l’antifascismo nella storia italiana del novecento · storia. né le idee né l’immaginario, mi...
TRANSCRIPT
L’antifascismo nella storia italiana del Novecentodi Guido Quazza
Alcune osservazioni metodologiche e concettuali
Anni fa, nel momento più duro della polemica storiografica sul fascismo, mi accadde di definirlo 1’ “esame di coscienza” degli italiani. Esame di coscienza in quanto la vittoria del fascismo e il suo lungo dominio politico, economico, sociale e, entro certi limiti, culturale del paese costrinse gli italiani, proprio per il suo carattere complessivo di coscienza autoritaria, a porsi, sia negli atteggiamenti esterni, sia nei convincimenti interni, il problema della propria identità non solo come popolo ma anche come singoli. Minoranza durante la dittatura di Mussolini, gli antifascisti furono il ‘movimento’ che, col pensiero e con l’azione, più contribuì a formare la coscienza alternativa, la coscienza democratica degli italiani attraverso una costante opera di contrapposizione al ‘potere’ ispirandosi ai ‘valori’ di libertà e di giustizia dentro il quadro d’una lotta che ben presto divenne prima europea e poi mondiale. Una lotta che toccò altissimi momenti di interezza umana, coniugando intelligenza e cuore, lucida visione del vivere civile e forte coraggio di scelta del sacrificio personale e di gruppo, come nel 1919-1926, nel 1943-
1945 e poi, in circostanze meno sanguinose, nel 1960-1976.
Si può affermare con sicurezza che la crescita etico-civile dell’Italia trova il suo nerbo, sotterraneo o aperto a seconda della latitudine o totalità del potere fascista, nell’antifascismo. Anche se i suoi frutti tangibili, quelli economici, sociali e istituzionali — questa nostra repubblica — sono ben lontani dalle speranze dei militanti della prima fase, della seconda e della terza. Il filone costante è nel campo economico la difesa dell’eguaglianza come principio costante da estendere nella realtà di tutti giorni, nel campo sociale l’elevazione del grado di autocoscienza del cittadino come parte di un tutto, nel campo istituzionale lo sforzo di allargare la partecipazione del singolo al governo di sé e degli altri. Il tutto mediante la cultura — non solo come costruzione di nuovi e più attenti e meditati saperi — e a un tempo verso la cultura come controllo di sé nel presente e per l’avvenire: una lunga marcia, di almeno settant’anni, per conquistare un nuovo migliore rapporto tra società e stato rispetto ai tempi della nascita del secondo e alla condizione della prima fin dall’età delle rivoluzioni del Settecento.
La dimensione cronologica occupa, a me
Pubblichiamo la relazione di Guido Quazza al convegno “Attualità dell’antifascismo. Le ragioni di una scelta lontana”, Cuneo, 7-8-9 dicembre 1989, ringraziando l’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia per aver consentito l’anticipazione del testo.
Italia contemporanea”, marzo 1990, n. 178
6 Guido Quazza
pare, un periodo più lungo di quello solitamente considerato: l’intero secolo che va ormai verso il tramonto. Un periodo nel quale, contrariamente a quanto si dice dai nostalgici del fascismo e dagli amanti del quieto vivere, l’antifascismo è il fulcro, in Italia almeno ma non solo, dell’intera attività pubblica degli uomini e delle donne. Coscienza attiva d’ogni avanzamento, come dicevo, luogo di costruzione d’una Italia diversa, ‘anima’ vorrei dire di una qualità umana migliore non limitata ai gruppi dirigenti ma fatta propria potenzialmente da tutto il popolo, dalla ‘gente’ come oggi si ama dire. Il decennio trascorso ha visto, al contrario, nella gente il trionfo del privato. Ecco, dunque, il problema se l’antifascismo sia vivo o sia morto. Di qui la mia relazione deve partire per rispondere, risalendo alla lunga storia e alla lunga durata dell’antifascismo.
Comincio con un’affermazione che è l’assunto del mio discorso: checché ne dicano non soltanto i fascisti — ciò è ovvio — ma anche gli opportunisti, i consumisti, molti moderati e addirittura qualche sfiduciato fra coloro che in passato seguivano la bandiera del grande movimento contro il fascismo, l’antifascismo, resta, a mio parere, con forme in parte diverse ma con un nocciolo centrale intatto, l’alternativa del secolo quanto alle forme via via assunte dal rapporto fra società e stato, specialmente in Italia ma anche nell’Europa, dalla cui storia quella italiana non è nettamente separabile. E nel mondo, dalla cui storia non è — lo ripeto sebbene debba essere fin troppo chiaro — non è separabile quella dell’Europa. Per questa ragione mi pare necessario prender le mosse, per cogliere le origini della contrapposizione tra antifascismo e fascismo, dal momento nel quale il rapporto fra Europa e mondo cambia, dal tempo nel quale entra in crisi l’egemonia plurisecolare del vecchio continente.
Secolo, si disse tante volte e diventò un
luogo comune, delle nazionalità, l’Ottocento; secolo delle guerre e delle aggregazioni non solo internazionali ma mondiali contemporaneamente legate all’insorgere delle autonomie, il Novecento. Secolo, ancora, della fede nel progresso come motore e risultato della volontà di successo economico e di primato politico della borghesia industriale, l’Ottocento. Secolo dell’inquietudine morale e della sfiducia psicologica di massa, come esiti dello scontro continuo fra nazioni e imperi e come graduale costante spostamento dalla dimensione politica alla dimensione privata dentro un quadro di ricerca spesso ossessiva dell’autonomia del singolo e delle etnie, il Novecento. Due definizioni troppo vaste e generiche per servire a vagliare eventi di lunga durata, è certo. E tuttavia non completamente inutili a fissare limiti di massa entro i quali muoversi su un tema così ampio e arduo come quello affidatomi per aprire il convegno. Un tema che, per quanto lo si voglia circoscrivere all’Italia, ha in realtà un orizzonte planetario e una natura per un verso tipica del ‘grande’, del ‘macro’, per l’altro del ‘piccolo’, del ‘micro’. Nel vasto e nel generico le due definizioni servono qui unicamente a stabilire il tempo di cerniera fra due età nel quale nasce, prima ancora di esplodere, quello che chiamerei senza esitazioni il conflitto del secolo. Se si guarda alle date, non c’è dubbio che si deve parlare di premesse, poiché il fascismo italiano sorge il 23 marzo 1919 e l’antifascismo subito dopo, cominciando a esplicitarsi nel corso del 1919-1920. Una ventina d’anni, dunque, dai primi germi, che spuntano tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.
Prima di dare inizio a questa sommaria corsa sull’antifascismo nella storia italiana del Novecento si impone qualche cenno ai criteri metodologici e concettuali della ricerca dei momenti fattuali principali, poiché la ricerca è generale e non analitica, è selezione obbligata entro una massa enorme di elementi. Dati costitutivi, loro evoluzione e svi
L’antifascismo nella storia italiana del Novecento 7
luppo, fasi temporali sono i contenuti di base, per così dire, e da essi non si può completamente prescindere, ma in questa sede essi devono essere assunti in una misura elementare per non perdere quel tutto puramente propedeutico che il programma del convegno inevitabilmente prescrive. Il metodo di scelta sarà di non chiudere il discorso — come è tradizionale — entro un’analisi delle idee generali di antifascismo e fascismo via via coniate dall’alta cultura e neppure soltanto entro lo studio delle idee ‘ricevute’ dalla cultura popolare rifusa e al contempo vivificata dall’immaginario collettivo quale si è formato nei secoli, per non dire, quanto ai suoi termini e fondamenti religiosi, nei millenni. Le autorappresentazioni dovranno essere considerate nel dare e avere delle ete- rorappresentazioni e, nella ineludibile rapidità di una relazione congressuale, usate come materiale spesso sottinteso di una storia dei due protagonisti dello scontro nella quale essi si compenetrano tanto più quando i protagonisti nelle loro individuali incarnazioni si allontanano, pur in un quadro di massa, dalla consapevolezza razionale degli esponenti e capi. Le ‘idee’ non possono essere dimenticate, ma, insomma, devono essere riflesse o addirittura immerse quasi omeopaticamente nelle specifiche rappresentazioni di queirimmaginario che, solo, le converte in ‘forze’ nel concreto svolgersi della vita- storia. Né le idee né l’immaginario, mi pare, sono tuttavia sufficienti a capire che cosa è stato ed è l’antifascismo e quali siano — come suona il sottotitolo del convegno — le ragioni di una scelta lontana. Ogni scelta — è troppo chiaro — nasce da un atto di volontà, e un atto di volontà è anche ‘carattere’, spesso ‘passione’. E mai come quando la scelta comporta una lotta e la lotta un ‘pagar di persona’. Il nesso fra teoria e prassi è sempre così stretto, nella storia dell’antifascismo, da giungere a un ‘comportamento’ che pone l’azione al primo posto rispetto al pensiero. L’antifascismo sia nei singoli
militanti sia nel suo insieme, è un movimento, non un partito, ed è anche questa un’altra ragione per la quale preferirei parlare non di pensiero e azione ma di pensiero-azione. I diversi, e molti, antifascismi rendono forse impossibile, certo poco utile, una definizione unitaria e perciò compiuta e organica: in questo, ancor più dei fascismi, i quali sono diventati, da movimenti inizialmente, partiti, e hanno preso possesso dello stato derivando una teoria ufficiale dall’occupazione dei meccanismi del potere quale prima esisteva. Tratti simili, come di recente ha ribadito Enzo Collotti, consentono di individuare una teoria del fascismo pur nell’esigenza di non trascurare come importanti per l’indagine storiografica i caratteri specifici di ogni fascismo nazionale. Per l’antifascismo italiano neppure la vittoria del 1945 e l’occasione di dare una nuova costituzione al paese hanno consentito di raggiungere nei fatti, e tanto meno nella teoria, una definizione coerente complessiva. È giocoforza parlare, dunque, di comportamenti individuali e di comportamenti di gruppo, se si vuole tentare un esame storiografico e non un’analisi di dottrine: lo impone il metodo della disciplina. Ecco perché io preferirei parlare, come premessa del discorso, di antifascisti più che di antifascismo, più di soggetti concreti che di idee astratte, pur senza negare che si tratta di soggetti che condividono molte posizioni comuni di ‘pensiero’. Soggetti, perché la loro ‘azione’ è frutto diretto, concreto quant’altri mai ci direbbe Salvemini, delle scelte e delle opere di ‘persone’. Di qui l’esigenza di dar peso alle idee e rappresentazioni della vita che gli antifascisti-persone hanno sia come genesi del loro essere sia come sviluppo esistenziale, cercando — se e quando possibile — le influenze di gruppo, di classe, di nazione e i condizionamenti dell’economia, delle istituzioni, dei valori civili generali. Non solo — e questo ritengo l’elemento distintivo più specifico per la storia di un movimento — ma in
8 Guido Quazza
fluenze e condizionamenti che gli antifascisti-persone fondono nel crogiuolo della loro singolarità facendone comportamenti da praticare in ogni ora e giorno e anno della propria vita. La sintesi operante, globale, di questi elementi, delle convinzioni e dei sentimenti fa degli antifascisti dei ‘praticanti’ di un modo d’essere uomini o donne verso se stessi, i familiari, gli amici, il collettivo in cui vivono che li distingue quasi a vista — se mi è consentito dire — e perciò insisto nel- l’affermare che il metodo da adottare in una ricerca meno veloce di questa si deve adeguare alla linea che ho telegraficamente proposto. Se dal metodo si passa alle fonti e al loro uso, è fin troppo chiaro che esse debbono attingere non solo ai documenti del pensiero filosofico, politico, sociale, economico, ma anche ai materiali riguardanti l’io e l’io profondo, cioè al percorso della psicologia, così come ai documenti della biologia, dico sintetizzando, cioè il percorso del corpo. Non continuo su questo terreno, ma concludo dicendo che lo studio dell’antifascismo se viene colto negli antifascisti si pone come una sfida squisitamente inter e transdisciplinare, la quale chiede nel suo stesso cammino lo sforzo di cogliere le arti- colazioni con la simbiosi e la simbiosi con le analisi differenziate: globalità e specificità.
Premesse europee dell’alternativa italiana
La crisi dell’Europa — dicevo — fra Ottocento e Novecento. Inutile tentare un’analisi precisa. Basterà riferirsi al ‘pericolo giallo’, in prima approssimazione, come tipico caso di ‘rappresentazione’ della paura degli europei di perdere la supremazia mondiale quali esponenti della supremazia bianca. Una paura che nasce da fatti ben noti: la sconfitta di Port Arthur subita nel 1905 dai russi a opera dei giapponesi; il suo congiungersi con l’avviso d’una possibile superiorità marittima dell’impero del Sol levante e con la
improvvisa comparsa, alla luce della mediazione degli Usa a Portsmouth nel medesimo anno, di un imperialismo bianco sì, ma non europeo, ormai capace, col presidente Theodor Roosevelt, di una politica big stick armata di navi da guerra (Cuba, Hawai, Samoa, porta aperta in Cina) e nutrita di una flotta commerciale già in grado di concorrere con quelle europee. Il 1905 è anche l’anno dell’inizio della crisi interna zarista con la prima rivoluzione russa. Altrettanto, a fianco della paura, è la coscienza culturale dell’avvio a un cambiamento radicale. Il 1905 è pure l’anno dei quanta di Max Planck, cioè del nascere di quel senso della divisibilità del reale che prestissimo porterà alla teoria della relatività di Einstein e poi all’affermarsi di una visione dello spazio fisico lontanissima dalla fede nell’inesorabile necessità organica delle ‘leggi naturali’. Così come l’esplodere nell’arte e nella letteratura e poesia della prassi e del gusto di disintegrare i valori ‘visibili’ su una strada che le varie filosofie del tempo codificheranno in quella sorta di ‘pensiero debole’ che si diffonde rapidamente con l’attacco frontale dell’idealismo al positivismo e, più in generale, con il diffondersi delle teorie dell’azione di Blondel e dell’intuizionismo di Bergson. Mentre verismo e realismo cedono al simbolismo di un Verlaine e di un Mallarmé, al sensualismo di un D’Annunzio, allo psicologismo di Proust, al futurismo di Marinetti, il reale figurato lascia presto il passo al cubismo e al fauvismo. Addirittura la religione cattolica piega la sua compatta sicurezza e il suo dogmatismo gerarchico al modernismo e Nietzsche dà una forma imaginifica a una “volontà di potenza” che si proclama “al di là del bene e del male” .
Dalla certezza razionale della fede nel progresso il passaggio al volontarismo e all’irrazionalismo si accompagna alla crisi della politica dell’equilibrio praticata da Bismarck che si traduce nella Weltpolitik del Kaiser Guglielmo II, pronta con prepotenza
L’antifascismo nella storia italiana del Novecento 9
a sfidare il plurisecolare dominio dei mari della Gran Bretagna all’insegna del Navigare necesse est, vivere non est necesse. La “concurrence des ambitions” teorizzata da Montesquieu nel clima del secolo della ragione e sopravvissuta nel secolo delle nazionalità diventa scontro brutale di nazioni che vogliono imporre il proprio impero. La paura del giallo è il segno di massa, nelle idee e nell’immaginario, di un’Europa che lancia la sua superiorità culturale ed economica dentro se stessa col conflitto fra le classi e con la guerra per il potere mondiale e, mentre Benedetto XV si affanna a bollare 1’ “i- nutile strage” , inaugura la lunga “guerra civile” che a tappe diverse sfocerà nella più terribile fra le guerre mascherata da guerra per la civiltà a seguito del dibattito sulla “fine della civiltà” . È proprio il quadro che chiamar spirituale vuol dire accettare l’opinione dei cervelli “liberali” più acuti del ventennio dopo il conflitto, i vari Rolland, Benda, Huizinga, Croce, ma la sensibilità dello storico deve considerare l’espressione delle idee degli intellettuali anche insieme, o più, ai riflessi nell’immaginario di massa, ad esempio attraverso opere apocalittiche come Il tramonto dell’Occidente di Spengler o il Mein Kampf di Hitler. Attraverso espressioni, cioè, d’una cultura diventata preda e strumento della politica della forza, della violenza armata di un imperialismo che si sente, sia pure in forme e gradi diversi, posto in pericolo di vita dall’imperialismo americano e da quello giapponese.
Il “revisionismo” contro la “vittoria mutilata” è per l’Italia solo un capitolo minore del revisionismo contro la spartizione del bottino fra gli alleati vittoriosi: le paci del 1919-1922 sono causa di nuovi conflitti per la cecità di fronte alle passioni e agli interessi delle nazioni e delle etnie, oltre che per la sensazione ch’esse danno di una contraddizione lampante con i princìpi della Società delle nazioni e per la fine ch’esse, col trattato delle Nove potenze, decretano al vecchio
equilibrio marittimo. Poiché, inoltre, dopo il 1917 era sorta la grande speranza di un’Europa fondata sull’equilibrio fra le classi, diventa in quegli anni sempre più difficile distinguere lo scontro fra gli stati dallo scontro fra le classi. Le scelte del rimedio radicale debbono essere radicali. Destra e sinistra, se sono divise al loro interno sul problema del primo fra i due scontri, sono compatte sul secondo.
In Italia i primi segni risalgono al Novan- totto e all’uccisione di Umberto I, e prodromi, sia pure più deboli, già si hanno quando è presidente del Consiglio Crispi. Non riprenderò, affidandomi alla memoria scolastica dei più, i dati dell’ascesa, nel decennio giolittiano, del nazionalismo, del futurismo, delle riviste fiorentine animate da ostilità se non anche da disprezzo verso il neotrasformismo rappresentato da Giolitti e il suo ‘buonsenso’, per altro sfociato nella violenza colonialista. Dirò solo che le manifestazioni di piazza pro o contro l’intervento e le scelte belliche della monarchia aprono già con clamore di massa quell’età che, preparata dall’autoritarismo spietato dello stato nella grande guerra, vedrà all’indomani della pace la nascita milanese dei “fasci di combattimento”. Gli schieramenti per il potere forte, da una parte, e per la ribellione delle masse operaie, dall’altra, sono già in via di costruzione. E così la difficoltà a scegliere da parte degli intellettuali e dei ceti medi.
Il conflitto interimperialista europeo è dunque all’origine immediata, o quasi, del conflitto sociale in Italia. La posta è il potere. In una situazione virtualmente decisiva per la vittoria di classe l’impotenza del vecchio ceto dirigente liberale e la ancora scarsa politicità del neonato partito popolare apre la porta a una destra più capace, nel suo impeto volontaristico e attivistico, di imporsi con i mezzi di una violenza di tipo nuovo, coinvolgendo il grande potere economico e l’antico potere statale nelle sue varie articolazioni. Il diritto e dovere del più forte a go-
10 Guido Quazza
vernare si impone di fatto e comincia a teorizzarsi più completamente usando i prestiti della ‘filosofia’ del nazionalismo mediata attraverso una parte dell’idealismo italiano. Gli intellettuali si dividono, anche dentro il vincitore del positivismo. Le forze che la società ha dato alla sinistra sono molto divise nelle loro rappresentanze parlamentari, cioè i partiti, e questi a loro volta sono profondamente divisi al loro interno: non occorre ricordare riformisti, massimalisti, comunisti, cattolici di centro e cattolici di destra, e radicali e repubblicani. È vero che quelle forze sociali esplodono nel biennio rosso, ma non riescono a reggere alla crisi della rivoluzione bolscevica e al contrapposto nascere, in Occidente, della controrivoluzione, che in Italia è stata definita addirittura, appunto per la debolezza delle difese di sinistra, controrivoluzione “preventiva”. Ecco, detto in estrema sintesi, il nascere in dramma dell’antifascismo, il suo originarsi con un grave handicap iniziale.
Già nel prologo manca una teoria organica. Già l’azione è di singoli, di antifascisti- persone, non di un movimento organico. La tabe della divisione è nel sociale ma anche nell’etico-civile. E nel comportamento. Storia dolorosa per chi vuole subito combattere perché dolorosa per l’intero paese, che sconta la ‘rivelazione’ dei mali antichi rimasti nel regno unitario sorto dall’impeto e dall’accortezza dei protagonisti del Risorgimento.
Prima e seconda fase della scelta
La ‘situazione’, tale che di per sé impone una scelta rischiosa per lo spietato uso delle armi più feroci da parte delle squadracce fasciste e per la loro impunità derivante dai finanziamenti e appoggi di vario tipo degli agrari, degli industriali, dei banchieri e, dalla polizia, dai carabinieri, dall’esercito, così come da ministri e da magistrati, impone all’antifascista del 1919-1922 coraggio fisico e
soprattutto coraggio morale. Ancor più, fra l’ottobre 1922 e il 3 gennaio 1925, il controllo via via completo dell’apparato statale da parte di Mussolini. L’assassinio di Matteotti, il 10 giugno 1924, è l’esempio più tragico, come tutti sappiamo, ed è la conseguenza immediata della sua denuncia dei brogli elettorali e delle violenze dell’incipiente regime. In termini diversi, ma con la consapevole accettazione d’essere un volontario adepto nella “compagnia della morte” , è la sorte di Piero Gobetti. Esito del coraggio nel respingere le imposizioni del fascismo governante sono le morti di don Minzoni e di Giovanni Amendola. Il sempre più largo controllo dello stato fa sì che l’antifascista non debba affrontare soltanto, come nel 1919-1922, la ‘situazione’, cioè uno stato di vita aperto a risposte con qualche margine di libertà di pensiero e di azione. Ora è il ‘meccanismo’ via via più spietato, quello che Silvio Tren- tin descrive in Francia con la limpida logica della sua cultura giuridica, che deve essere fronteggiato. E al coraggio fisico è necessario si affianchi in sempre più larga misura il coraggio morale. Non è più possibile sperare che il fascismo duri poco; tanto meno, come Amendola e l’Aventino dopo la ‘crisi Matteotti’, che il re torni sulle sue alleanze che ne avevano fatto dall’ottobre 1922 un monarca fascista, o succube del duce. I capilega, i dirigenti del partito socialista, delle cooperative di lavoratori, dei sindacati erano stati terrorizzati e spesso torturati e uccisi quasi senza che si fossero resi conto del pericolo fascista, del resto non individuato nella sua pienezza né da Turati né da esponenti del socialismo, a eccezione di Matteotti. Intellettuali come Croce e Salvemini avevano essi stessi stentato a capire la vera natura delle promesse dell’ “ordine” e della “legalità” manovrate da Mussolini con indubbia capacità tattica e con noncuranza di ogni coerenza e lealtà. Con Matteotti, e con sguardo più profondo, solo Gramsci aveva invano invocato il coraggio più duro, quello
L’antifascismo nella storia italiana del Novecento 11
di ricorrere all’uso delle armi per vincere gli “assassini” .
La prima fase della storia dell’antifascismo aveva dunque mostrato che temperamento e comportamento dovevano congiungersi nel coraggio quotidiano per fronteggiare a viso aperto il fascismo, e che non bastava l’analisi della natura dell’implacabile nemico. Gli antifascisti-persone dettero nel 1919-1925 un’impronta al movimento, ancora minoritario, che non si sarebbe più cancellata come segno essenziale di esso. La scelta lontana porta un marchio che non sarà più cancellato, neppure in tempi meno violenti. Azione più che pensiero, pur nel legame originario di pensiero-azione, senza la particella congiuntiva “e” , fin dall’inizio della lotta. L’ambiguità della condizione umana, sulla quale Primo Levi scriverà pagine profonde a riguardo del più terribile degli “abissi”, la vita nel lager, diventa subito un nemico da combattere, forse il peggiore, e dallo scontro con essa viene la lezione dell’intransigenza morale necessariamente alimentata dal coraggio — fisico e morale — delle scelte nette. Anche questo elemento — io credo — spiega la differenza radicale tra antifascismo e fascismo. Fornito, all’inizio, del coraggio degli arditi, soltanto fisico, il fascismo si dissolverà come neve al sole quando passerà dal controllo del potere alla perdita di esso, nel 1943, e ancora e più nel 1945 non avrà neppur l’ombra della volontà, col suo corredo di coraggio, di resistere alla sconfitta della repubblica di Salò. Pochi, pochissimi, del resto, anche nel corso dei venti mesi dell’ultima sua esperienza di governo in Italia, saranno i combattenti veri, disposti a sacrificare se stessi fino all’estremo, e saranno quasi tutti giovani offertisi per entusiasmo ingenuo oppure per furore vendicativo al secondo regime mussoliniano.
Ed è proprio quando è diventata piccola minoranza dentro lo stato totalitario fascista, che la scelta rivela il suo marchio più profondo, il suo tratto di azione intransigen
temente dura. Mentre i ceti medi vanno sempre più cedendo e i contadini si appartano, non diverso in coraggio da quello degli intellettuali pionieri è l’antifascismo di quegli operai che non si lasciano incantare né soggiogare dall’oratoria del duce e dal suo autoritario comando. È vero che centinaia di migliaia di operai erano emigrati negli anni 1921-1922 e nel primo biennio del governo fascista, stanchi di essere vittime del manganello, dell’olio di ricino, del pugnale, del moschetto e timorosi per se stessi e per la famiglia, e si può discutere in sede storica se in loro la paura avesse vinto sul coraggio, mutando l’antifascismo in autodifesa esistenziale. Molti di essi, tuttavia, non cessano di militare contro il fascismo fuori d’Italia, e non pochi sono gli operai che, restando in patria, continuano, nelle forme più varie, a resistere alle pressioni del regime, mentre i contadini che difendono la propria autonomia mediante l’appartarsi preparano, col favore della relativa lontananza dai centri del potere assoggettati agli ordini del capo, i luoghi della guerra partigiana del 1943-1945. Intanto, pur se più comprensibile perché coscientemente politica e internazionale ma non negabile come fatto di coraggio, la resistenza attiva dei comunisti punta, con l’audacia e l’intransigenza dei militanti di partito, a costruire nella clandestinità e nel carcere il nucleo più compatto di un antifascismo che rimane, nell’insieme, movimento con aderenti singoli o di gruppo pronti a farsi aderenti liberi d’una schiera irriducibile.
Questa seconda fase dell’antifascismo è certo la più impegnata perché pronta in ogni momento a congiurare, a colpire, ad affrontare condanne, carcere, torture, morte. La tesi di un largo consenso al regime trova confutazione soprattutto in questa fase. Il confronto fra il periodo dell’ascesa al potere e quello del potere conquistato, il primo ricco di resistenza, ma in clima ancora libero, il secondo schiacciato da un controllo e una repressione resi capillari dal dominio fasci
12 Guido Quazza
sta sullo stato, è la sorgente decisiva per una discussione metodologicamente più corretta di quella sinora fatta. E a essa porta dati di fatto anche il confronto fra le cifre dei fascisti militanti e quelle degli antifascisti condannati al carcere o al confino: gli uni e gli altri alla pari come numero, circa 150.000. Inoltre, nella seconda fase si trova una forza, significativa per il futuro, di elaborazione di pensiero. Nascono nuclei di oppositori che cercano una via antifascista diversa da quella dei vecchi schieramenti partitici. Ai seguaci di Gobetti e della sua intransigenza morale si affiancano, spesso in discorde concordia, i Rosselli, Giustizia e libertà, liberalsocialisti e socialisti coerenti pronti a giungere, nel 1934 e dopo, a patti d’unità d’azione con i comunisti. “Non mollare”, la lettera di Parri al suo giudice nel processo di Savona, la cospirazione di alcuni cattolici come Malvestiti con il suo Movimento guelfo d’azione sono soltanto alcuni segni fra quelli che possono essere citati qui: ma significativo è che, sebbene il pensiero li muova a considerazioni e meditazioni, il tasto più toccato è quello dell’azione, come dicono addirittura i nomi scelti come bandiera. Fino a che, quando il prestigio del nemico sale in Europa e, con l’ascesa di Hitler, giunge ad alleanze internazionali di natura ideologica fascista, la guerra civile in Spagna viene colta come occasione fondamentale per prendere le armi e con le armi affrontare nelle brigate internazionali non solo il fascismo di Franco ma anche gli italiani mandati da Mussolini contro i “rossi” nella terra iberica. È la prova suprema, nel ventennio, del coraggio nell’azione, e non a caso Carlo Rosselli lancia il suo davvero fatidico “Oggi in Spagna, domani in Italia” . A poco a poco l’antifascismo dei singoli diventa antifascismo dei gruppi, l’antifascismo del pensiero-azione diventa antifascismo armato, antifascismo dell’azione nella sua purezza e pienezza. L’ambiguità, pur nobile nell’ispirazione,
dell’interventismo dei Bissolati, dei Salve- mini, del giovane Parri e di non pochi anti- giolittiani perché antitrasformisti e antiop- portunisti come lui e come lui eredi spirituali del coraggio e della fede patriottica degli uomini del Risorgimento, è ora davvero superata. Dal prologo si è giunti, attraverso le dure prove della grande guerra e le delazioni e le incertezze o gli errori del 1919- 1925, alla preparazione dello scontro e al coraggio pieno del non evitare il sacrificio di sé: la morte dei fratelli Rosselli è, se così è consentito dire, il blasone del tempo dell’Asse Roma-Berlino e dell’incrudirsi barbarico del regime con la persecuzione razziale e l’avvio inesorabile alla guerra.
Le diversità di posizione politica sono ancora forti, ma i tentativi di trovare un terreno comune lavorano proprio sull’azione comune, quasi che l’obiettivo supremo spingesse sempre più a superare le divergenze nel pensiero politico per operare secondo un’azione animata dall’ispirazione morale. Una sorta di primato dell’etica come premessa a battaglie destinate, nel fuoco del grande conflitto con fascismo e nazismo, a farsi via via etico-politiche mediante la crescita della persona dentro l’impegno stesso acceso dal conflitto nel corso del suo farsi. Intelligenza delle cose ma, ancor più, temprarsi del cuore in una fede ogni giorno più temprata. L’uomo, insomma, come strumento e fine dell’intera impresa di abbattere la tirannide negatrice della civiltà. Dalla percezione studiosa della crisi al senso del dovere di fare qualcosa per superarla. Dall’attivismo fine a se stesso del bernsteiniano “il fine è nulla, il movimento è tutto” , al termine dell’Ottocento, la terribile esperienza della vittoria fascista aveva portato al movimento per un fine, quasi che l’irrazionalismo della pura “volontà di potenza” battezzato dall’esaltazione nietzschiana di Dioniso, il dio della violenza, contro Cristo, l’assertore della rassegnazione, del superuomo contro lo schiavo, avesse ritrovato pro-
L ’antifascismo nella storia italiana del Novecento 13
prio nell’antifascismo una sintesi nuova nell’ ‘amore’ armato dei cristiani pronti a offrirsi come ‘martiri’ dell’ “unica vera reazione, l’agire” , per dirla col filosofo tedesco, smentito così nella sua tesi dell’amore sbocciato “dall’odio ebraico come sua vendetta” . I documenti del coraggio e dell’intransigenza morale perìnde ac cadaver sono molti, e non è necessario ch’io li citi a conforto di questa interpretazione. Non pochi, neppure, quelli scritti da antifascisti moderati nell’azione piena ma limpidi nel promuovere la coscienza dei ‘valori’ civili senza nicodemismo e senza ambivalenze di linguaggio.
D all’opposizione alla guerriglia
In Italia, la terza fase dell’antifascismo, quella destinata a essere vittoriosa, germina dalla partecipazione del paese al conflitto, e conserva dapprima le timidezze della convergenza fra diversi. La natura degli ‘alleati’, le ‘democrazie’ occidentali da un lato, il monolito sovietico dall’altro con le sue ramificazioni clandestine e/o partitiche nei paesi dell’Ovest, incide sull’unità antifascista in modi contrastanti e con effetti, per i primi due anni, di sostanziale paralisi nelle ‘alte sfere’ del paese. La scossa più esplicita è negli scioperi operai del 1943, come sappiamo, ma lo sbocco decisivo per la caduta del regime è in un atto della monarchia, quello dell’arresto di Mussolini il 25 luglio. La precedenza dall’ ‘alto’ porta, con i quarantacinque giorni badogliani, a conseguenze di intorbidimento interno dell’antifascismo e a un esito del corso militare della guerra disastroso per l’antifascismo più determinato e coraggioso. Tuttavia, la non volontà del re e del maresciallo a staccare nettamente l’Italia dalla Germania nazista, prova eloquente di una politica che vuole strappare al fascismo il potere visibile, ‘legale’, e all’antifascismo la possibilità di ac
cedere al governo, provoca, per la sua troppo aperta falsità e doppiezza, il crollo dello stato in quanto tale e la ribellione di nuovi adepti dell’antifascismo, molto più numerosi di quelli del ventennio anche se politica- mente più immaturi, e ormai molto più ‘decisi’ a battersi volontariamente e fino in fondo.
I partigiani sono il nuovo antifascismo senza voler essere conflittuali col vecchio. E qui sta la forza dei combattenti contro il nazismo occupante e contro i fascisti suoi servi nella repubblica sociale governata da Salò. I partiti già antifascisti nel ventennio hanno la capacità di stimolare, ma la resurrezione viene da un moto spontaneo di masse: di massa, certo, non nel senso del numero dei ‘banditi’, ma in quello della loro capacità di incunearsi, sia pure con gradualità, nel profondo della società italiana, nell’interno stesso della maggioranza della popolazione. Anche gli intellettuali che erano stati traditori secondo Benda, si vanno pur con molta prudenza e lentezza allineando al nuovo corso contro quel fascismo che avevano servito; alcuni dei più giovani fra di essi, che avevano frequentato la scuola fascista, si mettono alla testa o almeno all’interno della “banda microcosmo di democrazia diretta” . E portano l’antifascismo a trovare un obiettivo unico: vincere il nazifascismo con una guerra di liberazione anche a costo di una “guerra civile” perché lo scontro è diventato una “guerra di religione”, secondo l’espressione usata da Guido Calogero in un discorso del novembre 1944 nella Roma liberata. Se 1’80-85 per cento dei partigiani è antifascismo nuovo, la ragione non è in una coscienza politica piena. L’uomo partigiano si fa sul cambiamento dentro la guerriglia e sulla sua adesione alla “fraternité”, cioè a un internazionalismo non ideologico ma quotidiano che è frutto della spontaneità di vita, di quella specialissima vita che è l’attività giornaliera delle bande nei suoi attacchi, nelle sue imboscate, nel suo
14 Guido Quazza
muoversi nei terribili rastrellamenti, nel suo fare ‘colpi’ nelle strade e nelle città, nel suo imparare a guidare il rapporto con la ‘gente’ in tutte le sue più variegate e al tempo stesso complesse articolazioni del ‘privato’ e del ‘pubblico’, per usare termini correnti in Italia da più di dieci anni. L’autonomia del singolo, l’autonomia della banda, l’autonomia del nesso fra l’una e l’altra rispetto all’internazionale della resistenza: ecco la grande lezione storica. Ed essa — non va mai dimenticato — nasce non da una dottrina politica generale acquisita da insegna- menti storici ereditati, ma da una scelta dell’uomo intero che esce dall’esperienza dell’individuo nel collettivo. Una scelta, scrivevo molti anni fa, esistenziale, che, e nemmeno sempre, si farà politica.
La terza fase, nutrita di questo tipo di autonomia, non riesce, a liberazione avvenuta, a vincere la battaglia dello stato e quella, strettamente congiunta per non dire condizionante, dell’economia. La “ricostruzione”, sappiamo, fu una ‘restaurazione’. Contro la grande ‘rottura’ del 1943-1945, il 1945-1953 fu continuità sostanziale. L’eccezione, certo importantissima, della fine della monarchia non portò, neppure nella Costituzione varata alla fine del 1947, a quello stato delle autonomie che i più fra i partigiani avrebbero voluto. La fine della politica del Cln fu consumata già prima dell’ultimo mese del 1945, e la caduta del governo Parri ne fu il punto più clamoroso. Dalla “scuola del carcere” alla “scuola della banda”, due fonti diverse di un’Italia che, dopo il breve periodo del “governo di unità nazionale (1944-1947), scivola nell’accorto innesto del conservatorismo democristiano, nel conservatorismo sacerdotale sempre fortemente ancorato al tradizionalismo contadino. Ecco perché in questo trapasso, reso longevissimo dall’entrata, con De Gasperi, nel blocco di potere capeggiato dagli Usa, anche l’antifascismo ‘vittorioso’ è costretto dal ‘meccanismo’ della continuità e dalla
forza ‘obiettiva’ della ‘situazione’ a entrare in una nuova fase.
Da una nuova divisione a una nuova unità militante
Quadro internazionale, meccanismo interno giocato col peso del “Regno del Sud”, abbandono della lotta integralmente rinnovatrice o almeno riformatrice da parte del Pei, l’alleanza con questo del Psiup, lo scioglimento del partito più audace sulla via di una democrazia autonomistica, il Pda (si sa, anche per divergenze di politica generale al proprio interno): ecco le cause concorrenti dal basso al ripristino del potere dall’alto. E, via via, alla non applicazione anche degli articoli più coraggiosi della Carta costituzionale, o al ritardo delle clausole sulle autonomie locali, con le conseguenze, nel campo istituzionale, di quel dominio dal centro che oggi tutti vediamo. Le differenze di classe diventano, già con la vittoria del 18 aprile 1948, l’elemento principale di quella che ho definito la quinta fase dell’antifascismo, dal 1948 al 1959: la fase che, forse, torna a vedere più diviso l’antifascismo. Diviso un po’ diversamente che nella prima fase, mancando la sfida tremenda del fascismo avanzante prima verso il governo poi verso il regime. Lo scontro fra il potere democristiano, con i suoi satelliti politici e i suoi sostenitori economici, e l’opposizione di sinistra si combatte nelle fabbriche ma in parte anche nelle aziende agrarie e, con minor forza ma altrettanto eloquente significato, nella scuola e nella cultura, impegnata al più alto livello e in tutta la gamma delle sue espressioni, a curare la definizione di un rapporto con la politica più adeguato alla società complessa che sta crescendo e allo stato non più monopolizzato da un solo partito. È la stessa coinè della repubblica a esser messa in gioco, e la speculazione dei partiti sulla cosiddetta “unità della Resisten
L’antifascismo nella storia italiana del Novecento 15
za” incide a fondo, spesso con un uso spudorato dell’editoria, dei giornali, della radio e della neonata televisione, sulla vittoria del- l’una e dell’altra tesi, ancora una volta espressa dentro l’antifascismo, carico pu- troppo di una ufficialità che la guerra contro il fascismo non aveva nel ventennio consentito. La lotta del 1953 contro la “legge truffa” è un ultimo scatto dell’antifascismo contro il centrismo conservatore popolato anche di antifascisti ormai definitivamente acquisiti al moderatismo, non senza sguardi ai nostalgici del passato regime. Il boom economico, i fatti del 1956 nel mondo comunista, i loro effetti sul Psi in lento cammino verso il centro-sinistra e sul Pei avviato con passo incerto ma ormai irreversibile verso la “via italiana al socialismo”: ecco le strade principali che portano alla sesta fase, quella fra il 1960 e il 1976.
È il tempo dell’antifascismo che si fa militante, staccandosi dalla formula dell’unità dei “partiti costituzionali” per diventare un movimento di massa schierato a sinistra, con alleanze parziali e precarie di gruppi, di partiti e di movimenti moderati. Con un metodo di lotta continua con forze sociali prima prevalentemente operaie, poi, dal 1967- 1968, anche studentesche. Rinvio ad altre più particolareggiate relazioni di questo convegno l’analisi del significato di quell’antifascismo che fu subito chiamato militante.
Difficile negare, come fanno non pochi — filofascisti o amanti del ‘volemose bene’ o del ‘tutti siamo nella stessa barca’ — a partire dal 1965 o ancor più dal 1983 che quel quindicennio è stato almeno l’avvio a non piccoli cambiamenti in molti campi dell’attività del paese, specialmente nel campo dei diritti del cittadino in quanto uomo. Difficile negare che il movimento antifascista è stato centrale nel preparare un rapporto diverso fra stato e società. Difficile negare che l’importanza dell’antifascismo in Italia ha toccato allora il punto più alto, dopo la resistenza, nel processo di mutamento delle
strutture complessive e delle mentalità individuali. E che il motore fondamentale è da ritrovare nello spirito e nella pratica della ‘lotta dura’ mossa da un entusiasmo sincero e attivissimo nell’azione se non nel pensiero. Non è negabile che l’antifascismo militante trovi nella ribellione dei giovani la forza per fronteggiare il neofascismo delle stragi organizzate da gruppi clandestini e la strategia della tensione promossa dai detentori del governo. Dall’ampia e forte risposta ai timori e alle minacce di golpe si passa, con i successi dello statuto dei lavoratori nel 1970 e del divorzio nel 1974, con le vittorie elettorali del Pei nel 1975 e 1976, alla delusione e reazione verso la politica Andreotti-Berlinguer del compromesso storico, della rinnovata “solidarietà nazionale” .
Il Movimento ’77 procede col tempo del terrorismo rosso e con il ritiro nel privato. Il 1983, con il lancio fascista e moderato del centenario della nascita di Mussolini incide fortemente sul quarantesimo del 25 luglio e dell’8 settembre: anche la presidenza socialista del Consiglio dei ministri inaugura una fase completamente nuova con l’incontro Craxi-Almirante. Sembra, fino a ora, che la resistenza non trovi più credito nella “classe politica”. L’antifascismo reagisce troppo poco. All’infuori dell’opera degli Istituti storici della resistenza e di qualche documento dell’Anpi, il moderatismo defeliciano aiuta il fascismo a riprendersi. L’antifascismo come tale sembra tacere troppo e quindi confondersi nella linea di contestazione coerente e dura. Non si può tuttavia negare che va a poco a poco riemergendo l’esigenza di riprendere coscienza del suo peso generale nella società e nel confronto politico. Da non molto è maggiore l’interesse per la propria storia, la determinazione di “non dimenticare” né la guerriglia, né la resistenza dentro i lager nazisti, la cura di una memoria scientificamente attrezzata e documentata. Di qui, anche, e più nell’ultimo anno, per la spinta del grande esempio dell’Est so
16 Guido Quazza
vietico, il crescere a opera dei nostri istituti e nel mondo giovanile di un rinnovato senso preciso dell’importanza di tornare con coraggio all’antica scelta della difesa e affermazione della libertà e della giustizia. Scelta, con maggiore forza e nettezza, di un modo di vivere globale delle donne e degli uomini, misurata sulla prova della prassi col criterio della volontà e capacità di rischiare. Il coraggio e la coscienza di dover assumere responsabilità nei grandi e nei piccoli fatti sono, devono essere oggi i parametri del vivere antifascista. Non soltanto nel privato, ma nel pubblico. Contenuti, la lotta contro l’alienazione prodotta dalla ‘reificazione’ indotta dall’autoritarismo del sistema, forma specifica, nel presente, della ‘violenza delle istituzioni’. A questo ostacolo, sempre ultrapotente, al cammino verso la libertà di sviluppo della persona umana, l’antifascismo porta un’esperienza molto lunga e collaudata da scontri durissimi e dalla capacità di individuare le ragioni per le quali l’umanità, che nel 1969 seppe andare sulla luna e allora e poi costruire miracoli scientifici e tecnologici, non volle o riuscì a superare la degenerazione della corsa ai consumi. Di qui l’antifascismo può, col suo bagaglio, partire per migliorare la democrazia repubblicana radicandola con l’autogoverno del singolo, della famiglia, della comunità, con il superamento del marcusiano “uomo a una dimensione” e con la costruzione del governo da sé e per sé.
Conclusione provvisoria
E ora, una conclusione almeno provvisoria. Una lunga corsa, di quasi un secolo. Una vicenda di convergenze e divisioni frutto di debolezza con qualche momento di forza. Tra sconfitte e vittorie, una scelta che basa la sua vitalità e durata nell’essere un fatto morale prima e più organicamente che politico. In questo senso, più attuale che mai, perché
non solo l’Italia ma il mondo è entrato in un’età di risveglio dal basso nelle forme e con gli strumenti dell’autonomia, un’autonomia del singolo, un’autonomia etnica e sociale, nell’insieme geostorica. I giganteschi fatti dell’Est stanno assumendo sviluppi non diversi nel resto del mondo. Siamo all’inizio di una storia mondiale nuova? La mia speranza è sì. Se essa è destinata ad avverarsi, l’antifascismo sarà più vivo che mai. Non avrà, forse, da affrontare con la guerra delle armi il suo antico nemico. Fatti recenti anche vicino a noi — gli studenti contestatori che si proclamano “antifascisti davvero”, oltre che “pacifisti e democratici”, per dare un solo esempio fra i tanti possibili — mostrano che lo scontro si può affrontare con le armi della ragione, del confronto morale inteso come confronto storiografico illuminato dall’etica e dall’educazione.
L’eredità della scelta “lontana” resta integrale nel suo fondo, nel suo vero, autentico significato civile e umano. I giovani, sebbene non possano per l’età conoscere i tempi duri della lotta tra antifascismo e fascismo, avvertono, e in schiere crescenti, che anche la ‘pace’ permette di discutere i grandi ‘valori’, che la progettualità del cuore si può legare alla progettualità dell’intelletto, ricostituendo quell’unità della persona che si era sognata prima nella dimensione politica, poi in quella delle due culture, ora in quella — carica di forza psicologica e anche religiosa — che investe tutta la natura dell’uomo. Der Letzte, l’ultimo, il ribelle senza nome impiccato in un lager nazista, deve restare nella memoria di tutti noi, non per la vergogna di cui parla Primo Levi, ma come il simbolo del militante ignoto che scelse l’antifascismo, il primo di un’avanguardia di coraggiosi in cammino verso una nuova storia d’Italia e del mondo nata in un tempo lontano ma non ancora finita. Questo è il mio augurio, questa la mia speranza. Spero che sia anche la vostra.
Guido Quazza