le beccacce di sperlinga - il portale della caccia · prima conosciute, la gioia e la felicità...

23
LE BECCACCE DI SPERLINGA RICORDI E FANTASIE DI RENATO MUSUMECI 2 0 1 2

Upload: truongdat

Post on 18-Feb-2019

217 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

LE BECCACCE DI

SPERLINGA

RICORDI E FANTASIE DI

RENATO MUSUMECI

2 0 1 2

L’ altro giorno, sul canale “ Caccia e Pesca “ di Sky, è stato presentato da Federico Cusimano

un servizio che mi ha profondamente colpito: si intitolava: “Beccacce di Sperlinga”.

Di colpo si è aperto un angolo della mia memoria, un ricordo, un grande Amico, un luogo fatato, situazioni mai prima conosciute, la gioia e la felicità della gioventù.

E’ una storia ormai antica (circa 1960 ), leggermente velata, forse, dalla sottile caligine del sogno e della fantasia. E’ la storia di una avventura che allora sembrava epica o addirittura intrisa di eroismo, di una gita di caccia in un paese che tanto ho amato, il paese dei miei avi e di mio padre, il paese dove è avvenuto l’ingresso di un ragazzino appassionato nel mondo degli adulti, nel mondo della caccia: la Sicilia!

Come tutte le storie anche questa necessita di un seppur breve preambolo.

La Sicilia: qui ho iniziato l’addestramento seguendo, con la fedeltà e la determinazione di un cane, lo zio notaio. Grande uomo e grande cacciatore zio Aldo, con una passione divorante, felice, non

avendo allora figli, di trascinarsi in giro per tutta la Sicilia il primo nipote maschio della famiglia e di insegnargli almeno i rudimenti di quest’arte antica.

Tanti erano i tipi di caccia: la più affascinante e praticata era quella al coniglio selvatico sui campi di lava alle falde dell’ Etna (sciare) con furetto e cirnechi. Buffo cane questo, diretto discendente nell’aspetto da quelli rappresentati sulle pareti delle tombe egiziane, ma invece razza autoctona appunto delle pendici dell’Etna, che la tradizione e la fantasia dei locali battezzavano con nomi almeno improbabili, come Piddu, Nuzzu, Nedda, oltre ovviamente all’immancabile Diana.

In una scatoletta esagonale di legno fatta a mano da “ U’ Firettaru “, trovava alloggio per il trasporto ai luoghi di caccia l’ausiliare specifico, “ a Firetta “, detto, ma non sò il motivo, sempre al femminile. I due esagoni laterali portavano una reticella costruita con sottili fili di ferro, per lasciar respirare l’animaletto. Il lato superiore si apriva completamente, girando su

cardini di vecchia pelle, e veniva chiuso da un gancio di ferro con strisce sempre di pelle, recuperato forse da un paio di scarpe ormai non più utilizzabili. La cassetta veniva sospesa alla spalla del Firettaru, in genere con una vecchia corda di tapparella.

A Firetta veniva preparata alla caccia mettendole al collo un campanellino ( a Cianciana ) e una specie di museruola di corda per impedirle di azzannare il coniglio nella profondità della tana, di sbranarlo succhiandone il sangue, per poi addormentarsi profondamente (nulla favorisce il sonno più della pancia piena !), riemergendo spesso anche dopo molte ore.

L’azione di caccia era sempre entusiasmante. I cani battevano con costanza e attenzione i brulli campi di lava, dimostravano interesse per la presenza del

coniglio dimenando furiosamente la coda e cedevano a qualche acuto scagno quando v’era la certezza della tana abitata. A questo punto entrava in azione il Firettaro. A Firetta, per solito di un color bruno giallastro, sempre, ma non conosco il motivo, tremolante, perfettamente bardata come già descritto, veniva dissetata con un pezzetto di fico d’india raccolto sul posto e quindi introdotta nella tana indicata dai cirnechi.

Intanto i cacciatori, ben consci della molteplicità di uscite delle tane, si disponevano sui punti elevati (Pizzi ) per una miglior visuale di tiro. E cominciava la lunga attesa, silenziosi, per poter sentire le strida dei conigli, se e quando bloccati dal morso del furetto, e il rumore prodotto dai sassi smossi dall’animale nella sua folle fuga. L’uscita del coniglio poteva avvenire ovunque nella spugna di sassi e cunicoli della sciara, e sempre alla massima velocità. Quando tutto funzionava a dovere, un’unica fucilata ben diretta poneva fine all’azione.

Questo lo scenario che tanto affettuosamente ricordo, dapprima come semplice portatore del “ bummulu “ , recipiente in terracotta dell’acqua fresca, poi, dopo i sedici anni e con l’agognata licenza in tasca ottenuta con il consenso del padre in cambio di ottimi voti a scuola, come cacciatore ufficiale, stringendo fra le braccia il primo fucile, una doppietta cal. 16, cani esterni e canne damascate ( un grande pezzo di antiquariato e ancora “ GRAZIE ZIO !”).

Diversi, ma sempre affettuosi tanti ricordi legati a quel periodo e a quelle avventure:

- il sapore dei pistacchi freschi abbondantemente presenti nelle sciare di Bronte, alle pendici dell’Etna.

- il primo coniglio sparato alla Piana di Catania: stava nascosto tra le pale dei fichi d’India e mi guardava tranquillo e senza paura, fino alla fucilata definitiva. Ricordo ancora quello sguardo….., avevo 13 anni. - la prima volpe incontrata, durante la caccia al coniglio. L’animale levato dai cirnechi, scendeva a precipizio la

collina, correndo velocissimo sul bordo di un muretto a secco. A circa 100 metri di distanza la volpe scese con un salto dal muretto e scomparve alla nostra vista: ricomparve circa 70-80 metri a valle e continuò liberamente la sua corsa verso la salvezza. Ancor oggi son certo sia stata una tattica scientemente voluta ( dalla volpe! ).

- la volta che i cani levarono un Istrice che correndo andò a rifugiarsi in una grotta. Siccome l’animale era considerato non solo commestibile ma addirittura ottimo e le spine vendibili, il cacciatore più snello strisciò nella tana, riuscì a catturare l’animale e a trascinarlo fuori. Era il primo ed è rimasto l’unico che

abbia incontrato.

Altri tipi di caccia e altre situazioni mi tornano in mente, anche con un pizzico di malinconia. Parlando dei cosiddetti uccelli d’acqua, rammento un lago famoso al centro dell’isola, il Lago di Pergusa. Qui si teneva una specie di tela alle folaghe, con tanti barchini, tanta gente e tanta aria di festa. Qui ho sparato a un volo di Anatre che procedevano in fila indiana: ho mirato alla prima e sbagliato l’anticipo, sparando direttamente addosso all’animale….ed è caduta la terza! Un bellissimo maschio di

Canapiglia, il primo che avessi catturato. Ora attorno al Lago di Pergusa è stato costruito addirittura un circuito automobilistico: bellissima opera , ma la mia caccia non c’è più!.

Altri ricordi fantastici, come le battute alle quaglie verso Randazzo. Innumerevoli piccoli campi di frumento, con le stoppie tagliate a mano alte oltre 50 centimetri e piene di erbacce selvatiche. Tutti i campi, di una cinquantina di metri quadrati, erano circondati da muretti a secco di nera pietra lavica.

Fazzoletti di terra che con Federico percorrevamo affiancati, levando le quaglie con i piedi, tanto allora erano numerose. A volte ci accompagnava un cane giallastro di masseria, anzi una cagna: Gemma. Lei

cercava per procurarsi il cibo, fiutava le quaglie tra le stoppie e quando iniziava a roteare la coda, significava che era sulla pista giusta. Appena l’uccello cadeva sulla fucilata, pazze corse tra me, Federico e Gemma: chi primo trovava automaticamente diventava il titolare della preda. Se era Gemma, il suo pasto era servito!

Ancora due ricordi vivissimi prima del racconto delle beccacce di Sperlinga.

Dapprima la caccia ai colombi che nidificavano nelle pareti del canyon di un fiume a Ragusa, nei

pressi del famoso castello di Donna Fugata di Gattopardesca memoria.

Un accompagnatore percorreva la gola e i colombi spaventati uscivano come proiettili dall’orrido, cercando disperatamente la fuga. Grandissime stoccate e meno male che chi accom-pagnava stava in fondo per il recupero! Posti bellissimi e carichi di Storia.

Un solo piccolo neo. La caccia ai colombi si svolgeva a fine luglio – primi agosto, in periodo di caccia ufficialmente chiusa. Problemi? Assolutamente no! Alla caccia partecipava infatti il Maresciallo della locale Stazione dei Carabinieri, appassionato cacciatore e grande amico di zio Aldo. Tantissimi anni sono passati, il Maresciallo e lo zio cacciano nei pascoli del cielo, io e Federico, vecchi e acciaccati, non cacciamo più o quasi: l’episodio può essere narrato, caricandolo del significato più vero anche se sicuramente non edificante. A quei tempi , come ancor oggi accade, l’autorità, i soldi e una quota di arroganza consentivano a pochi “eletti” quanto a tutti gli altri mortali era proibito. Penso però, anzi ne sono certo, che questo non avvenisse solo in Sicilia !

Ancora un ultimo ricordo prima delle beccacce . Sicuramente uno dei selvatici più affascinanti che si potesse trovare in questa isola benedetta era, allora come ora, la Coturnice.

Strepitosi addirittura gli ambienti nei quali viveva questo mitico uccello, duris-sima la scarpinata su e giù per le colline brulle, sotto il sole cocente.

Anche in questo caso, come per tutti i casi della vita, c’è stata la prima volta. Eravamo in provincia di Enna a sgambettare su e giù per le colline riarse da un sole già all’alba di intensissima potenza. La compagnia era sempre la solita, ma stavolta lo zio era dotato di un vero cane da caccia, capace di ferma e di riporto. Tutto un altro mondo! La cagna, una vivacissima Breton bianco-nera, si chiamava Bula ( sempre a proposito dei nomi bizzarri! ) e favorita dall’allena-mento e dall’abitudine, correva a perdifiato battendo un amplissimo terreno.

Anche da ragazzo ero grande e grosso: il sole e la fatica, ma soprattutto la sete sembravano sul punto di giocarmi un brutto scherzo. Bula correva e correva, come si fosse trovata su un fresco praticello all’inglese, perfettamente in

pianura.

Di colpo cambia direzione con il naso al vento, ancora pochi passi lenti e si blocca in ferma verso un grosso ciuffo di spini. Tutti eravamo pronti, ansiosi, curiosi di ca-pire cosa avesse bloccato. Ancora qualche attimo e dal piede di uno dei lati del cespuglio scattò la lepre. Una rapida stoc-cata di zio Aldo e un grido : “ U lepru, u mazzai!”. Ero ancora con il fucile pronto quando, dal lato opposto del cespugliato, ecco volare un grosso uccello: ancora prima di capir bene di cosa si potesse trattare, la fucilata era già partita con suc-

cesso e Bula correva per il recupero.

Non credevo ai miei occhi quando zio Aldo mi disse che si trattava di una coturnice. Un uccello con piumaggio stupendo, non rovinato dalla fucilata. Grigi e giallastri sfumati, le linee nere, il becco e le zampe rossi.

La mitica coturnice, la Alectoris Greca Whitakeri tanto cara e signi-

ficativa della gioventù anche per Romano Pesenti, che ancora ne parla e ne scrive!.

Ora però voglio dar inizio al racconto dell’avventura di caccia alle Beccacce di Sperlinga, come mi è stata fatta ricordare dalla trasmissione televisiva. Una premessa: ne io ne Federico avevamo alcuna esperienza di questo tipo di caccia, se non dalle letture della Bibbia del Cacciatore, la rivista Diana, che tra l’altro aveva un prezzo che allora potevamo permetterci.

Tutto nacque da una telefonata di zio Aldo che ci raccontava di essersi associato in una Riserva estesa per ben sette montagne. Questa Riserva conteneva non solo gli immancabili conigli, ma anche coturnici e in stagione, beccacce! Questa opportunità cominciò a batterci nei cuori e nelle teste, finchè non fummo più in grado di resistere: la tentazione era troppo grande. Terminata la sessione degli esami universitari, peraltro con ottimi risultati, cominciammo ad invocare premi e ricompense. Il fratello maggiore di Federico, già medico, ci consentì di usare una sua macchina, un Maggiolino verdastro con il lunotto posteriore diviso in due minuscoli vetrini: macchina già fin da allora forse discutibile, ma per noi un sogno verso la libertà e l’avventura. E per di più una macchina tanto sobria (stanti i tantissimi chilometri da coprire ) e praticamente indistruttibile, vista la quantità di stradine di campagna (trazzere ) che avremmo percorse. Macchina spartana, ma solida e adeguatamente rustica, per poter sopportare al meglio tutto quanto ci accingevamo a fare.

Oltre agli innumerevoli bagagli, ai fucili, alle cartucce e a tutti i generi di conforto, facevano parte della spedizione ovviamente anche i cani.

Federico era il felice proprietario di una bella bracca tedesca di piccola taglia, con la testa totalmente marrone e il corpo roano, che anche lui, con uno slancio di fantasia, aveva chiamata Diana. Da parte mia invece portavo un bel pointer bianco-nero, con una macchia perfettamente tonda, nera, sul fianco destro. Il cane mi era stato regalato ancora cucciolino dalla mia allora fidanzata ( ora moglie ). Non sono assolutamente in grado di raccontare il putiferio che nacque in casa per l’arrivo di questa bestiola, ovviamente per nulla abituata a vivere in appartamento. Poi, siccome il tempo è galantuomo, il cane riuscì a conquistare il cuore di tutti, fino a diventare lui il vero padrone di casa!

Naturalmente ci fu il problema di dare un nome al cucciolo. Avevo appena letto un libro il cui protagonista si chiamava Digby P. Ross , che mi sembra i ricordare fosse un ingegnere inglese. Quel nome continuava a frullarmi nella testa, mi aveva colpito: il cucciolo fu battezzato Digby. Saranno stati i tempi e la scarsa conoscenza che la gente dimostrava della lingua inglese, ma nessuno capiva il nome e in compenso lo storpiavano tutti. Lo por-tai per l’addestramento a Pieve Porto Morone dai famosi addestratori Bottani: qui venne ribattezzato, forse alla lombarda, Bibi e tale rimase quasi per tutti.

Lunghissimo fu il viaggio, ma senza in-convenienti di rilievo e finalmente arrivammo a casa, a Catania.

La gita a Sperlinga, località che nessuno conosceva a sufficienza, sarebbe durata per cinque giorni pieni. All’organizzazione sovraintendeva un certo Liberti, una specie di factotum di zio Aldo.

Partimmo un primo pomeriggio con una temperatura pazzesca e dopo un paio d’ore di viaggio giungemmo alla meta: Sperlinga. Un paesotto di poche case, con un castello in cima alla collina. Ma la vera meta era ancora tanto lontana….. Il Liberti si affannava a parlare, ma stante il fatto che la sua lingua ufficiale era il più stretto dialetto siculo, io e Federico eravamo praticamente estromessi. Solo al momento di partire ci rendemmo conto che dovevamo lasciare la macchina posteggiata vicino alla Stazione dei Carabinieri ( per sicurezza! ) e che il viaggio si sarebbe svolto a piedi, su e giù per le trazzere di montagna fino a raggiungere una vecchia casa di contadini abbandonata che avrebbe costituito il nostro campo base, dove mangiare e dormire.

E a questo punto “ le coup de theatre!”. Il Liberti entrò nella piazza tenendo per la cavezza un mulo enorme e rivolgendosi a zio Aldo gridò: “ C’acchianasse

Nutaro, ca chistu vi porta bbonu!”. Riusciti a far montare sul mulo lo zio con una specie di rustica scaletta, la carovana si incamminò in fila indiana sotto il sole e dopo circa tre ore di marcia, che ancora ricordo faticosissima, giungemmo trafelati alla meta. Qui Liberti accese un grande fuoco nel camino e attinse l’acqua dalla cisterna. La nostra avventura era ufficialmente cominciata.

Prima di dormire il factotum ci fornì alcune istruzioni riguardanti l’enorme riserva e le diverse zone di caccia: praticamente c’era una intera montagna a disposizione per ciascun cacciatore.

Io e Federico ci affidammo completamente alle conoscenze del Liberti e ai consigli degli accompagnatori locali, con zio Aldo che si adoperava come traduttore simultaneo del dialetto. Scegliemmo, ricordo, la terza montagna dove tutti giuravano e spergiuravano avremmo trovato le beccacce, che erano arrivate ed erano numerose ( assai di jaddazzi, anzi assaiune!). Il gruppo che si mise in marcia alle primissime luci dell’alba era composto da me, Federico, Diana, Digby e un ragazzotto locale che per quanto posso ricordare avrebbe potuto essere anche muto, dato che si esprimeva a grugniti, e come carburante della giornata usava solamente le mie sigarette (allora fumavo!): un goccio d’acqua da u bummulu

che lui stesso portava e un pezzo di pane con poco più di una crosta di caciocavallo e tanto gli bastava.

La salita, ad eccezione che per quel rupicapra del giovane accompagnatore, era veramente durissima, con pareti di lisce rocce a strapiombo: anche i cani apparivano stanchi e svogliati, con le lingue a penzoloni. Per tutta la salita non diedero alcun segno di incontro. Sapevamo che sulla cima si apriva un enorme pianoro, con rocce, alberi e acqua: li eravamo diretti e proprio li contavamo di incontrare finalmente qualche selvatico.

L’ultimo tratto era una vera e propria scalata, per cui dovemmo mettere il fucile in spalla e usare anche le mani alla ricerca di appigli. I cani, rinvigoriti da qualche traccia odorosa, ci avevano superato di slancio, entrando nel pianoro. Quando con Fede anche noi riuscimmo ad affacciarci al pianoro, i cani erano fermi, ai limiti della visibilità, e meno male che Digby era bianco!

Non più di venti passi affannati e partì fragorosamente un volo di oltre dieci coturnici, alle quali potemmo solamente presentare le armi.

Ero talmente stravolto dalla fatica che quasi mi misi a piangere. Nessuna possibilità di ribattere gli uccelli. Trovammo quindi accettabile il grugnito dell’accompagnatore : “ amuninni carusi” ( andiamo ragazzi) e trascinando i piedi ci rimettemmo in marcia. Per nostra fortuna la parte molto ripida era finita e il falsopiano concedeva un po’ di tregua. Vicino a una microscopica polla d’acqua, ove il terreno era più morbido, finalmente trovammo le fatte della beccaccia: sembrava di sognare. Allora era vero che c’erano i jaddazzi e che con un po’ di fortuna anche noi avremmo potuto non solo vederle ma anche sparare e, forse, prenderle.

Cominciammo a percorrere un rado boschetto, con un tappeto scricchiolante di foglie secche. Verso il margine un grande cespuglio spinoso e qui i cani scattarono in ferma. Il cuore batteva a mille e quando la prima beccaccia della nostra vita si levò a colonna, quattro inutili fucilate la accompagnarono nel suo volo tra le cime degli alberi. Il cielo ci crollò addosso.

Per nostra fortuna “ l’indigeno “ aveva occhi buoni e conosceva il mestiere: seguì perfettamente la beccaccia che, planando quasi come un falchetto, scese la costa della collina e si andò a mettere in un pianoro coperto di canne circa cinquecento metri

più in basso. Un sorso d’acqua, accendiamo una sigaretta e via nella discesa tanto impervia per gli intrichi di spine e il terreno franoso. Oltre un’ora di fatiche e finalmente riuscimmo ad arrivare all’inizio del pianoro.

Io sono alto e anche Federico, ma quelle canne che forse per merito di una polla d’acqua erano cresciute fittissime, erano cresciute anche in altezza e superavano abbondantemente la nostra. Fermammo i cani e decidemmo che loro e l’accompagnatore sarebbero entrati nel folto, mentre noi cacciatori ci saremmo mantenuti ai margini, cercando qualche piccolo rilievo sul quale puntare i piedi, per godere di una posizione leggermente più elevata.

Affrontammo così quella vera e propria selva di canne: i cani erano da poco entrati quando udii chiaramente un frullo e mi sembrò di intravedere un’ombra che sfiorava i pennacchi apicali. Tirai una botta velocissima e sentii il grido di Federico: “ Bravo Renato!”. Un’onda di caldo mi

salì alla testa e pensai : “Forse c’è!”.

I cani erano spariti nell’intrico, l’accompagnatore da in mezzo non poteva aver visto nulla. Tutte le speranze erano riposte nei cani, anche se Digby non era, e non è mai diventato, un campione del riporto. Gira, spingi, sgrovigliati dalle canne, dai rovi e dalle spine e finalmente arrivammo verso la fine del pianoro, dove trovammo Digby seduto con aria festante e la beccaccia morta ai suoi piedi. Finalmente si avverava un sogno tanto accarezzato, per realizzare il quale ci eravamo spinti a 1500 chilometri da casa. La beccaccia fu guardata, soppesata, accarezzata, quasi sottoposta a esame medico legale ( eravamo già a un discreto punto degli studi di Medicina! ): cercammo la penna del pittore e tutti i particolari che avevamo visto sui libri. La corrispondenza era perfetta, si trattava veramente di una beccaccia, la mia prima, la nostra prima!

Di colpo erano tornati la forza e l’entusiasmo, ma i nostri problemi non erano affatto finiti. Per la caccia classica alla beccaccia con il cane da ferma mancavano i campanelli per il collare dei cani. Peccato fossero rimasti nella macchina posteggiata sotto un sole a picco, per sicurezza, accanto alla Stazione di Carabinieri di Sperlinga.

Sentimmo un piccolo concerto di campanelli e arrivò un ragazzotto con un gregge di una ventina di caprette: i due maschi avevano al collo un campanellino con un suono squillante e argentino. Con il fondamentale aiuto

del nostro accompagnatore incominciò

una serrata trattativa con il pastore che alla fine cedette e acconsentì a venderci, per un prezzo esorbitante, una delle sue campanelle, regalandoci un pezzo di formaggio di sua produzione. Dopo una rapida consultazione con Federico si decise di mettere il campanello a Diana, che per il suo mantello scuro si confondeva nel bosco, sfruttando per contro il manto quasi bianco e ben visibile anche a distanza di Digby.

Da quel momento e fino al tramonto, marciammo infrenabili su tutta la vetta della montagna, sfondando muraglioni di piante e cespugli spinosi, avanti, sempre avanti compiendo un ampio cerchio per rimetterci nella direzione del cascinale campo base. I cani erano bravissimi, avidi nella cerca, precisi e dettagliati, instancabili. Faceva tenerezza vedere la bianca, sottile coda di Digby colorarsi di rosso per il sangue che usciva dalle ferite degli spini, ma anche per lui la passione divorante superava il disagio.

Non trovammo altro tipo di selvaggina, ma le beccacce erano numerose e noi, senza esperienza specifica, senza ribatterle, ma semplicemente andando avanti nella direzione che ci indicava l’accompagnatore, ne incontrammo veramente moltissime, riuscimmo a spararne tante, con numerose catture.

Finalmente, cammina e cammina, comparve non un lumicino come nelle fiabe ma la solida vecchia cascina del nostro campo base. Eravamo rimasti in pista dalle cinque del mattino fino a oltre le sei di sera, coprendo chilometri spesso in ardua salita, sempre faticosi e disagiati, ma almeno per noi la prima giornata di caccia

a Sperlinga si era rivelata un trionfo. Non ci potevano interessare i conigli o le due coturnici degli altri: il nostro carniere di 12 beccacce, anche se estratto da oltre cinquanta incontri con media di catture quasi risibile, appariva ai nostri occhi un monumento alla caccia più bella del mondo!. ERAVAMO STATI BRAVI!.

La cena fu festosa, piena di scherzi, doppi sensi siculi specialmente alle nostre spalle, risate e buonumore. Poi un sonno di piombo fino all’alba.

Al mattino ci alzammo ansiosi di riprendere l’avventura sulle montagne di Sperlinga che ci avevano stregato. Una colazione tipo vent’anni e fame atavica, pane fresco portato dal paese da uno dei locali e una grigliata della mitica salsiccia sicula, buonissima, divisa in salamini di 10 centimetri ( caddozza ), insaporita, ma non sempre, con il profumo del finocchietto selvatico. Un tripudio!

Ancora partenza festosa, con i cani che correvano qua e la, sfruttando la frescura del mattino. E via, gambe in spalla, frementi per l’attesa di nuovi incontri, accompagnati dallo stesso Liberti. Come già indicato, avevamo mantenuto, forse per ignoranza dell’arte di quella caccia o forse per un senso di riconoscenza,

la scelta della stessa montagna, che affrontammo però dal lato opposto. La scarpinata si rivelò addirittura epocale e davanti il Liberti parlava e parlava, senza che fossimo in grado di capire se non dai gesti, meno dalle parole. Nello scenario di boschi e boschetti, fugacemente si intravedeva la sagoma bianca veloce di Digby e si sentiva suonare il campanellino di Diana.

Dopo ore di fatica, di fiatone e di sete, finalmente vedemmo una guidata e una ferma dei due cani. Ero vicinissimo e mi tenni pronto: partì da un cespuglietto un uccello di piumaggio scuro, con grandi ali falcate. Eccola mi dissi e sparai la mia fucilata. L’uccello cadde nello sporco e i cani non riportavano: entrai allora

nel cespugliato spinoso e graffiandomi braccia e mani trovai un uccello, lo raccolsi e cominciai a esaminarlo. Ovviamente non era una beccaccia: molto più piccolo, con un becco cortissimo e una bocca enorme, lo riconobbi sulla base dei tanti libri di ornitologia che avevo appassionatamente studiato. Era un esemplare di “Succiacapre”, altro che beccaccia. Ma la ferma dei cani, il colore, il volo, le ali mi avevano ingannato, facendomi abbattere un uccello che non rappresentava una cattura della quale andare fiero.

Ancora oggi non mi spiego la ragione dell’abbondanza di beccacce il primo giorno e la quasi totale assenza il giorno successivo, ma questa è la caccia.

Una giornata di dodici ore condotta scarpinando su e giù per vallette e monticelli, dentro a boschi a volte impenetrabili, pieni di rovi e di arbusti spinosi durissimi: in bottino serale fu di tre capi su una decina di trovati.

La sera il sonno partì molto prima, credo che alle nove dormissimo tutti, cani compresi dopo esserci detti, come la famosa canzone :” Domani è un altro giorno, si vedrà….”

Dal giorno successivo, come per magia le beccacce tornarono ad abitare la terza montagna e questo per i due giorni ancora dedicati alla caccia. Alla fine della cacciata, la prima a un selvatico allora come oggi affascinante, misterioso, fatato addirittura, il bilancio mio e di Federico si concludeva in modo addirittura trionfale: una fatica e una sofferenza che non avevo mai provate ma in cambio un grande numero di incontri, i cani bravissimi e tenaci, la compagnia non solo di zio Aldo, ma di tutti gli altri, fantastica. Solo un ultimo accenno alla bellezza di quei posti, alla magia di Sperlinga. O, forse era la magia dei vent’anni che sono passati, in modo splendido ma inesorabile. Il tempo passa ma i ricordi e le fantasie

restano per sempre.

Anche senza conoscerlo sono grato a Cusimano che ha risvegliato in me il piacere e la gioia di ricordare. Ancora grazie!