le pianelle di masaccio - dario flaccovio

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Abstract tratto da Lucia Bruni - Le pianelle di Masaccio - Tutti i diritti riservati - © Dario Flaccovio editore

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Della stessa autrice:

Benvenuto Cellini e il ricciolo indiscretoPontormo e l’acqua udorosaIl segreto di Raffaello

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Lucia Bruni

LE PIANELLE DI MASACCIO

Dario Flaccovio Editore

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Page 4: Le pianelle di Masaccio - Dario Flaccovio

Lucia BruniLE PIANELLE DI MASACCIO

ISBN 9788857906621

© 2017 by Dario Flaccovio Editore s.r.l.

www.darioflaccovio.it

Prima edizione: marzo 2017Stampa: Officine Grafiche soc. coop., Palermo, marzzo 2017

Nomi e marchi citati sono generalmente depositati o registrati dalle rispettive case produttrici. La fotocopiatura dei libri è un reato. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro paga-mento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto.

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LE PIANELLE DI MASACCIO

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LA SCOMPARSA

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“L’è sparita, gente!”.“Siiee, sparita… Scappata, tu’vvora’ dire”.“Fatto sta che stamani i’lletto gliera intatti e lei la ’un

v’era. L’hanno cercata dappertutto, ma ’un l’hanno trovata”. Fin dal primo mattino la notizia della scomparsa della

Tosca era rimbalzata di bocca in bocca, di casa in casa, di bottega in bottega, mettendo in agitazione il paesino di Querciaio, ameno luogo collinare a poche miglia da Firenze. I come, i dove, i con chi, i perché dell’accaduto facevano eco alle tante ipotesi attorno a quella notizia che era piombata sulla piccola comunità nella quale in genere si sapeva sempre tutto di tutti. E ora, nella piazzetta della chiesa, sotto il tabernacolo della Madonnina, mentre il sole schietto del giugno 1899 annunciava un giorno di calura, s’era formato un crocchio di gente capeggiato dalla Velia trecciaiola, bollettino attento e scrupoloso di ogni avveni-mento. Il solito grembiule rimboccato con dentro la paglia e in mano una treccia a sei fili appena avviata, la vecchietta si faceva premura di tenere banco per commentare a dovere l’accaduto.

“E indove la sarebbe andata? E con chie?”, chiese la Cira, ricamatrice, con una vocina timorosa, mentre l’Ida, per-petua del priore, uscita dalla chiesa con la granata1 in mano, soffocava un risolino malizioso.

1 “Granata” = scopa, in toscano.

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“Con chie ci si pole immaginare”, ammiccò la Giselda, figliola dello Zipolo ciabattino, sempre pronta a spandere maldicenze.

“Eccola lei”, la rimbeccò Bista, giardiniere del marchese Malenchini. “Se tu lo sai, falla poco lunga e dillo”.

“Io ’un so e ’un vo’ sapere”, rispose risoluta l’altra, “ma negli urtimi tempi la bazzicava sempre que’baracconi di’tteatro”.

“Veramente gliera uno di quegli attori che gli ronzava dintorno”, precisò Bista, “come derresto facea con la Con-cettina di’Ccianchi e con quarche sottana di Colonnata”.

“Gli è vero”, intervenne Cencio, faticante dei conti Crémieux, “dappo’che2 i’mmarchese Malenchini gli avea dato i’ppermesso a quella compagnia di teatro d’accampassi in Camporella, gli ommini, quande ’unn’aveano da recitare, glieran sempre in giro a uccellare”.

Ci fu una breve pausa che diede ai presenti l’opportunità di qualche riflessione.

“Allora vu’ppensate che la Tosca la sia scappata co’ uno di que’giovanotti?”, disse l’Ida quasi sussurrando.

“Oh, mammina!”, sospirò la Cira pigliandosi il viso fra le mani.

“Velia, te icché tu’ddici?”, chiese Cencio che si divertiva a stuzzicare la vanità della trecciaiola.

“Se propio deo di’lla mia e la deo di’tutta”, riprese la Velia contenta d’essere al centro dell’attenzione, “dico che in quella casa bisognerebbe che si facessin tutti un bell’esame di coscienza”.

“O icché tu vorresti significare?”, intervenne la Nella, che aveva affetto per la Tosca. “Che l’è andata a…”.

Ma la parola le morì in gola perché in quell’istante don Pietro, il ruvido e severo parroco del paese, uscito all’im-provviso dalla canonica, fece un cenno alla perpetua Ida

2 “Dappo’che” = da quando. Arcaismo trecentesco.

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dicendo: “Vai in cucina. Oggi è giorno di questua; son già arrivati fra’ Carmelo della Castellina e due sorelle del col-legio del Pozzino”.

Poi, dando un’occhiataccia al convivio del quale imma-ginava l’argomentazione, mormorò scandendo lentamente e a voce alta un “Sempre sia lodato”, come in risposta a quell’ideale sottinteso “Sia lodato Gesù Cristo” che i pre-senti avrebbero dovuto pronunciare in segno di saluto e che non avevano fatto. Le tre parole del rito furono sufficienti a distogliere la combriccola da ogni altra congettura e, come un incantesimo che si rompe, il gruppo si disperse lasciando tutti nel ruminare dei propri pensieri.

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LA COMPAGNIA TEATRALE

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Il Carro dei Poeti: così si chiamava la compagnia di tea-tranti girovaghi venuti da Marradi che era accampata nel prato di Camporella, un ampio spazio al confine fra Quer-ciaio e Colonnata, proprietà del marchese Giulio Malen-chini. Aveva dato quindici spettacoli del proprio reper-torio portando sulla scena due volte la più che nota Pia de’ Tolomei, in una revisione alla bisogna dalle romantiche ottave del suo autore Bartolomeo Sestini; una volta la storia rabberciata del romanzo cavalleresco Il Guerin Meschino del trovatore Andrea da Barberino; e due volte, sempre in una revisione alla meglio, il poema eroicomico Il Mal-mantile racquistato di Perlone Zipoli3, del quale erano state conservate intatte alcune strofe che, chissà come, facevano ridere grandi e piccini:

O Musa, che ti metti al sol di state Sopra un palo a cantar con sì gran lena,Che d’ogn’intorno assordi le brigate,E finalmente scoppi per la schiena;Se anch’io, sopr’alle picche dell’armate,Volto a Febo, con te vengo inscena,Acciocch’io possa correr quella lancia,Dammi la voce e grattami la pancia…

3 Perlone Zipoli (Lorenzo Lippi), Il Malmantile racquistato (scritto nel 1649), Stam-peria di Francesco Moücke, Firenze 1750.

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Le altre dieci serate erano state tutte dedicate alle repliche della commedia in musica, una sorta di operetta, La pianella persa, ossia la veglia de’ contadini, favoletta simile a quella di Cenerentola. In paese tutti più o meno la conoscevano; qualcuno per averla vista al Teatro Niccolini di Sesto Fiorentino, dove alle rare rappresentazioni di opere liriche si preferivano quelle in prosa, per lo più a carattere leggero come questa, altri per averne sentito raccontare la trama. Qualcuno ne ricordava a mente una filastrocca: “Al buio la pioggia e la neve, sgomentarsi l’amante non deve…”.

Ciò che rendeva gradita alle compagnie questa farsetta era l’elasticità con la quale il libretto scritto da Giuseppe Maria Foppa oltre un secolo prima era stato rimaneggiato nel tempo dai capocomici, e il contendere fra la partitura del fiorentino Maestro Michele Bondi-Neri e quella del vene-ziano Francesco Gardi4 lasciava altrettanta disinvoltura nell’armonia del cantato.

4 Il testo di questa operetta viene da lontano. Scritto da Giuseppe Maria Foppa, librettista veneziano, nella seconda metà del Settecento, la partitura mostra una contesa fra il fiorentino Maestro Michele Bondi-Neri (la notizia si trortva nella biblioteca del Conservatorio Cherubini di Firenze: La mattina e la veglia di con-tadini o sia la Pianella persa, Farsetta in prosa e in Musica tradotta dal Francese del Sig. Maes. Bondi, 1829) che si sarebbe valso di motivi tolti da varie opere buffe settecentesche, e il veneziano Francesco Gardi, compositore. Su quest’ultimo, la cronaca biografica ci dice che La pianella persa, ossia La veglia de’ contadini fu rappresentata sia al Teatro S. Moisè di Venezia nel 1798, sia al Teatro Ducale di Parma, con il titolo La pianella perduta, nel 1811. La cosa certa è che, nei vari arrangiamenti subiti durante il secolo, resta una delle operette-commedia fra quelle più gradite e rappresentate. Quanto alla trama: due giovani contadini innamorati, Nardino e Nannetta, sono contrastati da Ghita, madre di lei, che vorrebbe per la figlia una sistemazione migliore, visto che l’attempato Maestro del Villaggio mira alla ragazza. Durante un appuntamento di notte e sotto la neve, i due giovani sono costretti a lasciarsi in fretta per l’arrivo del Maestro. Nardina, che aveva calzato delle vecchie pianelle della madre Ghita, ne perde una nella neve e il Maestro la trova. Nasce così lo scandalo: chi è la svergognata che si incontra per strada di notte con l’amante? Il Maestro, per il bene della comunità, proverà le pianelle a tutte le donne, trovando nel piede di Ghita il calzare perfetto. Per amor di verità e per non svergognare la madre, Nannetta e Naldino confessano a tutti il loro amore e Tommaso, padre di lei, acconsente al fidanzamento.

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A memoria dei vecchi di Querciaio non si aveva ricordo che attori nomadi si fossero fermati lì per dare degli spet-tacoli, portandosi dietro anche qualche baraccone con altre attrazioni, come giocolieri, saltimbanchi, illusionisti. Fatto sta che nei venti giorni di quella presenza, il paese era stato animato da euforie che avevano acceso e infervorato gli animi, specie dei giovani, lasciando inevitabilmente il segno.

Ora Il Carro dei Poeti era partito per un giro nelle cam-pagne di Prato e Pistoia (ma sarebbero tornati per altri spettacoli, infatti alcuni carrozzoni del personale di servizio erano rimasti accampati in Camporella) e la Tosca sem-brava aver preso il volo con lui. Oppure si trattava di una coincidenza?

E se era vero che Giovanni, detto Giannetto, attore e capocomico, giovane moro e di bell’aspetto, l’aveva cor-teggiata assiduamente durante la permanenza della com-pagnia a Querciaio, era anche vero che la Tosca pareva non aver troppo gradito quella corte, anzi, una sera che lui aveva tentato un approccio più ardito bussando a casa sua (Tosca abitava in una zona del paese abbastanza vicina a quella dei carrozzoni), l’aveva scacciato in malo modo.

Il mistero e i dubbi su quella scomparsa si facevano sempre più fitti, accompagnando a dovere la frase della Velia sull’esame di coscienza che avrebbero dovuto fare i componenti della famiglia Armieri, quella della Tosca: il babbo Ruggero, la mamma Celide, il fratello Narciso e la sorella Ofelia.

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TOSCA

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La Tosca era un’orfanella; ossia, proprio orfanella no, anche se nel paese passava per tale, perché nei suoi diciotto anni di vita non si era mai saputo, nello specifico, come stessero veramente le cose.

Marisa, la sua mamma, era arrivata a Querciaio diciannove anni addietro, nel 1880, come servetta della signora Odette, donna attempata ed eccentrica venuta qui a trascorrere i mesi estivi, e di sua sorella Clara, timida e dimessa. Alle due donne si accompagnava Silvio, un cugino, giovanotto invecchiato, dai modi compassati e dai folti baffoni curati, proprio come quelli dell’amato e ormai defunto primo re d’Italia.

“Ecco la Naghera, Zighere e Baffo”, era il commento ricorrente quando i tre si concedevano qualche passeggiata in paese. O se comparivano solo Odette e il baffuto – il quale era solito gingillarsi con una giannettina5 di canna esile e tutta bianca, come il bastone dei ciechi – per i paesani erano “i’cceco e la bellona”.

Qualcuno fra i veterani del paese, nel ricordo di lontane esperienze personali, credeva di riconoscere in Odette la tenutaria di una casa di tolleranza a Firenze, in via dell’Amorino, durante e dopo il periodo di Firenze capitale, attività che le avrebbe dato modo di mettere da parte diversi quattrini.

5 “Giannetta” = bastoncino da passeggio per lo più di canna d’India.

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La servetta Marisa era giovane, carina e svegliotta, secondo quanto si mormorava in ambiente maschile, sebbene paresse non voler dare confidenza a nessuno. Però, non si sa come, dopo quell’estate del 1880 passata a Quer-ciaio, se ne tornò a Firenze con un bambino nella pancia. Odette, anziché rispedirla al paesino di Chiocchio, nel cuore del Chianti, da dove era venuta, si prese la briga di cercare la soluzione migliore, perché la Marisa non solo era una buona ragazza, ma era anche sua nipote, cioè figlia di sua sorella Annina, molto più giovane di lei (fra loro correvano quindici anni), che aveva sposato il contadino del prete di Chiocchio. Come rimandargliela incinta e senza un marito?

Intanto scovò il malandrino e, siccome questo aveva già una moglie, tenne la ragazza in casa con sé a Firenze finché non nacque la bambina, Tosca appunto, ripromettendosi in seguito di trovare una sistemazione, magari con un matri-monio di comodo.

Ma se è vero che l’uomo propone e Dio dispone, per la Tosca si stava apparecchiando un altro futuro. Marisa pur-troppo morì di parto e Tosca fu accolta nella famiglia del padre, Ruggero Armieri, il quale un figliolo lo aveva già e un’altra era nata da poco. Così la moglie Celide, sia pure a bocca storta e con un certo rancorino dentro, si trovò costretta ad allattare due neonate.

Ma la Tosca era veramente figlia di Ruggero? Oppure la signora Odette era stata così abile da fare in modo che lo fosse? Per mesi a Querciaio l’argomento alimentò le più maliziose fantasie. Tutti volevano dire la propria. C’era chi aveva visto un giovanotto forestiero che ogni tanto veniva in visita in quella casa (dalla Marisa?) e subito dopo spariva. Di chi si trattava? Di un fantomatico cugino, come lei aveva dichiarato in confidenza a una vicina di casa, oppure era il segreto fidanzato? C’era chi diceva che la cosa era successa quando i signori erano andati per quindici giorni a Monte-catini a passare le acque portandosi dietro la Marisa: che

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fosse uno di quella città? Poi c’era chi, fra i giovanotti del paese, buttava là qualche sottesa millanteria, e altri che gio-cavano all’indovinala grillo.6

Ma pare che la Marisa, nel suo fare di ragazza allegra e scanzonata, non avesse dispensato che qualche bacio ai giovanotti di Querciaio, così l’ipotesi che Ruggero, maturo cenciaiolo con una moglie lamentosa e malinconica, si fosse fatto pigliare dalle frenesie amorose per rifarsi un po’ la bocca, finì per essere quella più credibile.

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La notizia era arrivata in paese assieme alla Toschina, come un fuoco d’artificio. E se un dignitoso riserbo, per rispetto a quella creaturina che aveva perso la mamma, teneva qualche lingua a freno, il desiderio di sapere i parti-colari e la verità su una cosa così piccante faceva ribollire gli animi e alimentava saporiti pettegolezzi.

Alla Celide, moglie tradita e oggetto di qualche furtivo sorrisino fra i più maligni, la cosa provocò un tale rimescola-mento che per poco non le si scansò il latte. Ruggero invece, dopo un primo disorientamento, si fece persuaso che quella di affigliolarsi la bambina fosse una soluzione accettabile. A onor del vero, con la Marisa ci aveva provato e un paio di volte lei c’era stata; e poi, babbo o non babbo che fosse, da quando la Toschina era entrata in quella casa tutti s’erano rimpannucciati perché aveva portato in dote un buon gruz-zoletto e un piccolo sussidio mensile su cui contare.

Col passare del tempo la Celide s’era rasserenata e aveva imparato a voler bene a quella figliola come se fosse davvero

6 Era un gioco che consisteva nel trarre pronostici dai movimenti di un grillo su una specie di circolo disegnato con parecchi numeri, ognuno di signi-ficato diverso.

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sua, un po’ per il carattere affabile della Tosca, un po’ perché, secondo gli accordi con la signora Odette, niente di quell’accomodamento doveva esser rivelato alla bambina, altrimenti l’incantesimo si sarebbe rotto e avrebbero detto addio al sussidio.

Intanto Ruggero, da cenciaiolo ambulante qual era, aveva allargato il commercio iniziando a comprare e rivendere, oltre ai cenci, anche alcune cose usate che teneva in una baracca vicino a casa, luogo che nel volgere di poco tempo, con qualche ripulitina qua e là, era diventato un vero e proprio magazzino. Insomma, gira e rigira, la Tosca a quella famiglia aveva portato solo fortuna. E scarsamente veniva ripagata con la stessa moneta.

La Celide non era proprio un campione di gentilezze per nessuno dei suoi figli, figurarsi per lei, sebbene, a modo suo, le fosse affezionata e non le facesse mancare il necessario.

Ofelia, timida e introversa, era un po’ gelosa del carattere aperto e gioviale della sorella, alla quale preferiva non dare confidenza. Inoltre, una malattia che l’aveva colpita da piccola le aveva lasciato la gamba sinistra più sottile e leggermente più corta dell’altra, causandole un’andatura incerta, tradita dall’anomala movenza del bacino. Di questo provava vergogna e spesso diventava aspra e scontrosa.

Narciso, buon figliolo ma ombroso come il padre, era solito rivolgersi a tutti con scarsa creanza, che raddoppiava con Tosca perché lei gli teneva testa. Ma in fondo, a modo suo, le voleva bene.

Intanto da qualche anno Odette e Silvio se n’erano andati, come anche i nonni di Chiocchio, e Clara, invecchiando, s’era infermata e ora si trovava in una casa di riposo a Grassina. Del patrimonio della zia Odette era rimasto ben poco perché i soldi erano serviti per dottori e cure, così il mensile era cessato da tempo e l’eredità era stata piuttosto magra.

La Tosca, ormai grandicella, non era voluta andare a

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lavorare in fabbrica Ginori, la nota manifattura di por-cellane di Sesto Fiorentino, come la sorella e il fratello. Le sue aspirazioni sarebbero state ben altre. Molto portata per il disegno, come aveva dichiarato la maestra delle ele-mentari (Tosca aveva frequentato solo la terza perché a Querciaio la quarta e la quinta non c’erano; per quelle si doveva andare a Sesto), avrebbe voluto entrare in un labo-ratorio di sartoria a imparare il mestiere e magari dise-gnare figurini, ma in questo caso bisognava pagare studi appositi e Ruggero non aveva inteso di mantenerla; così era stata presa a servizio dal marchese Malenchini, il quale, avendo una zia di età avanzata e con qualche problema di salute, l’aveva promossa a dama di compagnia. Quel lavoro la avviliva; le pesava doversi adattare al carattere un po’ burbero dell’anziana marchesa. Tornava a casa sempre intristita, di cattivo umore e talvolta, per tirarsi su il morale, riempiva fogli (glieli procurava Paris, il vicino di casa che lavorava in tipografia) con abbozzi di capi di vestiario, sfo-gando il proprio estro, o buttava giù altre amenità che però raramente condivideva con chicchessia, tantomeno con le amiche o i parenti.

Di sicuro Tosca pensava molto ad affrancarsi da quel disagio e cambiare vita, ma non era da lei decidere di sparire in questo modo.

E se l’avessero costretta? Ma chi? E perché?

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“O ch’è vero che a casa della Tosca oggi c’era la strolaga7 di Peretola?”, chiese la Nella posando in terra il secchio di panni appena lavati alla fonte e affacciandosi nella bottega

7 Astrologa, veggente.

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di Stoppa ortolano, dove la notizia era rimbalzata attraverso la cronaca fresca della Velia, la trecciaiola.

Un gruppetto di paesani s’era fermato lì a commentare le ultime notizie che la donna aveva portato.

“Sicuro gli è vero”, rispose pronta la Velia, “gli è andato Ruggero a piglialla co’ i’bbarroccio”. Al centro del crocchio, stava raccontando con gusto la cosa a cui, guarda caso, s’era trovata ad assistere. “M’ero fermata dalla Celide a bagnare la paglia e pe’ ssentire se c’era quarcosa di novo. L’era sola perché l’Ofelia e Narciso sono a lavorare. Mentre si stava ragionando della Tosca e lei la piangeva, gli è entrato in casa Ruggero e dietro a lui quella donna”.

“E come l’è?”, domandò ancora la Nella.“Mah? A me la m’è parsa un po’ passatina anche se la

volea sembra’ggiovane. L’avea un monte di belletto su i’vviso e l’era vestita co’ una sottana di tutti i colori come le zingane,8 una camicetta scollata che gli si vedea le poppe, e’ capelli neri tirati su e strinti in un pocchio ritto su i’ccapo”.

La curiosità della Nella era inarrestabile: “E icché l’ha fatto? Le carte?”.

“Codesto ’un lo so perché son venuta via subito. Oh, intendiamoci, ’un m’hanno mica messo alla porta, ma ’un voleo dare l’impressione di sta’llì a bracare”.

“Essai”, rise Bista, “perché tu ti vergogni, vah!”.“Icché tu vorresti dire? Io, pe’ ttu’ norma e regola, ’un

vo a bracare da nessuno”, rispose piccata la Velia. “Io m’in-formo e poi informo voi. Vu’mmi dovresti ringraziare”.

Un “ohh!”, collettivo stemperò il battibecco e ci fu una pausa.

“Per via di’cché gli hanno chiamato la strolaga? Che vo tu’cche la veda dalle carte!”, disse la Renza del Benni fale-gname, la quale non credeva a certe pratiche.

“Ma codesta la ’un fa solamente le carte, pare che la sia

8 “Zingana” è il termine vernacolare per zingara.

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anche una… come si dice? Sì, insomma… la sente gli spiriti”, spiegò la trecciaiola.

Qualcuno si fece il segno della croce.“E loro come gli hanno fatto a conoscila?”, intervenne di

nuovo Bista. “La gli ha mandati la Genovina degli Zei, che l’ha un

parente a Peretola che gli sta vicino di casa”. “E insomma codesta donna icché l’ha detto?”, chiese la

Cira con la solita vocina timorosa. “Come fo a sapello? ’Un n’ero mica lì. Io faceo la treccia e

girellavo ne’ pressi pe’ vvedere quande l’andava via, e magari sare’ ritornata dalla Celide e mi sare’ fatta raccontare come l’era andata. Ma mentre aspettavo, l’è arrivata l’Ofelia che la tornava da lavorare, e ’un voleo che la mi vedesse; così son venuta via”.

“O peicché l’hanno fatta venire a’ccasa?”, domandò la Manola, la quale credeva nella predizione delle carte e spesso si rivolgeva a qualche chiromante. “Di solito codesta gente l’è restia a sortire”.

La Velia proseguì a informarli: “Pare che l’avesse bisogno di vedere la stanza della Tosca e poi la dovesse parlare con quarcuno. Ho sentito che gli hanno rammentato la Stramba!”.

Nel gruppo ci fu un improvviso silenzio che esplose poi in un coro: “La Stramba?”.

“Sta’ a’vvedere che anche costì l’ha messo lo zampino”, si intromise la Giselda, sempre pronta a criticarla.

“Ovvia”, protestò la Nella, che aveva simpatia per la ragazza, “o falla finita. Po’in fondo, fin’a ora, quande la s’è messa ni’mmezzo, anche a costo di buscalle, l’ha avuto ragione; e poi la porta sempre rispetto a tutti, donche…”.

“Qui l’ha ragione la Nella”, riprese la Velia, “icché la c’entrasse la Stramba con la strolaga ’un lo so, ma l’hanno nominata. Domani mattina di levata vo dalla Celide o dalla Brunirde, la su’ sorella, e quarcosa raccatto”.

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Mentre il gruppo si stava sciogliendo arrivò Cencio, che tornava dalla fattoria dei conti Crémieux. Dopo avere portato le ultime notizie su una squadra di carabinieri che frugava il poggio, e dato un’occhiata al cielo pieno di peco-relle che da giorni ormai regalavano un’afa piovigginosa, recitò uno dei soliti proverbi per cui era famoso: “Giugno, la falce in pugno, ma se piove mattina e sera, se ne va la bianca e la nera”.

Il consueto “ohhh!” di protesta bonaria a quei suoi dettati non si fece aspettare. Fu però chiaro a tutti che se quella estate del 1899 che stava per cominciare non avesse portato con sé caldo e sole, si sarebbe potuto dire addio a una buona vendemmia.

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LA STRAMBA E LA STROLAGA

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Esterrina, ovvero la Stramba dei contadini Bruschi, come la chiamavano i compaesani, stava finendo di rigovernare e intanto mugolava un’aria, stavolta il minuetto in sol mag-giore di Bach.

Due giorni prima i conti Marcel e Françoise Crémieux, proprietari del podere lavorato dai Bruschi, avevano ospitato uno degli ultimi concerti della stagione, ché presto sarebbero partiti per la villeggiatura, ed Esterrina, com’era sua abitudine, lo aveva ascoltato nascosta dietro ai fine-stroni della villa.

Ora, grazie a quella sua dote naturale dell’orecchio musicale assoluto (scoperto per caso da un compaesano liutaio), riusciva a ricordarlo in ogni sfumatura; questo le faceva compagnia e le dava serenità.

Figlia adottiva di Nanni, contadino dei nobili francesi, nulla si sapeva di lei. Era stata portata a balia dai Bruschi che aveva meno di un mese, con un ricco corredino (il nome di Eleonora Maria Caterina, ricamato sul vestitino che indossava, era stato mutato in Esterrina da mamma Annita che l’aveva allattata), e quindicimila lire di dote, ma durante i sedici anni trascorsi, nessuno s’era fatto vivo e nessuno se l’era venuta a riprendere. Dotata, oltre che dell’orecchio assoluto, di una certa vivacità di intelletto, cercava di sod-disfare alcune esigenze del sapere e il desiderio di quella istruzione che, per ovvi motivi, le era mancata. Era rimasta

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in contatto con la maestra delle elementari (anche lei, come Tosca, s’era fermata alla terza classe), la quale volentieri le passava alcuni libri da leggere presi in prestito alla Società per la Biblioteca circolante di Sesto; poi, scoperto che la contessa Crémieux era solita ospitare concerti e spettacoli musicali, aveva stretto amicizia con Antoinette, cameriera personale della contessa, riuscendo a intendersi con lei, nonostante la difficoltà della lingua (la donna parlava solo il francese), e a farsi prendere in simpatia.

In tal modo poteva essere informata con tempestività sui concerti tenuti nella villa e assistervi di nascosto; inoltre, in assenza dei signori, grazie all’amicizia con la cameriera, riusciva a far uso della biblioteca dei conti per consultare libri, cataloghi, dispense e altro.

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Il carattere spigliato e l’innata curiosità avevano contri-buito negli anni ad affinare in Esterrina un certo intuito, tanto che negli ultimi tempi era stata di utile ausilio a polizia e carabinieri nella risoluzione di casi di delitti avvenuti nel paese, con rassegnata buona pace del babbo Nanni e più ancora dello zio Agostino, capoccia della famiglia, i quali avrebbero preferito occuparsi solo dei loro compiti di con-tadini e starsene lontani dalle divise. Ma Esterrina era fatta così, ora sorridente e docile, ora pensierosa e ostinata, talora bizzarra nel modo di relazionarsi con gli altri o ade-guarsi alle circostanze, ma mai incoerente e irriguardosa.

Eh, sì, il nomignolo di Stramba le si addiceva proprio. Inadatta a ogni lavoro dei campi, dell’orto e alla cura

degli animali, a lei venivano assegnati i compiti più sem-plici, come fare commissioni, lavare, stirare, rammendare, pulire e così via; questo, in fondo non le dispiaceva, nono-stante la famiglia fosse numerosa (ben venticinque persone)

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perché, organizzandosi, poteva ritagliare del tempo utile da dedicare alle sue passioni e a quant’altro incontrasse il suo interesse.

L’importante era far sì che il babbo Nanni e gli zii Ago-stino, Pasquale e Alvaro non avessero da ridire sul suo operato e comportarsi nel modo più lineare possibile, per non urtare la suscettibilità di tutti gli altri di casa: mamma, nonne, zie, cugini e cugine. Non era impresa da poco, se si considera che il suo temperamento la spingeva talora ad azzardare oltre il consentito, per una ragazza della sua età e condizione sociale: dalle furtive scappatine alla villa per ascoltare i concerti, allo scovare tracce per le indagini su gravi fatti accaduti, risultate poi utili a polizia e carabinieri. Ma Esterrina si sapeva destreggiare e, dal più al meno, finora era riuscita sempre a cavarsela a pulito in tutte le situazioni.

E ora c’era la scomparsa della Tosca. Sì, la cartomante degli Armieri aveva chiesto di parlare con lei perché la famiglia aveva riferito della buona intesa fra loro due. Inoltre, pare che Esterrina fosse stata l’ultima ad avere incontrato Tosca prima della scomparsa.

Per fortuna, quando la Celide era venuta a chiamarla, in casa c’era solo la zia Beppa, quella più morbida e discreta fra le donne dei Bruschi, così nessuno avrebbe saputo nulla e non ci sarebbero state questioni o rimbrotti. La strana spari-zione della Tosca aveva sorpreso e turbato tutti e il fatto che proprio Esterrina venisse interpellata da un soggetto così particolare come una cartomante avrebbe senz’altro creato sconcerto in famiglia. Lei invece ne fu felicissima: qualsiasi cosa nuova la viveva con entusiasmo perché era un modo per allargare le proprie conoscenze. E anche questa volta…

Tarcisia, la strolaga sensitiva di Peretola, scozzava a lungo un mazzo di carte con figure strane dai colori accesi, le strofinava su un indumento di Tosca, quindi chiedeva a Esterrina di prenderne alcune e deporle sul tavolo in modo che dessero il tergo. Poi, voltandole una per una, a seconda

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del seme, del colore, del numero della carta, delle figure che comparivano (uomo giovane o vecchio, idem per la donna, angelo, re, monte, carro, stelle, luna, sole, pozzo, diavolo e così via) faceva alcune domande e commentava dando spie-gazioni di come sembrava presentarsi la faccenda.

Infine aveva chiesto una catinella piena d’acqua e un’am-pollina d’olio. Quindi, biascicando alcune parole incom-prensibili aveva fatto cadere delle gocce d’olio in quell’acqua e aveva atteso. Le gocce s’erano spante per aggrumarsi poi ai bordi della catinella.

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Così Tarcisia aveva espresso il suo responso: Tosca si trovava in un luogo umido e minacciata da un pericolo. Qualcuno aveva confezionato una fattura di malocchio per allontanarla e ora questi cercava di avvantaggiarsi della sua scomparsa per arrivare ai propri scopi, dei quali non era dato sapere.

A Esterrina, Tarcisia non aveva chiesto nulla, solo di toccare le carte, perché essendo una persona a cui Tosca era particolarmente affezionata, portava su di sé l’energia che questa aveva lasciato e poteva influire su talune rivelazioni del presente, utili poi a impostare dei pronostici.

Esterrina guardava l’espressione di stupore della Celide e quella incredula di Ruggero, il quale sembrava non dare nessun peso alle parole della cartomante; ogni tanto soc-chiudeva gli occhi, increspava le labbra e scuoteva la testa come a voler ribadire l’inutilità di quella pratica che durò più di mezzora.

Lì per lì, nonostante il grigiore dello stato d’animo per l’ignota sorte dell’amica, a Esterrina veniva da ridere: ma davvero la strolaga prestava fede a tutti quegli arzigogoli? Oppure era una messinscena per giustificare il compenso che avrebbe chiesto? Forse c’era un po’ dell’uno e un po’

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dell’altro, pensava la ragazza, ma in fondo quella donna così singolare e appariscente le rimaneva simpatica; nel suo costante annaspare alla ricerca di un filo logico che accon-tentasse i committenti, metteva sul piatto così tanta merce che, a ben riflettere, avrebbe potuto tornare in qualche modo utile anche a certe sue personali riflessioni a pro-posito della scomparsa dell’amica.

E sembrò che quel filo di simpatia, al fine risultasse reciproco perché, prima di prendere congedo, la strolaga afferrò la mano sinistra della ragazza, la voltò sulla palma e dopo una rapida ma attenta occhiata, disse con un sorriso: “Vita lunga, buona salute, ma tanti, tanti nodi da sciogliere, bambina mia. Animo, che gli ardori non ti mancano!”. Esterrina la guardò sorpresa, spaesata e non seppe arti-colare che uno sfiatato “grazie”.

Mentre Tarcisia stava uscendo ci fu un breve battibecco fra marito e moglie che a Esterrina richiamò qualcosa sull’ultimo incontro con Tosca.

“Ch’ha visto che aveo ragione su i’mmalocchio”, disse la Celide con voce piagnucolosa. “Da quande t’ha aperto quella stanzaccia ’un si sta più tranquilli. La porta male; io l’ho sempre detto!”.

“Che discorsi son codesti?”, ribatté Ruggero stizzito. “Icche c’entra i’mmagazzino? Tu’vvoresti dire che c’invi-diano? Ma fammi i’ppiacere. L’è una stanza piena di roba vecchia, ’unn’è mica l’Emporio Duilio di Firenze.9 E poi quella roba l’ho comprata e pagata e se ’un la vendo ci rimetto anche”.

“E allora peicché du’ vorte gli hanno forzato la porta pe’c-cercare d’entrare?”.

“Perché son de’ marrani. Va’tu a’ssapere icche credean di trovare”.

E così dicendo il cenciaiolo si tirò dietro l’uscio e accom-pagnò il gesto con due colorite bestemmie.

9 Il Grande Emporio Duilio era un bazar di Firenze in via Calzaioli.

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UN SEGRETO

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Tornando verso casa, Esterrina rifletteva su quell’in-contro e sulle parole della cartomante: Tosca si trovava in un luogo umido… sotto la minaccia di un pericolo… qualcuno le aveva dato il malocchio e l’aveva allontanata per raggiungere scopi dei quali non era dato sapere…

Quanto poteva esserci di vero? Forse poco o nulla. Tar-cisia non conosceva Tosca e aveva tirato a indovinare; però conosceva il proprio mestiere, sapeva per esperienza che buttando là una sentenza anche campata in aria, sia all’in-terno della famiglia che nel pensiero di un’amica premurosa e affezionata come lei (per questo l’aveva voluta presente) avrebbe fatto nascere delle riflessioni; magari sulle ultime frequentazioni di Tosca, o su qualche atteggiamento incon-sueto, su cambiamenti repentini d’umore e così via. Tutto poteva tornare utile in quella situazione e a modo suo Tar-cisia aveva fatto il lavoro per il quale era stata chiamata e pagata.

Riguardo alla sensibilità della famiglia c’era poco da fare affidamento. Gli Armieri erano persone rozze, poco sensibili e ancora meno avvezze a notare le piccole differenze di com-portamento. Tosca viveva a disagio in quella casa perché da sempre mancava lì dentro il calore, l’armonia che fa di un piccolo nucleo un nido di affetti. La ruvidezza di Ruggero, i modi sbrigativi della Celide, il riserbo di Ofelia, le ombrosità di Narciso facevano sì che ognuno vivesse la giornata senza scambiare i propri pensieri con quelli degli altri.

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Ma riguardo alla Stramba, la strolaga Tarcisia era stata lungimirante e aveva ben seminato. Infatti per Esterrina quelle poche frasi erano state sufficienti a farla lavorare di fantasia e dare il via al germogliare di alcune riflessioni o imbastire qualche strategia. In quale pasticcio si era infilata Tosca, e perché? Tante volte le aveva parlato di voler cercare una soluzione a quel suo lavoro di dama di compagnia, ma senza concreti progetti, neppure con il pretendente più assiduo, Tonino.

Tonino, figlio d’una vedova, era un buon figliolo e bra-vissimo nel suo lavoro di stucchino, ovvero decoratore; eseguiva stucchi per i soffitti delle case dei signori, ma chi lo ingaggiava lo pagava una miseria, così era considerato alla stregua di un imbianchino. Non s’era mai fatto avanti apertamente con Tosca, anche se lei tentava di incorag-giarlo; aveva così poco da offrirle. Tosca sorrideva di tene-rezza quando parlava di lui, si vedeva che era appassionata, ma aspettava mosse più decise e tante volte s’era confidata con Esterrina. Fra loro c’era una particolare intesa per via di una certa natura che le accomunava. L’una, l’orecchio musicale assoluto, che le consentiva di farsi compagnia con le melodie ascoltate dietro i finestroni della villa, durante i concerti ospitati dai conti, l’altra, la passione sviscerata per il disegno, l’uzzolo, come lo chiamavano in casa sua. Entrambe erano consapevoli di non avere sbocchi con-creti, diverse però nel rapportarsi alla realtà. Esterrina, più audace e testarda, metteva in atto ogni espediente per sod-disfare e alimentare quel suo talento naturale, senza preoc-cuparsi molto di dove questo l’avrebbe portata; Tosca, più timorosa e prudente, tendeva a rinunciare.

Una volta, per caso, si erano incontrate vicino alla villa. Di lì stava passando Tonino ed Esterrina propose una pazzia: entrare tutti e tre nella biblioteca della contessa per sbirciare un qualche libro di pittura; per Tosca il disegno

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era una specie di fuoco vivo e per Tonino l’arte era alla base del suo lavoro. Quel giorno la sorte si presentava favorevole. I conti Crémieux erano andati al Teatro Pagliano a vedere l’Otello, e sarebbero tornati solo a notte tarda. Esterrina aveva mano libera con la cameriera Antoinette, per l’ami-cizia che era riuscita a costruire con lei. Consapevole che la cameriera stava sulle sue con gli altri della servitù, soprat-tutto per via della lingua, aveva imbastito un rozzo vocabo-lario al fine di semplificare i dialoghi fra loro, e Antoinette gliene era molto grata.

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Così quella sera Tosca, e Tonino avevano varcato la soglia della biblioteca dei Conti. Esterrina con disinvoltura, ché c’era abituata, gli altri due con un certo riserbo, avendo paura di sporcare il pavimento nel camminarci sopra.

A Tosca vennero quasi le lacrime davanti a tutto quel ben di Dio, e Tonino rimase a bocca aperta per tutto il tempo senza dire una parola: si trovava in grande imbarazzo a sfo-gliare libri e cataloghi di mostre.

Quando lasciarono la biblioteca, Tosca abbracciò Esterrina così forte da farle quasi male e Tonino imbam-bolato, non seppe articolare che un estasiato “grazie”. Esterrina, contenta di averli fatti felici, ringraziò Antoinette promettendole presto una tasse de crème della zia Teresa, che sapeva graditissima alla cameriera; una consuetudine a cui l’aveva abituata per sdebitarsi della gentilezza che questa le riserbava.

Quella, purtroppo, fu la prima e ultima volta che Tosca e Tonino misero piede in biblioteca, ma capitava spesso che all’occasione ne parlassero, entrando nei particolari di qualche libro d’arte sfogliato insieme.

Con Tosca c’era molta confidenza, ma negli ultimi tempi

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Esterrina aveva notato che l’amica era distratta da qualche pensiero e una volta aveva accennato a volergliene parlare, però il tempo per entrambe era sempre così risicato che finivano per riuscire solo a far tesoro di qualche frase buttata là che a Esterrina era servita per conoscere più da vicino il lavoro di Tosca.

Alla marchesa piaceva circondarsi di amici o conoscenti, per lo più giovani. Era lei che aveva scelto Tosca come dama di compagnia, per poter parlare di più argomenti e avere un aiuto nelle necessità quotidiane di poco conto. Di servitù ne aveva anche troppa ma nessuno con cui potesse inten-dersi e ragionare su tutto come con Tosca. Secondo la mar-chesa, avere intorno i giovani era il modo migliore di tenersi aggiornata sulle mode e i costumi del tempo che, con la fine del secolo, andavano cambiando velocemente. Tutto sommato i suoi sessantotto anni li portava bene nonostante qualche inevitabile acciacco. Il cuore che ogni tanto faceva capricci, qualche problema di vista e di udito, i piedi e le caviglie spesso gonfie, che la costringevano a lunghe soste con le gambe rialzate; ma la mente era lucida e la buona cultura le consentiva di tenere testa alle tante conversazioni in varie circostanze con le persone che riceveva.

Questo argomento su chi chiedeva udienza era un punto assai delicato del quale Tosca ogni tanto ragionava con Esterrina. Secondo la ragazza non tutti erano limpidi e qualcuno, stuzzicando la vanità della nobildonna, appro-fittava per informarsi sul valore di taluni oggetti presenti in villa, oppure su proprietà che lei aveva altrove, consi-gliandola magari nelle scelte di qualche restauro da fare per la migliore conservazione. Naturalmente i lavori sarebbero stati seguiti dal soggetto proponente. La marchesa, con-sapevole di queste blandizie, si divertiva e regalava anche talune illusioni per un serio ripensamento su quei suggeri-menti. Tosca era quasi sempre presente e spesso ne avevano ragionato insieme.

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