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LIBRO BIANCO 2014

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LIBRO BIANCO2014

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© 2015 Kardo S.r.l.e-mail: [email protected]://www.kardo.it

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LIBRO BIANCO2014

Autori

Flavio Fusco

Claudia Laterza

Maria Assunta Mariani

Alessandro Valle

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Flavio FuscoDirettore SSD Cure Palliative ASL3 Genovese. Coordinatore Rete Metropolitana di Cure Palliative - Regione Liguria. Docente in Cure Palliative ai corsi di formazione per medici e infermieri alla Scuola Italiana di Medicina Palliativa (SIMPA); docente in Cure Palliative ai corsi di laurea in Scienze Infermieristiche Università di Genova ASL 3; docente di Cure Palliative ai corsi di formazione nazionali per i Medici di Medicina Generale; docente presso i corsi del Master Universitario “Cure palliative a domicilio e in Hospice”, Università di Milano - Istituto Europeo di Oncologia. Relatore in svariati congressi e corsi e autore di numerose pubblicazioni scientifiche.

Claudia LaterzaMedico palliativista, coordinatrice équipe sanitaria della Fondazione ANT Italia ONLUS presso l’Ospedale Domiciliare Oncologico di Bari fino al dicembre 2014. Attività di docenza ai Medici di Medicina Generale - ASL Bari su “Terapia del Dolore Oncologico”; docente al corso triennale di formazione in Medicina Generale ASL BAT, Docente corso di “terapia del dolore” della Società Italiana Medicina Generale. Membro del comitato scientifico-organizzativo del IV Convegno regionale (Puglia) della Società Italiana di Cure Palliative; membro dell’Osservatorio regionale per le Cure Palliative e Terapia del Dolore della regione Puglia. Relatrice, moderatrice e responsabile scientifica di numerosi corsi e convegni ECM, Advisory Board Nazionali sul tema del dolore e delle Cure Palliative.

Maria Assunta MarianiMedico palliativista associazione ANTEA - Roma, specialista in Pneumologia. Membro del comitato bioetico di ANTEA e dell’Ospedale “San Giovanni Calabita”- Fatebe-nefratelli di Roma, ha svolto numerose attività sanitarie sul territorio e di insegnamento partecipando a corsi accreditati ECM tra cui: “Help profession: il lavoro d’équipe e la missione sanitaria”; “La SLA e le cure palliative”; “Lesioni da pressione”; “WWPC Confe-rence”; “Le cure palliative nel malato neurologico”; “Emergenze pediatriche”; “La ricerca nelle cure palliative e terapia del dolore”; “La ricerca nelle cure palliative”. Ha parteci-pato al progetto di ricerca: “Analisi delle procedure assistenziali come fattore di rischio professionale da infezione nell’ambito del progetto di ricerche sull’AIDS finanziato dal Ministero della Salute e dall’ISS HIV e sperimentazione di possibili strategie di controllo”.

Alessandro ValleResponsabile sanitario Fondazione F.A.R.O. ONLUS - Torino. Più volte componente del Comitato Scientifico del Congresso Nazionale della Società Italiana di Cure Palliative. Componente del gruppo di lavoro “Cure Palliative in Oncologia” del Dipartimento funzionale interaziendale e interregionale Rete Oncologica Piemonte e Valle d’Aosta. Componente del Comitato Scientifico e docente nel Master Universitario di Alta Formazione e Qualificazione in Cure Palliative presso la Scuola di Medicina dell’Università degli Studi di Torino. Docente nel Master Universitario di Alta Formazione e Qualificazione in Cure Palliative presso la Scuola di Medicina dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” di Novara. Docente presso l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa - Campus Bentivoglio (BO). Componente della commissione “Medicina Palliativa” della Società Italiana di Cure Palliative.

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Bari

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Coordinatori e Co-autori

Benedetta Veruska Costanzo, Arturo Cuomo, Cosimo De Chirico, Vittorio Guardamagna,

Silvia Leoni, Rossella Restuccia, Domenico Russo

Hanno partecipato alla realizzazione del progetto

BARIArgentiero Sebastiano, Devicienti Miro, Dollini Roberto, Fusaro Tommaso,

Giovinazzi M. Giovanna, Gugliotta Domenico, Locantore Dorangela, Marangi Paolo, Messanelli Rita Maria, Moramarco Stefano, Nacci Marcello,

Provenzano Alessandra, Putignano Domenico, Sibilano Gennaro, Simone Girolamo, Tamma Daniela, Tanzarella Francesco

CATANIAAgricola Saverio, Bucceri Alberto, Cascone Giuseppe, Dalmastri Francesca,

D’antoni Orazio, Leone Anna, Maina Mario, Mallia Marina Celina, Martino Massimo, Mellini Giulio, Panebianco Angelo, Priolo Sandra,

Riolo Orazio, Sgarlata Massimiliano, Spinoso Antonio, Testai Manuela, Tomarchio Marcello, Valenti Salvatore, Zannino Giuseppe,

Campo Antonio, Blanco Giovanna, Ninotta Calogero

FIRENzEAmmirati Luigi Antonio, Betti Elisabetta, Bosoni Daniela, Caironi Giulia,

Canzani Filippo, Coltelli Luigi, Coppola Stelio, Corsi Giulio, Farzad Mersedeh,Favale Enzo, Ferdinand Saro, Fusco Flavio, Gargiulo Marco, Ghaderi Esmaeil,

Giallombardo Annalia, Grassi Daniela, Grossi Alberto, Lai Maurizio, Leoni Silvia, Lucchesi Sara, Marchi Sabrina, Melilli Giuseppe,

Repole Caterina, Sottili Massimo, Sposato Iolanda

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MILANOAlbanese Davide, Bassis Gabriella, Biscaldi Elisa, Cartesegna Stefano,

Castiglioni Claudia, Castro Antonino, Catania Laura, Cossu Maria Raimonda,Fedullo Gabriella, Grisetti Roberta, Liguori Simone, Longhi Carla,

Pagella Simonetta, Piroli Marco, Salinetti Marta, Sardo Vivian, Schettino Barbara, Scida Giuseppina, Stimilli Alessandro

PADOVAArvia Giuseppe, Bartolini Maria, Bednarova Rym, Borotto Gianluca,Bresciani Federica, Ceschin Elena, Ciprian Nicoletta, Figoli Franco, Fiorito Gandolfo, Gabis Andrea, Gelasio Oliviana, Gisabella Claudio, La Marca Luciano, Leita Marialivia, Marchetto Roberto, Miceli Luca,

Michieletto Giuseppe, Perin Roberta, Poles Giovanni, Riolfi Mirko, Rizzo Michela, Sandri Paolo, Scopelliti Roberto, Suriani Cinzia, Tesser Giuseppe, Tortora Paola

ROMACasole Paola, Chivu Lucian, De Biasio Gentilina, Farricelli Manuela,

Ferrone Carla, Governato Ilaria, Magnino Antonella, Marchetti Giacomo,Mclean Kim, Morucci Marco, Pagliula Pantaleo, Palumbo Giovanna,

Pasciuti Giulia, Pietropaolo Maria, Piga Andrea, Rossi Roberto, Scirocchi Rosanna, Sibaud Andrea, Toto Antonio, Kjellberg Irma Catrin,

Guarda Michela, Cortegiani Lanfranco

SALERNOApicella Antonio, Coppola Luciano, D’Angella Rosario, Di Matteo Bennardo,

Fabris Italo, Faraone Eugenio, Gabriele Diego, Galizia Biagio, Marra Alessandro,Nuzzolillo Luigi, Romano Anna, Tartaglione Francesco

TORINOAndreani Nadia, Barone Anna, Bersani Pietro, Bottino Francesca,

Buffa Annalisa, Campaner Emanuele, Citro Raffaella, Cocchiarella Antonio,Di Prima Santa, Gerbaudo Paola, Lungu Vitalie, Maffeo Michele,

Mansuino Marcella, Mariani Mario, Marinone Luca, Mortarino Elena,Nigra Ezio, Rey Roberto, Sansone Daniele, Szucs Ventimiglia Katalin,

Tomasiello Michela, Vacca Denise, Villani Letizia

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Catania

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Introduzione

Il Libro Bianco 2014 è solo una tappa del progetto Appro.Do, un’iniziativa più ampia che, ad oggi, ha coinvolto in incontri sul territorio e Formazione A Distanza (FAD) più di mille tra medici e infermieri.Il progetto è nato da un preciso bisogno espresso dagli operatori sanitari dedicati all’assistenza a domicilio del paziente oncologico che, a fronte della variegata situazione nazionale, hanno manifestato la necessità di incontrarsi per un confronto sia sugli aspetti clinici relativi al trattamento dei sintomi e alla gestione delle situazioni più complesse sia sulle diffi-coltà ad attuare le normative contenute nella Legge 38/2010 e nelle Linee Guida, tenendo conto delle risorse economiche ed umane reali delle varie regioni.La disponibilità a rispondere con un supporto economico, purché non condizionante, a tale richiesta è arrivata da ProStrakan, azienda da sem-pre sensibile alle iniziative culturali e formative nell’ambito delle Cure Palliative, che ha reso possibile la realizzazione, nel 2014, di otto work-shop accreditati ECM nelle città di Bari, Catania, Firenze, Milano, Padova, Roma, Salerno e Torino. In questo modo, sono state comprese tutte le aree geografiche d’Italia, con la partecipazione di circa 250 medici pallia-tivisti e di una ventina di infermieri. La finalità degli incontri era appunto quella di avere una chiara visione della situazione italiana e di lavorare in gruppo, per far emergere le criticità e condividere le possibili soluzioni.Per la definizione degli argomenti da trattare e delle modalità di svolgi-mento degli incontri è stato costituito un Board composto da quattro me-dici palliativisti: Flavio Fusco, Claudia Laterza, Maria Assunta Mariani e Alessandro Valle; nella scelta dei membri del Board si è tenuto conto sia dell’esperienza consolidata in assistenza domiciliare e genericamente in Cure Palliative, sia della provenienza geografica, tale da coprire tutto il territorio dal Nord al Sud del Paese.

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Dal Board sono state individuate due grandi aree da indagare, una clinica e una organizzativa. L’area clinica comprendeva il trattamento del Dolore di Base, del BreakThrough cancer Pain (BTcP), la gestione di problemi clinici complessi (delirium, sedazione, dolore difficile) e la criticità nella relazione e nella comunicazione. Quest’ultimo tema è stato concorde-mente inserito nell’area clinica per la forte influenza della comunicazio-ne con il malato e la famiglia sull’andamento della cura. Tale concetto è stato ribadito anche durante gli incontri, nel corso dei quali è stato più volte confermato che anche “il tempo di relazione è tempo di cura”.Venivano comprese nell’area organizzativa due tematiche, cruciali per la nota situazione disomogenea a livello nazionale, come le buone pratiche in Cure Palliative a domicilio e l’integrazione tra i servizi: a tali argomenti è stato poi dato, durante gli incontri, uno spazio decisamente importante, a conferma di quanto i problemi gestionali impattino sulla qualità della vita professionale dei sanitari e, di conseguenza, sulla qualità della cura erogata.Nel corso degli incontri i sei argomenti scelti sono stati assegnati in modo casuale ai tre gruppi di lavoro: due per ogni gruppo composto da una decina di partecipanti. Ai gruppi si chiedeva di elaborare una presentazione sull’argomento assegnato, da discutere con gli altri colleghi nello spazio dedicato agli interventi e riservato esclusivamente a loro: i seminari non prevedevano, infatti, relazioni frontali da parte dei membri presenti del Board, ai quali veniva affidato unicamente il compito di facilitatori e discussant, lasciando ai partecipanti il ruolo di protagonisti.Per poter realizzare un documento conclusivo finale, che ha rappresen-tato fin dagli inizi un obiettivo del progetto, si è avvertita la necessità di identificare una sorta di format per “ingabbiare” le varie relazioni in una griglia che permettesse il confronto fra quanto sarebbe di volta in vol-ta emerso nelle otto sedi. Si è così deciso di declinare ogni tema in tre o quattro domande: le relazioni sarebbero automaticamente scaturite dalle risposte dapprima condivise dai componenti del gruppo di lavoro

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e poi discusse con gli altri partecipanti. Sarebbe bastato confrontare le risposte date alla stessa domanda nelle otto città per avere una visione globale della situazione italiana.Raccogliendo e incrociando i dati di più di 300 slide prodotte da tutti i gruppi di lavoro nelle otto sedi e confrontandole con quanto emerso nel corso delle discussioni, i componenti del Board, con il supporto di alcuni coordinatori locali anch’essi presenti agli incontri, hanno elaborato i contenuti di questo Libro Bianco, scegliendo, per ogni argomento, le slide più rappresentative da inserire nel testo.Il libro riporta le testimonianze di un gruppo di infermieri e di medici palliativisti: se non esaustivo, tale gruppo è certamente rappresentativo delle realtà locali che, seppur diverse, denunciano comunque una serie di problematiche a tutte comuni. Ne emerge una fotografia nitida dell’as-sistenza domiciliare ai quei malati che sono nella fase ultima della loro vita, ai quali occorre trovare il modo di dire la verità senza peraltro get-tarli nella disperazione. Da quanto riportato nel libro è evidente come ciò non dipenda unicamente dalla sensibilità degli operatori e come l’uma-nizzazione delle cure sia frutto anche della destrezza clinica nel controllo della sintomatologia e della disponibilità di altri supporti, come quello psicologico, che non sempre accompagnano in modo sufficiente o ade-guato l’équipe di Cure Palliative.Il progetto Appro.Do prosegue nel 2015 con altri incontri sul territorio e con l’apertura di un portale dedicato a tutte le figure sanitarie apparte-nenti alla disciplina delle Cure Palliative, offrendo loro la possibilità di utilizzare uno spazio virtuale per un dialogo e un confronto continuo e sempre più allargato. L’obiettivo è quello di aiutare tutti gli operatori a condividere e a cercare di risolvere, nella gestione del malato affidato alle Cure Palliative e nel supporto alla sua famiglia, le criticità ancora esistenti nonostante l’impegno del legislatore.

Graziella Caraffa Kardo S.r.l.

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Firenze

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Indice

CLINICA

Il Dolore di Base 17

Il BTcP come paradigma di dolore complesso 37

Problemi clinici emergenti 57

• Dal delirium alla sedazione: 57 un percorso obbligato?

• Il dolore “difficile” 63

La criticità nella relazione 71e nella comunicazione

ORGANIZZAZIONE

Le buone pratiche in Cure Palliative a domicilio 87

L’integrazione tra i servizi 113

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CLINICA

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Il Dolore di Base

Introduzione

Il nostro Paese, dal 2010, si è dotato di una legislazione tra le più in-novative in Europa sulle Cure Palliative e il trattamento del dolore; nonostante questo, il consumo pro-capite di oppiacei risulta circa 4-5 volte inferiore rispetto a quello di Paesi come la Germania, la Francia e l’Inghilterra, mentre l’utilizzo di FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei) – farmaci gravati da molteplici effetti collaterali nelle terapie croniche in popolazioni fragili, come gli anziani o i pazienti oncologici in fase avanzata – risulta ancora, purtroppo, largamente diffuso. Le linee guida e le raccomandazioni delle principali società scientifiche europee e italiane [European Society for Medical Oncology (ESMO) 2012, Scottish Intercollegiate Guidelines Network (SIGN) 2013, European Association for Palliative Care (EAPC), Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), Società Italiana di Cure Palliative (SICP)] hanno espresso chiare indicazioni riguardanti le buone pratiche di diagnosi e trattamento del dolore cronico, ma vengono spesso disattese, soprattutto in Italia: oltre la metà dei pazienti affetti da dolore cronico, ancora oggi, in differenti setting assistenziali (ospedale, residenze sanitarie assistenziali, ambu-latori, domicilio) non riceve un adeguato trattamento del sintomo. Le ragioni di tale atteggiamento sono indubbiamente molteplici: fattori cul-turali, sociali, psicologici si embricano con altri più squisitamente clini-ci, formativi e organizzativi. Un esempio plastico di tale contraddizione è rappresentato dalla scarsa presenza delle cure palliative e del controllo del dolore nei programmi formativi e di aggiornamento di molte società scientifiche: nel recente congresso AIOM del 2013, su 143 simposi/rela-zioni scientifiche solo 2 risultavano dedicate al trattamento dei sintomi disturbanti, 0 al dolore e 0 alle cure palliative.

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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Tale situazione ha indotto il Board a interrogarsi e a porre il problema dell’appropriatezza terapeutica nel dolore di base come spunto di dibat-tito negli incontri locali del progetto Appro.Do.

Sono applicate le linee guida? Quali? Sempre?

Il riferimento a livello nazionale rimane sempre quello della “vecchia” scala OMS del 1986 con i 3 step progressivi, integrato da riferimenti più recenti (ESMO; EAPC 2012; AIOM). Il commento emerso nella sessione di Milano appare esaustivo di molte osservazioni riportate in altre città: l’importante è contestualizzare l’indicazione della letteratura e dell’evi-denza scientifica nella singola realtà individuale e nel setting specifico di cura (Figure 1, 2).

Figura 1

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Il Dolore di Base

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Ogni persona ha la “sua” storia personale di malattia, il “suo” modo di affrontare il dolore, che va accolto, compreso e rispettato. Come argutamente osservato nell’incontro svolto a Bari, la personalizzazione della terapia, il costante monitoraggio e la rivalutazione frequente rappresentano il “valore aggiunto” delle Cure Palliative nel panorama sanitario nazionale.Una particolare enfasi, nel corso degli incontri, è stata posta sull’impor-tanza della visita: il paziente, in un’epoca di progressiva “specializzazio-ne” della pratica medica, rischia di essere indirizzato a più professionisti, per eccessiva settorializzazione delle competenze; inoltre, il peso della “remunerazione” delle prestazioni (i famigerati DRG-Diagnosis Related Groups!) impone ritmi frenetici alle visite soprattutto in setting ambula-toriali, per cui diventa difficile – se non impossibile – condurre adeguate anamnesi ed esami obiettivi che permettano di indirizzare le scelte tera-peutiche (si pensi al riferimento e all’evidenza delle caratteristiche di un dolore di origine neurogena/neuropatica).

Figura 2

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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A questo proposito, un utile strumento di valutazione rapida è rappresen-tato dal cosiddetto schema PQRST, che consente di raccogliere in breve tempo un cospicuo numero di informazioni sulle caratteristiche quali-quantitative del dolore e di avviare in tal modo una corretta procedura terapeutica (Figura 3).

Un aspetto clinico di fondamentale importanza sul recepimento e l’ap-plicazione delle linee guida è rappresentato dal cosiddetto superamento del secondo scalino: sempre di più si sta affermando il principio di non indugiare sul secondo livello se il dolore è forte. Tale atteggiamento è emerso in quasi tutti gli incontri del progetto Appro.Do ed è suffragato da esperienze cliniche e letteratura scientifica degli ultimi anni. In una metanalisi su 13 RCTs (studi clinici randomizzati e controllati) che con-frontavano FANS o paracetamolo con gli oppioidi deboli, è emerso che non esiste una chiara differenza nell’efficacia dei farmaci del secondo gradino rispetto a quelli del primo somministrati da soli.1

Figura 3

Palliative/Provocative Che cosa lo modifica? A riposo? Esacerbato dai movimenti, dalla postura?

Qualità Nocicettivo? Somatico? Viscerale? Neuropatico? Misto?

irRadiazione È localizzato? Diffuso? Irradiato? Singola/multipla sede?

Severità Valutazione quantitativa

Tempo Acuto? Subacuto? Intermittente? Come esordisce? Interferenza con il riposo/attività quotidiane?

Valutare bene per trattare bene!!!Il metodo PQRST

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Il Dolore di Base

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Maltoni e colleghi, su 54 pazienti con dolore di intensità lieve-moderata, hanno mostrato che il salto del secondo gradino consente una riduzione significativa del numero dei giorni con un’intensità del dolore ≥5 (22,8 vs 28,6%) o con un’intensità ≥7 (8,6 vs 11,2%), ma con un incremento nell’incidenza di anoressia e stipsi di grado III/IV.2 In sostanza, come suggerito da una brillante review del 2011 condotta da Carla Ripamonti, “il salto del secondo gradino e l’uso di basse dosi di morfina a normale rilascio possono essere considerati strategie terapeutiche emergenti e di facile applicabilità con risultati validi, quando si faccia una titolazione accurata della dose necessaria, si monitorizzi e si prevengano i possibili effetti avversi. Inoltre, tale strategia deve essere considerata di prima scelta quando il dolore e/o le condizioni cliniche del paziente peggiorano rapidamente, rendendo necessario un pronto intervento analgesico con oppioidi forti somministrati attraverso vie personalizzate”.3

Negli incontri di Bari, Firenze e Padova, in particolare, è emerso il pro-blema relativo alla titolazione dell’oppiaceo di partenza. Anche in questo caso, risulta evidente la discrepanza tra quanto suggerito dalle racco-mandazioni storiche, con finalità spesso “didattiche”, e la pratica clinica quotidiana che deve far fronte a molteplici difficoltà: il setting di visita, lo stadio evolutivo della malattia, le condizioni ambientali, il pre-tratta-mento, etc. Nella realtà di tutti i giorni, è spesso difficile impostare una vera titolazione con morfina per via endovenosa o per os a dosi fisse, con modalità di controllo temporale, seriate e continuative: la situazione di un paziente ricoverato in un grande ospedale o IRCCS (Istituto di Rico-vero e Cura a Carattere Scientifico) di una grande città del Nord Italia è, ovviamente, differente da quella riscontrata in un’abitazione di un piccolo paese nella campagna abruzzese. Non è, quindi, infrequente l’uso di una titolazione “parziale” o “sporca” con morfina in formulazioni non a imme-diato rilascio o con oppiacei non morfinici, come l’ossicodone: tale prati-ca, pur fonte di perplessità tra diversi colleghi nei dibattiti, risulta essere adottata per motivi “pragmatici” in diverse circostanze, come sottolineato

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negli incontri di Salerno e di Bari. Sta inoltre emergendo, pur con limiti metodologici, una certa letteratura sull’argomento: un recentissimo stu-dio osservazionale/retrospettivo italiano ha mostrato l’efficacia e la tolle-rabilità dell’utilizzo di ossicodone SR (“sustained release”) nella titolazio-ne degli oppiacei a domicilio.4

Gli esperti partecipanti ai vari incontri hanno inoltre sottolineato la pre-ferenza di scelta per la via orale: dove questa è perseguibile, rimane la via di somministrazione elettiva degli oppiacei, permettendo un miglior adattamento posologico, il raggiungimento della cosiddetta “minima dose efficace” e la minimizzazione degli effetti collaterali. Tale conside-razione è supportata anche dalle recenti raccomandazioni della British Geriatric Society, che collocano l’utilizzo dei farmaci oppioidi transder-mici nelle rotazioni o in situazioni di dolore stabilmente ben controllato.5

Opioid rotation. Quando? Come?

Il Board di Appro.Do ha ritenuto di inserire l’aspetto della rotazione degli oppiacei come elemento di discussione e aggiornamento formativo, in virtù dei numerosi “alerts” che sono giunti dal mondo scientifico: in particolare, una recente review pubblicata su Pain Medicine ha messo in evidenza il legame tra i decessi correlati all’uso di oppioidi e le comuni procedure di rotazione degli oppioidi, compreso l’uso dei rapporti di conversione tra i diversi dosaggi pubblicati nelle tabelle equianalgesiche, messe pesantemente in discussione.6

È evidente, come ben riassunto dalle figure contenenti le considerazioni emerse negli incontri di Bari, che la pratica della rotazione (o, meglio, dello “switch”) deve essere affidata a gruppi di esperti in Cure Palliative e Terapia del Dolore e non improvvisata o ridotta a mero calcolo matemati-co, utilizzando le varie tabelle di conversione disponibili (Figure 4, 5).

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Figura 4

Figura 5

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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È fondamentale, pertanto, un processo di formazione e aggiornamento continui sull’argomento, che porti a minimizzare la percentuale di errori: un sondaggio su 406 medici non specialisti del dolore negli Stati Uniti ha evidenziato che il 59% ha avuto difficoltà a calcolare i dosaggi di oppiacei durante la rotazione. Quando è stato chiesto loro di convertire una dose giornaliera di 60 mg di ossicodone nella dose per un cerotto di fentanyl, il 41% degli specialisti, il 28% dei medici di medicina generale e il 17% dei geriatri ha detto di non sapere come fare.In tutti i gruppi di discussione è, quindi, emerso il suggerimento a un approccio conservativo, a un atteggiamento prudenziale, che è riassunto nella figura seguente (Figura 6).

La riduzione in percentuale del secondo oppioide, variabile tra il 25% e il 50%, dopo aver effettuato il calcolo secondo le tabelle di conversione, protegge dal fenomeno della tolleranza crociata incompleta, evento complesso e ancora non completamente definito nei dettagli, che si as-socia alla variabilità individuale. Geneticamente predeterminata, induce

Figura 6

L’efficacia della terapia deve sempre essere monitorata attraverso l’uso di scale validate per la valutazione del dolore (VAS, Scala verbale-VRS o numerica-NRS) fino al raggiungimento dell’efficacia analgesica (dolore assente/lieve).

Quando si cambia tipo di oppioide, alcuni Autori, a scopo precauzionale, raccomandano di ridurre la prima dose dell’oppioide scelto del 25% (Portenoy), altri addirittura del 50%.

Questo garantisce dall’insorgenza di eventi avversi soprattutto in un setting domiciliare.

Equianalgesia e switch

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pertanto una risposta non sempre prevedibile al cambiamento dell’op-piaceo in uso.7

La scelta del nuovo farmaco oppioide si deve basare su alcuni fattori, come la patologia di base, le comorbidità presenti, gli altri farmaci assunti e le proprietà farmacocinetiche degli oppioidi. La morfina e l’idromorfone, in assenza di interazioni con il citocromo P450, sono indicati nei pazienti politrattati, ma si possono accumulare in caso di insufficienza renale. A questo proposito, in molte sedi si è evidenziato il ruolo delicato rivestito dal metadone come farmaco di rotazione: da una parte, si tratta di un farmaco poco costoso, con una certa azione antidepressiva e modulatrice del tono dell’umore; dall’altra, il suo utilizzo andrebbe riservato in setting specifici (ospedalieri) e sotto stretto monitoraggio clinico, vista la sua dop-pia emivita plasmatica, il rischio di sovradosaggio/sindrome astinenziale, il potenziale cardiotossico e il non ben definito rapporto di conversione con la morfina, quando quest’ultima è assunta ad alti dosaggi.Lo switch degli oppiacei rappresenta, comunque, una risorsa per ottenere un miglior controllo del dolore, anche in setting più complessi, come il do-micilio, così come suggerito nelle sedi degli incontri Appro.Do a Catania, Milano e Padova. Recenti pubblicazioni scientifiche riportano la medesi-ma esperienza in differenti centri di “home palliative care” italiani, in cui il ricorso allo switch del farmaco o della via di somministrazione (passag-gio da formulazioni orali o transdermiche a parenterali/sottocutanee di morfina) può produrre controllo dei sintomi e trattenimento del paziente a domicilio, evitando ricoveri impropri.8

Prescrivere gli oppiacei. Dov’è il problema?

Sono state volutamente inserite le Figure 7 e 8 appaiate per evidenziare come il problema prescrittivo descritto nelle sedi degli incontri sia effettivamente diffuso su scala nazionale.

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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Figura 7

Figura 8

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Il Dolore di Base

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Il primo problema è di natura essenzialmente culturale: la Legge 38/2010 ha creato una cornice istituzionale, ma non ha ancora cancellato l’oppio-fobia (definita nell’incontro di Firenze come un vero e proprio “terrore”), che pervade trasversalmente ogni strato della nostra società. La morfina è percepita come farmaco della “terminalità” tra i pazienti e i loro fami-liari: “Dottore, se mi prescrive la morfina significa che sono alla fine, che non c’è più niente da fare?”; “Dottore, non dia la morfina a mio marito, altrimenti si accorge che sta morendo.” sono solo due esempi dei pre-giudizi che circondano l’uso degli oppiacei. Purtroppo, tale atteggiamento è ancora largamente diffuso anche nella classe medica e nel personale sanitario: esiste ancora molta ignoranza e confusione sul significato di tolleranza, dipendenza fisica e “addiction”, sui reali effetti collaterali de-gli oppiacei, generando un eccessivo timore sui rischi della depressione respiratoria o di sviluppo di attitudini compulsive. Una recente review, condotta su 17 studi internazionali coinvolgenti oltre 88.000 pazienti in trattamento cronico con oppiacei, ha rilevato un’incidenza mediana di di-pendenza dello 0,5%, smentendo categoricamente queste affermazioni.9

Un altro elemento critico è costituito dalla responsabilità prescrittiva: non tutti i palliativisti/terapisti del dolore nelle varie realtà locali sono do-tati del ricettario regionale e, pertanto, tutto lo sforzo compiuto dal le-gislatore per rendere disponibili gli oppioidi ai cittadini rischia di essere vanificato dal “rimbalzo” delle competenze: lo specialista può solo “sug-gerire” una terapia, ma è il Medico di Medicina Generale (MMG) che la prescrive, costituendo spesso una prima fonte di resistenza – se non di ostacolo – all’ottenimento dell’oppiaceo. In situazioni come queste, è in-dispensabile la cura del rapporto tra i diversi professionisti, privilegiando la condivisione dei percorsi assistenziali, come evidenziato negli incontri di Roma, o costituendo corsi di formazione specifici, come riportato dai colleghi di Catania.

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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Il reperimento e la disponibilità dei farmaci oppiacei presso le farmacie vengono segnalati come elementi di criticità: anche in realtà metropolita-ne, come Milano, si è osservata una scarsa disponibilità di farmaci nelle farmacie territoriali, con una conseguente accentuazione delle difficol-tà di approvvigionamento per i pazienti e i loro familiari, costretti quindi a lunghi “pellegrinaggi” per recuperare il farmaco. Tale difficoltà appare in evidente attrito con i disposti della Legge 38/2010, che tutela in modo chiaro il diritto del cittadino di avere accesso alla terapia adeguata per il controllo del suo dolore. Il problema appare diffuso anche a livello ospe-daliero e aziendale: in quasi tutte le realtà esaminate, risulta assente la disponibilità in prontuario terapeutico ospedaliero di tutte le formulazio-ni, costringendo i prescrittori a scelte parziali, di ripiego o non adeguate. I Comitati “Ospedali Senza Dolore” dovrebbero attivarsi per garantire la presenza di TUTTE le formulazioni che, a parere dei presenti, hanno indi-cazioni differenti in funzione della situazione del paziente. Le scelte azien-dali non dovrebbero essere improntate a meri calcoli di ordine ragionieri-stico (il risparmio a tutti i costi!!!) ma a più complete ed esaustive analisi di Health Technology Assessment (HTA), che rivelano come l’impiego di farmaci appropriati genera miglior controllo dei sintomi, della qualità di vita e conseguente significativo risparmio di risorse.

A fronte di queste difficoltà sono state numerose le proposte operative:

CATANIA

• La UOCP (Unità Operativa di Cure Palliative) del territorio dovrebbeavere un armadio farmaceutico per la migliore gestione del caso.

• Disposizioni ai medici di continuità assistenziale nel rispetto dellaLegge 38/2010 (“Ci viene richiesto di fare una cosa, ma nella realtà non la possiamo fare. I medici di continuità assistenziale non possono prescrivere”).

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Il Dolore di Base

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TORINO

• Aumentarelefornituredi farmacioppiacei infarmaciedizonerurali,più disagiate.

•Migliorare e deburocratizzare le norme riguardanti il trasporto deifarmaci oppiacei al domicilio (autoprescrizione, quantità, recupero…).

MILANO

• Siproponedistilare,conilfarmacistaospedaliero,unalistadeifarmaciche si usano comunemente, in modo da non avere sprechi.

• Ricordare ai farmacisti territoriali che devono provvedere a fornire ilfarmaco necessario ENTRO LA STESSA GIORNATA.

Un aspetto peculiare, ma assolutamente emergente e di fondamentale importanza, è stato affrontato nella sede di Padova e riguarda il proble-ma del consenso alla terapia, particolarmente per pazienti che GUIDANO VEICOLI A MOTORE (Figura 9).

Figura 9

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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Purtroppo, ad oggi, non è ancora stato raggiunto un agreement tra la Legge 38/2010 e l’articolo 187 del Codice della Strada, che disciplina la guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e/o psicotrope. Il gruppo che ha sollevato il problema induce a riflettere su una serie di elementi:

• Il cittadino che assume oppiacei per una sindrome dolorosa rappre-senta un potenziale pericolo per sé e per gli altri? Le conclusioni della letteratura scientifica e, in particolare, dello studio DRUID o dell’ente indipendente ICATS, appaiono confortanti, confermando che in regimi terapeutici stabili, con composti slow-release sotto controllo medico, non esiste significativa alterazione dei riflessi.10,11

• QualeruologiocaildirittodirivalsaimpostodallamaggiorpartedelleCompagnie Assicuratrici nelle proprie polizze di RCA (Responsabilità Civile Autoveicoli)?

• Qualè il ruolodelvalutatoredello“statopsicofisicoalterato”?Tutti icomponenti delle Forze dell’Ordine preposte posseggono sufficienti competenze per giudicare, in termini oggettivi, in ogni situazione?

• Qualevincoloesercitasulmedicoprescrittoreunanormativasanziona-toria? Egli agirà sempre in “scienza e coscienza” o sarà guidato dal ti-more dei risvolti medico-legali del suo atto, soprattutto in questa epoca di “medicina difensiva”?

La materia, come si vede, appare complessa e ostica e numerosi sono gli interventi di tipo tecnico-giuridico che cominciano a comparire in recenti congressi nazionali o in corsi di formazione. Il suggerimento del gruppo di lavoro di Padova rappresenta un elemento di “buon senso” che, in que-sta fase transitoria, può aiutare a “dipanare la matassa”: predisporre una breve “checklist” scritta, da proporre e far firmare al paziente, elencando i possibili effetti collaterali disturbanti di una terapia a base di oppiacei, rappresenterebbe già una prima forma di “consenso” alla terapia, for-nendo adeguata informazione e costituendo un piccolo “atto” ufficiale che formalizza l’esistenza di uno schema terapeutico.

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Come viene gestita la prescrizione dei farmaci?

La diapositiva presentata a Milano (Figura 10) pone l’accento su alcuni aspetti ancora non toccati dalle considerazioni presentate all’inizio di questo capitolo.

In un’epoca dominata dalla “spending review”, dal controllo a volte maniacale delle spese, soprattutto nel campo farmaceutico, riveste fondamentale importanza la possibilità di una distribuzione diretta dei farmaci necessari alle cure palliative e al controllo del dolore. La fornitura senza transizioni, oltre a generare un cospicuo risparmio per le aziende, tutela il paziente e i suoi familiari in un reperimento celere, sotto il controllo dell’équipe di Cure Palliative o dei Servizi di Terapia del Dolore evitando, come già accennato, perdite di tempo, consumo di risorse, attese inutili. È auspicabile che tale forma distributiva si diffonda

Figura 10

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in tutto il territorio nazionale. Come osservavano i colleghi nell’incontro di Catania, “Il paziente deve andare dal medico curante e farsi copiare la prescrizione: non abbiamo accesso alla farmacia territoriale. Questo vale per tutti gli ausili: indichiamo quello di cui i pazienti hanno bisogno, ma non possiamo prescrivere direttamente”.Il meccanismo della distribuzione diretta impone comunque un’attenta pianificazione e coordinamento tra i vari attori coinvolti: centrale acquisti, farmacisti ospedalieri, medici specialisti, MMG. Inoltre, non rappresenta l’unica soluzione: molti pazienti sono difficilmente raggiungibili per difficoltà organizzative e logistiche dei servizi e, quindi, necessitano dell’appoggio del proprio MMG per la prescrizione. La quota di situazioni di “emergenza” impone peraltro cambiamenti repentini, “in tempo reale”, della terapia in atto: sempre di più emerge la necessità di allargare la base prescrittiva degli oppiacei, aumentando il numero dei prescrittori, facilitando l’utilizzo dei ricettari regionali, deburocratizzando ulteriormente le norme regionali [esempio: interpretazione della nota TDL (Terapia del Dolore) differente da Regione a Regione]. Come è stato acutamente osservato nell’incontro di Firenze, “L’importante è prescrivere e non chi fa la prescrizione!!!”.Un elemento di interessante dibattito, che può delinearsi come concreta proposta operativa emergente dagli incontri del progetto Appro.Do, è rappresentato dal recupero dei farmaci necessari alle Cure Palliative, compresi gli oppiacei. Esperienze pilota consolidate in vare Regioni italiane (Veneto, Liguria, Lombardia) mostrano la fattibilità di questo percorso, supportato anche da una rassicurante base normativa: la Direttiva Europea 2001/83/CE e la successiva Direttiva Europea 2003/94/CE sanciscono la possibilità per le organizzazioni non lucrative impegnate nell’assistenza domiciliare di riutilizzare i farmaci per i propri assistiti.12,13 Tali indicazioni vengono recepite in Italia con il Decreto Legislativo 219 del 24/04/2006 nell’art. 157 comma 1: vengono individuate le modalità che rendono possibile l’utilizzazione, da parte di organizzazioni senza fini di

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lucro, di medicinali non utilizzati, correttamente conservati e in corso di validità.Il passo successivo è stato rappresentato dalla Legge 244 del 24/12/2007, in cui all’art. 2, commi 350-351-352, si sottolinea come RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale), ASL (Azienda Sanitaria Locale) e ONP (Organiz-zazione No-Profit) possano riutilizzare per i propri assistiti le confezioni di medicinali integre, in corso di validità e ben conservate, ad eccezione di quelle per le quali è prevista la conservazione in frigorifero a temperature controllate; le disposizioni in oggetto si applicano anche per farmaci con-tenenti sostanze stupefacenti o psicotrope.È evidente che tale formula impone la codifica di protocolli ben definiti e chiarezza nei differenti “step” del processo: consegna, accoglienza, ritiro, conservazione, dispensazione e trasporto del farmaco.Nelle esperienze citate, estremamente positive, l’adozione di protocolli specifici non solo ha favorito un risparmio virtuoso di risorse ma ha per-messo di sviluppare quell’integrazione tra pubblico e privato “no-profit” così ben evocata dalla Legge 38/2010 e dai successivi atti, che rischiava altrimenti di rimanere una bella ma sterile dichiarazione di intenti.14

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11. ICADTS. The International Council on Alcohol, Drugs, and Traffic Safety. http://www.icadts.nl/medicinal.html12. Direttiva 2001/83/CE Del Parlamento Europeo e del Consiglio del 6 novembre 2001. http://www.publitalia.it/bin/Documento/C_1_Documento_561_file.pdf13. Direttiva 2003/94/CE della Commissione dell’8 ottobre 2013. http://ec.europa.eu/health/files/eudralex/vol-1/dir_2003_94/dir_2003_94_it.pdf14. Legge 15 marzo 2010, n. 38. “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla

terapia del dolore” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 19 marzo 2010. http://www.parlamento.it/parlam/leggi/10038l.htm

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Milano

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Il BTcP come paradigma di dolore complesso

Introduzione

Una doverosa e adeguata gestione del dolore deve comprendere, nel paziente oncologico, un corretto trattamento del BreakThrough cancer Pain (BTcP) o Dolore Episodico Intenso (DEI). Da quando questa tipologia di dolore è stata segnalata in letteratura,1 una cospicua produzione scientifica internazionale ha portato alla definizione precisa delle sue peculiarità e, parallelamente, la ricerca ha consentito di sviluppare trattamenti appropriati per un dolore che impatta notevolmente sulla qualità di vita del paziente e incide in misura preoccupante sulla spesa sanitaria. È ormai universalmente riconosciuto che il BTcP è un dolore intenso (NRS ≥7) e di breve durata (al massimo, di 60 minuti), che insorge improvvisamente in pazienti con dolore da cancro adeguatamente controllato da oppiacei somministrati a orari fissi; può insorgere spontaneamente o essere indotto da eventi scatenanti e ripetersi più volte nella giornata (3-4 episodi in media). Il trattamento di prima scelta del BTcP è rappresentato dal fentanyl transmucosale (buccale, sublinguale, nasale) nelle varie formulazioni ormai disponibili sul mercato; la scelta della formulazione più adatta deve tener conto del profilo farmacocinetico rapportato alle caratteristiche del BTcP in esame, ma anche delle esigenze e preferenze del paziente, della capacità del paziente di assumere il farmaco o del caregiver di somministrarlo. Secondo le più recenti linee guida (2012-2013) delle principali società scientifiche [European Association for Palliative Care (EAPC), European Society for Medical Oncology (ESMO), Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), Società Italiana di Cure Palliative (SICP)], il BTcP costituisce una sindrome algica specifica, da trattare con i Rapid Onset Opioid (ROO), di cui sono ormai definite efficacia e tollerabilità. Purtroppo, da una recente indagine promossa dalla Società

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Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende Sanitarie (SIFO), emerge un’enorme discrepanza tra la popolazione reale trattata e il mercato potenziale: in particolare, su 6,5 pazienti oncologici con BTcP in vari setting assistenziali, solo uno risulta essere trattato con ROO.2

Di qui la scelta di proporre, negli incontri locali del progetto Appro.Do, l’argomento “BTcP”, provocatoriamente presentato ai partecipanti come paradigma di dolore complesso.

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Il BTcP come paradigma di dolore complesso

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Figura 1

Si riconosce? Si misura?

I partecipanti agli incontri su tutto il territorio nazionale hanno condiviso unanimemente il dovere etico degli operatori sanitari di conoscere, rico-noscere e trattare adeguatamente il BTcP (Figura 1).

Nella pratica clinica, tuttavia, non è sufficiente aver appreso la defini-zione di BTcP per riconoscerlo, poiché entrano in gioco altre variabili confondenti. A Torino, è emersa la difficoltà di riconoscere il DEI nel paziente con un dolore di base che presenti frequenti oscillazioni gior-naliere, che potrebbero essere imputate sia a episodi di BTcP sia a un dolore di base ancora non del tutto controllato dalla terapia con oppiacei a orari fissi. Analogamente, a Bari si è evidenziato che il riconoscimento di un episodio di BTcP è tanto più semplice quanto più adeguatamente è

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controllato il dolore di base. Imprescindibile, quindi, come sottolineato a Catania, è un’adeguata e continua formazione di tutti gli operatori coin-volti nella gestione del paziente oncologico in tema di dolore.È apparsa ovvia in tutti gli incontri la necessità di porre diagnosi diffe-renziale con il “dolore da fine dose” e con il “dolore procedurale”: ov-viamente, mentre nel primo caso è opportuno un aggiustamento della terapia con oppiacei a orari fissi, in presenza di dolore procedurale gli operatori che hanno partecipato agli incontri dichiarano di utilizzare i ROO perché, giustamente, lo considerano un BTcP prevedibile.Manca in letteratura un riferimento preciso all’effettiva incidenza/prevalenza del BTcP: dati recenti riportano percentuali tra l’87% e il 49%, e questa variabilità è emersa anche tra gli operatori coinvolti nel progetto Appro.Do, con una prevalenza dichiarata tra il 35% e il 75% a Torino. A Salerno, i partecipanti sono stati concordi nel ritenere sottostimata questa tipologia di dolore in tutti i setting assistenziali, mentre a Bari il BTcP appariva sottostimato e soprattutto poco conosciuto in ambito ospedaliero rispetto al setting delle Cure Palliative domiciliari, in cui risulta più agevole il riconoscimento e più adeguato il trattamento. Tutti i partecipanti, indipendentemente dalla zona geografica, concordano nel ritenere che, in tema di BTcP, vi sia maggiore informazione, sensibilità, dimestichezza ed esperienza tra gli operatori delle Cure Palliative dedicate, residenziali o domiciliari, rispetto ad altri setting di cura (oncologie, altri reparti ospedalieri o ambulatorio del Medico di Medicina Generale). Solo nel Nord-Est si registra in ospedale, più che sul territorio, un’idonea formazione sul BTcP e sulla sua rilevazione, con una tempestiva e completa disponibilità delle molecole occorrenti per il trattamento.Tutti i sanitari coinvolti nel progetto affermano l’assoluta necessità che il BTcP vada misurato; ovviamente, quando si opera al domicilio del paziente, è essenziale, nella valutazione del sintomo “dolore” e a maggior ragione delle sue esacerbazioni, la conoscenza del malato e

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del suo contesto sociale e familiare, un’attenta valutazione del dolore di base e del trattamento in corso, una disponibilità adeguata di tempo per l’ascolto attivo del paziente e del caregiver e per frequenti rivalutazioni.La Legge 38/2010 prevede che, all’interno della cartella clinica in uso presso tutte le strutture sanitarie, nelle sezioni medica e infermieristica, debbano essere riportate le caratteristiche del dolore rilevato e la sua evoluzione nel corso del ricovero, esattamente come si fa per gli altri parametri vitali, nonché la tecnica antalgica e i farmaci utilizzati, i rela-tivi dosaggi e il risultato antalgico conseguito. Le Linee Guida AIOM sul dolore in oncologia raccomandano di misurare eventuali picchi di dolore nelle 24 ore precedenti la rilevazione (R3) e consigliano l’uso della scala numerica NRS (da 0 a 10) o della Scala Verbale a sei livelli per pazienti con disfunzioni cognitive (AIOM 2012, R2). Di fatto, però, nella già citata indagine SIFO solo il 48% degli specialisti ospedalieri intervistati dichia-ra di riportare in cartella clinica il BTcP, contro il 73% dei medici dedicati operanti sul territorio (ADI - Assistenza Domiciliare Integrata).2

Nell’identificazione, valutazione e gestione terapeutica del BTcP e del suo impatto negativo sulla qualità di vita, un ruolo fondamentale viene rivestito dagli infermieri: tuttavia, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti, in Europa questo si verifica solo in alcune nazioni, quali la Germania (in cui il 92% degli infermieri fa riferimento a specifici strumenti di valutazione del dolore e riesce agevolmente a diagnosticare il BTcP), i Paesi Bassi (83%) e la Norvegia (71%).3 Per quanto riguarda l’Italia, nell’indagine SIFO, circa il 58% degli specialisti intervistati dichiara di non delegare al personale infermieristico la gestione diagnostico-terapeutica del BTcP e, sul territorio, gli infermieri responsabilizzati (78,9%) non hanno autonomia diagnostico-terapeutica nella gestione del BTcP.2

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Tutti i partecipanti agli incontri Appro.Do hanno dichiarato di utilizzare le scale più note di misurazione dell’intensità del dolore (VAS, NRS, scala verbale) (Figura 2).

NRS: Numerical Rating Scale.

VAS: Visual Analogue Scale.

VRS: Visual Rating Scale.

WB: Scala di Wong-Baker.

NOPPAIN: Non comunicative Patient’s Pain.

PAINAD: Pain Assessment In Advanced Dementia.

Figura 2

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Figura 3

A Roma, si è parlato di scale da adattare al singolo paziente; a Torino, è stato citato il QUDEI (Questionnaire for Intense Episodic Pain) sommini-strabile dal medico o dall’infermiere in circa 10 minuti; nessuno ha fatto riferimento all’Alberta Breakthrough Pain Assessment Tool, consigliato dall’EPCRC.4 Nella pratica clinica, per la valutazione delle caratteristi-che dell’episodio di BTcP, molti operatori partecipanti agli incontri hanno dichiarato di fare uso di “Diari del dolore”, da far compilare al paziente o al caregiver, strutturati appositamente per il BTcP o che consentano al paziente una libera descrizione del singolo episodio: a Bari e a Salerno sembra preferito il diario “libero”, mentre a Padova ci si è soffermati sul-la tipologia di un’eventuale scheda dedicata alla raccolta di dati relativi al DEI, da diffondere e condividere in équipe e nei diversi setting assisten-ziali (Figura 3). Sempre a Padova si è proposta la creazione di apposite Applicazioni che facilitino agli operatori sanitari il riconoscimento e la misurazione del BTcP.

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Si tratta? Come?

Tutti i gruppi di operatori, senza differenze geografiche, hanno afferma-to che i ROO rappresentano il trattamento farmacologico appropriato al BTcP per le sue caratteristiche farmacocinetiche, che ben si adattano alla rapidità d’insorgenza e alla breve durata degli episodi, ma anche per la maneggevolezza e la facilità di somministrazione (Figura 4).5

Ovviamente, nella strategia di gestione del BTcP non vanno dimenticati eventuali interventi che ne rimuovano la causa o interrompano i mecca-nismi che portano all’episodio doloroso intenso. La maggior parte delle linee guida indica il fentanyl transmucosale come trattamento appro-priato per il DEI (AIOM R28, R28bis), senza escludere la morfina per via parenterale o orale a rapido rilascio; tutti gli studi di farmacocinetica, tuttavia, ritengono che la rapidità d’insorgenza e di durata dell’episodio di BTcP mal si adatti alla farmacocinetica della morfina orale, che ha un inizio d’azione lento (circa 30 minuti) e una durata prolungata.6,7

Figura 4

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Figura 5

Secondo le Linee Guida del National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE), pubblicate nel maggio 2012, va utilizzata la morfina orale come rescue medication in presenza di BTcP, lasciando il fentanyl transmucosale come seconda linea terapeutica. Come sottolineato a Torino e a Padova, tale indicazione è stata recepita per motivi di risparmio sanitario dalla regione Emilia Romagna privando, di fatto, il paziente oncologico con DEI di disporre di efficaci presidi terapeutici e trascurando i costi dell’overmedication e degli accessi al Pronto Soccorso.8

I partecipanti agli incontri riservano l’uso della morfina endovenosa, appropriato in alcune particolari situazioni, a setting residenziali e a operatori esperti; la morfina orale viene invece talora utilizzata, in tutte le aree geografiche, nel dolore procedurale, soprattutto in caso di medicazioni dolorose prolungate. In tutti gli altri casi di BTcP prevedibile, vengono sempre preferiti i ROO (Figura 5).

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Un dato inquietante diffuso da Cegedim Strategic Data (CSD), Società di Ricerche di Mercato, leader mondiale nel settore farmaceutico, è l’enorme discrepanza in Italia tra la popolazione reale trattata e il mercato potenziale: su 6,5 pazienti oncologici con BTcP nel 2012, solo uno risulta essere trattato con ROO (circa il 15%).2

I partecipanti a tutti gli incontri concordano nel ritenere che, nella pratica clinica, il BTcP venga trattato adeguatamente per lo più in alcuni contesti di cura (hospice o équipe territoriali dedicate), mentre si registra anco-ra una diffusa malpractice nei reparti ospedalieri e anche in strutture oncologiche: consumo inappropriato di FANS, soprattutto per via paren-terale e nonostante la Nota 66 AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), con incrementi ingiustificati nel dosaggio dell’oppiaceo per la terapia di base, spesso mal gestita, o addirittura con l’aggiunta di oppiacei deboli al bi-sogno o di farmaci adiuvanti. Ciò viene attribuito non solo alle difficoltà diagnostiche del BTcP, soprattutto in presenza di dolore di base mal con-trollato, ma anche all’ancora scarsa formazione/informazione dei medici sulla Legge 38/2010 e sul tema del dolore. E, quando vi fosse una diagno-si corretta e un appropriato approccio terapeutico, si porrebbe un ulte-riore ostacolo: secondo l’indagine SIFO, nelle 64 strutture dei farmacisti intervistati, i ROO non sono ancora presenti in maniera significativa nel Prontuario Terapeutico Ospedaliero (PTO) né nel Prontuario Terapeutico Ospedaliero Regionale (PTOR) e il BTcP viene ancora gestito in buona parte con morfina orale, morfina per via endovenosa o sottocutanea, limitatamente al periodo di ricovero e senza alcuna continuità assisten-ziale alla dimissione.2

In assistenza domiciliare le criticità emerse circa l’uso dei ROO sono state diverse: a Padova, è stata messa in risalto l’oppiofobia del paziente (ritenuta minima in altre sedi), dei familiari o dei Medici di Medicina Generale (MMG), prescrittori su indicazione dello specialista (Figura 6); a Catania, è emersa la frequente conflittualità prescrittiva tra gli specialisti coinvolti nella cura del paziente (oncologo, MMG, palliativista); a Salerno si è evidenziata la

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Figura 6

problematica connessa al frequente alternarsi, al domicilio del paziente, di operatori che spesso non comunicano adeguatamente tra loro, con conseguente sovrapposizione di prescrizioni e confusione nei familiari.

Un argomento approfondito in tutte le sedi degli incontri è stata la scelta della formulazione del fentanyl transmucosale che, in accordo con le in-dicazioni della letteratura, va attuata tenendo conto di vari fattori.9 Innan-zitutto va considerato il paziente, da valutare con la massima attenzione nella sua complessità fisica e psicologica, attraverso l’ascolto attivo e con l’empatia richiesta ai sanitari che approcciano un malato di cancro. Vanno, quindi, esaminate le sue condizioni cliniche, il performance status e il gra-do di autonomia, la localizzazione della malattia di base e le secondarietà, l’eventuale presenza di xerostomia o patologie del cavo orale, ma anche la compliance e il livello cognitivo per una possibile autosomministrazione

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del ROO. Va preso, poi, in considerazione il dolore del paziente con un’ac-curata anamnesi e un’approfondita analisi del dolore di base, dell’effettivo trattamento in corso e della sua efficacia nel sollievo dal dolore. Ovvia-mente, si porrà attenzione alla presenza di BTcP e si esamineranno le sue caratteristiche (intensità, numero episodi/die e distribuzione nelle 24 ore, localizzazione, modalità d’insorgenza, durata, potenziali fattori scatenan-ti, farmaci assunti e loro efficacia o effetti indesiderati).9

Fondamentale è, poi, per chi opera sul territorio la valutazione del nucleo familiare e dei rapporti relazionali intrafamiliari nonché la presenza e le caratteristiche del caregiver (Figura 7).

Figura 7

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Soprattutto a Firenze e a Padova si è ribadita la scelta individualizzata della formulazione in base alle preferenze del paziente e, a Milano, è emersa la necessità di fornire spiegazioni complete ed esaustive per ot-tenere una buona compliance del paziente e del caregiver, dedicando a entrambi un tempo adeguato. Ciò apre la necessità di valutare, nella scel-ta della formulazione di fentanyl transmucosale, il setting in cui si trova il malato: domicilio (ADI o CPD-Cure Palliative Domiciliari), hospice, repar-to di Oncologia o altri reparti, RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale), ambulatori specialistici o del MMG, Day Hospital o Day Hospice. Il setting influirà ovviamente sulla composizione del team assistenziale più o meno dedicato e, soprattutto, variamente formato e a conoscenza delle caratteristiche di ciascuna formulazione di ROO. A Padova si è insistito maggiormente sul valore aggiunto derivante da un buon “addestramento” di paziente e famiglia, che garantisce una mag-giore aderenza alla terapia. Ovunque si auspica una maggiore formazione non solo per terapisti del dolore e palliativisti, ma trasversale e rivolta a tutte le specialità mediche, soprattutto a quelle che possono più frequen-temente incontrare un paziente con dolore oncologico e, quindi, con BTcP (radioterapista, internista, geriatra, chirurgo...). A Bari si è sottolinea-ta l’importanza di migliorare la cultura sul dolore e l’atteggiamento del MMG, spesso prevenuto sull’utilizzo di oppiacei. A Catania e a Salerno, infine, è emersa la necessità di intensificare le reti e soprattutto di creare occasioni per migliorare la comunicazione tra le varie figure sanitarie coinvolte nella gestione del paziente oncologico.Infine, molto dibattuto in tutti gli incontri è stato il tema della titolazio-ne del ROO. I partecipanti hanno dichiarato di effettuare la titolazione del fentanyl transmucosale come previsto dalla scheda tecnica di tutte le formulazioni e come consigliato dalle linee guida (AIOM 2013, R29). È emersa tuttavia l’esigenza, già evidenziata da alcuni lavori scientifici, di formalizzare un metodo per adeguare il dosaggio del ROO al BTcP del singolo paziente, saltando la titolazione e prescrivendo un dosaggio di

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fentanyl transdermico proporzionale alla dose dell’oppiaceo usato per la terapia di base.10 Come evidenziato a Firenze e a Milano, ciò potreb-be evitare di compromettere la compliance del paziente e di scongiurare l’interruzione della terapia, inefficace a basso dosaggio.

Come viene gestita la prescrizione dei farmaci?

Questa è la domanda che ha determinato, in tutti gli incontri Appro.Do, una vivace discussione in assemblea plenaria e mostrato ampia disomo-geneità circa le modalità prescrittive sul territorio nazionale, nonostante l’intento dell’art. 10 della Legge 38/2010 di “semplificare le procedure di accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore”.Il problema maggiore sul territorio riguarda la prescrizione del fentanyl transmucosale su ricettario del SSN (Sistema Sanitario Nazionale), au-torizzata quasi ovunque solo per il MMG, che spesso ostacola la trascri-zione. Gli specialisti (palliativisti, specialisti dedicati all’assistenza domi-ciliare, oncologi ambulatoriali, terapisti del dolore...) possono effettuare la prescrizione su ricettario del SSN solo se dipendenti dal SSN; i medici delle strutture private o senza scopo di lucro, convenzionate con il SSN e che erogano Cure Palliative, devono necessariamente suggerire la pre-scrizione al MMG oppure utilizzare il ricettario per stupefacenti in triplice copia, da richiedere all’Ordine Provinciale dei Medici (Figura 8).Se la fornitura dei farmaci per il paziente assistito a domicilio è affidata alla Farmacia Territoriale, questa raramente dispensa oppiacei, soprattutto nel Sud Italia; se, invece, è affidata alla Farmacia Ospedaliera, non sempre sono disponibili le diverse formulazioni di fentanyl transmucosale, che vengono considerate sovrapponibili (e ben sappiamo che non è così!), rendendo la scelta obbligata e soprattutto interrompendo la continuità terapeutica con il domicilio, in caso di ricovero. Viceversa, le dimissioni del venerdì e la scarsa disponibilità immediata di ROO nelle farmacie

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comunali, rendono difficile la prosecuzione della terapia domiciliare, dopo una dimissione ospedaliera. Ancora più grave, come sottolineato a Roma, è la situazione in cui le formulazioni di ROO non sono presenti nel PTOR, rendendone pressoché impossibile la fornitura a livello delle locali Farmacie Ospedaliere o Territoriali, anche in virtù della scarsa sensibi-lizzazione e carente formazione dei farmacisti ospedalieri e territoriali. Poiché il PTOR è “uno strumento di governo clinico e di ottimizzazione delle risorse economiche”, solitamente è resa disponibile solo la formu-lazione di ROO che vince la gara d’appalto (come indicato a Bari) e ciò im-pedisce, di fatto, la scelta individualizzata di cui si è parlato nel paragrafo precedente.

MMG: Medico di Medicina Generale. SSN: Sistema Sanitario Nazionale.

aSTCP: Assistenza Specialistica Territoriale di Cure Palliative.

Figura 8

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Purtroppo anche negli hospice, seppure strutture in cui è spesso diagno-sticato il BTcP, sono presenti nel prontuario terapeutico solo una o, al massimo, due formulazioni di ROO.Infine, a Salerno è stata sottolineata la frequente prescrizione di un nu-mero esiguo di confezioni di ROO, con conseguente breve durata del trat-tamento e necessità per il caregiver di recarsi ripetutamente nell’ambu-latorio del MMG per assicurare continuità terapeutica al familiare con BTcP.È auspicio di tutti i partecipanti al progetto Appro.Do la possibilità per il palliativista domiciliare di prescrivere autonomamente, su ricettario del SSN, tutti i farmaci oppiacei, nella consapevolezza che questo assi-curerebbe ad ogni paziente di ricevere la terapia del dolore secondo i principi dell’appropriatezza e dell’equità, così come sancito e garantito dalla Legge 38/2010 (Figura 9).

Figura 9

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È emersa in tutti gli incontri la necessità di formazione sul BTcP, non solo per gli specialisti (oncologi, palliativisti e terapisti del dolore) che necessitano di aggiornamenti frequenti, ma anche in ambito ospedaliero per tutte le specialità che ricoverano pazienti oncologici e tutte le figure professionali coinvolte nella gestione del paziente oncologico (infermieri, psicologi, fisioterapisti...); è indispensabile la formazione del MMG sul trattamento appropriato del dolore e sui farmaci oppiacei per favorire una consapevole prescrizione, anche se suggerita. Uno sforzo formativo andrebbe dedicato anche ai farmacisti ospedalieri e territoriali e, soprat-tutto, ai giovani in formazione, al fine di garantire la diffusione della cul-tura sul dolore e sul suo corretto trattamento, come imperativo morale, obbligo di legge (Legge 38/2010) e deontologico (Figura 10).

Figura 10

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Uno sforzo va richiesto, infine, alle aziende farmaceutiche, affinché non dimentichino la popolazione pediatrica, per la quale, nonostante sia dia-gnosticato il BTcP, non è autorizzato l’uso dei ROO.11

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Padova

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Problemi clinici emergenti

Introduzione

Nei pazienti seguiti dai centri di Cure Palliative e di Terapia del Dolore possono comparire situazioni cliniche di particolare complessità, come il delirium e il dolore “difficile”. L’importanza di condividerne le carat-teristiche in ambito formativo scaturisce sia dalla difficoltà di definire sempre il migliore iter diagnostico (anche differenziale) sia dall’impe-gno competente richiesto per pianificare la prescrizione terapeutica. Inoltre, i sintomi “difficili” possono condurre, a volte troppo sbrigativa-mente, alla sedazione palliativa, procedura peculiare riservata invece al solo sintomo refrattario. Questo può avvenire anche perché sul modus operandi di un’équipe di assistenza non sono ininfluenti la competenza/esperienza e il benessere lavorativo dei suoi componenti.1

Dal delirium alla sedazione: un percorso obbligato?Il delirium è una sindrome psico-organica molto frequente nell’ambi-to delle Cure Palliative, soprattutto per le numerose cause etiologiche che possono sovrapporsi quando la persona affronta l’ultima parte della vita.2 Il delirium presenta ancora sostanziali problemi di riconoscimento, a causa dei numerosi “sinonimi” che hanno spesso ostacolato l’utiliz-zo di un linguaggio comune e, soprattutto, per la frequenza delle forme ipoattive, che pongono un problema sostanziale di diagnosi differenziale, anche in équipe esperte in Cure Palliative.3

I partecipanti agli incontri Appro.Do hanno espresso consapevolezza nei confronti di questa criticità, manifestando in qualche caso incertezza nel fornire una definizione appropriata della sindrome e condividendo la necessità di un approccio diagnostico più raffinato, utilizzando i numerosi

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strumenti validati disponibili,4,5 anche in un contesto di Cure Palliative.6

Non di meno, è stata valorizzata dai partecipanti la necessità di un’at-tenta diagnosi etiologica, al fine di intervenire sulle cause correggibili. Di conseguenza, molto rilievo è stato dato alla multifattorialità della sindro-me, trattandosi forse della caratteristica che rende maggiormente impe-gnativa la ricerca di una strategia assistenziale mirata. Le cause ambien-tali, metaboliche e farmacologiche possono intrecciarsi in una matassa inestricabile, rendendo insufficiente – per non dire vano – l’intervento sanitario. Oltretutto, in particolar modo nella fase avanzata di malattia, le cause organiche possono diventare irreversibili e alcuni rimedi farma-cologici, tipicamente gli oppiacei maggiori per il dolore severo e per la dispnea, non possono essere sospesi, pur avendo a disposizione l’“arma” della rotazione degli oppiacei. I partecipanti hanno quindi sottolineato l’importanza di ricercare le cause più probabili e alcuni gruppi, in parti-colare, hanno opportunamente ricordato il ruolo delle interazioni farma-cologiche, che vengono troppo spesso sottovalutate (Figura 1).

Figura 1

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Per quanto riguarda il trattamento, la posizione dei partecipanti è stata pressoché unanime e coerente. È stata sottolineata la necessità di inter-venire in tutti i modi possibili e proporzionati per incidere sulle cause del delirium, senza per questo dimenticare le strategie preventive, in cui la componente ambientale riveste un ruolo assai importante.7

Dal punto di vista farmacologico, i partecipanti hanno argomentato cor-rettamente sui principi attivi consigliati dalla letteratura scientifica sul tema.8,9 In non pochi casi è stata segnalata la difficoltà a reperire il mi-dazolam, soprattutto per problematiche di carattere amministrativo, ma anche per la classificazione del principio attivo tra quelli di uso esclusiva-mente ospedaliero. Come si vedrà in seguito, la problematica è tutt’altro che trascurabile in un contesto domiciliare, ove il midazolam è proprio uno dei farmaci di scelta per mettere in atto la sedazione palliativa.Particolarmente interessanti sono stati i confronti incentrati sull’impiego della sedazione palliativa nel delirium. Praticamente tutti i partecipanti hanno concordato sulla refrattarietà del sintomo (nell’imminenza della morte) come elemento indispensabile a sostegno dell’applicabilità della procedura. Come noto, infatti, la sedazione palliativa è un intervento leci-to, a condizione che venga praticato nei confronti di un paziente afflitto da un sintomo davvero refrattario (non “difficile”) e con una prognosi quoad vitam di pochi giorni nella migliore delle ipotesi. Di conseguenza, sono stati nuovamente ribaditi i principi di un corretto trattamento del deli-rium, focalizzati sulla prevenzione delle cause evitabili, sulla correzione dei fattori predisponenti e scatenanti e sulla migliore strategia assisten-ziale, ambientale e farmacologica.Nell’ambito della sedazione palliativa, procedura che riduce o abolisce temporaneamente o definitivamente lo stato di coscienza, non potevano mancare stimolanti condivisioni sul consenso informato. Nei casi in cui il paziente è competent, il consenso informato è il terzo elemento fonda-mentale (insieme a refrattarietà del sintomo e prognosi) per poter met-tere in atto la procedura. Se il consenso informato può essere raccolto

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nei casi in cui la criticità sintomatologica non altera lo stato di coscienza (tipicamente in presenza di dispnea, emesi, emorragia, dolore…), è evi-dente che un paziente delirante non può fornire un consenso informa-to plausibile. In tali casi, il processo decisionale avviene esclusivamente all’interno dell’équipe. La famiglia deve essere messa al corrente dell’in-tento procedurale, come tipicamente avviene in Cure Palliative, ma non può assumere un ruolo decisionale vincolante per gli operatori sanitari. Le motivazioni sono facilmente intuibili: in una situazione così drammati-ca non può certo essere una famiglia sofferente e, a volte, comprensibil-mente disorientata a indirizzare le scelte professionali. Studi della lette-ratura hanno ben rilevato la sofferenza “postuma” dei familiari che hanno influenzato le scelte degli operatori sanitari nei confronti della sedazio-ne palliativa, sia favorendola (timore di aver accorciato la vita del proprio caro) sia ostacolandola (timore di aver inflitto al proprio congiunto ulterio-ri ed evitabili sofferenze); tali emozioni erano ancora ben presenti anche a distanza di molto tempo dalla morte del paziente (Figura 2).10

Figura 2

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In questo ambito, la maggior parte degli operatori ha descritto un modus operandi condivisibile. La sedazione palliativa non è una pratica da effet-tuare a cuor leggero, trattandosi di incidere volontariamente sullo stato di coscienza del paziente. Tranne situazioni catastrofiche, come l’emorragia acuta e inarrestabile (su cui, in un contesto domiciliare, spesso non si ha neppure il tempo materiale per intervenire), la decisione va condivisa in équipe e successivamente con i familiari, spiegandone le motivazioni in modo scientifico ma con un linguaggio comprensibile. Peraltro, gli stes-si partecipanti hanno riconosciuto la necessità di sostenere i familiari in presenza di delirium, sindrome in grado di far apparire una persona del tutto diversa da quella conosciuta nella biografia familiare. Sia in questa fase sia in quella della sedazione palliativa, la sofferenza dei familiari può essere profonda e meritevole del massimo sostegno. In effetti, il disagio manifestato dai familiari parrebbe essere significativo, anche a distanza di tempo, quando la condivisione con il personale sanitario è stata super-ficiale e le spiegazioni poco autorevoli e convincenti.In qualche caso, i partecipanti hanno invece sottolineato il ruolo decisio-nale anche della famiglia: è auspicabile che l’interazione con gli altri par-tecipanti, la condivisione con gli esperti presenti in aula e il consiglio di consultare la letteratura specializzata sull’argomento possano riorientare il processo decisionale secondo le “buone pratiche”.Infine, come già accennato, molti partecipanti hanno drammaticamente sottolineato l’indisponibilità del midazolam quando occorre procedere alla sedazione palliativa domiciliare; è un problema diffuso in molte aree geografiche del nostro Paese e tale da sottrarre al paziente uno dei far-maci più indicati per questo trattamento (Figura 3).Tale osservazione suscita amare considerazioni: lo sviluppo delle Cure Palliative domiciliari, auspicato da deontologia, scienza e normativa vigente,11,12 prevede che gli strumenti per praticarle siano resi disponibili, anche nelle situazioni di particolare complessità. In caso contrario, il rischio è quello di una qualità di morte pessima, magari in un Pronto

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Soccorso, luogo di cura predisposto e attrezzato per salvare vite umane, non per accogliere un paziente moribondo e gravemente sofferente.

Figura 3

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Il dolore “difficile”La discussione sul “dolore difficile” ha manifestato una certa disomoge-neità dei partecipanti nel definirlo e, di conseguenza, nel diagnosticarlo e nel predisporre un intervento terapeutico appropriato (Figura 4).

Alcuni hanno identificato il dolore “difficile” con il dolore “refrattario”; altri hanno inserito il dolore “refrattario” all’interno della categoria “dolore difficile”; altri ancora hanno distinto più propriamente i due aggettivi, cercando di elencare i casi – tra cui tutti citano il dolore neuropatico –, nei quali il trattamento del dolore risulta essere più complicato e richiede maggiore attenzione ma che, comunque, risponde ai trattamenti (Figure 5, 6).

Figura 4

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Figura 5

Figura 6

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Nel corso degli incontri è stato anche osservato come talvolta il dolore “diventi” difficile in seguito a una sua inadeguata diagnosi: si tratterebbe, quindi, di dolore male interpretato e mal gestito; è stato ribadito come sia opportuna, in questi casi, la valutazione da parte di un terapista del dolore, specialista peraltro non sempre facilmente reperibile. In conclusione, per questo gruppo il dolore difficile è quello complesso, che necessita di una diagnosi specialistica e di un trattamento altrettanto mirato per poterlo controllare adeguatamente (Figura 7).

Il gruppo di Firenze ha evidenziato alcuni aspetti interessanti. Si potreb-be parlare – è stato detto – non tanto di dolore difficile quanto, invece, di paziente difficile. In questa categoria rientrerebbero:• Ilpazienteanzianoperledifficoltàdivalutazionedeldoloredovutea

problemi cognitivi

Figura 7

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• Ilpazientechepresentaunasituazionepsicologicacomplessa.Sièpor-tato l’esempio del malato ancora giovane (40-60 anni) nel quale c’è mol-ta rabbia, quindi con una grossa componente psicologica ed emotiva

• ilpazientechesviluppaiperalgesia(valutazionenoncorrettadeldolore→ iperdosaggio di oppioide → iperalgesia da oppioide; è stata usata efficacemente l’espressione “in questi casi rincorriamo il dolore”).

Il distress psicologico è stato citato come elemento dirimente nella de-finizione del dolore difficile in tutti gli incontri ma, in modo più diffuso, a Milano (Figura 8), Roma, Catania e Firenze, dove si è anche affrontato il problema dell’utilizzo della cannabis nel trattamento del dolore resisten-te nei pazienti tossicodipendenti: un problema per ora poco sentito ma che, con l’entrata in commercio dei cannabinoidi, diventerà d’attualità.

Figura 8

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In linea di massima, è stato rimarcato come il dolore possa definirsi “difficile” per una serie di situazioni critiche, che possono essere di tipo:

1. clinico

2. gestionale

3. sociale/psicologico/spirituale.

Dal punto di vista clinico, la difficoltà di gestire il dolore, come già accen-nato, è stata segnalata sia sul versante diagnostico sia su quello terapeu-tico e ha riguardato prevalentemente il dolore neuropatico, l’iperalgesia da oppiacei e il BreakThrough cancer Pain.Le problematiche gestionali sono spesso legate al trattamento a domi-cilio e collegate all’aderenza alle terapie da parte di pazienti e caregiver e alla cogestione del caso non abbastanza coordinata fra diverse figure mediche.Quasi tutti i gruppi hanno messo in evidenza che lo stato di sofferenza, nel malato oncologico in fase avanzata, comprende il dolore ma non si esaurisce in esso. In tale stato di sofferenza s’inseriscono problematiche spirituali, psicologiche, relazionali, che spesso finiscono per intrecciarsi in maniera inestricabile con il dolore fisico. Si tratta, in questi casi, di un sintomo non organico, legato al distress psicologico ed esistenziale. Quindi, anziché utilizzare un’alta dose di oppioidi, sarebbe più opportuno individuare la componente emotiva e agire su di essa. Lo stato di soffe-renza globale, talvolta definito “dolore totale”, pone al palliativista e al terapista del dolore sfide molto più complesse e “difficili” rispetto alla gestione clinica del sintomo. Tutti i partecipanti si sono mostrati consa-pevoli del fatto che è comunque compito del terapista del dolore e del palliativista farsi carico globalmente dello stato di sofferenza della per-sona.

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Roma

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La criticità nella relazione e nella comunicazione

Introduzione

Nell’ultima fase della vita un rapporto empatico con i curanti assume un ruolo di grande influenza sulla qualità di vita del malato. Il bisogno di uno scambio caldo e sincero, nel rispetto del pensare e del sentire del mala-to, non è di minore importanza rispetto a quello di cure a base di farma-ci per la gestione dell’insieme di sintomi che caratterizzano questa fase della malattia. Solo una relazione interpersonale autentica permette di raccogliere e di condividere emozioni forti e intime e di comunicare in modo sereno la verità, anche quando è difficile da accettare. La relazione e, di conseguenza, la comunicazione con il malato e la famiglia, oltre a essere un tema di pari dignità rispetto a tutti gli altri argomenti affrontati dai gruppi di lavoro che hanno partecipato al progetto Appro.Do, presen-ta importanti criticità sia perché la comunicazione sfugge alle rassicu-ranti indicazioni delle linee guida, sia perché dipende da un consistente numero di variabili: il malato, i familiari, i loro rapporti interpersonali, i precedenti rapporti con i sanitari, la loro situazione socio-culturale, la fede religiosa e, non ultima, l’équipe di Cure Palliative. Per questi motivi, il dibattito su questa tematica è stato particolarmente vivace in tutti gli incontri locali, nel corso dei quali alcuni aspetti, come si potrà verificare proseguendo nella lettura, sono apparsi trasversali e comuni all’Italia del Sud come a quella del Nord: questo smentisce, ad esempio, la convinzio-ne secondo la quale vi sia al Nord una maggiore “disinvoltura” nell’avere un atteggiamento franco, sia con il malato sia con i familiari, riguardo alla prognosi di malattia.

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Quali elementi di criticità con il paziente e con la famiglia?

Nel seguente schema sono raggruppate le criticità emerse in tutte le sedi (Figura 1).

Ovunque si è ribadito il fatto che spesso il paziente ignora la prognosi della malattia, se non addirittura la diagnosi, e che molte volte il concetto di terminalità sfugge alla stessa compagine familiare, a causa di una non chiara comunicazione da parte dei sanitari (come osservato a Firenze, Milano e Roma).È, quindi, d’obbligo porsi la seguente domanda: perché è così difficile per il medico comunicare cattive notizie? Certamente perché, se viene a mancare il rapporto cura = guarigione, è oggettivamente difficile dire la verità senza togliere la speranza o indurre uno stato irreparabile di rifiuto

Figura 1

A. Mancata consapevolezza del paziente e della famiglia della diagnosi e della prognosi

B. Aspettative erronee da parte del paziente e della famiglia

C. Livello socio-culturale del paziente/famiglia

D. Relazioni familiari

E. Disponibilità di caregiver

F. Scarse conoscenze sul ruolo del palliativista

G. Cure Palliative o cure di fine vita?

H. Importanza delle simultaneous care

Principali criticità con il paziente e con la famigliaemerse negli incontri Appro.Do

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La criticità nella relazione e nella comunicazione

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e disperazione. La prospettiva di non poter guarire modifica in modo dra-sticamente negativo la visione che il malato ha del proprio futuro, con un impatto più o meno devastante in funzione di innumerevoli e, per il me-dico, imprevedibili fattori: la fede religiosa, la forza interiore, le aspetta-tive, il ruolo nella famiglia, etc. Per questa ragione, la maggior parte dei medici tende, finché è possibile, a tacere la gravità della malattia, nella convinzione che il malato non possa o non voglia capire, in una complice alleanza con i parenti che hanno le sue stesse difficoltà, anziché con il malato come sarebbe suo compito.Come è emerso dall’incontro di Padova, “Occorre essere capaci di ridi-mensionare le aspettative del malato; a volte si ha paura a comunicare, non si è capaci di gestire le proprie emozioni, bisognerebbe essere in grado di comunicare con leggerezza notizie complicate e difficili”. D’altra parte, quando si va oltre il curare e il guarire, in contesti fluttuanti che richiedono comportamenti difficilmente programmabili a priori, il me-dico si scopre professionalmente impreparato, non ha gli strumenti per gestire la propria emotività, tantomeno quella degli altri, senza compro-mettere la propria immagine, rassicurante agli occhi propri, ma che deve esserlo anche a quelli del malato. Infine, non è stato formato né viene supportato per controllare la propria paura della morte e della sua irri-mediabilità. Il problema, che approfondiremo meglio in seguito, è emer-so in modo prepotente sempre a Padova, dove il gruppo ha affermato: “In questo mestiere ti porti dietro la sofferenza, è importante avere cura del benessere di chi lavora, prendersi cura di se stessi”. Queste affermazioni hanno portato a fare una riflessione sulla funzione dello psicologo, che dovrebbe comprendere anche il farsi carico del personale dell’équipe. In tutti gli incontri si è ribadita con particolare enfasi la necessità che tutti gli operatori seguano un percorso formativo che li renda in grado di avere strumenti comunicativi validi ed efficaci come, per esempio, il protocollo di Baile, denominato SPIKES, acronimo formato dalle lettere iniziali dei sei passi fondamentali che lo compongono (Figura 2).1

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Come più volte sottolineato nei vari incontri, non riconoscere che la cor-retta (e trasparente) comunicazione è un processo che deve iniziare fin dal momento della diagnosi e che rappresenta un aspetto importante della presa in carico del malato – perché anche il tempo di relazione è tempo di cura – si traduce, nelle fasi più avanzate della malattia, in una somministrazione di trattamenti in eccesso (ulteriori linee di chemio- o radioterapia) piuttosto che nella proposta, più opportuna per il malato, di passare alle Cure Palliative. Queste ultime, infatti, vengono attivate tardivamente (è una denuncia trasversale a tutti i gruppi) e sarebbero, peraltro, appropriate in tutti gli stadi della malattia oncologica. Secondo le stime presentate all’ASCO nel 2012, la percentuale degli oncologi restii a proporre le Cure Palliative ai propri pazienti arrivava fino al 60%.2

Dai gruppi è emerso che spesso, alla presa in carico, il paziente (a volte persino la famiglia) ignora ancora la diagnosi o, comunque, la prognosi. Se l’oncologo, come spesso accade, si limita a comunicare che “la ma-lattia è in progressione” senza specificare che cosa significhi in termini di prognosi, in realtà lascia la deduzione delle conseguenze al paziente,

Figura 2

S = Setting up (Preparare il colloquio)

P = Perception (Capire quanto il paziente sa)

I = Invitation (Capire quanto il paziente vuole sapere e ricevere l’invito ad essere informato)

K = Knowledge (Dare le informazioni)

E = Emotions (Rispondere alle emozioni del paziente)

S = Strategy and Summary (Pianificare e riassumere)

Modello SPIKES

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che tende ovviamente a percepire in modo più ottimistico il messaggio. Quindi, per l’oncologo diventa difficile “passare” il malato al palliativista, cambiando, senza sapere come motivarlo, il setting di cura. Sarebbe au-spicabile prendere in carico il paziente in modo simultaneo, colloquiando con gli oncologi prima che la malattia sia in fase avanzata; ma sembra che ciò, da quanto è emerso nelle varie località, si verifichi solo rara-mente. In particolare, a Padova e a Milano si è discusso sulla necessità che le simultaneous care, “un modello organizzativo mirato a garantire la presa in carico globale attraverso un’assistenza continua, integrata e progressiva fra terapie oncologiche e Cure Palliative, quando l’outcome non sia principalmente la sopravvivenza del malato”3, diventino una real-tà in tutto il territorio nazionale, allo scopo di avviare il paziente alle Cure Palliative in tempo utile e non solo negli ultimi giorni di vita. Tra l’altro, sono ormai molte le evidenze che dimostrano come le Cure Palliative possano migliorare la qualità di vita dei malati, ridurre i costi delle tera-pie e persino prolungare la sopravvivenza dei pazienti.In tutti gli incontri si è poi discusso sulla difficoltà attuale di individuare un valido caregiver: questa figura, come segnalato nell’incontro di Roma, è spesso rappresentata da badanti straniere, quindi con difficoltà di lin-guaggio e con culture profondamente differenti da quella del malato, op-pure da più familiari che si alternano ripetutamente, con conseguente frammentazione delle informazioni.Il problema è talmente concreto e diffuso che Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) ha ritenuto opportuno farsene carico, al fine di valorizzare il ruolo del caregiver e di migliorarne la professiona-lità. Il quadro descritto nel sito di Agenas è particolarmente dettagliato e interessante: pertanto, abbiamo ritenuto opportuno riportarlo, almeno nelle parti essenziali. “Secondo i dati stimati dall’ISTAT, i caregiver fami-liari sono più di 9 milioni e per il 90% si tratta di donne. In genere sono parenti, conviventi, persone amiche, che in maniera volontaria e non re-munerativa si occupano dei problemi sociali e sanitari delle persone in

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condizioni di non autosufficienza. Spesso si diventa caregiver per caso e necessità, per “designazione” familiare oppure perché volontariamente si assume l’impegno di assistere il parente, trovandosi così a dover prov-vedere sia ai bisogni primari e pratici (alimentazione, igiene personale, etc.) sia alla cura della persona di carattere sanitario-assistenziale, sen-za avere un’informazione esauriente sulle problematiche di cui soffre la persona assistita, sulle cure necessarie, sui criteri di accesso alle presta-zioni sociali e sanitarie. In questa realtà, il caregiver è costretto a dover mediare tra i propri bisogni, quelli della persona che ha in cura, quelli del mondo del lavoro, e rischia inevitabilmente di accantonare le proprie esigenze con ricadute importanti sul proprio equilibrio psicofisico. Nel panorama sociale di oggi non sono molti gli interventi che si fanno carico di questi bisogni complessi. Occorrono strutture e meccanismi che sup-portino la figura del caregiver su vari piani: pratico, tecnico, emotivo, psi-cologico. Occorre riconoscere e supportare diritti e doveri, perché ruolo e funzione del caregiver sono determinanti per la tenuta del welfare e per il contenimento dei costi dell’assistenza. In questo contesto, Agenas ha istituito un gruppo di lavoro per la valorizzazione del ruolo del caregiver familiare, che si inserisce nei diversi percorsi di presa in carico delle per-sone con bisogni socio-sanitari complessi (malati cronici e non autosuf-ficienti) ed è direttamente collegato alle azioni che l’ente ha in corso in tema di empowerment del singolo paziente e della comunità”.4

A Salerno, Padova e Firenze si è spostata l’attenzione sugli aspetti psicologici, rimarcando la necessità di un valido supporto psicologico per i casi più complessi, costituiti da pazienti giovani o comunque dalla presenza di minori nel nucleo familiare. Tale supporto, come già accennato, è necessario sia per il paziente e la famiglia sia per gli stessi operatori, secondo quanto espresso dai partecipanti a Salerno e Firenze. Infatti, “il contatto quotidiano con la morte, con la sofferenza fisica e morale provoca un contraccolpo forte a livello emotivo…” e ancora “(l’operatore) si trova a confrontarsi con tutte le angosce, le

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preoccupazioni, i fantasmi della propria morte e con i limiti del proprio ruolo professionale”.5 Frustrazione, rabbia e senso di inutilità sono sensazioni comuni che conducono frequentemente al burnout. Sono indispensabili, perciò, riunioni di équipe con un supervisore specializzato che, a cadenza periodica, permettano a tutti i membri di esprimersi, di manifestare il proprio disagio e i propri dubbi e di rielaborare i vissuti di rabbia e paura nonché di discutere sia degli aspetti tecnici sia di quelli relazionali di un lavoro difficile. Lo schema seguente riassume necessità e realtà evidenziate in questi tre incontri (Figura 3).

In altri casi, come riportato a Catania, è emerso il pesante carico buro-cratico che grava sugli operatori, essendo abbastanza frequente il rim-pallo di responsabilità tra le istituzioni, come nel caso di dimissioni pro-tette ospedaliere senza una preventiva fornitura di farmaci e presidi a domicilio oppure la difficoltà – ancora presente in alcuni ambiti – sull’ap-provvigionamento di morfina/oppiacei.

Figura 3

A. Mancanza di un supporto psicologico per i casi complessi

B. Resilienza del caregiver

C. Presenza di minori nel nucleo familiare

D. Assistenza psicologica agli operatori

E. Pazienti giovani

Aspetti psicologici e realtà particolari: sintesi dagli incontri Appro.Do di Salerno, Padova e Firenze

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Quali criticità tra i componenti della stessa équipe?

L’équipe è una struttura multidisciplinare, integrata e coordinata, con un piano di lavoro concordato e condiviso con la persona malata e con la famiglia. Deve essere in grado di intervenire positivamente sugli aspetti psicofisici, sociali e spirituali del malato e di mediare con i familiari; deve, pertanto, elaborare piani di cura e di assistenza personalizzati, che si adattino ogni volta alla specifica situazione. Si tratta di un compito diffici-le, soprattutto se mancano gli strumenti o se non si riescono a creare si-tuazioni adeguate. A questo proposito, riportiamo uno schema, elaborato dal gruppo di Roma, sulle criticità che impediscono all’équipe di com-piere in modo adeguato il proprio lavoro e che riassume quanto emerso anche nelle altre città (Figura 4).

Figura 4

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Tutti i tavoli di lavoro hanno concordato che l’équipe è e rimane una struttura complessa, che richiede capacità organizzativa da parte di un abile case manager per utilizzare al meglio le competenze di ognuno. Lo strumento è il lavoro di gruppo e la funzionalità di un gruppo richiede definizione degli interventi, valutazione costante del lavoro e formazione continua. Solo una formazione approfondita permetterà una buona comunicazione all’interno dell’équipe, con una condivisione del piano di cura e un’omogeneità di condotta. Importante risulta, quindi, la formazione al lavoro di équipe, che rappresenta un lungo processo di preparazione e condivisione durante il quale ogni componente dovrà imparare a mantenere il proprio ruolo, integrandosi comunque all’altro fino al raggiungimento di un unico obiettivo.A Salerno è stato notato che l’eccessivo carico di lavoro rappresenta un grosso ostacolo alla comunicazione, anche tra i membri dell’équipe. A Roma sono venute alla luce altre criticità come, per esempio, la man-canza della cartella clinica informatizzata, il cui utilizzo limiterebbe no-tevolmente la dispersione delle informazioni, oppure la difficoltà di man-tenere una stessa équipe per paziente, a causa di un ridotto numero di personale, che faciliterebbe notevolmente i rapporti e la comunicazione.

Criticità nei rapporti interdisciplinari con i colleghi degli altri Servizi e con i Medici di Medicina Generale (MMG)

La presenza di MMG ad alcuni tavoli di lavoro ha portato alla luce annosi problemi di carattere relazionale tra gli stessi e i colleghi di altri Servizi. Di seguito riportiamo appositamente gli schemi elaborati dalle discus-sioni di Milano, Roma e Catania, che dimostrano quanto questo problema sia sentito e presenti le stesse caratteristiche su tutto il territorio nazio-nale (Figure 5-7).

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Figura 5

Figura 6

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Nell’ambito di quanto previsto dalla Legge 38 del 2010 e, successivamen-te, dall’Intesa Stato Regioni del 25 luglio 2012, i MMG giocano un ruolo strategico sul piano della continuità e dell’integrazione con le strutture della Rete locale di Cure Palliative.6 “Essi, infatti, sono gli unici operatori che hanno come mandato quello di curare a domicilio in modo continua-tivo i malati con patologie cronico-degenerative durante tutto il percorso della loro malattia e, quindi, quelli meglio in grado di identificare e rac-cogliere i bisogni di Cure Palliative nel momento in cui si manifestano”.7

Malgrado ciò, il rapporto tra MMG, palliativista ed équipe di Cure Palliati-ve si è rivelato difficile o addirittura inesistente. Se il palliativista denun-cia disinteresse e assenza, il MMG, nelle sedi in cui era presente, lamenta una scarsa considerazione e la difficoltà a comunicare con il palliativista. Lo scambio di accuse reciproche non fa che evidenziare un disagio da entrambe le parti che leggi e decreti non sono riusciti, ad oggi, a sanare.

Figura 7

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Il modello organizzativo, ben delineato nella normativa nazionale, richie-de in modo esplicito l’integrazione dei diversi professionisti del territorio e dell’ospedale, sia modificando l’approccio culturale-comunicazionale interdisciplinare sia utilizzando sistemi informatici da parte dei MMG e delle Unità di Cure Palliative per la trasmissione delle informazioni. Sono provvedimenti indispensabili per migliorare l’accesso alle Cure Palliative domiciliari e garantire la continuità assistenziale che, tuttavia, a quanto emerge dagli incontri del progetto Appro.Do, sono rimasti un suggeri-mento apprezzato, ma raramente attuato.

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http://www.corriere.it/salute/sportello_cancro/12_giugno_27/antinausea-cure-palliative_ 8c2245f4-c03c-11e1-9409-cd08fce6f4b9.shtml

3. Lora Aprile P. Il Modello Simultaneous Care in Oncologia – Ruolo del Medico di Medicina Generale. AIOM: IV Corso Residenziale Continuità di Cura in Oncologia. Roma, 30 marzo 2012.

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6. Legge 15 marzo 2010, n. 38. “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 19 marzo 2010.

http://www.parlamento.it/parlam/leggi/10038l.htm

7. Agenas 2012. Il Progetto Teseo-Arianna. Studio osservazionale sull’applicazione di un modello integrato di Cure Palliative domiciliari nell’ambito della rete locale di assistenza a favore di persone con patologie evolutive con limitata aspettativa di vita.

http://agenas-buonepratiche-cp.it/survey/progetti/teseoArianna/Teseo-Arianna_Protocollo.pdf

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Salerno

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ORGANIZZAZIONE

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Le buone pratiche in Cure Palliative a domicilio

Introduzione

Con il termine “Buone Pratiche” s’intendono quei processi operativi che consentono il raggiungimento degli obiettivi attesi in modo efficiente ed efficace. Gli elementi che qualificano una Buona Pratica, secondo quanto pubblicato dall’Osservatorio delle Buone Pratiche nelle Cure Palliative di Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali), sono:

1. Prassi consolidate, ovvero esperienze concrete stabili nel tempo e non occasionali né, tantomeno, teoriche.

2. La misurabilità di indicatori rilevanti, chiaramente descritti.

3. La presenza di modelli innovativi, pertinenti agli obiettivi delle cure e generatori di sviluppo.

4. La riproducibilità in altri contesti.1

Il livello di qualità raggiunto dalle Unità di Cure Palliative (UCP) rispetto alle buone pratiche può essere valutato dal confronto con gli indicatori che l’Osservatorio ha predisposto.L’interesse per le Cure Palliative di qualità, oltre alle società scientifiche e alla società civile, ha coinvolto in modo sensibile il legislatore italiano, particolarmente negli ultimi anni. Dal 2010 c’è stato un fermento legisla-tivo ministeriale in tema di Cure Palliative, a partire dalla Legge 38 del 15 marzo 2010,2 allo scopo di fornire alle Regioni e alle Aziende Sanitarie strumenti per favorire lo sviluppo delle Cure Palliative e della Terapia del Dolore. Tuttavia, nonostante la finalità della Legge 38/2010 chiaramente dichiarata all’art. 1 “la legge tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore”, a distanza di quattro anni la co-pertura del fabbisogno di Cure Palliative per i malati oncologici è molto bassa: solo il 30% dei malati morti per cancro è stato assistito dalla rete

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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di Cure Palliative, secondo quanto dichiarato dal Ministro della Salute nel suo Rapporto al Parlamento nel 2014 sullo stato di applicazione della Legge 38/2010.3 Se consideriamo esclusivamente le cure domiciliari, la percentuale di copertura si ferma al 20,2% contro il gold standard del 45%, come previsto dal D.M. n° 43 del 22 febbraio 2007, mentre la coper-tura in Hospice si è fermata al 9%, rispetto al 20% previsto dallo stesso Decreto.4

Nei Paesi europei muoiono in media 561,5 cittadini di età superiore ai 15 anni ogni 100.000 abitanti, distribuiti in: malattie non oncologiche 60%, malattie oncologiche 39%, HIV/AIDS 1%.5 Ebbene, in Italia risulta molto bassa la copertura del fabbisogno di Cure Palliative non oncologiche. Dal Rapporto di Agenas del 2013, solo il 7,7% dei pazienti assistiti in Cure Palliative domiciliari presentava una malattia non oncologica.6

Un ulteriore elemento di riflessione critica viene offerto dalla grande variabilità delle modalità organizzative, delle risorse impiegate e dei risultati raggiunti nelle diverse Regioni d’Italia.Queste ragioni hanno indotto il Board a porre il problema dell’adeguatezza dei servizi rispetto alle buone pratiche nelle Cure Palliative domiciliari come spunto di riflessione e di discussione negli incontri nell’ambito del progetto Appro.Do.Trattandosi di un argomento complesso e data l’eterogeneità dei gruppi, quanto di seguito descritto rappresenta la testimonianza dei partecipanti, campione rappresentativo ma non esaustivo delle diverse realtà locali.

Che cosa siamo in grado di garantire rispetto a quanto previsto dalla normativa regionale e nazionale e dagli indicatori di qualità dell’Agenas?

Il punto di riferimento è rappresentato dal “Documento sui requisiti mi-nimi e le modalità organizzative necessari per l’accreditamento delle

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Le buone pratiche in Cure Palliative a domicilio

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strutture di assistenza ai malati in fase terminale e delle Unità di Cure Palliative e della Terapia del Dolore” (Intesa Stato Regioni del 25 luglio 2012).7 Nel documento sono descritti 14 enunciati, da cui sono ricava-ti gli indicatori dell’Osservatorio di Agenas, assunti come riferimento standard con cui le varie UCP possono confrontarsi. L’attivazione della Rete territoriale di Cure Palliative (il primo enunciato del documento) è stata recepita e applicata in maniera difforme nelle varie realtà italia-ne. In alcune Regioni, soprattutto nel Sud del Paese, non c’è una chiara strutturazione della rete o manca del tutto, mentre nelle Regioni del Centro e del Nord le reti, sebbene dichiarate nei documenti, non sono in grado di garantire la copertura del servizio in maniera uniforme. In particolare negli incontri Appro.Do di Salerno, Bari e Catania, la man-canza della rete e le relative conseguenze sono state dichiarate in modo esplicito (Figura 1).

Figura 1

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In altre città (si ricorda che i partecipanti di ogni incontro avevano pro-venienze regionali diverse) la rete è presente solo in alcuni luoghi e in modo disomogeneo, come riportato nell’incontro di Roma, mentre tutti i partecipanti degli incontri di Milano e di Torino hanno dichiarato la pre-senza di una rete, pur commentando: “Il problema è la carenza di risorse, che impedisce di fornire una copertura completa su tutto il territorio”. In Piemonte, nel maggio 2013, le ASL (Aziende Sanitarie Locali) hanno rice-vuto indicazione attuativa di rete e la Regione ha invitato ogni direttore di ASL ad attivare la rete locale di Cure Palliative, ma concretamente resta ancora molto da fare: anche se prevalgono gli aspetti positivi, questi sono comunque parziali (Figura 2).

Figura 2

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Si concorda che occorrerebbe una struttura di coordinamento cui afferi-scano i servizi locali affinché, in caso di situazioni complesse, si possano condividere le attività. In Valle d’Aosta, l’Intesa Stato-Regioni non è sta-ta ancora recepita. In Liguria era stata istituita una rete metropolitana di Cure Palliative: le fondazioni e le ASL si riunivano mensilmente per con-cordare le attività, ma non è durato a lungo. Ora, si attende la ricostituzio-ne della rete, dopo il recepimento della delibera, in modo da permettere a tutte le istituzioni di operare in modo omogeneo e con servizi uniformi.Le realtà che si sono incontrate a Milano e Torino, dove la rete è presente, rappresentano un modello interessante sul quale vale la pena dilungarsi. Si ricorda comunque che quanto affermato nei punti salienti riportati di seguito e anche in altre parti del documento, sotto il nome del luogo in cui si è tenuto il seminario, rappresenta solo il parere della maggioranza dei partecipanti, circa una trentina tra palliativisti e personale infermieristico. Come già detto, si tratta di un campione rappresentativo ma non esau-stivo delle varie realtà: i dati vanno pertanto interpretati in tal senso.

MILANO (Lombardia)

• Sigarantiscelapresaincaricodipazientiadulti.Soloinuncentro(Vidas)sui 7 coinvolti nel gruppo ci si occupa anche di pazienti pediatrici con patologie non necessariamente oncologiche. Tutti i gruppi concordano sulla necessità di attivare una formazione specifica per il palliativista pediatrico.

• ÈgarantitalacontinuitàdicuratraOspedaleeDomiciliodaOncologiaed Ematologia, così come il sostegno ai familiari, con i quali viene condotto un colloquio strutturato prima della presa in carico di ogni paziente.

• L’assistenzadibasespecialisticavedecoinvoltioncologo,ematologo,anestesista e medico con almeno 3 anni di esperienza in Cure Palliative convenzionate.

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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• Èquasisempregarantitalapresenzadellopsicologo,dedicatoocondi-viso con le altre strutture o con contratto libero professionale. Quando non è membro dell’équipe, la consulenza è ovviamente discontinua.

• La formazione permanente del personale è diffusa in quasi tutte lestrutture (eccetto una).

• Il tempo che intercorre tra la segnalazione e la presa in carico deipazienti è, in media, di 48 ore.

• Perquantoriguardalafornituradifarmaciadomicilio,afrontediunabuona disponibilità si lamenta la mancanza di un ricettario che con-senta anche ai medici non ospedalieri di effettuare una prescrizione rimborsabile.

TORINO (Piemonte, Liguria, Sardegna)

• LaretediCurePalliativecopreparzialmentesialareperibilitàinfer-mieristica sia quella medica. In Piemonte, la reperibilità infermieri-stica è quotidiana, quella medica parziale, non garantita nei fineset-timana. In Liguria, l’attività è svolta dalla Fondazione Ghirotti – nata per prima – e dalle ASL: le due istituzioni hanno formulato un accordo in base al quale la Fondazione Ghirotti interviene anche sui casi del-le ASL, là dove ve ne sia necessità. I medici della Fondazione Ghirotti e dell’ASL hanno, quindi, congiunto l’attività e gli obiettivi, garanten-do complessivamente una reperibilità costante, sia infermieristica sia medica. Esiste un numero telefonico di riferimento unico per i pazienti e la prestazione viene eseguita da chi è disponibile.

• L’ASLdiGenovaèunarealtàmetropolitana,suddivisain6distretti:glioperatori sono assunti a tempo indeterminato e dedicati esclusivamente alle Cure Palliative, in ambito sia infermieristico sia medico, provenienti dall’ADI (Assistenza Domiciliare Integrata) e adeguatamente formati.

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• InPiemonte,nontutteleASLhannoun’équipediCurePalliativede-dicata: dove manca, sono le équipe di Cure Palliative del no-profit a svolgere attività sostitutiva dei servizi che l’ASL non può offrire.

• In Sardegna, è prevista la collaborazione dell’ADI con la struttura. L’obiettivo comune dovrebbe essere la continuità di assistenza al singolo paziente. C’è un problema di distribuzione dei servizi tra no-profit e ospedalieri e un problema di risorse. Genericamente si sostiene che in Italia occorrerebbe aumentare il numero degli operatori in Cure Palliative: bisogna assumere e fare investimenti nella formazione. Serve continuità assistenziale sia infermieristica sia medica.

Assistenza h24, 7 giorni su 7. Questo requisito è stato un nodo centrale di discussione in tutti gli incontri. Lo stesso tema viene ampiamente trattato anche nel capitolo relativo alla “Integrazione tra i servizi” di questo libro, al quale si rimanda per ulteriore approfondimento. Il requisito è apparso difficile da rispettare, anche nei gruppi che hanno riportato una realtà ben organizzata, a causa della scarsa disponibilità di personale medico e infermieristico. Nel gruppo lombardo, mentre si garantisce l’assistenza telefonica h24 al paziente, ai parenti e al medico del 118, l’assistenza medica e infermieristica viene erogata solo dalle ore 8 alle ore 20. Sia a Milano che a Torino si è dichiarato che non c’è la possibilità di uscita notturna per mancanza di personale, così come il servizio rimane scoperto nel finesettimana. I problemi si accentuano da giugno a settembre per i turni di ferie, durante i quali si cerca “in qualche modo” di garantire il servizio. Si tratta di osservazioni e problematiche riportabili anche a tutti gli altri gruppi dove, sempre a causa di mancanza di risorse, è raramente garantita l’assistenza h24, 7 giorni su 7. Fanno eccezione i partecipanti che si sono incontrati a Bari, dove la Regione, nonostante si denunci la mancanza di rete, garantisce, insieme a un servizio generalmente ben strutturato, erogazione e reperibilità per 24 ore tutti i giorni, grazie all’impegno dei gruppi no-profit di Cure Palliative pugliesi (Figura 3).

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Assistenza specialistica domiciliare. Dagli incontri Appro.Do risulta che essa è garantita solo in alcune aree del Paese, ma con diverso grado di efficienza, in rapporto alla disponibilità di personale competente presente in pianta organica.

Sostegno psicologico. Laddove presente, risulta comunque da potenzia-re. Anche in questo caso la situazione è profondamente disomogenea: in Puglia, lo psicologo fa parte dell’équipe, così come è presente in tutte le strutture che hanno partecipato all’incontro Appro.Do di Roma, ma viene attivato su richiesta della famiglia o del paziente, mentre si auspichereb-be la sua presenza sempre e comunque già al momento della presa in carico del malato. In Lombardia è presente in modo continuativo solo nel 40% dei casi e spesso è condiviso con altre strutture. La risposta è par-ziale anche nel gruppo di Catania. Presso l’ASL della Liguria è assente. Nel gruppo che si è incontrato a Padova è presente solo in alcune ASL.

Figura 3

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Anche a Salerno la disponibilità dello psicologo non è costante in tutte le strutture; lo psicologo viene coinvolto dietro richiesta dei familiari attra-verso il medico curante: il servizio viene attivato attraverso un modulo specifico, che viene compilato e sottoscritto dai familiari. L’attivazione avviene entro 3 giorni. A Rende, in Calabria, l’accoglienza viene erogata attraverso il PUA (Punto Unico di Accoglienza), presso il quale opera un assistente sociale che filtra, smista e indirizza le richieste. Tra le strut-ture di afferenza dei presenti a Salerno, solo tre includono in équipe un membro psicologo. In altre, la disponibilità dello psicologo è di 2-3 giorni alla settimana e, su richiesta, interviene sul territorio, negli stessi giorni.In conclusione, tutti i gruppi hanno la possibilità di accedere a una con-sulenza psicologica, ma la maggior parte dichiara di non fruire di un ser-vizio dedicato, quindi con un turnover di psicologi per di più non sempre preparati a seguire le situazioni di lutto imminente. Da tutti proviene la stessa richiesta: servono psicologi clinici esperti in Cure Palliative, da integrare nell’équipe in modo continuativo.

Colloquio strutturato. Questo è previsto in tutte le realtà che hanno par-tecipato agli incontri di Torino, di Bari – dove si auspica una procedu-ra formalizzata per inquadrare la situazione familiare – e di Roma, dove viene effettuato un colloquio telefonico strutturato prima della presa in carico e un colloquio non strutturato al momento della presa in carico. Al contrario, i partecipanti del Sud che si sono incontrati a Catania de-nunciano complessivamente la mancanza di un colloquio strutturato alla presa in carico. Nel gruppo di Firenze si ammette che Il colloquio con la famiglia viene svolto, ma in assenza di un’organizzazione precisa né vie-ne identificata chiaramente la figura professionale alla quale il compito è affidato. Nella maggior parte delle volte, il colloquio avviene in occasione della prima visita domiciliare, con qualche problema: a volte è impos-sibile un colloquio franco per la presenza del malato che non conosce tutta la verità sulla malattia e sulla prognosi. In conclusione, si dichiara

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che il colloquio strutturato non sempre è possibile, pur riconoscendone la necessità e l’importanza. La mancanza di un approccio corretto con la famiglia, fin dai primi incontri, è stata infatti riconosciuta come un pro-blema importante, con conseguenze che rendono difficoltoso tutto l’iter assistenziale.Particolare riferimento al tema si ritrova nel capitolo dedicato a “La cri-ticità nella relazione e nella comunicazione” che, non a caso, per la sua influenza sull’andamento complessivo della cura, rientra nell’area “clini-ca” di questo libro.

Fornitura dei farmaci. Risulta una pratica disomogenea e tortuosa nei meccanismi di prescrizione e di approvvigionamento. Come dichiarato nell’incontro di Roma, esistono realtà diverse: alcune consentono la for-nitura dei farmaci direttamente ai pazienti da parte della farmacia ospe-daliera di zona, altre demandano la prescrizione al Medico di Medicina Generale (MMG), altre forniscono i farmaci direttamente a casa, altre an-cora forniscono i farmaci in Hospice. In alcune sedi, quali Bari e Catania, i medici dedicati alle Cure Palliative non possiedono il ricettario regio-nale e sono costretti a demandare la prescrizione al MMG, non potendo nemmeno accedere alla farmacia territoriale. I vantaggi di una consegna diretta dei farmaci consentirebbero di prevedere procedure semplici che comporterebbero risparmi di tempo per l’approvvigionamento, un rapido e puntuale adeguamento della terapia sotto il controllo dell’UCP e un risparmio consistente per le Aziende Sanitarie, dati i costi più bassi dei farmaci rispetto al ricorso alle farmacie esterne. Per approfondimenti e completezza si rimanda all’argomento “Delirium e sedazione palliativa”, trattato nel capitolo “Problemi clinici emergenti” di questo libro.Di seguito riportiamo un sunto di quanto emerso nelle sedi in cui la discussione su questo requisito è stata più ampia.

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BARI

I farmaci vengono forniti, ma non esistono direttive regionali univoche. La decisione viene assunta dalle ASL e, a loro volta, dai singoli distretti. Mentre la città di Bari si affida alla farmacia distrettuale, la provincia di Taranto si rivolge alla farmacia ospedaliera: questo sdoppiamento, que-sta discrepanza incide sulla variabilità nella fornitura dei farmaci. Oltre alla tipologia e al quantitativo dei farmaci, spesso ridotto rispetto alla richiesta, anche per i tempi di consegna dei medicinali richiesti, si os-serva un’ulteriore discrepanza (dall’ASL di Bari si riceve dopo 15 giorni!). Al termine dell’assistenza, i farmaci non utilizzati vengono recuperati e ridistribuiti per garantire un risparmio economico. La legge, tuttavia, non lo prevede in modo chiaro: non esiste una procedura standardizzata. A Genova, presso la Fondazione Ghirotti, a seguito di una verifica dei NAS (Nuclei Antisofisticazioni e Sanità), è stata formulata una delibera per il recupero dei farmaci, che potrebbe rappresentare una base, un prece-dente cui la Regione Puglia potrebbe attingere. Presso le Onlus è invece previsto il recupero di farmaci. Il processo di smaltimento non è discipli-nato e avviene in conformità con le norme previste per i materiali dome-stici, cui sono equiparati. A domicilio, dovrebbero essere gli infermieri a recuperare il materiale e riportarlo in sede.

MILANO

Per quanto riguarda la fornitura di farmaci a domicilio, a fronte di una buona disponibilità si lamenta la mancanza di un ricettario (come denun-ciato anche nelle altre sedi) che consenta anche ai medici non ospedalie-ri di effettuare una prescrizione rimborsabile. L’utilizzo del ricettario “a ricalco”, che permette l’acquisto del farmaco ma non la rimborsabilità, è suggerito da alcuni come emergenza nel finesettimana, quando è difficile raggiungere il MMG. Si propone una nuova raccolta firme dopo quella, già tentata e fallita, della FedCP (Federazione Cure Palliative) in anni passati.

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Si possono poi stipulare convenzioni con le ASL, come avvenuto in alcune regioni.

PADOVA

Viene garantita la fornitura di tutti i farmaci, compresi quelli di fascia C e H utili al controllo dei sintomi.

ROMA

La fornitura non è né costante né univoca. Le realtà sono molto diverse: alcune hanno sufficiente fornitura dalla farmacia ospedaliera di zona, altre demandano quasi tutto al MMG; altre forniscono farmaci a casa del paziente, altre ancora in sede di Hospice.

SALERNO

È garantita la fornitura di farmaci e presidi là dove presenti negli elenchi consentiti dalle normative regionali. Purtroppo, non tutti i farmaci sono disponibili: spesso il paziente deve procurarsi autonomamente i farmaci, come l’albumina, a causa dell’assenza di indicazioni nel piano terapeuti-co della struttura, limitazioni estese all’eritropoietina e ad altri farmaci. La questione dell’albumina è diffusa e lamentata anche in altre regioni.

TORINOLa fornitura dei farmaci è parzialmente attiva con modalità diverse. Il problema più frequente è il tempo che intercorre tra la richiesta del far-maco e la consegna, che spesso è di 1-2 giorni. Servirebbe un documento di indirizzo e un incontro con i farmacisti ospedalieri. Se si prescrive la morfina su ricettario normale, il farmacista ospedaliero non fornisce più di 6 fiale. Per ovviare a questo limite, si può sfruttare il ricettario a ricalco. Alla Fondazione FARO Onlus di Torino, il rapporto con la farmacia è varia-bile: in alcuni distretti l’integrazione è eccellente, il contatto e il confronto

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con la farmacia è immediato, mentre in altri distretti si evidenzia la totale assenza di comunicazione. La farmacia non risponde e chiede addirittura la vidimazione da parte del MMG, lasciando trascorrere anche 3-4 giorni dalla richiesta alla consegna del farmaco. La variabilità tra le situazioni locali è importante: urge quindi una semplificazione e omogeneizzazione prescrittiva e distributiva. La Legge 38/2010, in realtà, disciplina le mo-dalità prescrittive ma, evidentemente, esiste un netto scollamento tra la direttiva e la sua attuazione. La distribuzione diretta degli stupefacenti potrebbe agevolare la distribuzione, con consegna diretta ai familiari dei pazienti. Sono auspicabili uno o più incontri in ambito locale tra i respon-sabili di Cure Palliative domiciliari e i farmacisti per concordare un’omo-geneità e una strutturazione delle modalità di distribuzione.

Per quanto riguarda gli altri item, come formazione, tempi di presa in carico, percentuale di pazienti deceduti a domicilio, la discussione è stata meno animata, anche se puntuale. I tempi di presa in carico sono abbastanza brevi: dalle 24 ore ai tre giorni, salvo qualche eccezione; per quanto riguarda, invece, i decessi a domicilio l’unico dato certo proviene dal gruppo di Torino ed è decisamente positivo: dal 60% all’80%. Rispetto alla formazione si rimanda al paragrafo conclusivo dedicato alle proposte.

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Che cosa non riusciamo a garantire e perché? (Figura 4)

Dal rapporto degli incontri regionali del progetto Appro.Do emergono criticità locali e di sistema nell’erogazione del servizio di Cure Palliative, che si ripercuotono sulla qualità delle cure e sui risultati.Gli aspetti critici dell’assistenza evidenziati sono gli stessi in tutto il Paese, ma con livelli di gravità differenti nelle varie Regioni:

1. Insufficiente attivazione delle reti di Cure Palliative e carenza di per-sonale specialistico

2. Carenza di protocolli e procedure per l’attivazione e la conduzione del piano assistenziale individuale

3. Scarso coinvolgimento del MMG

Figura 4

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4. Insufficiente supporto dello psicologo

5. Incompleta copertura del Servizio h24 e 7 giorni su 7

6. Disomogenea modalità di prescrizione e di approvvigionamento dei farmaci

7. Sistema informativo inadeguato a descrivere i processi di cura e a fornire report.

Quanto emerso dagli incontri conferma come, in mancanza di una chiara e puntuale attività del Coordinamento Regionale, sia difficile garantire omogeneità nei percorsi assistenziali ed equità nell’accesso alle Cure Palliative. Il secondo adempimento essenziale per le Regioni è il rece-pimento dell’Intesa Stato Regioni del 25 luglio 2012. Secondo il Rappor-to al Parlamento del 2014, nove Regioni non avevano ancora recepito il documento e deliberato in materia.3 È altresì risultato evidente che, per evitare fratture nei processi assistenziali, nel passaggio da un setting di cura all’altro e per erogare un servizio assistenziale appropriato, è di fondamentale importanza la creazione della Rete di Cure Palliative. La Rete coinvolge ambiti di cura ospedalieri, domiciliari e residenziali (in particolare Hospice), integrati tra di loro in modo funzionale. Ma per-ché una rete funzioni, è necessario che ci sia il coordinamento da parte delle Unità Operative di Cure Palliative e i programmi devono coinvol-gere in modo integrato tutte le risorse disponibili nel territorio, com-prese le organizzazioni no-profit e il settore sociale degli Enti Locali. Il documento pubblicato da Agenas, “Accanto al malato oncologico e alla sua famiglia: sviluppare cure domiciliari di qualità”, mostra una chiara correlazione tra qualità organizzativa delle UCP e i risultati ottenuti.8 Le UCP con tutti i criteri hanno ottenuto i risultati migliori in tutti gli item considerati: in particolare, il decesso è avvenuto a domicilio nel 78% con le UCP rispondenti a tutti i criteri rispetto al 64% delle UCP senza criteri minimi, mentre il decesso in ospedale è stato rispettivamente del 9% e

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del 19%.8 I due pilastri della Rete, rappresentati dalle Unità di Cure Pal-liative Domiciliari e dagli Hospice, lì dove sono presenti e ben strutturati, con personale competente e dedicato e una copertura h24 e 7 giorni su 7, ottengono, come è stato evidenziato dal progetto Appro.Do, risultati migliori in termini di copertura del fabbisogno di cure e appropriatezza del luogo di cura.

Quali proposte?

Gli incontri regionali del progetto Appro.Do hanno messo a fuoco in modo esauriente gli interventi utili a livello locale e regionale per superare le criticità nei percorsi assistenziali e favorire l’accesso a Cure Palliative di qualità (Figure 5, 6).

Figura 5

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Dalle Regioni del Sud Italia la domanda più forte è l’attivazione della “Rete di Cure Palliative” e l’istituzione delle Unità di Cure Palliative, dove integrare le competenze specialistiche e i MMG. Dalle Regioni del Centro e del Nord c’è l’esigenza di estendere la rete in modo da coprire l’intero territorio.L’art. 5 della Legge 38/2010 “Reti nazionali per le Cure Palliative e la Terapia del Dolore” contiene 2 commi fondamentali:

1. l’individuazione delle figure professionali nel campo delle Cure Pallia-tive e della Terapia del Dolore

2. la definizione dei requisiti minimi organizzativi.2

Definite le specialità afferenti alla disciplina “Cure Palliative” e i core cur-riculum specifici per professionalità, viene offerta la possibilità alle Regio-ni e alle Aziende Sanitarie di garantire il mantenimento dell’attività delle

Figura 6

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reti di Cure Palliative da parte dei medici che non sono in possesso del-le specialità afferenti e che, a tutt’oggi, sostengono l’attività di 150 UCP, come risulta da un’indagine compiuta dalla Società Italiana di Cure Pal-liative (SICP). Nell’art. 1, comma 425, della Legge 27 dicembre 2013 n. 147 (Legge di Stabilità 2014), è disposto che “Al fine di garantire la compiuta attuazione della Legge 15 marzo 2010, n. 38, i medici in servizio presso le reti dedicate alle cure palliative pubbliche o private accreditate, anche se non in possesso di una specializzazione, ma che alla data di entrata in vigore della presente legge possiedono almeno una esperienza triennale nel campo delle cure palliative, certificata dalla regione di competenza, tenuto conto dei criteri individuati con decreto del Ministro della salute di natura non regolamentare, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sono idonei ad operare nelle reti dedicate alle cure palliative pubbliche o private accreditate”.9

In questo modo, viene offerta alle Aziende l’opportunità di stabilizzare o di assumere medici con esperienza in Cure Palliative, di cui c’è estremo bisogno per garantire la continuità assistenziale e favorire l’accesso alle Cure Palliative a tutti i pazienti che ne abbiano necessità.Per quanto riguarda il coinvolgimento dei MMG nella rete di Cure Pallia-tive, fortemente auspicato in tutti gli incontri del progetto Appro.Do, l’In-tesa Stato Regioni del 25 luglio 2012 chiarisce le modalità con cui i MMG si integrano con il lavoro dell’UCP. In particolare, all’UCP viene affidato il compito di “garantire sia gli interventi di base, coordinati dal medico di medicina generale, sia interventi di équipe specialistiche tra loro intera-genti in funzione della complessità che aumenta con l’avvicinarsi della fine della vita nonché la pronta disponibilità medica sulle 24 ore, anche per la necessità di fornire supporto alla famiglia e/o al caregiver”.7

Le più recenti normative nazionali e regionali individuano nell’integrazio-ne tra cure primarie e cure specialistiche la chiave di volta sulla quale si regge l’erogazione di Cure Palliative alle persone che ne hanno bisogno

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e alle loro famiglie. La persistente carenza di risorse, inoltre, lascia in-travedere nell’integrazione cure primarie/cure specialistiche e dedicate/non dedicate, articolata nelle diverse modellistiche regionali, lo scenario di riferimento per lo sviluppo delle Cure Palliative. Tale integrazione non esiste di per sé, ma va realizzata attraverso progetti di implementazione a livello regionale e locale.Comparando i servizi integrati, ove le risorse specialistiche sono a sup-porto delle cure primarie, con i sistemi gestiti esclusivamente da specia-listi, i primi sono risultati più efficienti ed efficaci: spese inferiori, minor accesso ai servizi ospedalieri e ai ricoveri, migliore qualità delle cure.10

Tornando a quanto emerso negli incontri, si lamenta da parte di tutti i partecipanti al progetto Appro.Do la mancanza di un’esaustiva e franca comunicazione da parte dell’oncologo al malato e alla sua famiglia. Quan-to esplicitato nella diapositiva di Catania, “Chiara informazione al paziente e ai familiari sulla prognosi da parte del medico” (si veda la Figura 5), evi-denzia il disagio da parte dell’équipe di trovarsi a dover comunicare cattive notizie, tanto più traumatizzanti quanto meno attese, e la necessità di un passaggio da un setting all’altro di cura più “morbido” per il malato, che comprenda anche una maggiore interazione professionale tra oncologo e palliativista.Non a caso, nell’incontro Appro.Do di Roma si è proposto di definire i per-corsi della simultaneous care. Come è noto, sono cure che vengono at-tuate quando la malattia è inguaribile, in fase metastatica, ma non ancora in fase terminale, e prendono in carico il malato e la famiglia in una fase in cui sono contestualmente praticate terapie antitumorali finalizzate al controllo della malattia. L’efficacia del modello assistenziale è stata dimo-strata dallo studio di Temel et al, in cui sono stati messi a confronto due gruppi di pazienti con tumore polmonare metastatico non a piccole cel-lule.11 Il gruppo trattato con le Cure Palliative contemporaneamente alla chemioterapia ha ottenuto risultati migliori rispetto al gruppo trattato con la sola chemioterapia. Nel primo gruppo si è verificato un aumento della

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sopravvivenza, un ridotto consumo di risorse ospedaliere e una migliore qualità della vita.11 Tenendo presente che nell’attuazione delle simulta-neous care entrano in gioco contemporaneamente le due équipe, quella oncologica e quella palliativa, oltre a migliorare la prestazione stretta-mente farmacologica, si potrebbe risolvere una serie di problemi, come la mancanza di una corretta comunicazione e i tempi di presa in carico del paziente, sempre troppo tardiva, da parte dell’équipe di Cure Palliati-ve. Opinione personale dell’autore è che sia auspicabile l’attivazione di un ambulatorio della simultaneous care, in cui convergano le competenze multidisciplinari che definiscono il piano assistenziale individuale.

Nell’incontro Appro.Do di Torino e in quello di Salerno si è sottolineata l’importanza della formazione a sostegno dei sistemi di cura di qualità. In particolare, a Torino si è suggerito di sensibilizzare l’opinione pubblica sugli aspetti sociali del problema, per indirizzarla a una maggiore utiliz-zazione delle cure domiciliari rispetto a quelle ospedaliere. Dalla discus-sione del gruppo è emerso che “Occorre una formazione comune tra chi si occupa di Cure Palliative nonché una formazione di base, rivolta a chi non è specializzato in Cure Palliative ma opera da filtro in quest’ambito, per esempio i MMG, che sono spesso completamente ignari della materia. Piuttosto che la realizzazione di corsi e seminari, si auspica un modello formativo peer-to-peer (tra pari): formazione sul campo, periodicità de-gli incontri e continuità nella formazione (già applicata dalla Fondazione FARO Onlus)”.

A Milano e a Padova sono emerse rispettivamente le necessità di attivare una rete informatica e di raccogliere e monitorare indicatori qualitativi e quantitativi (Figure 7, 8).

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Figura 7

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La rete informatica è uno strumento utile per aggiornare in tempo reale gli operatori del sistema. I sistemi informatici oggi in uso, nella migliore delle ipotesi, consentono la relazione tra gli operatori della stessa Unità Operativa e non consentono l’accesso alle informazioni degli altri setting assistenziali. È un invito a pensare di realizzare il cosiddetto “fascicolo sanitario informatico”, che accompagna il malato in tutto il suo percorso di cura. A Milano ci si è a lungo soffermati sul rapporto costo/beneficio delle Cure Palliative, attualmente percepite soprattutto come un costo. Si tratta di un mito da sfatare con studi di farmacoeconomia che metta-no in evidenza, numeri alla mano, come, rispetto al costo complessivo del malato, le Cure Palliative rappresentino un risparmio per il Sistema Sanitario Nazionale: ciò potrebbe indurre, finalmente, a un maggiore in-vestimento. Si apre inoltre una parentesi interessante sulla domiciliarità piuttosto che sul ricovero. Una parte del gruppo osserva che insistere su modelli fondati sulla domiciliarità non è più attuale: oggi è maggiore la richiesta di ricovero rispetto a quella di domicilio. La struttura della fami-glia è cambiata, forse si dovrebbero incrementare reparti a mezza strada tra Hospice e lunga degenza. Questa tendenza, espressa dal gruppo lom-bardo, sul futuro della gestione del malato inguaribile, seppur sostenuta dagli ultimi dati epidemiologici sull’assetto familiare, è però in contrasto con quanto emerso negli incontri che si sono svolti al Sud, dove invece la famiglia è più presente e dove si sta sempre più sviluppando una nuova e maggiore sensibilità rispetto all’accudimento in famiglia del malato in fase avanzata di malattia.Come già sopra evidenziato nella parte dedicata alla fornitura dei farmaci, la proposta di estendere indifferentemente a tutti i medici che erogano Cure Palliative la possibilità di prescrizione a domicilio con ricettario che consenta l’esenzione è unanimemente condivisa ed espressa con forza da tutti i gruppi Appro.Do.

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Infine, come esplicitato nell’incontro che si è svolto a Bari, è auspicabile che siano realizzate campagne per la divulgazione della Legge 38/2010, sia per far conoscere ai cittadini che accedere ai programmi di Cure Pal-liative e alla Terapia del Dolore è un loro diritto, sia per sensibilizzare gli operatori sanitari. Oltre alle iniziative ministeriali, quali l’attivazione del portale del Ministero della Salute e gli spot televisivi realizzati nel 2013, sarebbe conveniente rendere capillari le informazioni sui servizi con in-terventi sia regionali che aziendali.

Bibliografia1. Agenas 2012. Osservatorio delle Buone Pratiche nelle Cure Palliative di Agenas. http://www.agenas-buonepratiche-cp.it/survey/

2. Legge 15 marzo 2010, n. 38. “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 19 marzo 2010.

http://www.parlamento.it/parlam/leggi/10038l.htm

3. Ministero della Salute – Direzione Generale della Programmazione Sanitaria. Rapporto al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge n. 38 del 15 marzo 2010. Anno 2014.

http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2195_allegato.pdf

4. Decreto Ministeriale del 22 febbraio 2007, n. 43. Gazzetta Ufficiale 6 aprile 2007, n. 81. Rego-lamento recante “Definizione degli standard relativi all’assistenza ai malati terminali in tratta-mento palliativo, in attuazione all’articolo 1, comma 169, della legge 30 dicembre 2004, n. 311”. Testo aggiornato al 5 dicembre 2007.

http://www.ipasvi.it/archivio_news/leggi/309/DM220207n43.pdf

5. WPCA (Worldwide Palliative Care Alliance), WHO (World Health Organization). Global Atlas of Palliative Care at the End of Life. January, 2014.

http://www.eapcnet.eu/LinkClick.aspx?fileticket=zdT-uqg5EJo%3D&tabid=38

6. Agenas. Risultati del Rapporto SDO 2013. http://www.agenas.it/ecco-i-risultati-del-rapporto-sdo-2013

7. Presidenza del Consiglio dei Ministri. Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano. Rep. 151 CSR del 25 luglio 2012.

http://www.statoregioni.it/Documenti/DOC_037447_151%20%20csr%20punto%20%2021.pdf

8. Scaccabarozzi G, Peruselli C, Lovaglio P, et al (a cura di). Accanto al malato oncologico e alla sua famiglia: sviluppare cure domiciliari di buona qualità.

http://www.agenas-buonepratiche-cp.it/survey/docs/cure_palliative_report_integrale.pdf

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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9. Legge 27 dicembre 2013, n. 147. Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2014). (13G00191) (GU Serie Generale n. 302 del 27-12-2013 - Suppl. Ordinario n. 87).

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2013/12/27/13G00191/sg%20

10. The care of patients with severe chronic illness. An online report on the Medicare Program by Dartmouth Atlas Project. The Dartmouth Atlas of Health Care 2006.

http://www.dartmouthatlas.org/downloads/atlases/2006_Chronic_Care_Atlas.pdf

11. Temel JS, Greer JA, Muzikansky A, et al. Early palliative care for patients with metastatic non-small-cell lung cancer. N Engl J Med. 2010; 363(8): 733-42.

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Torino

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L’integrazione tra i servizi

Introduzione

L’integrazione tra i servizi è un aspetto cruciale da considerare quando si discute di appropriatezza assistenziale nel paziente oncologico a do-micilio.La Legge 38/2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle Cure Pallia-tive e alla Terapia del Dolore”, all’art. 2, comma f, definisce l’assistenza domiciliare come “l’insieme degli interventi sanitari, socio-sanitari e as-sistenziali che garantiscono l’erogazione di cure palliative e di terapia del dolore al domicilio della persona malata, per ciò che riguarda sia gli interventi di base, coordinati dal medico di medicina di generale, sia quelli dell’équipe specialistiche di cure palliative, di cui il medico di medi-cina generale è in ogni caso parte integrante, garantendo una continuità assistenziale ininterrotta”.1 All’articolo 5 si raccomanda “l’adeguamento delle strutture e delle prestazioni sanitarie alle esigenze del malato (…), garantendo i livelli essenziali di assistenza (…) attraverso adeguati stan-dard strutturali qualitativi e quantitativi, ad una pianta organica adeguata alle necessità di cura della popolazione residente e ad una disponibilità adeguata di figure professionali con specifiche competenze ed esperien-za nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore, anche con riguardo al supporto alle famiglie”.1

Le varie figure professionali e i nodi della rete delle Cure Palliative devo-no integrarsi per rispondere in maniera adeguata ai bisogni del malato e della famiglia.La figura principale di riferimento a domicilio è il Medico di Medicina Ge-nerale (MMG) ma, per come è attualmente organizzato il Sistema Sani-tario Nazionale (SSN), criticità possono presentarsi sia con il servizio di emergenza territoriale e la Continuità Assistenziale, sia con gli ospedali nel caso di dimissioni difficili.

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È stato interessante, allora, verificare il grado di integrazione tra questi servizi da parte dei medici palliativisti che operano sul territorio in strut-ture diverse.

Quale rapporto con il Medico di Medicina Generale (MMG)?

Nel Documento di Consenso, “Cure palliative domiciliari: accanto al ma-lato quale équipe?”, approvato dalla Società Italiana di Cure Palliative (SICP) e dalla Società Italiana di Medicina Generale (SIMG), sono stati preparati e condivisi dieci enunciati sostanziali riguardo alla composizio-ne dell’équipe, ai percorsi di cura, alla continuità assistenziale e ai mec-canismi operativi.2 In essi al MMG viene assegnato un ruolo di primaria importanza, insieme alla richiesta di una presenza continuativa a fianco del malato e dell’équipe specialistica, tanto più che “un adeguato approc-cio palliativo deve essere garantito fin dalle fasi precoci di malattia”,3 fasi in cui solitamente il MMG è ancora il medico di riferimento principale del paziente. Anche la Legge 38/2010 identifica due livelli assistenziali, di base e specialistico, di pari rilevanza, senza tuttavia specificare con chia-rezza come e quando attivare il livello specialistico e come i due livelli possano integrarsi. Una criticità emersa con forza nelle diverse sedi in cui si sono svolti gli incontri Appro.Do è la variabilità della partecipazione del MMG nell’assistenza al malato dopo l’attivazione dell’équipe di Cure Palliative. Anche se il suo coinvolgimento formale è presente nella quasi totalità dei casi, poiché è sempre il MMG ad attivare il servizio, le modalità e la qualità della sua partecipazione sono state descritte, dai palliativisti che hanno partecipato ai corsi, come profondamente differenti in funzio-ne della regione di appartenenza e delle organizzazioni locali. I motivi di tale variabilità sono risultati, in larga percentuale, diversi e dipendenti da entrambe le parti – MMG ed équipe di Cure Palliative –, dando così luogo a una difficile collaborazione.

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L’integrazione tra i servizi

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Tutti i partecipanti agli incontri Appro.Do, campione significativo delle équipe di Cure Palliative operanti sul territorio nazionale, sottolineano la necessità di una più ampia disponibilità delle parti all’incontro/confronto, consapevoli del ruolo fondamentale che il MMG riveste nell’ambito del SSN. In particolare, nella sede di Padova, è stato sottolineato quanto sia indispensabile e, nello stesso tempo, difficoltoso l’incontro con il MMG a casa del paziente durante la prima visita e come i rapporti con l’équi-pe debbano proseguire (cosa che pare avvenga solo raramente) in modo stretto per tutta la durata dell’assistenza, affinché si possano avviare percorsi terapeutici condivisi, prerogativa indispensabile per una buona gestione del paziente. Anche nelle due sedi di Appro.Do di Torino e Roma è stato evidenziato come l’assenza di percorsi condivisi è forse il proble-ma principale su cui impegnarsi per favorire l’integrazione tra équipe di Cure Palliative e MMG (Figure 1, 2).4

Figura 1

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Le proposte avanzate vanno nella direzione di una maggiore formazione in Cure Palliative per il MMG e di una maggiore comunicazione tra gli operatori, anche attraverso strumenti informatici, dall’uso delle e-mail alla cartella clinica elettronica.A questo proposito, è attualmente in corso un progetto di ricerca Agenas “Teseo-Arianna” volto a valutare l’impatto dell’applicazione di un modello integrato di cura che veda coinvolti MMG e Unità di Cure Palliative (UCP), secondo quanto previsto dall’Intesa Stato Regioni del 25 luglio 2012 e di cui attendiamo i risultati.5,6

Sembra che solo in una netta minoranza di casi si possa parlare di un medico disposto a collaborare: si tratta di medici di base con un’adeguata formazione in Cure Palliative e Terapia del Dolore, disposti a confrontarsi con il palliativista sulla situazione clinica e a condividere con lui le scelte terapeutiche, sostenendo le stesse decisioni di fronte al malato e alla famiglia.

Figura 2

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Per quanto riguarda il profilo di MMG con il quale viene solitamente in contatto l’équipe di Cure Palliative, riportiamo la diapositiva realizzata a Milano, perché sintetizza le tipologie dei MMG in rapporto al palliativista, dando definizioni risultate comuni a tutte le sedi (Figura 3).

Colpisce che nella maggior parte delle sedi si definisca il MMG “dele-gante”: si tratta di situazioni in cui l’équipe specialistica può sembrare facilitata nel suo operato, avendo la possibilità di decidere in autonomia nelle varie fasi dell’assistenza. Questa considerazione ha portato a una riflessione sul reale impegno dell’équipe nel coinvolgimento del MMG: i palliativisti sono stati unanimi nell’ammettere che questa posizione non crea integrazione e, quindi, non produce crescita professionale per le va-rie figure sanitarie né eroga la miglior assistenza al malato. Si tratta, quindi, di un aspetto sul quale riflettere per individuare una soluzione.

Figura 3

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Anche le definizioni di MMG “ostile” (che non condivide, anzi, ostacola sia le prescrizioni sia le decisioni dell’équipe) o “assente” sono state fre-quenti, denunciando la difficoltà di relazione e le ovvie ripercussioni sulla corretta gestione del malato e dei familiari.Il MMG “fai da te”, di solito, è contrario all’attivazione dell’équipe specia-listica o rimanda il momento della presa in carico, perché ritiene di poter gestire da solo la situazione; quando questa si fa complessa o il malato diventa impegnativo sotto il profilo clinico e relazionale, si arriva al coin-volgimento delle Cure Palliative con attivazioni, però, tardive.Spesso il MMG, che rimane comunque il responsabile clinico del pazien-te, si occupa fondamentalmente dell’attività prescrittiva a carico del SSN, come è stato fatto notare nella sede di Bari, dove si è dichiarato di re-gistrare da parte del MMG diffidenza o parziale conoscenza delle Cure Palliative. Inoltre, dal momento in cui il paziente è affidato al palliativista, il MMG tenderebbe a disinteressarsene. Sempre in Puglia, in molte re-altà locali regionali, il palliativista non è chiamato a partecipare all’UVM (Unità di Valutazione Multidimensionale). Addirittura, in alcuni distretti, l’UVM non è praticata: questo genera spesso segnalazioni improprie. In alcune situazioni, benché ancora allo stato embrionale e in assenza di una cartella clinica unica e dedicata alle Cure Palliative, l’UVM ha dimo-strato di essere di grande ausilio per consentire la conoscenza tra MMG e palliativista. Altri problemi emersi, sia nell’incontro di Bari sia in quello di Catania, sono una resistenza da parte del MMG alla prescrizione dell’op-piaceo e la difficoltà a praticarne la titolazione.

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Emergenze e continuità assistenziale. Quali problemi? Quali possibili soluzioni?

Le risposte riportate nella diapositiva elaborata a Salerno sono riassun-tive delle considerazioni emerse nei vari gruppi di Appro.Do, nei quali c’è stata unanimità nell’ammettere la presenza di difficoltà nell’integrazione con i vari servizi coinvolti nella gestione del paziente oncologico a domi-cilio (Figura 4).

Innanzitutto è ribadita la necessità e, insieme, la difficoltà di garantire una continuità assistenziale qualificata “7 giorni su 7, 24 ore su 24, attra-verso meccanismi di integrazione di risorse mediche e infermieristiche con formazione specifica in Cure Palliative” così come espresso nel docu-mento di Consenso “Cure palliative domiciliari: accanto al malato quale équipe?”, approvato dalla SICP e dalla SIMG.2

Figura 4

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Quanto raccolto su questo argomento durante gli incontri Appro.Do, che – è importante ribadirlo per evidenziare la significatività dei dati raccolti – hanno indagato la realtà dell’assistenza domiciliare su tutto il territorio nazionale, coincide praticamente con quanto pubblicato nel rapporto Agenas 2012 sull’Osservatorio Nazionale di Buone Pratiche in Cure Palliative.7 Il rapporto mostra una situazione molto variegata nelle diverse regioni, con una copertura media del 37% delle unità di offerta in Cure Palliative domiciliari, considerando anche le province in cui non è presente alcun servizio. Nell’analisi si rileva che solo il 61% delle strutture garantisce una continuità h24, 7 giorni su 7, ma la percentuale si dimezza (circa il 30%) se la continuità prevede il medico in pronta disponibilità nei giorni festivi e di notte. Nel 67% dei casi, tale attività delle UCP è supportata da organizzazioni no-profit. In riferimento all’assistenza notturna, il 37% delle UCP non ha accordi specifici di integrazione da parte del medico di Continuità Assistenziale, coadiuvato dalla consulenza telefonica del medico UCP e da parte del 118.7

Se, durante il giorno feriale, in caso di difficoltà, si può ottenere una rispo-sta a un bisogno più o meno urgente, durante la notte o nei giorni festivi la famiglia rimane senza punti di riferimento: le situazioni vanno dalle più banali, come il consiglio sull’assunzione di una terapia già prescrit-ta o sulla gestione di un sintomo non preoccupante, fino alle urgenze/emergenze per cui si rende necessario l’intervento di un medico esperto. Come esempi, dai partecipanti agli incontri, sono state citate la crisi di dolore in un malato che assume una terapia oppiacea di base, la crisi di agitazione psicomotoria o l’aggravarsi di sintomi che diventano refrattari.È stata evidenziata da tutti i gruppi di Appro.Do la scarsa formazione in Cure Palliative dei medici di Continuità Assistenziale, spesso al primo incarico lavorativo. Sarebbe proponibile una formazione di base, ma è stata indicato come criticità l’alto turnover di incarichi, che renderebbe necessaria l’effettuazione di un numero elevato di corsi di formazione.

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I medici dell’Emergenza Territoriale, parimenti, non hanno adegua-te competenze in Cure Palliative e si trovano a intervenire in situazioni complesse, spesso con un malato a fine vita e famiglie non preparate all’evento: la difficoltà relazionale che emerge in questa tipologia di casi è spesso la causa di un intervento non adeguato, con accessi al Pronto Soccorso o ricoveri impropri.Come discusso nella sede di Roma, l’accesso al Pronto Soccorso di un malato a fine vita, oltre a essere un disagio per il paziente, risulta un indicatore negativo per la qualità dell’assistenza domiciliare ed è questo il motivo per il quale il servizio di Cure Palliative dovrebbe garantire la reperibilità nelle 24 ore, 7 giorni su 7 (Figura 5).

È compito dell’équipe farsi carico di gestire le eventuali chiamate nottur-ne e festive, con numeri telefonici dedicati e protocolli di intervento spe-cifici. Il caregiver deve essere formato per affrontare alcuni sintomi su istruzione telefonica del medico esperto, ma deve anche essere tranquil-lizzato sulla garanzia di un intervento specializzato, qualora necessario.

Figura 5

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La copertura di questo servizio è molto variabile nelle diverse regioni e spesso viene affidata alle associazioni Onlus del settore.Tra i gruppi di Appro.Do è stato riportato un unico caso a Como di proto-collo formalizzato tra UCP ed Emergenza territoriale, ovviamente con un protocollo tutelante per i colleghi del 118 che applicano Cure Palliative.Trasversalmente, da tutti i gruppi, è stato affrontato il problema del rap-porto e della formazione del caregiver. Il paziente oncologico in fase avan-zata è in una situazione così complessa, che si rende necessaria una presa in carico globale che comprenda anche la formazione adeguata del care-giver e il sostegno alla famiglia, per consentire all’équipe una gestione domiciliare efficace ed evitare accessi al Pronto Soccorso o ricoveri inap-propriati (si veda la Figura 5). Tutti i gruppi sono stati d’accordo nell’affer-mare che il caregiver ha un ruolo, seppur informale, di cura, supporto e vicinanza al malato: il primo requisito per una buona pratica in assistenza domiciliare è proprio che sia presente un caregiver disponibile a collabo-rare e per la cui formazione necessita ovviamente del tempo.A Catania è stato segnalato come, nel caso di attivazione tardiva delle Cure Palliative e, quindi, di assistenze brevi, in cui l’équipe specialistica non abbia avuto modo di instaurare un rapporto di fiducia e di conoscenza del malato e non ci sia la collaborazione o il sostegno del MMG, la fami-glia spesso non accetta le risposte del medico palliativista reperibile e preferisce coinvolgere il 118 o la Continuità Assistenziale.Sarebbe allora opportuno, come è stato suggerito a Milano e a Bari, avere dei protocolli formalizzati e condivisi tra le équipe dei vari setting, coin-volgendo per i casi di “emergenza” anche l’ospedale e l’hospice, oltre al 118 e al MMG (Figura 6).A Firenze è stato sottolineato come esistano problematiche burocratiche, a livello locale e regionale, che impediscono di fatto un’integrazione tra le varie figure professionali che possano intervenire sul paziente e tra i vari servizi, non permettendo un reale confronto durante il percorso terapeutico (Figura 7).

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L’integrazione tra i servizi

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Figura 6

Figura 7

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Appro.Do AppropriAtezzA AssistenziAle nel pAziente oncologico A domicilio

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Anche a Torino è stata evidenziata, insieme alla mancanza di copertura del servizio di Cure Palliative h24, la necessità di un coinvolgimento del MMG, dei medici della Continuità Assistenziale e del 118 nella forma-zione di base, nella comunicazione e nella definizione degli obiettivi per il singolo caso, così come nella definizione delle direttive anticipate su possibili emergenze o sul fine vita: condividere una scelta di percorso e avere al domicilio una documentazione sulle direttive anticipate per-metterebbe anche all’operatore sanitario che interviene in emergenza di sapere se e quando iniziare la sedazione palliativa. Segnalare al 118 i casi più critici potrebbe essere un valido aiuto quando manca la disponibilità del servizio di Cure Palliative.In generale, si riconosce che un’équipe in Cure Palliative dedicata e for-mata ha una migliore capacità di relazione con il paziente e la famiglia, riesce a dare un senso di protezione e ad attuare le scelte più opportune per il singolo malato.È stato comunque rilevato, in quasi tutte le sedi, che negli anni si è riscon-trato un netto miglioramento degli interventi del 118, in termini di qualità e appropriatezza.

Come viene affrontato con gli ospedali il problema delle dimissioni protette?

Le dimissioni protette dall’ospedale di un malato oncologico in fase avanzata è da tutti i partecipanti ai gruppi ritenuto un problema complesso: se la procedura, i tempi e le modalità della dimissione non vengono concordate, si creano difficoltà per il paziente e la famiglia nonché per l’équipe di Cure Palliative sul territorio (Figura 8).

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In Emilia Romagna e in Piemonte esistono dei protocolli attivi per le dimissioni; il Veneto e la Toscana hanno previsto una centrale operativa territoriale che valuti i pazienti prima della dimissione per decidere l’invio a casa o in hospice.Nella maggioranza dei casi la dimissione è comunque un’esigenza del reparto, più che del malato o della famiglia, e si raggiunge un accordo solo tramite una conoscenza personale tra i medici di un reparto e quelli che operano sul territorio: il progetto di dimissione dovrebbe essere basato sulle esigenze del malato e della famiglia e affrontato con gli strumenti e i tempi opportuni e necessari.Le Cure Palliative, per come ancora oggi vengono percepite, non possono essere proposte a un malato il giorno prima della dimissione, ma dovreb-bero essere oggetto di una consulenza specialistica durante il ricovero, che valuti le condizioni cliniche, sociali e assistenziali del paziente (Figura 9).

Figura 8

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Il primo punto messo in risalto da tutti i gruppi è la necessità di concordare innanzitutto i tempi della dimissione: troppo spesso questa avviene il venerdì o il finesettimana, giorni critici per l’attivazione dei servizi domiciliari, oppure con un preavviso di poche ore. Le modalità di dimissione sono fondamentali: il personale dell’assistenza domiciliare dovrebbe recarsi in ospedale per conoscere il paziente e la famiglia ed essere informato sul programma terapeutico e sulle necessità di ausili e presidi.Il vero punto cruciale è la scarsa conoscenza da parte dei professionisti ospedalieri dei percorsi delle Cure Palliative e dei criteri per identificare il paziente candidato all’assistenza domiciliare e quello candidato per l’hospice, così come sono poco note le dinamiche dell’assistenza domiciliare, dai tempi della fornitura dei presidi a quali farmaci possono essere prescritti e utilizzati a domicilio (Figure 10, 11).

Figura 9

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Figura 10

Figura 11

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Le proposte dei vari gruppi vanno nella direzione di una maggiore inte-grazione, che veda il palliativista coinvolto in una fase precoce del percor-so assistenziale del malato oncologico in stadio avanzato, nell’auspicio di uno sviluppo di modelli di simultaneous care (Figura 12).8,9

Come viene gestita la prescrizione dei farmaci?

Questo argomento è stato affrontato trasversalmente sia nei gruppi che hanno trattato il tema dell’integrazione tra i servizi sia in quelli che si sono occupati delle buone pratiche in Cure Palliative. Rimandiamo quindi a questo capitolo per un maggiore approfondimento. Tuttavia ci preme riportare quanto avvenuto a Padova, città in cui si erano raccolti medici provenienti da tutta l’area nord-orientale e dove il dibattito a proposito dell’erogazione dei farmaci è avvenuto nell’ambito del gruppo che si è occupato dell’integrazione dei servizi (Figura 13).

Figura 12

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La discussione è stata particolarmente ampia e approfondita, denunciando un forte disagio soprattutto nel riconoscere che, all’interno della stessa regione, non vi siano una soluzione e una normativa sulla distribuzione/erogazione dei farmaci uguali per tutti. Ciò porta a soluzioni autonome e disomogenee, dove ogni unità si arrangia con ciò che ha a disposizione fino a ricorrere all’aiuto degli stessi familiari, che possono prelevare i farmaci e persino la pompa elastomerica dalla farmacia ospedaliera.

Figura 13

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Bibliografia1. Legge 15 marzo 2010, n. 38. “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla

terapia del dolore” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 19 marzo 2010. http://www.parlamento.it/parlam/leggi/10038l.htm

2. Scaccabarozzi G, Lora Aprile P, Zaninetta G, et al. Cure palliative domiciliari: “Accanto al malato quale équipe?”. Documento di Consenso approvato da SICP (Società Italiana di Cure Palliative) Onlus, SIMG (Società Italiana di Medicina Generale), 2010.

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3. Temel JS, Greer JA, Muzikansky A, et al. Early palliative care for patients with metastatic non-small-cell lung cancer. N Engl J Med. 2010; 363(8): 733-42.

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5. Agenas 2012. Il Progetto Teseo-Arianna. Studio osservazionale sull’applicazione di un modello integrato di Cure Palliative domiciliari nell’ambito della rete locale di assistenza a favore di persone con patologie evolutive con limitata aspettativa di vita.

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6. Presidenza del Consiglio dei Ministri. Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano. Rep. 151 CSR del 25 luglio 2012.

http://www.statoregioni.it/Documenti/DOC_037447_151%20%20csr%20punto%20%2021.pdf

7. Agenas 2012. Osservatorio delle Buone Pratiche nelle Cure Palliative di Agenas. http://www.agenas-buonepratiche-cp.it/survey/

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Edizione speciale fuori commercio riservata al personale sanitario

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Si ringrazia per aver consentito la realizzazione del progetto