progressività dell’Irpef. Sotto tutti questi profili la situazione è migliorata e promette ulteriori miglioramenti grazie al risanamento in atto della finanza pubblica e grazie alle innovazioni strutturali e comportamentali indotte dal processo di unificazione monetaria europea.5

2. Fisco e forme di finanziamento delle imprese nel recente

passato. Passando ora a considerare le modalità di finanziamento dell’impresa in

rapporto al sistema fiscale, si sa che il canale relativamente privilegiato è stato costituito in passato dall’indebitamento rispetto all’aumento del capitale di rischio.

Il fenomeno non è di ovvia spiegazione, perché le considerazioni appena svolte sulla scarsa concorrenzialità e gli alti tassi d’interesse del sistema bancario italiano tenderebbero semmai a giustificare un comportamento delle imprese opposto a quello registrato.

2.1. Gli aspetti extrafiscali I fattori esplicativi sono di natura fiscale e di natura extrafiscale.

Consideriamo dapprima questi ultimi, distinguendo tra imprese quotate in Borsa, imprese quotabili e imprese non quotabili.

Le imprese quotate appaiono propense per definizione all’acquisizione di capitale di rischio. Ma fino a poco tempo fa esse non trovavano un’ampia offerta di capitale: La propensione all’investimento in borsa dei risparmiatori è stata infatti sempre scarsa in Italia rispetto al livello di ricchezza raggiunto dal nostro Paese, per due motivi: l’insufficiente diffusione della “cultura di Borsa”, a sua volta legata, in un circolo vizioso, al basso numero di imprese quotate; e il fondato sospetto degli azionisti minori (il parco buoi, secondo il lessico di borsa) di poter essere manovrati disinvoltamente dagli azionisti detentori del potere societario. Data a circa vent’anni fa l’inizio di una lenta 5 Per approfondimenti sulla recente storia economica del Paese, cfr. DE ROSA L.,Lo sviluppo economico dell’Italia dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma e Bari, 1997.

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sequenza di miglioramenti, con la creazione di un organo di controllo, la Consob, con le nuove norme sull’Opa, con la istituzione di nuovi strumenti di raccolta e gestione del risparmio, quali i Fondi d’investimento aperti. Queste innovazioni contribuirono ad attrarre parecchio risparmio in Borsa già verso la metà degli anni ‘80. La crisi di borsa del 1987 funzionò per qualche tempo da deterrente ma servì anche a sollecitare nuove regole, più giuste ed efficaci., che in effetti sono state introdotte negli anni ‘90.

Meglio ora di prima, dunque, ma il ritardo va sottolineato, e serve allo scopo il sintetico giudizio di Tommaso Padoa-Schioppa che, dopo avere spiegato la necessità di un “insieme di regole volto a far sì che chi ha l’effettivo controllo dell’impresa operi nell’interesse della generalità degli azionisti, senza privilegiare i controllori a danno degli altri”, testualmente scrive: “Questa esigenza venne avvertita negli Stati Uniti nella prima metà del secolo; nell’Europa continentale solo molti decenni dopo. L’Italia a tutto ciò giunse particolarmente tardi: la legge sulla concorrenza è del 1990, quella sull’insider trading del 1991, quella sulla Borsa come mercato del 1996, le norme di correttezza sulle gestioni nascono solo ora”6.

Per le società che potrebbero entrare in Borsa, l’ostacolo è rappresentato spesso dai timori dei maggiori costi di gestione, poiché aumentano gli adempimenti societari necessari, dai timori della maggiore trasparenza richiesta e del maggiore controllo sociale sulla vita aziendale, dai timori di perdere la rapidità gestionale. Si tratta, insomma, di timori più o meno fondati che in ogni caso denunciano un problema di capitalismo non ancora maturo e la cui soluzione implica un processo di crescita della cultura aziendale che si prospetta lungo, in particolare nelle aree, come la nostra, in cui domina l’azienda familiare.

Per le imprese che, a causa della ridotta dimensione e dell’instabilità, non possono ipotizzare l’entrata in Borsa, il ricorso all’indebitamento anziché alla raccolta di capitale di rischio appare come una necessità e non una preferenza, data la difficoltà di rapportarsi direttamente ai risparmiatori. Una risposta a questo problema doveva venire dai Fondi mobiliari chiusi, istituiti con L.86/94, modificata dalla L. 503/95. Essi tuttavia non hanno sin qui avuto successo, forse per l’insufficiente flessibilità dei rapporti tra Fondo e sottoscrittori.

Per riassumere, sul fronte extrafiscale si trovano abbondanti spiegazioni del ritardo e dell’insufficienza del ricorso al capitale di rischio da parte della imprese italiane, sia dentro sia fuori della Borsa; e gli innegabili progressi registrati su questo fronte non significano che tutta la strada delle riforme istituzionali e della diffusione di un’adeguata cultura finanziaria sia già percorsa. 6 Cfr. PADOA SCHIOPPA T., Il mercato e la legge, La Repubblica, 1.3.1998.

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2.2. Gli aspetti fiscali Ciò non toglie, tuttavia, che anche il fronte fiscale contribuisca a spiegare

in modo significativo il fenomeno in esame. E questo vale anche dopo la legge Pandolfi del 1977 che introdusse il credito d’imposta sui dividendi azionari e così eliminò la più vistosa penalizzazione del capitale di rischio rappresentato dalla doppia imposizione del dividendo (una prima volta tassato come reddito d’impresa e una seconda volta come reddito dell’azionista); oltretutto, eliminazione completa rispetto all’Irpeg ma inoperante rispetto all’Ilor. E questo vale anche tenendo conto che le plusvalenze azionarie, le quali riflettono dal punto di vista economico gli utili non distribuiti oltre che gli incrementi di utile attesi per il futuro, non sono state sin qui tassate, tranne un brevissimo periodo7, mentre gli interessi pagati agli obbligazionisti erano colpiti dall’imposta sostitutiva.

Fino alla riforma Visco del ’98, resta infatti nettamente prevalente il vantaggio comparato dell’indebitamento, sotto due profili: a) la deducibilità degli interessi passivi per l’impresa, che riducono il costo

effettivo del debito per l’impresa stessa di una percentuale pari all’aliquota ( con un’Irpeg al 37%, un prestito ricevuto a saggio d’interesse 10% comporta un costo effettivo pari al 6,3%),

b) la tassazione più blanda in testa ai percipienti degli interessi colpiti dall’imposta proporzionale sostitutiva al 12,50% rispetto ai dividendi soggetti all’aliquota marginale dell’Irpef progressiva, mentre gli utili non distribuiti scontano l’elevata imposizione societaria (per non parlare del vantaggio, valutato come non piccolo dai contribuenti nel noto clima di diffidenza verso il fisco, dell’anonimato dell’obbligazionista rispetto alla identificabilità dell’azionista). Come avvertenza per il futuro non va dimenticato, poi, che per un certo periodo, prima degli interventi correttivi del 1984, la non tassabilità degli interessi sul debito pubblico aveva generato il ricorso delle imprese al debito privato, con interessi passivi deducibili, per acquistare titoli di Stato.

7 La tassazione introdotta nel 1991, infatti, venne ben presto sospesa.

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3. Fisco e forme di finanziamento delle imprese dopo la riforma Visco. Come si presenta ora la riforma fiscale del Ministro Visco nei confronti

del finanziamento dell’impresa? Tra i numerosi e incisivi provvedimenti introdotti dal Governo nel corso

del 1997, in forza delle ampie deleghe ricevute con la legge 23.12.1996, n.662, collegata alla Finanziaria 1997, le innovazioni rilevanti per il nostro tema concernono l’imposizione sulle rendite e le plusvalenze finanziarie, l’Irpef, la Dit (Dual income tax) e l’Irap.8

3.1. L’imposizione fiscale sulle rendite e le plusvalenze finanziarie. La nuova disciplina sulle rendite e le plusvalenze finanziarie, che entrerà

in vigore il 1° luglio 1998, è caratterizzata dall’assimilazione piena delle plusvalenze agli interessi. Per motivi che ho diffusamente spiegato altrove9, essa merita un giudizio pienamente positivo sotto il profilo dell’equità tributaria; e analogo giudizio merita la conferma di una sola coppia di aliquote, 12.5% e 27% , aggiungendo l’auspicio che si possa arrivare in un prossimo futuro ad un’unica aliquota.

Resta però il fatto che la riforma viene ad eliminare l’unico vantaggio sin qui esistente per l’azionista rispetto al creditore, ossia la non tassabilità delle plusvalenze azionarie A parità delle altre condizioni, quindi, il ricorso al capitale di rischio si prospetta per questo fatto più oneroso che non in passato, e quindi il ricorso all’indebitamento si prospetta relativamente ancora più vantaggioso per l’impresa che deve mettere in conto la pretesa del potenziale azionista di avere una più elevata redditività lorda dal proprio investimento azionario.

Occorre quindi vedere se le altre misure riescano più che a compensare l’imposta sulle plusvalenze. La risposta appare positiva.

8 I riferimenti normativi delle innovazioni di seguito commentate sono: D.Lgs.21.11.1997,n.461, Riordino della disciplina tributaria dei redditi di capitale e dei redditi diversi, a norma dell’art.3 c.160 della L.23.12.1996,n.662. D.Lgs. 15.12.1997,n. 446, Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta , nonché riordino della disciplina dei tributi locali, in attuazione dell’art.3, commi da 143 a 149 e 151 della L. 23.12.1996,n.662. D.Lgs. 18.12.1997,n.466, Riordino delle imposte personali sul reddito al fine di favorire la capitalizzazione delle imprese, a norma dell’art.3, c.162, lettere e) ed i) della L.23.12.1996,n.662. 9 Cfr. MURARO G.,”Princìpi ed effetti economici della riforma Visco”,in Il Commercialista veneto,n.121, gen.-febb. 1998, pp.2-5.

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3.2. La riforma dell’Irpef e dell’Irpeg, in particolare l’introduzione della Dit. Innanzitutto è da ricordare il già commentato intervento sull’Irpef, con

l’abbassamento dell’aliquota massima e il ridisegno di tutte la scala delle aliquote, che dovrebbe alleggerire, rispetto al passato, le fasce di contribuenti più interessate alla partecipazione al capitale di rischio delle imprese.

Importante è poi la riforma dell’imposizione sul reddito d’impresa, in sede di Irpeg e di Irpef, con l’introduzione della Dit. Come è noto, la nuova fiscalità sul reddito contempla un’aliquota agevolata per la parte degli utili che rappresenta la “remunerazione ordinaria” del capitale di rischio. Con metodo ineccepibile, il legislatore valuta tale remunerazione sulla base del rendimento medio delle obbligazioni pubbliche e private, aumentato di un premio per il rischio che viene determinato dal Ministero delle Finanze su base annua entro un tetto di 3 punti percentuali. Per il 1997 il saggio di remunerazione ordinaria è fatto pari al 7%.

L’agevolazione è peraltro soggetta ad alcune limitazioni, di cui commentiamo gli aspetti principali

La prima limitazione contempla l’agevolazione solo per l’incremento di capitale rispetto al valore raggiunto al 30.6.96 (e comporta ulteriori qualificazioni, differenziate a seconda della natura giuridica dell’impresa, che qui si ignorano e che sono dirette ad evitare comportamenti elusivi ). E’ una limitazione facilmente spiegabile per ragioni di gettito e comunque compatibile con l’obiettivo macroeconomico di aumentare la capitalizzazione dell’impresa, un obiettivo che dipende dalla dinamica presente e passata e non dai fatti pregressi. Essa tende ad attenuarsi nel tempo, nella probabile ipotesi di una crescita continua del capitale d’impresa e quindi della parte di esso che rappresenta incremento agevolato rispetto al dato di partenza. Essa non pesa, infine, sulle nuove società che si presentano con capitale interamente nuovo e quindi agevolato e che pertanto trovano nella Dit un forte beneficio.

La seconda limitazione riguarda i soggetti agevolabili, che sono rappresentati da tutte le società di capitale ma soltanto dalle società di persone e imprese individuali che siano tenute alla contabilità ordinaria o che optino in modo irrevocabile per tale tipo di contabilità. Sono molti gli esclusi iniziali, poiché si valuta che circa due terzi delle piccole imprese individuali siano in regime di contabilità semplificata. Tuttavia la platea dei beneficiari rimane estremamente importante per l’economia del Paese e appare destinata ad aumentare sotto lo stimolo dell’agevolazione in esame.

La terza limitazione riguarda il tetto quantitativo dell’agevolazione. E’ da premettere che l’aliquota agevolata per la parte di reddito che rappresenta la remunerazione ordinaria dell’incremento di capitale è fissata al 19%, pari quindi all’aliquota del primo scaglione dell’Irpef e intermedia tra le aliquote

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del 12,5 e del 27% gravanti sugli interessi e le plusvalenze. Nel caso di società di persone e di imprese individuali tale aliquota, che nella normale disciplina dell’Irpef si applicherebbe solo ai primi 15 milioni di lire di reddito, si estende a tutta la parte di utile che rappresenta l’anzidetta remunerazione normale, con un’agevolazione che da questo punto di vista non è soggetta a limiti e risulta pari al risparmio d’imposta sulla quota di tale remunerazione che supera i 15 milioni. Tuttavia il livello del reddito agevolato pesa nel calcolo dell’aliquota marginale cui assoggettare la parte residua del reddito del contribuente10. Nel caso di società di capitali, poi, la legge impone che l’aliquota media sul reddito complessivo d’impresa non sia inferiore per singolo esercizio al 27%. L’aliquota del 19% viene quindi pienamente sfruttata solo dalle società con sufficiente capienza di reddito ulteriore rispetto a quello che rappresenta la remunerazione ordinaria dell’incremento di capitale, mentre salirebbe al 27% per la società che avesse un utile pari soltanto a tale remunerazione. E’ comunque concessa la possibilità di portare avanti per 5 anni il beneficio della Dit non goduto a causa di tale limite sull’aliquota media.11Si tratta ad evidenza di una limitazione dettata dalle esigenze di gettito dello Stato, che riduce significativamente ma non annulla l’impatto della Dit .Rimane quindi confermato che risulta ora attenuato, in particolare per le società di capitali, il precedente vantaggio comparato del debito rispetto all’incremento di capitale di rischio nel finanziamento dell’impresa.

3.3. L’introduzione dell’Irap. L’ultima novità rilevante per il problema in esame è l’introduzione dell’

Irap, l’Imposta regionale sull’attività produttiva, che rappresenta il fatto più vistoso della riforma Visco. Il nuovo tributo riguarda tutto il mondo produttivo, anche oltre i confini dell’attività svolta a fini di lucro, e vede quindi come soggetti passivi gli imprenditori individuali, le società, gli enti commerciali e non commerciali, gli esercenti arti e professioni e le amministrazioni pubbliche. L’aliquota base nel settore privato è pari al 4,25% , con attenuazioni transitorie per le imprese agricole e aggravamenti transitori per banche, enti finanziari e assicurazioni.

10 Per chiarire con un esempio, se la quota di utile da considerarsi remunerazione ordinaria dell’incremento di capitale è pari a 60 milioni, che è il tetto del terzo scaglione, il contribuente paga il 19% su tale cifra, come se stesse tutta nel primo scaglione, ma poi salta per il residuo reddito al 40%, che è l’aliquota del quarto scaglione, appunto perché il reddito agevolato pesa comunque nel determinare la progressione dell’aliquota sull’imponibile non agevolato. 11 Per le società che entrano in Borsa, per i primi tre anni vale la particolare agevolazione di un’aliquota ridotta al 7 anziché al 19%, con il vincolo di un’aliquota media al 20 anziché al 27%.

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L’Irap ha comportato una forte semplificazione del sistema tributario, poiché ha preso il posto di contributi sanitari, Ilor, imposta patrimoniale, tassa di concessione governativa sulla partita Iva, Iciap, tasse di concessione comunali. Esso ridisegna anche la ripartizione del potere fiscale tra centro e periferia. Tuttavia qui si ignorano gli aspetti che, seppur importanti per l’evoluzione politica ed economica dell’Italia, non appaiono influenti per le scelte dell’impresa in campo finanziario.

Basterà pertanto sottolineare che l’imponibile dell’Irap si configura come valore aggiunto netto e che, al di là delle peculiarità settoriali introdotte dal legislatore, nel campo delle imprese si presenta sostanzialmente come somma di profitti, interessi passivi e remunerazioni del lavoro.12 Vi è quindi piena assimilazione concettuale ai fini dell’imposta tra il compenso del capitale di rischio, cioè l’utile, e il compenso del capitale preso a prestito, cioè l’interesse pagato dall’impresa.

L’Irap si aggiunge dunque alle altre manovre prima commentate nel ridurre le precedenti distorsioni a favore del finanziamento tramite debito. Il suo contributo in questa direzione è anche indiretto, poiché essa ha comportato l’eliminazione dell’Ilor, che accentuava il sovraccarico tributario sugli utili destinati a remunerare il capitale di rischio rispetto agli interessi passivi deducibili.

In astratto si potrebbe semmai accusare l’Irap di introdurre una nuova distorsione nella scelte finanziarie dell’impresa, a scapito sia del debito

12 L’imposizione sugli interessi passivi ha sollevato forti critiche sul piano giustributario, poiché alcuni autorevoli giuristi vi vedono una palese violazione del principio di capacità contributiva. Essa ha anche creato preoccupazioni sul piano economico, dato l’aggravamento forse insostenibile che potrebbe derivarne a carico delle imprese più indebitate, che sono imprese in crisi oppure imprese nuove o in rapida espansione in situazione di sottocapitalizzazione. Non è qui possibile approfondire l’analisi di tali problemi ma sento il dovere di prendere posizione rispetto ad essi. Dichiaro quindi che ritengo rispettabili nelle intenzioni ma infondate nella sostanza le obiezioni giuridiche, quando si consideri che il principio di capacità contributiva attiene all’intero sistema tributario e non al singolo tributo che può ben ispirarsi al principio del beneficio e quando si consideri il fenomeno della traslazione dei tributi che configura l’impresa, sia pure soltanto per una parte dell’onere, come un non dichiarato ma non per questo meno reale sostituto d’imposta. E dichiaro che ritengo fondate in linea di principio ma eccessive in pratica le preoccupazioni economiche, quando si pensi che l’impatto dell’Irap sulle imprese indebitate è attenuato dalla cosiddetta “ clausola di salvaguardia “, che impedisce inasprimenti troppo forti del carico tributario per la singola impresa rispetto alla situazione precedente, ed è attenuato ulteriormente dalla rapida diminuzione del saggio d’interesse provocata dal risanamento in atto della finanza pubblica.

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esplicito che dell’incremento di capitale di rischio, resi come si è detto uniformi sul piano della tassabilità delle rispettive remunerazioni, e a favore del finanziamento da fornitori nascosto sotto forma di maggior costo, questo sì deducibile, dei beni e servizi acquistati. Ma le condizioni concrete del mercato finanziario rispetto a quelle del credito commerciale da fornitori assicurano che il fenomeno non potrà avere incidenza apprezzabile.

4. Conclusioni

Le imprese italiane hanno subito per lungo tempo, e in particolare dopo il 1981, i costi di un finanziamento più oneroso di quanto il livello di risparmio nel Paese potesse giustificare. Il rastrellamento che di tale risparmio ha fatto lo Stato per finanziare il crescente debito pubblico, alimentato da sistematici deficit di parte corrente, ha infatti prodotto elevati tassi d’interesse, resi ancora più alti da un sistema bancario poco concorrenziale che si rifaceva mediante un forte differenziale tra tassi attivi e passivi dei costi che lo Stato imponeva ad esso attraverso gli obblighi di sostegno dei titoli pubblici.

Grazie alla disciplina imposta dall’obiettivo di entrare nell’Unione monetaria, le cose sono recentemente cambiate e stanno tuttora evolvendo in meglio su ambedue i fronti: riduzione del deficit corrente e dell’incidenza del debito pubblico sul Pil nonché aumento della concorrenzialità del sistema bancario.

Per quanto riguarda le modalità di finanziamento, è osservabile nello stesso periodo una sistematica distorsione a favore del prestito e contro i capitale di rischio. Ciò si spiega in parte con fattori extrafiscali - la ridotta dimensione e l’inaffidabilità della Borsa, la scarsa propensione dei piccoli e medi imprenditori a pagare il costo dei controlli per attrarre più capitale di rischio - e in parte per fattori fiscali. Sul fronte tributario, pur in assenza di tassazione delle plusvalenze, il capitale di rischio era penalizzato dall’alta imposizione sugli utili d’impresa e dall’aspra progressività sui redditi personali, laddove gli interessi erano costi deducibili per l’impresa e comportavano un onere proporzionale e di minore aliquota media per il prestatore.

Anche su questo fronte le cose si sono mutate in meglio, sia negli aspetti extrafiscali, con una crescita significativa, ancorché insufficiente, dell’efficienza e della trasparenza del mercato finanziario, sia negli aspetti strettamente fiscali. Quest’ultimo risultato è legato al pacchetto di innovazioni introdotte dal Governo con vari decreti legislativi nel corso del 1997, in attuazione delle numerose ed ampie deleghe ricevute con la legge 23.12.96 n. 662, collegata alla Finanziaria per il 1997. La “riforma Visco”, pur prevedendo dal primo luglio 1998 la tassazione delle plusvalenze, ha fortemente ridotto gli svantaggi comparati del finanziamento mediante

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capitale di rischio, eliminando l’Ilor, rimodulando la struttura dell’Irpef, concedendo con la Dit un’aliquota ridotta sulla parte di utili che rappresenta la normale remunerazione del capitale e introducendo l’Irap che colpisce allo stesso modo gli utili e gli interessi passivi.

Occorrerà un periodo di sperimentazione per calibrare nel miglior modo le regole di dettaglio, sia sostanziali che procedurali, di tale riforma. Ma le innovazioni di principio possono già da ora esser giudicate positive sul piano dell’equità e dell’efficienza del sistema tributario. Esse promettono inoltre di retroagire positivamente sulla propensione dei risparmiatori a fornire capitali al sistema delle imprese, che in prospettiva vede quindi la possibilità di un finanziamento più ampio e meno oneroso.

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IRAP E DIT COME STRUMENTI PER LA RICAPITALIZZAZIONE DELLE PMI

dott. MICHELE ZANETTE Universita’ Ca’ Foscari di Venezia

Nel corso del 1997 è avvenuta una sorta di rivoluzione nel campo della

finanza aziendale. Dopo decenni in cui le scelte di finanziamento delle imprese erano quasi esclusivamente limitate alle modalità di indebitamento, il ventaglio delle possibilità si è allargato inaspettatamente anche al ricorso al capitale di rischio. Nel dicembre 1997 il legislatore ha infatti emanato i decreti legislativi di attuazione relativi all'Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP) e alla Dual Income Tax (DIT). Queste nuove disposizioni fiscali hanno contribuito in modo sostanziale a ridurre il vantaggio che la legislazione aveva storicamente concesso all'indebitamento come fonte di finanziamento delle imprese, vantaggio basato sulla deducibilità degli interessi passivi, e sembrano rendere molto più conveniente il ricorso al capitale di rischio.

Non è intenzione di questo breve intervento illustrare in dettaglio le modalità di funzionamento delle due nuove imposte. Ciò che ci sembra essenziale capire è se e come IRAP e DIT possano effettivamente indurre alla ricapitalizzazione delle imprese, in particolare delle piccole e medie imprese che sono quelle generalmente più esposte nei confronti del sistema bancario. Vale la pena di sottolineare che entrambe queste imposte hanno dei precedenti in ambito europeo, e che proprio il successo dell'esperienza in campo internazionale ha ispirato la neonata legislazione italiana. Bisogna però sgombrare subito il campo dall'equivoco che l'esperienza internazionale rappresenti una garanzia di sicuro successo delle disposizioni di legge. In effetti, il problema non è quello di capire se l'approccio seguito dal legislatore sia funzionale all'obiettivo di favorire la capitalizzazione delle imprese, ma se le specifiche disposizioni in vigore, come ad esempio le aliquote adottate, inducano ad un effettivo cambiamento nel comportamento delle imprese, spostando le modalità di finanziamento degli investimenti dall’indebitamento al capitale di rischio. Per questo motivo riteniamo sia quindi essenziale affrontare il problema non sul piano concettuale, ovvero della validità della struttura legislativa, ma sul piano empirico.

Sia l'IRAP che la DIT hanno come obiettivo esplicito, enunciato chiaramente dal legislatore nella Relazione Ministeriale di accompagnamento alla Legge delega, favorire la capitalizzazione delle imprese. Le due imposte agiscono però in maniera diversa rispetto a questo obiettivo. La DIT si propone specificamente di incentivare la raccolta di capitale di rischio, e dunque favorisce in maniera diretta il raggiungimento dell'obiettivo prestabilito, mentre l’IRAP ha una duplice valenza,

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penalizzando da una parte il comportamento antitetico, cioè l’indebitamento, e favorendo, da un’altra, il ricorso al capitale di rischio. L’IRAP rappresenta cioè qualcosa di più generale, e forse di più complesso, della DIT nell'ambito delle scelte finanziarie delle imprese. Ed è proprio per la sua complessità e per la sua ambiguità che l’IRAP risulta molto più contestata della DIT. Mentre la DIT viene infatti considerata dal tessuto imprenditoriale come una disposizione che al margine determina sicuramente dei vantaggi rispetto alla situazione attuale, o per lo meno non è penalizzante, l'IRAP viene percepita come una disposizione che può far aumentare la pressione fiscale e quindi gravare pesantemente sull'intera gestione aziendale.

Vi sono poi altre importanti differenze che spiegano il diverso atteggiamento degli operatori nei confronti delle due imposte. Mentre l'IRAP esplica i suoi effetti immediatamente ed indipendentemente dal fatto che l'impresa ponga in essere specifiche azioni sul fronte finanziario, la DIT ha efficacia soprattutto nel medio e lungo periodo, mentre inesistenti sono gli effetti di impatto e molto modesti quelli di breve periodo. E’ facile poi osservare che la DIT non ha nessun effetto sul piano del debito di imposta, e quindi sull’utile netto dell’impresa, fintantoché non si realizzano specifici comportamenti finanziari da parte delle imprese, nella fattispecie la capitalizzazione delle imprese. Va comunque sottolineato che IRAP e DIT concorrono entrambe e simultaneamente a indirizzare il comportamento finanziario delle imprese verso il capitale di rischio per cui gli effetti delle due nuove imposte non potrebbero essere valutati separatamente.

Prima di analizzare il funzionamento di queste due nuove imposte è comunque bene precisare che entrambe sono già in vigore. La DIT può essere già applicata con riferimento ai redditi 1997, e quindi i suoi effetti potranno essere già evidenziati con la denuncia dei redditi di giugno 1998, mentre l'IRAP è entrata in vigore dal primo gennaio 1998.

Come abbiamo detto l’obiettivo della DIT è molto specifico: favorire la capitalizzazione dell'impresa ed in particolare l’apporto di nuova liquidità nella forma di capitale di rischio. Il meccanismo che è stato introdotto per raggiungere tale obiettivo è quello classico di questa forma di tassazione, in vigore ormai da anni nei paesi scandinavi: il reddito complessivo dell'impresa viene distinto in due parti: la prima, corrispondente alla remunerazione ordinaria degli incrementi di capitale, invece di essere tassata ad aliquota piena è assoggettata ad un’aliquota fiscale ridotta (che la legge fissa al 19%), mentre la parte rimanente subisce la tassazione normale.

Per comprendere il funzionamento della DIT ci concentreremo inizialmente sul caso generale, trascurando le disposizioni relative ai regimi speciali, che sono stati previsti per le società ammesse alla quotazione in borsa (regime agevolato con DIT al 7% per i primi tre periodi di imposta e

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aliquota media non inferiore al 20%), per le banche e assicurazioni (per le quali la DIT si applicherà solo fra quattro anni), e per i gruppi di imprese. Il caso relativo alle società di persone e alle persone fisiche sarà invece oggetto di specifica analisi, rientrando pienamente nell'ambito del presente studio.

Iniziamo quindi analizzando il funzionamento della DIT per le società di capitali, che rappresenta il caso più semplice da esaminare. Si consideri il significato della seguente simbologia:

U = Utile operativo; CN = Patrimonio Netto dell’impresa al 31/12/1996; ∆CN = Variazione in aumento del CN rispetto al dato di bilancio 31/12/1996

derivante da conferimenti in denaro e utili accantonati a riserva (non sono considerati rilevanti i conferimenti in natura, i finanziamenti soci e il passaggio di riserve a capitale);

rn = tasso di remunerazione ordinaria del capitale, determinato annualmente dal Ministero delle Finanze entro il 31 marzo e fissato per il 1998 nel 7%.

ri = tasso d'interesse sull'indebitamento, per ipotesi il 9%; rf = tasso di remunerazione medio del capitale finanziario, per ipotesi il 5%; td = aliquota DIT (19%); tG = aliquota IRPEG (37%).

Consideriamo ora una società di capitali che ha effettuato un

investimento I finanziato con i metodi ammessi dalla DIT (ovvero con conferimento in denaro o con utili accantonati); poiché abbiamo I = ∆CN, l'impresa pagherà imposte per un ammontare pari a:

T = ∆CN·rn·td + (U - ∆CN·rn) tG = U·0,37 - ∆CN·0,07·0,18

Il termine ∆CN·rn·td rappresenta l'imposta pagata sul reddito ordinario

del capitale, dato dal prodotto fra l'aumento del patrimonio netto e il tasso di remunerazione ordinaria del capitale, e sconta l'aliquota agevolata DIT del 19%, mentre il termine (U-∆CN·rn)tG rappresenta l'imposta IRPEG sul reddito d'impresa rimanente. Si noti che abbiamo qui implicitamente assunto anche la validità della normativa IRAP che ha determinato l'abolizione dell'ILOR e della Patrimoniale.

Il vantaggio fiscale che la nuova normativa fiscale consente rispetto alla situazione precedente è facilmente quantificabile. Nel vecchio regime fiscale l’imposta totale che doveva essere pagata quando l’investimento era finanziato con conferimenti di denaro era data (escludendo anche l'ILOR per separare gli effetti imputabili alla DIT da quelli imputabili all'IRAP) da:

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TP = U·tG = U·0,37

Così, è facile evidenziare che il risparmio d’imposta che la DIT consente

rispetto al regime precedentemente in vigore è dato da:

TP - T = ∆CN·rn (tG - td) = ∆CN·0,0126 In sostanza la nuova legislazione consente, sulle stesse operazioni

finanziarie, un risparmio di imposta pari all’1,3% circa dell’investimento effettuato. Si noti che, nel caso delle società di capitali, tale risparmio si protrae anche per i periodi di imposta successivi, e non dipende, come nel caso delle società di persone, dal periodo di ammortamento fiscale dell'investimento.

La questione importante è però capire se questo risparmio d'imposta è sufficiente a raggiungere l’obiettivo di una modificazione delle scelte finanziarie dell’impresa. In particolare, dobbiamo chiederci se tale vantaggio riesce a favorire il ricorso al capitale di rischio rispetto all’indebitamento. Per rispondere al quesito dobbiamo innanzitutto calcolare l’utile netto d’esercizio in regime DIT. Questo sarà dato da:

UN = U - T = U·0,63 + ∆CN·0,07·0,18

Se però l'impresa in esame, a parità di altre circostanze, decidesse di

finanziare l'investimento ricorrendo al debito (si avrebbe quindi ∆CN = 0), pagherebbe in questo caso imposte per un importo pari a:

TD = (U - ri·I) tG = (U - ri·I)·0,37

che rappresenta l'imposizione IRPEG sull'utile operativo al netto degli

interessi passivi. In questa situazione l'utile netto d'esercizio, o reddito disponibile, sarà dato da:

UND = (U - ri·I)·0,63 = U·0,63 - I·0,09·0,63

Per capire se effettivamente la DIT sia vantaggiosa per l'impresa bisogna

quindi confrontare il reddito netto disponibile nelle due situazioni sopra prospettate. La differenza fra i due sistemi di finanziamento, in termini di utile netto (dove si è posto I = ∆CN) è data da:

UN - UND = ∆CN (rn·0,18 + ri·0,63) = ∆CN·0,0693

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Tale espressione dimostra come, finanziando un investimento con

capitale di rischio in regime DIT, l’impresa possa godere di un beneficio economico, rispetto al caso in cui ricorra all'indebitamento, valutabile in una percentuale pari al 6,9% dell’investimento. Si noti però che il citato beneficio è riferito al soggetto giuridico e non all’investitore! Per capire quale sia il reale vantaggio per l'investitore, e quindi se questi abbia una qualche convenienza a finanziare l’impresa con capitale di rischio, dobbiamo anche tenere conto del rendimento che può essere percepito sul capitale che rimane nella disponibilità dell'imprenditore qualora egli decida che gli investimenti dell'impresa vengano finanziati con debito. In questo caso il reddito disponibile netto diventa:

UND* = (U - ri·I)·0,63 + I·rf = U·0,63 - ∆CN (0,09·0,63 - 0,05)

dove abbiamo considerato il reddito netto aggiuntivo derivante dalla

remunerazione del capitale finanziario (per ipotesi il 5%). Confrontando infine l’utile derivante all’investitore con le due modalità di finanziamento dell’investimento si ha che:

UN - UND* = ∆CN (rn·0,18 + ri·0,63 - 0,05) = ∆CN·0,0193

In definitiva, appare evidente che finanziando gli investimenti

dell'impresa con conferimenti di denaro o con accantonamento di utili a riserva, il socio può ottenere un vantaggio economico personale, rispetto al caso in cui gli investimenti vengano finanziati con l'indebitamento da parte dell'impresa, pari a circa il 2% del capitale investito. Come vedremo successivamente, il vantaggio complessivo derivante dalla disposizione fiscale non può però essere valutato pienamente se non si considerano anche le imposte di registro che devono essere pagate sul versamento di capitale, e che sono pari all'1% del capitale versato. Per questo motivo riteniamo che il vantaggio che si è venuto a creare con la DIT nel ricorso al capitale di rischio sia ancora troppo modesto per favorire l’auspicata revisione dei comportamenti finanziari delle imprese.

In generale, è evidente che il vantaggio fiscale conseguibile con la nuova legislazione è tanto maggiore tanto più elevato è il tasso d'interesse sull'indebitamento (ri) e tanto più elevato è il tasso di remunerazione ordinaria del capitale fissato annualmente per legge (rn).

In teoria, è facile osservare che il meccanismo della DIT potrebbe portare a casi paradossali in cui il livello della tassazione media scende a livelli

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bassissimi o addirittura si annulla. In effetti, il tasso medio effettivo di imposizione, t, in regime DIT, è dato da:

t = T / U = 0,37 - (∆CN·rn·0,18) / U

dal quale appare evidente ogni qualvolta l’impresa finanzia i suoi

investimenti con capitale di rischio (nelle forme ammesse dalla legge) il tasso di imposizione fiscale medio scende sotto il livello massimo definito dall'aliquota IRPEG. E' altrettanto evidente che se l’aumento del capitale di rischio è sufficientemente alto o se il livello di utile lordo è sufficientemente basso, allora, dati tutti gli altri parametri fiscali, il tasso di imposizione media può annullarsi. In particolare, si può sottolineare come le imprese che producono più reddito (in termini assoluti) siano quelle che traggono i minori vantaggi dall'applicazione della DIT, ovvero dalla capitalizzazione dell'impresa. Viceversa, le imprese meno redditizie sono quelle che hanno la convenienza maggiore ad effettuare conferimenti in denaro nell'impresa.

Per evitare livelli estremamente bassi di tassazione, facilmente verificabili per l’impresa in fase di espansione che effettua molti investimenti e produce redditi modesti, il legislatore (art. 1 comma 3) ha posto il vincolo che il livello della tassazione media (t) non possa essere inferiore al 27%. Diventa quindi importante capire in quali circostanze potrebbe realizzarsi questa situazione. In particolare, quando si verifica che t < 0,27? E' facile dimostrare che tale situazione ricorre quando:

∆CN / U > 7,94

Così, tutte le imprese che hanno effettuato un aumento di capitale il cui

importo supera di circa 8 volte il valore dell'utile lordo potrebbero godere di un tasso medio d'imposizione inferiore al 27%. In tutti questi casi scatta il vincolo imposto dal legislatore. In termini generali, il risparmio massimo possibile, in termini di pressione fiscale media, è quindi esattamente pari al 10% (la differenza tra il 37% e il 27%) ed è il massimo risparmio d’imposta ammissibile da questo sistema.

E' comunque interessante ricordare che qualora scatti il vincolo di imposizione minima è consentito il riporto a nuovo delle parti di reddito ordinario non “utilizzato”. Abbiamo cioè che se t < 0,27, una parte del rendimento ordinario del capitale, una parte cioè di ∆CN·rn, va riportata a nuovo e può esser utilizzata per godere di una imposizione fiscale ad aliquota ridotta del 19%, nei successivi 5 periodi.

Esaurita questa presentazione della DIT relativa al semplice caso delle società di capitali, è importante spostare la nostra attenzione al caso delle piccole e medie imprese (PMI), che rappresentano l’oggetto specifico della

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relazione. La legislazione non prevede regimi fiscali speciali con riferimento alla dimensione dell’impresa, ma fa solo una discriminazione di tipo giuridico: distingue la norma generale, che si applica alle società di capitali, dalle norme che si applicano alle società di persone o alle ditte individuali. Nel seguito di questo intervento esamineremo dunque gli effetti della DIT su questo secondo gruppo di imprese, che rappresentano nella nostra accezione le piccole e medie imprese.

Prima di addentrarci nell'analisi degli effetti della DIT per le PMI ci dobbiamo chiedere se le disposizioni di legge siano o meno rilevanti per l’insieme di queste imprese. La legge dispone che solo le imprese in contabilità ordinaria possano utilizzare questa disciplina. Questo vincolo rappresenta uno sbarramento non indifferente: solo un terzo circa delle società di persone e ditte individuali si trovano infatti in questa condizione, mentre le altre si avvalgono tutte del regime di contabilità semplificata. Allo stato attuale, quindi, ben i due terzi dell’universo delle cosiddette PMI non ha la possibilità di godere dei benefici di questa norma. Anche queste ultime possono evidentemente optare per la contabilità ordinaria, ma questo passaggio, comportando un aggravio di spesa nella gestione aziendale, non è indolore e va valutato nell'ambito dei risparmi fiscali consentiti dalla DIT.

Ad una lettura “normale” del testo di legge potrebbe poi sembrare che le PMI siano le imprese che traggono i maggiori benefici dalla DIT. Un motivo, per così dire, “macroeconomico” è che la DIT ha un costo per quanto riguarda il sistema fiscale nel suo complesso, che è stato valutato nel disegno di legge - e comunque nella relazione di accompagnamento alla legge - in circa 3.200 miliardi di minori imposte. Questi 3.200 miliardi sono stati coperti dal fisco con una nuova imposta che ha come base imponibile le riserve per la maggiorazione di conguaglio, un’imposta che in pratica colpisce solo le società di capitali. Pertanto, a livello aggregato, un motivo che potrebbe far pensare a una qualche forma di agevolazione per le PMI si può leggere in questi termini.

Rispetto a queste osservazioni, che potrebbero far ritenere le PMI delle imprese privilegiate, ci sono invece le considerazioni di merito che portano a conclusioni del tutto diverse. Poiché la legislazione DIT per le PMI, intese come società di persone e ditte individuali, è un po’ più complicata rispetto a quanto visto in precedenza, abbiamo predisposto le tabelle A e B che esemplificano tutti i ragionamenti che vogliamo sviluppare per affrontare l’argomento.

Per rendere più semplice la spiegazione abbiamo considerato in primo luogo il caso di una ditta individuale con un reddito d’impresa lordo di 100 milioni di lire (come vedremo in seguito, i risultati generali non cambierebbero anche considerando un livello di reddito più elevato). Poiché la variazione in aumento del capitale di rischio “assume rilievo” ai fini della

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DIT solo se si sostanzia in particolari variazioni di poste di bilancio, consideriamo il caso in cui tale impresa effettua un investimento in beni strumentali, rispettivamente di 150, 300 e 500 milioni, finanziato con le modalità ammesse dalla DIT. La prima colonna (sono stati indicati anche degli anni per avere dei riferimenti temporali) fa riferimento all’investimento che soddisfa le condizioni di ammissibilità, ad es. un versamento di contante o la destinazione a riserve di utili. La legge afferma che questo tipo di aumento di capitale ha rilevanza per la durata del periodo di ammortamento legale dell'investimento, per cui se questo bene è ammortizzabile in 4 anni, esso ha rilievo ai fini DIT per 4 anni, come si vede nella prima colonna. Si noti che, a differenza di quanto avviene per le società di capitali, i vantaggi fiscali della DIT si esauriscono in un lasso limitato di tempo, che coincide con il periodo di ammortamento del bene.

Detto questo, possiamo esaminare la tab. A. Nella formulazione della tabella abbiamo considerato il caso in cui il tasso di remunerazione ordinaria del capitale (rn) sia fissato dal Ministero al 7%. Sotto questa ipotesi, il versamento di 150 milioni di capitale di rischio comporta (vedi la colonna b) 10,5 milioni di reddito ordinario. Tale reddito verrà colpito quindi dall'aliquota impositiva “agevolata” del 19% che implica (v. colonna c) 2 milioni lire di imposte DIT. L’importanza della legislazione per le società di persone o, come in questo caso, per un’impresa individuale sta nel fatto che il reddito derivante dalla remunerazione ordinaria del capitale, i 10,5 milioni di lire, vanno considerati come se fossero la parte “iniziale” del reddito (il primo scaglione di reddito) da indicare nella dichiarazione delle persone fisiche. Nel nostro caso l’imprenditore dovrà quindi pagare l’IRPEF sui redditi da 10,5 fino a 100 milioni di lire con le aliquote fiscali previste dagli scaglioni di reddito relativi a tale fascia di reddito e non, semplicemente l'IRPEF su 89,5 milioni (la differenza tra 100 e 10,5 milioni). Tenendo conto della recente riforma delle aliquote e degli scaglioni IRPEF, ciò implica che l’IRPEF residua è data dall'applicazione dell'aliquota del 19% sui redditi da 10,5 a 15 milioni di lire, dell'aliquota del 27% per i redditi da 15 a 30 milioni di lire, dell'aliquota del 34% da 30 a 60 milioni di lire e il 40% per i redditi da 60 a 100 milioni. In totale l’IRPEF è pari a 31,11 milioni di lire (colonna d).

Nel caso in esame, l'ammontare totale delle imposte che l'impresa dovrà pagare è quindi determinato dalla DIT (2 milioni) più l'IRPEF residua (31,11 milioni) per un totale di 33,1 milioni di lire (v. colonna e). E' facile osservare che, in questo caso, le imposte complessive in regime DIT corrispondono alla normale imposta IRPEF su 100 milioni di reddito (colonna g). In questo caso, l'impresa individuale non trae alcun vantaggio dalla DIT, e ciò perché questa imposta colpisce con un’aliquota del 19% un reddito che sarebbe stato in ogni caso colpito fiscalmente al 19% dall’IRPEF (v. ultima colonna

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della tabella A). L'esempio che abbiamo considerato è molto importante perché dimostra come una piccola impresa (una ditta individuale nel nostro caso) non abbia alcun vantaggio aggiuntivo, rispetto alla legislazione precedentemente in vigore, dal finanziare gli investimenti con capitale di rischio

Le cose cambiano relativamente poco se aumenta l'importo dell'investimento finanziato con apporti di denaro (v. la parte sottostante della tabella A). Con un investimento di ben 300 milioni, e assumendo sempre che la remunerazione ordinaria del capitale sia fissata al 7%, le imposte totali in regime DIT ammontano a 32,62 milioni di lire, mentre le imposte che si sarebbero dovute pagare considerando solo l'IRPEF sarebbero sempre pari a 33,1 milioni di lire. In questo caso (si veda sempre l’ultima colonna della tabella A) il risparmio d’imposta è pari a sole 480 mila lire. Sempre sotto le stesse ipotesi, si può notare che qualora l'investimento ammonti a 500 milioni di lire la nuova legislazione fiscale consente un risparmio di imposta, rispetto alla legislazione precedente, di 1,95 milioni di lire, pari ad appena il 4 per mille del valore dell'investimento.

E' interessante a questo punto cercare di capire come possono cambiare le conclusioni appena viste se cambia il livello del reddito d’impresa. E' facile osservare, seguendo i ragionamenti fatti sopra, che se il reddito della ditta individuale fosse di 200 milioni, a parità d’investimento, cambierebbero gli importi relativi alle imposte totali in regime DIT e quelle che si sarebbero dovute pagare nel regime precedente, ma rimarrebbe invariata la differenza fra le due. Si può quindi concludere che il risparmio fiscale netto consentito dal regime DIT non dipende in alcun modo dal livello del reddito d’impresa.

Ma vi è ancora un’altra importante questione. Come possono cambiare i risultati in funzione del fatto che il reddito d’impresa venga prodotto non da una ditta individuale, come si era fin qui ipotizzato, ma da una società di persone? In questo caso, è evidente che la quota di reddito soggetta a tassazione agevolata andrà divisa per il numero di soci, in proporzione della loro quota sociale. Così, se consideriamo una società di persone che effettua un investimento di 500 milioni con versamento di denaro contante da parte dei cinque soci, aventi per ipotesi ciascuno la stessa quota sociale, allora è evidente ogni socio si avvantaggia della DIT solo per la quota di capitale che egli ha versato, ovvero per 100 milioni. Il vantaggio risulterebbe quindi equivalente a quello visto sopra, derivante dal versamento di capitale di rischio di 100 milioni per un imprenditore individuale. In tal modo il risparmio fiscale per il singolo socio, rispetto alla legislazione precedente, sarebbe nullo. In generale, quanto più numerosa è la compagine sociale relativa ad una società di persone, tanto maggiore dovrà essere il capitale di rischio versato nell'impresa per consentire un vantaggio fiscale ai soci.

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Abbiamo constatato che nella stragrande maggioranza dei casi il risparmio d’imposta consentito dalla DIT per le piccole e medie imprese, ditte individuali e società di persone, è minimale, quando non è nullo. Appare ora evidente che sarà molto improbabile che le imprese in contabilità semplificata, escluse per legge dai “benefici” della DIT, possano optare per il regime di contabilità ordinaria. La differenza nei costi amministrativi tra il regime contabile semplificato e quello ordinario non è affatto trascurabile e riteniamo che possa facilmente superare i vantaggi offerti dalla DIT. E’ pertanto evidente che per quei due terzi delle PMI che sono in contabilità semplificata, i “benefici” della nuova legislazione fiscale saranno assolutamente virtuali.

Ma un altro elemento è a mio avviso fondamentale per capire il comportamento finanziario tenuto da molti imprenditori negli ultimi decenni. In effetti, come si diceva all’inizio, con la precedente legislazione fiscale era molto più conveniente per un imprenditore investire le proprie disponibilità finanziarie in titoli pubblici e finanziare l'investimento dell'impresa ricorrendo al debito bancario. Ci sembra giusto chiederci a questo punto se la nuova legislazione fiscale sia in grado di modificare questo tipo di comportamento. In altri termini, l’introduzione della DIT può indurre gli imprenditori a quel comportamento virtuoso, voluto dalla riforma Visco, che favorisce la capitalizzazione delle imprese? Può riuscire a penalizzare l'investimento finanziario dei risparmi personali a favore di un radicamento delle risorse finanziarie nelle imprese?

La risposta a questi quesiti ci sembra sia negativa. Vedremo di spiegare quest’affermazione esaminando, sempre nel caso di una ditta individuale, quale sarebbe il reddito disponibile dell’imprenditore qualora questi decidesse di finanziare l’investimento con capitale proprio o, in alternativa, preferisse ricorrere all’indebitamento per finanziare l'acquisto di beni strumentali. Nella tabella B abbiamo cercato di evidenziare l'impatto della seconda opzione sul reddito disponibile dell'imprenditore.

Finanziando l’investimento con il ricorso al debito, l’impresa può detrarre integralmente dal proprio bilancio l’importo degli interessi passivi pagati. Nell’esempio della tabella B, dove si ipotizza un costo del finanziamento pari al 9%, gli interessi passivi su un investimento di 150 milioni ammontano a 13,5 milioni di lire l’anno (colonna b). Il reddito imponibile d’impresa scende così da un importo di 100 milioni, il reddito operativo, a 86,5 milioni, sui quali l'imprenditore paga un’IRPEF pari 27,7 milioni di lire. In questo caso il reddito netto dell'impresa risulterà pari a 58,8 milioni (colonna e).

Bisogna però considerare che oltre a questo reddito l'imprenditore percepisce anche un reddito da attività finanziarie che è dato dal rendimento del capitale finanziario disponibile e non versato nell'impresa. Nel nostro

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esempio, a fronte di un tasso di rendimento netto delle attività finanziarie ipotizzato al 5% netto, tale reddito aggiuntivo sarà pari a 7,5 milioni di lire. Il reddito disponibile totale dell'imprenditore, comprensivo del reddito percepito sulle attività finanziarie, risulterà quindi pari a 66,3 milioni di lire. A questo punto è facile osservare, considerando anche quanto esposto nella colonna (f) della tabella A, che il reddito disponibile dell'imprenditore che privilegia il ricorso all'indebitamento nelle scelte finanziarie risulterà inferiore di appena 600.000 lire rispetto a quello dell’imprenditore che intenda avvalersi dei vantaggi offerti dalla DIT. Si noti peraltro che l'esempio sopra considerato è quello che offre i maggiori vantaggi dal ricorso alla DIT. In effetti, se il rendimento delle attività finanziarie salisse al 6% e oltre il reddito disponibile dell’imprenditore che finanzia gli investimenti ricorrendo al debito sarebbe sempre superiore a quello che percepirebbe finanziando l'impresa con capitale proprio.

In definitiva, la DIT consente alle piccole e medie imprese solo modesti vantaggi economici rispetto al regime fiscale precedente e, in ogni caso, questi vantaggi sono troppo contenuti per modificare il comportamento finanziario degli imprenditori. Per le PMI questa riforma, che ha dei momenti ispiratori veramente importanti nelle legislazioni dei paesi nord europei, non sembra quindi funzionale all'obiettivo di favorire la capitalizzazione delle imprese. Sarebbe evidentemente importante capire come si potrebbe rendere più incisiva l'azione della legge modificando alcuni parametri di base, ad esempio innalzando il tasso di remunerazione ordinaria del capitale o rivedendo lo schema previsto per le piccole imprese.

A conclusione del mio intervento vorrei esporre alcune considerazioni di sintesi sull’IRAP. Questa imposta viene di solito presentata come uno strumento atto a favorire la ricapitalizzazione delle imprese in modo indiretto, ossia penalizzandone l’indebitamento. Com’è noto, questo effetto si ottiene sottoponendo a tassazione tutte le componenti del valore aggiunto prodotto dall’impresa, e quindi anche gli interessi passivi. Se non sembrano esservi dubbi sul fatto che l'IRAP penalizzi l'indebitamento, rimane però da valutare quanto questa nuova imposta renda meno conveniente il ricorso al debito.

Un primo modo per valutare tale effetto è quello di calcolare la differenza fra il costo dell’indebitamento, al netto di tutte le imposte, in regime IRAP e il costo dello stesso nel precedente regime fiscale. Considerando gli effetti di impatto, è abbastanza facile dimostrare che l’aumento del “costo del capitale” per le operazioni di investimento finanziate con debito è pari a circa il 34% perché, oltre all’IRAP sugli interessi passivi, cambiano anche le aliquote fiscali sul reddito netto d’impresa. Nel precedente regime fiscale, gli interessi passivi potevano infatti essere portati in deduzione da un reddito che era assoggettato ad un imposta marginale complessiva del 53%,

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(l’IRPEG del 37% e l’ILOR del 16%). Il vantaggio fiscale conseguente alla possibilità di detrarre gli interessi passivi dal reddito quando l’aliquota di imposizione è del 53% è molto maggiore del vantaggio fiscale che si ha in regime IRAP, regime in cui l’imposizione sul reddito è rappresentata dalla sola aliquota IRPEG (che è del 37%). Nel complesso il passaggio da un regime all'altro comporta un aumento del costo complessivo (comprensivo degli oneri fiscali) dell’indebitamento pari al 34%. Ad esempio, un debito bancario che prima della riforma aveva un costo al netto di tutte le imposte pari al 10%, avrà ora un costo pari al 13,4%.

Diverso è il caso se consideriamo il costo marginale dell’indebitamento in regime IRAP. In questo caso, che tiene conto esclusivamente del maggior costo del debito in rapporto ad altre modalità di finanziamento, il costo dell’indebitamento è maggiore di quello nominale di appena il 4,25%. Su ogni milione di interessi passivi pagati, l’impresa dovrà infatti pagare un’IRAP pari a 425 mila lire, che equivale, per qualsiasi tasso d’interesse sul debito ad un aumento del 4,25%. Così, se il costo nominale dell’indebitamento è pari al 10%, il costo marginale dello stesso risulta essere pari al 10,425%. Da questo punto di vista l’IRAP non sembra quindi particolarmente gravosa, né in termini assoluti, né in rapporto alle normali differenze che esistono nei tassi d’interesse praticati dalle banche.

Più difficile è invece capire come l’IRAP possa promuovere la ricapitalizzazione delle imprese, non solo penalizzando l’indebitamento, ma anche riducendo il costo del capitale di rischio. Nella letteratura esistono varie spiegazioni ma si è oramai abbastanza concordi sul fatto che l’IRAP determina un incentivo al finanziamento con capitale proprio essenzialmente grazie alla riduzione dell’aliquota fiscale che colpisce gli utili dell’impresa. Nel precedente regime fiscale per le società di capitali tale aliquota si attestava, come già detto, al 53%, mentre nel nuovo regime fiscale, con l'abolizione dell’ILOR, questa scende al 37%. Si può dimostrare che questo cambiamento porta ad una riduzione del costo del capitale finanziato con capitale di rischio di circa 5 punti percentuali, ad esempio dal 15 al 10%.

Pur nella sua complessità - non va dimenticato che l’IRAP è stata introdotta anche per modificare il sistema di finanziamento della sanità, per consentire l’autonomia finanziaria delle Regioni, per semplificare alcuni adempimenti fiscali (vengono aboliti alcuni tributi fra cui la patrimoniale, l’ICIAP, l’ILOR, la tassa sulla partita IVA e soprattutto i contributi sanitari) - l’IRAP ha dunque effetti molto rilevanti sulle scelte finanziarie delle imprese. Anche qui bisogna però chiedersi se essa riesca a modificare in maniera sostanziale la tradizionale distorsione a favore dell’indebitamento. E’ cioè sufficiente questa disposizione fiscale, nelle modalità con cui è stata attuata dai decreti legislativi, a far sì che il finanziamento di un investimento con capitale di rischio sia più conveniente rispetto al finanziamento con

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capitale di debito? La risposta è no perché, pur aumentando il costo dell’indebitamento e pur riducendosi quello del capitale di rischio, esiste ancora un notevole vantaggio netto a favore del finanziamento con indebitamento. La riforma dell’IRAP introduce certamente una maggior neutralità nelle scelte finanziarie delle imprese, in linea con quanto auspicato dal legislatore, ma permane la convenienza assoluta delle imprese a ricorrere all’indebitamento.

Detto questo è ora opportuno concentrarci sulle PMI, intese sempre nell’ampia accezione che fa riferimento, non tanto a particolari dimensioni dell’impresa, quanto a specifiche figure giuridiche, come le ditte individuali o le società di persone. La normativa dell’IRAP non prevede, a differenza di quella vista per la DIT, particolari disposizioni per queste categorie d’impresa. Ciononostante, molte sono le differenze che emergono rispetto al caso generale visto per le società di capitali, prima fra tutte la necessità di considerare l’imposizione sul reddito delle persone fisiche. L’IRPEF rappresenta infatti la principale imposta sui redditi prodotti da queste imprese, siano esse ditte individuali o società di persone, ed è strettamente interrelata all’IRAP perché la riforma fiscale in oggetto ha profondamente modificato, sia in termini di scaglioni che di aliquote, anche l’imposta sulle persone fisiche.

L’impatto dell’IRAP per le PMI è molto diverso dal caso generale anche perché, con l’introduzione dell’IRAP, il titolare di una ditta individuale vede aboliti non solo l’ILOR e la patrimoniale, ma anche il Contributo al Servizio Sanitario Nazionale. Al di là del fatto che tale contributo era deducibile dall’imponibile IRPEF, esso presentava anche una marcata regressività rispetto al reddito (il contributo non era infatti dovuto per la parte di reddito che eccedeva i 150 milioni). Appare quindi evidente che gli effetti della riforma fiscale dipendono strettamente dallo scaglione di reddito dell’imprenditore o del socio.

Per i motivi sopra detti gli effetti dell’IRAP sul reddito disponibile del titolare di una PMI non sono facilmente sintetizzabili. Comunque, pur nella varietà dei casi aziendali considerati, si può affermare che la riforma fiscale determina un aumento, talora anche consistente, del reddito disponibile di questi contribuenti. Ciò si verifica però nella situazione normale, cioè nel caso in cui le imprese non godevano in precedenza di particolari agevolazioni fiscali. La “vecchia” legislazione fiscale prevedeva infatti alcune eccezioni all’applicazione integrale dell’ILOR. Una delle più importanti consisteva nell'esonerare da questa imposta i redditi d’impresa derivanti da imprese individuali o da società di persone nelle quali l’attività del titolare risultasse prevalente e il numero complessivo degli addetti, compreso il titolare, non superasse le 3 unità. In sostanza, prima della riforma fiscale la stragrande maggioranza delle piccole imprese non pagava

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l’ILOR. Oltre a ciò, erano anche previste importanti deduzioni dalla base imponibile, e cioè dal reddito d’impresa, a favore di alcune categorie di contribuenti quali ad esempio i commercianti e le imprese artigiane iscritte all’Albo.

E’ evidente che con l’introduzione dell’IRAP, e la simultanea abolizione dell’ILOR, tutti i contribuenti che godevano di agevolazioni ILOR, totali o parziali, hanno un beneficio relativamente minore di quelli che invece ne erano assoggettati integralmente. Senza voler entrare nel merito dell’analisi riteniamo di poter affermare che il reddito disponibile di questi imprenditori minori diminuisce a seguito della riforma e tale diminuzione è tanto maggiore, in termini assoluti, quanto più elevato è il reddito d’impresa. In particolare, si può dimostrare che le ditte “minori” aventi redditi inferiori a 80 milioni, godono di una situazione di pareggio rispetto al regime fiscale precedente, mentre gli imprenditori individuali con redditi d’impresa superiori ai 100 milioni vengono penalizzati dall’introduzione dell’IRAP.

Si conferma quindi quanto più volte enunciato dai rappresentanti di queste categorie economiche, in primis gli artigiani, che avevano ampiamente anticipato l’effetto negativo derivante dall’introduzione dell’IRAP. La “negatività” della riforma va però interpretata in senso relativo, e cioè rispetto al concreto vantaggio che essa consente alle imprese più “grandi”, ovvero a quelle che non godevano di particolari agevolazioni. Queste conclusioni si riflettono anche sul problema delle scelte finanziarie delle imprese. E’ evidente cioè che le micro-imprese saranno meno incentivate a capitalizzarsi di quanto non lo siano le grandi imprese, e perpetueranno quindi la figura della piccola impresa indebitata e sottocapitalizzata che frequentemente ricorre nelle analisi del sistema produttivo nazionale.

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Tab. B - IMPOSTE E E REDDITO DISPONIBILE CON INDEBITAMENTO

(Reddito operativo d'impresa pari a 100 milioni)

INVESTIM. DEBITO Interessi REDDITO IRPEF(**) REDDITO REDDITO REDDITO finanz. TOTALE passivi IMPONIB. SU DISPONIBILE SU ATT. DISPONIB. con debito (milioni) 0,09 IRPEF REDDITO (milioni) FINANZ. TOTALE (milioni) (milioni) NETTO NETTO (milioni) (milioni) (a)*9% 100-(b) (milioni) (c)-(d) (a)*0,05 (e)-(f) (a) (b) (c) (d) (e) (f) (g)

1997 150 150 13,50 86,50 27,70 58,80 7,50 66,30 1998 0 150 13,50 86,50 27,70 58,80 7,50 66,30 1999 0 150 13,50 86,50 27,70 58,80 7,50 66,30 2000 0 150 13,50 86,50 27,70 58,80 7,50 66,30

1997 300 300 27,00 73,00 22,30 50,70 15,00 65,70 1998 0 300 27,00 73,00 22,30 50,70 15,00 65,70 1999 0 300 27,00 73,00 22,30 50,70 15,00 65,70 2000 0 300 27,00 73,00 22,30 50,70 15,00 65,70

1997 500 500 45,00 55,00 15,10 39,90 25,00 64,90 1998 0 500 45,00 55,00 15,10 39,90 25,00 64,90 1999 0 500 45,00 55,00 15,10 39,90 25,00 64,90 2000 0 500 45,00 55,00 15,10 39,90 25,00 64,90

(**) = Con le nuove aliquote e scaglioni.

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Indice

- Saluto di apertura

Giuseppe Zanini Presidente C.C.I.A.A. di Treviso

pg. 7

- Attività e programmi camerali in tema di ricapitalizzazione delle imprese Dott. Renato Chahinian Segretario Generale C.C.I.A.A. di Treviso

pg. 9

- Sistema fiscale e finanziamento delle imprese: verso una penalizzazione dell’indebitamento prof. Gilberto Muraro Università di Padova

pg. 13

- IRAP e DIT come strumenti per la ricapitalizzazione delle PMI dott. Michele Zanette Università Ca’ Foscari di Venezia

pg. 27

Alla data di pubblicazione del presente volume non è disponibile la relazione del dott. Pierluigi Bortolussi riguardante “Considerazioni sugli aspetti economici ed operativi derivanti dai recenti interventi normativi in materia fiscale”.