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bibliografia essenziale Quaderni di Lotus n.10, Milano, 1989 N. COGNOME, Titolo libro, Luogo data edizione, pp. xx N. COGNOME, Titolo articolo, in N. COGNOME, Titolo libro, Luogo data edizione, pp. xx N. COGNOME, Titolo libro, Luogo data edizione, pp. xx N. COGNOME, Titolo articolo, in N. COGNOME, Titolo libro, Luogo data edizione, pp. xx N. COGNOME, Titolo libro, Luogo data edizione, pp. xx illustrazioni 1 Stintino, Casa per vacanze, vista 2 Castellammare, Insediamento Fincantieri, prospettiva 3 Faedis, Scuola elementare e media, sezione 4 Otranto, Casa Miggiano, sezioni 5 Milano, Casa Frea, particolare saggia coscienza l'esterno dell'esterno e l'interno dell'interno: incontro con Franco Purini Alessandro Cariello, Donatella Chieco 06 1 07 Sabato 22 maggio 2004, Roma, Studio Purini Per introdurre questa nostra conversazione sul rapporto tra disegno e progetto, vorrei chiederle perché, in architettura, è necessario disegnare? Disegnare equivale a prefigurare il risultato dell’azione che si vuole intraprendere prima che questa abbia inizio. Non tutte le arti e le attività umane richiedono infatti una preventiva anticipazione progettuale dell’opera. Il pittore può mettersi davanti alla tela ed eseguire il suo quadro senza neanche aver fatto uno schizzo, seguendo soltanto una sua immagine mentale: gli artisti dell’espressionismo astratto americano, come Willem di Kooning o Franz Kline non progettavano certo l’opera alla quale stavano dando vita, ma la costruivano a partire dal primo gesto. A volte lo scultore si pone davanti al blocco di marmo cercando quasi fisicamente l’idea, aggredendo la materia alla ricerca di ciò che Michelangelo pensava vi fosse imprigionato. Ci sono quindi alcune arti e alcune attività umane che hanno bisogno di un progetto e altre che non lo hanno. Nel cinema si verifica qualcosa di simile a ciò che avviene nell’architettura: la sceneggiatura è in qualche modo ciò che il progetto è per il costruire e anche lo story board, che il regista spesso prepara, è un prezioso strumento di previsione. Il progetto produce un’entità che si configura come un simulacro dell’opera futura, un simulacro che nell’architettura è anche analogico. Riassumendo quanto detto finora, possiamo affermare che per realizzare le sue opere l’essere umano deve a volte progettarle non potendole semplicemente farle; che questo progetto si invera in un simulacro, ovvero in un corpo di scelte che è una sorta di doppio dell’opera; che nell’architettura, a differenza ad esempio che nella musica, tale simulacro è analogico, e cioè somiglia al risultato finale. Se disegniamo i profili di un insediamento residenziale questi saranno pressoché identici a quello che vedremmo dell’intervento costruito se lo osserviamo da una certa distanza; una facciata disegnata equivale di fatto alle facciate costruite quando si è lontani abbastanza da perdere il senso della tridimensionalità. Quando si osserva la sezione ombreggiata delle architetture disegnate in area Beaux Arts – sto pensando ad alcuni spaccati del Pantheon o delle Terme – si può quasi ricavare l’impressione di uno spazio reale, di una vera cavità colma di profondità atmosferica. Rimane a questo punto da chiedersi perché alcune arti e alcune attività umane hanno bisogno di un progetto. Vorrei prima ancora, però, brevemente aggiungere che in architettura il disegno è, nell’ordine, pensiero, conoscenza del mondo fisico, comunicazione, memoria. Il disegno teorico che è una forma di disegno-pensiero, è un disegno che espone visivamente determinati percorsi logico/poetici dando a essi l’aspetto di teoremi formali, mentre quello di classificazione concerne le modalità di restituzione dei segni che costruiscono il paesaggio, la città, gli edifici e gli oggetti d’uso. Quindi c’è bisogno di una previsione? In architettura la previsione progettuale è necessaria perché il costruire è altamente costoso. Costoso al punto che non si possono fare prove. Mentre un pittore può distruggere un quadro se non gli sembra riuscito bene, un architetto non può abbattere il suo edificio se questo non lo soddisfa. Inoltre un manufatto è, in quanto oggetto, particolarmente complesso. È il frutto di un’azione in qualche modo permanente di materiali diversi chiamati a collaborare, ciascuno secondo la propria natura; è attraversato da una rete di canalizzazioni che lo alimentano e che richiede l’esattezza di una macchina; il suo funzionamento deve essere in grado di evolvere nel tempo. Anche per questi motivi il progetto è assolutamente inevitabile. Tornando per un attimo al problema del costo dell’architettura c’è da dire che il parametro economico non va inteso nella sua sola espressione finanziaria, ma soprattutto in quella relativa agli aspetti più autentici e profondi del lavoro umano. Ciò significa che un progetto deve prevedere per un verso un risparmio della fatica fisica per coloro che costruiscono l’edificio, e per l’altro una loro possibilità di leggere

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Page 1: l'esterno dell'esterno e l'interno dell'interno: incontro ... · incontro con Franco Purini ... Il pittore può mettersi davanti alla tela ed ... disegni di Aldo Rossi contengono

bibliografiaessenzialeQuaderni di Lotus n.10,Milano, 1989 N. COGNOME,Titolo libro, Luogo dataedizione, pp. xx

N. COGNOME, Titoloarticolo, in N. COGNOME,Titolo libro, Luogo dataedizione, pp. xx

N. COGNOME, Titolo libro,Luogo data edizione, pp.xx

N. COGNOME, Titoloarticolo, in N. COGNOME,Titolo libro, Luogo dataedizione, pp. xx

N. COGNOME, Titolo libro,Luogo data edizione, pp.xx

illustrazioni1Stintino, Casa per vacanze,vista

2Castellammare,Insediamento Fincantieri,prospettiva

3Faedis, Scuola elementaree media, sezione

4Otranto, Casa Miggiano,sezioni

5Milano, Casa Frea,particolare

saggia coscienza

l'esterno dell'esternoe l'interno dell'interno:incontro con Franco PuriniAlessandro Cariello, Donatella Chieco

06

1

07

Sabato 22 maggio 2004, Roma,

Studio Purini

Per introdurre questa nostra conversazione sul rapporto

tra disegno e progetto, vorrei chiederle perché, in architettura,

è necessario disegnare?

Disegnare equivale a prefigurare il risultato dell’azione che si

vuole intraprendere prima che questa abbia inizio. Non tutte le arti

e le attività umane richiedono infatti una preventiva anticipazione

progettuale dell’opera. Il pittore può mettersi davanti alla tela ed

eseguire il suo quadro senza neanche aver fatto uno schizzo, seguendo

soltanto una sua immagine mentale: gli artisti dell’espressionismo

astratto americano, come Willem di Kooning o Franz Kline non

progettavano certo l’opera alla quale stavano dando vita, ma la

costruivano a partire dal primo gesto. A volte lo scultore si pone

davanti al blocco di marmo cercando quasi fisicamente l’idea,

aggredendo la materia alla ricerca di ciò che Michelangelo pensava

vi fosse imprigionato. Ci sono quindi alcune arti e alcune attività

umane che hanno bisogno di un progetto e altre che non lo hanno.

Nel cinema si verifica qualcosa di simile a ciò che avviene

nell’architettura: la sceneggiatura è in qualche modo ciò che il progetto

è per il costruire e anche lo story board, che il regista spesso prepara,

è un prezioso strumento di previsione. Il progetto produce un’entità

che si configura come un simulacro dell’opera futura, un simulacro

che nell’architettura è anche analogico. Riassumendo quanto detto

finora, possiamo affermare che per realizzare le sue opere l’essere

umano deve a volte progettarle non potendole semplicemente farle;

che questo progetto si invera in un simulacro, ovvero in un corpo

di scelte che è una sorta di doppio dell’opera; che nell’architettura,

a differenza ad esempio che nella musica, tale simulacro è analogico,

e cioè somiglia al risultato finale. Se disegniamo i profili di un

insediamento residenziale questi saranno pressoché identici a quello

che vedremmo dell’intervento costruito se lo osserviamo da una

certa distanza; una facciata disegnata equivale di fatto alle facciate

costruite quando si è lontani abbastanza da perdere il senso della

tridimensionalità. Quando si osserva la sezione ombreggiata delle

architetture disegnate in area Beaux Arts – sto pensando ad alcuni

spaccati del Pantheon o delle Terme – si può quasi ricavare

l’impressione di uno spazio reale, di una vera cavità colma di profondità

atmosferica. Rimane a questo punto da chiedersi perché alcune arti

e alcune attività umane hanno bisogno di un progetto. Vorrei prima

ancora, però, brevemente aggiungere che in architettura il disegno

è, nell’ordine, pensiero, conoscenza del mondo fisico, comunicazione,

memoria. Il disegno teorico che è una forma di disegno-pensiero,

è un disegno che espone visivamente determinati percorsi

logico/poetici dando a essi l’aspetto di teoremi formali, mentre

quello di classificazione concerne le modalità di restituzione dei

segni che costruiscono il paesaggio, la città, gli edifici e gli oggetti

d’uso.

Quindi c’è bisogno di una previsione?

In architettura la previsione progettuale è necessaria perché il

costruire è altamente costoso. Costoso al punto che non si possono

fare prove. Mentre un pittore può distruggere un quadro se non gli

sembra riuscito bene, un architetto non può abbattere il suo edificio

se questo non lo soddisfa. Inoltre un manufatto è, in quanto oggetto,

particolarmente complesso. È il frutto di un’azione in qualche modo

permanente di materiali diversi chiamati a collaborare, ciascuno

secondo la propria natura; è attraversato da una rete di canalizzazioni

che lo alimentano e che richiede l’esattezza di una macchina; il suo

funzionamento deve essere in grado di evolvere nel tempo. Anche

per questi motivi il progetto è assolutamente inevitabile. Tornando

per un attimo al problema del costo dell’architettura c’è da dire che

il parametro economico non va inteso nella sua sola espressione

finanziaria, ma soprattutto in quella relativa agli aspetti più autentici

e profondi del lavoro umano. Ciò significa che un progetto deve

prevedere per un verso un risparmio della fatica fisica per coloro

che costruiscono l’edificio, e per l’altro una loro possibilità di leggere

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che può ad esempio concernere una casa, un palazzo o una chiesa.

Il secondo livello è definibile come metaforico, e si riconosce nei

valori simbolici e narrativi che possono essere assegnati agli elementi

della rappresentazione. Osservando una tavola del trattato palladiano

è relativamente semplice cogliere tali aspetti nel disegno delle sue

ville, laddove il pronao sacralizza la casa iscrivendola in questo

modo nel paesaggio nella forma di un segno unificante e risolutivo.

Il terzo livello è quello autonomo e si esprime nella pura e astratta

dimensione formale. È in questo livello che la rappresentazione si

configura come un’opera anch’essa autonoma. In molti casi sono

stati proprio disegni o progetti non realizzati a fare un passo

in avanti in architettura; il concorso per il Chicago Tribune

potrebbe essere un esempio?

Quanto appena detto si affianca anche ai risultati di quella celebre

competizione. Ai fini dell’evoluzione della ricerca architettonica il

progetto vincitore, che è stato realizzato, non ha avuto certo

l’importanza di molte altre proposte, prima fra tutte quella di Adolf

Loos. Ma in particolare stavo pensando al progetto di Michelangelo

per la facciata di San Lorenzo a Firenze. Se si vuole veramente

le fasi della costruzione come un insieme logico dei momenti

diversi, armonicamente collegati. Da qui la ripetizione degli elementi,

il loro numero che deve essere limitato al massimo, la loro precisione.

Lei nel libro Comporre l’architettura ci invita a trattare con

cautela il nostro eventuale talento artistico, anzi addirittura

a distruggerlo in nome di una ricerca paziente, memore

dell’insegnamento lecorbuseriano. Questa dedizione al

mestiere passa attraverso il lavoro del disegno. Può spiegarci

meglio la distinzione fatta tra disegno teorico e disegno di

classificazione?

Una cosa che va stabilita subito è che il disegno non è in prima

istanza uno strumento, pur se contiene aspetti strumentali. Il disegno

è innanzi tutto il luogo nel quale l’idea architettonica si dà come

tale, proponendosi appena dopo come lo sguardo dell’architetto sul

mondo, vale a dire come la modalità di elencare, classificare e studiare

l’intero ambiente fisico. Non si può dire di conoscere per davvero

un oggetto semplice come un tavolino se non lo si rileva. Dopo

questa valenza conoscitiva il disegno è comunicazione, e in questa

funzione, che consiste nel mostrare l’esito del progetto, esso acquista

una più evidente connotazione strumentale. Il disegno è infine

memoria, e cioè accumulazione di informazioni relative alle scelte

progettuali e ai modi con i quali si è pervenuti a esse. Le decisioni

si sono prodotte a volte lentamente e attraverso sedimentazioni

così varie e contrastanti da impedire di ricostruirne la genesi se non

ci fosse un sistema per ricordarle. Il fatto che la rappresentazione

architettonica non si esaurisca nei suoi contenuti strumentali comporta

una sua autonomia. Un disegno di architettura, se eseguito con

consapevolezza critica e con una precisa intenzionalità linguistica,

può senz’altro acquisire una dimensione estetica indipendente dai

suoi aspetti referenziali diretti, dai suoi ambiti documentari e

informativi. In altre parole la rappresentazione architettonica può

produrre opere che hanno un loro valore estetico, e che possono

per questo essere considerate in se stesse, per ciò che esse valgono

una volta sottratte, per così dire, al ciclo produttivo dell’architettura.

Ciò comporta anche che la storia dell’architettura non può essere

fatta solo a partire dalle opere realizzate, costruendosi anche

attraverso gli edifici rimasti sulla carta, ovviamente quando questi

- ma l’avvertenza vale anche per le stesse opere realizzate – presentano

un adeguato livello qualitativo. Per maggior chiarezza non è inutile

riassumere brevemente quali siano i livelli di contenuto di una

rappresentazione architettonica. Il primo si può definire il livello

della referenzialità diretta, e riguarda l’oggetto del disegno stesso,

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comprendere l’architettura del Rinascimento quel progetto, benché

non realizzato, costruisce un nodo fondamentale.

Anche San Giovanni dei Fiorentini?

Anche gli straordinari disegni michelangioleschi per San Giovanni

dei Fiorentini, assieme a tante altre architetture non realizzate,

dimostrano ampiamente che la rappresentazione architettonica non

è semplicemente uno strumento ma molto spesso architettura vera

e propria. Ma vorrei soffermarmi ancora un poco sulle differenze

tra disegno teorico e disegno di classificazione. Il disegno teorico

si propone come l’ambito di una riflessione sull’architettura che dà

vita a un mondo di forme in attesa: architetture che forse saranno

costruite e forse no, ma che, pur restando per sempre nello spazio

bidimensionale del foglio, sono architetture vere e proprie. I grattacieli

espressionisti di Ludwig Mies Van der Rohe, anche se non si sono

mai elevati con le loro superfici levigate sulla città reale, costituiscono

ancora oggi un repertorio pressoché inesauribile di idee. I primi

disegni di Aldo Rossi contengono anch’essi una carica sperimentale

e una forza inventiva che li rende essenziali per qualsiasi indagine

si voglia intraprendere sul linguaggio architettonico come esito di

un incrocio tra biografia e storia sotto il segno di una lucida

visionarietà. Il disegno di classificazione è invece, come ho già detto,

lo sguardo dell’architetto sul mondo. Il letterato può scrivere la

frase “cammino su un pavimento di pietra” ma l’architetto deve

sapere come è fatto questo pavimento e di cosa è fatto e in più

deve saperlo rifare. Il disegno di rilievo e il disegno dal vero, oggi

quest’ultimo, purtroppo, quasi del tutto marginalizzato, sono due

modalità del disegno di classificazione. Questo è l’insieme dei modi

attraverso i quali l’architetto campiona elementi del mondo fisico

costituendo una sorta di catalogo generale del costruito. Sto pensando

alle stagioni dei grandi manuali tecnici che tra la fine dell’Ottocento

e i primi decenni del Novecento ordinarono in complesse tassonomie

ogni tipo di manufatto, ma mi viene in mente anche Internet con

gli infiniti dettagli architettonici racchiusi nei suoi archivi. Ricordo

anche il grande lavoro documentario, acceso di sentimento poetico,

che Flora Borrelli svolse sul territorio reggino interrogato in tutte

le sue molteplici e storiche stratificazioni di segni.

In merito al rapporto tra disegno e architettura cito due

sue frasi: Il fine primo dell’architettura è, tramite il secondo,

costruire il senso profondo dell’abitare dell’uomo sulla terra

e il disegno è la vera scienza di questa arte unica e necessaria,

il suo specchio sincero. Quindi, secondo lei, l’architettura è

un disegno che diventa vero?

Penso proprio di sì. Se non sbaglio queste frasi compaiono nel

mio libro L’architettura didattica. La prima vuol dire che l’architettura

è sì arte del costruire, ma questo costruire non è fine a se stesso.

L’architetto non ha come compito tanto il costruire quanto il

rappresentare la condizione umana per come questa è espressa

nell’abitare tramite il costruire, che si rivela così un fine secondo.

Il disegno misura proprio lo scarto tra il costruire come gesto

puramente tecnico e il costruire come atto architettonico, e la seconda

frase citata lo metteva in evidenza. Si tratta della differenza che

corre tra la struttura metallica progettata da un ingegnere e la

copertura della Convention Hall di Mies. Le soluzioni costruttive

sono praticamente le stesse ma il risultato è completamente diverso.

In quel qualcosa in più c’è l’architettura. Quel plusvalore si definisce

a partire dalla capacità del disegno di trasformare l’analiticità

descrittiva del costruire in una sintesi formale assoluta. Ecco come

la struttura di un hangar diventa un miracolo di spazio e di luce.

Ecco anche come i modelli astratti di Konrad Wachsmann si fanno

architettura concreta senza perdere nulla della tensione spirituale

che li anima.

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Mies va oltre il gesto del coprire…?

Certo, non solo il gesto del coprire, ma soprattutto il perché del

coprire. Costruire un tetto circoscrive uno spazio preciso rispetto

all’infinità circostante; istituisce un confine; ci indica un orizzonte

a partire da un interno. Ma, soprattutto, coprire una porzione della

superficie terrestre crea una polarità, chiama a sé il resto, materializza

un luogo. Stabilendo un riparo si risponde all’esigenza umana di

protezione e di identificazione del punto della terra dove si abita.

Un punto che è unico. Per questo costruire un tetto non significa

soltanto risolvere un problema tecnico, ma rappresentare la condizione

umana per quanto essa attiene rispetto all’esigenza profonda del

riparo e del bisogno di un luogo dove tornare e dal quale muoversi

per scoprire il mondo.

Per quanto riguarda la dimensione ludica da laboratorio

che lei individua nei suoi disegni, come da questa dimensione

s i passa a l l a fo rmaz ione e a l l o sv i l uppo de l l ’ i dea

architettonica?

La dimensione da laboratorio è quella tesa atmosfera mentale e

immaginativa nella quale, in un’ambigua e nativa indistinzione tra

disegno e scrittura, l’architetto sceglie gli elementi primari della

propria architettura. Egli seleziona accuratamente i segni e le loro

connessioni facendo molta attenzione a che questi elementi siano

ridotti di numero ma estremamente carichi di potenzialità generative.

Tra questi egli preleverà volta per volta quelli che gli sembreranno

più adatti al programma che deve realizzare. Sono convinto da

sempre che i veri architetti sono coloro che agiscono sulla base di

un simile a priori concettuale e formale, misurando rispetto a questo

orizzonte di riferimento le singole occasioni, in una costante dialettica

tra ciò che deve restare se stesso nel tempo e ciò che deve mutare.

La dimensione del laboratorio è in prima istanza uno spazio di

autocoscienza e poi un luogo della sperimentazione nel quale si

provano le mosse compositive, i processi di formalizzazione, le

soluzioni verso le quali ci si orienta, i materiali e i loro accostamenti.

Mi è capitato più volte di utilizzare nel mio lavoro motivi elaborati

dieci o vent’anni prima. Da quel disegno dietro di voi traggo ancora

oggi molta della mia architettura.

Ecco perché è messo lì?

È da qualche giorno appoggiato lì perché ne abbiamo provato una

stampa ma il suo posto abituale è nel mio archivio. Quella tavola

è nella mia mente da sempre, come un amico al quale si pensa

spesso. Città in costruzione l’ho eseguita nel 1966 e da allora ogni

mio progetto discende in qualche modo da quei segni e dal modo

con il quale sono messi assieme. Credo che molti architetti abbiano

un loro disegno che interrogano per tutta la vita. Ce n’è uno di

Guido Canella al quale egli tiene molto: è uno schizzo dal tono nervoso

e sintetico che mostra una sorta di tempio coperto da un grande

timpano. Quell’immagine - l’autoritratto architettonico del maestro

milanese – ispira pressoché tutti i suoi progetti.

Anche lei utilizza il computer nel suo lavoro. Qual è il ruolo

del computer nel processo di ideazione?

Per tutta una serie di ragioni il disegno digitale è oggi il nuovo

spazio discorsivo della rappresentazione architettonica, l’ambito di

una potenziale universalità del linguaggio grafico. Esistono in sostanza

tre modi di intendere i l r icorso al le tecniche elettroniche

nell’architettura. Il disegno digitale infatti permette di fare meglio

ciò che si faceva manualmente e in questo senso può quindi essere

considerato come un semplice ampliamento del disegno tradizionale;

esso può invece essere utilizzato come uno strumento nel quale i

blocchi conoscitivi relativi al progetto sono organizzati in nuclei già

in qualche modo formalizzati, e ciò può senza dubbio facilitare il

lavoro compositivo; il disegno digitale può infine essere vissuto

come il luogo di un nuovo immaginario che consente di pensare

spazialità fino a poco fa letteralmente impensabili, che vedono

prevalere la continuità avvolgente e potenzialmente infinita delle

superfici. In questo nuovo immaginario il microcosmo e il macrocosmo

si fondono in figure complesse e metamorfiche. Il computer non è

comunque un’ent i tà completamente nuova che i rrompe

improvvisamente sulla scena dell’architettura. Esso rappresenta

nello stesso tempo un punto di arrivo di una lunga evoluzione storica

e un punto di partenza per esplorazioni di territori in gran parte

sconosciuti. Il disegno digitale eredita il disegno antico con alcune

trasformazioni fondamentali, prima tra queste la discontinuità della

linea. Ciò apparentemente significa poco, ma in realtà conta

moltissimo perché implica uno spostamento concettuale riguardante

la stessa idea di distanza, ora tradotta in una sequenza di frammenti

metrici, di corpuscoli separati che si collocano in uno spazio compresso

e distorto. L’unità base del disegno digitale è il pixel, una sorta di

atomo figurativo in cui nulla accade. In esso non c’è temporalità

in quanto non c’è variazione. Tale carattere contraddice radicalmente

una delle basi ontologiche del disegno manuale, ovvero l’essere

funzione plurale del tempo. Inoltre il computer fa venir meno, almeno

apparentemente, l’essenza autografica del gesto. Tuttavia, anche

se non c’è più il gesto, ci accorgiamo comunque che due disegni al

computer fatti da due architetti sono diversi. Indizio, questo, che

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Penso proprio di si.

Piranesi, attraverso le sue visioni prospettiche con molteplici

punta di fuga può essere il tramite tra la visione statica

monoculare del quattrocento del Brunelleschi e quella

dinamica ottenuta oggi al computer, tenendo conto della

d imens i one t empora l e che i l c ompu te r o f f r e a l l a

rappresentazione?

Giovan Battista Piranesi è un teorico, un architetto, un artista, la

cui opera straordinaria e profetica ha provocato una vera e propria

rivoluzione dello sguardo sul mondo, una rivoluzione che, pur

riguardando lo spazio e il linguaggio architettonico, ha travalicato

largamente i confini dell’architettura stessa per divenire universale,

come ci ricorda il grande numero di saggisti non architetti che ne

hanno esplorato il mondo teso e allucinato. Il grande incisore

veneziano ha ottenuto questo risultato ricomponendo in una sintesi

inedita gli elementi e i materiali visivi che si erano sviluppati a

partire dall’invenzione della prospettiva nel Quattrocento. Nelle sue

tavole c’è la terribilità michelangiolesca con la relativa iperbole

dimensionale; c’è la corsa infinita delle fughe borrominiane di San

in realtà l’essenza autografica persiste, pur se in altre forme.

Quindi anche nel computer c’è autografia del disegno?

Sono convinto che anche nel computer c’è spazio per l’autografia,

anche se si tratta di un’autografia molto diversa, da ricercare oltre

l’indubbia omologazione del linguaggio grafico che il disegno digitale

produce. Non c’è certo l’autografia che troviamo sulle superfici di

una scultura di Michelangelo, segnate in modo inconfondibile dalla

gradina; negli splendidi disegni a matita di Francesco Borromini;

nei taccuini di Le Corbusier, percorsi da segni veloci ma estremamente

densi di informazioni. Il computer esclude questi valori, ma ne fa

nascere sicuramente altri. Tra questi ad esempio il linguaggio delle

trasparenze; accelerazioni prospettiche prima difficili da ottenere;

spazi confluenti e compenetrati.

Ma la genesi di un progetto di Franco Purini nel ’68 è rimasta

invariata o il computer ha invaso anche questo tavolo?

Un mio progetto nasce sempre da uno schizzo il quale, rendendo

visibile un’immagine interiore, la fa nello stesso tempo nascere. Lo

schizzo è l’irruzione improvvisa, nel mondo, di una decisione che

prende forma dopo un’elaborazione lenta e misteriosa. Come

attraversata da una scarica elettrica la mano, in una identità assoluta

con la mente, traccia sul foglio alcuni segni che sono né più né

meno che l’idea. Un’idea che molto difficilmente potrà essere

modificata nei suoi tratti fondamentali. Io continuo a cercare le idee

in questo modo, ricordando che tali idee sono già virtualmente

presenti in quell’a priori inverato in disegni teorici di cui ho parlato

in qualche risposta precedente. Il disegno digitale interviene dopo

e per me è un disegno integralmente storico. Sono molto distante

dagli architetti che vedono nel computer, come dicevo poco fa, un

nuovo immaginario, architetti come Greg Lynn e Hani Rashid,

progettisti di quegli blob ject che Bruce Sterling, assieme a William

Gibson, il più importante scrittore di storie cyberspaziali, ha

recentemente dichiarato sorpassati. L’opera dei due architetti è in

ogni modo centrale per comprendere la complessità quasi inestricabile

delle relazioni tra reale e virtuale. Questa ultima parola non indica

semplicemente ciò che prima o poi diventerà reale – cosa che può

anche avvenire – riguardando più esattamente una sfera di spazi

e di architetture che possono vivere solo nella dimensione della

rappresentazione, solo nello spazio specifico delle immagini. Da

questo punto di vista non esisterebbe tanto una competizione tra

rea le e v i r tua le quanto un vero e propr io para l le l i smo.

Parliamo quindi di architetture ideate per rimanere al

computer?

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Giovanni in Laterano, con la profondità atmosferica che sfuma

le volte e le membrature rendendole immateriali; c’è il vedutismo

analitico del Canaletto; ci sono le accelerazioni spaziali dei Bibiena,

risolte nell’ambigua illusorietà delle vertiginose quinte prospettiche.

Questi elementi e materiali visivi confluiscono nelle Carceri dove

trovano la loro sublimazione. Le Carceri, soprattutto nella seconda

versione, prefigurano la spazialità moderna come entità frammentata,

plurale, disarticolata e sconfinata. A differenza di quanto sostiene

Bruno Zevi lo spazio moderno non vede la distruzione della prospettiva;

non è, in altre parole, antiprospettico. Come il cubismo dimostra

ampiamente ciò che avviene non è il superamento della prospettiva

ma la moltiplicazione dei punti di vista. La stanza prospettica viene

messa in crisi nel la sua unicità ma nel lo stesso tempo, e

contraddittoriamente, essa viene confermata proprio attraverso la

sua proliferazione. La cellula prospettica permane anche

nell’architettura digitale, pur tra vigorosi torsioni spaziali e incessanti

metamorfosi topologiche.

Lei ritiene che le campate spaziali rimangono intatte?

Si, certo, non c’è dubbio. Anche nell’architettura decostruttivista

più estrema la prospettiva rimane lo strumento ordinatore dello

spazio, anche in questo caso riverberata, amplificata e per molti

versi contraddetta dal sommarsi di punti di vista divergenti. Ciò che

sembra prodursi in questo tipo di ricerca non è tanto il superamento

della prospettiva, quanto la piegatura del piano che seziona la piramide

visiva. Accartocciando questa superficie le linee si spezzano, le

distanze si alterano, i volumi subiscono una serie di deformazioni.

Lo spazio piegato eisenmaniano è una derivazione di ciò

che lei sta dicendo?

Penso di si. Oltre le suggestioni derivanti da La piega di Gilles

Deleuze e da letture derridiane c’è sicuramente, nell’attività

compositiva eisenmaniana, la componente prospettica di cui sto

parlando. Le conquiste dello sguardo, in questo caso lo sguardo

prospettico di matrice rinascimentale, integrato dalla successiva

scienza proiettiva e poi coinvolto dalla frammentazione cubista e

dalla serialità discontinua la cui matrice è nel montaggio filmico, le

acquisizioni teorico-visive, dicevo, non vengono accantonate via

via che si profilano nuove scoperte ma si sommano nel tempo creando

una sorta di visualità stratificata come un testo storico. Nell’architettura

moderna possiamo riconoscere una visione prospettica, nella quale

ha un grande peso la frontalità; si identifica subito dopo la prospettiva

rinascimentale, spinta successivamente dal Barocco fino alle vertigini

dell’infinito e a un’inarrestabile concitazione dinamica; superata

l’età barocca è possibile riconoscere la cristallizzazione neoclassica

dello spazio; con le avanguardie si constata la compresenza conflittuale

di questi sguardi particolari, ciascuno dei quali viene per così dire

esasperato alla ricerca dell’eccesso figurativo e di una didatticità

dimostrativa che finisce con l’assumere una esemplarità ideologica;

nell’attuale età digitale è possibile ritrovare tutto ciò che nei precedenti

modelli costruiva la continuità dello spazio al fine di generare

l’impressione di una fluidità assoluta delle forme architettoniche. Il

complesso delle visioni precedenti si configura in qualche modo

come necessaria. A proposito del disegno digitale vorrei sottolineare

una particolarità che mi sembra molto significativa: a differenza

del disegno tradizionale, che è costruito per favorire la penetrazione

visiva dentro l’immagine, in quello elettronico la rappresentazione

si rifiuta di essere attraversata, opponendo allo sguardo una superficie

resistente. A tale opposizione all’accesso si affianca una apparenza

visiva aggressiva e spesso ultimativa, un’apparenza graficamente

e cromaticamente complessa fino all’indecifrabilità. Osservando le

immagini digitali è come se fossimo sottoposti a una violenza visiva

che non si fa in alcun modo dominare; una violenza dionisiaca che

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sconcerta almeno quanto affascina. Nel lo smalto del le

rappresentazioni elettroniche c’è un versante organico nella sua

vitale e fluida proliferazione ma c’è nello stesso tempo un aspetto

inorganico, una durezza minerale che si pone in esplicita

contraddizione con le carnose e lucide parvenze dell’aliena materia

dei blob. I disegni digitali propongono così un universo organico e

inorganico, naturale e artificiale, credibile e incredibile, unitario e

frattale, un universo permeato come dicevo prima dell’aura di Dioniso.

Sono stato invitato a un convegno organizzato da Carmine

Gambardella a Capri, isola dionisiaca per eccellenza. Purtroppo non

potrò andarci. Avrei affrontato come tema La Scudo di Achille e la

realtà virtuale. Questo oggetto mitico, emblema di una frontalità

terrorizzante, è una splendida rappresentazione dell’intero cosmo

che contiene più cose di quella che potrebbe realmente accogliere.

Per questo esso può vivere solo nello spazio della parola, uno spazio

nel quale lo spazio reale può essere dilatato, sconvolto e contraddetto.

Con la descrizione di quell’oggetto miracoloso Omero ha dimostrato

di saper vedere molto, ma molto lontano.

Come quello dipinto dal Caravaggio con la testa di Medusa?

L’effetto è proprio quello. Nella mitica opera forgiata da Vulcano

il grandissimo numero dei particolari, la loro disposizione, il loro

movimento avrebbero dato vita a una presenza visiva letteralmente

insostenibile dallo sguardo umano. Anche la Medusa caravaggesca

è una immagine che non può essere contemplata direttamente ma

solo colta lateralmente, di sfuggita, potendo rubare, di quel volto

spaventoso, che ci annullerebbe, solo un impressione rapida e

scorciata.

Su questo rapporto tra disegno e società contemporanea,

vorrei tornarci dopo. Invece vorrei rimanere su questo legame

tra disegno e spazio. Lei afferma che il disegnatore non può

occuparsi della sensazione dello spazio, ma è piuttosto: lavoro

sulla pagina, sulla manipolazione e straniamento di immagini

celebri, lavoro sullo spazio prospettico e sui meccanismi di

lettura dei disegni, analisi di temi figurativi. Ma come tutto

questo le consente di prendere le distanze dalle categorie

che lei ha definito del visivo e che un po’ condanna?

Il problema che pongo da tempo è che il lavoro dell’architetto è

un lavoro che ha a che fare con la materia e i materiali: noi costruiamo

idee con gli oggetti. Se in un film lei deve mostrare un tavolo ha

bisogno di un tavolo vero, e quindi rappresenterà un tavolo con un

tavolo. In ciò consiste quella che Pier Paolo Pasolini chiamava l’essenza

metonimica del cinema. Per noi è in qualche modo la stessa cosa:

se dobbiamo costruire una parete in mattoni usiamo il mattone,

definendo così l’idea del mattone attraverso il mattone stesso, e

non tramite la sua astrazione. Parallelamente, anche nel disegno

non ci dobbiamo sempre riferire alla concretezza costruttiva, pur

se questa è per così dire tradotta in segni e in simboli grafici. Per

questo non possiamo occuparci di sensazioni, ma delle cose che le

provocano. Bisogna stare molto attenti a non fare letteratura, filosofia,

psicologia o socio-antropologia: noi architetti dobbiamo esprimerci

con i materiali veri dell’architettura e non con i loro simulacri verbali.

Potremmo affermare che la matrice dell’architettura è

iconica, è testuale o è una v ia d i mezzo tra le due?

È una matrice fisica la quale, attraverso le case, le materie e i

materiali di cui queste sono fatte e i contesti precisi nelle quali esse

sono inserite risale alle idee, alle astrazioni. L’a priori ideale di cui

ho parlato deriva anch’esso dalla natura concreta dell’architettura.

Quando affermo che il fine primo dell’architettura è quello di esprimere

tramite il mio fine secondo, il costruire, il senso dell’abitare dell’uomo

sulla terra rimando sempre alla dimensione reale dell’architettura.

Una piccola digressione sull’architettura disegnata. Esiste

una differenza tra architettura disegnata e architettura

progettata?

A mio avviso questa differenza non esiste. Si può benissimo

rappresentare una casa senza che si debba costruire. Quando

un’architettura disegnata è buona è sempre architettura, possedendo

di questa la concretezza logica e la densità espressiva. Pensiamo

agli acquerelli di Massimo Scolari: non c’è niente di più reale di

quelle immagini, una volta che si entri per davvero nella loro idealità

interrogandoli nella complessità dei loro contenuti. Le opere di

Scolari sono concrete come è concreta la vera poesia, che non è

mai vaga e indistinta ma sempre precisa e circostanziata. La poesia

è un concentrato potente di frammenti conoscitivi, di illusioni

emozionali e di sondaggi nell’oscurità umana che si nutrono della

più diretta verità dalla vita. L’architettura disegnata e l’architettura

progettata coincidono perfettamente.

A proposito di frammenti di architettura derivata da quella

classica, se pensiamo a Boulleè, Ledoux, questo filone ad

esempio è costituito da composizione paratattiche. Il suo

disegnare per certi versi può essere paragonabile a questo

procedimento paratattico?

Si. Il procedimento paratattico informa di sé tutta la composizione

moderna. Come ha scritto Emil Kaufmann esso nasce dalla crisi

definitiva del principio di gradazione barocco intervenuta a metà

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del Settecento. Un principio di coordinamento gerarchico di tutti

gli elementi di un edificio al quale si sostituisce il procedere per

accostamento delle parti del manufatto. Si tratta di una modalità

che anticipa nella autonomia degli elementi componenti la ripetizione

seriale tipica del comporre moderno. Leon Nicolas Louis Durand è

uno dei grandi teorici di questa nuova concezione della composizione

architettonica. Una concezione la quale incorpora una certa rigidezza

meccanica capace però di conferire al risultato un carattere del

tutto particolare, che interpreta perfettamente la segmentazione

moderna del tempo e dello spazio, tradotti in frammenti didattici

da leggere in una simultaneità di inquadrature diverse coordinate

da un montaggio quasi cinematografico. Io mi riconosco integralmente

nel procedere paratattico, che condivido ad esempio con altri architetti,

segnatamente con Vittorio Gregotti. Anche la composizione di Aldo

Rossi si muove nell’ambito di un rapporto quasi magnetico tra pezzi

e parti, entità che vivono di calibrati intervalli in una esatta metrica

serrata, indagata magistralmente da Ezio Bonfanti in un suo celebre

saggio.

Nell’architettura classica i mezzi di controllo di queste parti

magari ideate e poi accostate era la proporzione. Per lei quali

sono i paradigmi di controllo di quest’invenzione paratattica?

M a g a r i l ’ a c c o s t a m e n t o d i i m m a g i n i s c a r p i a n o ?

Come è noto la proporzione viene condannata a morte da Charles

Perrault. Secondo l’architetto e trattatista francese non esisteva

alcun fondamento antologico per la teoria proporzionale. Ciò sembra

essere vero per ciò che concerne la sfera trascendente che legittima

il ricorso a tale teoria, ma non appare del tutto giustificabile dal

punto di vista fisiologico. Il nostro occhio percepisce determinati

rapporti dimensionali come entità razionali che presentano una

particolare qualità armonica. Discende da questa semplice

constatazione che nell’architettura ci sarà sempre l’esigenza di

proporzionare elementi e parti della composizione, anche se le

relative tecniche non saranno più sostenute da apparati esoterici,

da conquistare tramite adeguate iniziazioni. Per quanto mi riguarda

trovo che il rapporto 1:2 esprime una spazialità magica e piena più

della sezione aurea, a mio avviso eccessivamente estetizzante, anche

se in natura essa gioca un indiscutibile ruolo strutturale. Considero

anche la figura del quadrato come l’emblema stesso della proporzione,

anche se esistono molti modi per destabilizzare e dinamizzare la

sua geometria perfetta. L’assolutezza dei solidi platonici, che tanto

piacevano a Costantino Dardi, è anch’essa l’esito di una insuperabile

ed eterna proporzione metafisica. Anche nel comporre di Carlo

Scarpa esistono accurate corrispondenze metriche e ispirate

collimazioni prospettiche unite a un senso poetico del frammento

come inquietante polo iconico, punto di accumulazione di tensioni

spaziali e di vibrazioni materiche.

Oggi sembra consolidata la corrente di un’architettura che

mutua la sua espressività da tendenze mediatiche. Rispetto

a questa architettura del consenso è possibile che i suoi

disegni indichino i fondamenti per un recupero della disciplina

e per una sua rifondazione?

Mi auguro di si, perché i miei disegni esprimono proprio il tentativo

di contrastare l’attuale deriva mediatica che impone all’architettura

di comunicare istantaneamente i suoi contenuti, con il risultato di

consumarli altrettanto velocemente. Io non credo nell’effimero ma

sono convinto al contrario che sia connaturata all’architettura la

lunga durata, pur con tutte le curvature temporali e le distorsioni

relativiste che la nostra attuale condizione comporta. Schiacciare

l’architettura sul piano della comunicazione, che ne rappresenta

senz’altro un aspetto importante, ma non certo determinante, è

per me un grave errore. L’architettura identifica il suo scopo principale

non tanto nel rendere espliciti i suoi portati conoscitivi e i suoi valori

figurativi quanto nello stare nello spazio fisico con un’acuta e

permanente impressione di necessità: essa costruisce un luogo pur

attraverso ogni anonimato insediativo e ogni entropia urbana. A

questo fine concorrono i materiali di cui è fatto un edificio e gli spazi

che esso contiene. Stare implica il radicamento – e all’opposto il

dislocarsi – come il valore stesso del costruire in quanto mezzo per

esprimere il senso dell’abitare dell’uomo sulla Terra. Da questo

punto di vista è facile comprendere la mia grande distanza

dall’architettura della comunicazione e la mia scelta opposta per

una comunicazione differita, disturbata e ostacolata. Vorrei insistere

un po’ su questo argomento, affrontandolo in modo diverso.

Concentrare l’interesse sugli aspetti comunicativi dell’architettura

equivale a identificare la bellezza del corpo umano nel solo volto

tralasciando la sua struttura complessa, il suo movimento, il suo

portamento, la maniera di dominare con la propria energia lo spazio

circostante. Tutte manifestazioni, queste, più della dimensione

interiore che anima il corpo che della sua apparenza esterna.

Ma questa architettura dell’interiorità cosa significa per

noi che ci accingiamo a questo “mestiere”?

Ciò che sostengo è che l’architettura, come ogni altra arte, nasce

da una dialettica, che può essere anche insistita e violenta, tra

interiorità e esteriorità, vale a dire tra la costruzione interna di

Page 6: l'esterno dell'esterno e l'interno dell'interno: incontro ... · incontro con Franco Purini ... Il pittore può mettersi davanti alla tela ed ... disegni di Aldo Rossi contengono

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razionalità si inverte nel suo oscuro contrario. Ho scritto più volte

che se Pier Paolo Pasolini avesse conosciuto quell’opera l’avrebbe

probabilmente scelta come gelida scenografia del suo film-testamento

Le centoventi giornate di Sodoma. Quello immaginato e realizzato

dal grande architetto è uno spazio della crudeltà nel senso che a

questa parola ha dato Antonin Artaud. Ma anche gli esperimenti

teatrali di Jerzy Grotowsky, nei quali il corpo viene spinto fino al

suo limite, avrebbero potuto trovare nel candido cubo contenuto

nella Casa del Fascio la loro sede ideale. Questa architettura è colma

di una pietas senza salvezza, una pietas ultimativa e testimoniale.

Tonalità simili, pur con una intensità forse minore e con qualche

cedimento alla retorica della profondità, si ritrovano in edifici di altri

architetti quali Saverio Muratori, Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Antonio

Monestiroli, Francesco Venezia.

Louis Kahn come si pone in relazione a tale poetica della

profondità?

Anche Louis Kahn, soprattutto nell’ultimo decennio della sua attività,

presenta nelle sue architetture, peraltro di grande forza evocativa,

una percepibile inclinazione alla profondità come un plusvalore

convinzioni, di temi, di motivi e la apertura a ciò che è altro della

nostra coscienza e dei nostri orientamenti più soggettivi. L’architettura

non può essere espressione della pura introversione dell’architetto,

né può nascere da una sua estroversione totale. Occorre saper

uscire da se stessi avendo un se stesso dal quale muovere per

affrontare ciò che c’è fuori. La dimensione interiore è fondamentale

e ce lo ricordano i grandi romanzieri della modernità come James

Joyce, Marcel Proust, Robert Musil, Alberto Moravia. Il flusso interiore

della coscienza, il portare il mondo dentro per poi portare il dentro

fuori in uno scambio incessante costruisce un’identità intermedia

e oscillante. Quanto detto è valido anche per gli edifici. Essi possiedono

un modo di essere aperti e disponibili, permeabili alla vita, ma hanno

anche un’interiorità più riposta e protetta: all’interno ci sono stanze

riparate, stanze forse belle e forse brutte; ci sono scale, a volte

misteriose; la luce entra ed esce creando silenziose coreografie.

Direi, citando Peter Handke, che tutto ciò è l’esterno dell’interno

e l’interno dell’esterno. Ma c’è anche un esterno dell’esterno e un

interno dell’interno. Anche nella misura, ad esempio. Basta pensare

a certi passaggi crudeli e stridenti delle composizioni di Antonio

Vivaldi e alle note cupe che spesso scavano nel tessuto già fortemente

interiorizzato della sonorità mozartiana caverne del significato, abissi

insondabili di un’interiorità ulteriore. Non solo occorre dunque essere

coscienti del versante interiore dell’architettura, ma bisogna anche

rappresentarlo. Una volta che lo si è rappresentato tale aspetto può

anche restare inesplorato, ma ciò non ci riguarda più. Sul mio libro

Comporre l’architettura ho scritto che questo è il problema più

rilevante tra quelli con i quali gli architetti che pensano devono

misurarsi. Debbono farlo senza però diventare a ogni costo profondi:

la dimensione interiore è tanto più autentica quanto più è presente

in modo implicito e trattenuto; quanto più è tessuta nel progetto

come un filo rosso che non appare ma che assicura la tenuta del

discorso come un sommesso leit motiv.

Lei quindi ci suggerisce ci caricare l’architettura di un

significato che però deve essere celato?

Nell’opera di Giuseppe Terragni, il più grande architetto italiano

del Novecento, l’interiorità della scrittura architettonica acquista,

nonostante la luminosità degli spazi e delle membrature, una risonante

tragicità. Aggirandosi nelle nitide cavità della Casa del Fascio di

Como si avverte un sottofondo inquietante che smentisce il purismo

analitico delle bianche superfici. La luce metafisica che pervade

come un magico liquido l’interno non descrive in alcun modo un

ambiente pacificato ma al contrario uno spazio angoscioso dove la

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auratico che spesso finisce con il depositare sulle sue architetture

un velo di compiaciuto accademismo. L’idea del fondamento non

può essere ignorata ma, come insegna Baldassarre Castiglione,

deve essere dissimulata attraverso la sprezzatura, vale a dire un

interno understatement che attenua e relativizza i momenti alti

della scrittura. Un altro grande teorico di questa premeditata

lontananza dalla propria opera è Charleas Baudelaire, che nello

Spleen di Parigi allude più volte alla necessità di un’asciuttezza della

scrittura come una regola dalla quale non si può transigere.

Lei come riesce nei suoi progetti e realizzazioni ad essere

coerente con questa ricerca della interiorità senza cadere

nella retorica?

Io non so se e come la mia interiorità, ammesso che esista, sostenga

i miei disegni e le mie architetture. Sicuramente tengo molto presente

la necessità di conferire ai miei risultati compositivi una sorta di

capacità dialogante, di dotarli di un’attitudine discorsiva: spesso è

attraverso l’errore calcolato che si può ottenere un plusvalore narrativo.

Si riferisce all’incidente tettonico ad esempio?

Sicuramente l’incidente tettonico, questo si accompagna a una

acce l e raz i one t i po l og i ca , va l e a d i r e da una pa r te a

un’estremizzazione quasi didattica dello schema tipologico, dall’altro

a un suo forte straniamento, può consentire con una certa facilità

di ottenere come esito formale un’aggressiva problematicità linguistica

e costruttiva, risolta in un particolare episodio spaziale. Occorre

stare attenti però che ciò a cui si dà vita non si trasformi in qualcosa

di troppo spettacolare, in un’espressione mediatica che brucia se

stessa nella sola dimensione visiva. Al contrario si tratta di far sì

che la composizione si duplichi, per così dire, in una realtà apparente

e in una realtà più nascosta, che emerge lentamente ma che permane

più a lungo nel tempo. Quando si osserva ad esempio una tela di

Jackson Pollock occorre superare l’aspetto esteriore del quadro

sottraendosi in qualche modo allo scatenamento energetico del

segno, impegnato in infiniti e imprevedibili andirivieni, per cogliere

oltre questo vorticare di linee e di colori una struttura più stabile

e resistente.

Bisognerebbe prima imparare a non sbagliare e poi tornare

un attimo indietro?

Certo, imparare a non sbagliare – io direi a non sbagliare troppo

– per pervenire poi alla consapevolezza della necessità che in una

composizione architettonica si debbono esprimere livelli più interni

e raccolti del significato, potrebbe essere una buona norma di

comportamento. Frank O’Hara ha parlato a proposito delle opere

di Pollock di fregi classici, di festoni drappeggiati come irruenti ma

esatti dispositivi di misurazione poetica dello spazio. Anche in ogni

architettura che sia veramente tale possiamo e dobbiamo scorgere

oltre quella più evidente una realtà più importante che in essa soggiace

come un messaggio urgente. Il disegno, sia quello manuale sia il

disegno digitale, sono i luoghi in cui questa anima necessaria di un

edificio si rende manifesta agli occhi e alla mente dell’architetto

prima di affrontare, nella costruzione, il mondo esterno come un

segno di felicità e di speranza.