piste tematiche - la scuola

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Piste tematiche Marcello Giappichelli, Andrea Polcri Indicazioni per approfondire ulteriormente l’indagine sulla Storia e per realizzare percorsi di eccellenza destinati agli studenti maggiormente motivati. Operando l’integrazione di approfondimenti, documenti,grafici, cronologie, immagini e critica storiografica possono essere realizzate nell’arco del Triennio ricerche e tesine da presentare come conoscenze e come compe- tenze acquisite in sede di esame di stato. 1 Il Comune a) LA PAROLA AGLI STORICI La rinascita della città e i Comuni b) FINESTRE DELLA STORIA Le origini dei Comuni c) DOCUMENTI Ottone di Frisinga d) DOCUMENTI L’aria della città fa liberi e) DOCUMENTI Bonvesin de la Riva: Panegirico di Milano f) DOCUMENTI Edifici civili, simbolo del potere borghese g) DOCUMENTI Cronaca del Tumulto dei Ciompi (1378) nel resoconto di un contemporaneo Cappelli Editore

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Piste tematicheMarcello Giappichelli, Andrea Polcri

Indicazioni per approfondire ulteriormente l’indagine sulla Storia e per realizzare percorsi di eccellenza destinati agli studenti maggiormente motivati. Operando l’integrazione di approfondimenti, documenti,grafici, cronologie, immagini e critica storiografica possono essere realizzate nell’arco del Triennio ricerche e tesine da presentare come conoscenze e come compe-tenze acquisite in sede di esame di stato.

1 Il Comune

a) LA PAROLA AGLI STORICI La rinascita della città e i Comuni

b) FINESTRE DELLA STORIA Le origini dei Comuni

c) DOCUMENTI Ottone di Frisinga

d) DOCUMENTI L’aria della città fa liberi

e) DOCUMENTI Bonvesin de la Riva: Panegirico di Milano

f) DOCUMENTI Edifici civili, simbolo del potere borghese

g) DOCUMENTI Cronaca del Tumulto dei Ciompi (1378) nel resoconto di un contemporaneo

Cappelli Editore

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La rinascita delle cittàe i Comunia

La ripresa delle attività cittadine dopo il Mille e poi la nascita dei Comuni – come organismi di autogoverno dotati di diritti politici ed economici propri – hanno attratto l’attenzione di molti storici italiani e stranieri perché sembrava prefigurare molti tratti della civiltà moderna. Sulle origini del Comune sono state avanzate diverse ipotesi. Una di queste le fa derivare direttamente dalla tradizione municipale romana, sopravvissuta alle invasioni barbariche e al crollo dell’Impero romano. Un’altra tesi (sostenuta dai tedeschi Max Weber, Werner Sombart e dall’italiano Gioacchino Volpe) attribuisce ai Comuni un’origine feudale, riconducendo le loro premesse all’opera dei vescovi-conte, quando le città divennero luoghi di difesa dalle scorribande ungare o saracene e i membri della feudalità minore passarono all’interno delle più sicure mura urbane. Invece secondo molti altri storici (in specie il belga Henry Pirenne) le città marinare e i Comuni sorsero a seguito dello sviluppo degli scambi anche internazionali, che favorirono patti associativi (coniurationes) tra i nuovi ceti borghesi o professionali (mercanti e artigiani, giudici e notai), dai quali ebbero propriamente origine le istituzioni comunali in netto contrasto con il sistema feudale vigente. Tenendo conto di queste complesse trasformazioni, altri storici – come la tedesca Edith Ennen, di cui si occupa la scheda che segue – hanno negato un’origine unitaria alle città medievali e hanno operato una distinzione tra l’Italia centro-settentrionale e le regioni europee. Anche le vicende politiche interne al Comune sono state argomento di discussione: lo scontro tra ricchi mercanti e aristocrazia feudale, poi le lotte rivendicative dei ceti popolari durante le quali le istituzioni cittadine si aprirono a forme di democrazia avanzate per il loro tempo (su cui ha indagato Gaetano Salvemini) e infine la vittoria della grande borghesia, che nel corso del Trecento (secondo la tesi di Corrado Vivanti) impose progressivamente un sistema autoritario e signorile.

Il punto di vista di Edith Ennen

Sappiamo bene che il declino economico dell’Impe-ro romano e poi le invasioni barbariche (V secolo) provocarono in gran parte dell’Occidente il drastico spopolamento degli insediamenti urbani, riducen-do floride città a miseri villaggi. Tuttavia, secondo la storica tedesca Edith Ennen (1907-1999), minimi nuclei urbani sopravvissero nell’Italia settentrionale o ai confini dell’Impero, dove accanto agli insedia-menti delle legioni continuarono a operare gruppi di mercanti e di artigiani, la cui vitalità crebbe tra l’VIII e l’XI secolo. Dopo il Mille poi si verificò una generalizzata ripresa dei commerci anche a lunga distanza sostenuti dalle città marinare, che si in-trecciò con l’incremento produttivo dell’agricoltura,

Mulino a vento, miniatura da un manoscritto francese del Romanzo d’Alessandro (secolo XIV).

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con la crescita demografica e con la moltiplicazione dei mercati locali. Fu

così che intorno al XII secolo nacquero le città col loro volto tipicamente medievale. Alla

rinascita dei centri urbani non contribuirono pe-rò soltanto i nascenti ceti borghesi, come accadde

con tutta evidenza nel caso specifico delle città ma-rinare. Specie oltralpe anche i poteri feudali favo-rirono tale processo e nella Francia meridionale la monarchia o i baroni si impegnarono a fondare dei borghi “franchi” (le bastides) per accrescere il loro potere in ambito regionale o più “semplicemente per impedire la fuga dei propri sottoposti”. Molto diversificate furono anche le modalità che portaro-no all’avvento del Comune, nonché il grado di auto-nomia politica delle nuove istituzioni. Anzitutto la rete associativa che si sostituì al signore feudale o al vescovo-conte andava ben oltre l’ambito degli ar-tigiani o delle figure professionali (le Arti o Gilde), ma comprendeva associazioni della piccola nobiltà come la Società delle Torri a Firenze. Inoltre le vi-cende della Francia settentrionale – dove all’inizio il movimento comunale ebbe un carattere rivolu-zionario, poi annullato quando venne messo sotto tutela dal re di Francia – differirono radicalmente da quelle di Venezia, dove il potere politico restò sal-damente controllato dai ceti mercantili. In altri casi poteri amministrativi limitati e provvisori concessi alle città dalle autorità feudali divennero stabili e in altri ancora l’autogoverno venne riscattato dai borghesi col pagamento di imposte a queste stesse autorità. Al termine di tali processi nell’Italia cen-tro-settentrionale (ma non in quella meridionale o nelle isole) si costituirono città-stato politicamente autonome, mentre nell’Europa centro-occidentale le istituzioni comunali non andarono generalmen-te oltre il livello dell’autonomia amministrativa ga-rantita dall’accordo tra la grande borghesia, il clero e la feudalità o le monarchie.

Incremento della popolazione europea tra VII e XIV secolo (stime)

VII XI XIVItalia 3,5 5 11Francia 4,5 6,9 21Germania - 4 11,5Europa 20/27 36/42 73,5

L’allegoria del mese di marzo tratta da Les très riches heures du Duc de Berry (1411-1416). L’introduzione di innovazioni tecnologiche, come l’aratro pesante a versoio, portò a un aumento della produttività agricola.

La ruota ad acqua, particolare dell’Incontro di Cristo e Maria di Filippino Lippi (1457-1504). L’impiego dei primi strumenti meccanici applicaati all’agricoltura consentì una razionalizzazione del lavoro e il primo incremento della produzione per far fronte all’espansione demografica.

Incremento delle aree messe a coltura tra X e XII sec (stime)+ 100%

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Sigillo dell’Ordine dei Templari. Parigi, Archivio Nazionale.

sistema feudale e pertanto illegale, la sua legittima-zione definitiva fu sancita soltanto in tempi succes-sivi attraverso gli accordi raggiunti con le istituzio-ni ufficiali: il papato e l’Impero. Passiamo adesso in rassegna alcuni casi considerabili per molti aspetti esemplari.

Il caso di Milano…

Già da prima del Mille Milano era al centro di una ripresa economica promossa da artigiani e mercan-ti, prendendo il posto di Pavia, la capitale del re-gno italico ormai in decadenza. Un segnale dell’im-portanza assunta dai ceti sociali emergenti si eb-be durante lo scontro tra la piccola nobiltà alleata dell’imperatore Corrado II e l’arcivescovo Ariberto d’Intimiano, signore della città, che chiese il loro sostegno (1036). Il suo appello venne raccolto e per la prima volta fu messo in campo il carroccio – un carro trainato da buoi sul quale era collocato un altare – destinato a diventare il simbolo della mo-bilitazione popolare in difesa della città. Ottenuto un significativo riconoscimento politico e dopo nuovi contrasti, lo stesso Ariberto e i suoi feudata-

ri vennero cacciati da Milano. A questo punto i ceti borghesi si videro riconosciuto il

pieno diritto di rappresentanza nel governo cittadino accanto alla no-

biltà inurbata e all’arcivescovo. All’ulteriore passo avanti del popolo al governo della città contribuì la contestazione patarina che denunciava la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche e negava ogni loro pretesa di potere politico. Infatti l’umile pre-te Lipandro, esponente di

questo movimento religioso, sfidò al Giudizio di Dio (cioè

a camminare coi piedi nudi

Autogoverno e autonomia cittadina

Gli obiettivi dell’autonomia cittadina consistevano nel diritto di fare leggi, di imporre tasse, di armare eserciti, di amministrare la giustizia, di battere mo-neta. Queste le rivendicazioni che indussero mer-canti, professionisti e artigiani (cioè i ceti borghesi) a scontrasi con il potere feudale esercitato in no-me dell’imperatore e dei sovrani dai vescovi-conti o dalla nobiltà e a promuovere il nuovo ordinamento comunale. Il fenomeno si manifestò fin dall’XI secolo nelle re-gioni più prospere dell’Europa con modalità e tem-pi diversificati. Nella Francia settentrionale, nelle Fiandre e nella Renania una parziale autonomia venne ottenuta talvolta col pagamento di forti som-me alle autorità territoriali laiche ed ecclesiastiche. Altre volte fu conseguita nella forma più comple-ta mediante insurrezioni popolari, poi però subì la controffensiva dei potenti signori feudali e dovette limitarsi alla funzione amministrativa, lasciando il controllo delle campagne nelle mani della feudali-tà. Invece nell’Italia centro-settentrionale l’autono-mia cittadina si affermò in maniera graduale, ma si realizzò nella forma più avanzata e per giungere al potere i ceti borghesi utilizzarono varie op-portunità. Spesso si allearono alla pic-cola nobiltà inurbata, desiderosa di scrollarsi di dosso il dominio del-la grande nobiltà. Altrettanto spesso approfittarono della mobilitazione popolare gui-data dai gruppi ereticali contro le gerarchie eccle-siastiche accusate di cor-ruzione. Altre volte ancora affiancarono il movimento riformatore promosso dai monasteri o si inserirono nella lotta del papato contro l’Impero e i vescovi-conti suoi vassalli. Risulta comunque im-possibile datare con precisione la nascita del Comune. Trattandosi di un ordinamento non previsto dal

SS toriatoria b. Le origini dei Comuni

Profilo, La nascita dei Comuni, p. 8

Sigillo dNazionale.

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due anni (1125). Crebbe l’espansione sul territorio ai danni di Empoli, di Siena e di Arezzo, necessaria a sostenere il sicuro approvvigionamento di una popo-lazione urbana in rapido aumento. Una prima indicazione delle istituzioni comunali è del 1138, quando negli atti cittadini appare la firma di due consoli appartenenti probabilmente alla picco-la nobiltà inurbata raccolta nella Società delle Torri. Allorché il Barbarossa effettuò l’infausto tentativo di riportare i Comuni italiani sotto la sua giurisdizione (1154), anche Firenze venne chiamata in causa e i suoi consoli, inviati in ambasceria, arrestati. Seguì uno scontro con le milizie imperiali, affiancate dai conti Alberti e Guidi, che furono sconfitte e con la sot-toscrizione della pace poté essere finalmente sancito il riconoscimento ufficiale delle nuove istituzioni. Nel contempo Firenze estendeva la propria sfera d’azio-ne, raggiungeva un’intesa col papato e stringeva la lega di san Ginesio (1197) con altri Comuni toscani. Mentre il processo espansivo procedeva a macchia d’olio, crebbero di intensità i conflitti politici interni. Appariva problematica la convivenza tra la piccola nobiltà di più antico inurbamento e quella successi-vamente costretta a trasferirsi in città per lasciare al Comune il pieno controllo delle campagne. I ricchi esponenti delle Arti maggiori avanzavano pressanti richieste di egemonia nel governo cittadino e tra il popolo minuto serpeggiava il malcontento. Tuttavia né le lotte intestine, né i continui aggiustamenti dell’ordinamento comunale col passaggio dalla for-ma consolare a quella podestarile o con l’introduzio-ne della figura del capitano del popolo indebolirono il prodigioso sviluppo economico di Firenze e il fiori-no d’oro (coniato nel 1252) divenne presto la moneta più apprezzata in tutti i mercati internazionali.

…quello di Genova…

Diverse da quelle di Milano e di Firenze furono le mo-dalità che portarono all’affermazione del Comune (la repubblica, dicono alcuni storici in riferimento alle città marinare) a Genova. Povero villaggio di pescatori nell’Alto Medioevo, Genova dovette il suo sviluppo al venir meno nella seconda metà del X secolo della minaccia araba sulle coste di ponente e alla ripresa economica dell’Italia settentrionale, ri-spetto alla quale insieme a Venezia fungeva da ter-minale degli scambi sulle rotte del Mediterraneo. Come a Pisa, ad Amalfi o a Venezia, ben presto as-sunsero un’importanza prioritaria la sicurezza del porto, la protezione del traffico commerciale, l’al-lestimento di flotte, il reclutamento di equipaggi. Ufficialmente Genova era sotto la giurisdizione dei marchesi Obertenghi, tuttavia la proiezione verso il mare rese la città sempre più autonoma da un pote-re signorile lontano e distratto da interessi orientati

sui carboni ardenti) l’arcivesco-vo Crisolao (chiamato con disprezzo

Grossolano) e il suo rifiuto fu considerato talmente indegno da costringerlo a dover ab-

bandonare Milano a furor di popolo. Anche per i rappresentanti ufficiali dell’Impero le

cose non andarono meglio, tant’è che il marchese Alberto Azzo II d’Este, nominato nel 1045 dall’impe-ratore Enrico III, non poté esercitare la sua autorità e alla fine decise di andarsene. Dal 1056 gli atti pub-blici riportano i nomi dei consoli, come delegati del-le Arti maggiori, della nobiltà inurbata o dei quar-tieri. Non viene più indicato il nome dell’imperatore e compare invece il riferimento ad una assemblea ristretta (la Credenza) formata da 800 membri elet-tivi. Le guerre interminabili contro le città rivali rafforzarono la partecipazione popolare al gover-no, indispensabile per l’esito vittorioso della lotta, e tra i consoli crebbe la presenza di figure borghesi come giudici e grandi mercanti. Soltanto nel 1097 troviamo però una ratifica ufficiale delle istituzioni comunali. Esse compaiono in un accordo sottoscrit-to dalle Arti maggiori e dai proprietari fondiari con la piccola nobiltà inurbata per eliminare i residui poteri vescovili e insieme per emarginare la Pataria, il movimento ereticale portavoce dei ceti sociali più umili e fautore dell’uguaglianza sociale. Il Comune si affermò dunque gradualmente a Milano, una città le cui mura non avevano bisogno di torri, perché se-condo il cronista tedesco Ottone di Frisinga «nessu-no riteneva che dovesse sostenere un assedio, data la sua forza e quella delle città confederate».

…quello di Firenze…

A Firenze il Comune sorse più tardi che altrove. Segnali di istanze autonomistiche collegate al mo-vimento patarino possono essere viste a metà dell’XI secolo nella cacciata – ancora a furor di popolo – del vescovo Pietro Mezzabarba, un vescovo-conte di no-mina imperiale accusato di corruzione (simonia). Indicazioni più sicure vengono dalla regolamen-tazione di un sistema cittadino di pesi e di misure (1079), dal prelievo fiscale imposto al contado per rafforzare le mura cittadine (1090-1093), poi dalle misure coercitive adottate contro la piccola nobil-tà del circondario e contro Prato. Soltanto dopo la morte della contessa Matilde di Canossa (1115) e lo sfaldamento dei suoi vasti domini che si estendevano dall’Adriatico al Tirreno fu però possibile a Firenze, come ad altre città dell’Emilia e della Toscana, l’ac-cesso all’autonomia politica. Ancor prima di trova-re ufficializzate le istituzioni comunali, abbiamo comunque esempi di un’aggressività senza pari. Fiesole, antica sede del vescovo-conte e simbolo del potere feudale, venne distrutta in una guerra durata

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punto ebbe inizio per Genova una intensa stagione di imprese commer-ciali e talvolta piratesche, di scontri fero-ci con Pisa e con Venezia, di espansione sul Mediterraneo orientale e a occidente verso la Francia e verso la Penisola iberica.

…e quello di Cambrai

Prima del Mille Cambrai era solo un castello a metà strada tra Parigi e le Fiandre da cui si dominava la vallata. Poi ai suoi piedi si ingrandì rapidamente il borgo, sede di artigiani e di mercanti e reso prospe-ro da fiere e mercati. Nel 1070 fu costruita una cin-ta muraria, destinata a proteggerlo e nel contempo anche ad affermare la volontà di autonomia dei ceti borghesi. Come molte città della regione, Cambrai era governata da un vescovo, la cui autorità era contestata dalle tendenze che in seno alla Chiesa si opponevano alla nomina dei vescovi-conti, dalle correnti ereticali e dai ceti borghesi. Si giunse così a un giuramento collettivo (coniuratio), analogo a quelli effettuati tra gli artigiani con fini di solida-rietà, ma questa volta per preparare in segreto la presa del potere. La rivolta scattò quando il vescovo Gerardo II si re-cò in Germania per ricevere dall’imperatore Enrico IV l’investitura a conte e portò alla immediata pro-clamazione del Comune (1076). Ben presto però emersero profonde divergenze tra i ricchi mercanti e il popolo minuto guidato da Ramirdo, un prete vicino al movimento pataro e fautore dell’ugua-glianza sociale. Non fu allora difficile al vescovo Gerardo II, appoggiato dalla nobiltà della regione, recuperare il potere. Comunque le istituzioni comunali si andavano ormai diffondendo in tutta la Francia settentrio-nale e qualche anno dopo una nuova sollevazione le ripristinò anche a Cambrai. Dinanzi alla minac-cia della nobiltà che dominava il contado, questi Comuni accolsero in seguito la protezione offerta loro dai sovrani francesi. L’autonomia cittadina fu in tal modo limitata ad ambiti amministrati-vi e non raggiunse il livello politico dei Comuni italiani, ma i centri urbani poterono in ogni caso veder garantita la sicurezza degli scambi ed esse-re tutelati dalle prepotenze degli irrequieti signori feudali.

invece sulla terraferma. A rendere ben presto famosi i genovesi fu la tecnica delle costruzioni navali ere-ditata dai Bizantini. Diversamente da Venezia, che disponeva di un arsenale di stato, qui però i cantieri navali erano gestiti attraverso una partecipazione cooperativa alle spese e ai guadagni dell’impresa. Inizialmente comproprietari delle navi e del carico commerciale erano i marinai e i mercanti, dividen-dosi gli utili in parti proporzionali. Più tardi la pro-prietà passò interamente a coloro che finanziavano l’iniziativa e i marinai divennero dipendenti sala-riati. In breve l’intero sistema di piccole proprietà che era alla base dell’economia portuale confluì in una grande associazione, la Compagna (compa-gnia), che assunse crescente importanza politica. A partire dal 1093 il Comune si identificò con la Compagna e le crociate offrirono nuove possibili-tà di guadagno col nolo delle navi, coi rifornimenti di armi e di generi alimentari, coi passaggi a paga-mento offerti ai pellegrini diretti al Santo Sepolcro, ma soprattutto con la creazione di basi commercia-li in Asia Minore. L’adesione alla Compagna finì per diventare obbligatoria per tutti e anche la piccola nobiltà del circondario venne integrata a forza nel sistema economico e politico creato dalla borghe-sia marinara. Come a Firenze, anche a Genova le istituzioni co-munali trovarono il primo riconoscimento ufficiale al tempo del Barbarossa, che chiese l’appoggio na-vale della città ligure per una spedizione progettata contro i Normanni (1162), impegnandosi in cam-bio a legittimare le magistrature cittadine. A questo

BibliografiaR. Bordone, Nascita e sviluppo delle autonomie cittadine, in La storia. I grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea, diretta da N. Tranfaglia e M. Firpo, II/2, Torino, UTET, 1986.K. Bosi, Il risveglio dell’Europa: l’Italia dei Comuni, Bologna, Il Mulino, 1985.E. Sestan, La città comunale italiana, Napoli, ESI, 1968.

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o grande, il quale conservi tale dominio [..]. Per ricchezza e potenza esse superano tutte le altre città del mondo, aiutate in ciò anche dall’assenza di sovrani abituatisi a rimanere di là dalle Alpi.[..] Inoltre per non mancare di forze per assoggettare i vicini, non disdegnano di innalzare alla dignità di cavalieri o alle alte cariche pubbliche i giovani di condizione inferiore o qualsiasi addetto ai lavori spregevoli e manuali che gli altri popoli tengono lontani come la peste dalle attività più dignitose e libere: onde avviene che esse superano di gran lun-ga le altre città del mondo per ricchezza e potenza [..] Fra le altre città della stessa regione Milano ha ora il primato.

La città medievale italiana, a cura di G. Fasoli– F. Bocchi, Firenze, Sansoni, 1973 (??)

Il vescovo Ottone di Frisinga (1114-1158) era lo zio dell’imperatore Federico I (il Barbarossa), nemico acer-rimo dei Comuni dai quali per altro venne pesantemente sconfitto sui campi di Legnano (1176). Nel brano che segue Ottone non può fare a meno di sottolineare le grandi novità introdotte dal movimento comunale italiano.

c. Ottone di Frisinga sui Comuni dell’Italia centro-settentrionale

[L’Italia settentrionale], circondata da un estremo all’altro dai Pirenei e dagli Appennini [..] che si stende dal mar Tirreno sino alle spiagge del mare Adriatico, per dolcezza del sole e mitezza del clima è tanto ricca di piante, di vino, di olio, da essere po-polata da alberi da frutta, specialmente castagni, alberi di fico e uliveti a dimensione dei boschi [..]. Anche nella costruzione delle città e nell’ordina-mento dello stato [i suoi abitanti] imitano ancora l’abilità degli antichi Romani. Finalmente amano tanto la libertà, che per sfuggire agli abusi del pote-re si reggono col governo dei consoli piuttosto che con quello imperiale [..]Essendo poi quel territo-rio quasi tutto diviso fra le città, ognuna di queste ha obbligato i diocesani [la nobiltà del contado] a venire ad abitare entro la città e a sottomettersi, sicché difficilmente si può trovare qualche nobile

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la manumissione [dal latino manumissio, liberazio-ne dalla potestà di qualcuno] alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.Considerando ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passa-to e provvida del futuro, in onore del redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti [costretti] a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo [ser-vo] osi abitare nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.

P. Vaccari, Le affrancazioni collettive dei servi della gleba, Mi-lano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 1939.

Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso [giar-dino] e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo attirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lacrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavi-tù al Diavolo; così l’uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo [caduto in schiavitù] ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua digni-tà celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina [antica] libertà. Assai umil-mente agisce perciò chi restituisce col beneficio del-

Il documento sull’affrancazione dei servi, decretata dal comune di Bologna nel 1257 e chiamata Carta del Paradiso, si apre con un accorato richiamo degli estensori ai massimi principi religiosi e morali. Gli storici del Medioevo (medievisti) hanno invece rilevato, dietro a queste enunciazioni, motivazioni ben più materiali e opportunistiche. Infatti la libertà concessa ai servi della gleba dai magistrati comunali era mirata a sottrarre alla grande proprietà feudale, con la quale erano in lotta, le braccia necessarie alla sua sopravvivenza e la principale fonte di reclutamento per le forze militari signorili. Inoltre con l’affrancazione il Comune reperiva preziosa manodopera per le già floride imprese manifatturiere o per le stesse imprese rurali in mano ai borghesi. Tuttavia tali provvedimenti, sovvertendo il sistema agricolo feudale, furono elemento di progresso e, nei limiti dei tempi, di crescita democratica. Basti pensare che in altre parti del continente la servitù della gleba si protrasse per molti altri secoli e in alcuni casi, come nelle regioni orientali europee, fino alle soglie del XX secolo.

d. L’aria della città fa liberi

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Nel Duecento Milano era di gran lunga il maggiore dei Comuni italiani e la sua straordinaria vitalità scatu-riva dalle stesse lotte che ne avevano segnato la nascita. Del capoluogo lombardo parla Bonvesin de la Riva (Riva è forse la ripa di Porta Ticinese a Milano), vissuto tra il 1240 e il 1315, è il più importante scrittore lombardo del ’200. Ricordato soprattutto per i suoi poemetti in volgare, considerati anticipatori della Divina Commedia, Bonvesin ci dà qui un’entusiastica descrizione – un panegirico – di questa città, De magnalibus urbis Mediolani (1288), sottolineando le vaste dimensioni urbane, le intense attività produttive e professio-nali, ma anche la forza militare e la stessa diffusione dell’istruzione.

e. Bonvesin de la Riva: Panegirico di Milano

Gli esperti di medicina, che comunemente sono detti «fisici», sono ventotto. I chirurghi, invece, delle diverse specialità sono più di centocinquan-ta. Moltissimi di loro sono naturalmente eccellen-ti medici perché proseguono l’arte della chirurgia ereditaria da molto tempo nella loro famiglia e non si crede che possano avere l’eguale nelle altre città della Lombardia.I professori dell’arte della grammatica sono otto e ciascuno tiene sotto il proprio insegnamento gran numero di allievi e meglio dei maestri delle altre cit-tà, come ho avuto modo di constatare, insegnano il latino con grande impegno e diligenza. Quattordici sono i maestri di canto ambrosiano, di grandissima competenza, e da questo si deduce l’abbondanza dei chierici nella nostra città. I maestri elementari sono più di settanta.I copisti, sebbene in città non vi sia un’università, sono più di quaranta e scrivendo ogni giorno libri con le loro mani si procacciano il denaro per il pane e le altre spese.I forni in città sono trecento, come risulta dai libri del comune e cuociono il pane per i cittadini. Ve ne sono anche molti altri – penso più di cento – esenti da imposta, che servono i monaci o i religiosi di ambo i sessi. I bottegai, che vendono un numero incredibile di merci d’ogni genere al minuto sono senz’altro più di mille. I macellai sono più di quat-trocentoquaranta. […]

Gli albergatori che danno albergo a pagamento ai forestieri sono circa centocinquanta.I fabbri che attaccano i ferri ai quadrupedi sono circa ottanta, e da questo si desume l’abbondanza di cavalieri e di cavalli. Non sto a dire quanti siano i fabbricanti di selle, di briglie, di sproni, di staffe.

Bonvesin de la Riva, De magnalibus urbis Mediolani, Mila-no, Bompiani, 1983.

Fra tutte le province del mondo una fama univer-sale colma largamente di lodi, antepone alle altre, magnifica la Lombardia sia per la posizione geo-grafica, sia per l’abbondanza e densità dei centri abitati sia per la bellezza e fertilità della sua pianu-ra. Ed esalta in verità, fra le città della Lombardia, Milano, come la rosa e il giglio tra i fiori, come il cedro nel Libano, come il leone fra i quadrupedi e l’aquila tra gli uccelli, e in questa esaltazione tutte le lingue sempre concordano. […]

Le chiese dei santi, degne di tale e tanta città, sono duecento soltanto entro le mura, con quattrocen-tottanta altari […].

Quante bocche umane abitino in una città così grande, lo conti chi ci riesce. Se sarà capace di farlo completamente, arriverà, ne sono convinto, al nu-mero di circa duecentomila, essendo cosa provata e sicura, in base a un’investigazione accurata. […]

Se uno desidera sapere quanti possano essere i combattenti in una guerra, sappia che complessiva-mente abitano in questa città più di quarantamila uomini capaci ciascuno di usare una spada o una lancia o un’altra arma contro il nemico. Riguardo al numero dei cavalieri che questa città può schie-rare in battaglia, dichiaro che nella città e nel suo contado facilmente più di diecimila potrebbero, a un ordine del comune, presentarsi con un cavallo da guerra.Vi sono nella sola città centoventi giureconsulti di diritto civile e canonico, il cui collegio non si crede che abbia l’eguale in tutto il mondo per numero e, insieme, per sapienza. I notai sono più di millecin-quecento e moltissimi fra di loro sanno compilare ottimamente un contratto. […]

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Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento la borghesia mercantile e finanziaria volle celebrare il proprio potere nella ristrutturazione urbanistica dei Comuni, per cui i maggiori artisti e architetti furono incaricati di rendere le città più adeguate alle esigenze pubbliche e politiche dei nuovi ceti dirigenti e dei loro magistrati. È in questo periodo che nell’Italia settentrionale e centrale sorsero i più prestigiosi palazzi civili al centro della vita collettiva e nel cuore del Comune, arricchito di logge e di fontane. I «broletti» (i municipi costruiti sugli antichi arengari, luogo delle assemblee cittadine e simbolo dell’autonomia comunale) da Como e da Milano si diffusero in tutte le principali città della Pianura padana. Nell’Italia centrale, dove la borghesia delle Arti era particolarmente sviluppata, si elevarono gli edifici più suggestivi, spesso affiancati da torri destinate a svettare su quelle della nobiltà inurbata (o a monito perentorio dopo averne decretato l’abbattimento), come il Palazzo pubblico a Siena, Palazzo Vecchio a Firenze, Palazzo dei priori a Perugia. Se in queste costruzioni in pietra serena o cotto sono però ancora evidenti l’austerità e la semplicità della tradizione medievale borghese, nei coevi o corrispettivi palazzi della laguna veneta e sul Canal Grande si nota invece la ricerca di decorazioni e di preziosi materiali (finestre e loggiati raffinati, leggerezza dei trafori, delicatezza delle pietre e dei marmi): segno del gusto più sottile dei mercanti veneziani, già avviati a chiudersi in privilegiate caste patrizie e visibile anche nella successiva realizzazione dello stesso Palazzo ducale (1340-1442).

f. Edifici civili, simbolo del potere borghese

Palazzo ducale a Venezia.

Palazzo Vecchio di Firenze.

Piazza Maggiore, centro della vita politica del Comune di Bologna. Con la torre dell’orologio (angolo a sinistra), è il Palazzo comunale, più volte rimaneggiato dal Duecento ai giorni nostri, ancora oggi sede dell’amministrazione della città. Sul lato destro della foto, il Palazzo del Podestà e, proiettata sulla piazza, l’ombra della basilica di San Petronio, l’edificio sacro che fu aggiunto ai palazzi del potere politico, ma che non divenne mai «cattedrale», cioè sede del vescovo: il centro religioso, insomma, è rimasto separato dal cuore amministrativo ed economico del Comune.

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L’agitazione scoppiata a Firenze tra il giugno e il luglio 1378 e schiacciata nell’agosto dello stesso anno ebbe un’importanza superiore ai numerosi moti urbani e rurali, italiani ed europei, verificatisi tra la prima e la seconda metà del secolo per contrastare l’ascesa al potere della grande borghesia, a cui si ricollegava la nasci-ta delle Signorie e dei Principati. Anzitutto il suo obiettivo, l’abbattimento dell’egemonia esercitata dalle Arti maggiori, era strettamente politico e prescindeva dalle aspirazioni all’uguaglianza di carattere religioso cui da tempo si ispiravano le rivendicazioni dei ceti sociali subalterni. Inoltre i suoi protagonisti, i Ciompi, rap-presentavano i salariati delle manifatture laniere, le più moderne attività produttive dell’epoca. Infine questa lotta, pur rivendicando formalmente solo il riconoscimento di nuove Arti per coloro che ne erano esclusi, di fatto comportava la legalizzazione dell’auto-organizzazione operaia (riproponendo il tentativo effettuato da Ciuto Brandini nel 1345 con la creazione di una cassa comune tra i salariati a sostegno di uno sciopero), rompeva il corporativismo medievale col quale i datori di lavoro e gli operai erano uniti nella stessa asso-ciazione, anticipava i caratteri del sindacalismo classista sorto nell’Ottocento congiuntamente all’avvento dell’industrialismo. Il documento che segue è tratto dalla lettera con cui un contemporaneo informava il suo corrispondente sugli eventi drammatici accaduti in città.

g. Cronaca del Tumulto dei Ciompi (1378) nel resoconto di un contemporaneo

Avendo li signori [dirigenti del comune], infino a dì 18 del mese, sentito come certi capi della gen-te minuta, intendete tutta gente sottoposta all’arte della lana et altre arti, gente che stanno a giornate [salariati], cercavano di fare ragunata [fare radunta, riunirsi] grande fra loro, vegnente la notte, passato il dì 19, alle 3 ore, ragunorno i collegi [organi di potere]; et quivi dissono ciò che avevono sentito; et, detto loro ciò che era, presono partito che le signo-rie [le autorità] andassino la notte a prendergli; et così feciono. Et furono quattro i presi. […]La mattina seguente, che fu a dì 20, innanzi terza [le nove] un poco, essendo tutti i soldati armati in su la Piazza, un brulichìo picciolissimo si levò in su quella; et io, che v’ero, non so dire, né che, né co-me: ma: «Serra [pigia], serra» si gridava, fuggendo ciascuno. […] Così ragunati [i popolani] mandorno a dire l’una brigata a l’altra: «Ciascuno vadia alla Piazza»; et così feciono! E giunti quivi, dissono che volevano quelli che gl’avevano presi la notte. […] Riavuti che gli ebbono […], et domandarongli il gonfalone della giustitia [lo stendardo simbolo del potere esecutivo], e nol volendo dare lo tolsero per forza.Et avuto che l’ebbono [il gonfalone, simbolo del potere di giustizia], tutti si deviorno a casa [di] Alessandro e Bartolomeo degli Albizi; quivi arsono le case loro con ciò che vi era, senza ruberia; et chi toccava nulla se non per ardere, era in pericolo di morte. Appresso arsono la casa di Simone di Rinieri Peruzzi. […]Mentre che queste arsioni si facevano per una par-te di costoro, una altra parte andò per Salvestro di messer Alamanno [Salvestro Alamanno dei Medici] et menoronlo in su la Piazza, e quivi lo feciono ca-valieri [cavaliere]. Et appresso volevano fosse fatto il figliolo. […]

Seguente la mattina, a dì 22, sonò a consiglio di comune. […] Et entrati suso [nel consiglio] fecero un gonfaloniere di giustizia de’ loro, il quale ha nome Michele di Lando, pizzicagnolo; dicono che la donna sua tiene l’arte del pizzicagnolo, ma lui è lavorante di lana, di età d’anni XXXV o meno. […]Appresso tutte queste cose […] andarono cercando ser Nuto da Città di Castello, il quale si diceva che la brigata di Messer Lapo da Castiglionchio [espo-nente della Parte Guelfa, già bandito durante il primo tumulto del giugno] si aveva fatto venire per farlo bargello [capitano delle guardie]. Di che avvenne loro alle mani un suo fante, che, dimandato, lo in-segnò loro. Et in ultimo lo presono, e lo posono su un paio di forche, che eglino aveva fatto rizzare in sulla Piazza de’ priori. Et morto che l’ebbono […] lo impiccarono per i piedi, et chi ne portò un brano, et chi un altro, e tanti ne furono a torre, che niuno punto non rimase nel capestro se non un piè e la gamba sino al ginocchio.Ancora mandarono un bando, che nessuno de’ grandi si lassasse trovare appresso alla Piazza […] a pena di essere tagliato a pezzi. E così mandarono molti altri bandi. […]Questi sono i capitoli che si contengono nella peti-tione, che porse il popolo minuto a’ signori et vin-sesi in ogni consiglio alli 22 di luglio. […] Che l’arte della lana non abbi più un uffitiale forestiero [la signoria di Firenze, per la sorveglianza degli operai dell’Arte della lana, consentiva che venisse nomina-to un ufficiale forestiero, su cui pertanto si rivolgeva l’odio dei Ciompi] da qui innanzi. […]Che nell’offitio de’ signori sia 2 de’ minutissimi, 2 degli artefici minuti, et il rimanente come tocca alle 2 arti maggiori et alli scioperati [cioè non iscritti ad alcuna arte]. […]

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Che il gonfaloniere di giustizia sia comune, a ciò che possa toccare anche a loro. […]Che detti minutissimi debbino avere una casa di fiorini 500 [una propria sede], dove si possino ragu-nare con i lor consoli.Che tutti li sbanditi [gli espulsi dalla città] sieno ri-banditi, eccetto che i ribelli o falsarii […] e la can-cellatura costi al notaro fiorini uno et non più nul-la. […]Che messer Salvestro [dei Medici] abbia la rendita del Ponte Vecchio a vita. […]

Che nessuno possa esser preso [incarcerato] per de-bito per di qui a 2 anni. […]Che per niuno rettore, o per altra persona del co-mune di Firenze non si possa conoscere [accusa-re] di niuna ruberia o arsione fatta da XVIII di giugno innanzi [che non venissero effettuate ritor-sioni legali contro coloro che avevano preso parte al moto].

Antologia di testi per lo studio della storia medioevale, a cura di G. Cerrito, F. Natale, G. Spini, Roma, Cremonese, 1966.