racconti (s)pizzicati a sud di santa marina

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Il libro è un mosaico che si compone nella mente del lettore attraverso i vari racconti, che sono a metà tra l’autobiografia e la favola. Il primo personaggio-narratore è un ragno argonauta dietro al quale si intuisce facilmente la presenza dell’autore e il suo vissuto. Un personaggio quello del ragno argonauta che apre la narrazione per poi dissolversi man mano che si procede nella lettura lasciando la scena alle storie di un suonatore di pelli e rami: intrecci di solitudini e incontri al chiaro dell’alba salentina, colori e suoni, immagini che penetrano nella carne e conducono in una dimensione altra.

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Luigi Chiriatti

Racconti (s)pizzicatia sud di Santa Marina

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Edizioni KurumunySede legaleVia Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)Sede operativaVia San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)Tel. e Fax 0832 801528

www.kurumuny.it • [email protected]

ISBN 978-88-95161-45-7

In copertina acquerello di Egidio Marullo

© Edizioni Kurumuny – 2010

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Indice

7 La leggenda del ragno Argonauta

10 La leggenda del violinista barbiere

15 La melagrana

22 Il Menhir degli Elfi

26 La Specchia del Diavolo

29 L’ultima ronda

35 Figlia di mercante e mercantì

41 Il mago della luna

44 San Paolo di Galatina e dintorni

50 Note spizzicate dal diario di

un suonatore di pelli e rami

60 Salento per mari

63 In viaggio con Antonio a Finibusterrae

68 Il lago rosso del pellegrino

72 Suoni

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La leggenda del ragno Argonauta

C’era una volta un piccolo ragno. Tanto piccolo che potevanascondersi fra due granelli di sabbia.

Viveva in un paese, lontano lontano. La sua terra era piatta esenza colline; qualche albero, qualche bosco e mare, tantomare.

Argonauta, così si chiamava, amava vivere in piccoli, anzi pic-colissimi spazi. Gli bastava un metro quadrato di sabbia ed era aposto. La sua più grande preoccupazione era quella di difender-si dal grande sole; umido, opprimente, mortale, che splendevanella sua terra e nel suo piccolo metro quadrato di sabbia.

In questo il ragno Argonauta era bravissimo. Studiava a fondo ilcammino del sole, i suoi spostamenti e le sue bizzarrie, riuscendo asopravvivere nascondendosi fra due granelli di sabbia, coltivando laconoscenza del territorio in cui viveva e delle usanze di tutti quelliche stavano intorno a lui.

Ma un metro di terra per vivere è poca cosa. Il piccolo ragnolo sapeva. E poi la noia. Una volta scoperti tutti i segreti del suoterritorio, lo prendeva l’ansia di sapere, di vedere cose nuove,suoni e colori di altri luoghi della sua terra. Ma come fare, cosìpiccolo, dove e come poteva spostarsi? E con il grande solecome poteva fare?

Allora chiese aiuto al vento. E il vento gli offrì la sua collabo-razione. Spiegò al piccolo ragno che di tanto in tanto in quellaparte del mondo veniva un vento, Refulu, che soffiava improv-

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viso, umido, arrogante. Ecco, se si fosse lasciato trasportare daquel vento poteva spostarsi con lui senza la paura di essere sec-cato dal sole.

Il ragnetto ci pensò su e accettò il consiglio del vento. E si misead aspettare Refulu. Passarono mesi e giorni e anni. Finalmenteun bel mattino il ragno si accorse che qualcosa di nuovo c’eranell’aria. Una piccola colonna di vento si avvicinava verso la suacasa. Non ci pensò due volte. Appena il vento si avvicinò,Argonauta, con un gran salto, salì sopra e si fece trasportare.

Vola, vola e vola, quando il vento finì la sua corsa depositò ilragno in un piccolo terreno. E nuovamente Argonauta cominciòl’esplorazione, a sentire i suoni e i ritmi della sua gente, del suopaese. Com’era felice ora che aveva scoperto come visitaresenza paura tutto il suo territorio. Attento sempre a non bru-ciarsi, nascosto fra due granelli di sabbia, esplorava la sua terra.Quando pensava di conoscere tutti i segreti di quel posto,aspettava Refulu e si faceva trasportare in un altro posto. Cosìper molti e molti anni. Era felice Argonauta. Felice e non piùsolo. In un posto vicino al mare aveva trovato la sua compagnae con lei girava e viaggiava.

Passò molto tempo e molti anni. Avevano accumulato untesoro di notizie sulla loro terra, più di quante tutta la sua spe-cie avesse avuto la possibilità di raccogliere in tanti anni di vitasedentaria, a tessere e ritessere la propria tela.

Vedevano equinozi incrociarsi nelle finestre delle grandi torri;i ninfei delle fate con le fonti.

Percorrevano sentieri profumati di boschi e pianuri sacri emitici e insieme si dondolavano e si ninnavano ai raggi dei Ben-ben.

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Ma Refulu insieme alla bellezza della loro terra portava anchesoffi di morte e disperazione; ansie e paure, distruzione e oblìodelle cose piccole della vita. E quando queste buie foscule e car-

rare riempivano di umori l’esistenza, allora era tempo di rimet-tersi in viaggio, per vedere, sentire, e raccontarsi del loro postoe delle sue storie e delle sue leggende. Prima che tutto fossebuio.

Poi un giorno, senza colori e rumori, Refulu depositòArgonauta e la sua compagna, per sempre, nel campo delle pie-tre rotolanti.

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La leggenda del violinista barbiere

Un giorno, come ormai facevo da diverso tempo, mi recai aNardò, piccolo paese del Salento, dove viveva Stifani, barbiere violi-nista che andava in giro per il Salento a suonare per delle donne chedurante il mese di giugno avevano strani malori e malesseri e pote-vano guarire solo con la musica del violino.

Ma quando arrivai al salone da barba rinominato dal barbiereStudio di tarantolismo, lo trovai chiuso. Strano, anche se vec-chio, il barbiere era sempre lì, a pizzicare corde, a intonare trillie fare qualche barba agli amici.

Mi diressi verso casa. Man mano che mi avvicinavo si sentiva-no i tocchi delle campane. Suonavano a morto. L’espiazione.Qualche altro che aveva smesso di vivere, pensai, con occhimelanconici.

Arrivato alla casa del barbiere, che viveva con la sola figlia, tro-vai quello che non mi aspettavano: il barbiere violinista era morto.

Morto il giorno della festa di san Paolo, protettore di tuttequelle donne che il barbiere violinista guariva.

Ma come, proprio il giorno del santo? E perché ora e nonprima e non dopo. Che disperazione.

La banda dei suoi amici marinai suonava una musica lenta etriste e il buon Gigi, così si chiamava il violinista, era portato aspalla verso la sua nuova destinazione. L’ultima.

Allora mi sedetti sotto una palma e cominciai a ricordare di Gigibarbiere.

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Ogni anno usciva di casa il 28 giugno. Alle 16,15. Portava il vio-lino sottobraccio nella sua custodia vecchia. Dignitosa. Andavaa Galatina. Dalle spose di s. Paolo. Le trovava sul piazzale dellachiesa grande e senza indugi o tentennamenti tesseva il suo filodi note e lentamente le conduceva nella casa del santo, nellapiccola cappella dove potevano unirsi al loro sposo. Dove pote-vano soddisfare, in ultimo, il loro bisogno di disordine totale,fisico e mentale per poter poi ritornare alla quotidianità.

Gigi con la sua musica riusciva a saldare, momentaneamente,le due coscienze spezzate, dilaniate, avvelenate.

Ogni anno lo faceva senza ricompensa in quel giorno. Era,questo, un atto d’amore alla sofferenza del Salento.

Anche quest’anno, per l’ultima volta, Gigi è uscito per il suo viag-gio alla stessa ora. è andato da s. Paolo, morte e festa insieme.

Si era perso, Gigi, intorno al 10 maggio – così diceva sua figlia.Improvvisamente. Era entrato in uno stato di coscienza e cono-scenza tutta personale. Difficile capire cosa pensava e quantosoffriva Gigi in quel periodo. Unico filo conduttore e fonte diconoscenza e comunicazione con la quotidianità erano le suemani, le sue dita. Sempre in movimento, sempre a tesseretrame musicali, a musicare storie. Gigi ha ritmato gli ultimi gior-ni della sua vita con le dita. Alla fine gli hanno dovuto sfilare lafede nuziale. Tambureggiava costantemente e ossessivamentele dita contro le sbarre del letto di contenimento, senza tregua.Giorno e notte. Senza sosta.

Stava lì nel suo lettino con il suo libro: Io al santo ci credo. Diario

di un musico delle tarantate e quando non suonava lo strappava astrisce sottili. Tutte uguali. E chiedeva a tutti chi fosse l’uomo dellacopertina.

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Prima l’aveva letto il suo libro. Gli era piaciuto ed era contento. Com’era contento. Girava per le vie del paese con il libro e si guardava intorno

cercando consensi e gratificazioni. Forse anche per questo ha anticipato il suo viaggio per incon-

trare il santo, di cui aveva visto tanti miracoli e tante malefatte.Ma nel quale credeva.

Forse è morto anche per questo. Può averlo ucciso una forteemozione – comunicava il medico – può aver risvegliato un vec-chio male congenito, un male con il quale maestro Stifani haconvissuto dalla nascita. Un male forte e difficile da tirare fuori,come il male del Salento, il tarantismo.

Maestro Gino suonava sempre, forse si curava in questa manie-ra, e, avendo sperimentato su di sé l’opera guaritrice della musi-ca, lo faceva poi con gli altri, attraverso il sistema misterico-musi-cale del tarantismo salentino di cui conosceva ogni piccola piega,ogni recondito nascondiglio.

Stifani era uno qualunque, ma gli era stato affidato un dono:la musica di un popolo. Nelle sue mani e nel suo strumento sisintetizzavano millenni di storia, rituali antichi e magici chescaturivano solo e soltanto quando le sue dita pizzicavano ilviolino. Quel violino che tanti anni prima aveva comprato, arate, per due lire e mezza. Allora stendeva una ragnatela cheavviluppava completamente trascinandoti in un luogo senzaspazio e senza tempo, in cui scorrevano le immagini di unpopolo, la sua sofferenza, le pietre, i colori, gli odori delSalento. Depositario del ritmo e dei suoi segreti li dipanava etutto assoggettava a un rituale di cui solo lui conosceva i tempie le modalità.

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La sua musica ossessiva, briosa, ritmica, sviluppava un tema pre-ciso in cui tutte le parti della vita, di un’intera esistenza, breve olunga, si guardano e si osservano, si scontrano e si sovrappongo-no, senza sosta, senza interruzioni musicali, seguendo sentierisegreti che solo lui sapeva e conosceva. Non permettendo nessunvarco o iato musicale in cui si sarebbe potuta infilare la pazzia.

Il segreto è morto con lui. Il nucleo magico, l’arte della ricompo-sizione della coscienza, è morto con lui e Gino anche nella suamorte ha seguito vie arcane, segrete, di difficile interpretazione.

è morto il 28 giugno. Il giorno delle tarantate, della festa di s.Paolo, il giorno del ritmo e dell’esternazione della sofferenzadel Salento.

è morto come i grandi sacerdoti delle antiche civiltà, capaci diorientare la propria morte, così come orientavano la propriavita. I vecchi sacerdoti decidevano di morire in determinatiperiodi e mentre loro compivano questo viaggio, le sacerdotes-se, le elette ballavano nei luoghi sacri e incoronavano il nuovodepositario del sapere.

Maestro Stifani ci ha lasciati semplicemente, così come sem-plice era la sua musica. Semplice e naturale, ancorata alla terrain cui veniva suonata e sviluppata, danzando il ritmo della vita edella morte: ritmando la morte per esorcizzare la vita.

Nella sua musica ognuno era libero di trovare il suo veleno, ilsuo animale, il suo impasto di terra. Era libero di conviverci e dicombatterlo, di assecondarlo o di scacciarlo. Non esercitavanessuna pressione, semplicemente stendeva una ragnatela dinote, di trilli, di svisamenti capaci di toccare la fojazzeddha de lu

core (il luogo segreto del cuore), di equilibrare la gioia e la noia,la paura e la felicità. Non conosceva altro, non sapeva fare altro,

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Stifani. Ma quando lo faceva, per ruolo o per gioco, era avvoltoin un’aurea magica, strana, impalpabile, liquida, così come liqui-da, aerea, soffice, ma nello steso tempo dura e tenace era la suamusica.

Ora sono qui. Mi piace pensare a lui che con il suo violino sedu-ce e tenta il consenso dei cherubini; che buca le nuvole rosa sucui si poggiano e li conduce prima in un labirinto di terra e pittu-re strane e mortali e poi su, su, oltre, dove non lo sappiamo.

Non è strano in qualche giorno, luce o notte che sia, sentire opensare di sentire la sua musica. La musica della gioia e della sof-ferenza: “l’indiavolata, la sorda, la minore, la balcanica” e lasciar-si trasportare, guidati dal sottilissimo filo d’argento che portanella profondità della terra e negli azzurri-blu del cielo.

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La melagrana

Refulu condusse Argonauta in un piccolo campo. Tutto pienodi fiori antichi e profumati, alberi vecchi e poderosi: noci, fichi,melograni, mandorli, carrubi, gezzuizzi (gelsi), ciliegi, allori, fichid’India... In una spianata si dipanavano le vecchie case. Cinquepoderosi furnieddhi in pietra. Quasi in semicerchio. Al centro,isolato, uno piccolissimo, scombinato. Si manteneva in piedi perscommessa.

Sul sentiero che conduceva ai furnieddhi c’erano le cisterne del-l’acqua. Con le vere dei pozzi segnate dalle corde dei secchi. Duegrandi massi le coprivano, facendo intravedere l’acqua del fondo.

La gioia di Argonauta fu grande. Refulu lo aveva portato nellavecchia campagna dei suoi nonni materni. Da tanto mancava ei ricordi stavano svanendo nella sua mente.

Lì Argonauta era vissuto in tenerissima età. Aveva tre o quat-tro anni. Non di più. Ma per molto tempo l’intensità di quelperiodo l’aveva accompagnato e sostenuto nelle varie peregri-nazioni che lo avevano portato in tanti posti insieme alla suafamiglia.

Si sedette su una pietra e lentamente Argonauta cominciò araccontarsi di quel posto, dei suoi abitanti.

In quella campagna vivevano diverse famiglie. C’erano altridue bambini della stessa età di Argonauta: Luigi e Cosimo, figlidi un fratello della mamma di Argonauta. Quante ne avevanocombinate insieme. Uno dei passatempi preferiti era quello di

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nascondersi nei posti più impensati e spiare le donne nelle loroparti intime. Ascoltare i loro discorsi più segreti.

Durante i periodi più caldi dell’anno il nonno Cesario li allonta-nava dai genitori e li faceva stare da soli in una campagna adia-cente, sentenziando che dovevano cavarsela da “veri uomini”.

Dormivano tutti e tre in un furnieddhu con la paglia per giaci-glio. Durante il giorno andavano alla cerca di monaceddhi (pic-cole lumache). Li chiamavano “panetti” perché li davano incambio di qualche boccone di pane. E quando non ne trovava-no digiunavano.

Ma non sempre. Una volta dopo due giorni di digiuno i tredecisero di andare a rubare le scisciule (giuggiole) nel giardinodel nonno. Belle, grosse e saporite. I grandi erano tutti al lavo-ro e i tre si riempirono la pancia. Poi ritornarono al loro furnied-

dhu e si addormentarono. Il risveglio fu drammatico. Il nonnoera sull’uscio e con poche parole e pochi gesti li condusse sottoil noce più grande. Aiutato da un parente, li legò con del fil diferro e li appese tutti e tre a testa in giù. Così restarono fino apomeriggio inoltrato, fino all’arrivo del padre di Argonauta, che,sfidando l’autorità del vecchio, li slegò e li condusse a casa, fra lelacrime delle mamme che niente avevano potuto fare per loro.

Quando le donne infilavano le foglie del tabacco, per farleseccare, raccontavano di una grande sacara (serpe, cervone)che quatta quatta si nascondeva sotto il culo delle galline equando queste facevano l’uovo la sacara lo ingoiava. Gli uomi-ni dicevano che non potevano ammazzarla perché era statamandata da s. Paolo a protezione della casa e delle persone. Eraccontavano che questa sacara aveva sulla testa due piccolecorna e due zampette attaccate al corpo. E ogni volta che ingo-

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iava un uovo cantava. Le donne si facevano il segno della crocee mormoravano: Santu Paulu miu de le tarante, iutaci moi a

tutte quante. Ma ai tre poco interessavano tutte queste storie, sapevano solo

che c’erano delle uova che potevano essere mangiate senza incor-rere nell’ira del nonno Cesario. Così cominciarono a fare la posta allegalline per vedere dove e quando andavano a fare le uova. Un mat-tino molto presto mentre una gallina stava accovacciata nell’atto dideporre l’uovo, Argonauta allungò la mano per prendere l’uovo. Mainvece dell’uovo si trovò la mano nella bocca della sacara. Per tregiorni rimase a letto con la febbre e con gli occhi sbarrati.

Nel mese di giugno passava da quella campagna laSantapaularena. Era questa una vecchietta vestita di nero. Ebruna era anche lei, del colore della terra. Veniva su un piccolocarretto tirato da un asino. Portava due cassette. In una c’era,almeno questo diceva lei, della terra di Malta. Buona per tuttele malattie e i malori provocati dai ragni o da altri animali stri-scianti. La dava in cambio di qualche fico secco, legumi, un po’di olio..., l’altra era piena di scursuni (serpi nere) da cui ricavavagli antidoti per i veleni, reali o immaginari che fossero.

Quando la vedevano arrivare i tre le andavano incontro. Leidomandava se avessero visto delle serpi e chiedeva di accompa-gnarla. Quando la vecchia stava per catturarli, sa solo dio comefaceva, in coro gridavano: lu monacu cu la monaca tutti e doi

intra na camisa (il monaco con la monaca, tutte e due dentro lastessa pelle). Questo, i piccoli lo sapevano, non potevano dirlo,perché faceva infuriare le serpi – almeno così raccontavano glianziani – e faceva arrabbiare s. Paolo. Detto questo se la dava-no a gambe a combinare altre furfanterie.

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Il periodo più bello era quello della caccia. Ottobre marzo.C’era zio Luigi, abilissimo cacciatore che li portava con lui. Unpo’ per iniziarli a questa attività, un po’ perché gli facevano dacani da riporto.

Sia come sia erano felici. Si partiva la mattina all’alba.Esploravano un territorio vastissimo e per pranzo lo zio Luigi cuci-nava fringuelli al cartoccio. Li spennava, li avvolgeva in della cartaoliata e li copriva di cenere calda, con un pizzico di sale. Dopodieci minuti li tirava fuori e si potevano mangiare. Infine concede-va un sorso di vino. A sera, quando si tornava a casa, di solitoaveva un ricco carniere fatto di lepri, volpi, gallinelle d’acqua. Diquesta selvaggina un po’ restava in famiglia, l’altra parte era ven-duta alle putee (botteghe) di vino.

Il piccolo furnieddhu al centro della casa era la cucina dellanonna Cesarea. Piccola e piegata in due. Con il mantile (grem-biule) ai fianchi, la gonna colorata, in testa un fazzoletto, legatoalla moda dei pirati.

In quel piccolo forno Cesarea cucinava dalla mattina alla sera.Lì faceva il pane, arrostiva la poca carne a disposizione, le ver-dure, i legumi; a sera, verso il tardo tramonto, quando tutti icomponenti della famiglia ritornavano dal lavoro, apparecchia-va i cibi su una grande pietra rotonda, in pochi piatti di creta,senza posate, al massimo qualche coltello, un grande cerchio dipane e a volte del vino. Dopo cena e dopo le solite chiacchiere,cantavano. Come cantavano. Voci potenti e cristalline quelledelle donne, rauche, basse e sguaiate quelle degli uomini. Cantialla stisa; canti d’amore, leggende di re e regine, di fate e diprincipi. La durezza della vita li portava ad alienare la loro soffe-renza in canti esteticamente perfetti per armonia, esecuzione,

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dai contenuti onirici e favolistici. A controllare che tutto si svol-gesse secondo i rituali antichi c’erano i nonni.

Altre volte gli uomini raccontavano le storie delle stiare. Diqueste donne che sapevano trasformare il proprio corpo incapre, cani, gatti, e se ne andavano in giro durante la notte aincontrare e a fare non si sa bene cosa e chi. Potevano accede-re a queste trasformazioni utilizzando le virtù di alcune piante,in primo luogo lu totumaju (titimaglio). Un’erba che fioriscedurante il periodo di maggio e che se recisa secerne un latticebianco, che, strofinato su alcune parti del corpo, ne altera l’ana-tomia. Dilata gli occhi e li fa brillare alla luce della luna o dellalanterna. Strofinato sui capezzoli li ingrossa e li indurisce, intur-gidisce le labbra. Allora queste donne erano pronte per andare,con il tacito consenso degli anziani, che bene conoscevano leloro necessità di incontro con l’altro sesso, ma che dovevanogiustificare socialmente per non perdere la faccia.

I tre cugini sperimentavano su di loro gli effetti del titimaglio.Prendevano il lattice e se lo strofinavamo sul pisellino. Alloraquesto si induriva, provocando dolori feroci. E questo duravaper alcuni giorni o ore. Fra le risate ammiccanti delle donne.

Un’altra volta il padre di Argonauta si presentò a casa tuttoeccitato. Aveva comprato una macchina, la Topolino. Avevadovuto lasciarla in paese perché la strada che conduceva allamasseria non era larga a sufficienza per farla passare. Allora liarruolò e insieme agli altri parenti allargò la strada e la Topolinogiunse in campagna. E con essa la consapevolezza che l’isola-mento di cui avevano goduto era finito. Orizzonti infiniti e infi-nite chimere si aprivano agli occhi del padre che da quelmomento in poi cominciò a visitare la terra del Salento nei suoi

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più svariati angoli portandosi dietro tutta la famiglia, Argonautacompreso, che da quel momento in poi perse i confini magico-rituali della campagna del nonno.

Non è che poi le cose fossero sempre felici. C’era tristezzaquando arrivava il periodo delle grandi feste: Natale e Pasqua.

Stranamente gli adulti invece di essere contenti di smettere dilavorare, diventavano litigiosi, insofferenti; poco inclini all’ironia.Per noi, per Argonauta, erano tempi duri. La mancanza di soldi,della continuità del lavoro, diventava più evidente in questi perio-di. Allora il padre di Argonauta diventava intrattabile, spariva dacasa per giorni interi e solo dio sapeva dove andava, oltre allamamma. Allora era Agonauta che doveva andare a riportarlo acasa. Gli altri figli erano già grandi per affrontare una tale vergo-gna. Lo trovava nelle putee di Martano, La zia Jolanda o da Pici

puttana. Ubriaco. Con grande vergogna se lo riportava a casa. Chevergogna e che delusione. L’altro periodo nero era la settimanadella Befana. Era dura scoprire che nella calza non c’era nemme-no un pezzo di carbone. Non venivano neanche puniti, il che erasintomo che proprio non c’era considerazione verso la festa deldono. E proprio non riuscivano a mandarla giù questa cosa; tantoche fino a qualche tempo fa Agonauta ha odiato le feste.

Il nonno Cesario durante i primi giorni di settembre era inpreda a un’eccitazione straordinaria. Parlava sempre ed erasempre gentile con tutti, soprattutto con i bambini.

Era il tempo della grande pesca. La notte non dormiva più.Spiava il cielo e quando vedeva comparire la Puddhastra, laprima stella del mattino, infilava le scarpe, si buttava un saccosulle spalle e andava. Fino ai laghi Alimini, distanti da Martanopiù di quindici chilometri.

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Si appostava sul canale che collega i due laghi e quando vede-va dei branchi di pesci, cefali, che migravano da un lago all’altroper deporre le uova, lanciava una rudimentale bomba costruitacon una buatta (contenitore di latta) di salsa e con polvere nerasottratta alla cava di pietra dei Colapai.

Poi scendeva in acqua e riempiva il sacco di pesce. Alle otto di mattina era in piazza a Martano a vendere il pesce. Spesso ne portava a casa e le donne seccavano le uova che

servivano per condire la pasta durante i lunghi inverni. Ora questa campagna è in preda alla disperazione. Tutto è

rimasto com’era tanti e tanti anni fa. I furnieddhi-abitazione, ilfurnieddhu-cucina, gli alberi, forse anche la sacara, i profumi, lecisterne, solo l’umanità non c’è più. Ognuno ha percorso stradediverse, ma è possibile che porti con sé un po’ della magia diquesto luogo antico.

Mentre Argonauta raccontava di queste cose Refulu si eraseduto sulla cima del grande noce. Ora cominciava a ingrossarei suoi soffi e Argonauta capiva che era tempo di andare. Con unultimo gesto Argonauta raccoglie una melagrana rossa e turgi-da e la odora.

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Il Menhir degli Elfi

Cammina cammina cammina, un giorno Refulu, Argonauta e lasua compagna giunsero nel bosco delle Costantine. Era questo unvastissimo e antichissimo bosco di lecci, cornioli, querce, corbez-zoli, situato fra Otranto e Giurdignano. Nel periodo dei funghi fio-riva di profumati e deliziosi porcini, diaulicchi, paddhotta, stecche-rini dorati... Era grande e fitto, ma Argonauta conosceva tutti i sen-tieri e tutti gli angoli più nascosti del bosco delle Costantine.

Erano andati fin lì perché c’era una cosa, bella e unica, almenoper loro: un menhir, che lui aveva chiamato il Menhir degli Elfi.

Si trovava, questa grande pietra, alta più di un metro e settan-ta, con le facce di venti e trenta centimetri, in una piccola radura,sotto alti e maestosi lecci. Ogni volta che Argonauta si recava nelbosco non mancava mai di portarsi fin lì, in quel posto magico, eparlare con quella pietra. C’erano delle volte in cui raccontava deisuoi guai e delle sue pene, delle altre in cui chiedeva delle genti edei riti che si erano svolti in quei posti, e tutte le volte Argonautachiedeva che gli spiriti del bosco gli fossero amici e gentili, indi-candogli i sentieri dei funghi e dei profumi.

E ogni volta, immancabilmente, Argonauta, in quel posto, quasi aipiedi del Menhir, trovava dei grandi porcini o intere famiglie di fun-ghi. Allora ne raccoglieva qualcuno e lo depositava alla base dellapietra e aspettava seduto per terra e con le spalle appoggiate a essa.

Arrivati che furono si sedettero con le spalle appoggiate allapietra e Argonauta raccontava.

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