quando la pioggia corre

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Sergio Boffetti, narrativa

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Page 1: Quando la pioggia corre
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SERGIO BOFFETTI

QUANDO LA PIOGGIA CORRE

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www.labandadelbook.it

QUANDO LA PIOGGIA CORRE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2012 Sergio Boffetti ISBN: 978-88-6307-413-0

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Febbraio 2012 da Logo srl

Borgoricco - Padova

Ogni riferimento a personaggi realmente esistiti è puramente casuale.

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A mia madre, ovunque essa sia.

S.B.

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Canto per dire le mie lacrime, quando canto è come quando piango.

Danzo per dire la mia gioia, quando danzo è come quando rido.

(anonimo rom)

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1. Abbandono Un aereo nel cielo, chissà dove sarà diretto…

Ecco finalmente il momento, l’ora di fuggire lontano da questo posto. Dopo aver visto quell’aereo dalla finestra della mia stanza me ne sono andato, lasciando la porta di casa mezza aperta. Ho portato con me soltanto uno zainetto con i miei risparmi, la mia tromba e uno spuntino, nel caso mi venisse fame. Percorro rapidamente i campi che si estendono davanti a me cercando di non voltarmi mai indietro, per evitare ripensamenti. Guardo l’orologio che mi regalò papà e allungo il passo. La terra, ancora umida di rugiada, m’infanga le scarpe da ginnastica. Mi volto in direzione dei colpi che sento battere dietro di me. Il signor Arturo sta zappando il suo orticello mentre sua moglie strappa le erbacce con due braccia orribilmente muscolose. Non sospettano che ho intenzione di non tornare mai più. Il signor Arturo non sa nemmeno cosa significhi non tornare più a casa, lui capisce solo le sue pecore e loro capiscono solo lui. Ora mi sta venendo il senso di colpa per aver rubato due mele dal suo albero, ieri sera, ma dal suo sorriso sembra non se ne sia accorto. Anche Lisetta mi saluta spalancando la bocca. Deve avere perso un altro paio di denti dall’ultima volta che l’ho vista. Chissà come farà a masticare. Forse frulla tutto e beve con la cannuccia. Ricambio il saluto e mi metto a correre. Inizio a pensare che non vedrò mai più quei campi, quelle unghie nere, quelle facce lerce. Ancora una piccola corsa e senza accorgermene raggiungo la stazione dei treni. Mi siedo sull’unica panchina e aspetto, picchiettando nervosamente con le dita sulle ginocchia. Quando sono nervoso picchietto sempre con le dita sulle ginocchia, anche se non serve a niente. Il vento è sempre più freddo, mi stringo stretta la sciarpa rosa che ho al collo. Intorno a me non c’è nessuno. È troppo presto, penso. Vedo avvicinarsi un vecchio signore con una pipa che gli penzola dalla bocca.

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Sto contando i soldi che tengo nel portafogli quando mi sembra di sentire lo sferragliare di un treno. Il capostazione avvisa che è diretto a Bergamo e quindi ricomincio a contare. «Dove stai andando?» Mi volto. È il vecchio con la pipa. «Non so… soltanto lontano da qui. Ho uno zio che vive in Francia» rispondo, rimettendomi il portafogli in tasca e guardando altrove, per fare che smammi. «Capisco» risponde il vecchio, annuendo «quindi arrivi a Milano e poi prendi il diretto per Parigi?» «No. Arrivo a Torino e… poi andrò a piedi. Mio zio sta vicino al confine con l’Italia.» Il signore ride e tossisce facendo un gran baccano. «A piedi da Torino fino in Francia?» «Non so, farò l’autostop… problemi miei» rispondo, cercando di mantenere la calma. Mentre il treno riparte, il vecchio si allontana a passo lento da dov’era venuto. Ancora solo. Ricomincio a contare i miei soldi, ma qualcosa m’interrompe di nuovo. Stavolta è un profumo intenso di ciambelle alla crema. Mi entra dal naso come un’onda e lo sento strisciare sotto la lingua e poi giù nella gola. Chiudo gli occhi e lascio ciondolare la testa, finché l’onda non mi trasporta lontano. Sono sulla Cinquecento di Mamma con il solito senso di nausea e la testa pesante. Lei sta parlando, ma io non l’ascolto. Ho in mano una scatola di ciambelle e la fame mi stringe lo stomaco. Sono seduto sul dannato sedile posteriore, perciò potrei aprire la scatola e prenderne una senza che se ne accorga. Così faccio un colpo di tosse per coprire il rumore della confezione che si apre, infilo una manina ed estraggo una grossa ciambella alla crema. La inghiotto in due bocconi. Mentre mangio Mamma continua a parlare di smalto per le unghie e io prendo un’altra ciambella, poi un’altra e un’altra ancora. La fame sembra aumentare, anziché diminuire. Lei si volta verso di me. «Cazzo!» strilla, sterzando bruscamente.

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Si ferma sul ciglio della strada, scende dall’auto e fa scendere anche me. Mi fa accostare al marciapiede e mi guarda dall’alto dei suoi tacchi a spillo. Io reggo ancora la scatola fra le mani, come un paggio tiene il cuscino con le fedi nuziali. Lei me la strappa dalle mani e la esamina attentamente. «Tutte! Tutte le hai mangiate, schifoso ingordo!» urla con quella mezza Camel fra le labbra rosse, «ora mi dici cosa porto alla zia Adelaide? Forza, piegati in avanti!» dice, dandomi un colpetto sulla schiena. Io mi piego e lei mi infila due dita in gola fino a farmi vomitare tutte le ciambelle. «Non ti meriti di avere lo stomaco pieno mentre io ho i crampi dalla fame!» Il fischio di un altro treno mi riporta alla realtà. Iniziano a formarsi nel cielo nubi affusolate simili a lombrichi. Qualcun altro si sta avvicinando a me. È un ragazzo alto e con dei capelli neri legati sulla nuca. Ha in mano una scatola di ciambelle e mi guarda strano. Salgo sul treno diretto a Milano Centrale occupando il primo sedile che trovo libero. Il ragazzo si siede proprio di fronte a me. Inizia a piovere e il treno riparte lentamente. Le gocce di pioggia iniziano a correre sul finestrino alla mia sinistra e io faccio l’indifferente, non le degno proprio di uno sguardo. Delle formiche iniziano a camminarmi dentro alla testa e le voci dei passeggeri diventano sottili. Quando la pioggia corre significa che sta arrivando qualcosa di brutto, che forse piangerò. Devo solo stare ad aspettare. Se cerco di spiegarlo nessuno mi crede, ma è proprio così che vanno le cose. E più mi muovo, più tutto peggiora. Così devo starmene zitto e immobile, mentre intorno a me tutto precipita. Il ragazzo mi sta sorridendo. Presumo stia macinando i miei stessi pensieri. «Qui piove sempre…» gli dico. «Come dici?» «Te ne vai per questo, vero?» «No» risponde, ridendo «certo che no…» Mi maledico per avergli fatto una domanda tanto stupida. Lui apre un piccolo quadernetto e inizia a scarabocchiare qualcosa con una matita consumata. Non mi rivolge più la parola.

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Vedo passare nel corridoio del vagone il vecchio signore con la pipa in bilico. Sembra possa cadergli dalla bocca a momenti. Il ragazzo continua a scrivere muovendo le labbra. Mi alzo, con la scusa di levarmi il giubbino, e lo guardo dall’alto. Indossa un soprabito nero da becchino dal quale spunta una camicia bianca, sbottonata sul collo. Le sue sopracciglia vanno su e giù, le sue spalle sono grosse quanto quelle del signor Arturo. Penso di non averlo mai visto prima. Mi risiedo ma non riesco a smettere di fissarlo. Ha qualcosa negli occhi, nel profumo… alza lo sguardo verso di me. Non sopporto di essere osservato a lungo, ma il suo sguardo addosso mi rassicura. «Sei frocio?» mi chiede all’improvviso, lasciandomi di pietra. «…no» rispondo io, senza sapere in realtà cosa avrei dovuto rispondere per non dire una bugia. «Credo di no» preciso. «E allora perché ti vesti in quel modo strano?» «Io… suono nei locali.» «Veramente? Musica composta da te?» «No, io suono soltanto. La musica la scriveva mio padre.» «E che tipo di musica suoni?» «Punk, jazz… e tu cosa fai?» «Il poeta.» «Il poeta?!?» «Sì, ti sembra surreale?» «No, solo che… non sapevo ci fosse davvero qualcuno a fare questo… mestiere.» «Non è il mio mestiere» sorride «soltanto una passione.» Il treno si ferma. «Qual è il tuo nome?» gli chiedo. «Abraham, e il tuo?» «Il mio non mi piace» rispondo, guardando le goccioline di pioggia ferme sul finestrino «dammene uno tu.» «Mmmh…» sfoglia in fretta il suo quadernetto «Nadir?» Annuisco. Il treno riparte e Abraham ricomincia a scarabocchiare. La sua pelle mi ricorda il libro di Oliver Twist che mi regalò il vecchio col pancione che stava al bancone della biblioteca. La copertina era morbida e liscia, e quando leggevo qualche pagina, la sera, mi ci addormentavo sopra

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respirando il profumo del cuoio. Abraham sembra interessato solo alle sue poesie. «Tu dove vai?» gli chiedo. Lui non mi sente. O forse non vuole dirmelo. Fa lo stesso… Qualcuno mi scuote forte. «Ehi, siamo arrivati bimba» mi sveglia Abraham con un ghigno malizioso. Scendiamo dal vagone e mi accorgo di non aver messo il giubbino. «Io vado a Torino» alzo la voce mentre infilo le maniche «sai da dove parte il treno?» Abraham allunga il passo e viene presto inghiottito dalla folla. Poi mi cerca, sgrana gli occhi e mi strilla: «Datti una mossa o lo perderemo!» Il treno è gelido, Abraham prende a pugni il condizionatore e lo maledice. Io mi siedo di nuovo di fronte a lui, che si rituffa nel suo quadernetto nero. Le ruote iniziano a muoversi, le gocce sul finestrino prendono una forma stretta e allungata, alcune si dividono, altre resistono. Io mi appoggio allo schienale mentre continua a piovere. Mi abbandono e chiudo gli occhi. Lo stridio dei freni mi risveglia. Cerco di riprendermi e mi ricordo subito di Abraham. È strano, ma ho la sensazione di aver sentito le sue mani accarezzarmi mentre dormivo. Poi abbandono l’idea. Impossibile. Lui non c’è più. Mi informo di quanto tempo manca prima di arrivare a Torino. Solo mezz’ora, devo aver dormito molto. Quando il treno giunge a destinazione penso che non ho mangiato niente dalla sera prima. Scendo di corsa e cerco disperatamente un bar. L’aria è più calda di quella del treno e mi tolgo la sciarpa che ho attorcigliato un milione di volte intorno al collo. Appena vedo lampeggiare un grosso hot dog fuori da una tavola calda, mi ci infilo e ordino tutto quello che voglio, in modo che mi basti per un po’. Esco dalla stazione e mi guardo intorno. Solo lì mi accorgo che non so dove abita zio Ulisse. So che vive in Francia, ma la Francia è enorme, molto più di Bergamo e della Lombardia.

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Penso davvero che farei meglio a tornarmene a casa. Qui sono solo, disperso, senza nemmeno sapere da che parte andare. Come vorrei che Fra fosse qui con me. Lui sa sempre esattamente cosa fare. Il telefono è gigantesco. Inserisco le monete una a una e faccio il numero a memoria. Prego che risponda lui… «Pronto?» Ha la voce di quando si è appena svegliato. Mi sembra di vederlo, con il ciuffetto biondo sugli occhi e l’alito che sa di biscotti. Scommetto che porta la solita felpa di John Cena che gli ho regalato per Natale. A me il wrestling non è mai piaciuto molto, ma a Francesco sì. Lo vedevamo insieme la domenica pomeriggio, sdraiati sul suo letto a luci spente. Sua madre ci portava i biscotti con i canditi da sgranocchiare mentre lui tifava per John. Anche a me piaceva John Cena, ma non badavo molto al suo modo di combattere. Guardavo i suoi mutandoni rossi e stretti cercando di immaginarmi Fra vestito allo stesso modo. «Ma chi sei?» mi chiede ancora la sua voce. «Chi è?» urla sua madre dalla cucina. Io non so che dire, la sua voce mi fa martellare il cuore. «Sei tu?» bisbiglia, facendomi rabbrividire. Mi ha scoperto «si può sapere dove ti sei cacciato? Ti stiamo cercando dappertutto…» Riaggancio e tiro un sospiro profondo. Mi avvicino all’edicola e compro una cartina. Con un dito indico dove mi trovo e con un altro il confine per uscire dall’Italia. «Cazzo, deve essere interminabile da fare a piedi!» dico ad alta voce. Devo assolutamente farmi dare un passaggio. Mi chiedo dove potrei trovare qualcuno disposto a dare uno strappo a un ragazzino e mi viene in mente la statale. Ci arrivo dopo dieci minuti e rimango sul ciglio della strada per un bel pezzo. Provo a pensare a quello che ho visto fare nei film e metto fuori un braccio con il pollice alzato. Spero che si fermi qualcuno che vada nella mia stessa direzione. Qualcuno che non faccia troppe domande e che non voglia soldi. Mi basta aspettare pochi minuti prima che un’auto inizi a rallentare e si fermi proprio davanti a me. «Dove vai?» mi chiede una donna con un marmocchio calvo accanto. «Francia.» «Allora non posso aiutarti.»

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Riparte e io mi sposto più avanti dove c’è una rientranza. Allargo le gambe e riprovo. Continuo così per tutto il pomeriggio, cercando di farmi notare. Quelle che si avvicinano sono tutte donne e nessuna di loro va in Francia. Forse è meglio se vado davvero a piedi come ho detto al vecchio con la pipa. Ci impiegherò un’eternità ma ho tutto il tempo che mi serve. Non dovrò più andare a scuola, da oggi. Due auto si fermano contemporaneamente. Quella grigia è più vicina a me. Mi fa gli abbaglianti. Il finestrino si abbassa e due occhi sporgenti mi squadrano dal lato del guidatore. «Allora?» mi dice l’uomo con un sorriso «che cerchi?» Allunga il collo verso di me e un raggio di luce illumina la sua faccia. É molliccia e giallastra, come l’impasto della pizza. Gli mancano parecchi denti e i pochi rimasti hanno il colore della cenere. Sto per rispondere alla sua domanda, quando estrae dalla tasca un sacchetto trasparente e lo fa oscillare tenendolo con due dita. Mi allontano velocemente entrando nella macchia che costeggia la strada. Cerco di correre più in fretta che posso e rimango nascosto dietro a una betulla fino a che non sento l’auto rimettersi in moto. «Ehi!» mi urla con una voce falsamente gentile «ehi, torna qui bello, non aver paura. Ti farà stare meglio!» «Ti farà stare meglio» mi dice Mamma «è per il tuo bene. Su, apri quella bocca.» Mi ci mette due pastiglie grosse come due olive. Mi si fermano in gola e sto per soffocare. «Bevi» continua, come sapesse tutto quello che bisogna fare per stare bene. «Perché tu non le prendi?» «Perché io non sto male. Non so che cazzo ti sei mangiato… c’era qualcosa di scaduto in frigorifero?» controlla il cartone del latte su ogni lato «le hai ingoiate?» «Sì…» «Bravo il mio musicista…» sorride, stampandomi le sue labbra rosse su tutto il corpo. Poco alla volta torno verso la statale, fermandomi ogni cento metri per accertarmi che nessuno mi stia pedinando. Il cielo inizia a farsi lentamente buio. Non pensavo di essermi inoltrato così tanto, eppure mi sembra di

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riconoscere gli alberi che mi circondano. Non so come, ma sono sicuro che siano gli stessi che ho visto mentre scappavo, sebbene non abbia seguito un vero e proprio sentiero. Una volta riemerso dalla boscaglia è ormai buio. Non distinguo più i colori delle auto né chi le guida. Vedo solo i fari sopraggiungere alle mie spalle e passare oltre. Mi fermo e tiro fuori un braccio, sperando che il primo a fermarsi abbia un’aria rassicurante. Dopo qualche secondo mi accorgo di una luce, più avanti, nascosta dagli alberi. Mi avvicino senza far rumore, finché non vedo un fuocherello con delle persone attorno. Sembrano tutte donne, dalla voce. Una è bionda ossigenata e l’altra, seduta sul ciglio della strada, è senza scarpe e porta un gonnellino viola. Quando non volete far rumore c’è sempre qualcosa che vi frega, ve lo garantisco! Senza farlo apposta pesto qualcosa di metallico, una lattina di Red Bull che qualcuno ha lanciato dal finestrino in corsa. Una delle due tipe, quella in piedi, si volta di scatto. «Ehi, che c’è da guardare? Non hai mai visto niente di simile?» La sua amica senza scarpe ride continuando a guardare il fuoco. Io cerco di distogliere lo sguardo per farle smettere, ma la bionda si avvicina e parla più forte. «Dico a te! Non hai mai visto una donna che aspetta il marito per strada?» «… il marito di chi?» chiedo. La ragazza senza scarpe scoppia a ridere piegando la testa indietro e chiudendosi la camicetta aperta. «Ehi, questo è forte, Jess! Questo ti mangia intera con tutti i tacchi!» dice, guardandomi di sfuggita. «Fai lo spiritoso, eh?» dice la bionda ossigenata, mettendosi anche lei a ridere con la sua voce catarrosa. Non capisco perché ridano. Dev’essere per i miei jeans attillati che ho preso dall’armadio di Mamma. Di vita vanno bene, ma li ho dovuti arrotolare alle caviglie perché sono un po’ troppo lunghi. «Chi aspetti? Anche tu qualche marito?» mi chiede la bionda. «No, cerco un passaggio…» «Per l’inferno? No perché anche noi andiamo là e se vuoi te lo diamo noi uno strappo!» e giù di nuovo a ridere da matte. Dal bosco arrivano delle voci. Devono esserci altre ragazze come loro ma c’è troppo buio per vederle. Mi volto e vedo una fila infinita di fari sfrecciare sulla strada, ma tutti proseguono senza rallentare. Solo un’auto sta procedendo lentamente a

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bordo strada. Ha un solo faro, quello sinistro. Si ferma qualche metro più in là e inizia ad abbagliarmi. Mi avvicino, faccio un respiro profondo e salgo a bordo. Mi aspetto qualcuno come l’uomo di prima, ma ormai sono disposto a tutto in cambio di un passaggio. Sono stanco, affamato e distrutto. Una mano profumata da signora si avvicina alla mia, io volto la testa di scatto e trovo una donna sorridente. «Sono Marta» dice con una voce troppo pulita per essere vera. «Piacere» rispondo, pulendomi la mano nei pantaloni e stringendo la sua. «Hai bisogno di un passaggio, piccolo?» «Non sono piccolo» rispondo. «Scusami, non volevo» sembra davvero spiaciuta «dove sei diretto?» «Vado in Francia.» «Dove esattamente? La Francia è grande» dice, mentre si strofina le lenti degli occhiali con un fazzoletto che sa di lavanda. «Di preciso non so… basta che mi lasci sul confine e poi mi arrangio da solo.» «Come vuoi» dice, immettendosi di nuovo sulla statale. Io guardo fuori in cerca di qualcosa di interessante, è quasi notte. «Posso chiederti cos’hai nello zainetto?» La guardo diffidente. Sembra innocua. «Un po’ di soldi, una mela e una tromba.» «Una tromba?» «Sì, me l’ha regalata mio padre.» «Davvero?» dice con tono estasiato «fantastico!» Vorrei farle sentire un pezzo, ma non so se le interessa. «Sono troppo invadente se…» «Se?» «Se ti chiedo di suonarmi qualcosa?» Estraggo la mia tromba, la pulisco un po’ e inizio a suonare “Nefertiti”. È la prima canzone che papà mi ha insegnato e andrebbe suonata con il sax. La termino pensando di non averla mai suonata così male. Pulisco l’imboccatura e la ripongo. La signora accosta al bordo della strada. Sento che mi sta osservando e mi infastidisco. Quando mi volto verso di lei per dirle di smetterla, mi accorgo che sta piangendo. «Cos’è successo?» le chiedo. Continua a fissarmi con gli occhi lucidi. «È…»

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«…» «…stupenda. Tu sei stupendo.» Io abbasso lo sguardo e ringrazio. Mi addormento contro la portiera e sogno papà. Mi risveglio in preda alla fame, anche se avrei voluto continuare a dormire. Mi trovo fra lenzuola azzurre in un grande letto matrimoniale. Alla mia destra ci sono delle candele accese e nell’aria c’è odore di incenso. Mi alzo e raggiungo la porta muovendo le braccia come fanno i ciechi. Marta mi sta venendo incontro. Lei sa camminare al buio. «Dove sono?» chiedo. «A casa mia» risponde sottovoce «vieni.» Mi prende per mano e mi conduce in un’enorme stanza piena di specchi. Al centro, su un tavolo ben apparecchiato, ci sono pizza, patate fritte, crostate e fette di pane tostato. Il paradiso dovrebbe essere una cosa del genere. Guardo Marta come per chiedere il suo permesso e lei annuisce. Mi precipito sul cibo e inizio a mangiare qualsiasi cosa, cominciando da un dolce che sa di mirtillo. Nei giorni seguenti succede sempre la stessa cosa: Marta esce di casa al mattino presto per delle commissioni, poi rientra per pranzo e mi porta al “La nuit”, sotto casa sua. Al pomeriggio mi fa sempre visitare il paese e la sera mi prepara la cena più squisita del mondo. Con lei è tutto così bello, semplice, leggero. Di notte non parlo più nel sonno. Sogno soltanto montagne di dolci e di libri. Io vorrei esagerare, ma Marta mi raccomanda di non leggerli tutti insieme, altrimenti mi viene la carie. La casa di Marta è quella che disegnavo sempre quando ero a scuola, e lei è la mamma che mettevo in quei temi che dicevano: “Parla dei tuoi genitori, della tua casa, dei tuoi amici”, o cose così. Però io adesso non voglio una casa, non voglio un’altra Mamma. Una mattina, all’alba, mi alzo in punta di piedi. Prendo qualche provvista dalla cucina e me ne vado con il mio zaino in spalla. Le strade di Bardonecchia profumano di resina e l’aria nelle pinete è fresca, non c’è niente di più lieve. Percorro alcuni chilometri senza incontrare nessuno. A volte mi chiedo se ho fatto una cazzata andandomene di casa. Ma poi estraggo dalla tasca didietro dei pantaloni

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una foto di Mamma, che ho portato con me proprio per questa evenienza. È una di quelle fotografie con il bordo bianco che si fanno alla stazione. Fisso le sue guance così rosse, più rosse della sua stessa sciarpa; quegli occhi che mi ordinano di stare zitto e di non fare cazzate. La sua bocca si apre, mi sta per sgridare, è furiosa perché sono scappato. Poi sopraggiungono la nausea, i capogiri e allora ricaccio la fotografia in tasca e mi fermo un attimo per riprendermi. È proprio durante una di queste soste che improvvisamente un ricordo mi indica la direzione da prendere. Mi trovavo su una roccia, con la schiuma dell’acqua che mi scorreva sotto i piedi. Papà era accanto a me e fischiettava una di quelle canzoncine che ti mettono proprio il buonumore. Io lo guardavo appendere l’esca all’amo della sua canna da pesca e poi gettarla lontano, nell’acqua gelida. «Ora tocca a te» il suo tono era incoraggiante «tieni ben stretta l’impugnatura e fai scorrere il filo con tutta la tua forza.» Il vento soffiava forte e il fiume iniziava ad agitarsi sotto di noi. Papà teneva d’occhio i miei movimenti e annuiva orgoglioso. «Bravo, così» diceva «basta che tu segua il rumore del vento e saprai in che direzione buttare la tua esca. È come la musica: ti basta possedere quella dote naturale che ti permette di sentire nel profondo ciò che suoni e sarà come se il tuo strumento suonasse da solo. Sarà la tua energia a far vibrare le sue corde o risuonare la sua cassa.» Mi piaceva stare ad ascoltare la sua voce, anche se non sempre capivo cosa intendesse dire. Tutti avrebbero voluto un papà come il mio, parola d’onore. «Avevo circa la tua età… anzi» disse, soffermandosi un attimo «ero alto così» e mise una mano all’altezza del mio naso. «…proprio un nanerottolo. Mio padre decise di portarmi con sé per lavorare nella sua autorimessa. Ricordo come fosse ieri quell’odore di grasso e quella tuta blu che avevo dovuto rimboccare non so quante volte per non inciamparmi camminando. Arrivavano le macchine più belle di tutta Bergamo e io rimanevo a bocca aperta nel vederle sollevate sul ponte e smontate in ogni loro pezzo. I motori andavano a finire sul retro, dove mio padre li riparava con una precisione maniacale. Il resto dell’auto invece, la scocca, il telaio e tutto il resto, rimaneva nell’androne in attesa di essere riassemblato. Mi insegnò a ricollocare un motore al

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posto giusto e a riparare una marmitta bucata. A volte, quando i lavori erano troppo pesanti per un bambino, mi faceva trasportare i pneumatici o le singole parti della carrozzeria. La sera tardi, quando tornavo dall’officina sudicio e sfinito, suonavo, o meglio cercavo di suonare, una vecchia chitarra che mi aveva portato un fratello di tua nonna dall’America. Imparai le note in poche settimane, cercando di riprodurre il blues che ascoltavo alla radio. Mio padre non voleva che suonassi, pensava che mi distraesse dallo studio e dal lavoro. Ma io non potevo farci nulla, era la mia vita. Solo quando suonavo potevo dire di essere davvero in pace.» Continuavo ad ascoltarlo e sembrava che le sue parole fossero magiche perché avevo già riempito quasi due ceste di trote e anguille. Era come se tutte quelle parole finissero nell’acqua del fiume e si tramutassero nei pesci che poi io ripescavo e mettevo nella cesta. «Tutto proseguì così finché un bel giorno non squillò il telefono. Chiamai mio padre e i suoi operai, ma sembravano essere tutti spariti. Sollevai la cornetta. Dall’altro capo del filo una voce bassa e sicura chiese di poter parlare con qualcuno e io non seppi cosa dire. Mio padre emerse dall’oscurità e mi strappò il ricevitore di mano. “Sì…” la sua voce si fece più incerta “Ah, è proprio lei?…” dal tono deferente sembrava stesse parlando con una persona illustre. “Senz’altro, venga pure quando preferisce… Senz’altro, a dopo.” Gli chiesi chi fosse ma non mi disse altro che di preparare gli attrezzi, le chiavi inglesi e il carrello con le viti e i bulloni davanti all’entrata dell’autorimessa e di iniziare a pulirli: il cliente tanto atteso sarebbe arrivato a momenti. Mi misi a sfregare in modo frenetico, a levare il grasso dalle chiavi una ad una fino a farle brillare, mi arrampicai sul portone d’entrata per togliere le ragnatele accumulate nei mesi. Mentre l’impeto mi rendeva sempre più concitato, apparve sull’uscio un giovane uomo che io conoscevo bene, come conoscevo ogni dettaglio del suo viso, anche se era la prima volta che lo vedevo dal vivo. Quanti quaderni avevo riempito con i ritagli di giornale che parlavano delle sue imprese sportive, quanti pomeriggi avevo trascorso davanti alla TV facendo il tifo per lui, e ora era proprio lì, di fronte a me. “Sono Felice Gimondi” disse con fare sbrigativo “Tuo padre sa già…”. Io rimasi immobile. “L’auto è parcheggiata qui di fronte…”. Stavo formulando la risposta quando mio padre mi soggiunse alle spalle e mi chiuse la bocca che avevo spalancata. “Lascia, va’ di là” disse “me ne occupo io!”»

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Raccontandomi le sue avventure, papà dava una voce diversa a ogni personaggio. Un giorno portò anche me a trovare il campione di ciclismo nel castello in cui abitava. «Poco dopo portò dentro la sua Alfa Romeo rossa fiammante. L’interno aveva ancora l’odore della pelle nuova. Al posto del guidatore c’era un coprisedile con la figura di una cameriera da drive-in su pattini a rotelle. Mi ci sedetti sopra e sprofondai lentamente. La chiave era nel cruscotto. La girai, premetti la frizione come facevano gli operai di papà e mi avviai lungo il viale di pini che precedeva l’autorimessa. Felice Gimondi, impegnato a chiacchierare con mio padre delle lotte sindacali che in quel periodo stavano agitando il cuore delle città, non sentì il rombo del motore che si allontanava e diventava sempre più debole. Pensai che non gli sarebbe spiaciuto se io avessi fatto un giretto sulla sua auto. Del resto dovevo pur capire cosa c’era che non andava nel motore.» «Inizialmente ebbi qualche problema con il cambio, ma poi capii la giusta sequenza delle marce e quando dovevano essere cambiate. Presi la strada provinciale per Bergamo e proseguii sempre dritto, in direzione delle valli…» Una piccola trota intanto abboccò al mio amo. Non mi sarebbe affatto piaciuto trovarmi al suo posto, appeso per un gancio mentre cercavo qualche traccia d’ossigeno. «…rischiai una dozzina di incidenti, ma a quei tempi le strade non erano trafficate come oggi, perciò me la cavai sbandando o sfiorando qualche muro di cinta. Fu solo quando superai Milano e presi con cautela la direzione di Novara che mi resi conto di avere parlato con il mio idolo in carne e ossa, di essergli stato tanto vicino da poter sentire l’odore del suo dopobarba al pino silvestre, di avere quasi sfiorato quelle gambe muscolose, le stesse gambe che mulinavano sotto il sole rovente delle estati italiane. L’auto che stavo guidando apparteneva a un campione che aveva vinto per tre volte il giro d’Italia con la sua bicicletta, e per poco l’eccitazione di questa consapevolezza non mi fece andare a sbattere contro qualche casa o investire qualche pedone. Ma la mia fuga con quell’Alfa Romeo non durò ancora molto. L’ebbrezza del momento mi fece calcolare male le distanze, e dopo un paio di tornanti percorsi in quarta finii in un fossato fangoso… e tu ce l’hai un idolo?» Pensai a Britney, a quando io e Martina ascoltavamo le sue canzoni dallo stereo di Francesco, senza che lui lo sapesse. Ci mettevamo i vestiti e i trucchi di Mamma e ballavamo Crazy sul suo letto, davanti allo specchio.

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Ma certamente papà si aspettava qualcun altro come risposta, tipo un calciatore o un ciclista. Così dissi di no, che non ne avevo di idoli. «Be’, a ogni modo» continuò, tornando a sorridere «balzai fuori dall’auto come in un telefilm poliziesco e rimasi a guardare la carrozzeria lucida sprofondare sempre più nella terra argillosa. Poi mi voltai, scrollandomi di dosso quel po’ di rimorso come si fa con le briciole di pane, e proseguii a piedi sulla stessa strada.» «E dove sei andato poi?» gli chiesi. «Percorsa quella strada nei campi, raggiunsi un piazzale con tanti camion, doveva essere una ditta di autotrasporti. Aspettavo che due camionisti levassero le ancore per mettermi a dormire in qualche angolo, ma non sembravano volersene andare. Uno urlava all’altro che sarebbe andato in Francia a consegnare dei barili di birra bionda e l’altro, su un camioncino più piccolo, rispose in un dialetto comprensibile che anche lui sarebbe andato in quella direzione, ma si sarebbe fermato a Torino. Il camion più grande si avviò e la marmitta emise un fumo nero e denso. Il rimorchio era coperto da un telo blu e fissato ai bordi tramite degli elastici. Io potevo mettermi a dormire lontano da quell’odore di gasolio bruciato, ma secondo te fu questo che feci?» «No…» «Cosa avrei potuto fare di più utile?» «Salire sul camion?» «Esatto! Mi nascosi fra i barili di birra e rimisi a posto il telone.» «Ti portò in Francia?» chiesi. «Sì, fece tre o quattro soste e poi si fermò definitivamente in uno spiazzo di terra battuta. Scesi dopo aver spillato qualche sorso di birra dalla spina di una botte, e corsi via. Certo non avevo più sete, ma avevo ancora tanta fame. I soldi per mangiare li trovai in un locale dove mi assunsero come strumentista in una sgangherata band di jazzisti in pensione.» Il nome di quel locale era troppo magico per poterselo dimenticare: “La Sibylle”. Ecco, è lì che andrò. Mi metto subito in viaggio, anche se sono stanco ed è quasi notte. Ho bisogno di mettere qualcosa sotto i denti, anche se non ho proprio fame. Ho tanta voglia di quella polvere bianca che Mamma chiamava “neve”, ma ci scommetterei la pelle che quello non è il suo vero nome.

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«Ehi» mi diceva, parcheggiando l’auto dietro a un cespuglio o un cassonetto dell’immondizia «ora attraversi la strada senza farti vedere e vai da quell’uomo con un occhio bendato, come i pirati. Gli dai i soldi e prendi la neve. Non provare ad assaggiarla perché ti giuro che ti strozzo con le mie mani!» Io però al ritorno ne provavo sempre un po’, e ogni volta ne volevo sempre di più. Quando l’uomo con il cappello toglieva il sacchetto dalla tasca, io ne prendevo subito un pizzico e la leccavo con la lingua prima di pagare, così, quando mi voltavo, Mamma che mi guardava dal finestrino dell’auto non si accorgeva di nulla. Quando tornavo da lei era sempre furiosa: «Quel bastardo ci ha fregato! Ogni volta è sempre di meno questa roba! E tu che ti fai fregare come un idiota! Questa roba costa un casino di soldi e noi ne abbiamo pochi… razza di fottute sanguisughe!» Entro nel primo fast-food che incrocio sulla statale. Gli odori piccanti delle salse mi pizzicano il naso. La gente che sta mangiando molla il sandwich e si volta improvvisamente verso di me. Io proseguo infastidito fino al bancone e ordino un cheeseburger e una meringa al cioccolato. Pago e mi siedo in un angolino a divorare la mia misera cena. Il tempo trascorre così lentamente da quando sono fuggito! Accanto a me una bambina rincitrullita mi saluta, ma io non rispondo. Suo padre le accarezza i capelli e le dice di finire il suo hamburger, altrimenti si fredda. Lei preferisce il mio cibo e io penso che sia stata una stupida a prendere qualcosa che non le piace. Finisco in fretta ed esco sbattendo la porta. Penso di dormire lì, nel parcheggio. Fa tanto freddo fuori. Sulle auto che sfrecciano ci sono famiglie che stanno tornando a casa per dormire. Le mamme leggeranno una fiaba ai loro figli e spegneranno la luce augurando la buonanotte. Io mi appoggio alla ruota di un TIR e chiudo gli occhi. Questa notte sarà lunghissima.

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2. Tutto il mondo fuori Qualche tempo fa avevo un cane. Si chiamava Ilary ed era una femmina bianca e marrone. Mangiava come un reggimento di alpini, perciò Mamma era costretta ogni giorno a cacciarla affinché non esaurisse le nostre scorte di cibo e non morissimo di fame a causa sua. Mi voleva tanto bene, penso di essere stato il suo unico vero amico. Per questo, prima che facesse buio, lei tornava sempre da me. Quando Mamma era in giro per “conoscere gente nuova”, come diceva, Ilary aveva via libera per entrare dalla finestra della mia stanza, usare il mobile della scrivania come scaletta e dividere il letto con me. Ma non appena Mamma rincasava, doveva fuggire come una saetta da dove era venuta e nascondersi fra i solchi dei campi. Un giorno però Ilary non fu abbastanza veloce. La Cinquecento scassata di Mamma la inseguì, la raggiunse e ci passò sopra tre o quattro volte con le ruote. Piansi per tre giorni e tre notti senza mangiare nulla. È stato il periodo più lungo in cui non ho toccato cibo. Mentre cammino chiedo in giro se qualcuno conosce il locale dove suonava mio padre. Alcuni mi assicurano che è a duecento metri, altri che è dall’altra parte della città. Altri semplicemente non mi rispondono perché sono troppo sporco. Un signore stile Tenente Colombo, fermo alla pensilina dell’autobus, mi indica la strada giusta. Ci arrivo verso sera e rimango a studiarlo da lontano, immaginando come fosse ai tempi di papà. L’insegna “La Sibylle” sfarfalla, e due motociclisti, con un'autentica divisa da motociclista, stanno entrando nel locale. Mi avvicino di più. Sento del jazz uscire dalle fessure delle porte. Batto il tempo con i piedi e tocco lo zaino per assicurarmi di aver portato la mia tromba. C’è. Prima di entrare mi lego i capelli con un elastico viola che ho sul polso. Così, dicono, assomiglio molto a Mamma (anche se lei ha i lineamenti più marcati dei miei).

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Appena apro la porta nera mi travolge un tanfo di fumo e di chiuso che fa sparire il profumo di resina che c’era fuori. All’inizio ho un po’ di paura. Seduti ai tavoli ci sono solo uomini che si voltano verso la porta d’ingresso appena richiusa. Alcuni continuano a bere e ridere, altri mi lanciano occhiate e si danno di gomito, bisbigliando qualcosa che non riesco a sentire. Accanto a me un uomo alto due metri, con la pelle nera e un tatuaggio vivace sul braccio, mi spiega che non posso entrare finché non ho compiuto i diciotto anni. Così tiro fuori la mia tromba e gli spiego le mie intenzioni. Il negro fa cenno a un altro uomo identico a lui che sta di guardia a un’altra porta. Avvicina il suo faccione al mio e mi dice di seguirlo. Sul palchetto di legno un uomo dai capelli grigi sta suonando un pezzo con il sax, mentre un ragazzo più giovane segue la musica con una specie di tromba più lunga e sottile della mia. I clienti seduti sulle seggiole rosse seguono attentamente l’esibizione. Il fumo che esce dalle loro tazze segue il ritmo della musica come un serpente a sonagli segue il flauto del suo incantatore. Dalla cucina arriva un aroma intenso di vaniglia e di cioccolate calde. Quando guardo avanti mi accorgo di aver perso di vista l’uomo di colore. Mi alzo in punta di piedi e lo trovo spazientito che mi fa segno di sbrigarmi. Con qualche spintone lo raggiungo e lo seguo su per una scala stretta e sporca. In cima c’è una porta con una sedia vuota accanto. Il negro mi dice di sedermi lì e di aspettare. Non so chi o che cosa. Verso mezzanotte non ce la faccio più e cado in un sonno profondo. Ci sono tanti cani come Ilary che mi vengono incontro. Hanno il pelo macchiato di sangue, ma non sono feriti. Mi fanno le feste e poi si allontanano facendomi capire di seguirli. Io mi alzo e vado in quella direzione. Dietro a una collina i cani sono spariti e c’è l’auto di Mamma che va in fiamme in fondo a un dirupo. Io rido, rido a crepapelle e mi accorgo che al mio fianco c’è ancora un cane bianco a chiazze marroni che ride con me. Ha le lacrime agli occhi e si contorce dalle risa. Corro verso l’auto: è vuota. Smetto di ridere e una nube nera esce dalla portiera. C’è un forte puzzo di bruciato e io mi tappo il naso per riuscire a respirare. Il cane, che è poco più alto di me, mi chiama con la zampa.

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Quando mi sveglio un uomo basso e rugoso mi sta stringendo il braccio e mi butta addosso il fumo del suo sigaro. Intanto nel locale la musica è finita e non si sentono più gli ordini dei clienti urlati alle cameriere. Soltanto un vocio di gente impaziente che sta aspettando l’arrivo di qualcuno. Mi strofino gli occhi e mi alzo di scatto. L’uomo fa un balzo dallo spavento e mi conduce in una stanzetta semibuia. Gli oggetti e i mobili sembrano troppi per una stanza così piccola e non c’è quasi spazio per camminare. Al centro c’è una scrivania piena di fogli, penne a sfera e stilografiche, matite, amuleti e portafortuna, fermacarte a forma di gargouille e mille altre cose che non riconosco. In ogni angolo della stanza c’è una lampada, ma nonostante questo c’è troppo buio. Mi siedo su una poltrona di pelle marrone, mi guardo le scarpe. L’omino che mi ha svegliato è un po’ grassoccio e ha tre capelli incollati alla testa con il gel. «Così tu sei qui per lavoro…» dice, mentre sfoglia un libro più grosso della Bibbia. Annuisco. «Bene, giovane. Mettiti su quello sgabello» e indica una vecchia seggiola con la gommapiuma che spunta da tutte le parti. Io mi siedo e lo guardo. «No, non devi sederti» ride «devi salirci sopra, in piedi!» Mentre faccio ciò che mi ha ordinato, lui toglie un metro giallo da sarto e si avvicina a me. Mi gira intorno e mi osserva attentamente. Studia il mio viso, i miei fianchi, le mie gambe. Poi inizia a prendermi le misure come se dovesse farmi un vestito. Prima le spalle, poi la vita e il torace. Annuisce soddisfatto. «Sì, sei perfetto…» dice, e io sono contento di esserlo, anche se non so per che cosa. Mi dà una mano a scendere dalla sedia e mi riaccompagna fuori dalla stanza. «Hai mai lavorato in un locale del genere?» mi chiede, continuando a fumare. «No…» «Ti ci abituerai in fretta.» Ridiscendo le scale di marmo scheggiato e torno nel locale… per un attimo credo di aver sbagliato porta: quello che vedo non è “La Sibylle”. Faccio due passi indietro e mi guardo intorno. Non posso essermi sbagliato, quella è l’unica porta che c’è. Eppure niente è come prima: il

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palco dove si esibivano i jazzisti è sparito e al suo posto ce n’è un altro, lucido e con delle lampadine colorate tutte intorno. Gli uomini seduti ai tavoli, molto più giovani rispetto a quelli di prima, non bevono più caffè e cioccolata, ma whisky e tequila. Due di loro si scambiano un’occhiata e si dirigono verso di me con un sorriso smagliante, ma io scappo prima che mi possano raggiungere. Mi rifugio dentro a una porticina accanto al palco e salgo dei gradini. Sento degli schiamazzi in fondo al corridoio. Mi dirigo verso la luce intensa e finisco in una stanza con delle donne sedute di spalle. Alcune si stanno truccando, altre spazzolando. Hanno dei vocioni e parlano di un certo Grand Poteau, ma non capisco altro perché parlano solo francese. Le spio attraverso gli specchi rimanendo nell’oscurità dell’anticamera. Hanno qualcosa di strano: un po’ somigliano alle puttane che stavano fino alle cinque del mattino sulla strada per Ghisalba, però sono molto più truccate e nei loro capelli ci sono delle perle che luccicano. Una di loro allunga una gamba su un ripiano, posando la sigaretta a terra. Faccio due passi avanti e la vedo infilarsi delle calze marroni come quelle di Mamma, ma senza buchi. Guardo meglio e mi accorgo che la gamba è ricoperta di lunghi peli. Allora mi viene in mente quello che diceva Lù, una delle amiche di Mamma: “Li riconosci perché hanno dei peli da cinghiale sulle gambe, e poi la prova infallibile è quella del pomo d’Adamo. Quando alzano la testa, sul collo appare una gobba come avessero ingoiato una mela senza masticarla. E la barba? Ah, senti come si fa…” «Cherches-tu quelqu’un, mon amour?» strilla una delle ragazze sedute, vedendomi riflesso nello specchio. Io cerco di farmi più sottile, ma una mano nervosa buca le tenebre e mi porta alla luce dove tutte mi possono vedere. «Oh, mon Dieu!» gracchia un’altra che si stava mettendo lo smalto alle unghie dei piedi. Ora, sotto la luce, vedo bene la traccia della barba e una di loro si sta mettendo del cerone per coprirla. Sono in cinque e sembrano tutte uguali. Sono tutte puntate verso di me e non mi tolgono gli occhi di dosso. «Qui cherches-tu?» Non so proprio cosa rispondere. Due di loro si avvicinano e mi scrutano negli occhi, nelle orecchie e aggrottano la fronte. Mi sento come Mowgli nel libro della giungla. Apparteniamo a specie diverse e non parliamo la stessa lingua. «Parles-tu français?» questo l’ho capito.

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«No, sono italiano» rispondo, e tutte scoppiano in una risata sguaiata. «Maxime, viens ici. C’est italien!» dice una regina con una ciglia finta che le penzola dalla palpebra. Maxime si avvicina a me incuriosita. Ha dei sandali rosa con dei tacchi altissimi. Ha le calze rosse e un vestitino stretto con i lustrini. Avvicina i suoi occhioni ai miei e mi sorride. «Quanti anni hai?» mi chiede. L’accento è francese, ma si capisce bene quel che dice. «Tredici.» «Oooooh…» le altre, in coro. «Oh, mon cher! Ma che ci fai in un posto come questo?» Sto per dirgli che sono lì per suonare, quando l’uomo basso e grasso che mi ha misurato prima entra nella stanza. Le regine ammutoliscono e continuano a sistemarsi come non mi avessero mai visto. Lui strilla qualcosa in francese che non capisco. Pare furibondo. «Tu! Togliti quello zaino e seguimi. Fra poco tocca a te» dice, puntandomi un dito al petto. Prima di seguirlo mi volto verso lo specchio. Maxime mi fa l’occhiolino. L’omino grasso e calvo non mi ha fatto indossare strani vestiti, dice che i miei possono andare benissimo. Mi ha solo fatto mettere una cosa strana in faccia che, secondo lui, mi fa sembrare meno pallido sotto i riflettori. Io preparo la mia tromba e decido di suonare qualcosa di Frank Zappa. Alle mie spalle arrivano le regine che si stavano preparando prima. Si mettono in fila dietro al sipario e fischiettano la canzone che dovranno cantare. Cerco Maxime, è il penultimo della fila. Lui non mi vede, è troppo concentrato a ripassare le parole. Io sono molto agitato e non so bene cosa fare. L’omino trotterella verso di me con dei passetti rapidi. «Ora segui loro. Si disporranno sul palco e inizieranno il loro…» riflette un attimo su una parola che non gli viene «…spetacolo, ecco. Questa non ti serve» dice, strappandomi di mano la tromba. Resto a guardarlo pensando che debba finire il discorso, ma lui mi volta le spalle e se ne va. «Ma cosa devo fare se non posso suonare?» urlo io. La sua voce mi risponde quando non lo vedo già più: «Scendi solo fra il pubblico. Tu non devi fare nulla!» Sono sempre più nervoso e gli uomini oltre il sipario urlano e fischiano. Quando battono i piedi il palco trema. Le luci in sala si spengono e un

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uomo si mette a ululare. Guardo disperatamente Maxime e alla fine lui si accorge di me. Mi fa segno che è tutto ok. Il sipario si apre e le luci si accendono. Inizia una musica assordante e da non so dove cadono centinaia, migliaia di coriandoli luccicanti. Maxime mi spinge verso la scaletta urlando qualcosa che non sento. Io scendo, e mentre una delle regine sta iniziando a cantare, un uomo mi prende in braccio. Io urlo e mi dimeno. Un suo amico mi ricopre di carezze. Qualcosa mi dice che devo andarmene. E in fretta! Inizio a stare male e ad avere quella sensazione di nausea e di giramenti di testa, giuro. Mi libero e corro verso l’uscita. Un ragazzo mi vede e si precipita verso di me. «Où vas-tu, ma mignonne?» Io cerco di scappare, ma lui mi afferra la mano e mi fa sentire qualcosa di duro che ha nei pantaloni. Arrivano altri uomini e io fatico a respirare. Sento che sto per vomitare, anche se non ho mangiato niente. Mordo il braccio del ragazzo che mi stringe e una mano si allunga verso di me, mi trascina fuori dalla massa e raggiungo la porta d’uscita. Salvo! Mi fermo un attimo a pensare a chi possa avermi aiutato a uscire. Fuori, al freddo, non c’è nessuno oltre a me. Riapro la porta del locale e do un’occhiata dentro. Nessuno sta aspettando la mia riconoscenza. «Cerchi me?» La voce proviene dal bordo del marciapiede dove, nella penombra, vedo il puntino rosso di una sigaretta. Qualcuno sta fumando, ma non vedo il corpo. La persona fa due passi e si ferma sotto un lampione. «Abraham!» urlo. Lui rimane serio e continua a fumare. Ha una matita che gli spunta dai capelli. «Grazie.» Quando parlo con lui il cuore mi batte a mille e devo sforzarmi di non balbettare. Lui alza le spalle e fa un mezzo sorriso, andandosene lungo la via. Mi appoggio al muro e mi accorgo che un braccio mi sta sanguinando. La fame è un po’ più pungente e la nausea è quasi passata. Mi stringo bene la sciarpa per ripararmi e penso alla tromba. Vorrei tanto riaverla, ma non posso tornare dentro, sarebbe troppo rischioso. Cercare di piangere quando sei troppo triste è inutile. Resto solo a pensare cosa fare e dove andare. Potrei fermarmi per vedere se Abraham torna indietro e chiedergli se posso seguirlo, ovunque vada. Potrei andare

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ancora in cerca di zio Ulisse, solo che non credo sia conosciuto da queste parti… Oppure potrei chiedere se posso dormire all’interno della Sibylle, almeno per questa notte. Ormai non mi daranno più i soldi che mi avevano promesso… una porta si apre dove dovrebbero esserci le cucine e vedo uscire un tipo con un sacco nero. Quando se ne va mi avvicino senza far rumore e svuoto il sacco… niente! Solo bucce di frutta, lattine di birra, bustine di zucchero. Torno sulla strada e mi riappoggio al muro. Chiudo gli occhi e aspetto che qualcuno mi porti via con sé. Quando dormo ci vuole qualcosa di forte per svegliarmi. Sento delle mani afferrarmi per le orecchie e sollevarmi da terra. Urlo dal dolore e mi sveglio con il respiro affannoso. È ancora buio, ma vedo bene chi sta di fronte a me. «Ma che cazzo fai?» urlo. L’uomo grasso che mi aveva preso le misure sembra indemoniato. Mi scuote. «Si può sapere che ti è saltato in mente? Alcuni dei miei clienti se ne sono andati dal locale senza pagare la consumazione perché volevano te!» «Non me ne frega niente! Io volevo un lavoro normale. Mi servono i soldi!» «Quello che ti ho offerto è un lavoro più che normale, mon cher!» «A me fa schifo! Ridammi la mia tromba!» grido, cercando di liberarmi dalla sua stretta. «Non so dov’è!» «Dammi almeno un po’ di soldi per andare in un hotel!» «Vieni a lavorare da me, guadagnerai talmente tanti soldi che non saprai più dove metterli.» Mi fermo un attimo a pensarci, poi mi torna in mente quello che è successo là dentro poche ore prima. «Piuttosto preferisco morire…» dico sottovoce, sperando lì per lì di non averlo detto per davvero. A volte mi ammazzerei quando non riesco a tenermi la dannata bocca chiusa. «Allora muori» dice, girandomi le spalle. Lo rincorro mentre la fame dà il tormento. «Dammi qualcosa, bastardo!» lo raggiungo e tento di arrampicarmi sulla sua schiena, ma lui si scuote fintanto che non cado sull’asfalto. Solo ora, finalmente, sto piangendo.

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Grazie al passaggio di un cliente della Sibylle, raggiungo un paese chiamato Grenoble. Credo di essere sempre in Francia perché qui la gente parla solo francese. Appena scendo dall’auto vado in cerca di un posto dove mangiare qualcosa. In un vicolo stretto, con le signore che mi spiano da dietro alle persiane, trovo una trattoria dove fanno cucina all’italiana. È tanto tempo che non mangio più la pastasciutta al sugo rosso. Solo nonna Anna me la faceva, ma lei è morta quando avevo nove anni. Da allora nessuno me l’ha più cucinata. Sento il mio stomaco gorgogliare come lo scarico di un lavandino. Ordino due piatti di spaghetti al cameriere che guarda i miei vestiti malconci. Non mi sono più lavato da quando ho abbandonato la casa della signora Marta. Poi scelgo una cotoletta impanata con le carote, che adoro, un bicchiere di latte e un tiramisù. Avrei mangiato ancora qualcosina, ma la gente ha iniziato a guardarmi stranamente. Arrivo alla cassa e la signora si deve sporgere per vedermi bene. «Paghi in euro?» «…ehm, sì. Sì, certo.» «Allora sono quarantasette euro e ottanta centesimi» la sua voce è quella di una donna che deve fumare un centinaio di sigarette al giorno. Continua a tossire e ogni tanto sputa in un cestino sotto il bancone. Tolgo il portafogli e inizio a contare. Dieci, venti, venticinque, trentacinque… Le banconote sono finite, frugo un po’ nel taschino della moneta dove trovo solo quattro centesimi. Guardo la signora accendersi un’altra sigaretta e rimettere su di me i suoi occhiacci malefici. «Allora?» «…» «Li hai questi soldi o no?» «Questi sono tutti quelli che ho» dalla smania di mangiare non mi ero accorto di avere un po’ esagerato. «Stai scherzando?» «No…» «Come la mettiamo con il resto?» mi chiede, mordendosi un labbro. «Devo… lavare i piatti?» l’ho visto fare in TV da Ollio e Stanlio. «Abbiamo già chi ci lava i piatti e poi tu… non riusciresti a sollevare un pentolone neanche se ne andasse della tua stessa vita!»

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Si mette due dita in bocca e fa un fischio assordante. «Héloise» chiama, e dalla porta delle cucine esce una donna vecchia e curva «fa’ pulire i cessi a questo ragazzino, non ha i soldi per pagarci.» La vecchia dice qualcosa in francese e tutt’e due si mettono a ridere. «Va’ con lei» mi ordina la signora che fuma. Passiamo accanto alle cucine, ma non è lì che la vecchia ha intenzione di portarmi. Continua giù per una scala e ci troviamo di fronte due porte. Lei apre un armadietto ed estrae uno spazzettone e uno straccio vecchio finito in fondo a un secchio. Me li porge e mi fa segno con la testa di entrare in una delle due porte. Apro e vedo un cesso dai bordi tutti crepati, con una striscia gialla all’interno che finisce nel buco. Mi volto e la vecchia annuisce, sogghignando. Appoggio il secchio e lo riempio d’acqua cercando di non far schizzare. Aspetto che la donna sdentata mi spieghi come si fa a pulire, ma è già sparita. Da quel giorno pulisco i cessi della trattoria in cambio di un piatto di pasta o di un avanzo di pizza. Di notte dormo dalla padrona del ristorante che mi da ospitalità nella sua taverna. È un po’ piccola, ma c’è tutto quello che mi serve. A volte, di notte, mi sveglio di colpo e mi guardo intorno credendo di essere ancora a casa, ma poi mi tranquillizzo e mi ricordo di essere ospite della signora Franca. Lei non è cattiva come sembrava. Mi dà ogni giorno qualcosa da mangiare, ma so che non potrò restare da lei ancora a lungo. So che prima o poi mi caccerà, e allora dovrò trovarmi un’altra sistemazione. Ogni tanto la sera mi porta delle coperte perché dice che fa freddo, ma io non le uso. In casa mia faceva sempre freddo. Mamma mi diceva sempre di portare pazienza, sarebbe venuto un suo amico a sistemare tutto. Si chiamava Mario e quando c’era lui pioveva sempre. Teneva addosso i panni da lavoro anche la domenica, quando portava via Mamma con la sua Fiesta blu e sgommava nel vialetto di fronte alla mia stanza. Io correvo in cucina, salivo sopra una sedia, accendevo il fornello e mi scaldavo le mani. Poi facevo entrare Ilary dalla finestra del bagno, la asciugavo nell’accappatoio di Mario e la facevo saltare un po’ alla corda finché non cadeva a terra stremata. Papà conosceva Mario, ogni tanto dava una mano in casa quando c’era da tinteggiare qualche parete o costruire un muretto nell’orto. Papà diceva che Mario è uno di quegli uomini che valgono tanto oro quanto pesano. Io non so quanto vale l’oro, ma so che Mario pesava molto poco, anche quand’era vestito.

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Il giorno del funerale di papà bussò alla nostra porta, Mamma andò ad aprire. Lui le portò tanta di quella neve “da uscire pazzi”, come diceva lei. Arrivammo in chiesa quando la cerimonia era già finita da un pezzo e stavano caricando la cassa nel bagagliaio della Mercedes grigia. Nonna Sofia aspettava lì in piedi, davanti al portone, che anche noi arrivassimo. Io le corsi incontro, ma quando vide Mamma a braccetto di Mario non riuscì a trattenersi. Scoppiò a piangere mentre tutti ci guardavano, e io mi nascosi per la vergogna sotto la sua gonna. «Non mi sembra il caso, ma’! Siamo qui, ora!» «Neanche al funerale di tuo marito ti sei degnata di arrivare puntuale! E poi guardati, pari una tossica della stazione!» «Meglio tossica che patetica come te! Li hai rubati a tua nipote quei vestiti? Perché non ti fai un piercing all’ombelico, già che ci sei?» «Chi è quello?» la nonna indicò Mario. «Un amico di famiglia…» «Dovevi proprio portarlo?» Io stavo vicino alla nonna sprofondando sempre più nel nero dei suoi abiti. Aveva addosso l’odore dei crisantemi che aveva posto in bella mostra sulla bara di papà. «Scusa, ma non credo che questi siano cazzi tuoi!» rispose Mamma con il volume di voce un po’ più alto. «Non urlare! Sto solo dicendo che potevi almeno evitare di portare… potrebbero pensare che sia il tuo nuovo…» «Sai quanto me ne frega di quello che pensa o non pensa la gente! Io faccio quel che voglio, ricordi che sono maggiorenne?» «Ma quando ti sei sposata e hai fatto un figlio non lo eri. Allora avevi bisogno di una mano e di consigli, e io ti ho difesa da tutto e da tutti.» «Se avessi saputo che me lo avresti rinfacciato per tutta la vita sai per cosa l’avrei usato il tuo aiuto? Per pulirmici…» «Sei proprio un’ingrata! Pensa a quanti sacrifici…» «Chi ti ha mai chiesto niente?» la voce di Mamma era ancora un filo più alta, e la gente intorno a noi continuava a voltarsi mentre seguivamo il carro funebre. «Io non so davvero cosa ti abbia preso, non eri così…» «…sincera?» «Questa non è sincerità, piuttosto povertà d’animo!» «Oh, grazie per il sermone, signor parroco. Io non ti ho mai chiesto chi ti scopi da quando è morto papà.»

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«Sei una puttana!» urlò nonna Sofia, mollandole un ceffone in piena faccia. Il corteo sembrò immobilizzarsi per qualche secondo, poi Mamma scappò via abbandonandomi in mezzo alla folla. «Bello spettacolo» mormorò la nonna, dandomi una delle sue mani ingioiellate «vieni… vieni con me, tesoro.» I clienti della trattoria sono piuttosto educati. Alcuni mi danno la mancia, mentre altri mi salutano o mi danno una pacca sulla spalla. Qui solo la signora Franca conosce l’italiano ed è l’unica con cui posso parlare. Ultimamente si fida di più di me e mi fa anche servire ai tavoli. Devo solo portare quello che il cuoco mi passa, al numero di tavolo che mi scrive su un bigliettino. Devo fare attenzione a non far cadere il cibo, altrimenti quel giorno non mi danno da mangiare. La signora Franca ogni tanto mi fa un sorrisetto e temo che si stia un po’ affezionando a me. Io divento sempre più capace e alcuni clienti si complimentano con lei dicendo che servo davvero bene. Questo lei non me lo ha mai detto, ma ormai capisco qualche parola di francese. La domenica si lavora di più e ultimamente i clienti sono aumentati. Io devo servire ai tavoli, spazzare con la scopa, dare una mano in cucina e pulire i cessi. Un giorno la signora Franca mi porta dietro al bancone. Fuma nervosamente e manda giù tutto il fumo. Mi dice che sono davvero bravo, che ci so fare e che non ha mai visto un ragazzino in gamba come me. Si avvicina e mi dà un bacio sulla guancia con le sue labbra che sanno di catrame. Sorride e dice che, se voglio, mi può assumere e pagarmi uno stipendio ogni tre mesi di lavoro. Non è mai stata così mielosa e mi dice che posso iniziare subito dalla mattina seguente. Durante la notte, nel suo bugigattolo, preparo il mio zainetto mettendoci anche un po’ della cena che non avevo mangiato la sera prima. Esco in punta di piedi dalla casa e vago per le strade in cerca di qualcuno che conosca mio zio. Penso che sia stata una buona idea non andarmene dal paese, visto che ormai ho iniziato a conoscerlo un pochetto. La prima notte ho dormito nel parco di Saint-Jérôme, ma da alcuni giorni invece mi accuccio sotto i treni che sono fermi nella piccola stazione. Il parco era molto più ampio e mi dava la possibilità di muovermi meglio e di cambiare vari nascondigli anche nella stessa notte, però ultimamente iniziava a fare davvero freddo e il calore che qui fuoriesce da sotto i treni mi permette di dormire più al

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calduccio. Se verso il mattino l’aria inizia a raffreddarsi, prendo lo zaino (e una coperta che ho preso dalla casa della signora Franca) e mi trasferisco sotto un treno che si è appena fermato. Mi capitava spesso di pensare a Francesco e a Martina e allora diventavo un po’ triste, ma questo non succede più da quando ho abbandonato la trattoria. Tutto il giorno sono impegnato a procurarmi il cibo per il pranzo e la cena e questo non mi lascia il tempo di pensare ad altro. La sera, prima di addormentarmi, prego papà di farmi trovare la casa di zio Ulisse. Sono sicuro che dove abita lui non piove mai e il sole splende tutto il giorno, per tutto l’anno. Ricordo quando ci mandava le cartoline, d’estate. Quei paesaggi dipinti ad acquerello. Li conservavo tutti in una scatola di metallo e li sfogliavo quando fuori c’era un brutto temporale e piangevo. Un giorno però Mamma li scoprì, li inzuppò di disinfettante e gli diede fuoco sulla griglia del barbecue. «Cosa ti è preso, ti piace la Francia? Ti piacerebbe andare a vivere con tuo zio? Credi che lui sia meglio di me? Povero illuso. Va’, va’ da quel fascista di tuo zio. Vedrai che ti sistema lui come si deve!» È parecchio tempo che non suono più uno strumento. Qualcosa che produca della musica, insomma. La mia tromba è rimasta dispersa a “La Sibylle” e nessuno me la ridarà indietro. Su quella tromba aveva posato le labbra papà e c’erano ancora le sue impronte sull’impugnatura. Forse quando troverò un lavoro vero potrò permettermene una nuova, ma nessuno potrà mai ridarmi quella. Al mattino il treno per Lione mi dà la sveglia, dopodiché non riesco più a riaddormentarmi. Così mi avvicino alla grande fontana di pietra e mi do una rinfrescata agli occhi. Poi inizio a procacciarmi il cibo. Nella tasca dello zainetto ho ancora i rimasugli delle mance prese al ristorante, ma li tengo da parte per quando ne avrò veramente bisogno, come quando starò morendo di fame o robe del genere. Lungo i viali di questo paese, i boulevard, ci sono panchine verdi che all’alba sono ancora bagnate di rugiada. Ne ho scoperto uno molto più spazioso rispetto ai soliti. Ci possono circolare soltanto i pedoni. I negozietti si possono contare sulle dita di una mano e un profumo intenso di pane e di dolci si spande nell’aria stuzzicando la mia fame da gorilla. Quello che però mi attira adesso verso una pasticceria con l’insegna scritta a mano è profumo di brioche appena sfornate e di caramello. Sul retro

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della bottega c’è una porta di servizio. Mi avvicino dopo essermi assicurato che non ci sia nessuno di guardia. Respiro a pieni polmoni la fragranza dei dolci come se potesse farmi passare la fame. Sono a due passi dall’entrare, quando all’improvviso salta fuori una bambina più piccola di me e con due codini legati da due elastici azzurri. Porta gli occhiali sulla punta del naso. Si guarda alle spalle: nessuno. Mi indica le torte alle carote che si stanno raffreddando sul tavolo. Abbozza un sorriso e me ne esibisce una. Mi guardo intorno… non sono molto convinto di poterla accettare, ma in fondo è lei stessa a offrirmela. E poi potrei sempre agguantarla e scappare via prima che qualche adulto se ne accorga. Faccio ancora qualche passo e mi ritrovo all’interno della pasticceria. La piccola ora ride e indica di nuovo la torta. Io l’afferro e inizio a mangiarla, frantumandola a grossi pezzi con le mani. I bocconi sono sempre più grossi, ma la fame non sembra diminuire. Sul tavolo accanto ci sono anche dei pasticcini alla crema cosparsi di cannella sopra e altri con le mandorle e le noci. Guardo la piccola come per chiedere il permesso, sapendo già che avrebbe detto di sì. Ne metto in bocca tre, quattro alla volta. La bimba ride ancora di più coprendosi la bocca con due mani. I codini si muovono come bisce impazzite e poco dopo anche io inizio a ridere. Più sto lì dentro, più mi sembra di non fare nulla di male. Mangio come nei cartoni animati giapponesi per fare ridere la bimba, che ormai è a terra con i lacrimoni. Iniziavo davvero a divertirmi, quando dal frigorifero, o così mi è sembrato di vedere, se ne esce un uomo grasso e con dei lunghi baffi bianchi. La bambina si alza e scappa via e io mi faccio serio. L’uomo rimane qualche secondo a fissare la mia bocca colma di dolci, molla la teglia che tiene in mano e si scaglia contro di me. Mi picchia con un oggetto di metallo pesante, tipo un matterello di ferro. Io mi metto in un angolo perché faccia più fatica a menarmi, ma ci riesce bene lo stesso. Sembra che si sia allenato dei mesi per farlo. Le mani che ho usato per ripararmi sanguinano. Nessuno si è accorto di niente perché non mi sono lamentato. Quando ha portato a termine il suo lavoro mi prende e mi getta per strada. Non so perché, ma i dolci che ho mangiato iniziano a darmi un po’ la nausea. Penso che non mi verrà mai più fame per il resto della vita. Nonna Sofia mi ha insegnato che chiedendo “per favore” si può ottenere quel che si vuole. Io preferisco cavarmela da solo, odio dover scongiurare la gente. Entrando nel negozio vicino al parco di Saint-Jérôme mi

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riprometto che questa sarà la sola e unica volta che chiederò qualcosa come elemosina. Le pettegole, che facevano a gara per avere l’ultima baguette, lasciano le loro chiacchiere a metà e puntano i loro occhi su di me. Sui miei occhi bollati e sulle mie mani insanguinate. Alcune mi guardano con incredulità, altre con compassione. Non ho dovuto insistere per avere un pezzo di focaccia e due di pizza. Rimando la mia promessa di non chiedere favori alla prossima volta. Intanto vago per i boulevard senza sapere dove sto andando. Gli occhi gonfi mi impediscono di vedere certi particolari e all’uscita del panificio devo aver preso la direzione sbagliata. Alcune strade mi sembrano familiari, ma mi basta svoltare l’angolo per capire che non è la strada che credevo. Non mi sto più dirigendo verso la stazione e la testa inizia a girarmi velocissima fino a che non riesco più a reggermi in piedi. Mi fermo un solo istante, ma poi riprendo il cammino perché una vocina, forse quella che la nonna chiamava “coscienza”, mi dice di continuare e impedisce alle mie gambe di fermarsi. Quando riconosco qualche particolare che credo di aver già visto mi aspetto di veder spuntare la stazione da qualche parte, ma nonostante i miei sforzi non c’è, oppure sono le botte che ho preso a far sì che non la veda. Il mio giubbino è macchiato di sangue. Alcuni bambini si scansano quando mi vedono passare. Che scemo, ho scordato l'orologio di papà alla trattoria, così non so nemmeno che ore sono. Si fa sera un’altra volta. Mi rassegno e mi fermo sotto un albero che costeggia la strada. So che stavolta nessuno si fermerà per darmi uno strappo, così conciato. Faccio paura anche a me stesso quando mi vedo riflesso in qualche vetrina. Mi allontano dalla strada principale e salgo su per una viuzza, seguendo un gatto bianco. Ci sono due ragazzi che si stanno baciando sotto un balcone. A dire la verità lei gli sta succhiando le labbra come per togliergli il veleno di un serpente. Quando gli arrivo appresso lei smette di farlo e si volta dall’altra parte. Rido dentro di me all’idea di averla fatta vergognare. Il gatto intanto è sparito e io lo cerco dietro a ogni cespuglio, deve pur essere da qualche parte. I due ragazzi stanno salendo su un’auto, e il rumore del motore fa rizzare il pelo del gatto che è più vicino a me di quanto pensassi. Scende da un ramo e mi si posa sulla spalla. È piccolissimo, mi sta in una mano se la allargo bene. Fa un balzo e sale su una panchina sgangherata. Miagola, vuole che mi sieda accanto a lui. Le sue fusa mi ipnotizzano, sento gli occhi pesanti. Chissà se stando così vicini sogneremo le stesse cose. Mi prometto che appena

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avrò un po’ di moneta chiamerò Fra e gli racconterò tutto, in modo che non si preoccupi più per me. Ho dormito per tutta la notte senza svegliarmi mai. Del gatto sono rimasti solo i peli appiccicati alla mia camicia. Per strada le persone sono ancora mezzo addormentate. Un’auto passando mi spruzza addosso del fango, e io me lo scrollo alzandomi e rimettendomi in marcia. La strada che sto percorrendo è deserta. Non ci sono più negozi né panchine. L’asfalto non è più integro ma pieno di buche e rattoppi. Cammino per ore. Le case e le auto sono sempre più bacucche; nei giardini cresce erba altissima e secca, non si sentono più rumori di gente che lavora, di pulmini gialli che portano i bambini verso scuola. All’ora di pranzo anche le auto sono sparite e mi fermo in un grande spiazzo ricoperto di ghiaia. Tolgo di tasca la focaccia e inizio a sbocconcellarla, anche se non ho per niente appetito. Non so perché, ma qualcosa mi dice di fermarmi, di non andarmene da lì. In fondo al piazzale noto delle roulotte sporche e mezzo sprofondate nel terreno. Sembrerebbero preistoriche, considerato il loro stato. Mi avvicino finché non sento delle voci di bambini. Incuriosito, seguo quelle vocine che provengono dal boschetto dietro alle roulotte. Al momento non vedo nessuno, ma strizzando un po’ gli occhi: eccoli! Cinque bambini, due maschi e tre femmine, stanno giocando nella terra umida del bosco. Muovo ancora qualche passo senza farmi notare e distinguo meglio le loro facce, luride ma divertite. Hanno legato una lepre per le zampe a uno stendibiancheria, e la colpiscono a turno con dei sassi raccattati dal sentiero. L’animaletto si dibatte con tutte le sue energie mentre i bimbi ridacchiano e lanciano sempre più forte. D’un tratto la porta di una roulotte si spalanca e si affaccia una donna grassa con un foulard colorato in testa. Io mi nascondo dietro ai rami di un arbusto. La donna urla qualcosa e i bambini smettono di giocare. Mollano tutto e corrono verso un barile di plastica blu, colmo d’acqua, dove uno alla volta si lavano le mani. Le bambine si mettono attorno a una tovaglia stesa per terra, mentre i maschi si spruzzano l’acqua in faccia. La donna urla ancora in una lingua che non è francese né italiano, e tutti si vanno a sedere formando un cerchio. Resto nascosto a guardarli mentre la loro madre versa nei piatti un liquido denso e bianco che somiglia alla colla dei falegnami. Sono tutti molto uniti. Una bambina con i capelli intrecciati, la più piccola di tutti, ruba il

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cibo dal piatto degli altri. Un’altra, che ha una fascia rosa in testa, protesta e cerca di riprendersi la sua parte, mentre dall’interno della roulotte una voce da uomo dice qualcosa ponendo fine ai litigi. Non so da quanto tempo sono lì, ma aspetto che tornino tutti a giocare per potermene andare indisturbato. Le foglie secche sotto i miei piedi scricchiolano e spero che nessuno si accorga di me. Provo a sistemare meglio lo zaino sulle spalle per bilanciare il peso, ma un ramo secco del cespuglio si conficca nei miei pantaloni e lo zaino rotola avanti, verso la tovaglia. La mia maledizione! Resto immobile, sperando che nessuno abbia sentito nulla, ma la bimba con la fascia rosa si volta di scatto. Non può aver visto me, per via della semioscurità del bosco, ma può aver visto il mio zainetto. Bisbiglia qualcosa a uno dei maschi e indica il cespuglio dietro al quale mi nascondo. Con un ramo abbastanza lungo cerco di riprendermi velocemente lo zaino, ma qualcosa mi pizzica forte una chiappa. Urlo e mi scrollo per far sì che quell’insetto, o qualsiasi cosa sia, lasci in pace il mio culo. A quel punto tutti si voltano verso il cespuglio e il maschio più coraggioso si avvicina circospetto al mio nascondiglio. Non posso più fingere di non esserci e quindi emergo dal cespuglio lentamente, per non fare spaventare nessuno. Mi avvicino alla tovaglia e i bambini mi guardano con curiosità. La donna con il foulard è rientrata nella roulotte e siamo soli. La bambina con la treccia mi fissa portandosi alla bocca dei chicchi di riso presi da una ciotola. Così mi ricordo della focaccia che tengo ancora in mano, ne stacco un pezzo e gliela porgo. Lei si precipita e me la strappa di mano. Un maschio seduto in un angolo si mette a piangere e allunga le mani come stesse giocando a mosca cieca. Tutti gli altri lo imitano. Il pianto del bambino si fa più forte e così divido la mia focaccia in tanti pezzi uguali e la distribuisco. Il pianto smette, e io mi allontano spaventato ripercorrendo il piazzale e tornando sulla strada che ho interrotto. Cammino sul ciglio di un fossato senza sollevare mai la testa. Le mosche mi torturano. I piedi iniziano a farmi male, ma sento di potercela ancora fare. Dormire per strada mi fa sentire un barbone, anche se non lo sono, quindi penso bene di fermarmi al primo hotel e prendere in affitto una camera per una notte. Non mi interessa che abbia i rubinetti d’oro e la tappezzeria di seta alle pareti come nella casa della signora Marta. Mi bastano un letto e un cesso. Verso sera finisco in un viale dove improvvisamente ricompare la vita. Le strade sono di nuovo asfaltate e le case hanno dei giardini veri. Le

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automobili sfrecciano con i fari accesi, e all’orizzonte vedo dei palazzi che potrebbero avere una stanza per me. Visti da fuori sembrano tutti uguali. Dentro hanno lo stesso odore del club “La Sibylle”. I tappeti che portano alle scale mandano un odore di polvere e tabacco. Sul bancone di legno sono esposti i prezzi in euro. Quando credo di avere trovato il meno caro, affondo le mani nelle tasche e cerco la monetina. La fila di ragazzi dietro a me si fa sempre più lunga e impaziente. Conto i soldi e mi accorgo di averli quasi finiti. Controllo nel portafogli, ma non c’è ombra di spiccioli. I pochi che ho non mi bastano neanche per la cena. Il portiere mi guarda con aria interrogativa. Io faccio no con la testa, mi volto e torno fuori. La doccia calda e le coperte morbide che mi ero immaginato si dissolvono come fumo. Un uomo ben vestito si scosta per non sporcarsi lo smoking, toccandomi. Per la prima volta invidio gli zingari che ho visto qualche ora fa. Loro sanno dove dormire e possono divertirsi. Sanno da chi andare quando hanno voglia di trastullarsi e dove andare per avere qualcosa da mangiare. Mi rendo conto di trovarmi in mezzo alla strada mentre le auto continuano su due file, alla mia destra e alla mia sinistra, quasi sfiorandomi. So che potrebbero urtarmi, ma non sono in grado di muovermi. Lì in mezzo mi sento forte, mi sento al centro dell’attenzione e non mi infastidisce più essere osservato. Sono come Mosè in mezzo alle acque nelle storie che mi raccontava la nonna prima di andare a letto, quando Mamma era abbastanza lontana per non sentirci. Io non ho nessuno al mio seguito, ma sento di avere la stessa sua potenza. Penso che avrei voglia di tornare da Fra, di spiegare a Martina quello che mi è successo da quando sono partito. Appena posso li chiamerò, e stavolta non starò zitto. Racconterò tutto, degli zingari, della signora Marta, di Abraham, della tromba che ho perso. Mi chiedo se mi stiano ancora cercando. Me li immagino sulla volante della polizia con Mamma e nonna Sofia a setacciare ogni parte del pianeta. Delle lacrime mi riempiono gli occhi e inizio a vedere tutto sfuocato. Non vedo altro che due strisce, una bianca e una rossa, scorrere ai miei fianchi. La strade sembrano infinite da percorrere a piedi, ma prima o poi finiscono. Buone o cattive che siano hanno sempre una fine. Credo.

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3. Fango Quando Martina mi spingeva sull’altalena, Francesco era geloso. Capitava a volte che mettesse il broncio finché non dicevo a sua sorella di lasciare il posto a lui. Mi piaceva farmi spingere e volare in alto fino a toccare il cielo con la mano. Martina diceva che è impossibile toccare il cielo, perché è molto più in alto di quanto possa sembrare. Fra invece era convinto che il cielo fosse ovunque, anche intorno a noi. Io non dicevo mai a chi davo ragione perché si sarebbero messi a litigare e Mamma li avrebbe cacciati via, lasciandomi di nuovo solo. Martina, con quei capelli e quelle lentiggini rossi come fragole, pareva il risultato di un esperimento genetico. Quegli occhialoni tanto spessi facevano sembrare i suoi occhi grossi e tondi come due uova sode. Francesco era taciturno, scrutava il mondo attraverso il suo ciuffo biondo con l’aria di chi ha cose ben più interessanti da fare di quelle che sta facendo. Con loro mi comportavo in modo differente. C’erano cose che facevo con uno e non potevo fare con l’altra. Martina poteva sedersi sulle mie gambe quando salivo sull’altalena, Francesco no. Lui doveva esserci, ma alle mie spalle. Dovevo sentire le sue mani che mi spingevano, mentre io e sua sorella cercavamo di capire chi avesse ragione sulla questione del cielo. Fra mi faceva arrivare alle stelle e poi tornare sulla terra, senza mai toccarla. Mi spingeva sempre, anche sotto la pioggia, quando le gocce mi piombavano in faccia e poi si dissolvevano nel vento. Poi un giorno non ho più voluto che mi facesse dondolare, volevo che mi stesse alla larga. All’improvviso non trovavo più divertenti i suoi scherzi, e il suo modo di spingermi sull’altalena m’innervosiva. Mi faceva arrivare tanto in alto che avevo paura di schizzare via e sfracellarmi al suolo. Solo Martina poteva restare con me. Lei mi coccolava sulla panchina del mio giardino giorno e notte. Ogni volta che glielo chiedevo. La bambina con la treccia di stamattina le somigliava molto, e il suo fratellino piccolo faceva le stesse smorfie di Fra.

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Ho deciso di tornare da loro, dagli zingari. Questa volta non li ho trovati nel bosco a giocare, ma hanno acceso un fuoco davanti alle roulotte e ci si sono seduti intorno. La ragazza con la fascia rosa in testa e sua madre cantano delle canzoni in una strana lingua, forse un codice per non farsi capire dagli estranei. I bambini piccoli, compresa quella con la treccia, borbottano qualcosa perché non sanno le parole o non conoscono la lingua segreta. Sul fuoco c’è una padella nera dove sta cuocendo qualcosa che non riesco a riconoscere. Un maschio si alza in piedi e batte le mani a ritmo di musica. Avessi avuto la mia tromba avrei potuto chiedere di suonare per loro in cambio di quello che c’era a cuocere, ma sono costretto a restare nascosto e spiarli. La madre toglie la padella dal fuoco e versa il cibo nei tovaglioli di carta che i bambini hanno già pronti in mano. Un bimbo esulta e inizia a sbucciare le castagne arrosto. Chi pensa di averne ricevute di meno protesta e si prende la sua parte da chi gli sta a fianco. Tutti iniziano a urlare, piangere e darsi sberle. Dall’interno di una roulotte esce la solita voce tuonante che interrompe il casino. Io, con i crampi allo stomaco, faccio rotolare un sasso verso il falò. La ragazza con la fascia rosa si volta ma non mi vede per via del buio, eccetera. Ha un livido all’occhio sinistro che al mattino non aveva. Tutti continuano a mangiare e la signora torna dentro dopo aver raccomandato qualcosa sottovoce. Faccio rotolare un altro sasso, questa volta più grosso. La bimba con la treccia mi guarda con due occhi all’ingiù davvero penosi e mi viene incontro. Mi unirei volentieri al loro cerchio; mangerei con piacere le caldarroste cotte a puntino con il vino caldo che mi offrono, ma ho paura che poi credano che starò sempre con loro, che apparterrò a loro per sempre. Non sarà così. E dubito che la loro madre, e “la Voce” proveniente dalla loro roulotte, sarebbero contenti di avere un’altra bocca da sfamare. Credo che vogliano starsene in pace e non vogliano grane. Preferisco rimanermene solo nel mio cespuglio aspettando il mattino. Qualcosa troverò da mettere sotto i denti e un posto al riparo dove riposarmi. Si fa notte e non riesco a chiudere occhio. Il fuoco è sempre acceso e sono rimasti ancora tre bambini a mangiare castagne. Ho cercato di resistere il più a lungo possibile, ma adesso, senza rendermene conto, le mie gambe mi stanno portando vicino al falò. La bambina con la treccia chiama quella più grande con l’occhio pesto. Entrambe mi fissano, mentre il

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fratellino continua a raschiare il fondo della padella in cerca di qualcosa di commestibile. La luce della luna li fa sembrare più pallidi. La ragazza si pulisce nella manica del maglione la bocca sporca di fuliggine e mi passa il suo tovagliolo dove sono rimaste tre castagne. Le sbrano senza sapere in quale lingua devo ringraziare, ma intanto inizio a riempirmi un po’ lo stomaco. La piccola mi sorride di tanto in tanto mostrandomi i denti d’oro, mentre quella con la fascia rosa sembra più diffidente e quando finisco di mangiare prende in braccio il bimbo piccolo e lo porta in una delle due roulotte. Rimango solo con la bimba dai capelli lunghi. Dopo un istante di silenzio inizia a parlare nella stessa lingua della canzoncina di prima. Io non so cosa risponderle e mi stendo accanto al fuoco, aspettandomi che lei entri nella sua roulotte e mi lasci solo. Ma non sembra volersene andare. Si sdraia accanto a me e canticchia sottovoce. Guarda le stelle. Non sorride più, anzi, sembra che stia scoppiando in lacrime ma che cerchi di trattenersi per la vergogna. Ci addormentiamo così, senza sapere cosa dire e senza sapere come dirlo. Alla luce del sole tutto è diverso. La bimba ha una medaglietta al collo. C’è inciso un nome: Sneza. «È il tuo nome?» le chiedo. Resta a guardarmi con gli occhi ancora mezzo addormentati. «Comment t’appelles-tu?» provo. Niente, muta. Scarabocchio qualcosa nella cenere del falò. Il fuoco si è già spento da qualche ora, ma sotto la legna carbonizzata esce ancora del fumo. «Il mio nome!» Mi volto per vedere chi ha parlato e la zingarella mi sta fissando. «Il mio nome è Sneza!» dice soddisfatta. «Ah ah!» grido «ma tu parli italiano?!» «Italiano…» dice lentamente. Quel tono mi fa credere che non capisca sempre quello che le dico. «Sai l’italiano?» «Mia sorella sa.» Parla lentamente e ha l’erre moscia come i francesi ma capisce quello che le chiedo. La sera seguente, con il permesso degli altri, dormo ancora accanto al fuoco nel piazzale. Sneza resta tutta la notte a farmi compagnia.

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L’ultima sera nel loro accampamento fa molto più freddo del solito. Quando parliamo, dalle nostre bocche escono nuvole di vapore, come se stessimo fumando. La sorella maggiore di Sneza, Michelle, rimane un po’ più a lungo del solito intorno al fuoco e per la prima volta si rivolge a me. «Ti piace fumare?» «Solo roba buona» rispondo con la solita frase che usava Mamma. «Allora ho quello che fa per te.» Michelle parla come se venisse dal mio stesso paese. Estrae delle canne dalla tasca posteriore dei suoi jeans e me ne lancia una. Io non la accendo subito. Mi sarà utile più tardi, per addormentarmi. Rimango a fissare l’occhio nero di Michelle. Non oso chiederle cosa si è fatta. «Allora tu sei italiano…» «Sì. Come fai a conoscere la mia lingua?» «Lavoro in un circo dove tutti parlano italiano.» «Capisco…» Dico sempre così quando non so che dire. Dico sempre “capisco”, anche quando non capisco. So che posso sembrare stupido, ma vi assicuro che non lo sono poi tanto. Penso che mi piacerebbe davvero tanto passare un po’ di tempo in un circo, magari non lavorarci ma vivere lì per un po’. «A che pensi?» mi chiede Michelle. «A niente.» «Be’ potresti almeno dirci il tuo nome.» Mentre sta finendo la frase, “la Voce” inizia a sbraitare delle cose dalla roulotte. La TV all’interno non ha il sonoro, o almeno dal cortile non si sente nulla. Si vedono soltanto delle strane ombre proiettate sulle tende stropicciate come fogli di velina. «Mi devo alzare presto domattina» dice. E se ne va. Sneza si avvicina a me. «Tu non fumi?» le chiedo, estraendo la mia canna dalla tasca. «…» Le mostro la sigaretta indicandola con l’altra mano. Lei fa cenno di no con la testa e si stende, chiudendo gli occhi. Avvicino la canna al fuoco per accenderla e la porto subito alla bocca, facendo dei lunghi tiri perché non si spenga. Sneza riapre gli occhi e mi guarda buttare fuori il fumo. «È da uscire pazzi!» dico, ma lei non capisce.

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Qualcosa mi sveglia nel cuore della notte. Sono urla e colpi metallici. Sneza, con la testa sulla mia pancia, continua a dormire beatamente. Volto la testa verso la roulotte che ha la luce accesa. Michelle sta rispondendo a qualcuno nella lingua in codice. “La Voce” urla senza tregua e la signora con il foulard fa da spettatrice. Sneza non si è mossa. Forse è abituata a questo baccano, ma da quando io dormo qui non era mai successo niente di simile. Finalmente tutti smettono di gridare e anche i colpi s’interrompono. Michelle piange guardando fuori dalla finestra. Io resto un po’ a fissarla, poi mi riaddormento. Al mattino trovo Sneza in piedi accanto a me con un’aria impaziente. Ha un sacchetto di plastica verde su un braccio e un ombrello rotto sull’altro. «Andiamo» mi dice. Mi ci vuole qualche secondo per ripigliarmi dal sonno e dalla canna della sera prima. È ancora buio e un gallo sta cantando chissà dove. «Eh?» chiedo, sforzandomi di ricordare se avessimo programmato di partire. Lei indica un punto in fondo allo spiazzo dove intravedo Michelle, con due zaini in spalla, che ci fa segno con il braccio di seguirla. Resto un po’ scosso, non so dove abbiano intenzione di andare. Mentre decido che sarebbe meglio seguirle, perché anche se restassi lì nessuno si prenderebbe cura di me, la luce della roulotte più grande, quella dei genitori e delle due sorelle, si accende all’improvviso e prima che io possa cercare il mio zainetto la porta si spalanca e si affaccia qualcuno. Quel qualcuno che non avevo mai visto e che mi faceva rabbrividire solo a pensarci. È “la Voce”, solo che adesso ha anche un corpo attaccato. Abbasso in fretta lo sguardo perché una voce deve rimanere tale, non voglio vedere che forma ha. Quando inizia a parlare, Sneza mi afferra per un polso e mi trascina via tanto in fretta che riesco appena a stringere il laccio del mio zaino per portarlo con me. «Aoh!» grida Michelle furibonda. Io e Sneza corriamo a perdifiato mentre “la Voce” continua a lanciarci maledizioni. Solo in quel momento mi accorgo che la piccola zoppica. Provo a guardarla meglio e mi accorgo che ha una gamba leggermente più corta dell’altra, o così mi sembra. Michelle è sempre molto seria, specialmente quando deve dare ordini. Smettiamo di correre solo quando arriviamo nel centro di un paese e la

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mia milza è ridotta un foglio di giornale appallottolato. Accanto a una chiesa che nessuno usa più, c’è un supermarket con delle insegne colorate, che però a quell’ora sono ancora spente. Michelle ci lascia nel parcheggio e sparisce per un paio d’ore. Qualche macchina inizia a entrare nel piazzale e la gente si avvicina alle porte del market ancora chiuso. All’interno le luci si accendono, e le commesse si avvicinano alle casse allacciandosi le uniformi a vicenda. Michelle torna da me con l’aria scossa da qualcosa che sta per fare. Mi prende per mano e mi dice di eseguire solo quello che mi ordina, senza prendere iniziative. Annuisco e mi preparo ad ascoltarla, per non perdere nemmeno una parola. Dice che Sneza starà sulla porta del market mentre lei entrerà a prendere delle cose. Mi chiede se ho mai scassinato una serratura. Rispondo che una volta l’ho fatto, ma è passato un po’ di tempo e non so se mi ricordo bene. Poco dopo le insegne si accendono e le porte si aprono. Quando la gente è entrata, Michelle mi porge un cacciavite e si allontana con Sneza verso l’entrata. Io resto paralizzato, non so come fare. E ho paura che qualcuno mi veda e mi possano sbattere dentro. Mi sono quasi convinto, quando nel parcheggio entra una Citroën grigia e quindi mi sposto in un baleno facendo finta di guardarmi intorno. Ancora cinque minuti per riavvicinarmi lentamente alla macchina blu che Michelle mi ha indicato. Tolgo in fretta il cacciavite dal giubbino. Sento delle voci lontane, mi volto e vedo due vecchie signore a braccetto. Non mi fido per niente delle vecchiette. Una volta ci mancò poco che finissi al fresco per colpa loro. Avevo appena pagato l’uomo con la benda da corsaro e stavo tornando da Mamma, quando una signora curva e con le forcine nei capelli si mise a strillare. Dietro l’angolo c’era una pattuglia ferma che non avevo visto. I poliziotti misero in moto e cercarono di seguirmi, quando io però ero già a bordo della Cinquecento. «Dalla a me» disse Mamma, rubandomi la busta di Mamo e infilandosela nel reggiseno «e tu mettiti giù!» Io obbedii guardandola da sotto. La volante rallentò e Mamma strizzò l’occhio ai poliziotti e si passò la lingua intorno alle labbra. Nessuno disse nulla e gli sbirri se ne andarono.

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Le due vecchiette intanto si sono fermate davanti alla chiesa cadente. Una farfuglia qualcosa e l’altra scuote il capo, indignata. Quando si allontanano prendo coraggio e mi avvicino alla Renault. Infilo il cacciavite sperando di non deludere Michelle. Non ci metto molto, due secondi e la serratura salta. Sneza è ancora sulla porta. Quando le faccio un cenno lei entra per due secondi e riesce con la sorella. Michelle è molto prudente e si avvicina adagio, fingendo di ridere con Sneza. Quando raggiungono l’auto mi fa salire dietro, mentre lei cerca di farla partire. Sneza sta seduta sul sedile anteriore. Non parla. Mi tiene solo d’occhio ogni tanto per assicurarsi che sia ancora lì. Io sono agitato e continuo a setacciare con lo sguardo il parcheggio. Niente, sembra che tutti stiano nascosti per darci il tempo di far le cose con calma. È proprio quando abbasso la guardia che spunta un’auto dal fondo del piazzale. La gente inizia a uscire dal supermarket e a riversarsi nel parcheggio. L’auto azzurra fa dei giri pigri attorno al negozio. Avverto Michelle che balza sul sedile lasciando penzolare i fili da sotto il cruscotto. Farfuglia qualcosa nel suo gergo e apre la portiera per uscire, ma quell’auto sta venendo proprio nella nostra direzione. Sneza si porta una mano alla bocca e fissa il suo sguardo terrorizzato sulla sorella. Mi basta poco per capire chi sta in quella macchina. Ormai è troppo tardi per scappare. Michelle si riabbassa e manipola ancora i fili tenendo però la testa su, per non perdere di vista il nemico. Non so se nascondermi o restare dove sono, ma poi penso che sia meglio stare fermo per non dare nell’occhio. Gli agenti ci sono vicinissimi e io penso già che fra poco ci metteranno in una cella con dei letti veri e ci daranno da mangiare due volte al giorno, ma ad un tratto dal nostro motore arrivano dei rumori inconfondibili. La Renault inizia a sobbalzare, Sneza si aggrappa al sedile e l’auto parte a tutto gas sbattendomi contro lo schienale. Siamo già fuori dal parcheggio, la volante ci insegue. Svoltiamo l’angolo senza sapere dove andare. Michelle preme a fondo l’acceleratore sfiorando per un pelo un ciclista. Io non oso voltarmi, ma so già che quei bastardi ci stanno raggiungendo. Le dico di correre, ma lei non mi bada. Intanto cerco di immaginarmi le prigioni francesi. Potrebbero essere migliori di quelle italiane. Una volta ci sono stato, quand’ero ancora in Italia. C’ero andato con nonna Sofia. Mamma era ancora più magra del solito e ci guardava da dietro a un vetro.

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«Si può sapere cos’hai combinato?» chiese la nonna. «Perché sei venuta?» Mamma continuava a mangiarsi le unghie e a sputarle per terra. «Perché sei mia figlia!» «Smettila ma’, non sono più una bambina.» «Cos’hai combinato?» «Mi hanno trovato della roba in casa. Ma non era mia, era di Mamo.» «Di chi?» «Di M-A-M-O!» articola. «Cos’è, un detersivo?» «La vecchia fa la spiritosa, eh? Ti sembra il posto adatto?» «Cosa pensi di fare quando uscirai? Non penserai di portarti subito via il piccolo.» «Lui è mio figlio» mi indicò, ma senza guardarmi in faccia «me lo porto dove voglio. L’ho fatto io, cazzo, con chi dovrebbe stare?» «Tu non sapresti badare neanche a un Cicciobello! Già una volta gli assistenti sociali me lo hanno portato a casa.» «Quando torni mamma?» mi venne spontaneo chiedere, anche se non mi interessava davvero. «Presto staremo insieme per sempre e nessuno ti porterà più via.» Fu la prima e ultima volta che vidi Mamma piangere. «Smettila! Sai benissimo che non puoi» disse la nonna, sforzandosi di mantenere il volume della voce basso. «Lui è mio!» gridò Mamma. Un poliziotto si avvicinò a lei sollevandola dalla sedia. «Lasciami, stronzo! Non è ancora scaduto il tempo. Quella negra là in fondo sta parlando da un’ora!» «Non è vero. E comunque lei non sta urlando.» La nonna mi coprì la vista con una mano e mi portò via mentre Mamma si dimenava. «Tornerò presto, amore» disse ancora, ma io finsi di non sentire. Appena trovo il coraggio di voltarmi vedo l’auto azzurra superarci sulla sinistra e centrare in pieno una moto che arrivava dall’altro senso. L’uomo che guidava viene catapultato a qualche metro di distanza. La pattuglia ci sbarra la strada e Michelle è costretta a fermarsi.

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Fra mi diceva che se gli sbirri ti fermano devi scappare e non voltarti mai, ma solo se sei sicuro di potercela fare, altrimenti è meglio che ti arrendi per non farli incazzare. Michelle e Sneza sembrano già conoscere queste regole, infatti escono dall’auto con le mani alzate. Uno dei due gendarmi è corso a soccorrere il tipo che è volato. Urla qualcosa, dev’essere grave. L’altro poliziotto, che aveva già tolto le manette dalla tasca dei pantaloni, si volta verso di lui. Michelle ne approfitta per farci un cenno in direzione del guardrail. Oltre c’è un pendio non molto ripido. Afferro Sneza e corro senza fermarmi in quella direzione. Michelle ci raggiunge in un attimo e mi ruba la sorellina dalle mani. Lei corre come una gazzella, ma il poliziotto dà una rapida occhiata al ferito e poi si lancia al nostro inseguimento. Costeggiamo una radura e ci addentriamo nella macchia, spostando con le mani i rami flessibili come fruste. Sento che quel figlio di puttana ha il fiato lungo, non molla. Devi correre senza mai fermarti, mi capisci? Se ti fermi a guardare sei già morto. La vegetazione si fa sempre più fitta. Mi faccio strada fra i rami che poi si richiudono alle mie spalle, flagellandomi la schiena. Non sento più Sneza che un attimo fa era una spanna avanti a me. Potevo toccare i suoi capelli. Poi arriva il momento del crollo, come quando inizia a piovere e io mi paralizzo. Sento di non potercela fare e mi lascio cadere all’indietro. Mi sembra già di sentire le braccia del gendarme che mi prendono, e invece cado su un ceppo duro e secco. Tonf. Mi guardo intorno. Non ci sono che foglie e tronchi. Dal verde emergono le facce atterrite di Sneza e di sua sorella. Sembra che lo sbirro francese abbia perso le nostre tracce, ma Michelle ha imparato a non fidarsi più di niente. Specialmente della troppa quiete. Bastano pochi secondi per capire che ha ragione lei. Dietro a un abete si muove una sagoma scura che tutti noi riconosciamo. Scappare è inutile e quindi io per primo mi avvicino alla figura e mi lascio ammanettare. La gente che gira in centrale mi dà il voltastomaco. Non che abbia qualcosa contro i criminali, o i ladri, o i delinquenti, eccetera. Possono continuare a delinquere a patto che mi stiano alla larga. Non vorrei mai diventare uno di loro. Io non sarò mai come loro. Prima di entrare nell’auto blu ho gettato via la canna che avevo in tasca. Nessuno di noi ha un documento e Michelle, la più grande, viene portata lungo un corridoio

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dal pavimento color topo e le luci che vanno e vengono. Prima di andarsene, ruba una penna da una scrivania e se la infila nella cintura. Io e Sneza restiamo soli con uno sbirro bacucco e con la barba di due giorni. Ci chiede qualcosa in francese, ma io non so rispondere. Sul tavolo il misero bottino rubato al negozio di alimentari. Sneza si guarda i piedi e canticchia. Lo sbirro si incazza e sbatte un pugno sul tavolo. La piccola fa un balzo indietro e lo sfida con gli occhi. «Où habitez-vous?» Stavolta è rivolto a me. Io non capisco una parola e sto zitto. Una poliziotta con i baffi si avvicina a me con fare disinvolto. Avvicina la sigaretta al mio polso e dice qualcosa al collega. Michelle torna con un lungo camice che le sfiora le scarpe e viene messa su una sedia, accanto a noi. Mentre le guardie discutono fra loro, strappa un pezzo di giornale e con la penna scrive qualcosa. Prima che si voltino nasconde tutto sotto il camice. La poliziotta baffuta mi sta ancora guardando minacciosa. Ripete la stessa domanda del suo collega, ma io non fiato. Dentro di me le dico tante di quelle parolacce, che una vita di penitenze non mi basterebbe per essere ancora degno del paradiso, e lei, come se mi avesse sentito (o fosse un messaggero inviato da Dio per punirmi) mi spegne la sigaretta sulla mano. Prima io, poi Sneza, veniamo buttati sulla strada. Lei mi porge un frammento di carta ancora caldo. Lo spiego lentamente guardando il vapore che ci esce dalla bocca. Porto gli occhi sul bigliettino, scritto disordinatamente. Ci sono un indirizzo e un nome che sembra quello di un uomo. Fra era il capo, quando stavo ancora a Verdello. Quando non sapevamo cosa fare, era sempre lui a proporre qualche scommessa. «Chi riesce a entrare nella casa del Mangiacani e rubargli la bicicletta senza farsi ammazzare, vince un premio» aveva detto quel giorno, senza specificare cosa ci fosse in palio. Non importava quello che io e sua sorella pensassimo. Dovevamo farlo e basta. E poi quando lui parlava io ero sempre pronto a eseguire. A ogni modo, ognuno di noi sarebbe dovuto entrare da solo in quella catapecchia e uscire sano e salvo in sella alla bicicletta. In palio c’erano un pacchetto di sigarette e un paio di canne già mezze fumate. Mi offrii di entrare per primo. Si udivano soltanto grilli nei campi circostanti. Raggiunsi facilmente l’ingresso dove trovai la porta aperta. Quella stamberga era

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proprio ridotta male. Fra mi urlò di darmi una mossa, che non voleva starmi ad aspettare fino a sera. Martina lo seguì a pappagallo ripetendo la stessa cosa. Mi feci coraggio ed entrai. Il Mangiacani era un vecchio chiamato così perché si diceva che fosse lui a mangiare tutti i cani che sparivano dalle case vicine. Io avevo sempre temuto che potesse mangiarsi anche Ilary, ma a quel punto lei era ormai secca e non rischiava più nulla. Nella casa non c’erano mobili, a parte un tavolo colmo di piatti sporchi e una poltrona senza una gamba. Superai la stanza e mi guardai intorno in cerca del Mangiacani, ma sembrava che mi avesse voluto lasciare casa libera. In quella che sembrava una cucina, c’erano un camino e un pentolone, dove forse faceva bollire i cani che catturava. Avrei scommesso la testa che ce li metteva dentro quando erano ancora vivi. Mi avvicinai e sollevai il coperchio per controllare se c’era qualche zampa o del pelo, ma appena afferrato il manico, la porta d’entrata si spalancò. Le tempie mi pulsavano come quella volta che ero da solo in casa e mi ero scolato la bottiglia di cognac che stava sotto il letto di Mamma. Mi nascosi dentro al camino dove c’era abbastanza buio. Qualcuno con un respiro affannoso entrò nella stanza dove stavo io. Frugò qualcosa alla mia destra. Il mio cuore batteva tanto forte che chiunque lo avrebbe sentito, ma fortunatamente il Mangiacani era mezzo sordo. Una mano ossuta si allungò verso il coperchio della pentola nel camino. Mi spostai per non essere toccato e finalmente vidi quell’orribile faccia. La faccia del Mangiacani. Aveva la pelle appiccicata alle ossa come una mummia e gli occhi pronti a uscire dalle orbite. Mise qualcosa nel pentolone e tornò fuori sbattendo la porta. Ripresi a respirare normalmente mentre il battito rallentava la corsa. In fondo alla stanza c’era una porta che dava sul cortile. Diedi un rapido sguardo fra l’erba alta e vidi finalmente la bicicletta appoggiata a un albero secco. Le mancava una ruota. Meglio di niente. Corsi e la afferrai con forza. Pensai bene di non tornare dentro e la lanciai oltre il grande cancello arrugginito. Poi mi arrampicai sulla ringhiera e scavalcando tornai sulla strada con la bicicletta monca sotto braccio. Fra e Martina si erano spostati rispetto a prima, forse perché avevano avuto paura del Mangiacani. Alzai la bici come un trofeo, aspettandomi la ricompensa. Martina urlò di gioia per me, ma Fra fece no con la testa. «Non è questa» disse, e io smisi di sorridere. «E qual è allora?»

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«Non lo so, ma non è questa che usa il Mangiacani per andare in giro.» Non lo sapeva nemmeno lui quale fosse la bici, ma disse così per non dovermi consegnare il premio. Trattenni le lacrime con orgoglio, fiero per la missione compiuta. All’indirizzo che ci ha dato Michelle c’è una catapecchia tale e quale a quella del Mangiacani, solo più piccola. Ci ha aperto una donna con il trucco nero intorno agli occhi. La persona che cercavamo non sta più da lei e ci ha dato un altro indirizzo. Sneza, che sa il francese, chiede ai passanti la strada per arrivare alla stazione di Voiron. Le facce che ci circondano sono tutte pallide, attorcigliate in sciarpe nere o rosse. I passanti sono tanti manichini con la stessa espressione. Alcuni danno cenni di vita, alzano un sopracciglio, fanno cenno di no. Altre restano immobili e continuano a camminare. È quasi mezzogiorno e io ho una fame da lupo. Anche Sneza ne ha. Me lo fa capire guardando l’interno dei fast-food e facendo una smorfia con gli occhi al cielo e la lingua di fuori. Anche per i manichini è ora di pranzo. Si precipitano in tutta fretta nei ristoranti o sui pullman per tornare nelle loro case. Ci scrutano, ma nessuno ci chiede se vogliamo qualcosa. Attraversato un grande boulevard saliamo a bordo di un autobus “42”. «Per arrivare lì» mi dice, indicando la scritta sul bigliettino che ho in mano. Le porte si chiudono e partiamo. Per la prima volta la guardo bene da vicino. Lei non se ne accorge, o comunque finge bene di non accorgersi che la sto osservando. Ha i capelli neri, intrecciati in modo veloce ma preciso. Deve averglieli fatti Michelle. I suoi vestiti hanno fantasie da casa di riposo e sono troppo corti per una della sua età. La maglietta a pois le sta stretta da morire e i pantaloni marrone le arrivano sopra la caviglia. Non sono ancora riuscito a scoprire quale delle sue gambe sia la più corta. Aspetto che l’autobus si fermi e fingo di dovermi allacciare una scarpa. Impossibile capirlo, da qui sembrano perfettamente uguali. Mi metto bene dritto per controllare quanto è alta. Senza che se ne accorga misuro la differenza con la mano. Quattro dita più bassa di me. Decido di chiederle quanti anni ha, ma mentre lo sto facendo mi ricordo che non conosce la mia lingua. Invece toglie le mani dalle tasche e inizia a contare. Si ferma a dieci e me li mostra. Ha le mani piccole come quelle di uno hobbit.

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È la nostra fermata, scendiamo. Le strade sono molto meno affollate e le case più basse e sbiadite. Sneza cerca nelle mie mani il bigliettino e si guarda intorno. «Là…» mi dice, indicando l’unica casa con il giardino cosparso di rose rosse. Il cancello è aperto e la porta d’entrata è socchiusa. Bussiamo tre volte ma non arriva nessuno ad aprirci. Lo stomaco mi brontola, ma ormai ci sto facendo l’abitudine. La nonna diceva che si può stare anche quaranta giorni senza mangiare. Pare che Gesù Cristo nel deserto ce l’abbia fatta, però io non credo che ne avrei la forza. Entriamo. Il piano terra è zeppo di lattine di tonno e salmone affumicato, bottiglie di aranciata e una di rum. Sembra abitato, ma non c’è traccia di André. «Sei sicura che sia la casa giusta?» chiedo a Sneza, che è rimasta immobile vicino all’uscio. Fa cenno di sì con la testa. Vista da fuori la casa doveva avere due piani, quindi André potrebbe essere di sopra. Sneza trova le scale e mi chiama con un fischio. Saliamo lentamente. Le scale sono buie e infinite. Il piano di sopra è molto simile al piano terra, ma ci sono dei mobili. In fondo al corridoio c’è una porta con una rosa rossa appiccicata con del nastro adesivo. Mi avvicino con calma e busso, mentre Sneza fa un giro nelle altre stanze. Nessuno risponde. Busso più forte, apro lentamente e metto dentro la testa. Da dietro alla porta qualcuno mi colpisce e finisco a terra con uno strano sapore metallico in bocca. Strizzo gli occhi e li riapro a fatica. Vedo una ragazzina con una spranga di ferro in mano. Ha addosso soltanto un maledetto reggiseno nero di pelle e delle ridicole mutandine di pizzo. Indossa anche delle calze a rete e degli stivali con la punta. Il suo rossetto ricorda talmente quello di Mamma, che per poco non svengo. Sembra proprio Mamma da giovane. Mi rialzo più in fretta che posso, prima che mi colpisca di nuovo. Mi fissa per un attimo e poi si mette a ridere. Mi viene voglia di prenderla a calci, ma mi fa ancora troppo male la botta. «Cerco André» dico, massaggiandomi la testa. «Non scopo con i ragazzini» dice sottovoce, ma io la sento. Parla la mia lingua, fantastico! Ecco perché Michelle ci ha mandato da lei. Era l’unica che mi avrebbe capito. André non è un uomo, come sembrava dal nome.

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Nel frattempo Sneza entra nella stanza e la ragazzina impugna quella sua dannata spranga per difendersi. «È con me!» urlo. «Ma che cazzo avete in mente di fare? Un’orgia?» ha la cadenza francese, ma sono sicuro che sia italiana. Si capisce dal modo di fare. «Ci manda Michelle…» André smette di sorridere e sgrana gli occhi. «Michelle la zingara?» «Sì» rispondo, pensando di dire la cosa giusta. «Oh cazzo! E tu saresti Sneza dunque?» «Sì.» «E cosa volete da me?» Momento di silenzio. Nessuno di noi sa il vero motivo. Andrè si accende una stizza e va verso la finestra. Ha i capelli tinti di biondo e un bel pezzo di ricrescita castano scuro. Senza trucco avrà al massimo quindici anni. «Michelle dice che tu sai cosa devi darci» provo a dire, immaginando già che André risponda che non sa nulla. Invece si passa una mano fra i capelli e si lascia scivolare lungo la parete gialla. «No, cazzo, ne ho pochissima.» Guardo Sneza con aria interrogativa, così lei si avvicina alla finestra e le dice qualcosa nel linguaggio segreto. «Come sarebbe a dire “qualche foglia soltanto”? Io non ho foglie, ho solo colla. Provate da qualcun altro.» Intanto lo sguardo mi finisce sui lividi che ha sul braccio. André si buca come faceva Lù, l’amica di Mamma che poi finì in una “topaia”, come diceva lei, per cercare di smettere. Un giorno disse che lei se ne fregava dei medici e andava in bagno a bucarsi di nascosto, così furono costretti a legarla al letto con delle funi da campeggio. «Dacci almeno un po’ di quello che hai» cerco di convincerla. «Sentite, ora mi avete proprio rotto! Non faccio beneficenza! Io me la pago da sola la roba, me la guadagno facendo cose che voi neanche immaginate. Non potete chiedere a qualcun altro? Io ho solo quel sacchetto!» protesta André, indicando una borsa di plastica per terra. Mi chiedo cosa sia la colla. Non sembra quella che usavamo a scuola. «A cosa ci serve della colla?» Andrè mi guarda come se fossi un alieno.

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«La devi sniffare, bimba.» Quella parola mi ricorda Abraham. Perché mi ha chiamato così anche lei? Deve esserci un motivo. Inizio a pensare che i miei vestiti siano troppo da checca. «Daccela!» cerco di fare il duro per sembrare un uomo. «Cazzo, stronzi!» per poco non si mette a piangere. Afferro il sacchetto e do una sbirciatina dentro. La colla ha un odore acido e mi fa girare la testa. «Sai indicarci un posto dove andare, ora? Un posto dove ci sia qualcosa da mangiare, intendo…» André è proprio incazzata, non vuole più rispondere. «Levatevi di torno! Vi ho già aiutato abbastanza.» «Dicci almeno un posto…» Un sorriso maligno appare sulla sua bocca. «…al circo» «Come hai detto?» «Sì, certo, che scema… prendete la strada per Lione e chiedete del Magnifico Circo dei Miracoli.» Usciamo dalla casa con il sacchetto pieno di roba. Sneza ha un sorrisetto soddisfatto. Io sono un po’ dispiaciuto per André. Il suo protettore gliele suonerà di santa ragione per essersi lasciata portare via tutto quel ben di dio, ma ormai siamo già troppo lontani per tornare indietro. FINE ANTEPRIMA...CONTINUA