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INFORMAZIONE SCOZZESE RICORDARE INNOVARE TRASMETTERE ORGANIZZARE NUMERO 14 MAGGIO - AGOSTO 2015 Editoriale Antenati Luoghi dello spirito Lessico scozzese Per una società decente Crocevia Biblioteca ideale Archivi

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INFORMAZIONE SCOZZESE - QUADRIMESTRALE DI CULTURA SCOZZESE GOI

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INFORMAZIONE SCOZZESERICORDARE INNOVARE TRASMETTERE ORGANIZZARE

NUMERO 14 MAGGIO - AGOSTO 2015

Editoriale Antenati

Luoghi dello spiritoLessico scozzese

Per una società decenteCrocevia

Biblioteca idealeArchivi

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2 EDITORIALE

EDITORIALE

Nelle “Lezioni di politica” dedicate all’amministrazione della polis, riprendendo i miti della ragione e della salvezza, Aristotele ricorda che gli esseri viventi non pos-sono esistere separati: la relazione con l’altro è lo stato necessario d’esistenza. E’, dunque, da più di due millenni che la genealogia dell’individuo si configura nella relazione d’appartenenza, attraverso relazioni che rendono possibile l’accoglienza e la cooperazione. L’inventario degli scambi simbolici sacralizzanti e degli scambi di beni e di servizi registra interazioni, prima occasionali e generiche, poi costruite e rigide: simmetriche e asimmetriche tra baratto e dono, distruttive e costruttive tra conflitto e negoziato. In questo contesto variegato, nella consapevolezza che ogni società è un artificio che produce i suoi artifici, affinché la saggezza della vita non si trasformi in fuga dalla vita, la Massoneria Scozzese non si pone come un’educa-zione dello spirito illuminata dal sovrannaturale, che si sviluppa lungo un viaggio privato e solitario. La Massoneria di Rito Scozzese propone un’abilità pratica che si esercita in un viaggio di gruppo organizzato, lungo un percorso che non è più semplicemente di conoscenza ma di trasformazione. Come passare dalla compe-tizione alla cooperazione? E’ questa la questione, completamente mai risolta, di una comunità d’individui coscienti della loro interdipendenza. In questa comunità gli uomini affrontano argomenti e situazioni che cambiano con i tempi ma che sono quelli dell’ordine del giorno; e dialogano secondo regole precise fondate sul mec-canismo sociale del negoziato. Se negoziare, significa fare delle concessioni di fronte a una divergenza, ogni negoziato è un sacrificio per ottenere ciò che si

L’ARTE DI NEGOZIARE del Fr. Giovanni Casa, 33° Grado M.A. Gran Segretario - Gran Cancelliere Aggiunto

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desidera. E poiché la qualità della decisione negoziata sarà soddisfacente, medio-cre o assurda, secondo il metodo applicato, torna utile ricordare alcuni principi elementari da seguire: definire il metodo prima di affrontare il contenuto; ascoltare prima di parlare; sapersi mettere al posto dell’altro; stabilire delle priorità e ante-porre la coesione del gruppo agli interessi personali; produrre idee creative; preoc-cuparsi delle relazioni con l’altro prima di massimizzare i propri interessi a breve termine, ecc…. E tutto ciò si apprende col lavoro: non si nasce negoziatori, lo si diventa. Inspirati dalla Tradizione Templare anche i Cavalieri Scozzesi aspirano a diventare negoziatori, competenti e capaci di comunicare col mondo al di là degli specialismi: negoziatori concettuali quando, per accrescere la loro intelligenza dell’attualità e delle proprie emozioni, studiano l’efficacia simbolica dei cambia-menti indotti dalla storia. Con la speranza che anche il 14° numero di INFORMAZIONE SCOZZESE contri-buisca al progetto, auguriamo buona lettura a tutti.

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ANTENATI Riabilitare la memoria contro l’amnesia e contro ogni tentazione narcisistica di ripensare un passato di cui ci si sente eredi. Rinnovare criticamente.

ERMES - MERCURIO : IN CAMMINO VERSO IL LINGUAGGIOdel Fr. Stefano Scioli, 9° Grado Atto I L’estate del 1985 fu assai operosa per Italo Calvino. A impegnarlo c’era un difficile compito: l’esercizio di traduzione de Le chant du styrène di Queneau. Dello stesso autore francese, Calvino, nel 1967, aveva tradotto in italiano Les fleurs bleues (1965), sul rapporto tra storia e felicità individuale. Queneau – si ricordi – era uno dei principali intellettuali la cui opera aveva incuriosito Calvino nel corso del lungo soggiorno parigino, protratto dal luglio 1967 al 1980. Ma non basta. Quell’estate del 1985 vedeva un altro oneroso impegno gravare sulle spalle di Calvino. L’anno precedente gli era giunto, infatti, l’invito a tenere a Harvard, per l’anno accademico 1985-86, un ciclo di sei conferenze, le «Charles Eliot Norton Poetry Lectures». Era la prima volta che tale prestigio toccasse a un italiano. Ricordano i biografi ch’egli si mise subito al lavoro e al principio del settembre 1985 aveva completato la stesura di cinque delle sei conferenze previste: Leggerezza; Rapidità; Esattezza; Visibilità; Molteplicità. L’ultima, destinata a intitolarsi Consistency, l’avrebbe scritta direttamente a Harvard. Ma le cose andarono in modo diverso dal previsto. Non scriverà mai la sesta né mai leggerà le lezioni preparate perché, colpito da ictus cerebrale nel primo pomeriggio del 6 settembre 1985 – si trovava nella villa di Roccamare –, si spense all’ospedale di Siena nella notte tra il 18 e il 19 settembre. I Six memos for the next Millennium usciranno postumi nel 1988 con il titolo – indicato da Esther Calvino, curatrice del volume – Lezioni americane: consuntivo dell’esperienza di una vita, dichiarazione di poetica, lascito – in forma di proposta – per le nuove generazioni. Tutto questo, seppur di non secondario interesse, non avrebbe messo conto d’essere ricordato qui e ora se non perché esso coinvolge un aspetto che assume rilievo per il nostro discorso. Ne abbiamo già parlato – sulle pagine di questa rivista – a proposito dell’esperienza di Wickipedia. Nella seconda lezione, infatti, lo scrittore si concentra sulla «rapidità» nella letteratura, e mentre ne elogia i meriti in termini di «agilità», «mobilità», «disinvoltura» dello stile e del pensiero («tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte»), ecco che egli tributa una «lode speciale» a un dio particolare dell’Olimpo: Ermes-Mercurio, «dio della comunicazione e delle mediazioni, sotto il nome di Toth inventore della scrittura, e che, a quanto ci dice C. G. Jung nei suoi studi sulla simbologia alchimistica, come “spirito Mercurio” rappresenta anche il principium individuationis». Prosegue Calvino: «Mercurio, con le ali ai piedi, leggero e aereo, abile e agile e adattabile e disinvolto, stabilisce le relazioni degli dèi tra loro e quelle tra gli dèi e gli uomini, tra le leggi universali e i casi individuali, tra le forze della natura e le forme della cultura, tra tutti gli oggetti del mondo e tra tutti i soggetti pensanti». Calvino, scegliendo proprio Ermes-Mercurio a «patrono» della sua «proposta di letteratura» (ma dopo la lettura dell’Histoire de notre image di André Virel, accostato, non senza cautele, quando era intento a studiare la

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simbologia dei tarocchi), sunteggia mirabilmente – nelle parole citate – alcune delle principali caratteristiche riconosciute da una plurisecolare tradizione all’antica divinità. Ma ciò che, tra tutte, maggiormente lo interessa, in questa sorte di trickster (com’è stato definito dall’antropologia), è il carattere di “vettore comunicativo” riconosciuto al dio, di “messaggero” che reca annunzio, e che, per così dire, fa da tramite, inter-mediario (e tra-duce? inter-preta?), stabilendo relazioni tra entità e universi di discorso. Atto IIRacconta il mito che Ermes, nato all’aurora da Zeus e da Maia in un antro del monte Cillene in Arcadia, «ricca di greggi», a metà del giorno già suonava la lira, ricavata dal guscio di una tartaruga, trovata sul limitare della spelonca, e a sera rubò le giovenche di Apollo «saettante». La tradizione greca accanto alla sua destrezza, intelligenza e rapidità, ricorda anche l’astuzia e la scaltrezza, con accenni al suo fare ingannatore. Da questi caratteri essenziali derivano le altre sue doti: è il messaggero degli dèi, signore dei sogni, il dio del vento e del tempo meteorologico, l’amico dei viandanti (di cui testimonianza erano, lungo vie e sentieri, le “erme”), amico dei mercanti, del traffico e del commercio (un guadagno inaspettato era appunto detto Hermaion), è patrono delle scienze e delle arti, della parola e del discorso (era nominato Ermes Logios), e delle attività umane (ritenuto autore di utili invenzioni, dall’alfabeto ai numeri, dall’astronomia alla musica, dalle arti della guerra alle misure di lunghezza e di capacità), ma anche sodale dei ladri e dei truffatori. Le sue relazioni con l’Arcadia, terra ferace, ne fecero presto il dio della fertilità, la divinità dei pascoli e delle greggi, il promotore di ogni sorta di vegetazione; dio giovane e agile, divenne protettore della gioventù e delle palestre. Al suo carattere di divinità delle strade, di scorta e di guida, è connesso il suo ufficio di accompagnatore dei trapassati e come tale è in intimo contatto con il mondo sotterraneo. E – ricorda Sichtermann – in quanto ctonio faceva parte dei misteri, specie in Samotracia, e viene messo in relazione con il ciclo dionisiaco. Sempre si rivela amico degli dèi, degli eroi e degli uomini, guida i buoni, ne combatte i nemici. Conduce le Cariti e le ninfe, aiuta gli dèi nelle loro lotte e partecipa anche alla gigantomachia (Enciclopedia dell’Arte Antica, Roma, Ist. Enc. It., s.v.). Sfogliando le principali enciclopedie del sapere antico come il Dictionnaire des antiquités grecques et romaines di Charles Daremberg-Saglio o la Real-Encyclopadie der classischen Altertumswissenschaft di August Friedrich Pauly (rivista da Georg Wissowa, Wilhelm Kroll, et alii), o i più completi repertori di mitologia classica, come il Lexicon di Wilhelm Roscher, il Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae dell’Artemis Verlag e il Thesaurus Cultus et Rituum Antiquorum del Getty, apprendiamo che Ermes era conosciuto come: Cillenio; Psicopompo; Argifonte; Atlantiade; a Roma era detto Alipes. Suoi attributi caratteristici: il petaso, il caduceo, i calzari alati, e ancora: la cornucopia, la borsa del denaro, il flauto e la siringa, l’alloro, la palma, il mirto. In Ermes gli antichi romani ravvisarono il loro Mercurio, dio del commercio e del guadagno (il nome sarebbe in relazione a merx e mercari). Lo ha ricordato Umberto Eco (Interpretazione e sovrainterpretazione, Milano 1995): Ermes, iuvenis et senex allo stesso tempo, trionfa nel II secolo dopo Cristo, un periodo di ordine e di pace, e tutti i popoli dell’impero (in un crogiolo di razze e linguaggi, in un crocevia di popoli e idee) sono «apparentemente uniti da un linguaggio e da una cultura comuni». È un mondo in cui «tutti gli dei sono tollerati»: e in tale dimensione sincretistica, «è possibile che molte cose siano vere allo stesso tempo, anche se si contraddicono l’un l’altra». Ma «se i libri dicono la verità, anche quando si contraddicono, allora ogni loro parola deve essere un’allusione,un’allegoria». «Dicono qualcosa di diverso da ciò che sembrano dire. Ognuno di loro contiene un messaggio

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che nessuno di loro sarà in grado di rivelare da solo. Per poter capir il messaggio misterioso contenuto nei libri era dunque necessario cercare una rivelazione che andasse oltre i discorsi umani, una rivelazione annunciata dalla divinità stessa, grazie alla visione, al sogno o all’oracolo» (nei testi del Corpus Hermeticum, apparsi, nel bacino del Mediterraneo durante il II secolo, Ermete Trismegisto ha la rivelazione nel corso di un sogno o di una visione, in cui il nous gli appare). Insomma: «il pensiero ermetico trasforma l’intero teatro del mondo in un fenomeno linguistico, negando al tempo stesso al linguaggio ogni capacità di comunicazione». Concetto che sembra essere custodito nelle pieghe di un’etimologia ricordata da Giacomo Devoto: il latino medievale hermeticus deriverebbe da Hermes nella sua qualità di inventore dell’alchimia e della chiusura di un vetro mediante la fusione dello stesso: con il doppio risultato di simboleggiare la chiusura assoluta (“ermetica”) e la inaccessibilità (“incomprensibile”). Atto IIINegli anni parigini Calvino visse, con discrezione, la vita culturale d’oltralpe: seguì i seminari di Roland Barthes e di Claude Lévi-Strauss, fu reciproca la stima con il filosofo Michel Foucault, con il semiologo Algirdas Julien Greimas e con François Wahl (dirigente delle Éditions du Seuil), ma frequentò soprattutto «un gruppo che nessuno sa che esista, l’Ou-li-po, amici di Raymond Queneau, poeti e matematici che hanno fondato questo Ouvroir de Littérature Potentielle, un po’ nello spirito di Jarry e di Roussel. [...] (Colloquio con Ferdinando Camon [1973]; in Saggi, 1995, II, p. 2789). In quegli stessi anni, proprio in Francia un intellettuale di rilievo faceva di Ermes il simbolo di un passaggio epocale: Michel Serres nel 1969 avviava un progetto – assai ambizioso – di «filosofia della comunicazione» sotto il «segno» di Ermes. La svolta era quella che dal mondo della produzione e dell’industrialismo (di cui Prometeo era assunto a simbolo più compiuto) si era giunti a quello della comunicazione e dei messaggi (di cui Ermes, appunto, non poteva non essere emblema maggiormente rappresentativo). E lo sforzo di Serres si concentrava proprio sul tentativo di «disegnare l’orizzonte di una nuova cultura della comunicazione e dello scambio», in grado di unire – in felice convergenza – le scienze, le arti, le leggi e le religioni, con un patto profondo («morale») tra uomini e natura. Il progetto serresiano – leggiamo nell’Editoriale del numero 35 di «Riga», dedicato a Serres, a cura di Gaspare Polizzi e Mario Porro – «opera tutte le possibili variazioni nell’area semantica della complessità, prediligendo le pratiche suggerite dal prefisso inter (inter-sezione, inter-cettazione, inter-ferenza), segue i cammini tracciati da preposizioni, il per (nel senso di “attraverso”), il con, il tra, e dunque il mélange e l’ibridazione». D’altro canto, Ermes è primariamente portatore di messaggi, annunci, profezie, quindi interprete. La derivazione dell’ermeneutica da Ermes è un ricostruzione a posteriori, come ha mostrato Kerényi (Hermeneia und Hermeneutik, in Id., Griechische Grundbegriffe, Zürich 1964, pp. 42-52). EpilogoPrima di accingermi a scrivere il mio contributo (il tema è arduo, articolato, assai ampio, la bibliografia è sterminata: impossibile padroneggiarla tutta, per qualità e quantità di materiali), sono andato su Internet, moderno Archivio degli Archivi, Memoria delle Memorie, Enciclopedia delle Enciclopedie, e ora anche (quasi) Biblioteca delle Biblioteche…, sono andato su Internet – dicevo – a cercare un aiuto, qualche traccia, qualche percorso. Se si interroga un motore di ricerca come Google si scopre che “Ermes” ottiene ad oggi circa 847.000 risultati, con la variante «Hermes» si sale addirittura a 124.000.000, per “Mercurio” si trovano, invece, 28.600.000 siti. Dopo avere esplorato alcuni di questi siti, tuttavia, ho deciso che potevo lasciare cadere gli

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altri: troppe le insidie. Decido di passare alla mia cartacea biblioteca domestica: nel tempo ho finito per foderare tutt’intorno le camere della mia abitazione, già cariche di pile di libri che, ammonticchiandosi ovunque, sempre più stanno invadendo tavoli e ripiani disponibili…, con alte scaffalature ricolme di volumi de omni re scibili… E, muovendomi tra fogli, ritagli e appunti ma anche CD-ROM, DVD, chiavette USB, trovo, in un cantuccio, quasi sommerso dagli ultimi acquisti fatti in libreria, ancora intonsi, un volumetto, antico possesso. Iuvenis et senex... All’interno un segnalibro mi ricorda una traccia di lettura, di anni passati. Ma i versi sono di immacolata Bellezza. Mi indicano una strada, sembrano recare da lontano un messaggio che è forse profezia o annuncio. Eccoli. Sono i versi di un grande poeta polacco, Czesław Miłosz, Il senso:

Quando morirò vedrò la fodera del mondo.L’altra parte dietro l’uccello, la montagna, il tramonto.Il vero significato che vorrà essere letto.Ciò che era inconciliabile, si concilierà.E sarà compreso ciò ch’era incomprensibile.Ma se non c’è una fodera del mondo?Se il tordo sul ramo non è affatto un segno,ma solo un tordo sul ramo, se il giorno e la nottesi susseguono senza badare a un sensoe non c’è nulla sulla terra, oltre questa terra?Se così fosse resterebbe ancora la parolasuscitata una volta da effimere labbra,che corre e corre, messaggero instancabile,nei campi interstellari, nei vortici galattici,e protesta chiama grida.

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8 I LUOGHI DELLO SPIRITO

I LUOGHI DELLO SPIRITO Luoghi straordinari in terre consa-crate dalla storia. Invenzioni miracolose che cercano radici nella presenza del passato e nutrono memorie nell’immagine e in culti millenari. Appare vitale, nell’indefinitezza degli spazi fisici, l’esistenza di “spazi differenti” per scoprire l’altro che è in sé.

TRA ETICA E DIETETICA: Cibo per il corpo, nutrimento dello spiritodel Fr. Giovanni Greco, 30° Grado

Mentre l’Expo di Milano apparecchia la tavola coi cibi del mondo per nutrire il pianeta, anche “Informazione Scozzese”, dopo aver riflettuto sul corpo e sugli stili del corpo, indugia a parlare del cibo come cultura, come luogo dello spirito e motore della società: facendo così eco a Piero Camporesi che, dopo aver analizzato la corporeità dell’uomo, interessatosi al cibo, parlava di “gustemi artusiani” in contrapposizione agli stilemi manzoniani. Giova infatti ricordare che prima dell’alfabetizzazione degli italiani favorita dalla lingua del Manzoni, Pellegrino Artusi con “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, illustrando al meglio le ricette regionali, trasformò la frammentazione regionale italiana da una debolezza a un punto di forza: con l’arte di elaborare nel migliore dei modi le cose più semplici, a portata di mano e di borsa. Dalle castagne alla pizza, dal pane al pomodoro. E mentre il principe longobardo Adelchi, raccontato dal Manzoni, mangiava “come un leone affamato che divora la preda”, in silenziosa ritualità i monaci durante i pasti ascoltavano i passaggi della tradizione. E mentre mangiavano compivano gesti e dicevano parole ad hoc: precetti per una vita equili-

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9 I LUOGHI DELLO SPIRITO

brata che facevano vivere i monaci più a lungo degli aristocratici. “Son le cene son-tuose allo stomaco dannose”. La possibilità di mettere sulla tavola, con ostentazione teatrale, una grande quantità di cibo, era una pratica dei ricchi, o di chi tale voleva apparire. “Dei magri bisogna diffidare”. Così Shakespeare ironizzava quando il “gras-so era bello”, e la gotta era una malattia comune tra gli aristocratici. Solo in tempi più recenti la magrezza è divenuta sinonimo di agilità e di benessere; e il caffè l’alimento che meglio si attaglia al magro, perché ha il carattere dell’efficienza e dell’intelligenza. Quando lo si produce, quando lo si prepara, quando lo si consuma, il cibo è da sempre un fatto culturale, esito d’invenzioni, incroci e contaminazioni: di pratiche imposte dalle risorse disponibili, dal calendario astronomico e dal calendario religioso, da preoccu-pazioni sanitarie e dalle mode alimentari. E da fatto culturale il cibo si trasforma spes-so in luogo dello spirito. Le riflessioni sull’alimentazione sono antichissime. Cibi “per ristorare le forze, non per opprimerle” , scriveva Cicerone. Basti ricordare i millenari precetti della Scuola Salernitana, stimata da Petrarca quale fonte della medicina. Quei precetti, frutto di acute osservazioni, di buon senso e di rispetto per la natura, resistono all’usura del tempo e sono ancora oggi validi: da “mente ognor lieta, dolce requie e sobria dieta” a ”il cibo che sia la tua medicina”, da “se dai mali vuoi guardarti, se vuoi sano ognor serbarti, sii nel ber, nel mangiar parco” al “meriggio il sonno schiva”. Indagando in tal modo tra le carte del processo al cibo, scopriamo vari aspetti: ognuno dei quali rinvia all’altro come nel gioco di sponda del biliardo. Conservare più a lun-go: essiccando, affumicando, salando, zuccherando, acidificando, raffreddando. Chi non ricorda le ghiacciaie pubbliche o private in cui si tenevano la neve e il ghiaccio per mantenere freschi gli alimenti? Apparecchiare la tavola e predisporla al pranzo prima dei sapori: magari con una candela accesa e un vaso di fiori al centro; con una tovaglia di un particolare colore e stoffa; piatti, bicchieri, posate consone. L’atto del ci-barsi, dal pasto solitario alla convivialità, coi gesti e le liturgie del vivere insieme e del mangiare insieme intorno alla stessa tavola: atto di parentela e di amicizia intorno a un tavolo le cui caratteristiche mutano con le latitudini e col tempo. In Occidente dal Me-dioevo alla Modernità il tavolo è prevalentemente rettangolare e il posto è assegna-to secondo il prestigio del commensale; poi nella post-modernità fluida il tavolo, che riunisce gli ospiti, diventa rotondo e ogni gerarchia si stempera nella circolarità. Anche il pasto di casa con la famiglia è cambiato significativamente. Fino a pochi decenni fa mangiare a tavola, con i propri genitori, richiedeva un certo impegno: non ci si poteva alzare da tavola fino alla fine del pasto; bisognava mangiare ogni cosa anche se non gradita; bisognava essere educati e rispettosi specie con gli ospiti; alzarsi leggermen-te dalla sedia se un commensale si assentava per qualche istante; non intervenire se non richiesti, e comunque rispondere in modo pertinente. Ricordo che in quegli anni, in assenza di mio padre, bandendo l’etichetta, quando c’era l’anguria, mia madre diceva trasgressiva a me e a mia sorella: “ Papà non c’è”. “Guagliu’ mo’ lavammece ‘a faccia”. E giù a mangiare con le mani, con la faccia affondata nel gustoso frutto. Sempre in quegli anni, a ricordare il contrasto post-bellico fra fame e abbondanza, il cinema italiano produceva nel 1954 due film memorabili destinati a rimanere a lungo nell’immaginario collettivo. Uno con un Alberto Sordi, innamorato dell’America: “Mac-carone, m’hai provocato e io ti distruggo, maccarone io mo’ te magno”. L’altro con Totò che in “Miseria e nobiltà” salta e balla sul tavolo per la felicità di poter finalmente mangiare: mangia con le mani e si mette gli spaghetti in tasca. La pasta diventa un luogo dello spirito, simbolo di un’Italia che cerca di riprendersi dopo le tragedie della guerra e che lotta contro la fame e la miseria. A casa nostra, dice Totò, “nel caffellatte,

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non mettiamo né il caffè, né il latte”. Quei tempi sembrano oramai lontani e, alle nostre latitudini, siamo passati dalla necessità all’arte del mangiare. Si generalizza dicendo che oggi l’uomo è ciò che mangia: il cibo come luogo dello spirito, alimento per l’anima. Ma alla fine tutto si frammenta e si polverizza, secondo le prosaiche valutazioni della Scuola medica salernitana, che così recita: “defecatio mattutina bona tanquam medi-cina, defecatio meridiana neque bona neque sana”. Confidiamo almeno nella prima …

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11 LESSICO SCOZZESE

LESSICO SCOZZESE: LA SCELTA DELLE PARO-LE E LE SUE SFIDE Affinché le nostre parole acquistino un valore garantito contro l’inflazione banalizzante, le contraffazioni e le insensatezze del senso comune. Per nominare, nella quotidiana Ba-bele, un presente frantumato, estraneo eppure invadente. Un diziona-rio, sia pure incompiuto, di libertà e mutamento.

PREGIUDIZIOdel Fr. Edoardo Ripari 4° Grado

Prae-iudicium: i molti significati assunti dalla parola, di derivazione latina, rimandano alla nozione di “giudizio prematuro”. Parte del senso comune, il pregiudizio è una for-ma di pensiero caratteristica di un gruppo che plasma e dirige l’atteggiamento dell’in-dividuo nella comprensione della realtà. Esso può variare da gruppo a gruppo e porre una comunità e l’individuo, che ne fa parte, in un rapporto di rivalità o di ostilità verso individui e comunità appartenenti a culture differenti. Il razzismo è un pregiudizio: si ha paura dell’altro quando lo si giudica senza conoscerlo. Se ignoranza e paura ca-ratterizzano la psicologia del pregiudizio, il “punto di vista” ne è la piattaforma ideolo-gica: riflesso d’idee preconcette, relative a un pensiero sistematico autoreferenziale e onnicomprensivo. Nella sistematica autoreferenzialità di un pensiero storicamente superato, il pregiudizio diventa superstizione: elemento “selvaggio”, superstite, in seno ad una società che vuole essere illuminata e razionale; che ha ridotto il “religioso” a un cumulo di credenze come la magia nell’età della scienza e la religione rivelata dopo il trionfo dell’Aufklärung teistica. Nell’orizzonte razionale del Seicento inglese, Francis Bacon scriveva nei Saggi, a proposito della superstizione: “Sarebbe meglio non avere alcuna opinione di Dio, piuttosto che averne una indegna; infatti nel primo caso si ha miscredenza, nel secondo, oltraggio; e senza dubbio la superstizione è discredito della Divinità». All’inizio della rivoluzione scientifica il concetto di pregiudi-zio ha dunque una valenza negativa: è assunto quale fattore psicologico che altera l’esperimento, imprescindibile verifica dell’ipotesi. Mentre l’empirismo si afferma come lotta senza quartiere contro ogni pregiudizio, paradossalmente nella modernità conti-nua la stagione della caccia alle streghe. Jean Bodin, teorico della tecnologia politica e della Ragion di Stato avvalora l’esistenza del patto col Diavolo e del viaggio estatico del Sabba in “De la demonomanie des sorciers” . E il pregiudizio cammina affianco al vero, nel percorso dialettico che porta all’evoluzione della conoscenza. L’Illuminismo, postulando una scienza e una società immuni da pregiudizi, si è affermato come lotta a superstizione e a preconcetti. «Uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso», per l’«incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro». L’ Aufklärung di Imanuel Kant pone l’intelletto come guida del singo-lo: «Sapere aude» ne diventa il «motto». «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» è il monito rivolto all’uomo del XVIII secolo, nonostante la maggioranza degli uomini ritenga il «passaggio allo stato di maturità, oltre che difficile, anche molto pericoloso». «È tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta

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che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione». Ed ecco che «tutori» incapaci di «ogni lume» hanno seminato pregiudizi tanto più pericolosi quanto più «essi finiscono per ricadere sui loro autori o sui predecessori dei loro autori». Per questo il «pubblico» potrebbe giungere al ri-schiaramento solo molto lentamente. «Forse», scrive Kant, «una rivoluzione potrà sì determinare l’affrancamento da un dispotismo personale e da un’oppressione avida di guadagno e di potere, ma mai una vera riforma del modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno al pari dei vecchi a mettere le dande alla gran folla di chi non pensa. Sennonché a questo rischiaramento non occorre altro che la libertà; e più precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi». Per il pessimista Schopenhauer, però, la ragione è di tutti, di pochi sono il giudizio e il pensiero. Se il pensatore ha il compito di attaccare gli errori, l’umanità, dall’altra parte, «dà in alti strilli», comportandosi come un «ammalato di cui il medico tocchi la piaga». L’uomo, insomma, è «aperto all’illusione, essendo abbandonato a tutte le chimere possibili e immaginabili che gli si danno a intendere, e che, agendo come motivi della sua volontà, possono spingerlo a storture e stoltez-ze di ogni genere, alle stravaganze più inaudite». Alla grande massa sono inculcati pensieri, col passar del tempo, refrattari a qualunque insegnamento: «come fossero innati». Si possono imprimere negli uomini anche le cose più assurde: «si può per-sino abituarli ad avvicinarsi a questo o a quell’idolo solo compresi di sacro orrore e a gettarsi nella polvere non solo col corpo, ma anche con tutto l’animo, al solo sentir pronunciare il suo nome; a rischiare volentieri i beni e la vita per parole, nomi e per la difesa dei capricci più strampalati; ad attaccare a questa o a quella cosa, a piace-re il più grande onore o la più profonda ignominia, e ad apprezzare o a disprezzare ciascuno in base a ciò con profonda convinzione; a rinunciare a ogni nutrimento ani-male, come nell’Indostan, o a mangiare i pezzi ancora caldi e palpitanti, tagliati all’a-nimale vivo, come in Abissinia; a mangiare gli uomini, come nella Nuova Zelanda, o a immolare i loro figli a Moloch»; a immolare persino se stessi per uccidere i propri simi-li, rei di non credere nello stesso pregiudizio. «Da qui le Crociate, gli eccessi delle sette fanatiche, da qui i chiliasti e i flagellanti, le persecuzioni degli eretici, gli autodafé», l’I-sis e le democrazie imposte dall’alto e dall’esterno, le infibulazioni e le settanta Vergini in attesa di sollazzare in eterno il martire stragista … «e quant’altro mai offre il lungo elenco delle assurdità umane». Ecco gli svantaggi che, «per la rarità del giudizio, sono collegati all’esistenza della ragione», che diventa Terrore non appena è pregiudizial-mente divinizzata. Il sonno della ragione genera mostri: il sonno dei mostri genera ragione! Sebbene con l’illuminismo, nel linguaggio corrente, il concetto di pregiudizio acquisti una valenza negativa, esso non significa necessariamente “giudizio falso”, in-fondato o “errato”, ma può essere considerato concetto neutro, valutabile ora positiva-mente ora negativamente. Voltaire scrive che “vi sono dei pregiudizi ottimi: quelli che il nostro giudizio ratifica poi, quando ragioniamo”. Nell’ottica razionalista solo l’accer-tamento conforme a un metodo, conferisce a un giudizio la sua dignità. La stessa dot-trina dei Lumi avanzava una fondamentale distinzione fra pregiudizi dovuti al riguardo per l’autorità e pregiudizi dovuti alla precipitazione. «Questa divisione – ha osservato Hans-Georg Gadamer – ha la sua base nell’origine dei pregiudizi rispetto alle persone che li coltivano. Ciò che ci porta all’errore è il riguardo per gli altri, per la loro autorità, oppure è la nostra precipitazione». Se, nei più svariati ambiti dello scibile e dei rapporti umani, la precipitazione ci induce all’errore, è pur vero che l’attenzione all’autorità,

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nell’orizzonte della tradizione, resta una condizione imprescindibile del comprendere. In quest’ottica è possibile rivalutare il pregiudizio? Non si tratta certo di svalutare il portato dell’Illuminismo, entro le cui coordinate storiche è nata la stessa Massoneria, con la sua carica critica e libertaria; ma è necessario tradurlo in un “nuovo” illuminismo, che diventi consapevole del fatto che stare dentro a delle tradizioni non significa affatto sottostare a limitazioni di libertà nella ricerca della verità. È la stessa esistenza umana, anche la più libera, a essere «limitata e condizionata in maniera molteplice». Già Heideg-ger, nella consapevolezza che il mondo in quanto linguaggio è “aperto”, pensava al «pregiudizio» (Umsicht) come a una «visione ambientale preveggente»: un «prendersi cura», un ispezionare l’ambiente, con attenta premura e preoccupazione costante. La tradizione scozzese – considerando il pregiudizio condizione indispensabile della com-prensione – postula un nuovo illuminismo che rifiuta la scelta radicale fra autorità e ra-gione e nella traduzione della tradizione individua il «momento della libertà e della sto-ria stessa». Perché. come osserva Gadamer, «noi stiamo costantemente dentro delle tradizioni, e quest’atteggiamento è qualcosa che già sempre sentiamo come nostro». Quello della nostra tradizione resta un «momento» da salvaguardare e difendere con la lucidità critica dell’uomo capace, che ha compreso il carattere ontologico e costitutivo del pregiudizio. In estrema sintesi: Il nostro senso d’appartenenza sta nella riabilitazio-ne ermeneutica e epistemologica di determinati pregiudizi fondamentali e costitutivi.

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PER UNA SOCIETÀ DECENTE “Il problema non è di realiz-zare la società giusta, ma piuttosto la società decente”. “Decente è la società le cui istituzioni non umiliano le persone”. (A. Margalit)

Nel pensare la società decente, perché penso le architetture del tempo e scrivo sui tempi della natura e sui tempi della società, sul tempo collettivo e sul tempo individua-le, sul tempo ciclico e sul tempo lineare? Sul tempo: come divinità e come flusso di eventi? In verità io penso che il massone sia non soltanto un predicatore d’ideali, ma un negoziatore di problemi: lungo quel confine frastagliato che esiste tra conoscenza fondata e conoscenza non ben fondata, egli interviene quando scorge segnali che impongono l’identificazione di un nuovo problema. Scrivendo sull’alternarsi del giorno e della notte, egli scrive la storia della condizione umana, che gli uomini raccontano instancabilmente agli uomini, quale trama variabile sia del compimento di un ciclo sia dell’apertura di una possibilità inaudita. Queste due prospettive produssero un’oscilla-zione semantica nel 18° secolo, quando l’antico senso di rivoluzione, abitualmente intesa come il moto ciclico di un pianeta, finì col significare il mutamento radicale. Tuttavia la rivoluzione che sfugge al senso astronomico del termine non è, come so-vente pare, quella politica, ma la rivoluzione della tecnica. Le rivoluzioni politiche propongono un tempo ciclico le cui variazioni sono oscillazioni periodiche intorno al giogo dell’identico: quel tempo che ritorna alla religione ortodossa dopo la “rivoluzione d’ottobre” e a Confucio dopo la “ lunga marcia”. La rivoluzione della tecnica, invece, propone un modello lineare e irreversibile del tempo che non ritorna alle candele dopo

ARCHITETTURE DEL TEMPO: ACCORDARE I DISACCORDI del Fr. Giovanni Casa 33° Gr. M.A. Gran Segretario – Gran Cancelliere Aggiunto

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la lampadina elettrica né ai velieri dopo la macchina a vapore. In altri termini: Internet e container hanno cambiato il mondo più di Mazzini, Marx e Mao. E le rivoluzioni più sovversive sono quelle che nessuno ha programmato o predicato: quelle delle piccole cose che cambiano tutto. A ben vedere la storia di un individuo calcolata in anni, s’incastra nella storia di un paese calcolata in secoli, così come la storia delle civiltà calcolata in millenni s’incastra nella successione delle ere geologiche calcolate in mi-lioni d’anni. In questi contesti temporali sovrapposti la memoria animale della specie si umanizza con la tecnica, che trasforma il primate in sapiens, e si tempera nell’etnia. Da sempre gli esseri umani si muovono nella complessa architettura del tempo ora intenti, a cogliere il proprio ticchettio interiore ora volti a dare ordine, senso e misura agli eventi esterni. Io, ad esempio, venni alla luce di fronte al mare d’Africa, su una collina d’arenaria rossa. Durante l’infanzia, dall’alba al tramonto, vedevo scorrere nello stesso giorno le quattro stagioni dell’anno. E credevo che l’eternità fosse il mare che abbraccia il cielo. Alcuni anni più tardi, spinto dal caso lontano dal mare, sotto altri cieli scoprii che vi è il tempo figlio delle nostre invenzioni e il tempo padre delle nostre servitù; e che ogni liberazione comporta una nuova servitù. Scoprii che ogni gruppo umano segna la propria differenza addomesticando lo spazio e il tempo entro proprie rappresentazioni simboliche che modulano i ritmi di base con ritmi culturali: uditivi, ot-tici, gestuali, alimentari. Questi ritmi sono fragili, parziali e discutibili. L’arte di accorda-re i disaccordi, l’arte di vivere che si apprende con gli anni, consiste nel mettere in consonanza numerose scale di tempo, come un cronostato che sincronizzi lo sfasa-mento tra l’invarianza dei bioritmi, l’insistenza delle etnie e le accelerazioni dei tecno-sistemi: il balletto dei pianeti, la sistole e la diastole del cuore, il calendario politico e quello religioso, le urgenze della contrazione temporale indotta dalla mediasfera. A questo schema di tre tempi sovrapposti (astronomico, biologico, tecnologico) allude la nostra piramide e quella del metronomo, che prova a reinventare la musica del tem-po in un equilibrio tra battiti più sincroni. Così, col rischio di ricadere nella nostalgia di pericolosi arcaismi, nella cieca adesione al gruppo o nell’inciviltà dell’individualismo, da percorsi differenti continuiamo a ricercare un tempo che ci corrisponda veramente. In verità ridisegnare una figura abitabile del tempo è sempre stato uno dei compiti del tempo a venire. Leggevamo già nell’Ecclesiaste: “Ha la sua ora tutto e il suo tempo ogni cosa sotto il cielo. C’è il tempo di nascere e il tempo di morire, il tempo di piantare e il tempo di estirpare, il tempo di uccidere e il tempo di medicare, il tempo di demolire e il tempo di costruire…”. Se l’innovazione tecnica ha provato a liberarci da condizio-namenti cosmici, biologici e geografici al prezzo di altri condizionamenti operati da sincronizzazioni e da notificazioni onnipresenti, noi non siamo privi di mezzi per rimet-tere ordine nel caos e provare a liberarci anche di questi, senza aggiuntivi costi cogni-tivi. Di fronte all’accelerazione delle nuove tecnologie, all’assalto del capitalismo finan-ziario e al declino dei regolatori rituali, quali Stato, Chiesa e Famiglia, per sfuggire all’antinomia che il tempo è denaro ma il riposo è il bene supremo di chi non ha mai tempo, occorre che gli accidentati dei tempi moderni, con una scelta di esistenza e di pensiero, ritessano la trama lacerata della temporalità come arte di vivere. Può la Mas-soneria aiutare ad aggiornare senza illusioni questa speranza: senza confondere i propri desideri con la realtà? Per abitare umanamente il tempo, nella mappa fluttuan-te delle relazioni i massoni disegnano uno spazio mediano, dove sostare. In questo spazio condiviso e solidale, la consapevolezza della contingenza storica dei linguaggi utilizzati alimenta ogni sforzo di conciliazione. In questo spazio, anche se l’avvenire sembra appartenere a quelli che hanno la memoria lunga, la decostruzione della

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memoria diventa premessa ineludibile dell’intelligenza del quotidiano, perché ciò che appare un’evidenza è spesso il frutto di un’illusione retrospettiva. In questo spazio l’arte della conversazione, mediata dalle buone maniere, intese come riconoscimento dell’altro e legame etico alla vita, diventa il tempo donato all’altro: il tempo ove ciascuno gusta il momento condiviso. Da questo spazio rinnovo gli auguri di buon lavoro a tutti.

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CROCEVIA Arte, religione e politica. Scienza e tecnica. La storia dei rapporti tra gli uomini incrocia la storia dei rapporti tra gli uomini e le cose. E in questo crocevia s’infrange ogni concezione rettilinea del pensiero umano.

IL RITORNO DEI VOLTIdel Fr. Marco Veglia, 30° Grado

Dalle più remote lontananze, Dio ha prenotato il posto a fianco al nostro. Aereo, treno, bus: poco importa. Chi viaggiava nell’Empireo è seduto accanto a noi. Chi cavalcava le nubi, può condividere col Cavaliere uno stesso destriero. Ciò che prima si profilava tra i cieli, si definisce ora a porta a porta: sul pianerottolo, nella mediazione continua e feconda tra soglie molteplici. «Medium is message». Con un primo corollario: l’Alto non sta senza il Basso, se non altro per la semplice ragione che il Basso è il luogo, il corpo, la carne, ove soltanto ci è dato di fare esperienza della massima Altezza. Hermes, dio viaggiatore, ci domanda la necessaria maturità per trascorrere dall’erme-tismo, che supponeva una verità delocalizzata rispetto alle sue tracce, all’ermeneutica, che interpreta le orme incise sulla terra. Ogni astrazione dalla contingenza della nostra dimora corporea è così una falsificazione della nostra ontologia. Cavaliere avvisato, mezzo salvato. Se l’Occidente possiede con chiarezza argomentativa, almeno dal se-condo Concilio di Nicea (787), il «genio degli intermediari», questo accade perché nel dogma dell’Incarnazione – dalle icone bizantine a Hollywood, dalle pitture murali al digitale – l’esteriore e l’interiore coincidono. Osservava Régis Debray: «il ventre è ciò

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che serve a cantare, la gola a parlare, e l’alito di Dio passa per la mia bocca. Non c’è più incompatibilità tra il godimento del sensibile e l’ascesi della salvezza. […]. La riabi-litazione della carne fonda un attivismo senza tregua né sponde». Ma – secondo corol-lario - ciò che vale nel moto a planare verso la Terra, vale, del pari, o dovrebbe valere, nella traiettoria del decollo. La parola che non dissimula la propria origine connotativa e al tempo stesso metaforica; il pensiero che non vaporizza tracotante la propria sca-turigine carnea; il paesaggio che non dimentica di essere natura, l’economia che non cessa di essere lavoro; la politica che non falsifica la res publica, la comunicazione che non oblia il dovere di esprimere e di esprimersi; la morale che non si astrae dal proprio desiderio e slancio etico; la scienza che non si sradica dalla coscienza: sono tutte stra-de nelle quali, dal Basso verso l’Alto, dalla Terra al Cielo, il ritorno al logos è possibile solo attraverso l’educazione alla «presenza», attraverso una ginnastica della totalità umana. Così, «l’indagine sull’interno sembra progredire con l’investigazione dell’ester-no», e viceversa. Per quanto riguarda la pittura, ad esempio: «soggettivazione dello sguardo, oggettivazione della natura: testa e croce di una stessa moneta». Quanto più la rappresentazione del volto umano si allontanava dalla dimensione religiosa dell’i-cona, tanto più l’arte pittorica si faceva realistica. E quanto più si faceva realistica, tanto più, paradossalmente, onorava in se stessa la dimora in carne ed ossa del Dio evangelico dalle rosse chiome. Poiché la parola è il vettore dell’uomo e, dopo Nazaret, l’uomo è il vettore della parola: in ebraico, dabar significa insieme parola ed evento. La nostra «disattenzione ottica» e cognitiva, esito di una «videosfera fluida e nomadica», tende allora a una «smaterializzazione dei supporti», a sua volta radice di una cultu-ra, di una politica, di una finanza, di una scienza, di un’arte, sempre meno legate alla terra, al corpo, al «faccia a faccia» con l’uomo. Erosa la comunità, violentata la natura, brutalizzato il paesaggio, gli uomini si trovano a dover affrontare da soli gli effetti colla-terali di una società che sempre più rimuove con fastidio il contatto e la prossimità con gli altri uomini e il vincolo solidale che ad essi ci lega. La velocità stessa della comuni-cazione, attivando per compensazione ritorni arcaicizzanti e identitari, che alimentano i fondamentalismi, minaccia il “nomos” della terra e ci lascia letteralmente “spaesati”, mentre le nostre strutture percettive riconoscono sempre nella pagina – sia web, sia cartacea – l’antefatto dell’antico pagus, geometricamente solcato e ordinato. Nell’o-pulenza della Roma barocca, Agostino Mascardi, per definire lo stile di uno scrittore discorreva invece dell’«aria di un volto», con la stessa metafora che avrebbe secoli più tardi utilizzato Emmanuel Lévinas. La sola possibilità di una convivenza pacifica e mite sembra così passare attraverso la continguità dei corpi, la reciproca ibridazione delle differenze in una costante e intelligente «fusione degli orizzonti». Al Cavaliere Scozzese, che rilegge i tempi arcaici con occhiali contemporanei, mentre osserva la post-modernità conformandosi a un’etica senza data di scadenza, e che, nel mondo globale, si ostina a coltivare il proprio cosmopolitismo attraverso l’umanità di una «so-cietà stretta» caratterizzata da parole remote e gesti rituali, ma anche da un pensiero aperto all’altrui diversità, quale compito si viene oggi a proporre? Forte di una moltitu-dine armonica di linguaggi e di riti, egli deve forse impegnarsi a coltivare una sorta di vocazione mediologica a tracciare il corpo nel cerchio, come pure a delimitare il corpo con la circonferenza che ne sigilla la perfezione. L’uno non sta senza l’altro. Del resto, ogni dottrina non si manifesta attraverso un maestro? Nel suo libro Tornino i volti, Italo Mancini osservava che «il nostro mondo» non è dato «da una neutra teoria dell’esse-re», come pure dagli eventi della storia o dalla realtà stessa della natura, «ma è dato dall’esserci di questi inauditi centri di alterità che sono i volti, volti da guardare, da

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rispettare, da accarezzare». Volti umani, tracce o promesse permanenti di futurafelicità, secondo la celebre speranza di Albert Camus: «C’è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei restare fedele a entrambi».

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20 LA BIBLIOTECA IDEALE

LA BIBLIOTECA IDEALE Per far vivere libri senza i quali è dif-ficile pensare il mondo. Rigorosa e ludica. Definitivamente provvisoria o provvisoriamente definitiva.

DON CHISCIOTTE : LANCIATI VERSO L’IDEALE MA SENZA AMOR DEL VEROdel Fr. Gabriele Duma, 9° Grado

Preso per mano da una gustosa intervista di Michel Serres, che indica nel Don Chisciotte di Cervantes un capolavoro che fa viaggiare un cavaliere ubriaco di libri (le cui parole e i cui atti non sono che citazioni), in compagnia d’un improbabile servitore, dalla cui bocca non escono che proverbi, (ossia pensieri senza firma, frasi senza auto-re, idee senza referenze, saggezza senza garanzia), certo che quel monumentale dia-rio d’un cavaliere ridicolo non debba mancare alla biblioteca ideale d’uno Scozzese, mi accingo a rileggerlo: curioso di verificare le tracce dell’intuizione del filosofo francese. Mi pare un buon richiamo all’autocritica e, conscio di quanto spesso si confonda il sano argomentare con la capitolazione intellettuale del mondano riferimento griffato, consapevole di quanto ci si abbandoni all’uso delle armi di cartone del pensiero altrui, proprio nei luoghi in cui maggiormente ci si picca d’affinare la spada della lingua e del ragionamento, apro l’antico volume.Trascorrono le pagine e riscontro con Serres che, mentre Don Chisciotte si muove nella complicata e virtuale selva delle citazioni caval-leresche, persino il suo cavallo, la sua armatura, il suo elmo non sono che grottesche derivazioni dai romanzi cortesi, Sancio invece, non meno spaesato, tenta di decifrare la grandinata di dolorose esperienze in cui Don Chisciotte lo trascina, passandole al vaglio dei detti popolari che conosce, che sono l’esatto contrario della citazione.In realtà non di rado lo stesso cavaliere dalla triste figura abbandona, almeno nel linguaggio, le vette della sua letteratura per ritrovare modi più accessibili allo scudiero.<<... fratello Panza – replicò Don Chisciotte -, ti rendo noto che non c’è memoria che il tempo non consumi, né dolore a cui la morte non dia termine. – E ci può essere una disgrazia più grande – replicò Panza – di quella che deve aspettare che il tempo la consumi e che la morte le dia termine? Se almeno questa nostra disgrazia fosse di quelle che si curano con un paio di empiastri...- Lascia perdere, e fatti forza del-la tua stessa debolezza, Sancio – disse Don Chisciotte... – La sorte lascia sempre

La parola scritta m’ha insegnatoad ascoltare la voce umana, press’a poco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue m’hanno insegnato ad apprezzare i gesti degli uomini. Viceversa,con l’andar del tempo, la vitam’ha chiarito i libri.Mi troverei molto male in un mondo senza libri,ma non è lì che si trova la realtà,dato che non vi è per intero.(Marguerite Yourcenar – Mamorie di Adriano,

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una porta aperta nelle disgrazie per potervi trovare un rimedio...>> Sembra allora che entrambi i personaggi rispondano, alla penna che li ha generati, liberando l’autore dal peso della proprietà intellettuale, per regalargli quella immortalità che Michel Serres ben racconta quando scrive: “Chi è un grande autore? Quello che (a costo di perdere i diritti) fa passare una delle sue frasi in proverbio.” Nel tepore della biblioteca idea-le continuo a sfogliare il poderoso tomo, la struttura barocca mi conquista e smarri-sco il mio programma. Abbandonata la caccia a proverbi e citazioni, man mano che procedo, mi rendo conto che la mia attenzione è presa, sospinta e sviata nella ventosa campagna mancega. Lo strano è che mi sembra di incontrare un’altra storia da quella che ricordavo. È il potere dei classici? Non li si legge mai abbastanza? “Un classico è un libro che tutti lodano ma che nessuno legge” scriveva Mark Twain e “la sua fama si manterrà sempre, perché nessuno lo legge” sbottava Voltaire di fronte a certe oscurità dell’Alighieri. Per quanto ci si possa dar da fare a confutare queste affermazioni, ci si ricade comunque dentro. Al di là del quanto li si legga, vero è che i classici sembra-no poter prescindere da se stessi, vivono contemporaneamente dimensioni parallele, oltre la verità oggettiva della scrittura che li ha originati; vivono del racconto, risuonano nelle coscienze, si vestono di mille sfumature soggettive e per questo dialogano alla pari con i tempi che attraversano, sono colti e popolari contemporaneamente. Interro-gano con domande diverse il medesimo lettore che vi si accosti in momenti differenti.Io, del Don Chisciotte, ricordavo un libro che narrava di un sognatore e dei suoi gran-di sogni; ricordavo un esempio valoroso per chiunque, impegnato in battaglie ideali, volesse farsi paladino di giustizia, e scagliarsi senza riserve contro gli incubi imposti all’immaginazione da un mondo in cui non ci si riconosce. Ritrovo ora un testo che mostra un uomo, anzi due, con il medioevo nella testa, persi, che contano di vivere una dimensione eroica e che invece errano tenuti al laccio, in modo differente, da una patologia! E l’ironia, che pure alleggerisce la cupezza e il dolore di certe situazioni, fino a bagnarle di vero e proprio riso, non disinnesca il potere del morbo. Don Chisciotte è maldestro, a volte tenero, altre pericoloso, guastato dalla, anche buona, letteratura cavalleresca, come Paolo e Francesca lo sono dal libro Galeotto, e Madame Bovary dalla stampa frivola del suo tempo. E il riso, che il Cavaliere dalla triste figura col suo goffo scudiero regalano è amaro quanto le lacrime degli amanti infernali: è amaro come la disperazione dell’annoiata borghese adultera. Sancio, dalla sua, insegue un’i-dea di prosperità tanto aleatoria quanto per il suo asino potrebbe esserlo la classica carota che lo invita a procedere. La soluzione non sta certo nel rogo della colpevole letteratura. La questione è che abbiamo a che fare con personaggi in balia d’una tempesta che li conduce, personaggi forse pieni di passione, ma prima di tutto ma-gnificamente negativi ed esemplari, perché incapaci di governare l’alta navigazione dell’intelletto sano; menati da un’esperienza che non può procedere verso la luce, per-ché soggiace alla sola forza di gravità, potrebbero ritrovarsi tutti, fatalmente, fra quelli di cui Dante dice: “la ragion sommettono al talento”. Fermo il pensiero e mi dedico ad un capitolo esemplare: << Di ciò che avvenne al fantastico cavaliere nella locanda che egli immaginava fosse un castello. Il locandiere, vedendo don Chisciotte di tra-verso sull’asino, domandò a Sancio di che male soffriva. Sancio rispose che non era niente, che era venuto giù dall’alto di un picco e aveva le costole un po’ indolenzite. Il locandiere aveva per moglie una donna che non somigliava alle altre del suo genere, perché era di indole caritatevole e si doleva delle disgrazie del prossimo; perciò si prese subito cura di don Chisciotte, e ordinò a una sua figliola donzella, giovane e di aspetto grazioso, che l’aiutasse a curare l’ospite. C’era inoltre a servire nella locanda

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una ragazza asturiana, dal viso largo, la nuca rientrata, il naso camuso e un occhio storto e l’altro non molto dritto. Però con la gagliardia del corpo suppliva agli altri difetti, perché non arrivava a sette palmi dai piedi alla testa, e le spalle, alquanto ingobbite, la costringevano a guardare in terra più di quanto essa avrebbe voluto. Questa serva gentile aiutò dunque la figlia dell’oste, e fra tutt’e due prepararono per don Chisciotte un letto infame, in un camerone che dava manifesti indizi d’aver servito in altri tempi e per molti anni da pagliaio; e nel quale alloggiava anche un mulattiere, che aveva il suo letto rifatto un poco più in là... - Non sono state bastonate - disse Sancio -. Il fatto è che la roccia aveva molte punte e sporgenze, e ciascuna ha lasciato il suo livido. E disse anche: - Faccia in modo, signora, che avanzino un po’ di filacce, che non man-cherà chi ne avrà bisogno; perché anche a me mi dolgono un po’ i lombi.- Allora - disse la locandiera - dovete esser caduto anche voi. - No, non son caduto - disse Sancio Panza - ma a veder cadere il mio padrone ho avuto un tale soprassalto che mi sento spezzato tutto il corpo, come se m’avessero date mille bastonate....- Come si chiama questo signore? - domandò l’asturiana Maritornes. - Don Chisciotte della Mancia - ri-spose Sancio Panza -; ed è cavaliere di ventura, e dei migliori e più forti che da lunghi tempi in qua si siano visti al mondo. - Che cos’è un cavaliere di ventura? - tornò a domandare la serva. Siete cosi novella al mondo che non lo sapete? – rispose Sancio Panza. - Sappiate, sorella mia, che cavalieri di ventura è una cosa che in due sole pa-role si può veder bastonato o imperatore: oggi è la più disgraziata e oppressa di tutte le creature del mondo, e domani avrà due o tre corone di regni da regalare al suo scu-diero. - E com’è che voi, che lo siete di questo bravo signore - domandò la locandiera -, a quanto pare, non avete neppure una contea? - Ancora è presto - rispose Sancio -, perché è solo un mese che andiamo cercando avventure, e finora non ce n’è ca-pitata nessuna che lo sia stata effettivamente. ... Stavano trasecolate la locandiera e sua figlia e quella buona diavola della Maritornes a sentire i discorsi del cavaliere errante, che non capivano più che se li avesse fatti in greco, ma intuirono però che miravano tutti a profferte e dichiarazioni; e non essendo avvezze a simile linguaggio, lo guardavano e si meravigliavano, e sembrava loro un uomo completamente diverso da come erano tutti; e ringraziatolo con frasi locandieresche delle sue profferte, se ne andarono... Il mulattiere s’era messo d’accordo con l’asturiana che quella notte se la sarebbero spassata assieme, e lei gli aveva dato la sua parola... E si vuole che questa brava ragazza non abbia mai dato una simile parola senza poi compirla... Sancio era già impiastrato e coricato, e quantunque cercasse di dormire, non glielo permetteva il dolore delle costole; e don Chisciotte, per quanto gli dolevano le sue, teneva gli occhi più aperti d’una lepre. Tutta la locanda era in preda al silenzio, e l’unica luce che vi ardeva era quella che mandava una lanterna che stava appesa al centro dell’androne.Questa meravigliosa quiete, e il pensiero che il nostro cavaliere aveva sempre agli avvenimenti che a ogni piè sospinto s’incontrano nei libri di cavalleria autori del suo male, gli fecero venire in mente una delle fissazioni più curiose che possano uma-namente concepirsi: si figurò, cioè, di essere giunto a un castello famoso (e castelli secondo lui erano, come s’è detto, tutte le locande nelle quali alloggiava), e che la figlia del locandiere lo fosse del signore del castello, e che, vinta dalla sua gentilezza, s’era innamorata di lui e aveva promesso che quella notte, di nascosto dai genitori, sarebbe venuta a giacere con lui per un bel po’ di tempo; e scambiando questa chimera, che s’era fabbricata lui stesso, per cosa certa e reale, cominciò a preoccuparsi e a pensa-re al repentaglio in cui sarebbe venuta a trovarsi la sua castità, e giurò in cuor suo di non commettere infedeltà alla sua signora Dulcinea del Toboso, nemmeno se gli fosse

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venuta dinanzi la regina Ginevra con la sua dama di compagnia Chintagnona. Mentre andava cosi fantasticando, arrivò il tempo e l’ora (che per lui fu fatale) della venuta dell’ asturiana, che scalza e in camicia, coi capelli raccolti in una reticella di fustagno, a passi silenziosi e controllati, entrò nella stanza dove alloggiavano i tre, in cerca del mulattiere; ma appena arrivò alla porta, don Chisciotte la senti e, sedutosi sul letto, nonostante gli empiastri e il dolore alle costole, allungò le braccia per accogliere l’affa-scinante donzella. L’asturiana, che tutta concentrata e muta andava con le mani avanti in cerca del suo bello, urtò le braccia di don Chisciotte, che le afferrò il polso con forza e attraendola a sé, senza che lei osasse dire una parola, la fece sedere sul letto. Le tastò poi la camicia, e benché fosse di tela, a lui sembrò seta finissima e sottile. Porta-va ai polsi delle perline di vetro, ma a lui mandarono fulgori di preziose perle orientali. I capelli, che davano un po’ ai crini di cavallo, li battezzò fibre di lucente oro d’Arabia, il cui splendore oscurava quello dello stesso sole. E l’alito, che in modo non equivoco odorava di carne fredda e salata del giorno prima, parve a lui che esalasse dalla bocca un odore soave e aromatico; se la dipinse insomma nell’immaginazione sulla falsariga e il modello che nei suoi libri aveva letto di quell’alta principessa che era andata a tro-vare il ferito cavaliere perché vinta dall’amor suo, con tutti gli abbellimenti che lì sono indicati. E tanto era l’accecamento del povero gentiluomo, che né il tatto, né l’alito, né altre cose che aveva addosso la buona donna, che avrebbero fatto vomitare chiunque altro non fosse stato un mulattiere, riuscivano a disingannarlo... Maritornes era nei guai e sudava, vedendo che don Chisciotte la teneva in quel modo, e senza badare ai discorsi che le faceva, cercava, senza dire una parola, di sciogliersi. Il buon mulattiere, che tenevano sveglio i peccaminosi desideri..., si avvicinò al letto di don Chisciotte e se ne stette fermo, ... ma come vide che la serva faceva forza per liberarsi e che don Chisciotte si affannava a trattenerla, lo scherzo non gli piacque affatto e sbandierato in alto il braccio, scaricò sulle magre mascelle dell’innamorato cavaliere un formidabile pugno che gli empi la bocca di sangue; e non contento di ciò, gli sali sulle costole e coi piedi, come se stesse trottando, gliele percorse tutte da una parte all’altra. Il letto, che era un po’ debole e di fondamenta non salde, non potendo sopportare l’aggiunta del mulattiere, franò al suolo e a quel gran tonfo si svegliò il locandiere... e acceso un lume si diresse dove aveva sentito lo schianto. La ragazza, vedendo arrivare il padrone, e sapendo che aveva un brutto carattere, tremebonda e sconvolta si rifugiò nel letto di Sancio Panza che stava ancora dormendo, e li si accoccolò facendosi un gomitolo. Il locandiere entrò dicendo: - Dove stai, puttanaccia? Questa è certamente una delle tue. A questo punto Sancio si svegliò, e sentendosi quel peso che gli gravava quasi tutto sopra, credette di avere un incubo e cominciò a scaraventare pugni in ogni direzione, e fra gli altri un certo numero toccò a Maritornes, che, risentita del dolore, messo ogni ritegno da parte, gliene restitui tanti che, a suo dispetto, gli tolse il sonno. Sancio, ve-dendosi trattare a quel modo, e senza sapere da chi, si alzò come potè, si abbrancò a Maritornes e fra tutti e due diedero luogo alla più buffa e movimentata colluttazione che sia dato d’immaginare. Il mulattiere... picchiava Sancio, Sancio la ragazza, la ragazza lui, il locandiere la ragazza, e tutti picchiavano fitto e velocemente senza darsi un istan-te di tregua; e il bello fu che al locandiere gli si spense il lume, e restati tutti all’oscuro si davano botte senza pietà, in un groviglio, e dove arrivava la mano non lasciavano nulla di sano. >> Lanciati verso un ideale, ma senza amor del vero, i due comici eroi fanno un balzo di oltre quattrocento anni e posso immaginarli dietro le maschere di Totò e Peppino, sussurrare all’orecchio del lettore la tragica differenza che c’è fra raccontare e raccontarsela, per mostrare irriverenti l’abisso che separa l’esperienza in un alto

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24 LA BIBLIOTECA IDEALE

stato di coscienza (la Commedia di Dante) da quella di una coscienza alterata. Credo, con sincera gratitudine, che solo un romanzo comico può insegnare tanto e permet-tersi di restituire tanta disperazione senza perdere smalto. Il Paladino della Mancia e il suo scudiero appaiono sempre più un Tamino e un Papageno a cui nessuno regalerà mai né un flauto magico, né campanelli d’argento per rifondare il proprio regno e vivere felici e contenti. Ancora una volta mi sembrano sfuggire al loro tempo per affacciarsi al sipario d’una commedia pirandelliana come due personaggi che, portati dal loro ta-lento, attraversano le storie degli altri e non appartengono a nessuna favola. Ben più protagonisti della propria avventura risultano Marcella, Dorotea, Lucinda, Cardenio, e tutti coloro che incontrano Don Chisciotte e Sancio Panza sul proprio cammino. Straor-dinari e sradicati, i nostri due incarnano un solo vero coraggio, quello d’essere comici, ed è un valore. La nobiltà dell’eroe comico sta nell’immolarsi al riso di chi guarda, un riso che brucia come sale sulle ferite. È un valore non banale e prezioso per il nostro tempo, perché non elude lo slancio ideale, non edulcora il dolore. L’eroe comico non sente meno dell’eroe romantico o del tragico, anzi, per essere fisicamente meno pre-stante, ne sopporta di più e rende con più sfumature la complessità di cui è intriso. È un eroe della complessità in cui, per esempio, la gratuità d’Amore del cavaliere, resta intera, ma è inscindibile dall’insensatezza; resta in lui la forza della follia visionaria e sovversiva, ma sposa inseparabile d’una tragica impotenza. Forse per questo, alla fine delle sue peripezie e della sua stessa vita Don Chisciotte torna nel suo letto e rin-nega la ventura e quei maledetti libri di cavalleria che gli hanno frastornato il cervello. Rinnega perché non può fare altrimenti. È un Dante senza Virgilio e la cui Beatrice rimane una perfetta sconosciuta. Rinnega, ma ciò che è rinnegato non è cancellato dalla storia. Resta traccia di ogni passaggio, a mostrare come l’esaltazione dell’illusio-ne, più che aiutare a vivere, aiuta a incontrare la confortevole verità della delusione, che aiuta a conoscere la vita. Mi pare questo il senso della chiusa dell’epitaffio dedi-cato a Don Chisciotte da Carrasco, lo studente che sotto le spoglie del Cavaliere della Bianca Luna lo ha sconfitto nell’ultimo duello: <<... Se ebbe d’orco la figura, un’insolita misura la ventura in lui provò: visse pazzo e morì savio.>> Così infine, Don Chisciotte e Sancio Panza, mal assortiti e fraternamente insieme, si mostrano nel saluto estremo, abbandonando per via dell’abiura i panni dei loro stessi personaggi, per indicare la strada: dopo tante pagine di commedia, con la memoria piena, occorre abbandonare i ruoli conosciuti per uscire dal generoso labirinto dell’invenzione e rimisurare, più consapevoli, quei rapporti fra cose, persone e sentimenti, che chiamiamo realtà.

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Contributi di:Fr. Giovanni Casa, 33° Grado M.A., Gran Segretario – Gran Cancelliere Aggiunto Fr. Gabriele Duma, 9° GradoFr. Giovanni Greco, 30° GradoFr. Edoardo Ripari, 4° GradoFr. Stefano Scioli, 9° GradoFr. Marco Veglia, 30° Grado

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