pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale
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Considerazioni sull'origine, sullo sviluppo e sull'organizzazione della comunità cristianaTRANSCRIPT
Giuseppe Mattana
“Pietre vive per la costruzione
di un edificio spirituale”
Considerazioni sull’origine, sullo sviluppo e sull’organizzazione
della comunità cristiana
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Presentazione
“Pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1Pt 2,5)
“Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche
voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio
santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,4-5). Con
questo richiamo della Prima lettera di Pietro sulla natura e sull’essenza della comunità cristiana,
voglio offrire a tutta la comunità ecclesiale e civile di Oliena una serie di riflessioni e di
considerazioni sull’origine, sullo sviluppo e sulla struttura della comunità cristiana, partendo dalle
origini per arrivare all’attuale realtà della parrocchia. Ancor prima del mio arrivo a Oliena, avevo
iniziato, sul settimanale “L’Ortobene”, una serie di articoli in ordine alla storia e al formarsi della
comunità cristiana, una tematica che mi ha sempre interessato fin dagli anni della formazione
teologica. Dovendo poi passare ad affrontare le tematiche attuali della parrocchia, mi sono fermato
perché, non essendo direttamente coinvolto in una realtà parrocchiale, avevo l’impressione di
scrivere e di esporre considerazioni un po teoriche, distanti da un vissuto concreto. Una volta
nominato parroco e messo a diretto contatto con la realtà parrocchiale, dovendo riflettere, pregare e
studiare sul ministero affidatomi ho sentito l’esigenza, dopo circa un anno, di riprendere a scrivere,
per comunicare, a voce alta, le considerazioni sulla natura teologica della parrocchia, le sue
esigenze, il suo aspetto organizzativo, così come si sono andate delineando dal Concilio Vaticano II
in poi, fino all’attuale magistero. In particolare, mi sono state di grande aiuto e di grande stimolo, le
affermazioni contenute negli Orientamenti pastorali dell’Episcopato Italiano per il primo decennio
del duemila: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. “Perché la parola e l’opera di Dio e
la risposta dell’uomo si tramandino lungo la storia, è assolutamente indispensabile che vi siano
tempi e spazi precisi nella nostra vita dedicati all’incontro con il Signore. Dall’ascolto e dal dono di
grazia nasce la conversione e l’intera nostra esistenza può divenire testimonianza del lieto annuncio
che abbiamo accolto. Ci sembra pertanto fondamentale ribadire che la comunità cristiana potrà
essere una comunità di servi del Signore soltanto se custodirà la centralità della domenica, «giorno
fatto dal Signore» (Sal 118,24), «Pasqua settimanale», con al centro la celebrazione dell’Eucaristia,
e se custodirà nel contempo la parrocchia quale luogo – anche fisico – a cui la comunità stessa fa
costante riferimento. Ci sembra molto fecondo recuperare la centralità della parrocchia e rileggere
la sua funzione storica concreta a partire dall’Eucaristia, fonte e manifestazione del raduno dei figli
di Dio e vero antidoto alla loro dispersione nel pellegrinaggio verso il Regno” (CVMC 47). Dopo
due anni di ministero parrocchiale e in occasione del rinnovo del Consiglio Pastorale Parrocchiale,
ho voluto raccogliere questi articoli per offrirli come occasione di riflessione, di dibattito, di
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confronto in ordine alla vita e alle esigenze della nostra comunità. Faccio questo con umiltà e con
una certa trepidazione, affidandomi alla materna protezione di Maria SS.ma, all’intercessione di S.
Giuseppe, Patrono della Chiesa Universale e di S. Ignazio di Loyola, patrono della nostra comunità
parrocchiale.
Oliena, 12 aprile 2009. Solennità della Pasqua.
Don Giuseppe Mattana
Parroco
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IL FATTO COMUNITARIO
La lettura degli Atti degli Apostoli che caratterizza il tempo di Pasqua, ci presenta l’esperienza della
comunità dei discepoli del Signore, la fede e la testimonianza nella sua risurrezione, l’inizio di una
Chiesa che si organizza attorno agli Apostoli e ai loro collaboratori. Questo comporta una
riflessione sulla struttura e sulle forme concrete di organizzazione che la Chiesa può rivestire. Le
due realtà non possono essere né confuse, né identificate. Negli scritti del Nuovo Testamento è
necessario distinguere quello che appartiene al campo della struttura, parlando della Chiesa, e
quello che appartiene al campo della organizzazione. Distinguere però non significa separare,
perché la struttura non stà accanto all’organizzazione ma è per definizione implicita nelle forme
concrete di organizzazione e nelle figure senza le quali non può vivere. Per struttura si intende
“l’elemento di identità della Chiesa nell’ordine della fede, dei sacramenti e delle funzioni
gerarchiche”. L’organizzazione inoltre implica il discorso sui “ministeri”, e cioè il ruolo delle
diverse funzioni all’interno della comunità ecclesiale. Il Nuovo Testamento e lo studio storico
dell’antichità cristiana, presentano momenti successivi di organizzazione, legati a volte a zone
geografiche diverse: Corinto e le prime chiese paoline, l’ambiente giudaico, gli Atti, le lettere
pastorali. Si può dire che è esistito un certo pluralismo. Quello che emerge dalle prime comunità
cristiane, quello che colpisce subito l’attenzione è il fatto comunitario. Paolo indirizza le sue lettere
a tutta la comunità. I membri della comunità sono investiti di una responsabilità condivisa da tutti e
tutti sono chiamati, nella comunione, a far crescere la comunità, con la correzione fraterna, con
l’organizzazione in casi di conflitto, con il rispetto dell’ospitalità, con l’esercizio dei diversi ruoli
all’interno dell’”agape”. Si può sintetizzare la vita della comunità con poche parole: unione
fraterna, cioè amore e comunione, partecipazione, responsabilizzazione. Tutti i membri, tutti i
credenti hanno una funzione da svolgere, hanno un “ministero”, un compito ben preciso da
realizzare. Nel Nuovo Testamento tutta la comunità cristiana, in forza della sua vocazione alla fede
o della sua apostolicità, si trova in situazione di servizio e di missione, cioè di servizio fraterno del
Vangelo per il mondo. Ciascuno però mette a disposizione di tutti i doni particolari, caratteristici
che ha ricevuto; in altre parole esercita il servizio in base alla particolarità del dono ricevuto, cosi
che si crea una serie di specializzazioni che riguardano funzioni precise, dove “alcuni” sono al
servizio di “tutti” nella comunione e nell’unità.
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ALCUNI E TUTTI
Nella prima comunità cristiana, all’interno delle relazioni tra alcuni e tutti, ve n’è una che ricorre
con frequenza nel Nuovo Testamento così da costituire una coppia fondamentale e “strutturata”
della Chiesa: da un lato abbiamo un gruppo di ministri che esercitano collegialmente un ministero
“principale”; questi uomini deputati ufficialmente portano la responsabilità di tutta la Chiesa, anche
se ognuno vi prende parte con modalità e gradi diversi. Dall’altro lato vi è l’assemblea considerata
nella sua totalità. “Diciamo in breve che Gesù ha istituito una comunità strutturata, una comunità
interamente santa, sacerdotale, profetica, missionaria, apostolica, con certi ministeri nel suo seno:
gli uni liberamente suscitati dallo Spirito, gli altri collegati, mediante l’imposizione delle mani, alla
istituzione e alla missione dei dodici”. L’esistenza di questo gruppo è un dato inconfutabile e
rilevante dell’insegnamento del Nuovo Testamento, per cui si deve dire che “la relazione qualificata
che intercorre tra questo gruppo di alcuni e tutti gli altri è costitutiva del mistero della Chiesa nella
sua visibilità”. Tuttavia non possiamo parlare di antagonismo tra “alcuni” (ministri) e “tutti”
(assemblea), ma piuttosto di reciprocità nel senso che l’assemblea non esiste senza i ministri e i
ministri esistono unicamente nel loro essere-per-l’assemblea. Il gruppo dei Dodici unito attorno a
Pietro è l’esempio simbolico e il punto di partenza di questa struttura ministeriale della Chiesa. Il
ministero principale di questi “alcuni” in rapporto alla sua origine lo possiamo chiamare “ministero
apostolico”. Questo “ufficio” viene esercitato in maniera collegiale, sia che si tratti di presbiteri
locali o del collegio apostolico nella comunità di Gerusalemme la cui storia è raccontata negli Atti
degli Apostoli. I compiti del ministero apostolico si organizzano intorno a tre pilastri: a) annuncio
della Parola, annuncio ufficiale del Vangelo vivo a tutti gli uomini e a tutto il mondo, ai non
credenti come a coloro che credono e che sono già radunati nella Chiesa. b) La Parola annunciata
raduna coloro che la ricevono, forma una comunità salvifica, dove il ministero della parola sfocia in
quello di “presidenza”, di “sorveglianza”, di “pastore”. Questo ministero è garante della fedeltà
dell’annuncio alla tradizione del Vangelo. Inoltre comporta la presidenza della preghiera e
dell’assemblea liturgica, dove la Parola annunciata acquista tutta la sua efficacia. La Chiesa dei
primi secoli ha compreso molto bene il legame esistente tra ministero apostolico ed Eucaristia e ce
ne da testimonianza Ignazio di Antiochia: “Si consideri come legittima solo quell’Eucaristia che
viene celebrata sotto la presidenza del Vescovo o di colui che ne avrà avuto da lui l’incarico”.
c)Il ministero apostolico comporta anche un certo numero di servizi della comunità e nei suoi
membri, in particolare servizi di assistenza materiale (collette, ministero dei Sette…) ma anche altri
servizi che via via si sviluppano in base alle concrete necessità ed esigenze della comunità. Il
ministero apostolico non esaurisce la ministerialità della Chiesa. Pur mantenendo una unità
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fondamentale, la struttura ecclesiale lascia uno spazio considerevole alle variazioni della
organizzazione concreta.
MINISTERI E ATTIVITÁ ECCLESIALI
I testi più significativi per conoscere l’attività ecclesiale delle origini sono le Lettere di S. Paolo e
gli Atti degli Apostoli. Nelle lettere paoline vi sono alcune indicazioni sulle cariche della Chiesa.
Qualunque nome esse abbiano, le cariche non sono che la realizzazione di un’idea generale: come
istituzione destinata a durare finchè durerà il tempo presente, la Chiesa possiede una gerarchia nella
quale l’autorità apostolica garantisce l’unità dell’organizzazione. Paolo, nelle lettere, offre alcune
istantanee sulla situazione concreta delle sue Chiese che fanno intravedere le cariche nelle Chiese
locali. Nella prima lettera ai Corinzi Paolo delimita nettamente nell’elenco dei carismi una triade
tradizionale di ministeri dalla denominazione stabile: anzitutto gli apostoli, poi i profeti, in terzo
luogo i dottori. “Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in
secondo luogo come profeti, in terzo luogo come dottori (maestri; poi vengono i miracoli, poi il
dono di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue” (1Cor 12,28). Questo elenco
stacca nettamente “i primi tre termini della serie da quelli che seguono; i primi tre indicano degli
uomini, gli altri delle attività”. Paolo fa una chiara distinzione tra i “Dodici” e “tutti gli altri
apostoli”. L’espressione “i Dodici” è arcaica e viene conservata da Paolo, dai racconti sinottici,
dagli Atti e dal vangelo di Giovanni. Attraverso di essa ci si ritrova nel cuore della tradizione
primitiva evangelica. Iniziando i tempi nuovi Gesù ha chiamato attorno a se dei discepoli e tra
questi ne sceglie dodici che incarica di proclamare insieme a lui la vicinanza del Regno. Luca negli
Atti ci parla in maniera precisa ed estesa degli Apostoli. Essi sono coloro che Gesù ha scelto per la
missione di annunciare il suo Vangelo. Le funzioni esercitate dagli apostoli, e descritte negli Atti,
sono varie. La principale è quella di testimoni della Risurrezione di Gesù. Essi danno la loro
testimonianza attraverso la Parola e la Preghiera che vedono come loro compiti essenziali. Luca
presenta varie volte gli apostoli nell’atto di esercitare un ruolo di direzione come, per esempio, nella
distribuzione dei beni, nel risolvere i problemi sorti tra gli “ellenisti” e “gli ebrei”, nell’accogliere
Paolo dopo la conversione. Gli apostoli intervengono anche al di fuori di Gerusalemme al seguito
dei vari missionari come garanti dell’unità. Quando Filippo battezza alcuni della Samaria, gli
apostoli inviano Pietro e Giovanni per imporre le mani affinché ricevano lo Spirito Santo. Tra gli
apostoli emerge Pietro, capo del collegio apostolico, colui che prende l’iniziativa, che dirige,
l’uomo della parola e della missione. Paolo rivendica per se il titolo di apostolo; pur riconoscendo il
ruolo dei Dodici e considerandosi “l’ultimo degli apostoli” egli insiste sulla sua autorità e dignità in
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quanto è “apostolo del Cristo”, “chiamato per essere apostolo di Gesù Cristo” (1Cor 1,1) “messo da
parte per l’Evangelo di Dio” (Rom 1,1). La chiamata è venuta direttamente da Dio senza alcuna
mediazione, perciò egli prende le distanze da ogni dipendenza umana. Nelle sue Chiese Paolo non è
l’unico a portare il nome di apostolo. Questo termine in greco corrispondeva alla denominazione
comune che designava un inviato o un plenipotenziario. “Nell’assemblea degli apostoli secondari si
distinguono abbastanza facilmente gli apostoli ausiliari di Paolo nel suo apostolato, o quelli dei
mandatari della Chiesa di Gerusalemme, o quelli degli inviati delle altre comunità”.
APOSTOLI, PROFETI E DOTTORI
Tra i collaboratori di Paolo, un posto a se occupano Barnaba, Sila e Apollo che lavorano su un piede
di uguaglianza con lui e che vengono significativamente chiamati “Apostoli”. Gli altri, come
Timoteo, Tito, Epafra, Epafrodito e Tichico dipendono in misura maggiore dall’autorità di Paolo
che si fida di loro e che fa partecipi del suo ministero apostolico. Accanto agli apostoli, Paolo rileva
ancora con insistenza altri due gruppi: “In secondo luogo i profeti, in terzo i dottori” (1Cor 12,28). I
profeti non hanno testimoniato soltanto per le comunità paoline e per Roma, ma anche per per la
Palestina e la Siria e per l’Asia Minore. Nella lista dei carismi, vengono menzionati direttamente
sempre dopo gli Apostoli e prima di tutti gli altri ministeri. Come gli Apostoli essi sono i membri
più importanti della comunità. Attraverso loro lo Spirito parla senza intermediari. Il profeta, nel
Nuovo Testamento, non è caratterizzato da estasi o da visioni, ma dalla predicazione della Parola di
Dio che annuncia con coscienza chiara e sobria, in mezzo al mondo che lo circonda. Con un
discorso libero, chiarificatore e responsabile, predicano il Cristo e illuminano il cammino della
comunità e di ciascuno per il presente e per l’avvenire. È per questo che sono stati costituiti e
abilitati da Dio; non sono stati scelti o istituiti dalla comunità, ma sono chiamati dallo Spirito, non
sono un’istituzione gerarchica ma non sono neppure semplicemente l’espressione del sacerdozio
universale. I profeti costituiscono una cerchia di persone relativamente limitata all’interno della
comunità e solo eccezionalmente, come negli Atti, sono predicatori itineranti che vanno di città in
città. Se la loro attività di predicatori può tanto assomigliare a quella degli apostoli, non deriva però
dallo stesso potere degli Apostoli. L’Apostolo, come testimone originale e primo messaggero,
possiede autorità di fronte alla comunità, benché a sua volta sia sottomesso al messaggio. Il profeta
è messo sotto l’autorità dell’apostolo. Egli ha autorità nella comunità come membro della stessa, in
comunione con gli altri profeti che hanno lo stesso potere. La fede non è sorta da lui, ma è legata
alla testimonianza fondamentale degli apostoli e in conformità con l’insegnamento degli apostoli. Il
ministero profetico servirà a edificare la comunità con l’esortazione e la consolazione, con la parola
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di penitenza e la promessa. I dottori appaiono a più riprese con i profeti: esattamente al terzo
posto, dopo gli apostoli e i profeti. Agiscono all’interno di una comunità. Trasmettono e
interpretano il messaggio di Cristo, spiegano il senso dell’Antico Testamento alla Chiesa nascente.
Nelle comunità sinagogali ellenistiche, i rabbini avevano una funzione simile: per il giudaismo
tardivo, i dottori sono coloro che, alla luce della Parola di Dio, mostrano il cammino continuando,
di generazione in generazione, la lettura della Scrittura e la tradizione della dottrina. Come i profeti,
parlano sulla base della testimonianza apostolica, tuttavia sono più legati alla tradizione che i
profeti. La dottrina non è, come la profezia, direttamente fondata su una rivelazione ma su una
tradizione. I dottori fanno più esposizioni sistematiche che rivelazioni intuitive. Nell’era post-
apostolica, i dottori si sono rivelati indispensabili benché il loro aspetto sia fortemente cambiato. I
profeti invece sono ancora altamente considerati. Al riguardo c’è la testimonianza della Didachè
dove i profeti vengono chiamati i “grandi sacerdoti”; a loro sono dovute le primizie del torchio,
dell’aia, dei greggi e degli armenti, del vino e dell’olio, insomma di ogni genere di bene in modo
che siano esenti da ogni bisogno materiale (13, 1-7). Aver cura dei profeti sembra più importante
che avere cura dei poveri. Benché bisogna spesso guardarsi dai falsi profeti, non dovranno essere
messi alla porta, né criticati se parlano nello Spirito. Qui però si vede una sopravvalutazione dei
profeti, estranea a Paolo. I profeti ora celebrano l’Eucaristia e per essi la forma e la lunghezza delle
preghiere eucaristiche prescritte agli altri cristiani, non sono obbligatorie: “lasciate ai profeti
rendere grazie tanto quanto vogliono”. In una Chiesa dove non ci sono sufficienti profeti e dottori,
la comunità sceglierà vescovi e diaconi che assumeranno il loro compito: “così dunque, eleggete
vescovi e diaconi degni del Signore, uomini dolci e disinteressati, veraci e provati, perché anch’essi
esercitano per voi il ministero dei profeti e dei dottori” (Didachè, 15,1-2). In seguito, tuttavia, i
profeti perdettero la loro situazione privilegiata per il timore dei pseudo-profeti e per il
rafforzamento degli altri ministeri.
FUNZIONI DI GOVERNO E DI PRESIDENZA
Nelle comunità cristiane delle origini, in modo particolare in quelle paoline, oltre ai ministeri dei
profeti e dei dottori, oltre al servizio della predicazione, ci sono cariche di assistenza e di governo.
Pur essendo la comunità una comunione di carismi, non si deve credere che la vita si svolga
all’insegna della fantasia individuale e ancor peggio all’insegna dell’anarchia e del disordine. Nella
comunità ci sono persone che “si preoccupano” degli altri; sebbene non ci sia una classe dominante
che usi un potere di comando unilaterale, tuttavia nello svolgimento dei vari servizi c’è un ordine
superiore e uno inferiore. Se si volesse esprimere questa situazione in un linguaggio e in categorie
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odierne, si dovrebbe dire che non c’era né una forma di repubblica, né una forma di monarchia ma
una forma di comunione. Paolo, in diverse lettere, parla dei servizi assegnati “a coloro che
presiedono” (1Ts 5,12; Rm 12,8). Certamente è un carisma che indica sollecitudine, ma anche una
funzione di governo permanente all’interno della comunità. “Colui che presiede lo faccia con zelo”
(Rm 12,8). “noi vi domandiamo, o fratelli, di avere dei riguardi per coloro che fra voi sono in
affanno, che sono alla vostra guida nel Signore e che vi rimproverano. Dimostrate loro una carità
tutta speciale, in ragione della loro fatica. Vivete in pace tra voi!” (1Ts 5,12-13). Paolo esige anche
la sottomissione nei confronti di chiunque si afferma in modo speciale nella comunità: “a vostra
volta, sottomettetevi a tali uomini e a chiunque lavora e si angustia con loro” (1Cor 16,16). In molti
di questi casi Paolo non pensa a ministri ben determinati ma a Stefana e ai suoi “che sono primizie
dell’Acaia” (1Cor 16,15), a Epeneto che è “primizia dell’Asia nella fede al Cristo” (Rm 16,5), e
così per altre persone come Prisca e Aquila a Roma, collaboratori di Paolo (Rm 16,3), Ofebe
“diaconessa della Chiesa di Cencre” (Rm 16,1) e ancora Archippa, che ha “ricevuto il ministero nel
Signore” (Col 4,17). Si tratta si servizi permanenti o almeno durevoli, ma storicamente non si sa
molto sul loro conto. Più tardi questi servizi di governo assumono delle formulazioni precise, e
Paolo nell’indirizzo della lettera ai Filippesi cita questi nomi: “a tutti i santi nel Cristo Gesù che
sono a Filippi, così come ai vescovi e ai diaconi” (Fil 1.1). È un segno, anche se scarno, che
l’episcopato e il diaconato erano doni che lo Spirito aveva accordato per il governo e il servizio
della Chiesa. Bisogna tener presente che Filippi è una colonia romana e quindi è facile immaginare
una imitazione delle cariche della Chiesa romana. La prima Lettera di Clemente ci rivela
un’organizzazione ben precisa che oltrepassa i confini di Roma, fondata principalmente sugli
episcopi e sui diaconi. A questi due termini bisogna aggiungere quello di presbitero che non viene
menzionato nelle lettere paoline, ad eccezione delle lettre pastorali, e per il cui uso vanno
riaccostate agli Atti, alla prima lettera di Pietro e alla prima lettera di Clemente. Si può dire che
mentre i primi due termini potrebbero avere origine in un ambiente pagano-cristiano, quest’ultimo,
e l’organizzazione presbiterale, è di origine giudeo-cristaiana o ebraica.
EPISCOPI, DIACONI, PRESBITERI
Il termine “episcopo” significa “sorvegliante” e viene tradotto con il termine: “vescovo”. Il termine
ha un’origine del tutto profana. Nella sua utilizzazione non cristiana, è un titolo dato agli ispettori
dello Stato, agli impiegati delle comunità religiose, agli impiegati del gruppo e della società, ai
sorveglianti dei lavori di costruzione come ad altri funzionari. Nelle comunità cristiane deve essere
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stata questione di un tipo di servizio di sorveglianza e di amministrazione, non riducibile, però,
esclusivamente a funzioni di ordine economico. Contro il fatto che la funzione degli episcopi
deriverebbe direttamente dal capo della sinagoga ebrea o dal maestro della comunità degli scritti di
Damasco e dai testi di Qumran, si oppongono non solo numerose differenze, ma anche il fatto che
gli episcopi si affermano innanzi tutto nelle comunità greche. È qui, sembra, che si è mutuata la
designazione greca corrente della funzione e che le si è attribuito un contenuto nuovo nel contesto
della comunità. L’episcopo nel Nuovo testamento è attestato cinque volte in tutto: una volta per
designare il Cristo (1Pt 2,25); poi una volta in Paolo (Fil 1,1), una volta negli Atti (At 20,28) e poi
in 1Tm 3,2 e in Tt 1,7. Le prime attestazioni concernenti gli episcopi come funzione comunitaria
sono al plurale, segno che nelle comunità c’è un gruppo di episcopi. La designazione coincide
probabilmente con i “presidenti” e con i “pastori” citati più tardi.
Il termine “diacono” significa “servitore”. Sull’esistenza di un diaconato cristiano non abbiamo
altra chiara testimonianza più antica di Fil 1,1: “Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi
in Cristo Gesù che sono a Filippi, con i vescovi e i diaconi”. Non si sa con precisione in qual
misura il diacono ha a che vedere con i “servizi di assistenza” menzionati nella prima lettera ai
Corinzi (1Cor 12,28) o con “coloro che si affannano” della prima lettera ai Tessalonicesi (1Ts
5,12). Se nei servizi di apostoli, di profeti e di dottori, si sente soprattutto l’influenza della
tradizione ebraica, i servizi di episcopi e di diaconi, al contrario,dipenderebbero soprattutto da
influenze ellenistiche. Il termine greco di diacono esprime una condizione di servizio ma non di
schiavitù. Il diacono all’inizio era colui che serviva a tavola nelle comunità rituali greche e in
seguito il responsabile delle provvigioni per i pasti della comunità, per cui anche il diacono cristiano
potrebbe aver svolto una funzione analoga. La nomina dei “Sette” narrata negli Atti (At 6,1-6) non
ha, tuttavia, un legame necessario con i diaconi di cui si parla nella lettera ai Filippesi e nella prima
lettera a Timoteo (Tm 3,8-13). I Sette sembra abbiano avuto in realtà un potere più grande dei
diaconi in senso paolino e somiglierebbero più ai futuri presbiteri che ai diaconi. Se si è incerti sulla
loro esatta funzione, una cosa però è certa: che già nelle comunità paoline c’erano dei diaconi e che
la cura delle cose materiali e l’assistenza dei poveri facevano parte delle loro funzioni.
Il termine “presbitero” significa “anziano”. Il presbitero lo si trova a capo di ogni comunità
ebraica. In nessun posto si trova il ricordo dell’istituzione e della formazione del collegio degli
anziani. Essi sono, al contrario, supposti in tutti gli strati della tradizione vetero-testamentaria. A
Gerusalemme, a fianco dei grandi sacerdoti e degli scribi, gli anziani formavano il terzo gruppo, il
meno influente, del resto, in seno a quello che fu, più tardi, il Gran consiglio che è anche a volte
chiamato “presbiterio” nel nuovo Testamento (Lc 22,66; At 22,5). Nelle colonie ebraiche, la
direzione della comunità, o almeno della sinagoga, era in mano agli anziani. Così la comunità
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primitiva fu spesso tentata di organizzarsi in maniera analoga. L’organizzazione ebraica affidata
alla comunità nascente li invitava a considerare i loro propri anziani (presbiteri) come
rappresentanti della tradizione e incaricati dell’organizzazione della comunità. Benché dagli Atti
degli Apostoli, i presbiteri sembrino far parte di ogni comunità cristiana, fa meraviglia che vengano
nominati piuttosto tardi. I presbiteri della prima comunità cristiana appaiono, in parte come
rappresentanti della comunità locale di Gerusalemme riuniti attorno a Giacomo, alla maniera di un
comitato direttivo, in parte insieme con gli apostoli come istituzione fondamentale per l’insieme
della Chiesa. In atti 20,28-35, il presbiterato è descritto come una funzione pastorale. I presbiteri
devono custodire la tradizione apostolica contro gli eterodossi e devono condurre la comunità. La
funzione del presbitero è di ben esercitare la presidenza e di affaticarsi nella parola e
nell’insegnamento (1Tm 5,17).
SVILUPPO DELLA GERARCHIA NELL’ETÁ POST-APOSTOLICA
Alla fine dell’era paolina, si trova una certa sovrapposizione o almeno un aggancio delle forme
fondamentali di organizzazione: la forma palina pagano-cristiana e la forma palestinese. Nello
stesso tempo si ha la mescolanza parziale dei titoli di Episcopo e di Presbitero, cosa abbastanza
comprensibile data l’analogia delle funzioni. Negli Atti degli Apostoli, gli stessi uomini sono
designati col nome di presbiteri e di episcopi; in Atti 20,17.28, i presbiteri di Efeso sono chiamati
episcopi. Può darsi che la cosa sia intenzionale volendo assimilare gli episcopi delle comunità di
origine pagana ai presbiteri nel senso giudeo-cristiano, così da riunire le tradizioni per favorire
l’unità della Chiesa. Da quello che si è detto si può già sapere che i termini “episcopo” e
“presbitero” tendono ad assumere un significato e un ruolo particolare nell’ambito dello stesso
ambiente e più che designare delle funzioni più o meno simili, designano ormai funzioni e
funzionari diversi. L’evoluzione complessa che si svolge in diversi luoghi e in maniere diverse e al
termie della quale si trova l’episcopo, cioè il vescovo nel senso attuale della parola, avvenne
sostanzialmente in tre tappe.
Di fronte ai profeti, ai dottori e alle altre funzioni carismatiche, gli episcopi (o presbiteri-episcopi) si
impongono come i capi e i soli capi che conducono la comunità. Si è avuto modo di sottolineare il
posto di primo piano che gli apostoli, i profeti e i dottori hanno avuto nelle comunità paoline e il
grandissimo onore in cui, nella Didachè, erano tenuti i profeti, considerati “grandi sacerdoti”,come
pure i dottori. Secondo la Didachè gli episcopi e i diaconi debbono essere assimilati ai profeti e ai
dottori per sostituirli dove non ci fossero. Ma di fronte a questo servizio episcopale e diaconale,
istituzionalizzato, le funzioni carismatiche stentano a tenersi in vita. Nella prima lettera di Clemente
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i profeti e i dottori passano sotto silenzio. Ora la celebrazione, la cura di insegnare e di amministrare
è imposta sempre più agli episcopi e ai diaconi. Da ciò consegue che in seno a una Chiesa tutta
intera fondata sugli apostoli e i profeti, gli episcopi erano diventati, a un livello tutto speciale, “i
successori degli apostoli”. La successione apostolica appariva sempre più come successione
apostolica di un determinato servizio, e questo, soprattutto, quando verso la fine del secondo secolo,
i profeti e nel terzo secolo i dottori, scomparvero definitivamente dalla comunità, e il magistero
appartenne sempre più esclusivamente agli episcopi. Dalla collegialità di tutti i credenti si è passati
alla collegialità di un gruppo ministeriale determinato: collegialità dei capi,degli episcopi-presbiteri.
Di fronte al grande numero di episcopi in una comunità, emerse l’episcopato monarchico. Nel
Nuovo Testamento si da sempre il caso, nella comunità, di un gran numero di episcopi che svolgono
il loro servizio collegialmente. Nelle Lettere pastorali (1Tm 5,17) era richiesto di avere particolare
riguardo verso coloro che, tra i presbiteri, “esercitano bene la presidenza” e verso coloro che “si
affannano alla Parola e all’insegnamento”. Secondo 1Tm 3,2-5, il compito degli episcopi è di
presiedere e di insegnare. Ad ogni modo gli episcopi tendono sempre di più a distaccarsi dai
presbiteri e questa nuova evoluzione si delinea in Siria e in Asia Minore. Ignazio di Antiochia
fornisce la prima testimonianza appassionata in favore di questa evoluzione che ha luogo nel
secondo secolo e che vede sparire in un posto il gran numero di episcopi a beneficio di un solo ed
unico episcopo che è il solo capo responsabile e competente della comunità. Le lettere di Ignazio
mostrano proprio come anche nelle chiese d’Asia minore, alle quali scrive, non deve più esserci che
un solo e unico episcopo e offre a questo fatto storico, un fondamento dogmatico: “Non c’è che una
sola eucaristia, una sola carne del Signore, un solo calice, un solo altare,come non c’è che un solo
vescovo con il presbyterium e i diaconi, i compagni di servizio”.
IL MINISTERO DEL VESCOVO
Nelle lettere di Ignazio di Antiochia, in particolare nella lettera alla comunità di Filadelfia, si trova,
per la prima volta, una “gerarchia” ferma, ben articolata in tre gradi: vescovo, presbiterio, diaconi.
Ignazio, nel difendere la nozione di ministero, che non è giuridica ma cultuale e pneumatica,
accentua un aspetto particolare: il vescovo presiede al posto di Dio Padre, i presbiteri tengono il
posto del collegio apostolico, i diaconi svolgono il servizio del Cristo. “Seguite tutti il vescovo,
come Gesù Cristo segue suo Padre, e il presbiterio come gli apostoli; quanto ai diaconi, rispettateli
come la legge di Dio. Nessuno faccia, senza il vescovo, nulla di ciò che riguarda la Chiesa. Sia
considerata legittima solo quella eucaristia che si fa sotto la presidenza del vescovo o di colui al
quale ne avrà dato l’incarico. Là dove appare il vescovo là sia la comunità, come là dove è il
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Cristo Gesù, là è la Chiesa Cattolica. Non è permesso senza il vescovo né battezzare, né fare
l’agape, ma tutto ciò che egli approva, ciò è gradito anche a Dio. Così tutto ciò che si fa sarà
sicuro e legittimo. È ragionevole ritrovare ormai il nostro buon senso e, mentre ne abbiamo ancora
il tempo, pentirci per ritornare a Dio. È bene riconoscere il vescovo e Dio. Colui che onora il
vescovo è onorato da Dio; colui che fa qualcosa all’insaputa del vescovo, serve il diavolo” (Smyrn.
8,1-9,1).Uno sviluppo ed esortazioni del genere sono presenti in tutte le lettere di Ignazio, che
difende e rimarca nettamente la funzione e il ruolo monarchico del vescovo. Un ulteriore sviluppo
di questo ministero lo si ha quando i vescovi che avevano la presidenza di una comunità particolare
diventano i capi della diocesi. Quando il messaggio cristiano si è sparso dalle città nella campagna,
gli episcopi della città prendono in custodia il territorio che circonda il luogo abitato. Così essi,
attraverso i presbiteri, trapiantati nella campagna, danno origine a un sistema centralizzato di Chiese
madri e di Chiese figlie: il sistema metropolitano. Così l’episcopo di una città diventa “vescovo” nel
senso attuale del termine con un territorio sotto la sua giurisdizione. In Oriente questo territorio fu
chiamato “eparchia”, in Occidente parrocchia o diocesi. I vescovi di Roma, Alessandria, Antiochia,
Costantinopoli nel IV secolo, ricevettero il titolo di metropoliti, mentre Gerusalemme occupa un
posto di onore particolare. In questo sistema patriarcale la primazia spetta a Roma. I vescovi si
scambiano lettere e messaggi, intrattengono rapporti stretti di comunicazione favoriti anche dalle
riunioni dei sinodi regionali e dal carattere collegiale delle ordinazioni episcopali, attestato fin
dall’inizio del terzo secolo. Così abbiamo che la collegialità degli episcopi monarchici delle diverse
Chiese (o diocesi) emerge sempre di più e finalmente, soprattutto in Occidente, la collegialità col
Vescovo di Roma. Sul ministero e sul ruolo del vescovo abbiamo la testimonianza di un altro
grande Padre della Chiesa: Cipriano di Cartagine. Negli scritti di Cipriano, un punto molto
importante è l’unicità del vescovo, fondamento dell’unità della sua diocesi, o meglio della sua
Chiesa. Questa unicità si oppone a tutte le pretese di coloro che si presentino come vescovi di tutta
la terra, unicità e unità fondata sull’apostolo Pietro. Cipriano crede nella successione apostolica,
cioè che i vescovi succedono agli apostoli: “…Tutti i vescovi sono i successori degli apostoli per il
susseguirsi delle ordinazioni”. Questo argomento, che è stato dibattuto al Vaticano II, era già per
Cipriano una posizione ferma. Questo vescovo unico è legato molto profondamente alla sua Chiesa:
non solamente ne è il buon pastore, ma si identifica con essa: “la gloria di una Chiesa è la gloria del
suo vescovo…il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa nel vescovo”. Il vescovo e il suo popolo non
sono due unità separate ma un tutto unico; e ciò non potrà non avere conseguenze a livello di
governo nella comunità. Questo vescovo di una Chiesa locale è unito a tutti gli altri vescovi; tra loro
si scambiano lettere per chiedere e dare consigli e offrirsi reciproco aiuto.
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SVILUPPO DELLA COMUNITA’ CRISTIANA
La prima comunità cristiana, formatasi a Gerusalemme, ha costituito il primo nucleo della Chiesa e
ha esercitato sempre un grande fascino per le caratteristiche di unità, di comunione e di
condivisione in essa presenti. Il mandato missionario affidato da Gesù agli apostoli, ha permesso
che l’esperienza cristiana si diffondesse rapidamente in tutte le principali città del mondo greco –
romano, dando vita a comunità particolarmente vive e attive. La loro caratteristica era la
comunione, non solo di fede, ma anche dei beni materiali. Ogni comunità aveva come responsabile
un vescovo assistito da un consiglio di presbiteri e di diaconi che oltre al principale dovere di
annunciare il Vangelo, provvedevano alle necessità materiali dei poveri, delle vedove e di tutte le
persone bisognose di aiuto. Lo stile di vita che ne conseguiva suscitava l’ammirazione dei pagani
che restavano particolarmente colpiti dall’amore e dalla stima reciproca che i cristiani vivevano. Le
stesse persecuzioni più che limitare, hanno contribuito ad aumentare lo slancio e la diffusione della
nuova fede. Queste comunità godevano ciascuna di una piena indipendenza pur restando
strettamente unite tra loro per la comune fede e per l’aiuto reciproco, anche materiale, che
riuscivano a sviluppare. Negli scritti del Nuovo Testamento e del periodo apostolico queste
comunità si chiamavano semplicemente «Chiese»: la Chiesa che è a Roma, che è a Corinto, che è a
Cartagine, che è ad Antiochia e così via. In seguito, nel corso del III secolo, compare la parola greca
“parochia” per indicare la chiesa locale pienamente costituita con il suo vescovo. Il termine,
nell’accezione civile, era lo straniero, il forestiero, il non cittadino, che però viveva nella città con
diritto di residenza e con tutto ciò che legalmente questo comporta. Durante le persecuzioni i
cristiani si consideravano come degli stranieri in mezzo alla popolazione pagana, abitanti di questo
mondo, ma in esilio e in cammino verso la vera patria. All’inizio il cristianesimo fu anzitutto un
fenomeno urbano, in quanto le comunità si formavano nelle grandi città. Con l’editto di Costantino
del 313, che concedeva ai cristiani la libertà di culto, il cristianesimo si diffuse rapidamente nelle
città minori e nelle campagne. Il numero dei cristiani aumentò in modo considerevole e molti edifici
un tempo destinati al culto pagano furono adattati al culto cristiano. La pietà dei fedeli e lo zelo dei
grandi proprietari terrieri edificarono luoghi di culto per favorire la religiosità del popolo. Si impose
ai vescovi la necessità di provvedere alla formazione cristiana di questa massa sempre crescente di
convertiti. Pretendere che essi venissero sempre alla chiesa dove il vescovo aveva la sua sede era
impossibile, creare nuove sedi episcopali nelle città minori o nelle campagne non sembrava
opportuno e allora si mandava loro un presbitero che a nome del vescovo formava la comunità
cristiana. Durante un certo periodo la sede episcopale si riservò il diritto di amministrare il
battesimo, ma poi anche questo sacramento dell'iniziazione cristiana venne dato dai parroci in
queste chiese filiali, che lentamente acquistarono autonomia costituendosi in vere e proprie
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parrocchie rette da un sacerdote, sempre legato al vescovo. Per molto tempo il termine di parrocchia
servì per indicare sia la comunità della sede vescovile, sia le comunità con a capo un sacerdote,
finché si arrivo alla distinzione attuale e tutto il territorio sotto la giurisdizione di un vescovo,
composto da varie parrocchie, non si chiamò più parrocchia, ma diocesi. Attorno alla parrocchia,
già nel V secolo, si organizzarono opere di assistenza e di promozione umana a largo respiro, come
avveniva attorno alla comunità cittadina retta direttamente dal vescovo. Fiorirono sempre di più le
scuole da cui provenivano anche i futuri sacerdoti, ospedali per gli infermi, alloggi per i pellegrini e
soprattutto un'opera capillare di assistenza per i poveri e le vedove, continuando l'antica tradizione
apostolica. A questo scopo e per la manutenzione degli edifici di culto e del clero servivano le
offerte dei fedeli e i lasciti in beni immobili. Si dava inizio al formarsi di quel famoso beneficio
ecclesiastico che in seguito sarà causa di gravi disguidi nella Chiesa e che nei periodi successivi
degenerò, oscurando il significato originario di comunità e trasformando vescovi e presbiteri da
pastori in feudatari. Ci vollero varie riforme, soprattutto da parte dei monaci benedettini, di S.
Domenico e di S. Francesco d’Assisi per ricuperare il primato dello spirituale e della comunione
ecclesiale. Un evento importante per la riforma e la fisionomia della parrocchia fu rappresentato dal
Concilio di Trento, col recupero della vita e dell’attività pastorale. Seppe organizzare la dottrina
cattolica in maniera cosi semplice e coerente con i bisogni del tempo, che la teologia arrivò fino agli
analfabeti attraverso il catechismo da tutti imparato a memoria; i sacramenti accompagnavano la
vita del cristiano dalla nascita fino alla morte; la liturgia, sintonizzata col ciclo stagionale del mondo
agricolo, faceva rivivere a tutti ogni anno la vita di Gesù dal Natale alla Pentecoste. E fece in modo
che quasi non esistesse agglomerato umano senza un campanile e un sacerdote. A questo scopo si
costruirono dovunque i seminari per i candidati al sacerdozio, impartendo loro una solida
formazione umana e cristiana.
LA RIFORMA DEL CONCILIO DI TRENTO
La riforma avviata e portata avanti dal Concilio di Trento, ha prodotto frutti benefici nella Chiesa.
Con l’istituzione dei seminari e la formazione sistematica del clero, ricevette forte impulso la
letteratura spirituale e ascetica, la predicazione, l’amministrazione dei sacramenti, il culto
eucaristico, la pietà popolare, l’arte e l’architettura. La riaffermazione dei principi fondamentali
della fede cattolica, messi in discussione e negati dalla riforma protestante, favorì la
riorganizzazione delle comunità cristiane, che trovarono nella struttura parrocchiale un punto sicuro
di riferimento e una garanzia di fedeltà. Nel celebrare il 450° anniversario del Concilio di Trento, il
30 aprile del 1995, Giovanni Paolo II ha tracciato una sintesi di quell’avvenimento, così decisivo
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per la formazione della comunità cristiana. “Di fronte alla crisi spirituale ed ecclesiale dei primi
anni del ‘500, la Chiesa a Trento seppe trovare il coraggio della fedeltà alla Tradizione apostolica,
lo slancio di un rinnovato impegno di santità, la forza per un autentico rilancio pastorale, sicché non
si esagera affermando che quel Concilio ha segnato e plasmato un’intera epoca della Chiesa e
continua ancora oggi a produrre benefici effetti”. Il Concilio Tridentino è stata la risposta della fede
cattolica “alle sfide della cultura moderna ed agli interrogativi posti dai Riformatori. Attraverso la
sua opera di chiarificazione dogmatica e di rilancio pastorale, esso tracciò le grandi vie della Chiesa
per i secoli successivi, favorendo così quell’autentico umanesimo cristiano, che avrebbe portato non
pochi frutti nella cultura, nell’arte, nella vita religiosa e sociale”. Un frutto importante di questo
Concilio in funzione della comunità cristiana, fu la riaffermazione della centralità dell’Eucaristia, il
valore della Messa come sacrificio, il fatto che “nel mistero eucaristico è «ripresentato» in modo
mirabile il sacrificio della Croce, consumato una volta per sempre sul Calvario”. Sempre in questo
contesto è stata affermata, con espressioni precise e inequivocabili, la presenza vera, reale e
sostanziale di Cristo sotto le specie eucaristiche. “Alle formulazioni dogmatiche sull’Eucaristia è
intimamente e organicamente legata la dottrina sul ministero ordinato: nel proclamarne l’origine
divina, il Concilio ne illustra la natura di sacramento, voluto da Cristo come componente essenziale
della sua Chiesa. In virtù della sacra Ordinazione, il battezzato è assunto tra i membri della
comunità e costituito per agire “in persona Christi” a servizio dei fratelli”. Insieme alla
chiarificazione dogmatica, il Concilio di Trento si preoccupò di rilanciare la dimensione pastorale
della Chiesa. “Furono così create le condizioni perché l’interiore vitalità della grazia potesse
emergere, contribuendo a rinnovare il volto della Sposa di Cristo. Ai Padri Conciliari stava
soprattutto a cuore promuovere nella Chiesa un degno esercizio del ministero, sottolineandone le
caratteristiche genuinamente pastorali a tutti i livelli. Questa era, infatti, la vera emergenza nella
Chiesa del tempo e la sua più impellente urgenza. A tanto miravano le lunghe discussioni
sull’obbligo di residenza per i Vescovi, che occuparono un notevole spazio nelle sessioni conciliari.
Era convinzione comune che solo da ministri degni, preparati, e intimamente e concretamente dediti
alla cura della anime, sarebbe scaturita la riforma del corpo ecclesiale… Veniva così ricollocato al
centro della pastorale ordinaria l’annuncio della parola di Dio nelle forme della predicazione e della
catechesi, come elemento essenziale e rivitalizzante della fede e della devozione del popolo
cristiano”. Per rendere possibile questo progetto il Concilio si preoccupò di istituire i seminari per la
formazione dei futuri pastori, con la convinzione che il progresso della comunità cristiana è
impossibile senza l’opera di sacerdoti zelanti, formati sia intellettualmente che moralmente. “Non
minori risvolti pastorali ebbero nel Concilio tridentino i decreti sui sacramenti. Oltre che frenare il
disordine allora presente nell’ambito della liturgia, il Concilio si preoccupò di dare unità, verità e
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dignità alle celebrazioni liturgiche, per offrire un efficace servizio alla Comunità riunita in
preghiera. L’influsso del Concilio travalicò gli stessi confini della Chiesa e si pose come fattore
determinante di civiltà in Europa e, mediante la grande espansione dell’attività missionaria, nel
resto del mondo”.
LA PARROCCHIA NEL VATICANO II
Il Concilio di Trento non ha elaborato un trattato sulla Chiesa, ma ha affrontato tanti aspetti della
fede cristiana che hanno implicazioni con la dottrina della Chiesa, quali la dottrina della
giustificazione, il valore oggettivo dei sacramenti, l’autorità della gerarchia, il sacerdozio
ministeriale. Per questo motivo non si può parlare di una ecclesiologia vera e propria del concilio di
Trento perché questo non rientrava nelle sue intenzioni, anche se si è dovuto occupare della Chiesa.
Trento, volendo salvare i principi dottrinali messi in discussione dalla riforma protestante, ha dato
risalto agli aspetti visibili, istituzionali e disciplinari della chiesa. Di conseguenza scaturisce una
ecclesiologia di tipo “piramidale”, disegnata sul modello politico dello stato, concentrata
sull’autorità considerata specialmente nel suo vertice papale. È di S. Roberto Bellarmino la celebre
definizione di chiesa che è rimasta quasi la “sigla” della concezione di chiesa della teologia post –
tridentina: «La chiesa è l’assemblea degli uomini uniti dalla professione della medesima fede
cristiana e dalla comunione dei medesimi sacramenti, sotto il governo dei legittimi pastori e
principalmente dell’unico vicario di Cristo, il romano pontefice». Della chiesa si accentua
soprattutto la “visibilità” e la costituzione gerarchica in evidente opposizione alle affermazioni
unilaterali dei protestanti. Questa concezione di chiesa è arrivata quasi immutata fino al Vaticano II.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II segna una svolta storica nel magistero ecclesiale per quanto
riguarda la dottrina sulla Chiesa e ha avuto nella Costituzione dogmatica “Lumen gentium” una
pietra miliare. Si è passati da una concezione di tipo piramidale, a una prospettiva “comunionale”.
La chiesa è considerata prima di tutto a partire dalla sua realtà invisibile e interiore, che, a sua volta,
rinvia al mistero trinitario e al mistero cristologico, i due «misteri principali» della nostra fede.
Nell’affrontare la riflessione sulla parrocchia, così come è scaturita dal Vaticano II, bisogna subito
dire che, nonostante la parrocchia sia una realtà di primissimo piano nella vita quotidiana della
Chiesa, essa non figura tra i temi principali del Concilio. Questo non significa che la parrocchia sia
assente nella riflessione conciliare, ma viene inserita nello straordinario approfondimento del
mistero della Chiesa. Questo mistero viene presentato nel suo aspetto più profondo: quello
dell’unità e della comunione: unità che non esclude quindi la varietà ma la presuppone come sua
dimensione costitutiva; unità che quotidianamente si fa nella comunione dei vescovi attorno al
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Papa, nel convenire delle molte chiese locali nell'unica ed universale Chiesa di Cristo. Qui stà il
cuore della riflessione ecclesiologica del Concilio. Quello che si dice della parrocchia non è altro
che il proietarsi di questo approfondimento sulla realtà delle chiese diocesane e di conseguenza
sulla realtà della dimensione parrocchiale. Il Concilio, pur nelle poche affermazioni dedicate
direttamente alla parrocchia, ha delineato una chiara immagine di quello che può e deve essere la
parrocchia. Nella Costituzione sulla sacra Liturgia, “Sacrosactum concilium”, viene data una
sintetica definizione di parrocchia che poi è stata inserita anche nel nuovo Codice di Diritto
Canonico: “Poiché nella sua Chiesa il vescovo non può presiedere personalmente sempre e
ovunque l'intero suo gregge, deve costituire necessariamente dei gruppi di fedeli, tra cui hanno un
posto preminente le parrocchie organizzate localmente e poste sotto la guida di un pastore che fa le
veci del vescovo: esse infatti rappresentano in certo modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la
terra. Per questo motivo la vita liturgica della parrocchia e il suo legame con il vescovo devono
essere coltivati nell'animo e nell'azione dei fedeli e del clero; e bisogna fare in modo che il senso
della comunità parrocchiale fiorisca soprattutto nella celebrazione comunitaria della messa
domenicale” (SC 42). La comunità parrocchiale, per il Vaticano II, non è altro che la Chiesa che si
rende presente su un determinato posto: non una porzione di Chiesa, ma la Chiesa stessa realmente
presente. Un concetto che viene ribadito anche nella Lumen gentium:” Questa Chiesa di Cristo è
veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali, unite ai loro pastori, sono
anch'esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, ciascuna nel proprio territorio,
il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito Santo e in una grande fiducia (LG 26). La comunità
parrocchiale, per il Vaticano II, è la presenza della Chiesa intera e di conseguenza” sacramento
della Chiesa universale che in essa è realmente presente”.
COMUNITÁ PARROCCHIALE E CHIESA UNIVERSALE
I documenti del Vaticano II attribuiscono il termine di «Chiesa», in senso pieno, soltanto alla
diocesi. La parrocchia è «chiesa» in maniera subordinata, in quanto è vitalmente inserita nel
contesto della propria chiesa locale e unita, attraverso i suoi pastori, al vescovo. I presbiteri, infatti,
“Nelle singole comunità locali di fedeli rendono in certo modo presente il vescovo, cui sono uniti
con cuore confidente e generoso, ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la sollecitudine e li
esercitano con dedizione quotidiana. Essi, sotto l'autorità del vescovo, santificano e governano la
porzione di gregge del Signore loro affidata, nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e
portano un grande contributo all'edificazione di tutto il corpo mistico di Cristo” (LG 28). Si
delinea in questo modo un’altra definizione della parrocchia da parte del Concilio: essa è «come
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una cellula» della diocesi (AA 10). La comunità parrocchiale è dunque, in modo misterioso ma
reale, veramente Chiesa, ma lo sarà effettivamente solo se è aperta a tutta la Chiesa. La
caratteristica della Chiesa, e di conseguenza della parrocchia, è la comunione e la partecipazione.
Nel Decreto conciliare sull’Apostolato dei Laici, si fa riferimento a questa realtà della parrocchia:
“La parrocchia offre un luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le
diversità umane che vi si trovano e inserendole nell'universalità della Chiesa . I laici si abituino ad
agire nella parrocchia in stretta unione con i loro sacerdoti, apportino alla comunità della Chiesa
i propri problemi e quelli del mondo, nonché le questioni concernenti la salvezza degli uomini,
perché siano esaminati e risolti con il concorso di tutti; diano, secondo le proprie possibilità, il
loro contributo a ogni iniziativa apostolica e missionaria della propria famiglia ecclesiale.
Coltivino costantemente il senso della diocesi, di cui la parrocchia è come la cellula, pronti
sempre, all'invito del loro pastore, ad unire le proprie forze alle iniziative diocesane. Anzi…non
limitino la propria cooperazione entro i confini della parrocchia e della diocesi, ma procurino di
allargarla all'ambito interparrocchiale, interdiocesano, nazionale o internazionale, tanto più che il
crescente spostamento delle popolazioni, lo sviluppo delle mutue relazioni, la facilità delle
comunicazioni, non consentono più ad alcuna parte della società di rimanere chiusa in se stessa…
È infatti un dovere e un onore per i cristiani restituire a Dio parte dei beni da lui ricevuti” (AA 10).
In questo contesto, nel Decreto sull’ufficio pastorale dei Vescovi, vengono esortati i parroci e i loro
collaboratori a svolgere «la loro funzione…in modo che i fedeli e le comunità parrocchiali si
sentano realmente membri non solo della diocesi, ma anche della chiesa universale» (CD 30). Di
comunione ecclesiale e di rapporto tra parrocchia e chiesa universale parla anche l’Esortazione
Apostolica Christifideles laici, di Giovanni Paolo II: “La comunione ecclesiale, pur avendo sempre
una dimensione universale, trova la sua espressione più immediata e visibile nella parrocchia: essa
è l'ultima localizzazione della Chiesa, è in un certo senso la Chiesa stessa che vive in mezzo alle
case dei suoi figli e delle sue figlie. E' necessario che tutti riscopriamo, nella fede, il vero volto della
parrocchia, ossia il «mistero» stesso della Chiesa presente e operante in essa: anche se a volte
povera di persone e di mezzi, anche se altre volte dispersa su territori quanto mai vasti o quasi
introvabile all'interno di popolosi e caotici quartieri moderni, la parrocchia non è principalmente
una struttura, un territorio, un edificio; è piuttosto «la famiglia di Dio, come una fraternità animata
dallo spirito d'unità», è «una casa di famiglia, fraterna ed accogliente», è la «comunità di fedeli». In
definitiva, la parrocchia è fondata su di una realtà teologica, perché essa è una comunità eucaristica.
Ciò significa che essa è una comunità idonea a celebrare l'Eucaristia, nella quale stanno la radice
viva del suo edificarsi e il vincolo sacramentale del suo essere in piena comunione con tutta la
Chiesa. Tale idoneità si radica nel fatto che la parrocchia è una comunità di fede e una comunità
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organica, ossia costituita dai ministri ordinati e dagli altri cristiani, nella quale il parroco - che
rappresenta il Vescovo diocesano - è il vincolo gerarchico con tutta la Chiesa particolare”(CL 26).
PARROCCHIA E ANNUNCIO DELLA PAROLA
La Costituzione conciliare Lumen Gentium, parlando della parrocchia come Chiesa, accenna a tre
realtà costitutive della Chiesa nelle sue assemblee locali: l’annuncio della Parola, la celebrazione
dell’Eucaristia, la comunione ecclesiale. “In esse con la predicazione del Vangelo di Cristo
vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena del Signore, « affinché per mezzo della
carne e del sangue del Signore siano strettamente uniti tutti i fratelli della comunità». In ogni
comunità che partecipa all'altare, sotto la sacra presidenza del Vescovo viene offerto il simbolo di
quella carità e « unità del corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza»(LG 26).
Dall’annuncio della Parola nasce la comunità. È la Parola che raduna i fedeli, suscitando in loro la
fede, la speranza e la carità. Il Concilio, nel Decreto sul Ministero e la vita sacerdotale, presentando
il ministero dei presbiteri afferma che: “Il popolo di Dio viene adunato innanzitutto per mezzo della
parola del Dio vivente che tutti hanno il diritto di cercare sulle labbra dei sacerdoti . Dato infatti
che nessuno può essere salvo se prima non ha creduto , i presbiteri, nella loro qualità di
cooperatori dei vescovi, hanno anzitutto il dovere di annunciare a tutti il Vangelo di Dio seguendo
il mandato del Signore: « Andate nel mondo intero e predicate il Vangelo a ogni creatura » e
possono così costituire e incrementare il popolo di Dio. Difatti, in virtù della parola salvatrice, la
fede si accende nel cuore dei non credenti si nutre nel cuore dei credenti, e con la fede ha inizio e
cresce la comunità dei credenti, secondo quanto ha scritto l'Apostolo: « La fede è possibile per
l'ascolto, e l'ascolto è possibile per la parola di Cristo » (Rm 10,17)” (PO 4). Da qui la straordinaria
importanza che riveste nella vita delle comunità cristiane la Parola di Dio. Parola che deve essere
annunciata e approfondita nei modi più vari: non solo attraverso la predicazione e l’istruzione
catechistica, ma anche attraverso la testimonianza di vita, il contatto e la conoscenza personale della
S. Scrittura, in modo da riflettere sui problemi del nostro tempo alla luce di Cristo e “applicare la
perenne verità del Vangelo alle circostanze concrete della vita” (PO 4). La centralità e l’importanza
della Parola di Dio è ribadita negli Orientamenti pastorali dell’Episcopato Italiano per il primo
decennio del duemila: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. I pastori possono trovare la
forza per guidare le comunità affidandosi «al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere
di edificare e di concedere l’eredità» (At 20,32). Da qui scaturisce il compito
dell’evangelizzazione: “«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito…»: la fede nasce
dall’ascolto della parola di Dio contenuta nelle Sante Scritture e nella Tradizione, trasmessa
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soprattutto nella liturgia della Chiesa mediante la predicazione, operante nei segni sacramentali
come principio di vita nuova. Non ci stancheremo mai di ribadire questa fonte da cui tutto
scaturisce nelle nostre vite: «la parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23), «…ossia il Verbo della
vita»: l’ascolto dei cristiani è rivolto soprattutto alla Parola fatta carne, a colui che secondo
l’evangelista Giovanni è la narrazione, la spiegazione, cioè la rivelazione del Padre (cf. Gv 1,18).
Tale ascolto apre a una conoscenza esperienziale e amorosa, capace di incidere profondamente
sulle nostre vite trasmettendoci la vita stessa di Dio: «È apparsa la grazia di Dio», dice l’apostolo
Paolo, «apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna… a vivere… in questo mondo»
(Tt 2,11-12). «Ciò che noi abbiamo udito… lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in
comunione con noi… Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia [di noi e di voi tutti] sia
perfetta»: grazie all’ascolto, all’esperienza e alla contemplazione del Verbo, i nostri cuori si
trasformano, sino a plasmare le nostre vite, sino a farle diventare a loro volta capaci e desiderose di
offrire e comunicare la vita ricevuta. Nel cuore di chi ha aderito al Signore Gesù Cristo, non può
non nascere il desiderio di condividere il dono ricevuto, di «amare come siamo stati amati»”
(CVMC 3).
LA CHIESA NASCE E VIVE DELLA PAROLA DI DIO
La riflessione sulla centralità della Parola di Dio nella comunità parrocchiale, porta ad allargare e ad
approfondire il discorso su un tema fondamentale dell’evangelizzazione e della pastorale. Proprio
su questo tema, la Chiesa è stata chiamata a interrogarsi, con la celebrazione della XII Assemblea
generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi che si è tenuta a Roma dal 5 al 26 ottobre 2008. Il tema
del Sinodo è stato: “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”. Tutta la comunità
ecclesiale è chiamata a riflettere su questa tematica, che vuole essere anche una seria verifica dei
frutti suscitati nella Chiesa dalla Costituzione conciliare Dei Verbum. Ad alcuni decenni di distanza
il Sinodo è chiamato a valutare i frutti positivi e gli aspetti problematici, secondo un’ottica
«prevalentemente pastorale». Si tratta di promuovere un corretto rapporto di studio, di riflessione e
di confronto con la Sacra Scrittura, di incoraggiare il dialogo ecumenico e quello ebraico –
cristiano, in vista di un dialogo interreligioso e interculturale. In vista della celebrazione del Sinodo,
sono state preparate dei Lineamenta, cioè schemi e spunti per approfondire la tematica generale.
Viene subito precisato che la Parola di Dio ha il suo centro nella persona di Cristo Signore. Lungo i
secoli la Chiesa ha fatto, del mistero della Parola, una costante esperienza e riflessione. Il Concilio
Vaticano II, con la Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum, compendia il
Magistero solenne della Chiesa sulla Parola di Dio, esponendone la dottrina e indicandone la
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pratica. Il Sinodo vuole mettere in luce il legame inscindibile che c’è tra l’Eucaristia e la Parola di
Dio. È anche l’occasione per chiedersi, a distanza di oltre 40 anni dal Vaticano II, “quali frutti ha
portato il documento conciliare Dei Verbum nelle nostre comunità, quale è stata la sua reale
accoglienza”. “La Chiesa confessa di essere continuamente chiamata e generata dalla Parola di
Dio”. In questa prospettiva la comunità cristiana incontra la Sacra Scrittura. “Nei Libri Sacri infatti,
il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli e discorre con essi”. La
Scrittura sta quindi nel cuore e nelle mani della Chiesa come la “Lettera che Dio ha inviato agli
uomini”, libro di vita, oggetto di profonda venerazione, analogamente al Corpo stesso di Cristo. In
essa scopre qual è il piano di Dio su di sé, sul mondo degli uomini e delle cose. Perciò, “insieme
con la Sacra Tradizione, la considera come la regola suprema della propria fede”, la proclama con
vigore e la incontra come “cibo dell’anima e sorgente di vita spirituale”. Di conseguenza la
comunità cristiana si costruisce ogni giorno lasciandosi guidare dalla Parola di Dio, sotto l’azione e
la guida dello Spirito Santo. Da qui una fondamentale conseguenza: “Diventa compito primario
della Chiesa aiutare i fedeli a comprendere cosa significhi incontrare la Parola di Dio sotto la guida
dello Spirito, come in particolare ciò avvenga nella lettura spirituale della Bibbia, in che senso
Bibbia, Tradizione e Magistero siano dallo Spirito interiormente unificati, quale atteggiamento si
richiede al credente lui stesso guidato dallo Spirito Santo ricevuto nel Battesimo e nei diversi
sacramenti” (Lineamenta,20). In questa prospettiva viene proposta a ogni comunità cristiana una
pastorale continuamente animata dalla Bibbia: “la Parola annunciata ed ascoltata, chiede di farsi
Parola celebrata tramite la Liturgia e la vita sacramentale della Chiesa, per entrare così a motivare
una vita secondo la Parola, tramite l’esperienza della comunione, della carità e della missione” (Lin.
21). Un ambito privilegiato per accostarsi alla Parola di Dio è la Liturgia. “La Chiesa ha imparato a
scoprire ed accogliere Dio che parla in particolare nella preghiera liturgica, oltre che nella preghiera
personale e comunitaria. La Sacra Scrittura, infatti, è una realtà liturgica e profetica: una
proclamazione e una testimonianza dello Spirito Santo sull’evento Cristo più che un libro scritto.
Ciò ha consentito una diffusione della conoscenza ed amore verso le Scritture” (Lin. 22). “Ciò porta
a porre attenzione privilegiata ad ogni forma di incontro con la Parola nell’azione liturgica:
nell’Eucaristia (domenicale), nei sacramenti, nella predicazione omiletica, nell’anno liturgico, nella
liturgia delle ore, nei sacramentali, nelle variegate forme della pietà popolare, nella catechesi
mistagogica”. Ovviamente riveste un ruolo importante nella evangelizzazione l’incontro diretto con
la Sacra Scrittura che deve rappresentare un obiettivo primario, attraverso il metodo della «lectio
divina», cioè di quella lettura fatta «secondo lo Spirito» che abita nella Chiesa.
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PARROCCHIA ED EUCARISTIA
Accanto alla Parola di Dio, la parrocchia cresce e vive attorno all’Eucaristia celebrata in comunione
con il vescovo. Il Concilio Vaticano II ravvisa in essa, e specialmente nella celebrazione eucaristica
domenicale, «il centro e il culmine di tutta la vita della comunità cristiana». “Per questo motivo la
vita liturgica della parrocchia e il suo legame con il vescovo devono essere coltivati nell'animo e
nell'azione dei fedeli e del clero; e bisogna fare in modo che il senso della comunità parrocchiale
fiorisca soprattutto nella celebrazione comunitaria della messa domenicale” (SC 42). La centralità
dell’Eucaristia nella vita della parrocchia viene ribadita nel Decreto sul Ministero e Vita dei
presbiteri: “L'assemblea eucaristica è dunque il centro della comunità dei cristiani presieduta dal
presbitero. I presbiteri insegnano dunque ai fedeli a offrire la vittima divina a Dio Padre nel
sacrificio della messa, e a fare, in unione con questa vittima, l'offerta della propria vita” (PO 5c).
Nell’Eucaristia i cristiani vengono sempre e continuamente trasformati in Corpo di Cristo:
“Partecipando realmente del corpo del Signore nella frazione del pane eucaristico, siamo elevati
alla comunione con lui e tra di noi: « Perché c'è un solo pane, noi tutti non formiamo che un solo
corpo, partecipando noi tutti di uno stesso pane» (1 Cor 10,17). Così noi tutti diventiamo membri di
quel corpo (cfr. 1 Cor 12,27), «e siamo membri gli uni degli altri» (Rm 12,5)” (LG 7). Per questo
motivo il Decreto sull’Ufficio pastorale dei Vescovi esorta i parroci a far si che in tutta l’attività
pastorale la celebrazione eucaristica sia il centro della vita comunitaria: “Nel campo del ministero
della santificazione, i parroci abbiano di mira che la santa messa diventi il centro ed il culmine di
tutta la vita della comunità cristiana; si sforzino inoltre perché i fedeli alimentino la loro vita
spirituale accostandosi devotamente e frequentemente ai santi sacramenti e partecipando
consapevolmente ed attivamente alla liturgia” (CD 30). Come culmine, l’Eucaristia è punto di
arrivo e di convergenza di tutte le attività della Chiesa e fonte di vita.” Nondimeno la liturgia è il
culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la
sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la
fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al
sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei « sacramenti
pasquali », a vivere « in perfetta unione » ; prega affinché « esprimano nella vita quanto hanno
ricevuto mediante la fede »; la rinnovazione poi dell'alleanza di Dio con gli uomini nell'eucaristia
introduce i fedeli nella pressante carità di Cristo e li infiamma con essa. Dalla liturgia, dunque, e
particolarmente dall'eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la
massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla
quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa”(SC 10). Il Concilio ritorna
spesso, nei suoi vari documenti, sul ruolo centrale che l’Eucaristia occupa nella vita della comunità.
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“D'altra parte non è possibile che si formi una comunità cristiana se non assumendo come radice e
come cardine la celebrazione della sacra eucaristia, dalla quale deve quindi prendere le mosse
qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità. A sua volta la celebrazione
eucaristica, per essere piena e sincera, deve spingere sia alle diverse opere di carità e al reciproco
aiuto, sia all'azione missionaria e alle varie forme di testimonianza cristiana”(PO 6). In questo
contesto il Vaticano II amplia il discorso a tutta la vita liturgica e sacramentale. La liturgia è il
luogo per eccellenza della formazione dei fedeli che devono sentirsi coinvolti “consapevolmente,
attivamente e fruttuosamente” (SC 11). “A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va
dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia. Essa
infatti è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito
cristiano, e perciò i pastori d'anime in tutta la loro attività pastorale devono sforzarsi di ottenerla
attraverso un'adeguata formazione”(SC 14).
LA PARROCCHIA: COMUNITÁ EUCARISTICA
Accanto ai documenti del Concilio Vaticano II, si è sviluppata una straordinaria riflessione sulla
centralità dell’Eucaristia nella parrocchia. In particolare gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato
Italiano per il primo decennio del Duemila: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. È
costante e insistente il richiamo a valorizzare e a vivere coerentemente il Giorno del Signore con al
centro la partecipazione all’Eucaristia. “Perché la parola e l’opera di Dio e la risposta dell’uomo si
tramandino lungo la storia, è assolutamente indispensabile che vi siano tempi e spazi precisi nella
nostra vita dedicati all’incontro con il Signore. Dall’ascolto e dal dono di grazia nasce la
conversione e l’intera nostra esistenza può divenire testimonianza del lieto annuncio che abbiamo
accolto. Ci sembra pertanto fondamentale ribadire che la comunità cristiana potrà essere una
comunità di servi del Signore soltanto se custodirà la centralità della domenica, «giorno fatto dal
Signore» (Sal 118,24), «Pasqua settimanale», con al centro la celebrazione dell’Eucaristia, e se
custodirà nel contempo la parrocchia quale luogo – anche fisico – a cui la comunità stessa fa
costante riferimento. Ci sembra molto fecondo recuperare la centralità della parrocchia e rileggere
la sua funzione storica concreta a partire dall’Eucaristia, fonte e manifestazione del raduno dei
figli di Dio e vero antidoto alla loro dispersione nel pellegrinaggio verso il Regno” (CVMC 47). Il
riunirsi per celebrare l’Eucaristia domenicale rimane un aspetto essenziale e fondamentale per ogni
comunità. Non c’è festa, soprattutto nei nostri paesi, che non abbia come centro e punto di
riferimento la celebrazione dell’Eucaristia. Questo dato impone la necessità di approfondire il senso
della festa inserita nel recupero dell’ autentico significato della liturgia. Al riguardo “Serve una
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liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso
intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini” (CVMC 49). Gli stessi
concetti vengono sviluppati nella Nota pastorale: Il volto missionario delle parrocchie in un mondo
che cambia. “Le nostre parrocchie non si stanchino di ribadire a ogni cristiano il dovere bisogno
della fedeltà alla Messa domenicale e festiva e di vivere cristianamente la domenica e le feste”. È
necessario ripresentare la domenica in tutta la sua ricchezza spirituale e religiosa, ma anche nei suoi
aspetti antropologici, culturali e sociali. La domenica, con la celebrazione dell’Eucaristia, è giorno
del Signore, della Chiesa, ma anche giorno dell’uomo. Queste dimensioni oggi sono fortemente
minacciate da una cultura e da certe esigenze organizzative, soprattutto nel mondo del lavoro, che
impediscono di vivere la domenica come giorno di festa e di riposo. Da qui alcuni impegni per la
parrocchia: “Difendere anzitutto il significato religioso, ma insieme antropologico, culturale e
sociale della domenica. Si tratta di offrire occasioni di esperienza comunitaria e di espressione di
festa, per liberare l’uomo da una duplice schiavitù: l’assolutizzazione del lavoro e del profitto e la
riduzione della festa a puro divertimento. La parrocchia, che condivide la vita quotidiana della
gente, deve immettervi il senso vero della festa che apre alla trascendenza. Un aiuto particolare va
dato alle famiglie, affinché il giorno della festa possa rinsaldarne l’unità, mediante relazioni più
intense tra i suoi membri; la domenica infatti è anche giorno della famiglia” (VMPMC 8). Tutto
questo implica che la celebrazione domenicale sia curata in tutti i suoi aspetti. “La Parola, nella
proclamazione e nell’omelia, va presentata rispettando il significato dei testi e tenendo conto delle
condizioni dei fedeli, perché ne alimenti la vita nella settimana. Il rito va rispettato, senza variazioni
o intromissioni indebite. I segni e i gesti siano veri, dignitosi ed espressivi, perché si colga la
profondità del mistero; non vengano sostituiti da espedienti artificiosi; parlano da soli e non
ammettono il prevaricare delle spiegazioni; così si salvaguarda la dimensione simbolica dell’azione
liturgica. La celebrazione ha un ritmo, che non tollera né fretta né lungaggini e chiede equilibrio tra
parola, canto e silenzio”.
PARROCCHIA E COMUNIONE ECCLESIALE
Dall’ascolto della Parola e dalla partecipazione all’Eucaristia, nasce l’esigenza di vivere il grande
comandamento della carità, che si manifesta nella comunione ecclesiale. La comunione è prima di
tutto quel misterioso vincolo che unisce il Signore e i suoi discepoli. La comunione dei cristiani ha
come “modello, fonte e meta la comunione stessa del Figlio con il Padre nel dono dello Spirito
Santo”. Dalla comunione dei cristiani con Gesù Cristo, scaturisce la comunione dei cristiani tra di
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loro, come tralci dell’unica vite. La comunione è l’aspetto e il segno caratterizzante dei cristiani.
Gesù, prima della sua passione, prega proprio per l’unità e la comunione dei suoi discepoli: “Tutti
siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anche essi in noi una cosa sola,
perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Questa comunione è il mistero steso
della Chiesa come ricorda il Vaticano II con la celebre espressione di S. Cipriano: «La Chiesa
universale si presenta come “un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito
santo”».É stata questa l’idea centrale del Concilio Vaticano II in ordine alla comprensione del
mistero della chiesa, ravvisando nella divisione e nella mancanza di unità tra i discepoli di Cristo, lo
scandalo più grave offerto al mondo e la più grave ed evidente incoerenza.” L'ecclesiologia di
comunione è l'idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio…Che cosa significa la
complessa parola "comunione"? Si tratta fondamentalmente della comunione con Dio per mezzo di
Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Questa comunione si ha nella parola di Dio e nei sacramenti. Il
Battesimo è la porta ed il fondamento della comunione nella Chiesa. L'Eucaristia è la fonte ed il
culmine di tutta la vita cristiana (cf. LG, 11). La comunione del corpo eucaristico di Cristo
significa e produce, cioè edifica l'intima comunione di tutti i fedeli nel corpo di Cristo che è la
Chiesa (cf. 1 Cor 10, 16 s.)» (CL, 19). All'indomani del Concilio così Paolo VI si rivolgeva ai
fedeli: «La Chiesa è una comunione. Che cosa vuol dire in questo caso: comunione? Noi vi
rimandiamo al paragrafo del catechismo che parla della sanctorum communionem, la comunione dei
santi. Chiesa vuol dire comunione dei santi. E comunione dei santi vuol dire una duplice
partecipazione vitale: l'incorporazione dei cristiani nella vita di Cristo, e la circolazione della
medesima carità in tutta la compagine dei fedeli, in questo mondo e nell'altro. Unione a Cristo ed in
Cristo; e unione fra i cristiani, nella Chiesa». Per questo motivo la Chiesa, e di conseguenza la
parrocchia, deve essere “casa e scuola di comunione”, luogo dove si sperimenta la solidarietà con
tutti gli uomini, condividendo l’amore misericordioso di Cristo. Gli orientamenti pastorali
“Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”, nel richiamare l’impegno fondamentale a essere
costruttori e testimoni di comunione, dice che “La Chiesa è casa, edificio, dimora ospitale che va
costruita mediante l’educazione a una spiritualità di comunione. Questo significa far spazio
costantemente al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). Ma ciò è possibile solo se,
consapevoli di essere peccatori perdonati, guardiamo a tutta la comunità come alla comunione di
coloro che il Signore santifica ogni giorno. L’altro non sarà più un nemico, né un peccatore da cui
separarmi, bensì «uno che mi appartiene». Con lui potrò rallegrarmi della comune misericordia,
potrò condividere gioie e dolori, contraddizioni e speranze. Insieme, saremo a poco a poco spinti ad
allargare il cerchio di questa condivisione, a farci annunciatori della gioia e della speranza che
insieme abbiamo scoperto nelle nostre vite grazie al Verbo della vita” (CVMC 65). In questo modo
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la Chiesa, come la comunità parrocchiale, può diventare “scuola di comunione”, diventando segno
di unità, promuovendo la comunione e la dimensione del perdono, dove le differenze, le diverse
valutazioni, la vivacità propositiva, saranno accolte e riconciliate. Per realizzare questo ideale
occorre un forte impegno spirituale di preghiera e di vita trinitaria. Rimane sempre attuale
l’avvertimento di Giovanni Paolo II: «Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a
ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima,
maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita».
LA PARROCCHIA COMUNIONE DI CARISMI E MINISTERI
L’idea e la realtà della parrocchia che emerge dai documenti del Concilio Vaticano II e dai più
recenti documenti del magistero, non è certo quella di una comunità piatta e passiva, come di un
gregge che segue passivamente i suoi pastori. In una comunità parrocchiale matura non ci sono
categorie di persone più o meno importanti, ma tutti sono chiamati a essere membri attivi. La
Lumen gentium, al n. 32, offre una immagine significativa di questa comunione all’interno della
comunità: “La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà. «A
quel modo, infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le
stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e individualmente siano
membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5). Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un
solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la
loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla
perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni…
Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori
per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a
tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo. La distinzione infatti posta dal Signore tra i sacri
ministri e il resto del popolo di Dio comporta in sé unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati
tra di loro da una comunità di rapporto: che i pastori della Chiesa sull'esempio di Cristo sono a
servizio gli uni degli altri e a servizio degli altri fedeli, e questi a loro volta prestano volenterosi la
loro collaborazione ai pastori e ai maestri. Così, nella diversità stessa, tutti danno testimonianza
della mirabile unità nel corpo di Cristo: poiché la stessa diversità di grazie, di ministeri e di
operazioni raccoglie in un tutto i figli di Dio, dato che « tutte queste cose opera... un unico e
medesimo Spirito» (1 Cor 12,11).
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I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore
di tutte le cose, non è venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno
per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per autorità
di Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l'ufficio di pastori, in modo che sia da tutti adempito il
nuovo precetto della carità (LG 32). Da queste affermazioni ne consegue che è comune a tutti i
fedeli l’azione e l’impegno per l’edificazione del Corpo di Cristo. Questo impegno e questa azione
non vengono svolti da tutti allo stesso modo, ma secondo il proprio carisma, secondo cioè il dono
che lo Spirito ha conferito a ciascuno per il vantaggio di tutti. In questo contesto è essenziale il
ruolo dei ministri ordinati che nelle singole comunità locali «rendono visibile la chiesa universale»
e come tali hanno il compito di insegnare, santificare e di presiedere con l’autorità di Cristo la
famiglia di Dio, in modo che da tutti sia vissuto il comandamento della carità. La distinzione
essenziale tra ministri ordinati e laici non annulla l’uguaglianza fra tutti, essendo rivestiti della
comune dignità di figli di Dio e chiamati a contribuire all’edificazione dell’unico corpo di Cristo. In
questo senso i laici non sono solo semplici collaboratori dei loro presbiteri, ma gli uni devono
essere vicendevolmente al servizio degli altri. I laici, ricorda ancora la Lumen gentium «sono tutti
deputati dal Signore stesso» all’apostolato in virtù del battesimo e della confermazione. (LG 33). È
quello che ricorda anche la Christifideles laici quando dice che: “La missione salvifica della Chiesa
nel mondo è attuata non solo dai ministri in virtù del sacramento dell'Ordine ma anche da tutti i
fedeli laici: questi, infatti, in virtù della loro condizione battesimale e della loro specifica
vocazione, nella misura a ciascuno propria, partecipano all'ufficio sacerdotale, profetico e regale
di Cristo” (CL 23). Per realizzare questo compito e questa missione è necessario che ogni fedele
abbia la coscienza di essere parte integrante della Chiesa. Questa consapevolezza porta i fedeli a
unirsi e ad associarsi in gruppi, associazioni e movimenti per testimoniare la ricchezza dei carismi,
la bellezza e la forza della comunione ecclesiale per partecipare responsabilmente alla vita e alla
missione della Chiesa.
LE ASSOCIAZIONI E I MOVIMENTI NELLA PARROCCHIA
Uno degli ambiti dove si è chiamati a vivere e a testimoniare la comunione ecclesiale e a mettere a
frutto l’esercizio dei ministeri laicali è la vasta e ricca realtà delle associazioni e dei movimenti
ecclesiali. Il Decreto conciliare sull’Apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, parlando
dell’importanza della forma associativa, ricorda che l’uomo, “per natura sua, è sociale e che
piacque a Dio di riunire i credenti in Cristo per farne il popolo di Dio (cfr. 1 Pt 2,5-10) e un unico
29
corpo (cfr. 1 Cor 12,12). Quindi l'apostolato associato corrisponde felicemente alle esigenze umane
e cristiane dei fedeli e al tempo stesso si mostra come segno della comunione e dell'unità della
Chiesa in Cristo che disse: « Dove sono due o tre riuniti in mio nome, io sono in mezzo a loro » (Mt
18,20). Perciò i fedeli esercitino il loro apostolato accordandosi su uno stesso fine. Siano apostoli
tanto nelle proprie comunità familiari, quanto in quelle parrocchiali e diocesane, che già sono esse
stesse espressione del carattere comunitario dell'apostolato, e in quelle libere istituzioni nelle quali
si vorranno riunire” (AA 18). In questo modo viene riconosciuta la grande importanza
dell’apostolato associativo ed è stata propria l’apertura del Concilio Vaticano II a segnare e a
favorire il nascere e il formarsi di tante realtà associative suscitate dallo Spirito all’interno della
Chiesa. La Christifideles laici parla di “di una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici. Infatti,
«accanto all'associazionismo tradizionale, e talvolta alle sue stesse radici, sono germogliati
movimenti e sodalizi nuovi, con fisionomia e finalità specifiche: tanta è la ricchezza e la versatilità
delle risorse che lo Spirito alimenta nel tessuto ecclesiale, e tanta è pure la capacità d'iniziativa e la
generosità del nostro laicato». Queste aggregazioni di laici si presentano spesso assai diverse le une
dalle altre in vari aspetti, come la configurazione esteriore, i cammini e metodi educativi, e i campi
operativi. Trovano però le linee di un'ampia e profonda convergenza nella finalità che le anima:
quella di partecipare responsabilmente alla missione della Chiesa di portare il Vangelo di Cristo
come fonte di speranza per l'uomo e di rinnovamento per la società” (CL 29). I movimenti e le
associazioni sono una vera risorsa in ordine all’evangelizzazione e hanno un ruolo insostituibile nel
rispondere alla sfida dei vari fenomeni di scristianizzazione. In questo contesto devono trovare nella
comunità parrocchiale un punto di riferimento insostituibile. Molti movimenti nascono e agiscono a
livello diocesano, ma questo non li deve rendere alternativi alle parrocchie, anzi devono convergere
in un’azione che metta in risalto la comunione e la collaborazione reciproca. “In questo contesto il
Vescovo non ha solo un compito di coordinamento e integrazione, ma di vera guida della pastorale
d’insieme, chiamando tutti a vivere la comunione diocesana e chiedendo a ciascuno di riconoscere
la propria parrocchia come presenza concreta e visibile della Chiesa particolare in quel luogo. La
diocesi e la parrocchia favoriranno da parte loro l’ospitalità verso le varie aggregazioni,
assicurando la formazione cristiana di tutti e garantendo a ciascuna aggregazione un adeguato
cammino formativo rispettoso del suo carisma” (Il volto missionario delle parrocchie in un mondo
che cambia,11). Parlando di associazioni, i vari documenti ecclesiali sottolineano l’importanza e il
ruolo dell’Azione Cattolica: “Va ribadito che l’Azione Cattolica non è un’aggregazione tra le altre
ma, per la sua dedizione stabile alla Chiesa diocesana e per la sua collocazione all’interno della
parrocchia, deve essere attivamente promossa in ogni parrocchia. Da essa è lecito attendersi che
continui ad essere quella scuola di santità laicale che ha sempre garantito presenze qualificate di
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laici per il mondo e per la Chiesa”. Queste affermazioni, non di rado hanno costituito motivo di
polemiche e di incomprensioni all’interno della comunità ecclesiale e meritano di essere precisate.
“L’assunzione della missione della Chiesa, il sentirsi «dedicati» alla propria Chiesa… il far propri il
cammino, le scelte pastorali, la spiritualità della Chiesa diocesana, tutto questo fa dell’Azione
Cattolica non una aggregazione ecclesiale tra le altre, ma un dono di Dio e una risorsa per
l’incremento della comunione ecclesiale…”. L’Azione Cattolica deve promuovere il dialogo e una
collaborazione con i diversi gruppi e associazioni giungendo a valorizzare tutto quello che di
positivo c’è all’interno della comunità ecclesiale e delle singole aggregazioni. Questo è collaborare
alla missione della Chiesa, mettendo al primo posto la ricerca e la testimonianza della comunione e
dell’unità.
LA PARROCCHIA: COMUNITÁ MISSIONARIA
L’inizio del nuovo millennio, dopo l’esaltante esperienza del Grande Giubileo del 2000, si è
caratterizzato per un rinnovato impegno missionario da parte di tutta la Chiesa. Non è una novità,
perché “la Chiesa durante il suo pellegrinaggio sulla terra è per sua natura missionaria, in quanto è
dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che essa, secondo il piano di Dio
Padre, deriva la propria origine” (AG 2). La Chiesa italiana, in modo particolare, è impegnata a dare
a tutta la pastorale una forte connotazione missionaria per l’annuncio del Vangelo. Per realizzare
questo compito si stà valorizzando il ruolo insostituibile della parrocchia come forma storica
privilegiata che da concretezza alla dimensione territoriale della Chiesa. In questo senso si muove la
Nota Pastorale della Conferenza Episcopale Italiana: Il volto missionario delle parrocchie in un
mondo che cambia. È anche la risposta a quell’invito rivolto da Giovanni Paolo II all’inizio del
millennio, perché la Chiesa assuma con coraggio «un dinamismo nuovo» nell’annuncio del
Vangelo, un invito a disporsi per l’evangelizzazione, a “non restare inerti nel guscio di una
comunità ripiegata su se stessa e di alzare lo sguardo verso il largo, sul mare vasto del mondo, di
gettare le reti affinché ogni uomo incontri la persona di Gesù, che tutto rinnova” (VMPMC 1).
L’impegno di ogni fedele deve essere teso affinché tutti possano conoscere e incontrare Gesù
Cristo. “Una pastorale tesa unicamente alla conservazione della fede e alla cura della comunità
cristiana non basta più. È necessaria una pastorale missionaria, che annunci nuovamente il
Vangelo, ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada incontro agli uomini e alle
donne del nostro tempo testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere
l’esistenza umana conformemente al Vangelo e, nel nome del Vangelo, contribuire a rendere nuova
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l’intera società” (VMPMC 1). La parrocchia in questo contesto è chiamata a svolgere un ruolo
fondamentale. I Vescovi fanno notare che i cambiamenti verificatesi nella società hanno
ridimensionato il ruolo centrale e storico della parrocchia a livello sociale; alcuni parlano di fine
della «civiltà parrocchiale». Forse è il caso di dire che è sentita l’esigenza di ridefinire la parrocchia
in relazione ai mutamenti e alle esigenze che il contesto contemporaneo presenta. È la comunità
credente che deve uscire dalle mura parrocchiali per andare incontro alle varie situazioni del
territorio: alle persone non battezzate, a coloro che pur avendo ricevuto il battesimo vivono come se
non l’avessero ricevuto e di fatto si sentono «lontani» dalla Chiesa, a quei battezzati che sono
rimasti fermi allo stadio infantile della formazione cristiana. Si tratta di saper ascoltare le attese e i
bisogni della gente, di far percepire la bellezza di essere discepoli di Gesù Cristo e di far parte della
sua comunità. L’immagine del Buon Pastore è la rivelazione dell’amore di Dio che non abbandona
nessuno, ma cerca tutti e ciascuno con passione. Questa immagine appartiene in modo tutto
particolare alla parrocchia. “Nata come forma della comunità cristiana in grado di comunicare e far
crescere la fede nella storia e di realizzare il carattere comunitario della Chiesa, la parrocchia ha
cercato di dare forma al Vangelo nel cuore dell’esistenza umana. Essa è la figura più conosciuta
della Chiesa per il suo carattere di vicinanza a tutti, di apertura verso tutti, di accoglienza per tutti.
Nel cattolicesimo, in particolare in quello italiano, le parrocchie hanno indicato la “vita buona”
secondo il Vangelo di Gesù e hanno sorretto il senso di appartenenza alla Chiesa (VMPMC 4). Per
questo è quanto mai necessario disegnare con più cura il suo volto missionario per dare impulso
all’evangelizzazione. Un primo impegno missionario è ripartire dal primo annuncio del Vangelo.
Oggi non è possibile dare per scontata la conoscenza del Vangelo, la conoscenza e il senso di
appartenenza alla Chiesa, per cui si rende necessario un rinnovato primo annuncio della fede. Per
rendere possibile questo annuncio occorre incrementare e ravvivare la dimensione dell’accoglienza.
“L’accoglienza, cordiale e gratuita, è la condizione prima di ogni evangelizzazione. Su di essa deve
innestarsi l’annuncio, fatto di parola amichevole e, in tempi e modi opportuni, di esplicita
presentazione di Cristo, Salvatore del mondo. Per l’evangelizzazione è essenziale la comunicazione
della fede da credente a credente, da persona a persona. Ricordare a ogni cristiano questo compito
e prepararlo ad esso è oggi un dovere primario della parrocchia, in particolare educando all’ascolto
della parola di Dio, con l’assidua lettura della Bibbia nella fede della Chiesa” (VMPMC 6). In
questa prospettiva è da valorizzare anche il patrimonio artistico culturale come veicolo di annuncio
e tutte le varie espressioni della pietà popolare, ambiti privilegiati per sviluppare occasioni di
dialogo e di incontro e accostarsi con simpatia all’esperienza cristiana.
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LA PARROCCHIA: COMUNITÁ OSPITALE
La comunione ecclesiale, alimentata dall’ascolto e dalla venerazione della Parola di Dio, dalla
partecipazione all’Eucaristia, porta una comunità cristiana a farsi carico dell’annuncio e della
testimonianza del Vangelo. Ogni cristiano è chiamato ad essere missionario, manifestando
attenzione, cordialità e accoglienza nei confronti di ogni persona. In questo senso la parrocchia deve
sviluppare e vivere l’atteggiamento dell’ospitalità. Questa ospitalità va oltre la disponibilità ad
offrire qualche servizio richiesto. “Consiste nel saper fare spazio a chi è, o si sente, in qualche modo
estraneo, o addirittura straniero, rispetto alla comunità parrocchiale e quindi alla Chiesa stessa,
eppure non rinuncia a sostare nelle sue vicinanze, nella speranza di trovare un luogo, non troppo
interno ma neppure insignificante, in cui realizzare un contatto; uno spazio aperto ma discreto in
cui, nel dialogo, poter esprimere il disagio e la fatica della propria ricerca, in rapporto alle attese
nutrite nei confronti di Dio, della Chiesa, della religione. La comunità parrocchiale non può
disinteressarsi di ciò che nel mondo, ma anche al suo interno, oscura la trasparenza dell’immagine
di Dio e intralcia il cammino che, nella fede in Gesù, conduce al riscatto dell’esistenza. Un tale
spazio non si riduce a incontri e conversazioni. Va articolato e programmato nella forma di una rete
di relazioni, attivate da persone dedicate e idonee, avendo riferimento all’ambiente domestico.
L’ospitalità cristiana, così intesa e realizzata, è uno dei modi più eloquenti con cui la parrocchia può
rendere concretamente visibile che il cristianesimo e la Chiesa sono accessibili a tutti, nelle normali
condizioni della vita individuale e collettiva” (VMPMC 13). Nel corso di un Convegno sulla
parrocchia, organizzato dalla Facoltà Teologica del Triveneto, J. M. Donegani, docente di
sociologia religiosa presso l’Istitute catholique di Parigi, a proposito della parrocchia come luogo di
relazioni, ha detto che: “La parrocchia riveste una funzione di visibilità elementare del cristianesimo
che non riguarda i soli praticanti, anche se essa si basa anzitutto su di loro. Essa è un punto di
riferimento locale visibile per i cristiani e i non cristiani, aprendo la possibilità di una vita di
relazione e di legami con i diversi gruppi sociali che abitano quel territorio. Essa è un punto di
riferimento di memoria e di stabilità in un mondo in cui si è molto sviluppata la mobilità degli
individui e si è rarefatta la trama del sacro. Essa è un luogo di accoglienza e di prossimità per le
domande di celebrazione che provengono da singoli o da famiglie la cui situazione religiosa è molto
varia”. Per questo motivo è necessario sviluppare un atteggiamento di ricerca che sappia intercettare
le domande e le esigenze che provengono dalla società. Di conseguenza “La parrocchia deve
fuggire la tentazione di chiudersi in se stessa, paga dell’esperienza gratificante di comunione che
può realizzare tra quanti ne condividono l’esplicita appartenenza. Oltre questa tentazione sta il
dovere di attrezzarsi culturalmente in modo più adeguato, per incrociare con determinazione lo
33
sguardo spesso distratto degli uomini e delle donne d’oggi. Anche in questo caso, più che di
iniziative si ha bisogno di persone, di credenti, soprattutto di laici credenti che sappiano stare dentro
il mondo e tra la gente in modo significativo. Laici credenti «di forte personalità», come dice il
Concilio”. Questo atteggiamento porta a vedere la parrocchia non tanto e sopratutto come una
“struttura”, ma l’insieme di persone che si incontrano e vogliono entrare in relazione tra di loro. In
questo senso “la parrocchia non si rivolga più soltanto ai battezzati, ma a tutti quelli che sono
chiamati a formare il popolo di Dio. Lo farà se allargherà la nozione di comunità «a tutti coloro che
sono chiamati ad incontrarla e quindi, in primo luogo e per la gran parte, a quelle occasioni di
incontro con domande puntuali che non si presentano immediatamente come domande di
integrazione»”. È un compito affascinante e allo stesso tempo difficile e impegnativo che fa
riscoprire la gioia del servizio disinteressato al Vangelo. Tutto questo porta a saper condividere “le
gioie e le sofferenze, le speranze e le angosce” (GS 1). di ogni creatura umana. Questa condivisione
fa si che la parrocchia sia segno della «speranza che non delude» e casa accogliente e ospitale per
tutti.
IL PARROCO : PASTORE DELLA PARROCCHIA
La comunità parrocchiale è «una comunità di fedeli», cioè di battezzati che comprende sacerdoti e
laici: “I fedeli laici, unitamente ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, formano l’unico popolo di
Dio e Corpo di Cristo” (CL 28). È la famiglia di Dio, luogo della comunione dei credenti. La
comunione ecclesiale si configura come una comunione caratterizzata dalla presenza di persone con
funzioni diverse e complementari. Gesù è il vero capo e pastore del suo popolo, però, oggi nella
storia, svolge questa funzione attraverso coloro che lui stesso ha chiamato a rappresentarlo,
nonostante le debolezze e i limiti. In primo luogo ci sono il Papa e i Vescovi, ma, come nota il
Concilio Vaticano II, poiché il vescovo non può presiedere personalmente sempre e ovunque
l’intero gregge, egli costituisce delle comunità locali, le parrocchie, poste sotto la guida di un
pastore, il parroco, a cui il vescovo affida la cura pastorale di una parrocchia. Il parroco rappresenta
il vescovo in mezzo alla comunità ed è la presenza di Gesù che opera nella comunità: “come il
Padre ha mandato me, così anche io mando voi”. Il Codice di Diritto Canonico, al canone 519, così
descriver la figura del parroco: “Il parroco è il pastore proprio della parrocchia affidatagli,
esercitando la cura pastorale di quella comunità sotto l'autorità del Vescovo diocesano, con il
quale è chiamato a partecipare al ministero di Cristo, per compiere al servizio della comunità le
funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di altri presbiteri o
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diaconi e con l'apporto dei fedeli laici, a norma del diritto” (can. 519). Tre sono le funzioni
principali del parroco: pastorale, profetica e sacerdotale. Il parroco come pastore ha la grazia di
guidare la vita della comunità, aiutandola a mantenersi unita, a mettere in comunione i vari carismi
presenti nei fedeli, a coordinare le varie forze ed esperienze, i gruppi e le associazioni. Il parroco in
questo compito è chiamato “ministro dell’unità”. L’esercizio della funzione profetica implica il
dovere di trasmettere la Parola di Dio, di annunciare il Vangelo, di far conoscere la dottrina della
Chiesa fedele custode della verità rivelata. Per la sua ordinazione, infine, partecipa in maniera
speciale al sacerdozio di Gesù e opera, impersonando Cristo, quando celebra l’Eucaristia e gli altri
sacramenti. Da tutto questo si può dedurre che l’autorità del parroco, come ogni autorità alla luce
del Vangelo, è un servizio a vantaggio dei fedeli; “presiedere la comunità non significa dominarla –
come più volte ha ricordato Giovanni Paolo II - ma servirla”. L’atteggiamento dei fedeli verso il
parroco deve essere un atteggiamento di fede e di amore. Ma perché il parroco possa svolgere bene
il suo servizio è necessaria la collaborazione e la corresponsabilità dei laici, perché tutti i battezzati
partecipano alla funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo. Essi non appartengono alla
Chiesa, ma sono Chiesa. La corresponsabilità dei laici nella parrocchia si realizza in differenti
modalità. Ciascuno ha un suo dono. Può esprimersi collaborando nel campo dell'apostolato, della
catechesi, dell'amministrazione, nelle opere sociali o caritative, nella preparazione della liturgia,
nell'attenzione ai malati, nell’essere Ministri straordinari dell’Eucaristia, nel far parte dei vari
gruppi, associazioni e movimenti. La collaborazione si realizza in modo tutto particolare con
l'apporto prezioso della preghiera e della sofferenza vissuta in unione con Gesù crocifisso. La
corresponsabilità crea un rapporto nuovo fra sacerdoti e laici: entrambi si sentono responsabili
dell'edificazione della comunità, pur nella distinzione dei compiti. "Per voi sono vescovo - diceva
Agostino - con voi sono cristiano". Richiede anche da parte dei sacerdoti il riconoscimento dei
doni che lo Spirito fa ai laici accogliendo l'apporto, i consigli, la collaborazione che essi offrono, in
spirito di comunione e di reciproco aiuto, mettendo in luce il loro ruolo nei campi di loro specifica
competenza, come la famiglia, la scuola, la cultura, l'azione sociale e politica, l'animazione cristiana
degli ambienti di vita e di lavoro. Inoltre la corresponsabilità di sacerdoti e laici, non significa
soltanto portare insieme i pesi e i compiti della comunità, ma soprattutto sentirsi entrambi impegnati
in prima persona a mantenere viva quella carità reciproca che assicura la presenza di Cristo fra i
suoi, e dalla quale scaturisce la fecondità della loro azione.
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IL MINISTERO DEL PARROCO
Parlando del parroco come pastore della comunità, si è fatto riferimento ai tre fondamentali compiti
e doveri che caratterizzano il suo ministero e cioè la funzione pastorale, profetica e sacerdotale.
Questi impegni trovano nel Codice di Diritto Canonico una esplicazione e una dettagliata
presentazione. Pur nella apparente aridità dei canoni, il nuovo Codice risente della ecclesiologia
scaturita dal Vaticano II e delle esigenze della pastorale. Il parroco, come pastore, attua il suo
ministero nell’esercizio del triplice impegno, che è diritto e dovere, di insegnare, santificare e
governare. Il can. 528, in ordine al compito di insegnare, elenca i doveri del parroco e le
raccomandazioni in ordine al bene dei fedeli. In particolare il parroco deve fare in modo che la
Parola di Dio e l’annuncio integrale e organico della salvezza, siano integralmente annunciati a tutti
coloro che si trovano nella parrocchia: credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, associati e
non associati. I fedeli devono essere istruiti nelle verità della fede e questo deve essere fatto
soprattutto con l’omelia nelle domeniche e nelle feste di precetto, oltre naturalmente negli altri
periodi, come i tempi forti e le novene più importanti. Altro impegno fondamentale è l’istruzione
catechetica sia per gli adulti che per i bambini, ragazzi e giovani, avendo come punto importante di
riferimento il Catechismo della Chiesa Cattolica. In questo compito il parroco non può fare a meno
della collaborazione dei laici e di conseguenza deve prestare grande attenzione alla formazione dei
catechisti, indispensabili per l’evangelizzazione dei piccoli e degli adulti, oltre che per l’immediata
preparazione agli eventi sacramentali. “Favorisca inoltre le attività che promuovono lo spirito
evangelico, anche in ordine alla giustizia sociale; abbia cura speciale della formazione cattolica dei
fanciulli e dei giovani; si impegni in ogni modo, anche con la collaborazione dei fedeli, perché
l'annuncio evangelico giunga anche a coloro che si sono allontanati dalla pratica religiosa o non
professano la vera fede” (can 528). Le norme circa il compito di santificare vengono esposte in
maniera ampia nel Libro IV del Codice, tuttavia nel can. 528 § 2 viene detto che il parroco deve
fare in modo che l’Eucaristia sia il centro dell’assemblea parrocchiale dei fedeli, favorendo la vita
sacramentale e la celebrazione frequente della penitenza. Altro impegno è la formazione dei fedeli
alla preghiera personale, comunitaria e in famiglia, con la partecipazione attiva e consapevole alla
liturgia “di cui il parroco deve essere il moderatore nella sua parrocchia, sotto l’autorità del
Vescovo diocesano e sulla quale è tenuto a vigilare perché non si insinuino abusi”. Per poter
svolgere questi compiti di pastore, il parroco deve conoscere i fedeli affidati alle sue cure visitando
le famiglie e mostrandosi sollecito nei loro confronti soprattutto nei momenti di sofferenza e di
lutto. Particolare cura deve essere riservata agli ammalati, agli anziani, ai poveri e a tutti coloro che
attraversano difficoltà. Il compito di santificare implica in modo particolare la formazione dei fedeli
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all’impegno apostolico e missionario nella Chiesa, favorendo in tutti i modi la comunione
ecclesiale, senza la quale ogni iniziativa è destinata a fallire e a essere controproducente. Il can. 530
specifica le funzioni affidate al parroco in modo speciale anche se non esclusivo in quanto la
maggior parte fanno parte dei compiti propri di ogni presbitero: amministrare il battesimo;
amministrare il sacramento della confermazione a coloro che sono in pericolo di morte;
amministrare il viatico e l’unzione degli infermi, impartire la benedizione apostolica; assistere al
matrimonio e benedire le nozze; celebrare i funerali; benedire il fonte battesimale nel tempo
pasquale, guidare le processioni, celebrare l’Eucaristia più solenne nelle domeniche e nelle feste di
precetto. Il compito di governare è intimamente collegato al servizio della comunione ecclesiale. Il
servizio del parroco è inscindibilmente collegato alla presenza dei fedeli laici, verso i quali il
parroco, accantonato ogni paternalismo, deve assumere atteggiamenti che significhino
riconoscimento e promozione di un coinvolgimento e di una corresponsabilità loro propri, riguardo
all’unica e intera missione della chiesa. Da qui l’impegno per la comunione ecclesiale da vivere
nella parrocchia e in tutta la chiesa particolare, comunione che “non è un certo vago affetto, ma una
realtà organica… animata dalla carità, che viene vissuta e nella quale si vive e crescer attraverso atti
e gesti concreti della vita quotidiana; comunione ecclesiale che non è enunciato teorico, ma
esperienza, a volte sofferta, di vita”.
IL PARROCO AL SERVIZIO DELLA MISSIONE E DELLA COMUNIONE
La Nota pastorale “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”, nella sua parte
finale riserva una particolare sottolineatura al ruolo dei sacerdoti e, in particolare del parroco, in
ordine al servizio della missione e della comunione.”Il cammino missionario della parrocchia è
affidato alla responsabilità di tutta la comunità parrocchiale. La parrocchia non è solo una presenza
della Chiesa in un territorio, ma «una determinata comunità di fedeli», comunione di persone che si
riconoscono nella memoria cristiana vissuta e trasmessa in quel luogo. Singolarmente e insieme,
ciascuno è lì responsabile del Vangelo e della sua comunicazione, secondo il dono che Dio gli ha
dato e il servizio che la Chiesa gli ha affidato. Si ribadisce così il ruolo del sacerdote, specie del
parroco, nel rinnovamento missionario della parrocchia. Egli è associato al vescovo nel servizio di
presidenza, e la esercita come «pastore proprio» della comunità nel territorio che gli è affidato,
mediante l’ufficio di insegnare, santificare e governare. Il rinnovamento della parrocchia in
prospettiva missionaria non sminuisce affatto il ruolo di presidenza del presbitero, ma chiede che
egli lo eserciti nel senso evangelico del servizio a tutti, nel riconoscimento e nella valorizzazione di
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tutti i doni che il Signore ha diffuso nella comunità, facendo crescere la corresponsabilità” (n. 12).
Questo richiede un ripensamento circa il modo di esercitare il ministero da parte dei presbiteri e da
parte del parroco. È necessario riscoprire una vita di comunione e un impegno di formazione
permanente per sostenere una solida spiritualità ministeriale. “Se è finita l’epoca della parrocchia
autonoma, è finito anche il tempo del parroco che pensa il suo ministero in modo isolato; se è
superata la parrocchia che si limita alla cura pastorale dei credenti, anche il parroco dovrà aprirsi
alle attese di non credenti e di cristiani «della soglia»”. Riemerge così l’immagine evangelica del
pastore con le sue caratteristiche di custodire il gregge affidatogli e di ricercare le pecore perdute. Il
ministero presbiterale deve essere ripensato in questo spirito di servizio comunitario verso tutti. In
questo senso allora “Il parroco sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo
della comunione; e perciò avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi. La sua passione
sarà far passare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano
a presenze che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale. Il suo specifico
ministero di guida della comunità parrocchiale va esercitato tessendo la trama delle missioni e dei
servizi: non è possibile essere parrocchia missionaria da soli” (n. 12). In particolare egli dovrà
riunire “la famiglia di Dio come fraternità animata nell’unità” (PO 6), “armonizzare le mentalità
diverse, perché nessuno possa sentirsi estraneo alla comunità” (PO 9); educare tutti i credenti a
saper “scorgere negli eventi le esigenze naturali e la volontà di Dio”; condurre ciascuno a scoprire e
ad accogliere nella sua vita il dono specifico dello Spirito (PO 6). Per realizzare questo è necessario
rendersi disponibile al dialogo e all’ascolto. Nella sua prima enciclica , l’Ecclesiam suam, Paolo VI
diceva che “La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio…Ancor
prima di convertire il mondo, anzi per convertirlo, bisogna ascoltarlo e parlargli…”. Ovviamente
questo dialogo ha delle caratteristiche peculiari: la chiarezza, la mitezza, la fiducia, la prudenza.
“Ancor prima di parlare, bisogna farsi fratelli degli uomini”. In questi ultimi anni, stimolati dalle
Note pastorali dell’episcopato sulla parrocchia, si è sviluppata, a vari livelli, una riflessione sullo
stile da dare alle parrocchie in un clima di comunione e di corresponsabilità, e sul modo di
ricondurre il ministero presbiterale, e a maggior ragione quello del parroco, all’essenziale. Il punto
di riferimento è la persona e l’esempio di Gesù che “dopo aver pregato tutta la notte, ha chiamato i
Dodici chiedendo loro di stare con lui e di collaborare alla sua missione per annunciare la vicinanza
del Regno e guarire i malati”. Il presbitero è chiamato a stare alla presenza di Gesù, a nutrirsi della
sua parola, a condividere il suo stile di vita, per essere testimone e annunciatore del vangelo al
servizio di una umanità ferità e sofferente. È necessario perciò riportare il ministero all’essenziale
per evitare di chiedere al presbitero di essere e di fare “tante cose”: “«l’uomo della ritualità,
dell’amministrazione dei sacramenti,… l’uomo della solidarietà e l’amministratore economico;
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l’organizzatore di tornei, di feste, di gite, di pranzi…»”. Occorre ribadire che «il presbitero non solo
non può, ma neanche deve fare tutto», dal momento che «questa multiforme prestazione non può da
sola compensare un ministero che fosse spiritualmente sterile e non reso credibile nella
testimonianza della vita». L’essenziale oggi è rappresentato dal come annunciare Gesù ai nostri
contemporanei e come custodire e proteggere l’inestimabile dono della comunione e dell’unità.
PARROCCHIA E COMUNIONE PRESBITERALE
La riflessione sul ministero del parroco ha portato a individuare il suo compito e la sua missione
nella “cura pastorale”. Questa espressione evidenzia “la cura della comunità che lega i singoli fedeli
nella parrocchia e fa di essa una comunità fraterna. Si potrebbe anche osservare che non sono solo i
singoli fedeli, individualmente presi, a essere affidati al parroco, ma anche la comunità come
insieme di relazioni. Ciò comporta un profondo cambiamento nel modo di concepire il ruolo del
parroco e i suoi compiti, in particolare in ordine a uno stile di corresponsabilità all’esterno e
all’interno della parrocchia”. Parlando di collaborazione e di corresponsabilità è chiaro che il
parroco non esercita la cura pastorale da solo, ma “con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi
e l’apporto dei fedeli laici”(can. 519).Il rapporto di collaborazione privilegiato è quello tra il
parroco e il vicario parrocchiale, termine molto più corretto di quello di vice-parroco. Purtroppo, in
tante chiese locali, a causa della scarsità numerica dei presbiteri, è una figura in via di estinzione.
Nella nostra diocesi, per grazia di Dio, è una presenza diffusa e qualificata, con uno straordinario
contributo di idee, di iniziative e di entusiasmo pastorale. La figura del vicario parrocchiale e il suo
rapporto con il parroco sono profondamente rinnovati alla luce della teologia del presbiterato del
Concilio Vaticano II. Il Decreto sul ministero e la vita sacerdotale, affrontando la fraternità piena e
la collaborazione completa tra i presbiteri, dice che:” Tutti i presbiteri, costituiti nell'ordine del
presbiterato mediante l'ordinazione, sono uniti tra di loro da un'intima fraternità sacramentale; ma
in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il
proprio vescovo. Infatti, anche se si occupano di mansioni differenti, sempre esercitano un unico
ministero sacerdotale in favore degli uomini”(PO 8). Fedele a questa prospettiva conciliare, il
Codice di Diritto Canonico presenta il vicario parrocchiale come un collaboratore del parroco,
uguale a lui in dignità, perché, prima di qualsiasi distinzione dovuta alle competenze giuridiche, è
prioritaria e fondamentale la comune partecipazione al sacramento dell’Ordine. Ne deriva che il
vicario parrocchiale non è al servizio del parroco, ma della comunità parrocchiale. Il ruolo
preminente che la giurisdizione canonica e civile attribuisce al parroco, è secondaria rispetto
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all’uguaglianza sacramentale che implica la corresponsabilità nella cura pastorale della parrocchia.
Il vicario parrocchiale è partecipe della sollecitudine del parroco attraverso le iniziative
programmate con lui e sotto la sua autorità. Il principio portante è quello della comunione che porta
ad avere un rapporto di confidenza, di comunicazione, e di collaborazione in ordine a tutte le
iniziative pastorali, in modo che i presbiteri di una parrocchia siano in grado di provvedere, con un
impegno comune, alle varie esigenze della parrocchia di cui insieme sono garanti. In certe situazioni
“l’impostazione nuova del Codice è stata scarsamente percepita e tuttora rimane come offuscata da
una tradizione molto diversa, che faceva del vicario un ministero di rango inferiore, affidato
esclusivamente ai presbiteri più giovani, quasi punto di passaggio obbligatorio verso l’ufficio di
parroco”. Ne consegue che molto spesso nei parroci prevale un certo atteggiamento paternalistico,
forse anche involontario, ma che impedisce, al di là dell’esperienza, di valorizzare pienamente le
doti umane, spirituali e culturali dei presbiteri giovani. La formazione teologica, il rapporto più
spontaneo e confidenziale con le giovani generazioni, li porta ad attuare una pastorale capillare
quanto mai efficace. In questo campo, sempre all’interno di una collaborazione e di una
condivisione con il parroco e con gli eventuali altri presbiteri, è necessario che i vicari parrocchiali
si sentano liberi di esprimere le loro potenzialità, le loro intuizioni e le loro capacità, nel rispetto del
carattere e della personalità di ciascuno. Il camminare insieme, condividendo in pieno la fatica e la
gioia della strada comune, sarà la più importante testimonianza di comunione da offrire alla
comunità. In questo contesto ha grande valore l’umiltà, che implica il riconoscimento, da parte di
ciascuno, dei propri limiti, personali ed esperienziali, e nello stesso tempo dei pregi e dei valori
dell’altro. L’essere in due o in più di due, comporta che al di sopra di tutto ci deve essere l’esigenza
della comunione e della carità. Lo stesso discorso vale per i presbiteri anziani o che per motivi di
salute non rivestono più responsabilità in prima persona. La loro presenza all’interno di una
comunità è una grande risorsa umana, spirituale e pastorale, che unita all’esperienza pastorale,
risulta quanto mai preziosa all’intera comunità e a vivere la dimensione della comunione tra i
presbiteri. In questo contesto ritengo opportuno, per la riflessione personale, riportare un brano delle
«Omelie sui Vangeli» di S. Gregorio Magno, papa.
“Il nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, ci ammonisce ora con la parola, ora con i fatti. A
dire il vero, anche le sue azioni hanno valore di comando, perché mentre silenziosamente compie
qualcosa ci fa conoscere quello che dobbiamo fare. Ecco che egli manda a due a due i discepoli a
predicare, perché sono due i precetti della carità: l'amore di Dio, cioè, e l'amore del prossimo.
Il Signore manda i discepoli a due a due a predicare per indicarci tacitamente che non deve
assolutamente assumersi il compito di predicare chi non ha la carità verso gli altri.
Giustamente poi è detto che «li inviò avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc
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10, 1). Il Signore infatti segue i suoi predicatori, perché la predicazione giunge prima, e solo allora
il Signore viene ad abitare nella nostra anima, quando lo hanno preceduto le parole dell'annunzio,
attraverso le quali la verità è accolta nella mente. Per questo dice Isaia ai medesimi predicatori:
«Preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio» (Is 40, 3). E il
salmista dice loro: «Spianate la strada a chi sale sul tramonto» (Sal 67, 5 volg.). Il Signore salì
«sul tramonto» che fu la sua morte. Effettivamente il Signore salì «sul tramonto» in quanto la sua
morte gli servì come alto piedistallo per manifestare maggiormente la sua gloria mediante la
risurrezione. Salì «sul tramonto» perché risorgendo calpestò la morte che aveva affrontato.
Noi dunque spianiamo la strada a colui che sale «sul tramonto» quando predichiamo alle vostre
menti la sua gloria; perché, venendo poi egli stesso, le illumini con la presenza del suo amore.
Ascoltiamo quello che dice nell'inviare i predicatori: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi.
Pregate dunque il padrone della messe, perché mandi operai per la sua messe» (Mt 9, 37-38). Per
una grande messe gli operai sono pochi. Di questa scarsità non possiamo parlare senza profonda
tristezza, poiché vi sono persone che ascolterebbero la buona parola, ma mancano i predicatori.
Ecco, il mondo è pieno di sacerdoti, e tuttavia si trova assai di rado chi lavora nella messe del
Signore. Ci siamo assunti l'ufficio sacerdotale, ma non compiamo le opere che l'ufficio comporta.
Perciò riflettete attentamente, fratelli carissimi, sulla parola del Signore: «Pregate il padrone della
messe, perché mandi operai per la sua messe». Pregate voi per noi, perché siamo in grado di
operare per voi come si conviene; perché la lingua non resti inattiva dall'esortare, e il nostro
silenzio non condanni, presso il giusto giudice, noi, che abbiamo assunto l'ufficio di
predicatori”(Om. 17, 1-3; PL 76, 1139).
PARTECIPAZIONE E CORRESPONSABILITÁ NELLA CHIESA
L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II ha messo in risalto l’aspetto della comunione e della
corresponsabilità nella Chiesa. In forza del battesimo tutti hanno la stessa dignità e i medesimi
doveri nella edificazione della Chiesa. Per questo motivo i laici partecipano insieme ai pastori alla
missione della Chiesa. La Lumen Gentium, nel capitolo IV dedicato ai laici delinea e fonda
teologicamente il ruolo e la dignità dei laici all’interno della Chiesa e di conseguenza, all’interno
della comunità parrocchiale. Di questo si è già accennato parlando della Parrocchia come
comunione di carismi e ministeri, riportando il n. 32 della Costituzione conciliare sulla Chiesa.
L’immagine del corpo, usata dall’apostolo Paolo (Rm 12,4-5), per indicare l’importanza e la
complementarietà delle varie membra, apre la strada alla comprensione dei doni e dei carismi che
vengono distribuiti a ogni battezzato. La Christifideles laici a questo proposito inserisce l’apostolato
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dei laici nella concretezza della comunità parrocchiale. “Come partecipi della missione di Cristo
sacerdote, profeta e re, i laici hanno la loro parte attiva nella vita e nell'azione della Chiesa.
All'interno delle comunità ecclesiali la loro azione è talmente necessaria che senza di essa lo stesso
apostolato dei pastori non può per lo più ottenere il suo pieno effetto” (AA 10). Questo impegno e
questa corresponsabilità acquista un particolare valore nella parrocchia: “La parrocchia offre un
luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le diversità umane che vi si
trovano e inserendole nell'universalità della Chiesa. I laici si abituino ad agire nella parrocchia in
stretta unione con i loro sacerdoti apportino alla comunità della Chiesa i propri problemi e quelli
del mondo, nonché le questioni concernenti la salvezza degli uomini, perché siano esaminati e
risolti con il concorso di tutti; diano, secondo le proprie possibilità, il loro contributo a ogni
iniziativa apostolica e missionaria della propria famiglia ecclesiale (AA 10). La realtà della
comunione aiuta a capire che la parrocchia è di tutti e tutti devono mettersi al servizio gli uni degli
altri. Anche se nella Chiesa vi sarà sempre un momento decisionale affidato al ministero del
Vescovo o del parroco suo rappresentante, questi devono formulare decisioni dopo aver dialogato e
dopo aver fatto partecipare tutta la comunità alla loro maturazione. Nella Chiesa c’è una comunione
profonda: tutti si è un corpo solo e membra gli uni degli altri. È chiaro che in una comunità si
devono armonizzare i diversi ministeri, indispensabili per la sua stessa esistenza. Il vescovo come
sacramento di Cristo capo e pastore,ha come servizio specifico quello di dare e assicurare l’unità
alla Chiesa, confermando nella fede i fratelli ed edificandoli nella carità. La corresponsabilità e la
comunione esigono il dialogo e la comunicazione. La Lumen Gentium, al riguardo, invita ad avere
familiari relazioni fra laici e gerarchia. “Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono
attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della
propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate
all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza
e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri,
compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo (LG 37).
IL CONSIGLIO PASTORALE PARROCCHIALE
Uno degli ambiti più significativi dove la corresponsabilità, il dialogo e la comunione possono
essere vissuti è il Consiglio Pastorale Parrocchiale. Il Codice di Diritto Canonico lo prevede come
facoltativo, nel senso che è lasciato al giudizio del Vescovo diocesano la decisione di renderlo
obbligatorio per tutte le parrocchie della diocesi. Il Concilio nell’affermare che all’esame e alla
risoluzione dei problemi pastorali è necessario il concorso di tutti, indica praticamente la necessità
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di questa struttura ecclesiale. La Lumen Gentium al riguardo dice che : “Secondo la scienza,
competenza e prestigio di cui godono (i laici), hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far
conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa. Se occorre, lo facciano
attraverso gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa…” (LG 37). In questi organismi è già
prefigurato il Consiglio pastorale. Altro testo conciliare significativo è quello dell’Apostolicam
actuositatem, dove viene detto che: “Nelle diocesi, per quanto è possibile, vi siano dei consigli che
aiutino il lavoro apostolico della Chiesa, sia nel campo dell'evangelizzazione e della santificazione,
sia in campo caritativo, sociale, ecc., nei quali devono convenientemente collaborare clero,
religiosi e laici. Questi consigli potranno giovare alla mutua coordinazione delle varie associazioni
e iniziative dei laici, nel rispetto dell'indole propria e dell'autonomia di ciascuna. Consigli di tal
genere vi siano pure, per quanto è possibile, nell'ambito parrocchiale, interparrocchiale,
interdiocesano, nonché a livello nazionale e internazionale” (AA 26). Il Codice, recependo queste
indicazioni conciliari, al can 536 stabilisce:
§1. Se risulta opportuno a giudizio del Vescovo diocesano, dopo aver sentito il consiglio
presbiterale, in ogni parrocchia venga costituito il consiglio pastorale, che è presieduto dal
parroco e nel quale i fedeli, insieme con coloro che partecipano alla cura pastorale della
parrocchia in forza del proprio ufficio, prestano il loro aiuto nel promuovere l'attività pastorale.
§2. Il consiglio pastorale ha solamente voto consultivo ed è retto dalle norme stabilite dal Vescovo
diocesano.
Al di là della obbligatorietà e del fatto di essere un organismo consultivo, il Consiglio pastorale
rappresenta l’immagine della fraternità e della comunione, divenendo lo strumento della comune
decisione pastorale, che si attua attraverso il confronto delle opinioni e la deliberazione comune.
Compito del Consiglio pastorale parrocchiale è quello di trattare i problemi e le iniziative pastorali
al fine di rendere più viva la vita dei fedeli e della comunità, nel rispetto, ovviamente, di tutte le
disposizioni pastorali superiori. Alla luce di questi principi “il consiglio pastorale parrocchiale
diviene una realtà ecclesiale, viva, dinamica, un organismo che si colloca non fuori né sopra la
comunità ma all’interno di essa. Ne esprime la fede, l’intima natura comunitaria e gerarchica e tutto
lo slancio missionario. Sarebbe quindi falso vederlo semplicemente come una struttura
organizzativo-funzionale, una commissione sopra le altre o una centrale di studi e di programmi da
calare alla base, oppure uno strumento democratico che, grazie al principio dell’uguaglianza e della
partecipazione alla vita della Chiesa, diventa luogo di rivendicazioni ponendosi in contrasto o in
concorrenza con la gerarchia. Il consiglio pastorale parrocchiale intende essere segno espressivo
della comunione ecclesiale, un luogo di incontro e di impegno pastorale: rappresenta l’intera
comunità parrocchiale nell’unità della fede e nella ricchezza e varietà dei suoi carismi e ministeri,
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segno e strumento che esprime e favorisce la comunione del parroco con l’intero popolo di Dio e
dei fedeli col loro pastore; consente e garantisce le responsabilità di tutti i membri della parrocchia
alla vita della Chiesa e alla sua missione nel mondo”. Il Consiglio pastorale, per ogni parrocchia, ha
un notevole valore; infatti è una struttura di partecipazione che serve a responsabilizzare e a
coinvolgere i membri e anche tutti gli altri fedeli nella vita e nell’attività pastorale della parrocchia.
Più di tante affermazioni dottrinarie esso aiuta a superare quella concezione che vede, di solito, una
Chiesa affidata solo al clero e ai religiosi, ed educa i fedeli a essere presenti e attivi nella Chiesa
secondo il loro carisma e nel rispetto di quello degli altri.
IL CONSIGLIO PER GLI AFFARI ECONOMICI
Tra gli organismi di partecipazione un posto tutto particolare è attribuito al Consiglio parrocchiale
per gli affari economici. Il can. 537 del Codice di diritto canonico prescrive: “In ogni parrocchia vi
sia il consiglio per gli affari economici che è retto, oltre che dal diritto universale, dalle norme date
dal Vescovo diocesano; in esso i fedeli, scelti secondo le medesime norme, aiutino il parroco
nell'amministrazione dei beni della parrocchia, fermo restando il disposto del can. 532”. Il
Consiglio è obbligatorio ed è previsto come l’organo di partecipazione dei fedeli alla gestione
economica della parrocchia. È una importante conseguenza dell’insegnamento del Concilio:
“Quanto ai beni ecclesiastici propriamente detti, i sacerdoti devono amministrarli… possibilmente
con l’aiuto dei laici” (PO 17). I compiti principali del consiglio sono, sia pure per analogia, simili a
quelli attribuiti agli amministratori ecclesiastici. Il primo compito è quello di collaborare, attraverso
il consiglio e l’azione, al compito amministrativo del parroco. Gli ambiti più rilevanti sono quelli
inerenti la redazione dell’inventario dei beni della parrocchia, la predisposizione del bilancio
preventivo e consuntivo, quello di affiancare il parroco con il consiglio nei casi di maggior impegno
finanziario e nelle decisioni relative ad atti di straordinaria amministrazione. Altro ambito è quello
di sensibilizzare la comunità e di promuovere iniziative circa il dovere di contribuire alle necessità
economiche della parrocchia e della Chiesa in generale. Trattandosi di un settore particolarmente
delicato, oltre alla competenza in materia giuridica – amministrativa, ai membri del consiglio è
richiesta una loro dimensione ecclesiale. È quanto precisa l’Istruzione in materia amministrativa
della Conferenza Episcopale Italiana: “Quanti ne fanno parte devono essere scelti in base alla
competenza, in analogia con quanto stabilito per il consiglio diocesano per gli affari economici
della diocesi: essi però sono anzitutto fedeli laici, chiamati a svolgere un servizio non solo in base
a criteri tecnici ed economici, ma anche in riferimento a principi di ordine specificamente
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ecclesiale, primo fra tutti quello dei fini propri dei beni temporali della Chiesa…La funzione
consultiva del CPAE non ne diminuisce l’importanza, essendo chiamati i consiglieri non solamente
a esprimere un parere tecnico, ma anche a condividere la responsabilità dell’intera vita della
parrocchia mediante una corretta e proficua gestione dei suoi beni” (105). L’ecclesialità implica
che i membri del consiglio sia persone culturalmente vicine alla vita della chiesa e vivano la loro
competenza specifica in campo economico come un ruolo pastorale, con una sensibilità tale da
interpretare le esigenze della comunità parrocchiale. In questo orizzonte il consiglio per gli affari
economici deve avere un rapporto costruttivo con il consiglio pastorale parrocchiale e con l’intera
comunità. In particolare, di fronte a scelte economiche di una certa rilevanza, non può prescindere
dalle indicazioni del consiglio pastorale, il quale , a sua volta, non può ignorare i problemi
economici della parrocchia. Tutti i documenti ecclesiali sottolineano l’esigenza della collaborazione
in un clima di autentica comunione anche nelle questioni materiali ed economiche. In modo
particolare deve essere garantita la collaborazione con il parroco, che presiede il consiglio, perché è
sua la responsabilità in quanto legale rappresentante e amministratore unico. “Ciò significa che il
CPAE non può sostituirsi al parroco o essere considerato un vero e proprio consiglio di
amministrazione della parrocchia. La sua funzione è, invece, di collaborare col parroco,
amministratore della parrocchia. Questi tuttavia, non dovrebbe discostarsi dal parere del CPAF se
non per gravi motivi” (106). Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici è costituito da
almeno tre consiglieri nominati dal parroco e per assicurare la comunione all’interno del presbiterio
anche nella gestione economica, è bene, anzi necessario, che facciano parte del consiglio i vicari
parrocchiali. In base a queste considerazioni non è superfluo ricordare che la funzione del consiglio
per gli affari economici non è quella di «controllare» l’operato del parroco, ma di concorrere a una
gestione amministrativa e finanziaria efficiente oltre che pastoralmente corretta della vita della
parrocchia.
IN CAMMINO GUIDATI DALLA PAROLA
Si è giunti al termine di una serie di considerazioni riguardanti la parrocchia, che hanno affrontato
la sua origine, il suo sviluppo, la sua struttura, la sua dimensione ministeriale, la sua missione
attuale. Queste riflessioni coincidono, oltre che col rinnovo del Consiglio Pastorale Parrocchiale,
con due eventi di particolare importanza: l’Anno paolino, dedicato alla straordinaria figura di S.
Paolo e la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della
Chiesa. Tutti e due gli avvenimenti sottolineano la centralità di Gesù Cristo, la Parola che si è fatta
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carne. É un invito e una opportunità a ritornare alla essenzialità della fede, perché chi viene a
contatto con l’esperienza della parrocchia possa incontrare Cristo senza filtri e senza
adattamenti.”La fedeltà al Vangelo si misura sul coerente legame tra fede detta, celebrata e
testimoniata, sull’unità profonda con cui è vissuto l’unico comandamento dell’amore di Dio e del
prossimo, sulla traduzione nella vita dell’Eucaristia celebrata. Quando tutto è fatto per il Signore e
solo per lui, allora l’identità del popolo di Dio in quel territorio diventa trasparenza di Colui che ne
è il Pastore. Per giungere a questa purezza di intendimenti e atteggiamenti è necessario che si coltivi
con più assiduità e fedeltà l’ascolto di Dio e della sua parola. Solo i discepoli della Parola sanno
fare spazio nella loro vita alla mitezza dell’accoglienza, al coraggio della ricerca e alla
consapevolezza della verità. Non si può oggi pensare una parrocchia che dimentichi di ancorare
ogni rinnovamento, personale e comunitario, alla lettura della Bibbia nella Chiesa, alla sua
frequentazione meditata e pregata, all’interrogarsi su come farla diventare scelta di vita. Chi,
soprattutto attraverso la lectio divina, scopre l’amore senza confini con cui Dio si rivolge
all’umanità, non può non sentirsi coinvolto in questo disegno di salvezza e farsi missionario del
Vangelo. Ogni parrocchia dovrà aprire spazi di confronto con la parola di Dio, circondandola di
silenzio, e insieme di riferimento alla vita”(VMPMC 13). L’Instrumentum laboris, il documento
realizzato per mettere in evidenza i contenuti del Sinodo dei Vescovi sulla parola di Dio, nel
ricordare che la Sacra scrittura deve essere l’alimento ordinario per tutti, dice che “La Lectio Divina
deve poter diventare fonte che ispira le varie pratiche della comunità, come esercizi spirituali,
ritiri, devozioni ed esperienze religiose. Importante obiettivo è far maturare la persona ad una
lettura della Parola, capace di discernimento sapienziale della realtà. La Lectio Divina non è
affatto una pratica da riservare a qualche fedele molto impegnato o a un gruppo di specialisti della
preghiera. Essa è una realtà senza la quale noi non saremmo cristiani autentici in un mondo
secolarizzato. Questo mondo richiede personalità contemplative, attente, critiche, coraggiose. Esso
domanda di volta in volta scelte nuove ed inedite. Richiederà interventi particolari che non
vengono dalla pura abitudine né dall’opinione comune, bensì dall’ascolto della Parola del Signore
e dalla percezione misteriosa dello Spirito Santo nei cuori” (IL 38). In questo modo la comunità
parrocchiale sarà in grado di vivere e di trasmettere la fede, cioè Gesù Cristo presente
nell’Eucaristia e nella Parola. In questo senso il Sinodo sulla Parola di Dio si colloca in continuità
col precedente sull’Eucaristia, per sottolineare lo stretto legame tra Eucaristia e Parola di Dio,
“giacché la Chiesa deve nutrirsi dell’unico «Pane della vita dalla mensa sia della Parola di Dio che
del Corpo di Cristo». Questa la motivazione profonda e insieme il fine primario del Sinodo:
incontrare compiutamente la Parola di Dio in Gesù Signore, presente nella Scrittura e
nell’Eucaristia. Afferma San Girolamo: “La carne del Signore vero cibo e il suo sangue vera
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bevanda; quello il vero bene che ci è riservato nella vita presente, nutrirsi della sua carne e bere il
suo sangue, non solo nell’Eucaristia, ma anche nella lettura della Sacra Scrittura. Infatti vero cibo e
vera bevanda è la parola di Dio che si attinge dalla conoscenza delle Scritture”. È la risposta alle
attuali attese dell’umanità. Di fronte alle cose che passano, di fronte alle tante costruzioni umane
costruite sull’effimero e sulla sabbia, solo la Parola di Dio rimane per sempre e fa si che chi
costruisce su questa “pietra angolare” sia segno di speranza e di sicurezza. “Chi costruisce la sua
vita su queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia.
Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la
realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella
Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto” (Benedetto XVI,
alla prima sessione del Sinodo, 6 ottobre 2008).
Don Giuseppe Mattana
Parroco di Oliena
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INDICE
Presentazione 2
Il fatto comunitario 4
Alcuni e tutti 5
Ministeri e attività ecclesiali 6
Apostoli, profeti e dottori 7
Funzioni di governo e di presidenza 8
Episcopi, diaconi, presbiteri 9
Sviluppo della gerarchia nell’età post – apostolica 11
Il ministero del Vescovo 12
Sviluppo della comunità cristiana 14
La riforma del Concilio di Trento 15
La parrocchia nel Vaticano II 17
Comunità parrocchiale e Chiesa universale 18
Parrocchia e annuncio della Parola 20
La Chiesa nasce e vive della Parola di Dio 21
Parrocchia ed Eucaristia 23
La parrocchia: comunità eucaristica 24
Parrocchia e comunione ecclesiale 25
La parrocchia comunione di carismi e ministeri 27
Le associazioni e i movimenti nella parrocchia 28
La parrocchia, comunità missionaria 30
La parrocchia, comunità ospitale 32
Il parroco: pastore della comunità 33
Il ministero del parroco 35
Il parroco al servizio della missione e della comunione 36
Parrocchia e comunione presbiterale 38
Partecipazione e corresponsabilità nella Chiesa 40
Il Consiglio pastorale parrocchiale 41
Il Consiglio per gli affari economici 43
In cammino guidati dalla Parola 44