la fonte · ordinario estirpare una volta per tutte il cancro dell’arroganza, della...
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la fonte GENNAIO 2017 ANNO 14 N 1 periodico dei terremotati o di resistenza umana € 1,00
Per non lottare
ci saranno sempre moltissimi pretesti,
ma mai, senza lotta,
si potrà avere la libertà Fidel Castro
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«Tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Poi Neemia disse loro: “Andate, mangiate carni grasse e bevete vini
dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato,
perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattri-
state, perché la gioia del Signore è la vostra forza”» (Ne 8,9-10). Il Libro di Neemia ci presenta la figura dell’omonimo cop-
piere del persiano Artaserse che nominato governatore della Giudea
riceve la missione di ricostruire le mura di Gerusalemme, dopo che
la vittoria di Ciro sui Babilonesi ha provvidenzialmente liberato i
deportati (538 a.C.) e permesso ai reduci ebrei di ricostruire il Tem-
pio (515 a.C.). Innalzate le mura, Neemia s’investe per risolvere
alcuni problemi sociali come l’indebitamento dei contadini, lo spo-
polamento di Gerusalemme, la povertà dei leviti, e anche alcuni
problemi religiosi, come il rapporto con gli stranieri e il rispetto del
riposo sabbatico. Dopo quest’opera che si conclude con il ripristino
del diritto ebraico e dei criteri di purezza della stirpe, Gerusalemme può riconfigurare la sua identi-
tà di città santa. Malgrado la catastrofe dell’esilio, il popolo ha custodito la chiara coscienza di essere an-
cora Israele per il suo Dio e per celebrare l’evento della rinascita organizza una solenne liturgia.
Questa liturgia, celebrata fuori dall’area sacra del Tempio, si presenta come il modello di liturgia
della Parola destinato a radicarsi in seguito, come lettura sinagogale, in ogni villaggio di Giuda. In
tal modo ognuno potrà nutrirsi della parola del Signore, anche se lontano dal Tempio e dalla possi-
bilità di offrire sacrifici. La parola proclamata molto probabilmente è quella del Deuteronomio,
con tutto il suo tipico carico di pathos. Libro della legge di Mosè, infatti, è una dizione rara
nell’AT e si trova solo in questo libro. Questa seconda legge-alleanza appare come la riformula-
zione della legge-alleanza sinaitica (Es 20-31) in vista dell’ingresso nella terra promessa.
Nel popolo che si raduna (il verbo in greco è sýnago, da cui deriva il termine sinagoga),
nel libro sacro presentato con solennità, nella lettura dall’alto di una tribuna con leggio, nella vene-razione del popolo, riconosciamo la matrice della nostra liturgia della Parola, quando durante la
celebrazione eucaristica sediamo alla mensa della Parola prima che alla mensa del pane consacra-
to. Colpisce del racconto il radunarsi del popolo come un solo uomo (v. 1), la durata della lettura
dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno (v. 3), e il dinamismo della lettura/proclamazione-
traduzione e spiegazione-comprensione (vv. 3.8.12). Appare una prima tappa in cui si sprigiona
tutto il potenziale della Parola e una seconda in cui si permette alla Parola di colpire il cuore e
trasformare l’esistenza. L’ascolto della Parola sortisce così tre effetti: raduna il popolo, asciuga le
lacrime restituendo la gioia e ricompatta il popolo restituendogli la dimensione della festa, attra-
verso il ritorno alle antiche tradizioni. La festa ripristinata è quella delle capanne, cioè la festa del
raccolto in cui si ricordava la dimora dei padri nelle capanne dopo l’esodo dall’Egitto.
In un tempo in cui la parola è abusata e, malgrado la valanga di notizie che ci travolge,
la disinformazione regna sovrana, la comunità civile ed ecclesiale ha bisogno di una parola altra e alta. Una parola che non produca gossip o illazioni ma tracci il sentiero di mete significative
che possano areare il clima asfittico dei dibattiti sterili e muovere il risveglio e la rinascita. Serve
a tutti noi la Parola vera, quella capace di raccogliere dalla dispersione, di curare le ferite e di
estirpare una volta per tutte il cancro dell’arroganza, della prevaricazione e di ogni pensiero e
atto mafioso che ostacola il germogliare del regno di Dio nella storia.☺
lotta e contemplazione
dalle lacrime alla gioia
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Una pagina bianca può essere
riempita di scarabocchi e disegnini, per in-
gannare il tempo, oppure può essere lasciata intatta, per il timore reverenziale di sciuparla,
come ci si possono fare barchette o aeropla-
nini per giocarci. Ma una pagina bianca può
essere vergata con pensieri destinati a restare
o con grafici che assumono la dimensione di
progetti da realizzare. Proprio come il nuovo
anno che si apre davanti a noi. Foglio di un
quaderno nelle nostre mani. Nessuno può
scriverci, al posto nostro, cosa siamo disposti
a fare.
I risultati del referendum sono
arcinoti. Il Golia, tracotante e seducente nello stesso tempo, come può esserlo solo chi fa
del potere un’arma per l’affermazione di se
stesso, è stato umiliato da un popolo di insi-
gnificanti e disprezzati Davide, pronti a gio-
carsi il tutto per tutto. La nostra rivista è
scesa in campo senza esitazioni e le sue pie-
truzze hanno contribuito ad abbattere quanti
volevano fare della Costituzione carta strac-
cia, magari non senza un tornaconto persona-
le. Perché, e di questo sono certo, se molti
hanno votato in buona fede, illudendosi che con il loro sì avrebbero cambiato qualcosa,
capibastone e propagandisti, proni tanto da
perdere ogni ritegno, aspettavano il risultato
positivo per passare all’incasso. È tanta la
loro malafede che non pensano neppure di
mettersi da parte dopo la cocente sconfitta..
E non mi riferisco solo alle varie Maria Ele-
na Boschi o Anna Finocchiaro che sono
tornate a spergiurare su quella costituzione
che volevano asservire ai poteri forti. Chi ha
portato la comunità di Bonefro contro la
storia e il sentire comune, può ancora, spudo-ratamente, continuare a pontificare impune-
mente?
È tempo di cominciare a scrivere
un’altra storia sulle pagine del nuovo anno!
Dopo quasi cinque anni si è con-
cluso positivamente il processo che ci vede-
va imputati perché un autore periferico die-
de, con linguaggio colorito, del “mezzasega”
a un amministratore locale che aveva fatto
poco o niente per impedire il deturpamento
dell’ambiente affidatogli, già seriamente danneggiato dal terremoto. E a proposito di
terremoto, dopo quattordici anni di titanica
lotta per la mancata ricostruzione, che trova
fuori casa ancora troppe famiglie, viene alla
ribalta delle cronache che l’attuale vicepresi-
dente della giunta regionale, nonché assesso-
re, Vittorino Facciolla, è stato denunciato per
appropriazione indebita di fondi per la rico-struzione post sisma. Possibile che nessun
amministratore del cratere si senta parte lesa?
Non ci interessa in questo momento l’aspetto
giudiziario, ma il buon senso che avrebbe
dovuto far prevalere il principio tipico di
ogni comandante di vascello: prima donne e
bambini! Novello Schettino ha salvaguardato
se stesso prima dei passeggeri! Sempre a
proposito di natanti, finalmente è stato sven-
duto il catamarano che faceva bella mostra di
sé nel porto di Termoli, comprato con denaro
che sarebbe dovuto servire per la ripresa
produttiva del Molise. Come può ancora
ergersi a difesa di una regione chi ha sbaglia-
to completamente strategia? Novello Muzio
Scevola non dovrebbe amputarsi la mano
che ha rovinosamente firmato atti inconsulti? Col nuovo anno è tempo di voltare
pagina!
La politica, nobile arte per ammi-
nistrare la cosa pubblica, finita nelle mani di
politicanti senza scrupoli, purtroppo vive di
menzogne e falsità. Dal presidente degli Stati
Uniti eletto che lancia messaggi a banchieri,
petrolieri e fabbricanti di armi, a discapito
dei più deboli, dell’ambiente e dei rapporti
internazionali, al nostro Renzi, ancora lui,
che si ostina a manovrare, per interposta persona, tutta una nazione. Non aveva assi-
curato che se ne sarebbe tornato a casa, no-
vello Cincinnato, magari a curare l’orto,
facendo finalmente un lavoro, se avesse
perso il referendum su cui ha fatto perdere
tempo prezioso a
tutta l’Italia? Per non parlare del presidente
della giunta regionale del Molise che ha
scelto di governare rimandando tutte le deci-
sioni importanti a data da destinarsi e finen-do di inabissare una sanità ridotta allo stre-
mo. Alle doverose cure preferisce la selezio-
ne naturale in modo che sopravvivano solo
quelli che hanno anticorpi tali da resistere a
tutti gli assalti.
Anno nuovo, vita nuova, per chi è
pronto a scommetterci!
Se questa lettera la indirizzo a
quanti si sentono giovani non è per un fatto
anagrafico perché si può essere giovani a
novant’anni e vecchi a venti, ma perché solo
chi si sente giovane può sognare e lottare per un mondo altro. Fidel Castro ha sfidato un
colosso che in tutti i modi ha cercato di affa-
mare la sua isola ed è morto vincendo la
sfida, anche se il cancro del capitalismo ha
infettato una parte del suo popolo. Oltre
diciannove milioni di italiani hanno resistito
alla sirena del renzismo non lasciandosi
abbindolare da chi voleva, con lo specchietto
per le allodole, distoglierli dalla stella polare
della Costituzione. Un’isola come Lampedu-
sa ci attesta che non è ributtando a mare gli immigrati che si risolvono i nostri problemi,
ma è costruendo una politica di solidarietà
che una comunità si mostra veramente tale.
Assuefatti a film di guerra, Aleppo è solo
una notizia di telegiornale e gli attentati vici-
no casa, anziché farci cambiare politica, ci
rendono diffidenti verso gli altri, facendo il
gioco degli attentatori.
Questo anno può essere prezioso,
se non ci ostiniamo a sciupare le sue pagine,
per dare una svolta a cominciare dai paesi,
dalla regione. Una nuova politica esige uo-mini nuovi. Finché continuiamo a scommet-
tere su arrivisti senza scrupolo, capipopolo
che seducono col loro denaro, tizi che cam-
biano casacca ad ogni nuovo vento non an-
diamo da nessuna parte. Ma l’arte del gover-
nare non si improvvisa. Riapriamo scuole di
politica, facciamo emergere quanti si impe-
gnano con competenza e disinteresse al ser-
vizio della collettività, iniziamo ad impe-
gnarci in prima persona per il bene comune,
denunciamo ingiustizie e ruberie, torniamo a nutrirci di utopie. È in gioco il nostro futuro,
non facciamocelo scippare e non consentia-
mo ad altri di imbrattare la nostra pagina
ancora bianca.
Buon 2017. ☺
Antonio Di Lalla
una pagina da scrivere Lettera aperta a quanti si sentono giovani
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spiritualità
inizio polifonico Michele Tartaglia
Cosa mette in collegamento gli uomini e le donne del terzo millennio con
Gesù di Nazaret? Si potrebbe rispondere la
fede o la chiesa, ma questo vale solo per i
credenti. L’unico ponte accessibile a tutti è ciò che i credenti chiamano Parola di Dio, la
bibbia che, oltre ad essere testo sacro di due
religioni, è patrimonio culturale dell’umanità. Ma la bibbia non è stata scritta tutta di getto:
parte di essa (il Nuovo Testamento) è stata
scritta dopo la vita di Gesù, divenendo lo strumento privilegiato per entrare in contatto
con lui. Eppure, leggendolo, ci si rende conto
che non è una testimonianza unitaria, ma è
piuttosto una raccolta di voci e testimonianze diverse, anche in conflitto tra loro e ciascuna
di esse aveva la pretesa di essere l’unica o la
più importante. Ci sono quattro vangeli simili e diversi tra loro, ci sono le lettere di Paolo
dove si dicono cose diverse da ciò che dice ad
esempio la lettera di Giacomo, tanto che, chi, come Lutero, ha privilegiato l’insegnamento
di Paolo, ha avuto qualche difficoltà ad ap-
prezzare Giacomo.
Il Nuovo Testamento è il lascito autorevole dei primi cristiani alle generazioni
successive ma è un lascito variegato, che
tradisce le molte voci che si sono sentite a partire dalla risurrezione di Gesù, evento
unico ma non univoco, in quanto ha suscitato
una miriade di risposte, alcune delle quali
sono registrate nel Nuovo Testamento, molte altre invece (pensiamo, ad esempio, ai movi-
menti gnostici del secondo secolo) sono state
lasciate fuori perché considerate fuorvianti. Ma se dovessimo intervistare oggi gli autori
dei vangeli, probabilmente esprimerebbero il
disagio di trovarsi uno accanto all’altro in un
unico libro e se chiedessimo a Paolo cosa pensa della sua biografia raccontata negli
Atti, risponderebbe probabilmente che non vi
si riconosce affatto, perché le vicende si sono
svolte in modo diverso e tutta quella bonarie-tà espressa dal capo della comunità di Geru-
salemme (Giacomo) è una ricostruzione
fantasiosa.
All’inizio del cristianesimo non c’era una visione unica della fede ma tante
interpretazioni: i primi discepoli erano ebrei
che non pensavano affatto di assistere alla nascita di una nuova religione ma ritenevano
che Gesù era venuto a predicare solo al popo-
lo d’Israele (lo stesso Gesù lo dice chiara-
mente nel vangelo di Matteo!) per prepararlo a vivere la fine dei tempi. Dopo l’esperienza
della risurrezione i discepoli ritenevano che
stavano vivendo l’inizio della fine e Gesù, tornando, avrebbe premiato coloro che gli
erano rimasti fedeli nonostante la morte in
croce e avrebbe reso manifesto il giudizio di Dio verso i peccatori. Per molti
Gesù era solo un messia umano,
altri invece vedevano in lui un
essere divino. C’era chi vedeva in lui il liberatore d’Israele dai roma-
ni e chi (come Paolo) credeva che
Dio attraverso la sua morte avesse perdonato i peccati di tutta
l’umanità.
In principio non fu l’unità ma la diversità e per un certo tempo la
diversità fu causa di conflitti an-
che aspri: Paolo ci testimonia che persino nelle comunità fondate da lui si erano formati
gruppi contrapposti, e ciascuno si riconosce-
va in un leader. Con il tempo, tuttavia, quan-
do i protagonisti della prima predicazione scomparvero, anche a causa di pressioni
esterne, come l’esclusione dal giudaismo
maggioritario e le insofferenze del potere romano che a volte sfociavano in forme di
persecuzione che divennero sempre più
cruente, le divergenze furono appianate con l’accoglienza reciproca, i testi a cui ciascuna
comunità faceva riferimento furono raccolti
insieme e divennero la base per la ricerca di
unità e i molti libri divennero sempre di più un unico libro, insieme con le Scritture
d’Israele.
La chiesa che ci ha trasmesso la bibbia è l’erede delle diverse voci del primo
cristianesimo, delle comunità di Matteo, di
Marco, Luca e Giovanni, di Paolo, di Giaco-mo, voci diverse che, unite insieme, hanno
creato un’armonia. Certo, la storia successiva
alla nascita della bibbia come la conosciamo
è stata attraversata da altre divisioni, dovute alle diverse interpretazioni, ma spesso anche
agli eventi politici e sociali che hanno conti-
nuato a condizionare lo sviluppo del cristia-nesimo fino ad oggi e lo faranno anche in
futuro. Tuttavia l’aver riscoperto che l’unità
della bibbia nasce dalla diversità dei tanti
modi di testimoniare Gesù, ci dovrebbe ren-dere meno arroccati nella difesa della propria
tradizione contro le altre tradizioni e i grandi
gesti ecumenici a cui oggi assistiamo, non solo sul piano dottrinale, ma anche e forse
soprattutto sul piano sociale e politico (come
ad esempio la visita a Lesbo del papa di Ro-ma e del patriarca di Costantinopoli) trovano
pieno fondamento nella consapevolezza che
il cristianesimo ha un’origine polifonica, non
è la monolitica espressione di rigidi dogmati-smi. Cercheremo di tracciare, quindi, una
mappa dell’unidiversità cristiana, che può
essere un modello per non cedere alla tenta-zione dei particolarismi che oggi risorgono
nelle nostre società frammentate. ☺ [email protected]
mi abbono a
la fonte perché la vita
è una lotta dalla quale
non possiamo ritirarci
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glossario
Un anno che si chiude porta
inevitabilmente con sé valutazioni,
bilanci e l’obbligo, quasi, di porre in
evidenza ciò che nel corso dei mesi
appena trascorsi è apparso degno di rilievo. Vi segnalo, ove mai ce ne
fosse bisogno, che il dizionario ingle-
se dell’Università di Oxford ha pro-
clamato parola dell’anno il termine
post-truth, in italiano post-verità, con
la seguente definizione: “relativo a
circostanze in cui i fatti oggettivi
influenzano meno l’opinione pubbli-
ca rispetto alle reazioni emotive ed i
convincimenti personali”. Su di un
ipotetico piatto della bilancia a pesa-
re di più sarebbe dunque l’emozione e non l’oggettività.
Secondo il sociologo Aldo Bo-
nomi si tratterebbe di verità posticcia,
basata più che altro su di una “dimensio-
ne emotiva, spiazzante e ondivaga”.
Qualcosa che ha a che fare con il gioco, il
divertimento? Solo un’azione innocua,
dunque, per richiamare l’attenzione? Non
sembrerebbe, dati alcuni precedenti ben
più seri e pericolosi.
Fa bene dunque la filosofa Glo-ria Origgi a ricordarci che “nel 2003
un’intera coalizione di stati occidentali,
Italia compresa, andò in guerra per sman-
tellare l’arsenale inesistente di armi di
distruzione di massa di Saddam Hussein
contro ogni evidenza presentata dagli
esperti come Hans Blix, lo svedese capo
dell’Agenzia Internazionale dell’Energia
Atomica, che aveva redatto un rapporto a
chiare lettere sostenendo di non aver
trovato nessun’arma di questo tipo nelle
sue ripetute ispezioni” (il fatto quotidia-no, novembre 2016).
Una questione non di poco con-
Dario Carlone
il sensazionale Il problema non è nuovo, e non
riguarda soltanto la contemporaneità. “Il
fatto che la politica fosse il dominio delle
emozioni, delle passioni civiche, dei va-
lori, e non della verità, lo sapevano già gli antichi”, rileva sempre Gloria Origgi.
Aristotele, in aperta polemica con i sofi-
sti, retori e ”comunicatori” dell’antichità,
osservava invece che “ciò che dico è vero
solo se corrisponde ai fatti del mondo”. A
contraddirlo la post verità ed anche il
nuovo universo dell’informazione: esso
ha compreso - ahinoi - che per catturare
consenso ed attenzione è necessario ri-
correre ad altre modalità di comunicazio-
ne, come costruire notizie che spesso
poco hanno a che fare con la verità. L’obiettivo è quello di offrire “potenziale
successo comunicativo” a fatti che, veri o
presunti tali, siano in grado di raggiunge-
re un determinato scopo. Paradossalmen-
te circola di più, rimbalza da un canale ad
un social, riceve apprezzamento (i fami-
gerati “mi piace”), l’informazione sor-
prendente, sensazionale; poco importa se
quella stessa informazione non corrispon-
de a verità. Tutti rischiamo di venire in-
trappolati in questa “rete” che ci autoriz-za ad emettere qualsiasi tipo di giudizio.
È il trionfo del senso comune. Esempi?
Ognuno trovi i propri!
Con l’augurio che sappia distin-
guere tra realtà e post verità e si orienti
tra così tante contraddizioni.☺
il molise esiste, ma dove va con questi amministratori?
Sca
tto
d’a
utor
e di G
ueri
no T
rivi
sonn
o
to, cui vorrei aggiungere qualche consi-
derazione a partire da un vocabolo ingle-
se, noto soprattutto agli utenti della rete:
il termine fake [pronuncia feich].
Quanti frequentano i social media li conoscono bene: sono infatti
quegli utenti che non si presentano con le
proprie vere generalità, ma costruiscono
profili falsi o inventati; protetti così
dall’anonimato, possono seguire le con-
versazioni, carpire informazioni, provo-
care fraintendimenti o burle, in breve
“spiare” gli altri senza essere a loro volta
osservati.
Da sempre la rete informatica,
una delle “invenzioni” più innovative e
confortevoli del nostro tempo - direi irri-nunciabile - favorisce purtroppo questi
mascheramenti, nonostante tutti i sistemi
di accesso controllato, password e codici.
Spesso il fake non è altro che uno scher-
zo, un gioco oppure un metodo per impe-
dire che il pubblico della rete o eventuali
malintenzionati conoscano la nostra vera
identità e si impossessino dei nostri dati
personali. Moltissimi utenti nei social
network prendono nomi di fantasia per
evitare di essere riconosciuti, magari dal datore di lavoro oppure dai genitori, se
minorenni.
Ma fake è diventato anche sino-
nimo di “falso, fittizio” in riferimento a
notizie o narrazioni che hanno qualche o
nessun fondamento reale; in gergo ven-
gono dette “bufale”, quindi “post verità”.
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politica
C’era una volta un paese molto
bello, famoso nel mondo per la sua storia, le
opere d’arte, il cibo genuino e il clima gentile.
Da sempre era considerato uno dei luoghi più
incantevoli, e non vi era chi non desiderasse vederlo almeno una volta nella vita; in molti
da altre nazioni compravano casa lì, per tra-
scorrervi un po’ di tempo ogni anno, e i più
fortunati addirittura si trasferivano definitiva-
mente nelle sue campagne o in riva ai suoi
mari.
Una insolita maledizione, però,
aveva colpito il paese dove secondo un grande
poeta fiorivano i limoni e l’amore… anno
dopo anno il popolo che l’abitava aveva pian
piano perso il gusto della politica, quell’arte
difficile nata proprio dall’altra parte del suo mare, e portata lì dai fondatori di tante delle
sue città, arrivati con le triremi (migranti an-
che loro!) a seminare arte e civiltà lungo le
coste e nelle isole.
Gli abitanti di questo paese, così
amabile e tale da suscitare struggimento infini-
to in chi era costretto a lasciarlo per inseguire
un lavoro, si erano scoperti privi di fiducia in
chiunque si fosse trovato a governarli; e a dire
il vero non è che avessero poi torto: tra astuti
corrotti, allegri puttanieri e incapaci cronici non vi era ministero dello stato che non fosse
stato svuotato, impoverito o corrotto.
Altri problemi erano giunti a com-
plicare la vita spesso pigra e senza scosse di
questi cittadini, che tendevano già di loro a
lasciar scorrere tutto e a pensare ai fatti propri:
guerre, terrorismo, banche truffaldine, debiti
immaginari ma pesanti come macigni, e so-
prattutto tanti, tanti sfortunati che arrivavano
nel loro paese in cerca non di una vita miglio-
re ma semplicemente di vita, qualunque essa
fosse. Fu così, senza quasi accorgersene,
che molti in quel popolo cominciarono ad
ascoltare rozze sirene che anche nei paesi
vicini cantavano con suoni stridenti, e ripete-
favola per grandi vano che il paese era loro, che bisognava alza-
re muri e barriere di filo spinato per difendere
proprietà e razza… e altri invece si riempirono
il cervello di slides e messaggini che parlava-
no di cambiamento, velocità, progresso, la-sciando da parte etica, solidarietà e condivisio-
ne. C’erano anche tanti che si affidavano al
web e sceglievano con qualche clic i loro
rappresentanti, convinti in buona fede che
democrazia partecipata significasse quello.
Furono anni difficili, nel paese del
sole: c’era la crisi, la cosiddetta crescita infini-
ta cominciava a mostrare tutta l’imbecillità
della sua essenza, i giovani erano infuriati,
disperati e senza prospettive… Ma c’era un capo giovane e sbruffone a cui tanti credeva-
no, e lui prometteva magnifiche sorti e pro-
gressive. Certo, qualche piccolo prezzo da
pagare c’era: smantellare tutti i servizi ai citta-
dini vendendoli ai privati, distruggere la scuo-
la irregimentandola e subordinandola alle
industrie, cancellare la bellezza del paesaggio
riempiendolo di trivelle e ciminiere, saccheg-
giare i tesori di secoli trasformando i musei in
baracconi disneyani noleggiabili per feste
private… Ma in fondo, orsù, basta con queste
idee vecchie di rispetto e tutela! Bisogna cam-biare!
E poiché l’ultima, invalicabile
difesa del paese era la sua Carta Costituziona-
le, il capetto arrogante decise di giocarsi il
tutto per tutto: stravol-
gerla definitivamente
per poter comandare
liberamente. Fece
approvare la legge di
modifica dai suoi ser-
vi, e non si preoccupò molto del successivo
passaggio, il referen-
dum confermativo. Era
o non era l’unico in
grado di governare quel paese così incoerente e
scriteriato? Chi avrebbe osato tenergli testa,
con lo spauracchio della crisi, dell’Europa e
dello spread? Quei babau che avevano funzio-
nato tanto bene per tenere tutti zitti e buoni negli ultimi otto anni, facendo ingoiare attacchi
inauditi alla democrazia e al buon senso?
Bene, per farvela breve, credendosi
sovrano incontrastato del regno, il capo si buttò
a capofitto nell’impresa, caricandola di tutto il
suo carisma e delle sue spudorate comparsate
su tutti i mezzi di informazione, strasicuro di
stravincere: ma quando il gran giorno arrivò…
sorpresa delle sorprese! Una sconfitta catastro-
fica, un pugno in faccia stratosferico: nessuno
si aspettava che tanta parte dei cittadini trovas-
se il coraggio di dire NO, vuoi per difendere la sua Carta resistente, vuoi per avversione visce-
rale al pifferaio magico; qualcuno per sostituir-
lo al potere, qualcuno per razzismo e qualcuno
per demagogia telematica o per populismo.
Per una volta coerente con le sue
promesse, il capo si dimise seduta stante.
Allora tutto finisce bene, direte voi:
se i cittadini hanno detto no, e un capo se ne
va, ora bisogna scegliersene un altro con le
elezioni. Un sistema antiquato, forse, ma anco-
ra l’unico che lascia al popolo la voce per decidere.
E invece no: perché non dovete
dimenticare che siamo pur sempre in quel
paese tanto bello, ma tanto strano. Niente voto,
i mercati si agiterebbero e l’Europa pure. E poi
c’è un tale casino con la legge elettorale che la
scusa è bella e pronta… Fecero un bel governo
fotocopia, con le stesse ineffabili facce che il
60% dei cittadini aveva fatto chiaramente
capire di non volere, e anzi qualcuna che ha
così ben meritato fu promossa sottosegretario,
e sembrano voler continuare esattamente come prima.
Storie che solo qui, in questo paese
strano ma bello, possono succedere… però
proprio perché questo luogo è ben strano, cam-
minando le sue strade si incontrano anche tanti
sognatori testardi che hanno giurato di provare
a rimettere insieme i cocci e ricucire una rete di
speranze. Potete chiamarli illusi, ma guai a
sottovalutarli: siamo fatti della stessa sostanza
dei sogni, ma è una sostanza ben più dura e
resiliente di quel che credeva il Bardo… E prima o poi il mondo lo cambieremo!
Lei sta là, all’orizzonte.
Mi avvicino di due passi,
lei si allontana dieci passi più in là..
Per quanto io cammini,
non la raggiungerò mai.
Quindi, a cosa serve l’utopia?
Serve a questo: a camminare.
Eduardo Galeano☺ [email protected]
Marcella Stumpo
86043 CASACALENDA (CB ) - C.so Roma, 93 - Tel. 0874.844037
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politica
sone esperte, molte anche in buona fede e senza strumentalità, avevano previsto che
una vittoria del No al referendum avrebbe
aperto le porte ad un cataclisma finanziario,
economico e quindi sociale. Non solo non si è avuto il previsto terremoto, non solo l’Italia
non è divenuta il buco nero del sistema eco-
nomico-finanziario internazionale, ma la borsa è salita in modo significativo, il famoso
spread si è ridotto, così pure è calato il tasso
d’interesse sui titoli di stato. Come mai? Per-ché un errore di previsione così grossolano?
Certamente Draghi e la Banca Centrale Europea hanno dato una mano, ma
la questione è più di fondo ed ha risvolti più
generali. La Spagna è stata per dieci mesi senza una maggioranza politica in Parlamen-
to, senza un vero governo e solo dopo quasi
un anno e grazie all’astensione del PSOE si è
varato il nuovo governo centrista di Rajoy. Ora, e questo è il punto, durante quei dieci
mesi di vuoto di governo la Spagna ha godu-
to di una crescita economica, di un migliora-mento dei conti pubblici e di un calo della
disoccupazione che nessuno mai avrebbe
potuto prevedere. La Spagna, che sino a ieri secondo i diversi indicatori economici segui-
va l’Italia, oggi le è davanti.
Ancora più sorprendente è la vi-
cenda ultima degli Stati Uniti d’America.
L’elezione di Donald
Trump, secondo un generale convinci-
mento, avrebbe rap-
presentato una trage-dia per l’America e
una crisi economica
devastante del sistema
Questi giorni, dopo il risultato del referendum, sono molto eloquenti e insieme
altamente preoccupanti. Balza agli occhi la
stupida e autolesionista arroganza di Renzi e
dei suoi amici. Dalla storica doppiezza della Chiesa, dalla severa e talvolta tragica dop-
piezza dei comunisti siamo precipitati ai
“bugiardini” di La Piastre, una frazione di Pistoia dove dal 1966 si assegna il bugiardino
d’oro, d’argento e di bronzo. I nostri, i rappre-
sentanti del giglio magico renziano, vincereb-bero sicuramente l’oro. Ossessivamente e
con legittimità sui social, sulle televisioni,
sulla carta stampata tornano le parole, le im-
magini di ieri, quando i nostri giuravano di abbandonare la politica in caso di sconfitta al
referendum e le immagini del nuovo gover-
no, quando i nostri si abbracciano festosi come se nulla fosse accaduto. Se quello di
Renzi alla Boschi fosse un regalo sentimenta-
le, comprenderei e potrei persino simpatizza-re, ma questo non è dato sapere e sospetto vi
sia dell’altro. Non mi riferisco tanto al mondo
delle banche e agli intrighi di Palazzo che
pure sarebbe legittimo immaginare, quanto a quella vanità del potere, a quella arroganza
del comando, a quella esibizione dell’Io pro-
pria di personaggi ed epoche di decadenza. In questo senso Grillo e Renzi su due palchi
diversi recitano la stessa parte, sono due facce
della stessa medaglia. La vicenda romana
Raggi-Marra e quella milanese di Sala sono il risultato della stessa visione, degli stessi com-
portamenti, ovvero la politica nelle mani di
un uomo solo al comando, le classi dirigenti fatte da yes men e i partiti ridotti ad assembra-
menti di tifosi. Con una differenza sostanzia-
le: mentre l’esibizionismo e il narcisismo di Grillo è, ancora, oro elettorale per l’impresa
dei cinque stelle, diversamente il “superbone”
Renzi rischia di essere più un problema che
un capitale elettorale. Insisto su di un concetto che con
scarso successo ho sollevato durante la cam-
pagna referendaria. È sacrosanto difendere la Costituzione, ma perché questa difesa abbia
un senso, perché non si risolva in un atto di
testimonianza o nella difesa di un simulacro, è decisivo partire dalla crisi profonda della
democrazia e dalla perdita di significato nel
nostro mondo globale di quei principi fonda-
mentali che illuminano la nostra Costituzio-ne.
Vi è un fatto in queste settimane
post referendum che illustra bene la situazio-ne attuale. La grande maggioranza delle per-
mondo: nulla di tutto ciò è accaduto. Wall Street è ai massimi storici e ha trascinato le
altre borse del mondo. Trump certo rappre-
senta un imbarbarimento culturale e politico,
è un rischio grave per l’ambiente e la pace nel mondo, ma per ora l’economia e la borsa di
New York festeggiano.
In realtà Italia, Spagna e America ci dicono una cosa molto semplice: la Politica
è divenuta talmente leggera che è evaporata,
ormai inessenziale e impotente di fronte ai processi reali che governano la vita delle
persone e delle società. Il collasso della Politi-
ca porta con sé la crisi della democrazia,
l’una e l’altra vivono e deperiscono insieme. Pensare che questo ordine di problemi si
affronti e si risolva con questa o quella legge
elettorale è un vero delirio. La discussione che tanto appassiona fra un sistema elettorale
più proporzionale che privilegia la rappresen-
tanza e un sistema maggioritario che vorreb-be evitare il consociativismo e favorire la
chiarezza delle scelte e delle responsabilità,
ricorda la musica che l’orchestrina suonava
sul Titanic, mentre la nave affondava. La vicenda di Roma è poi para-
digmatica del vuoto nel quale siamo precipi-
tati. Questa esperienza di governo che a-vrebbe dovuto essere il vero laboratorio dei
cinque stelle e della nuova politica, si è rive-
lata un disastro totale, non solo per il torbido
operare della sindaca Raggi, quanto per il vuoto di politica e di partecipazione demo-
cratica in quelle circoscrizioni e in quei
quartieri - la quasi totalità - dove hanno trionfato i grillini. Se non si parte da questa
verità e consapevolezza faremo solo degli
illusori passi avanti e, come al gioco dell’oca, rischiamo ogni volta di tornare alla
casella di partenza. ☺ [email protected]
l’insostenibile leggerezza della politica Famiano Crucianelli
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xx regione
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Di solito parlo di ciò che accade in questa regione soprattutto dal punto di vista ammi-nistrativo. Di cosa parlare alla fine dell’anno? I vari Enti sono impegnati con i bilanci, ma non è
un argomento facile da affrontare per una profana. Che dire della Società Autostrade per il Moli-
se che, per spirito di sopravvivenza, ha deciso di modificare il proprio statuto? E poi ci sono i
treni, se ci sono ancora, ridotti a sole tre corse per il tratto Campobasso-Termoli e ritorno. In tutto questo irrompe un camion sul mercatino di Natale di Berlino a richiamare
l’attenzione su altri scenari. Un tempo di violenza che si è trasformato in una piaga sanguinante in
Siria, con Aleppo simbolo di un nuovo olocausto, e piccoli focolai che colpiscono anche la nostra cara, vecchia Europa. La strage di Berlino, ai piedi della cattedrale rimasta sfregiata in memoria
dell’orrore della seconda guerra mondiale, a due passi dallo zoo di Christiane F., è l’immagine
più precisa del tempo che viviamo. La morte per mano dell’uomo è il tema dominante anche nel periodo che ci accompagna al Natale, alle feste in famiglia, alle vacanze sulla neve. Una guerra
non convenzionale che non conosce barriere e confini. Si tratta forse di un risvolto della globaliz-
zazione che non avevamo preso in considerazione. Conquistare i mercati di tutto il pianeta era il
sogno dei grandi mercanti che non avevano pensato che quasi tutte le terre di questo piccolo mondo sono popolate e che è assurdo pensare di consentire il viaggio e l’approdo di qualsiasi
merce, ma non delle persone. Le persone, la vita, non hanno prezzo, sono beni inestimabili e
pertanto non interessano il mercato, e la politi-ca finge di interessarsene veramente. Se così
non fosse si sarebbe trovata da tempo la solu-
zione per evitare che compagnie private e non vendano armi a Paesi in guerra. Invece spesso
si decide per l’embargo, vale a dire evitare di
far giungere in quei posti i beni di consumo
che servono ai civili. Bombe si, patate no. Tutte considerazioni che ti passano nella testa proprio mentre stai pensando a come far
vivere lo spirito di Natale a tua figlia, cercando di recuperare i gesti della tua infanzia. Così mi
sono tornati in mente i fitti rami appiccicosi di vischio che mio padre portava a casa e che mia madre intrecciava con un nastro rosso (lo stesso che portavamo allacciato al collo per andare a
scuola) per appenderlo alla porta. L’agrifoglio, il pungitopo, le passeggiate nel bosco per racco-
gliere il muschio. Cose che non si possono più fare perché le piante sono protette, anche se si
tratta di parassiti. Le piante non si toccano perché dobbiamo salvaguardare la loro sopravvivenza, allora si comprano stelle di Natale coltivate in serra, magari all’estero, magari sottopagando i
lavoratori. Che fine hanno fatto i poteri magici che i druidi attribuivano al vischio? E la credenza
dei popoli germanici che chiunque si baciasse sotto i suoi rami avrebbe ottenuto la protezione di Freya, moglie di Odino? Proteggiamo le piante e ci dimentichiamo dell’uomo, della sua storia,
delle speranze e delle credenze.
Ogni anno, il 25 dicembre ci ricordiamo di un bambino nato al freddo di una grotta perché nessuno aveva voluto ospitare la sua famiglia in viaggio, eppure continuiamo a fare fatica
ad accogliere.
Poi arriva il giorno in cui ti accorgi che solo grazie all’arrivo di
bambini venuti da lontano si può riuscire a superare il limite delle pluriclassi e formare scolaresche omogenee più adatte all’attività didattica. Che la
nostra società, ormai sulla via dell’invecchiamento, può sperare di mante-
nersi in equilibrio solo grazie alla natalità di coppie di stranieri. Anche il nostro piccolo Molise è molto più grande se includiamo tra la sua popola-
zione tutti coloro che vivono all’estero. Consideriamolo uno scambio: moli-
sani che vanno e stranieri che vengono, un modo come un altro per soprav-vivere a noi stessi. ☺
la sopravvivenza sonni tranquilli Giulia Di Paola
Il voto di scambio è quel fenomeno tipico della politica italiana con cui un candi-
dato chiede il voto ad un elettore in cambio di
un tornaconto personale, di favori leciti ed
illeciti. È il clientelismo, con cui personaggi influenti o politici instaurano un sistema di
favoritismi e scambi in cambio, appunto, del
loro nome segnato sulla scheda. A volte il voto di scambio, come dice Saviano, funge da
acceleratore di un diritto, l’unico modo per
chiedere, o meglio elemosinare, un diritto sacrosanto che senza il ricatto del voto mai
sarebbe stato riconosciuto. A volte però il
voto di scambio sfocia in una vera e propria
corruzione elettorale che spesso finisce per generare un vizioso giro di tangenti e per
questo la legge punisce sia il corruttore che il
corrotto. Spesso è forte il conflitto morale fra quello che dice l’uno e quello che dice l’altro
e la differenza non è da poco conto. Ma que-
ste sono storie che non ci interessano. Nell’anno appena cominciato, co-
me sempre, le utopiche speranze vengono
caparbiamente riproposte nonostante tutto e,
tra le tante, c’è anche quella di vederci salva-guardati tutti nel turbine della scura onda
anomala che presto inonderà le nostre terre.
Speriamo vivamente, quindi, che mai potran-no interessarci storie del genere, a cominciare
dai lavori di riconversione in lager del fanto-
mi abbono a
la fonte perché
a bonefro
ha vinto il sì
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società
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Maria Antonietta Crapsi
un 2017 di lotta
caro lettore la fonte vive di abbonamenti. sostienici e allarga la rete degli amici
Ormai abbiamo avuto tempo per farci un’idea sul referendum e an-cora una volta stiamo avendo l’occasione di capire come funziona il sistema
Italia.
Quel che più mi preoccupa, soprattutto in vista dell’inizio di un nuo-
vo anno che dovrebbe essere carico di speranza, è la montata di odio tra ex sostenitori del sì e del no, l’arroganza del linguaggio usato dai politicanti, carat-
terizzato da mancanza di rispetto per l’altro nella sua integrità e lo spopolare
della violenza sui social… e nei bar. Odio e allo stesso tempo inazione. Il problema è che non abbiamo capito la grande occasione che ci ha
offerto questo referendum. L’opportunità di un cambiamento. Non sto parlando
a favore del sì, attenzione. Il referendum voleva dire che solo la partecipazione di un popolo informato può produrre cambiamento.
Non possiamo pensare di aver votato sì o no e di poter dormire sonni
tranquilli, se non siamo più capaci di pensare all’unità del genere umano, se non
siamo capaci di sentire il senso di uguaglianza, nonostante opinioni politiche diverse, se non siamo capaci di impegnarci ogni giorno per denunciare gli abusi
di potere che avvengono nei nostri comuni e che ci vedono omertosi (questa è
la mafia!), se non abbiamo il coraggio di raccontare i delitti che avvengono nei nostri ospedali, se aspettiamo ancora che il politico di turno ci possa fare il tal
favore, se ci scagliamo contro persone di colore o di nazionalità diversa che
pensiamo ci rubino il lavoro e non contro il sistema che li blocca in un posto, togliendogli la possibilità di una vita autonoma e dignitosa, solo in nome dei
fondi che riceve, se insomma non diventiamo il cambiamento che vogliamo
vedere nel mondo.
La nostra attenzione deve essere alta, abbiamo il dovere di studiare criticamente, di capire chi sono i colpevoli, chi ci vuole arrabbiati e l’uno contro
l’altro. Solo un popolo unito può vincere. Ciò non vuol dire azzeramento delle
proprie opinioni, al contrario, vuol dire lotta contro un sistema che ci vuole schiavi, sottomessi, ignoranti, obbedienti, bisognosi; contro un sistema che ha
cancellato la classe media impoverendo il popolo, che ci fa credere che possa
arrivare una sola persona (un solo politico) che possa mettere a posto tutto.
Ci stanno imbrogliando. Nessuno può salvarci se noi non siamo pronti alla lotta quotidiana. I sostenitori del sì e del no del popolo sono sulla
stessa barca e se non si smette di fare una guerra tra poveri questa barca affon-
derà rovinosamente. Buon 2017! ☺
matico villaggio fantasma, ap-pena appaltati, vedremo, vedre-
mo, definitivamente a chi!
Ecco perché, continuiamo a
bussare all’uscio del signor Luca Odevaine per chiedergli se è
vero o no che ha dato una bella
mazzetta da ventimila euro al sindaco di San Giuliano di Pu-
glia, se non altro per sapere se
l’uno deve querelare l’altro per calunnia, perché solerte com’è stato il signor Barbieri a quere-
larci per i nostri articoli, non possiamo credere che di fronte ad
una così infamante accusa non abbia fatto nulla, data l’assoluta
sicurezza del suo corretto operato di questi anni. Ecco perché continueremo a gridare a chi di dovere
di non abbassare mai la guardia. Non vorremmo ancora moti-
vi aggiuntivi perché il modello Molise venga accuratamente evitato. Con la pazienza che ci contraddistingue, come
d’abitudine, torniamo sempre sulle nostre domande.
1. Vorremmo sapere se è vero o no che ha preso una mazzetta di 20 mila euro per ospitare gli sfrattati da oltre Europa.
2. Vorremmo sapere per che cosa è indagato circa l'imbaraz-
zante storia della Circumlacuale, se ha truffato, se ha imbro-
gliato carte o corrotto qualcuno. 3. Vorremmo sapere cosa significa combattere silenziosamen-
te. Per essere più espliciti: che strada avrebbe intrapreso se
qualche mascalzoncello avesse voluto a tutti i costi piantare pale eoliche.
4. Ma questi extracomunitari verranno ospitati o sviati da qual-
che altra parte?
5. Cosa ne farà di tutte quelle opere faraoniche che ancora ven-gono costruite a San Giuliano, a cominciare dalla fantomatica
Università risultata, fino ad oggi, solo sede di una fugace appa-
rizione di Call Center? 7. Quando finalmente comincerà la tanto decantata raccolta
differenziata?
Ed ancora una volta torniamo a ripetere con fermez-za che non ci stancheremo mai di gridare, a chi ha il dovere di
vigilare, di farlo nel miglior modo possibile. A lui torniamo a
chiedere: Ma quando cazzo ti decidi a farci sapere cosa acca-
drà? Anonimus
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società
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l’informazione sul web Secondo l'annuale classifica di
Reporters sans frontières, la libertà d'infor-
mazione in Italia sarebbe addirittura peggio-
rata negli ultimi dodici mesi. Abbiamo infatti
perso quattro posizioni, scivolando al settan-tasettesimo posto (su 180 Paesi), in virtù
dell'aumentato numero di giornalisti sotto
scorta - secondo La Repubblica sarebbero tra i 30 e i 50 i giornalisti sotto protezione della
polizia - e delle vicissitudini giudiziarie di
Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, pro-cessati in Vaticano per due libri sugli scandali
della Chiesa. Nella penisola, in sostanza, la
libertà di stampa sarebbe meno garantita che
in Paesi liberticidi ed oggettivamente più pericolosi del nostro, per i giornalisti e non
solo. Ma è veramente così? Se è pacifico che
non ci distinguiamo per meriti giornalistici, al contrario degli scandinavi, da sempre in testa
alla classifica di Rsf, c'è tuttavia da considera-
re la metodologia utilizzata dall'Ong francese. Gran parte del punteggio, infatti, viene calco-
lata sulla scorta di questionari somministrati
agli stessi giornalisti e che fanno leva sulla
loro percezione di libertà. Va da sé che un giornalista italiano abbia una scala di valori
circa la libertà di stampa parecchio diversa da
quella di un collega operante in un'area stori-camente liberticida.
Il problema allora qual è? Abbia-
mo più volte accennato in queste pagine
all'assenza dei cosiddetti “editori puri” nel belpaese, ovvero di quegli imprenditori che
traggono profitto dalla qualità dei propri gior-
nali, tv, blog, più che dai finanziamenti pub-blici, dalle regalie degli amici, dalle vicissitu-
dini delle aree politiche di riferimento. Ciò
che manca è ancora una volta il tanto decan-tato mercato libero dell'editoria, da un lato, e
la schiena dritta dei giornalisti dall'altro. Per-ché l'auto-censura è la scure che si abbatte
sulle inchieste giornalistiche più spesso della
censura tout-court. Che a sua volta si è evolu-
ta nel tempo a suon di querele (come a dire, si fa leva sulla disponibilità economica dell'edi-
tore e sulla sua tenacia nel difendere i propri
redattori). C'è forse una soluzione? Ancora una volta, gioia e dolore dei nostri tempi,
torna con prepotenza la necessità di una ri-
flessione sul web. Viviamo in un'epoca che ci abba-
glia con l'illusione della massima libertà pos-
sibile, del libero arbitrio, attraverso internet.
Ma è davvero così? Un italiano su due acce-de ad internet per cercare conferme o appro-
fondimenti delle notizie apprese dalla tv.
Diciamo, per semplificare, che l'altro italiano cerca informazioni direttamente sul web. Ma
come? Nella migliore delle ipotesi, è un letto-
re esperto, formatosi sui giornali cartacei, e
cerca le notizie direttamente sui canali che ritiene autorevoli (l'edizione online dei gior-
nali che un tempo comprava in edicola).
Nella peggiore, si ritrova letteralmente som-merso da una miriade di fonti, difficili da
verificare, che gli dicono tutto ed il suo con-
trario. Fake, balle spaziali, cattivi esempi, messaggi palesemente razzisti, violenti, falsi
o volutamente mani-
polati. La cosa grave
è che gli utenti più a rischio in questa sele-
zione delle fonti sono
proprio quelli che più abitualmente si muo-
vono e s'informano su
internet: i millenials. Detti anche nativi-
digitali, i ragazzi tra i
14 e i 20 anni, costituiscono una buona fetta dello share del cyberspazio. E sono loro, in-
consapevolmente, a decidere cosa “va” e cosa
“non va” sul web. Una libertà ed un “potere”
di cui non si può disporre senza la giusta edu-cazione. Sarà il vero “libero arbitrio”? I giova-
ni in quella fascia d'età non riconoscono, anzi
ripudiano, le istituzioni nella loro interezza, comprese quelle mediatiche e sono cresciuti
con l'occhio abituato al bello, ad un linguag-
gio più simile al marketing che all'informazio-ne. Un teenager di oggi “accende” youtube
più che il tubo catodico, dando maggiore
credito ad uno youtuber coetaneo che ad un
giornalista rispettato. A torto o a ragione, questi millenials avranno guardato, con buona
probabilità, l'ultimo video di “Bellofigo” o
“Favij” ed ignorato i vari programmi di ap-profondimento che girano in tv.
La scommessa, per godere davvero
del libero arbitrio, sarebbe quella di iniziare a fare informazione di qualità anche via youtu-
be. Eppure, se si cercano esempi di giornali-
smo sul canale di Google, si fa presto ad ac-
corgersi che le inchieste dei giovani giornalisti di “Corto Circuito”, che hanno denunciato gli
interessi mafiosi in Emilia Romagna, tirano
molto meno (troppo meno) dei video blog comici, dei tutorial più disparati, via via fino
alle “scorregge” di Frank Matano. Perché? Se
nell'editoria tradizionale, per sopravvivere, c'è
bisogno di un editore (magari a trovarne uno “puro”!), su Youtube un canale tv finanziaria-
mente sostenibile ha bisogno di numeri che
anche in tv sarebbero considerati di tutto ri-spetto: occorrono milioni di visualizzazioni.
Ed è molto improbabile che la chiave di ricer-
ca “mafia”, ad esempio, venga digitata più spesso di “scorregge” (ahimè, è vero) o che
un canale di giovani reporter indipendenti sia
seguito quanto quello di un comico o di una
fashion blogger. Al netto del nostro filosofeggiare su
potenzialità e limiti del web, la risposta alla
domanda che ci poniamo è una: sta tutto nelle mani dei giovani. Vessati da modelli sbagliati,
disincantati, stanchi della vecchia politica,
della vecchia informazione, dei “vecchi” che li tengono ai margini della società, questi
giovani sono ancora la nostra risorsa e dipen-
derà soprattutto da loro se, tra qualche anno,
sguazzeremo ancora nel fondo della classifica di Reporters sans frontières o se il web ci
salverà davvero. È tutta questione di libero
arbitrio.☺ [email protected]
Antonio Celio
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convivialità delle differenze
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In questi giorni sto faticando tre-mendamente a sentire l’atmosfera natalizia.
L’attesa per il mistero cristiano, che ogni
anno si rinnova, carico di promesse, è svanita
sotto il peso delle immagini brutali che arriva-no dalla Siria. È schiacciata sotto le ruote del
tir di Berlino, dietro l’ennesima tragedia
dell’odio che si consuma nella nostra Europa. Davvero è difficile celebrare la vita che nasce
quando ad Aleppo i bambini vengono uccisi
senza pietà. Dalla Siria emerge l’immagine di un mondo che non
merita salvezza. Il
senso stesso di una
rivoluzione democra-tica (quanto poi?), in
cui è entrato anche il
fantasma dell’Isis, contro le forze di
Assad, è ormai sfilac-
ciato. Non esiste più bene e male, non esiste più torto o ragione.
Penso davvero che dovremmo fare
un passo indietro e recuperare la nostra di-
mensione umana. Per primi noi occidentali, perché l’indifferenza che seminiamo nella
rincorsa ad una vita che sia una cartolina da
mostrare agli altri, ci rende insensibili al dolo-re degli altri. Quello che mi fa paura più di
tutto è che stiamo crescendo una generazione
“abituata alla morte”. Una generazione assue-
fatta alle immagini di guerre, attentati e mas-sacri, convinta che basti cambiare canale per
dissociarsi dall’orrore. Una generazione che
schiacciando un pulsante inevitabilmente si sentirà assolta.
Tanto più la nostra conoscenza del
male aumenta, tanto più abbiamo strumenti che ci consentono di distaccarcene. Questo, in
sostanza, è quello che ci sta accadendo. La
globalizzazione che doveva portarci ad essere
una sola umanità, ci ha disgregato in tanti piccoli microcosmi.
Sarebbe già tanto se recuperassimo
un momento per dedicarci alla riflessione, in questo Natale. Se sostituissimo la lentezza
amare l’imperfetto Tina De Michele
alla frenesia, gli sguardi alle parole, il silenzio al rumore. Senza paura di mostrarci umani e
di condividere le nostre paure ed insicurezze.
Occorre amare l’imperfezione, a dispetto di
quello che è perfetto e di conseguenza non può migliorare.
Penso ferma-
mente che l’ unico antidoto al
male che esiste
sia proprio amare le imperfezioni
dell’uomo e non
inseguire la per-
fezione. Amia-moci per quello che sappiamo dare e non per
quello che vorremmo avere.
È proprio questa la grande lezione che ho appreso dall’universo delle
persone con disabilità. Il privilegio di
imparare ad amare quello che non è perfetto, di dare un peso ed un signi-
ficato ad ogni singolo atto. Ho impa-
rato anche che i miei diritti più ele-
mentari, ormai per me assodati ed intoccabili, per altre persone sono
persino chimere. Le barriere architet-
toniche, che impediscono la libera circolazione delle persone ed il loro
diritto di autodeterminarsi, sono un
prodotto dell’indifferenza. Il diritto
all’istruzione ed allo studio, per molti scontato, per tanti alunni con disabili-
tà non è pienamente realizzato. Il
diritto al gioco per tanti bambini con disabilità è calpestato dall’ insensibi-
lità delle amministrazio-
ni. Non basta gi-
rarsi dall’altro lato per-
ché tutto questo svanisca. Così come non basta cambiare canale. La verità ha sempre
un suono più forte.
Purtroppo è lo stesso germe dell’
indifferenza, spinto all’estremo e coltivato quotidianamente, che porta a calpestare la
vita dei bambini di Aleppo, ed il loro diritto al
gioco, allo studio, alla crescita e dei cittadini siriani. L’indifferenza è il vero concime
dell’odio.
Per questo, l’augurio che posso fare a tutti per questo Natale, che pure fatica
ad entrare nel mio cuore, è quello di imparare
ad amare le vostre imperfezioni e le imperfe-
zioni di chi vi sta accanto. A volte la ricchez-za si trova nei posti più inaspettati.☺
Viviana De Rosa: il matrimonio di Annunziata
Viviana De Rosa, giovane artista italiana, dopo il Liceo Arti-
stico, completato nel 1999, e la laurea in Lettere Moderne, indi-
rizzo Storico Artistico, continua i suoi studi sull’arte moderna e
contemporanea lavorando come artista indipendente, interes-
sandosi soprattutto alla tecnica materica e in rilievo in quanto, secondo l’artista, è sostanza, e tutto ciò che è sostanza è vita.
Ha collaborato in Italia con diverse riviste d’arte. Dal 2010 è
membro del circolo artistico: Cantieri Creativi. Dal 2014, lavo-
ra come docente di italiano, presso la scuola italiana Pietro Del-
la Valle in Iran, continuando a collaborare nel campo artistico
con colleghi iraniani come: Leila Faraneh, Amir Kamir. Ha
all’attivo mostre d’arte presso la sua città ed in Iran (Teheran)
presso: Cake Studio Art Vorta e Farzaneh Art Studio. Alcune
sue opere sono state acquistate per essere esposte presso le sale
della Nunziatura Apostolica di Teheran.
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vincitori e vinti
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Mode e tendenze
nell’accoglienza L’integrazione, si sa, è un’arma a
doppio taglio: se tutti i politici e gli addetti ai lavori ne parlano come della Nuova Frontiera
dell’accoglienza, unica possibilità di reale
contatto con l’Altro, dall’altra parte si tratta di
una parola che cela significati reconditi: come tutte le parole in voga, bisogna diffidarne in
prima battuta.
Una delle accezioni del termine è infatti: L'omologazione ai valori e ai
comportamenti socialmente dominanti,
spec. da parte di chi li abbia precedente-mente contestati. Questione che si deter-
mina in due movimenti: 1) omologazio-
ne, dunque un appiattimento della alterità
su dimensioni maggioritarie e 2) passag-gio da una contestazione all’accettazione
degli stessi valori maggioritari.
Dunque, se consideriamo la mastodontica macchina retorica attivata
dal sistema di accoglienza degli immigrati,
dovremmo anche pensare alla implicita con-
testazione che questi rappresentano rispetto ai valori occidentali (contestazione che non
trova canali politici per esprimersi e diventa,
dunque, omologazione e accettazione del modello forte del capitalismo-consumismo-
liberalismo occidentale).
Il tema dei flussi migratori verso l’Italia è questione alla moda, tende ad occu-
pare l’agenda politica e gli spazi pubblici (ciò
che ne resta); c’è stato un evidente sposta-
mento dal tema dell’integrazione di altri gruppi marginali (ad esempio, i folli) verso
quello dei migranti: la follia non costituisce
più un problema attuale - se non nelle occa-sioni in cui monta l’indignazione pubblica,
spinta dalle sirene del giornalismo più becero,
che approfitta di un caso isolato per costruire il mostro -; perché la follia non è più un pro-
blema? Perché c’è stata integrazione, cioè il
folle ha accettato le nuove forme di margina-
lità che la politica democratica e liberale ha concesso: nuove strutture, nuovi strumenti,
giardini e feste hanno sostituito le catene e i
manicomi. Sarebbe sufficiente rileggere Fou-
cault. Assistiamo, così, a sceneggiate un
po’ tristi, durante le quali giovani ragazzi
africani vengono mostrati in fiera, così come abbiamo fatto e continuiamo a fare con i
nostri folli, con cappelli da Babbo Natale,
perché si capisca quanto siamo bravi ad inte-grare, a ridurre il problema, a non sollevare
questioni che hanno a che fare con la Verità.
La Verità, che è quella cosa che non si può dire direttamente, ma solo costeg-
giare (come direbbe Lacan, altro maestro
attento a non cadere nelle trappole della reto-rica). Le marginalità sono potenziali momen-
ti di critica dell’esistente, e i dispositivi sociali
operano direttamente (e talvolta con le mi-
gliori intenzioni: si sa di cosa è lastricata la strada per l’inferno!) perché la contestazione
più o meno esplicita del sistema rientri nei
ranghi di una presa di coscienza della supe-riorità del modello capitalistico-consumistico.
I nostri amici migranti saranno così
felicissimi di unirsi alle schiere di Altri che seppelliranno la Verità sotto il manto della
compulsione all’acquisto.
Alessandro Prezioso [email protected]
L'uomo invisibile
La donna è un essere meraviglioso, si sa, ma
Tel. 0874 1953354
non sempre viene trattata come ci si aspette-rebbe. Purtroppo il tema della violenza sulle
donne è un argomento attuale, e molto dibat-
tuto a livello sociale, culturale e politico. Al
telegiornale si sentono storie, quasi sempre simili tra loro, di donne uccise dal marito, il
convivente o il fidanzato. A mio parere non
bisognerebbe sottovalutare nessun allarme di violenza e soprattutto non bisogna farsi ab-
battere dalla paura. Si deve trovare il coraggio
di parlare: soltanto facendo conoscere il pro-blema si può trovare una soluzione. Le donne
sono stufe di sentirsi inferiori. Le donne
vanno tutelate e rispettate, si devono
sentire protette soprattutto dalla legge. E ricordiamolo: donne sono le nostre mam-
me, le nostre sorelle, le nostre figlie!
Giuseppe Cristallo
Festa al Casone Il 16 dicembre in comunità, al Caso-ne, abbiamo fatto una festa di Natale per
scambiarci gli auguri, ma il nostro obietti-
vo non era solo questo ma un modo di aprire
la porta della comunità per accogliere le per-sone del paese e per condividere un momento
di gioia perché tutte le feste creano un clima
di pace e armonia. Abbiamo ballato, cantato e giocato a tombola. Voglio aggiungere solo un
mio pensiero a tutte le persone che soffrono,
paesi in guerra ecc... a loro nel mio piccolo
ogni anno va il mio pensiero, con la speranza che prima o poi arrivino a loro tutte le sensa-
zioni ed emozioni che fortunatamente posso
assaporare di anno in anno. Nicola Spadaccini
Le idee
non hanno bisogno di armi,
se sono in grado
di convincere
le grandi masse. Fidel Castro
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il calabrone
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Referendum, situazione romana, situazione milanese, Aleppo e i suoi bambini,
femminicidi, migranti, violenza nelle parole,
ignoranza che avanza, la Crusca e il congiun-
tivo, inutilità della lotta. Impotenza e rabbia. “Quando le
gambe mi vengono meno, il cuore mi batte
più debolmente, quando impallidisco, cado e svengo perché la minaccia del pericolo mi
toglie ogni possibilità d’azione, niente mi
sembra meno adeguato di questa condotta che mi lascia alla mercé del pericolo. Eppure,
osserva Sartre: ‘Questa è una condotta
d’evasione, lo svenimento è qui un rifugio…
Non potendo evitare il pericolo attraverso le vie normali e le concatenazioni deterministi-
che, l’ho negato, attivando una condotta ma-
gica dall’intenzione annichilente (U. Galim-berti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2013,
pp.299-300).
Annichilita decido di non esistere, di non sapere, di non essere. Tutto è stato
detto, tutto è stato vissuto, non voglio avere
arrivi, ritorni, non voglio e non so.
“Ho perso qualche dea per via dal Sud al Nord e anche molti dei per via dall’Est
all’Ovest. Mi si è spenta per sempre qualche
stella, svanita. Mi è sprofondata nel mare un’isola, e un’altra. Non so neanche dove mai
ho lasciato gli artigli, chi gira nella mia pellic-
cia, chi abita il mio guscio. Mi morirono i
fratelli quando strisciai a riva e solo un ossici-no festeggia in me la ricorrenza. Non stavo
nella pelle, sprecavo vertebre e gambe, me ne
uscivo di senno più e più volte. Da tempo ho chiuso su tutto ciò il mio terzo occhio, ci ho
messo una pinna sopra, ho scrollato le fronde.
Perduto, smarrito, ai quattro venti se n’è vola-to. Mi stupisco io stessa del poco di me che è
restato: una persona singola per ora di genere
umano, che ha perso solo ieri l’ombrello sul
treno (W. Szymborska, Discorso all’ufficio oggetti smarriti, Adelphi, Milano, 2004
p.105).
La catastrophè è quella che mi circonda, quella che ci circonda: il mondo
sono io, io sono gli altri - il mondo e la società
che mi sono intorno -. Sempre più numerosi barboni frugano nella spazzatura e sopravvi-
vono sulle panchine dei nostri giardinetti. E
poi i sommersi di oggi per antonomasia: le
migliaia di migranti sulle barche, che provano a galleggiare sui relitti, sulla gomma sgonfia
dei canotti, e viaggiano sui corpi morti di altri
dolore e impotenza sociale, Roma, 9 luglio 2015).
Non nuoto, mi lascio andare, faccio
il morto nel dire no le onde mi urtano, i sassi
mi feriscono mi rompono. La mia resilienza
è fare il morto verso lo tsunami del nostro periodo.
L’unico movimento possibile ap-pare quello del declinare. Di declinare gli
inviti, gli impegni, le responsabilità. Di accet-
tare il declino, mio e della nostra prospettiva - ingloriosamente tramontante - di civilizzazio-
ne. Ed in questo, proprio nel declinare attiva-
mente e transitivamente, di provare a ritrova-
re il senso del vivere, del muoversi, dell’andare (non necessariamente avanti). Nel
declinare intransitivo di questo qual cosa, del
nostro mondo per come l’abbiamo sinora conosciuto, dobbiamo imparare a coniugare
il declino in forme transitive. Il declinare,
infatti, va e andrà avanti ineluttabilmente da sé. Fare il morto - invece - va e andrà declina-
to da noi. Solo noi possiamo volerlo, solo noi
possiamo provare a capire come transitare in
questo interregno in corso dalla lunga transi-zione (Euli, op. cit).
Il conflitto si riattiva così attraverso
la disperazione, la passività totale del corpo gettato che sa ancora - solo ed essenzialmente
- dire no. Kai nekros enika (e da morto vin-
se), riportano - sulla stele commemorativa -
vari monumenti in Grecia dedicati a Cimone, eroe ateniese nella lotta contro i despoti. ☺
sventurati che s’avventurano, sperando di uscirne vivi, alla ricerca di una vita, a costo di
morire, tra i flutti o ormai in vista delle coste.
Le migliaia che ci guardano, con gli occhi
sbarrati, da sotto il mare (S. Caserini- E.Euli, Imparare dalle catastrofi, Altreconomia, Mi-
lano, 2012)
Chi, inesperto, si tuffa nell’acqua
ha paura dell’‘onda’ che per un attimo lo
sommerge e, nel tentativo di salvarsi, diventa malsicuro rispetto alla ‘totalità del mare’;
perde la testa, e l’angoscia che l’assale non è
più per l’onda, ma per la totalità che gli scom-
pare senza offrirgli un appiglio a cui aggan-ciarsi (Galimberti, op.cit, p.305).
Fare il morto, quindi, come forma
di lotta, come estremo, unico e disperato modo di manifestarsi e di opporsi: il corpo è
fermo, inerme e forte della sua sola fermezza.
Fino a che punto possiamo dire sì e
quando subentra il no? Io penso che dovrem-mo riprenderci la capacità e la responsabilità
di dire no. NO, non un no e però… o un no
ma comunque… Penso ci sia bisogno di dire no, un no
profondo. Io credo attual-
mente in una rivoluzione del no e ho bisogno di dire
no per rimanere umano…
No è ancora una parola che
ci consente di dichiararci umani… E io sono un uma-
no che lotta per rimanere
umano. (Curcio, 2015 R. Curcio, alla presentazione
del suo libro L’impero vir-
tuale. Colonizzazione dell’ immaginario e controllo
Loredana Alberti
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cultura
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“Ditemi come è un albero…”. Con queste parole comincia una poesia scritta nel
1960, nella Spagna di Franco, nel carcere di
Burgos. L’autore si chiamava Marcos Ana,
anche se questo non era il suo vero nome. Era nato nel 1920 come figlio di Marcos Macarro
ed Ana Castillo, e lo avevano battezzato con
il nome Fernando. Nel 1936 entrò
nell’organizzazione della
gioventù comunista e quan-do cominciò la guerra civile
spagnola diventò combatten-
te dell’esercito repubblicano.
Verso la fine della guerra fu incarcerato dai fascisti spa-
gnoli e rimase nel carcere per
23 lunghi anni. Fu condanna-to a morte e solo all’ultimo
istante la condanna fu cam-
biata in ergastolo. Una volta vennero nella sua cella e lessero la lista con i
nomi di quelli che fra pochi istanti sarebbero
stato fucilati. Marcos scese la scala che con-
duceva al cortile, ed in quell’istante vide, come in un film, tutta la sua vita passata. Nel
cortile, quando i militari si sono accorti che
Fernando Macarro Castilla non figurava nella lista, lo fecero ritornare in cella, ed i suoi
compagni lo guardavano stupefatti: i suoi
capelli erano diventati bianchi!
In carcere cominciò a scrivere e riuscì anche a trovare un metodo per far usci-
re le sue poesie. Adottò il nome Marcos Ana,
per onorare i suoi genitori che erano morti nella guerra.
Dopo la morte di Franco, Marcos
fu messo in libertà ed andò a vivere a Parigi. Smise di scrivere poesie e dedicò tutte le sue
forze alla solidarietà verso i prigionieri politici
da traduttrice ad amica Christiane Barckhausen-Canale
recitare una poesia. E cosi fui costretta a tra-durre, simultaneamente, la poesia “Venite a
vedere il sangue nelle strade…”. Questo è
stato l’inizio della mia carriera di trent’anni
anni di traduttrice simultanea. Con Marcos siamo rimasti amici
tutta la vita e ci siamo rivisti dopo la morte di
Franco a Madrid. Naturalmente io pensavo che lui doveva essere molto, molto felice di
essere ritornato in patria. Ma la Spagna che
aveva trovato gli faceva schifo. Non capiva la gente che desiderava un nuovo Franco, per-
ché ai tempi di Franco “le farmacie avevano
un orario fisso di apertura ed i treni circolava-
no puntualmente”. Credo che questa sia stata la ragione per la quale non si concedeva un
attimo di riposo. Ultimamente, grazie alla
tecnologia, ogni tanto ho potuto seguire su youtube, un’intervista o un discorso di Mar-
cos, ed ho potuto anche scaricare sul mio
lettore di e-books la sua autobiografia. Negli ultimi anni, ogni tanto, un saluto via facebook.
Niente di più, forse perché in qualche modo io
pensavo che Marcos era immortale. E così,
anche via facebook, ho saputo, il 25 novem-bre del 2016, che la sera precedente Marcos
era morto a Madrid.
Di lui mi rimangono tanti insegna-menti, tanti ricordi. Mi rimane un foglio di
carta su cui mi aveva scritto una parte di una
delle sue poesie: “La mia casa ed il mio cuore
saranno sempre aperti per te…”. Ed anche questa poesia che voglio condividere con voi:
“Ditemi come è un albero.
Parlatemi del canto del fiume Quando si copre di uccelli.
Parlatemi del mare,
parlatemi dell’ampio odore del campo, delle stelle, dell’aria”. ☺
nel mondo. E cercava tutte le possibilità per parlare ai giovani e per raccontare della vita
in carcere, ricordare i suoi compagni ed amici
che erano morti, fucilati nel cortile della pri-
gione. Marcos fece sua la lotta di ogni popolo del mondo che lottava contro dittature o con-
tro le potenze coloniali.
Nel 1965 fu organizzato nel mio paese, nella città di Weimar,
un incontro internazionale di
scrittori, e toccò a me fare da interprete a Marcos. Avevo
appena compiuto ventitre
anni, e trascorrere dieci gior-
ni a stretto contatto con un uomo che aveva passato
ventitre anni in carcere è stata
una cosa che non ho mai potuto dimenticare. È stato
Marcos chi mi ha fatto sco-
prire quanto sia grande il piacere di camminare di mattina, a piedi scal-
zi, sull’erba fresca di un parco. Ed è stato il
lavoro per Marcos, a Weimar, che mi ha
aperto la strada professionale verso la tradu-zione simultanea. Il discorso che doveva
pronunciare davanti ai suoi colleghi scrittori,
lui lo aveva scritto la notte prima, ed io lo avevo tradotto. La cabina di traduzione si
trovava dietro una tenda e non potevo vedere
l’oratore, ma con il testo scritto davanti a me,
non fu difficile questa mia prima esperienza di traduzione simultanea. Quando Marcos
finì di parlare ed io volevo abbandonare la
cabina di traduzione, si presentò un uomo che mi fece segnali: dovevo rimane-
re e tradurre il successivo orato-
re. E questi era Pablo Neruda, che inizialmente non aveva volu-
to prendere la parola. Emoziona-
to dal
discorso di Marcos,
aveva
cambiato idea. Salì
sul podio
ed annun-ciò che
voleva Fidel Castro con Famiano Crucianelli e Lucio Magri
quando si sognava un altro mondo possibile
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cultura
15
La tv trasmette da Aleppo, guerra e dolore. Un sottofondo di immagini tagliate da
rumori metallici al quale siamo abituati, come
agli spot natalizi tutti amore e calore; questi,
anzi, li seguiamo con più attenzione, forse perché ci illudono, quanto meno perché non
ci incomodano.
La tv è spettacolo e companatico, non sa raccontare la guerra e nemmeno il
cinema lo sa fare. Tanto intendeva probabil-
mente Emilio Lussu, autore di Un anno sull’Altipiano, una delle opere più importanti
della nostra letteratura sulla Grande guerra, il
quale, dopo aver visto il film Uomini e no che
Francesco Rosi aveva tratto dal suo libro, ebbe a commentare rivolto all’amico e regi-
sta: “…tu lo sai, in guerra qualche volta ab-
biamo anche cantato”. L’ho riletto di recente Un anno
sull’Altipiano e come spesso mi succede l’ho
amato più che dopo la prima lettura; penso che i giovani d’oggi, ma anche gli adulti di
oggi che dalla prima guerra mondiale sono
lontani come da Marte e da Aleppo potrebbe-
ro imparare da questo libro più che non dica-no della guerra manuali scolastici di sorta,
servizi monografici in tv, film.
Un anno sull’Altipiano è un libro singolare, non un romanzo né un diario, non
un “libro a tesi” né un libro-denuncia, piutto-
sto una raccolta accurata di testimonianze
della guerra filtrate dalla memoria di chi, come Lussu, la guerra l’ha combattuta in
prima linea sul Carso e sull’altipiano di Asia-
go quale ufficiale della brigata Cagliari. È quanto dichiara lo stesso Lussu quando, a
vent’anni da quella esperienza, nel 1937,
spiegando di aver accolto l’energico invito dell’amico Gaetano Salvemini a scrivere “il
libro”, afferma nella prefazione della prima
edizione dello stesso: “…Io non ho racconta-
to che quello che ho visto e mi ha maggior-mente colpito. Non alla fantasia ho fatto ap-
pello, ma alla memoria; e i miei compagni
d’arme, anche attraverso qualche nome tra-sformato, riconosceranno facilmente uomini
e fatti. Io mi sono spogliato anche della mia
esperienza successiva e ho rievocato la guerra così come noi l’abbiamo realmente vissuta,
con le idee e i sentimenti di allora. Non si
tratta quindi di un lavoro a tesi: esso vuole
essere solo una testimonianza italiana della Grande guerra”.
È, però, nell’esperienza umana
condivisa in tutta la sua drammaticità, è nella coscienza collettiva che si forma nel “fango”
delle trincee, sotto il fuoco incrociato delle
artiglierie, è nel confronto con l’ottusità degli
ufficiali nutriti di retorica e inadeguati al loro ruolo che sta la forza della narrazione di Lus-
su, il quale tanto vuole essere autentico, da
non indossare idee e sentimenti quali saranno i suoi degli anni successivi, quando egli sarà
colpito dal provvedimento di confino a Lipari
in quanto anti-fascista. Insomma, Lussu non giudica e non commenta, racconta con sa-
pienza, alternando le sequenze tragiche ad
altre schiettamente umoristiche, non abiura
alle convinzioni interventiste che nel 1915 gli fecero preferire il conflitto alla neutralità:
sono il non-sense della mattanza umana, le
suicide azioni d’assalto, le punizioni crudeli dei disertori, i volti dei soldati abbrutiti
dall’alcol, lo strazio dei famigliari privati di
figli, mariti, padri, fratelli a portare il lettore a costruirselo chiaro il proprio giudizio, su
quella guerra e sulla guerra in generale.
Ancora, estremamente persuasivo
è lo stile asciutto di Lussu, che con classica semplicità giustappone al quadro
crudo di una fucilazione il bozzet-
to del fanatico generale Leone, ritratto come una macchietta di
Chaplin: fango e cognac, ozio e
sangue, i colori contrastanti di una
umanità all’ultimo stadio, quello della guerra appunto.
Un episodio bellissimo
per l’ardore che vi si dispiega nelle forme apparentemente anti-
tetiche del raziocinio e della fratel-
lanza è nel capitolo XIX, laddove Lussu
racconta di un nemico
austriaco al quale egli
potrebbe ben sparare, non essendo da quello
visto, ma al quale non
riesce a sparare. Così descrive Lussu il susse-
guirsi velocissimo di
pensieri nella sua men-
te in quel mentre: “…Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o
altri mille è una cosa. Prendere un uomo,
staccarlo dal resto degli uomini e poi dire:
“Ecco sta fermo io ti sparo, io ti uccido” è un’altra. È assolutamente un’altra. Fare la
guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'al-
tra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassina-re un uomo…”. Porge quindi il fucile al suo
caporale; neanch’egli ha il coraggio di spara-
re e i due rientrano carponi in trincea. Lussu ha pensato quel che penserà
il soldato semplice di De André, Piero, che,
di fronte al nemico e pronto a sparargli dice
tra sé: “Se gli sparo in fronte o nel cuore sol-tanto il tempo avrà per morire, ma il tempo a
me resterà per vedere, vedere gli occhi di un
uomo che muore”. Piero, poeta e soldato, non spara,
ma di fronte non trova il poeta-soldato Lussu.
Tutti sappiamo come andò a finire, come per lo più finisce.
A presto.☺ [email protected]
la mattanza umana Luciana Zingaro
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spazio aperto
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dedicato a bob dylan “Non è pioggia atomica, è soltanto una forte pioggia. Non è la ricaduta
radioattiva, cioè una specie di prevedibile finale. Nell’ultima parte i
proiettili avvelenati (che) contaminano le acque indicano tutte le bugie
che alla gente vengono dette per radio o sui giornali”.
È Bob Dylan, in una intervista radiofonica del 1963. Lo scorso dicembre gli è stato conferito - non senza polemiche da parte di certa stampa con-
servatrice - il Premio Nobel per la letteratura. Spirito libero, autore di
ballate, con lo sguardo alla realtà, specie quella ignorata dai media, conti-
nua a scrivere ed eseguire le sue canzoni.
Riproponiamo la ballata A hard rain’s a-gonna fall, scritta nel 1962, che
molti hanno letto in riferimento alla crisi tra Cuba e gli USA, cantata da
Patti Smith in occasione della consegna del Premio Nobel.
A hard rain’s a-gonna fall
(una forte pioggia cadrà)
Dove sei stato, figlio mio dagli occhi azzurri?
Dove sei stato, ragazzo mio caro?
Sono inciampato sul fianco di dodici nebbiose montagne,
ho percorso e ho strisciato per sei tortuose autostrade,
ho camminato nel mezzo di sette tristi foreste, son stato di fronte ad una dozzina di oceani morti,
son stato per diecimila miglia nella bocca di un cimitero,
e una forte, e una forte, e una forte, e una forte,
e una forte pioggia cadrà.
Oh, cosa hai veduto, figlio mio dagli occhi azzurri?
Cosa hai veduto ragazzo mio caro?
Ho visto un bimbo appena nato con lupi selvaggi tutti intorno
ho visto un'autostrada di diamanti e nessuno che la percorreva,
ho visto un ramo nero e del sangue ne scorreva,
ho visto una stanza piena di uomini con martelli insanguinati,
ho visto una scala bianca tutta ricoperta d'acqua,
ho visto diecimila persone parlare con lingue spezzate,
ho visto armi e spade affilate nelle mani di bambini, e una forte, e una forte, e una forte, e una forte,
e una forte pioggia cadrà.
E cosa hai sentito, figlio mio dagli occhi azzurri?
Cosa hai sentito, ragazzo mio caro?
Ho sentito il rombo di un tuono, che ruggiva come un avvertimento,
ho sentito il fragore di un'onda tale da sommergere il mondo intero,
ho sentito cento suonatori di tamburo con le mani in fiamme,
ho sentito diecimila sussurrare e nessuno ascoltare,
ho sentito un uomo morire di fame, ho sentito molte persone ridere,
ho sentito la canzone di un poeta morente su un marciapiede,
ho sentito il suono di un clown che piangeva nel cortile,
e una forte, e una forte, e una forte, e una forte,
e una forte pioggia cadrà.
Oh, chi hai incontrato, figlio mio dagli occhi azzurri?
Chi hai incontrato, ragazzo mio caro? Ho incontrato un bambino accanto ad un pony morto,
ho incontrato un uomo bianco che camminava con un cane nero,
ho incontrato una giovane donna con il corpo in fiamme,
ho incontrato una giovane ragazza che mi ha donato un arcobaleno,
ho incontrato un uomo ferito dall'amore,
ho incontrato un altro uomo ferito dall'odio,
e una forte, e una forte, e una forte, e una forte,
e una forte pioggia cadrà.
Oh, e cosa farai ora, figlio mio dagli occhi azzurri?
mare nostro che non hai pietà
Come pulsa il Mediterraneo in questi anni batte d’uomini e donne mai nati o nati lontano
bambini al germoglio, fiori sfibrati.
Come grembo di Madre li accoglie
(mater dolorosa) e li rende al Padre
nelle doglie di schiuma alla riva
a volte non protegge l’amniotico d’onda
anzi straripa nel pianto alla deriva
li scaraventa sulla rena nel parto contro natura
coprendo d’un velo le membra irrisolte.
La terra li accoglie, balsamo unguento per sepoltura
issando la croce di fuoco in alto, più in alto
sull’altura dei senza nome, monte di carità. Come s’inebria il Mediterraneo in questo scorcio di tempo
si nutre del sangue, rosso come gli altri, i tutti, i tanti
i sempre uguale, lo stesso sangue del mondo
eppure diverso, profondo: il nostro. Perché?
Mare nostro che non hai pietà!
Com’è triste questo mare nel tempo ingordo
ara sacrificale dove l’agnello adagia la testa
già scalfita dal forcipe infame dello scafista “redentore”.
Com’è gravido questo mare
di ricordi, barche e migrazioni d’altro legname
triremi e mercanti e placche d’avorio come scambio tra le rive Fenici e spezie e broccati di conquiste per la storia.
Poi, altro sangue, è vero, d’Annibale e Romani, Saraceni…
Come vibra questo mare calmo, sparviero
in questi giorni di maree umane e piovre
cosa resta agli “allunati”: un pezzo di carta
con numero annesso del magnaccia balordo
senza gloria, senza faccia, nei segreti, nelle stive
pronto all’assalto, la minaccia al primo spasmo di ribellione.
Come esplode d’amore questo mare
negli approdi di “plastiche” isotermiche
eroi in divisa d’ordinanza e acrobati d’umanità
“foraggio” nella confusione, nei porti nelle case negli ambulatori, nei camici bianchi solitari.
Formiche laboriose di comprensione
basteranno in questo sciabordio di guasti flutti?
Come pulsa questo mare… di relitti.
Enzo bacca
[email protected] ([email protected])
Cosa farai ora, ragazzo mio caro?
Andrò via prima che la pioggia incominci a cadere,
camminerò nel profondo della più profonda e nera foresta,
dove la gente è tanta e le loro mani sono completamente vuote,
dove i proiettili avvelenati contaminano le loro acque, dove la casa nella valle incontra la umida e sudicia prigione,
dove il volto del boia è sempre ben celato,
dove brutta è la fame e dimenticate son le anime,
dove nero è il colore e zero il numero,
e lo dirò, lo penserò, lo pronuncerò, lo respirerò,
e lo rifletterò su una montagna così che tutte le anime possano vederlo,
poi starò sull'oceano fino a quando incomincerò ad affondare,
ma saprò bene la mia canzone prima di incominciare a cantare,
e una forte, e una forte, e una forte, e una forte,
e una forte pioggia cadrà. ☺
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società
17
lo scandalo della democrazia Antonio De Lellis
se ti abboni la fonte continua a scorrere. non farci mancare il tuo contributo
È una fase salutare per la democra-zia della nazione soprattutto per il congiunto
effetto della partecipazione e del risultato
referendario che ci ha visto premiati dall’
alleanza dei “nonni con i giovani”, dei parti-giani e costituzionalisti attempati e le forti
argomentazioni che hanno avuto presa sui
giovani. La protesta sembra questa volta abbia preso una strada salutare per la nostra demo-
crazia con il rischio scampato di una modifica
costituzionale pericolosa, maldestra e accen-tratrice. Ma lo sguardo si amplia anche agli
altri due fatti di rilievo: l’incontro mondiale
dei movimenti popolari in dialogo con Fran-
cesco e l’elezione di un leader divisivo a capo della più grande “democrazia mondiale” capi-
talistica e negazionista (vedi ambiente, armi,
migrazioni ecc.). La partecipazione all’evento con
papa Francesco mi apre a tematiche come
quelle dell’attivismo dei movimenti sociali, del debito e delle migrazioni. Traendo spunto
proprio da queste ultime sottolineo come nella
dichiarazione finale dell’ultimo incontro dei
movimenti popolari si legge: “siamo creditori di un debito storico, sociale, economico, poli-
tico e ambientale che deve essere saldato”. È
un’espressione che rovescia la visione del mondo e pone i popoli sfruttati, non tra i debi-
tori dei ricchi, ma creditori degli stessi e non
solo da un punto di vista economico e finan-
ziario, ma anche da un punto di vista sociale, ambientale, storico e pertanto politico. E que-
sto perché i processi di colonizzazione, vecchi
e nuovi, in ogni parte del mondo di fatto han-no depredato, sottratto, estratto oltre ogni
limite risorse naturali, corrotto governi, causa-
to conflitti e guerre lasciando la loro scia di sangue, violenze e umiliazioni. Se il debito, e
il suo inseparabile credito, diventa una lente di
ingrandimento con cui guardare alla globaliz-
zazione culturale, economica, ma purtroppo non ancora umana, allora diventa fondamen-
tale ascoltare persino come l’esodo epocale di
milioni di persone, descritto da Carlos Meren-tes, viene letto proprio alla luce di questo
rapporto che non è più solo di natura econo-
mica. Carlos, che vive al confine tra Mes-
sico e Stati Uniti, offre un pensiero straordina-
rio e aperto ad una visione del debito più am-
pia: “E se l'enorme debito sociale generato dal brutale saccheggio dei colonialisti di ieri e di
oggi non è mai stato risarcito, è come una
forma di riscossione di tale debito che, secon-do me, va interpretato il fenomeno migratorio,
a cui dunque bisogna guardare come una forma di resistenza contro il destino a cui il
capitale ha condannato le persone migranti,
una lotta per non scomparire in un sistema in
cui è negato loro un posto”. Ma il meccani-smo del debito, con riferimento alle migrazio-
ni, può essere visto, da tutte e due le facce
della medaglia: da una parte infatti genera povertà e quindi causa flussi migratori impo-
nenti, dall'altra, lo stesso sistema o economia
a debito, generando austerity e povertà anche nei paesi che dovrebbero accogliere, finisce
per essere combinato con le politiche di re-
spingimento, causa di ulteriore esclusione. La
morale che se ne deve trarre, secondo Guido Viale, è: negare i più elementari diritti a pro-
fughi e migranti, creando un
bacino di apartheid in ogni paese, non serve a difendere
i “propri” concittadini, ma è
solo un banco di prova e di sperimentazione di mecca-
nismi di dominio e sfrutta-
mento da estendere progres-
sivamente a tutto il resto delle forze di lavoro e al 99
per cento della popolazione.
Scendendo nel pratico, si è affron-tata la necessità di alleanze territoriali proprio
su un tema come quello delle migrazioni e
dell’accoglienza bene comune. Proprio per-
ché ci sono segnali contrastanti anche all’interno del nostro mondo si è avvertita la
necessità di partire da quelle prassi positive
che, creando relazioni sociali, culturali ed economiche, smontano i luoghi comuni e
consentono di aprire dei varchi ad esempio su
temi specifici come il diritto di asilo. Emerge la necessità di smascherare e di incanalare la
rabbia, trasformare i sentimenti creando gli
anticorpi sociali e culturali. La realtà che è
dinanzi a noi è quella di popoli non più solo sfruttati, ma poveri, senza territorio, spaesati e
in colpa (debito). È necessario tagliare le
gambe all’immaginario collettivo, sempre fomentato da una attività forsennata e terrori-
stica di alcune reti televisive, e tornare al
principio di realtà con elementi di strategia e
al tempo stesso di utopia. Ed è in questo sce-nario che avverto come la democrazia viene
sempre subdolamente considerata dai poteri
forti e dalla propaganda come un disvalore.
Il tema delle migrazioni è il filo conduttore per parlare della rabbia sociale,
della disgraziata abilità di individuare i bersa-
gli umani invece delle logiche di potere. Smontare l’immaginario allora significa dire
qual è la funzione sociale dei migranti, parla-
re dei mestieri che non facciamo più, dello sfruttamento sociale che in loro è più eviden-
te, del fatto che pagano tasse e contributi e
della necessità di alleanze tra disoccupati. Ma
le idee camminano sulle gambe delle perso-ne! E allora quali testimoni del nostro tempo
potremmo valorizzare? La
valorizzazione deve avere anche uno sbocco politico?
Dobbiamo individuare e ac-
compagnare dei giovani all’attività politica? O do-
vremmo considerare che sen-
za accumulazione sociale non
vi sono leader? Pescare nello stagno striminzito che abbia-
mo o contribuire a formare
uno spazio più ampio, un lago? Non abbiamo elaborato ancora cos’è il potere e abbiamo
dimenticato il contropotere! Forse allora
dovremmo prendere in considerazione
l’obiettivo non solo di individuare eventuali giovani dediti all’attività politica, ma quello
di avviare un “vivaio politico”. E tutto questo
dentro quale narrazione? Quale conoscenza condivisa? Forse allora abbiamo bisogno non
solo di una contro-informazione, ma di una
contro-narrazione e di una rottura culturale, di mostrare lo scandalo di chi ha osato e di qua-
le strada ci ha indicato.
Il rischio che corriamo è quello di
una espropriazione culturale pericolosissima che ha esempi storici preoccupanti (esempio:
propaganda nazi-fascista contro gli ebrei).
Abbiamo bisogno di esempi virtuosi che producano senso e diano una contro-
narrazione del potere. ☺ [email protected]
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letti per voi
18
Non sono stata la maestra di
Laura Colabel-
la, ma per la
sintonia che sempre ha lega-
to le insegnanti
di Bonefro, gli alunni di cia-
scuna erano
considerati gli alunni di tutte e
tutti i bambini restano impressi nella nostra
mente con le loro caratteristiche e la loro
personalità, con le loro eccellenze e le loro carenze.
Ricordo la piccola Laura, solare,
socievole, con un normale profitto scolastico e adesso la ritrovo donna e che ha addirittura
pubblicato un libro! Ho letto il suo libro Per-
ché il tempo ci cambia; è un testo autobiogra-fico piacevole, semplice e immediato nel
linguaggio, interessante nel contenuto; certa-
mente apprezzato da chi sta o si pone in certe
problematiche come la consapevolezza e l'evoluzione personale. Lo stile della scrittura
è familiare, colloquiale, per niente ricercato;
l'autrice, infatti, non ha ambizioni letterarie e ammette con umiltà i suoi possibili errori: il
suo scopo è di tutt'altra natura: voleva lancia-
re un messaggio e ci è riuscita.
In questo libro Laura ha messo a nudo, con coraggio, tutte le sue fragilità e
racconta come, con altrettanto coraggio, ha
ripreso in mano la sua esistenza per tornare a vivere con passione. La fragilità assume qui
un’accezione di positività, non è un chiudersi,
un autocommiserarsi ma è ciò che intende la parola latina frangibilis: tutto ciò che si può
spezzare; spezzarsi dunque come un pane
buono che riconosce di essere fatto per gli
altri. Il sentirsi piccoli, vulnerabili è anche lo stato che consente di percepire l’infinito, di
svelare quello che si trova al di là. E quindi la
fragilità, accettata, diventa l’arma più potente. La storia di Laura che “rinasce
dalle sue rovine”, mi ha fatto pensare inoltre
ad un’antica arte di riparazione praticata in
Giappone. Per i giapponesi la rottura di un
oggetto non è la fine; essi riuniscono i fram-
menti legandoli con una polvere d’oro o
d’argento, le fratture diventano così una tra-ma che rende l’oggetto unico e prezioso. Il
kintsugi, così si chiama questa pratica, sugge-
risce paralleli suggestivi: le ferite, le cicatrici delle nostre esperienze dolorose sono le cose
più preziose che possediamo perché è dalle
cose più fragili che impariamo ad essere forti e, dalle lezioni che esse ci danno, può iniziare
la faticosa quanto avvincente conquista della
felicità .
Un altro significativo spunto di riflessione che il libro mi ha offerto è che
dovremmo correre il rischio di riscoprire la
nostra autenticità, averne fiducia e sentire, pensare e agire in base alla nostra verità.
Spesso viviamo subendo forti condiziona-
menti, diventando la persona che i nostri genitori, la nostra cultura (e forse noi stessi),
si aspettavano che diventassimo. Ma noi chi
siamo veramente? Cosa vuole la nostra ani-
ma? Spesso confondiamo ciò che siamo con ciò che crediamo di essere eppure sentiamo
che in noi abita un’atmosfera speciale,
un’unicità che però è coperta dalle maschere che indossiamo, dai ruoli che recitiamo, dagli
ingannevoli luoghi comuni che facciamo
nostri fino a non riconoscerci più.
Quando si perde il proprio posto nel mondo, l’anima urla il suo disagio: ci si
ammala.
Laura attraversa malattie impor-tanti, momenti di grande disperazione, ma
proprio lì, dove vi è il dolore, è possibile una
crescita enorme. All’improvviso ella incontra gli Angeli, questi esseri di luce che le cambia-
no la vita.
Nulla avviene per caso, c’è un
tempo per tutto e tutti abbiamo il potere di liberare la nostra energia che guarisce e dà la
forza di andare avanti. Il contatto con il divi-
no può aiutarci a connetterci con la consape-volezza di essere parte di un mistero più gran-
de e dell’esistenza di una forza universale
d’amore che muove questo mondo e questa vita. Laura si salva.
Oggi è una donna
felice: ha deciso di
offrire, con disarmante sincerità, la sua espe-
rienza al mondo, per-
ché il suo passato fatto di tristezza e di dolore
possa essere d’aiuto agli altri e ci ha insegnato che solo se troviamo la forza di seguire il
nostro cuore e la nostra intuizione, solo se
abbandoniamo obblighi, doveri imposti e
convenzioni, vivremo per davvero con passio-ne e autenticità.
Grazie Laura. Grazie a questa
bella anima affine, che ho incontrato quando avevo bisogno proprio di lei; grazie per
quest’amicizia che sta nascendo e che consi-
dero un dono. ☺ Carolina Mastrangelo
Erano tre Magi
e venivano dall’Oriente. Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.
Sapienti che leggevano le stelle.
Seguivano la Cometa
per andare a Betlemme
attratti dall’annuncio dei Profeti.
Traversarono deserti e monti
sostarono a Gerusalemme
presso il re Erode
ansioso di sapere i loro disegni.
Giunti alla meta trovarono un Bimbo
con umili panni in una greppia. Un virgulto di grazia e tenerezza
in una grotta accesa di luce.
Lo adorarono. Offrirono doni:
oro incenso e mirra.
Si unirono ai pastori
che dinanzi al Presepe
cantavano la gloria del Signore.
Poi per altri sentieri
fecero ritorno, ieratici, solenni.
E mentre Erode nella sua reggia
tramava grevi propositi
riguardo al Bimbo, i saggi meditavano nel cuore
ciò che avevano visto e udito.
E montando sui loro cammelli
con leggiadra andatura,
pieni di stupore e lieti pensieri
tornavano ai loro cieli
a scrutare le stelle.
Lina D’Incecco
i tre magi
la fonte febbraio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte febbraio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte marzo 2005 la fonte gennaio 2017
libera molise
19
al Nord, i disoccupati rispetto agli occupati, i
giovani rispetto agli anziani”. Le periferie, il Sud
d’Italia, i disoccupati e gli inoccupati, i giovani
sono oggi i soggetti che vivono e abitano i margi-
ni, i luoghi (fisici e metafisici) abbandonati, reiet-ti, lontani… Ma che fare allora?
È assolutamente necessario in questa
fase di grave recessione economica riprendersi in
mano gli strumenti della politica, che sono princi-
palmente la partecipazione responsabile alla vita
del paese e definire, il più precisamente possibile,
un cammino, un percorso che si vuole fare: ricon-
quistare, cioè, un minimo di dignità civile dopo
più di venti anni di scurrilità, di licenziosità, di
prepotenze e di supposta ma inesistente cultura
civile e politica; tentare di sostituire l’intera classe
politica di oggi, in prevalenza corrotta e incapace, confrontandoci sempre e comunque con la socie-
tà civile ma nello stesso tempo cercare di articola-
re un minimo di progettualità condivise per torna-
re a farsi sentire e a contare nelle
istituzioni, dalle più modeste
apparentemente (comitati di
quartiere, per esempio) al Parla-
mento nazionale. È ora che la
cosiddetta sinistra muova i passi
verso questa direzione e mostri di
poter essere seria come lo era negli anni in cui ha contribuito
(soprattutto con criticità veemen-
te) alla costruzione del Welfare
state e a tutta la stagione lunga e
proficua delle riforme. Oggi la
riforma più seria e necessaria per
tornare a livelli di corresponsabi-
lità civile è lasciare i “margini”, la
“periferia” della presunta e spoc-
chiosa superiorità culturale ed etica e rituffarsi tra
la gente, vivere seriamente all’interno del territo-
rio. Qui milioni di cittadini attendono che qualcu-no torni ad accendere il fuoco della passione
politica e civile… Che grande e bella scommes-
sa!!!
Vorremmo salutare tutti con una poe-
sia kurda, augurando al popolo kurdo di conse-
guire la necessaria unità nazionale inseguita fati-
cosamente e rabbiosamente da molti decenni…
Ho ascoltato l’acqua
che cantava per le rive,
ho ascoltato gli uccelli
che cantavano per gli alberi, ho ascoltato gli alberi
che cantavano per la primavera
ho ascoltato la primavera
cantava per il poeta:
quando guardai il poeta
si scioglieva
pezzo per pezzo e diventava fuoco.
(Lafit Halmat - poeta kurdo, XX secolo)☺
mente i nodi della crisi.
Il secondo elemento, molto preoccu-
pante, riguarda la necessità di trovare per l’inizio
del 2016/2017 altre decine e decine di miliardi di
euro, che rappresentano una delle venti rate, imposte dall’odioso fiscal compact (che Monti ha
imposto all’interno della Carta Costituzionale del
nostro Paese senza che ne avessimo l’obbligo di
farlo, ma soltanto perché il senatore imposto da
Napolitano è stato in buona sostanza l’elemento
di spicco in Italia delle banche e dei colossi finan-
ziari che controllano la vita dei paesi d’Europa),
vera e propria maledizione agli occhi di una parte
percentualmente ampia della popolazione e,
guarda caso, proprio di quella
economicamente più debole ed
indifesa. L’Italia ha sei milioni
di analfabeti di ritorno; quattro
milioni e mezzo di persone in
povertà assoluta; un milione e
centomila bambini in povertà
totale; quasi nove milioni in
povertà relativa. Nelle città si vive
isolati e impauriti. Ma la povertà
più grave è quella delle relazioni,
che fa sentire sempre più indifesi
e incapaci di una risalita sociale soprattutto i giovani: il telefonino,
il tablet sono gli strumenti oggi
della comunicazione; quindi, di
una comunicazione virtuale e non
reale né concreta; di qui, la depressione di mi-
gliaia di giovani sempre più solipsistici ed isolati.
Questa è una patologia seria all’interno della
società di oggi, che rischia di divenire un cancro
se non si suppongono interventi non solo legisla-
tivi ma anche culturali. La solitudine è il male di
questi ultimi cinquant’anni, degli anni che sono
succeduti al boom economico che, a sua volta, ha partorito nel tempo quello tecnologico. Alla paro-
la e al dialogo si sono sostituiti gli strumenti o-
dierni della comunicazione, che tutto sono tranne
che comunicativi nel senso proprio e completo
della parola.
Ma c’è un altro elemento di riflessione
che raccogliamo da un pensiero dello storico
Piero Bevilacqua. In un suo articolo apparso
qualche settimana fa su Il Manifesto il prof. Bevi-
lacqua dà inizio alle sue considerazioni, sottoline-
ando alcuni concetti speculari alla nostra analisi. Parla di rilevanti aspetti emersi dal voto referen-
dario del 4 dicembre scorso. Hanno espresso in
massima parte il NO alla revisione costituzionale
proposta da Napolitano-Boschi-Renzi “la perife-
ria delle città rispetto al loro centro, il Sud rispetto
Cosa è il margine? Su un foglio è lo
spazio bianco non occupato dalla scrittura. È la
parte finale di una superficie: per esempio, il mar-
gine di una stradina, il margine di un bosco, cioè
la parte scoperta. È la quantità di tempo che si ha a disposizione: hai un margine di tempo e quindi
non ti affretti a concludere quello che stai facendo.
Poi nota è la frase: hai un margine di errore che
puoi commettere. C’è, tra l’altro, la locuzione
prepositiva “in margine a”. Ma c’è, molto nota,
anche un’altra locuzione, vivere ai margini della
società, che significa trovarsi in una condizione di
emarginazione sociale, ma anche accettare uno
status di vita che determina la contestazione dei
valori fondanti di una comunità piccola o grande
(nazionale), o semplicemente voler dare una mano
ai ceti non abbienti delle città a prendere coscienza del loro stato, a sapersi organizzare e poi a propor-
re condizioni di vita completamente differenti.
Dopo la seconda guerra mondiale, negli anni della
ricostruzione postbellica, a cavallo fra gli anni
Cinquanta/Settanta del secolo scorso, c’è stato un
vero boom di scelte di vita alternativa che colloca-
vano le persone ai margini del sistema borghese
dominante: pensiamo alla beat generation, alle
proposte delle comuni agricole o alla presenza
utile e necessaria di intellettuali nei quartieri più
poveri delle città che sceglievano consapevolmen-te di condividere condizioni di vita disagiate,
arricchendo tale esperienza con argomentazioni
che finivano con il contestare la società contempo-
ranea e i modelli di sviluppo che questa aveva
scelto. Ma vivere ai margini della società oggi
vuol dire soprattutto essere poveri, scivolare nella
miseria più cupa, conoscere l’inferno della priva-
zione di ogni elementare supporto di vita dignito-
sa, significa essere additati come soggetti scomodi
e pericolosi - cosa che umilia e sconforta maggior-
mente chi è costretto dalla sopraggiunta povertà a
vedersi emarginato ed escluso -. Libera ha promosso già da quattro e
più anni la campagna nazionale ed internazionale
di “Miseria ladra” per coinvolgere le istituzioni,
la classe politica, il Parlamento italiano e europeo
di Strasburgo, a fare un’analisi seria sulle condi-
zioni di vita, oggi nel nostro Paese, di una grande
fetta di società civile che è scivolata, senza volerlo,
verso livelli preoccupanti di indigenza, di esclusio-
ne sociale. Giuseppe De Marzo di Libera è
l’anima di queste lotte.
La crisi economica è aggravata da due elementi: il primo è costituito dal degrado istitu-
zionale e da quello etico/morale che sta provocan-
do una nefasta corruzione del sistema e un sostan-
ziale disinteresse da parte del governo attuale e di
quelli che lo hanno preceduto a risolvere concreta-
abitare i margini Franco Novelli
la fonte febbraio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte febbraio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte gennaio 2005 la fonte marzo 2005 la fonte gennaio 2017 20
pillole di lupo
sul monte bianco Tornato dal camino di Santiago, mi
inoltro nella preparazione di quell’altro camino
che mi dovrà portare sul tetto d’Europa. I tempi
sono un po’ stretti, ma ciò non mi impedisce di
iniziare la preparazione. Carmelo, del C.A.I. di Isernia, mi chiama per darmi un nome ed un sito.
Elis, il nome della guida e www.peackshunter.it
il sito dell’organizzazione. Prendo contatto e ci
mettiamo d’accordo per scambiarci le info ne-
cessarie a definire il cammino che mi dovrà
portare sul Bianco.
E squilla il mio diavoletto: “se conti-
nui con le tue elucubrazioni, sul tetto d’Europa
ci vedrai, forse, arrivare gli altri!” Cosa succe-
de? Forse che la determinazione nel raggiungere
gli obiettivi è stata lasciata nel camino di Santia-
go? Consapevole di essere in ritardo nella prepa-razione, sprofondo nelle analisi dei perché. Bom-
bolo si è rotto i piedi e Biancaneve sta perdendo
la testa. Un suono rimbomba nel silenzio di
questo vagabondare dei pensieri. È lo squillo del
mio cellulare. Il figlio giocoliere mi chiede a che
punto sono con l’allenamento per il Bianco. “Si,
sono in ritardo, ma conto di mettermi in linea”;
contemporaneamente, arriva la chiamata del
figlio economista. “Papà, andiamo sul monte
Amaro per fine Maggio?” Beh, i segnali sono
decisamente un spinta alla preparazione: “I sogni si realizzano se acciuffi la determinazione nei
fatti concreti, e, nel mio caso, significa unica-
mente corri Francesco, corri!”.
L’ebbrezza dei pensieri può diventare
come il gradito uovo sbattuto che al mattino
delizia il palato.
Ed eccolo, Lui, il diavoletto interno.
La fuga nel razionale del sogno, disperde
l’energia vitale, quella, cioè, che arricchisce le
energie interne. I movimenti, quelli che ti per-
mettono di avere l’esistenza che cerchi, affonda-
no i passi nel cammino incerto della ragione, ma non alimentano le ragioni. I fallimenti utili sono
quelli che ci scuotono, ma spesso ci adagiamo ai
bordi del camino a compiacerci della merda che
gli altri incontrano! vero Frank? Frank, sul
Bianco con le tue pippe solitarie troverai Grazia
e Letizia, ma per farti compagnia nei cieli più
alti. Ahi, Il Diavoletto, comincia ad essere inva-
dente, sconcertante ed irriverente.
Scorro gli appunti sull’allenamento.
Da Settembre 2015, e forse anche prima, “gioco
con il tempo”, che implacabile scorre! Tabelle, indici, intuizioni, memorie sopite … sì, è proprio
un viaggio, un camino violento su di me ed i
miei sogni. Sogni condivisibili, ma unici.
L’implacabile Sparta è nel tratturo del suo vivere
lungo i propri anni e le sue aspirazioni. Il 4 Mag-
Franco Pollutri
gio ho percorso il mio primo tratto di 4 km in
corsa a velocità minima e dovrò arrivare ai 5/6
km al minuto! Ce la farò? Intanto, mentre scor-
rono 47 anni, da quell’altro 4 Maggio del 1968,
che sommati ai miei 18 di allora fanno 65, “quei ragazzi del ’68”, che passarono la loro gioventù
di “adolescenti innamorati” nelle tende Divine,
preparano il loro evento. La data fissata è il 30
Maggio. Qualcuno si rivedrà dopo 44 anni pas-
sati tra tende diverse, ma, chissà perché, nono-
stante le tante strade percorse, camini diversifica-
ti, questi giovanotti sessantenni conservano
l’entusiasmo che li vide in quelle tende. Foto,
racconti, memorie e battute, costellano di com-
menti il gruppo raccolto in quel nuovo strumento
mediatico di WhatsApp. Ma il tempo e gli impe-
gni fanno allontanare “il tempo di ritrovarsi”. L’incontro viene annullato!
E, grazie a mio figlio Daniele, salgo
sul M. Amaro, intrecciando il mio camino con il
suo e quello dei suoi amici. Due foto, in una
sono al suo fianco e nell’altra sono dietro di lui,
mi raccontano la metafora dell’educazione e del
mio vissuto con i miei figli e con lui in particola-
re: un padre “cerca” di stare di fianco al figlio
mentre cresce e poi, man mano, si mette dietro
senza mai diventare invadente e cercando di
rendersi inutile! “L’inutilità” di un padre è la ricchezza di un figlio; un padre “inutile”, diven-
ta finalmente “utile alla vita”.
Il 26 Giugno, dopo altre “scarpinate
sull’Amaro”, salgo sul mio Vecchio Sassone da
Prati di Tivo affrontando un dislivello di 1.500
metri in quattro ore e scendendo poi con meno di
due ore per “rivedere” il mio amico Isse e sua
moglie. È il primo “44”, 44 anni passati su strade
diverse. Che bello! emozioni raccolte in un mo-
mento che ha annullato il tempo: una birra
insieme e sembrava che il tempo non fosse mai
passato. Il ritorno, invece, mi catapulta in un attimo nella dimensione reale del vivere: Un
colpo di sonno fa deviare la mia macchina, per
fortuna, o, come al solito, il mio “segreto protet-
tore”, impedisce che io possa raccontarlo e mi
ricorda che le sfide si vincono se rimaniamo
attenti a noi stessi ed alla vita. L’esistenza di
ciascuno di noi si colora dei vissuti individuali,
che talvolta inaridiscono il quotidiano, ma quella
ricchezza, custodita nei cuori e nelle esperienze
condivise, permette che ogni giorno, fintanto che
staremo a raccontarci e vederci, si alzi un arcoba-leno sui nostri orizzonti. Ancora di più, se ci
fosse ancora un dubbio, mi convinco che gli
amici sono una ricchezza insostituibile ed il
tempo per vederli è sempre un tempo prezioso.
Ed è così, nell’incerto evolversi del
“camino sul Bianco”, che giunge il giorno della
partenza. Allenamento, indumenti tecnici, deter-
minazione … mah, l’allenamento effettuato non
mi convince: sul M. Amaro non sono riuscito a
raggiungere la vetta, fermato da minacciose nu-vole, anche se il dislivello di 2.100 metri circa,
affrontato nel salire, mi lascia qualche margine di
buona riuscita lassù sul tetto d’Europa. In ogni
caso il tempo inesorabile ha bruciato i programmi
e le buone intenzioni di effettuare un allenamento
significativo. Il 10 Luglio parto e, lasciandomi
attraversare dalla ricchezza dei ritrovati
“compagni di vita” nelle cime dei “44 anni”,
“salgo il mio secondo 44” per incontrare Paolo e
la sua famiglia a Torino. Un giorno incantato di
ricordi, impreziosita anche dalla presenza di
Dario e sua moglie, anticipa la salita oltre i 4.000! “Non sono all’altezza”. Probabilmente
tale dimensione rappresenta la cosiddetta norma-
lità che ferma e frena i nostri camini, ma essa,
quasi sempre, è il famoso scoglio interno che ci fa
vedere rocce granitiche e non rocce di cartone! Sì,
rocce che determinazione, buon senso ed ocula-
tezza nella scelta degli “attrezzi” tecnici ed esi-
stenziali, permettono a ciascuno di noi di andare
in quell’oltre che ci permette di rendere possibili i
sogni e condividere emozioni.
E domenica 17 Luglio, S. Alessio, alle 8,40, in cima al Bianco a 4.810m., “il capo bran-
co, lupo dei lupi nei propri camini”, trainato tra
gli splendidi ed insidiosi ghiacci del Bianco dalla
sua tenace guida, Elis.ir dei 4.000; disorientato
dalla crisi ipotermica, dalla fatica e dall’altitudine;
senza occhiali e senza piccozza, incautamente
lasciati nello zaino; percorso l’ultima ripida via
che portava in cima, s’inginocchia nello splendo-
re dei paesaggi e della meta raggiunta. Lassù,
proprio lui, affabulatore di parole, perde la parola
e piange. Sotto un cielo dipinto di blu ed un cle-
mente sole mattutino, ogni parola si ferma. Fer-mo, su quella cima, con gli occhi immersi sugli
orizzonti che sovrastano cime e uomini, lo Sparta
di ieri comprende che si può, si può andare oltre i
propri confini, se determinazione, coraggio,
paura, allenamento, storia, pensieri, tempo ed
emozioni vengono condivisi e perseguiti; se si
accetta la condizione della propria povertà esi-
stenziale e limiti; se si comprende di aver bisogno
dell’abbraccio dell’altro e degli altri per andare
oltre ed Oltre cime, sogni e ragioni e se si custodi-
sce gelosamente l’abbraccio di chi condivide nel quotidiano i tuoi passi.
In ginocchio, le racchette al cielo,
Lupo Grigio, nel caldo tepore della sua vita e dei
suoi sogni, sul tetto di un’Europa sconvolta dalle
proprie contraddizioni, persa la sua armatura,
abbandona i suoi occhi su quelle immensità di
orizzonti lasciando scorrere sul suo viso quelle
copiose rugiade.☺
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società
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Luisa Colino
ministri giullari È degli ultimi giorni l'infelice dichiarazione sul tanto dibattuto tema della fuga di cervelli. L'ennesima perla di saggezza è stata partorita
dalla brillante ed illuminata mente del ministro Poletti: “Conosco gente
che è andata via e che è bene che stia dov'è andata, perché questo Paese
non soffrirà a non averli più tra i piedi”. Ah Poletti, quanto ci piacereb-be non avere più lei tra i piedi! Negli ultimi anni 100mila giovani han-
no lasciato il belpaese, chi per necessità di sopravvivenza, chi perché
dopo aver studiato tanto non è stato messo nella condizione di sfruttare le proprie capacità e competenze. Ma tutti, accomunati dalla medesima
spada di Damocle: il futuro. Quelli che sono rimasti cercano di divin-
colarsi in un sistema fatto di voucher e di contratti a progetto. Qualcu-no, più fortunato, è riuscito ad ottenere un contratto a tempo indetermi-
nato ma, si badi bene, “a tutele crescenti”. Del resto, si sa, in uno Stato
che ha di Stato solo il nome, bisogna meritarsele le garanzie! Ci hanno
fatto credere che per avere un posto nel mondo dovevamo essere pre-parati, studiare tanto, qualificarci. Una laurea non era più sufficiente e
allora master, specializzazioni… e comunque non basta.
Non basta se non sei, ad esempio, Poletti. Il nostro caro Ministro del Lavoro vanta nel suo curriculum un diploma all'istituto agrario, nulla
più. Deve la sua fortuna alla politica, quella becera, e alle cooperative
rosse. Eppure a questo strano personaggio, sgradevole ed ignorantello, è stato affidato un Ministero. Certo, è in buona compagnia. Basti pen-
sare ad un'altra mente finissima, a capo di un ministero, quello della
Salute, che dovrebbe garantire il diritto principe di tutti gli altri. La
mente in questione è quella di Beatrice Lorenzin, che vanta una maturi-tà classica, oltre ad idee spiccatamente illuminate. Fu sua la dichiara-
zione secondo cui l'altissimo tasso di tumori in Campania sarebbe
causato da uno stile di vita sbagliato. A guardarli bene, si potrebbe asserire, scomodando la fisiognomica, che i tratti somatici e le espres-
sioni di questi due simpatici giullari di corte tradiscano un certo grado
di stoltezza.
I giovani, ma non solo, sono stanchi di un Paese senza futuro, dove vivere è diventato un mestiere, in cui la politica è fatta da persone che
dovrebbero tacere ed invece decidono le sorti di milioni di individui.
Di uno Stato che delega al merito ciò che invece dovrebbe Egli stesso garantire: la giustizia sociale. Se non si parte tutti dai medesimi blocchi
di partenza, personaggi come Poletti e la Lorenzin, ignoranti, senza
qualifiche ma con conoscenze fortunate, continueranno a decidere le sorti di questo Paese.☺
Un padre, un fratello, un amico. Non riesco a definirti con una sola parola, non mentre sei qui a chiedermelo. Siamo seduti in un
bar qualsiasi del centro, io con le spalle rivolte verso il muro perché è
un posto che mi dà una qualche sicurezza. Con le spalle coperte. Un po’
laterale, un po’ in disparte. Un po’. Mi piace starmene riservata e osser-vare la gente che legge il giornale, beve un caffè. Mentre tu parli con
me. Mi piace ascoltarti. Mi è piaciuto ogni volta che scendevo nel tuo
studio a parlarti. Ogni volta una sorpresa. Sorprendente, potrei definirti così. Ma non basterebbe. Allora, almeno mi piace pensare che lo stesso
sia stata io per te, “come un lupo cala alle campagne, piega le messi
folte, devasta ogni dove, per poi lasciar stupiti. Come dopo l'amore”. Sei stato mio amico durante i nostri discorsi, i miei sfoghi, le
tue rivelazioni. Mentre ci scambiavamo sigarette e parole. Tra fumo e
poesie. Come quelle che mi hai dedicato e che mi fanno compagnia.
Come quando avrei voluto ringraziarti, ma mi sono limitata a pensarlo. È stato tutto così semplice e naturale da sembrare quasi un rincontro più
che un incontro. Un’amicizia venuta da lontano.
Sei stato mio fratello quando mi ascoltavi e consigliavi. Ecco, la nostra mi è sembrata una complicità tra fratelli. Come quando si è
nella stessa stanza, di notte, e lui che non riesce a dormire accende la
luce, “Devo raccontarti una cosa”. E tu che, minchia, sonno ne hai, gli fai eco con “cosa” seguita da trentacinque punti interrogativi alternati ad
altrettanti esclamativi. Ma poi ti siedi sul letto, e magari prima passi in
cucina a fare un caffè.
Sei stato mio padre quando mi sei venuto a prendere in quell’hotel di merda. Perché mio padre mi diceva di esserci sempre ma
quella volta non c’era. Invece tu c’eri. E appena ti ho visto avrei voluto
abbracciarti forte, ma non l’ho fatto. Sei stato come un supereroe, il mio supereroe. Mi hai accolta sorridente senza rimproverarmi, mentre sa-
rebbe stato il primo comportamento che mio padre avrebbe tenuto. Con
tono alto e parole sgarbate. Ma tu non sei stato solo mio padre, ma an-
che un fratello e un amico. Allora quel giorno con te vicino ho avvertito una sensazione
inspiegabile di tranquillità, di certezza, di affetto. Quel giorno che mi
hai accompagnata a casa di nascosto, come fossimo stati due amanti. Chissà, forse a momenti siamo stati un po’ anche questo.☺
tra fumo e poesie Mara Mancini
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ambiente
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turismo sostenibile Il 2017 è stato dichiarato dall’ONU anno del turismo sostenibile. Ma cosa significa soste-
nibile? Stando alle varie definizioni, sostenibilità è considerata la prerogativa essenziale per garanti-
re la stabilità di un ecosistema. Per quanto ci riguarda la definizione di turismo sostenibile passa per
il trittico dello sviluppo sostenibile, cioè: tollerabile a lungo termine dal punto di vista ecologico;
realizzabile sul piano economico; equo, sul piano economico e sociale, per le popolazioni locali. Ancora, il principio di turismo sostenibile è stato definito nel 1988 dall’Organizzazione Mondiale
del Turismo (OMT): “Le attività turistiche sono sostenibili quando si sviluppano in modo tale da
mantenersi vitali in un’area turistica per un tempo illimitato, non alterano l’ambiente (naturale, sociale ed artistico) e non ostacolano o inibiscono lo sviluppo di altre attività sociali ed economi-
che”.
Al movimento, che si è creato e sviluppato negli anni, man-ca in parte, secondo me, la capacità di imporre ai cittadini e
governanti (vabbè scusate) la cultura della bellezza. I molti
sforzi fatti per sensibilizzare le persone ad un diverso stile di
vita trovano di contro ancora discariche abusive, un’agricoltura che fa largo uso di pesticidi, mari e fiumi
troppo sporchi, cementificazione selvaggia, città non vivibi-
li. Dostoevskij diceva “La bellezza salverà il mondo” (dal
sanscrito BET-EL-ZA che vuol dire “il luogo dove Dio
brilla”). È da intendersi in senso lato, non solo religioso, e mai come oggi bisognerebbe cercare la strada che porti a questo. Nel medioevo culturale che stiamo vivendo dobbiamo trovare la forza e
gli spunti per rilanciare un nuovo rinascimento, che non faccia leva solo sull’arte (come secoli fa),
ma che sappia includere la vivibilità urbana, l’ambiente, l’enogastronomia, così da riportarci ad
apprezzare le nostre città, i nostri piccoli borghi, la natura che ci circonda; solo allora sarà possibile creare un vero turismo sostenibile, con l’obiettivo di non attirare orde di turisti intenti a invadere in
modo freddo un territorio, ma accompagnare persone coscienti di girare un altro territorio, cono-
scerlo dal punto di vista storico, culturale, gastronomico, naturalistico, delle sue tradizioni, e rispet-tarlo.
Il Molise ha tutto per sviluppare un turismo sostenibile ma, ahimè, ci ritroviamo in una
regione in cui, tolti i pochi casi resi possibili per iniziativa individuale o di singole comunità, vedi
Castel del Giudice, per il resto sono assenti iniziative atte a valorizzare il territorio ed una program-mazione seria del suo turismo, senza una rete logica che colleghi tra loro le varie zone. Ci ritrovia-
mo così in una regione piccola che i suoi abitanti non conoscono, né vi si riconoscono, quando
invece dovremmo essere noi i primi tour operator dei nostri centri. Un esempio di quanto espresso finora è quanto mi è successo quest’estate: mi trovavo
a riposare con la mia famiglia sotto una bella quercia, dopo un pranzo in un agriturismo vicino
Castel San Vincenzo (una perla archeologico-naturalistica che molti molisani non conoscono), e sento parlare quattro “frastièr’” (dopo le presentazioni ho scoperto che erano
emiliani) intenti a programmare la loro scoperta del Molise attraverso alcuni
siti o città; non ho resistito e mi sono intromesso cercando di consigliare, senza
stravolgere il loro viaggio, cercando di capire dove volessero andare e cosa poter vedere; mi sono permesso di aggiungere alcune tappe, e su tutte, solo
perché erano in zona e non dovevano fare molta strada, suggerii loro di fare
una capatina a Scapoli, perché c’era il Festival della zampogna e lì avrebbero potuto conoscere gli artigiani di questo antico strumento; di visitare la chiesa
rupestre di S. Maria delle Grotte sita in Rocchetta a Volturno, altra perla artisti-
ca (sconosciuta ai più) di questo Molise. In serata, quando ci siamo ritrovati casualmente a rinfrescarci alle sorgenti del Volturno, si sono avvicinati e mi
hanno ringraziato per quei preziosi suggerimenti.☺
WWF OA MOLISE [email protected]
olio di qualità Goccia d’oro 2016 XIII edizione evento
organizzato dall’ARSARP - Ufficio Oli-
vicolo di Larino ha permesso di eviden-
ziare le seguenti considerazioni: in una
annata olearia a dir poco disastrosa per quantità e qualità si è dimostrato che in
regione abbiamo dei produttori di eccel-
lenza. La cura, la meticolosità e la profes-
sionalità hanno fatto produrre oli merite-
voli di essere premiati. Le giurie coinvol-
te hanno mostrato soddisfazione nel valu-
tare gli oli a concorso, ben 55! Il livello è
stato medio alto e questo dà ragione della
maturità raggiunta dai nostri olivicoltori.
Di seguito i premiati:
Categoria Amatori - valutati dalla giuria
di assaggiatori professionisti: Fruttato Leggero: Di Paolo Luciana di
Civitacampomarano
Fruttato Medio: Pastorini Fabrizio di La-
rino
Fruttato Intenso: Del Balso Nicola di
Gildone
Categoria Professionisti - valutati dalla
giuria di assaggiatori professionisti:
Fruttato Leggero: Az. Agr. Radatti Ada-
mo di Larino
Fruttato Medio: Mottilo Bruno di Larino
Fruttato Intenso: Trespaldum Di Mastran-
gelo G. di Mafalda
Categoria Professionisti - valutati dalla
giuria di assaggiatori alunni IV B Novelli di Larino:
Fruttato Leggero: F.lli Gasdia di Larino
Fruttato Medio: Soc. Agr. Ricci Michele
srl di Larino
Fruttato Intenso: Trespaldum di Mastran-
gelo G. di Mafalda
Categoria Professionisti - valutati dalla
giuria di assaggiatori studenti ITAS sez.
Casa Circondariale di Larino:
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ambiente
Angelo Sanzò
l’età delle rocce del molise
Esistono due criteri per misurare l’età delle rocce della crosta terrestre. Si tratta di due sistemi di cronologia, il primo di tipo naturalistico, il secondo fisico.
Integrati tra loro, i due princìpi permettono di inquadrare, nella giusta dimensione,
temporale e spaziale, uno o più eventi del passato. Il metodo naturalistico, facendo
riferimento alla presenza dei fossili all’interno delle rocce sedimentarie, fornisce una cronologia relativa del materiale roccioso interessato, nel senso che indica sem-
plicemente se una roccia è più o meno antica di un’altra; da qui la suddivisione
dell’età della Terra nelle cinque Ere geologiche a tutti nota. In un primo momento i nomi assegnati, a partire dai fossili più antichi a quelli via via più recenti, furono
Primaria o Paleozoica, Secondaria o Mesozoica, Terziaria o Cenozoica, Quaterna-
ria o Neozoica. Quando, qualche decennio più tardi, ci si rese conto che la gran parte dei terreni presenti sulla superficie terrestre aveva un’età ancor più antica,
invece che stravolgere quanto già stabilito, si preferì indicare col termine di Era
Archeozoica tutto il materiale roccioso formatosi anteriormente alla Primaria.
La cronologia assoluta permette, invece, attraverso l’uso di vari principi fisici, in particolare quello del decadimento radioattivo degli elementi chimici in-
clusi nei minerali delle rocce analizzate, di stabilire il numero di anni trascorsi dal
momento in cui la roccia si è formata. Lo studio dei fossili presenti nelle rocce molisane ha permesso di stabi-
lire, per ognuna delle specie rilevate, sia l’origine che la sua collocazione spaziale.
In particolare è possibile affermare che i fossili più antichi appartengono all’Era Secondaria o Mesozoica e precisamente al periodo Cretaceo, ultimo, in ordine di
tempo, dopo il Trias e il Giurassico, dei tre in cui tale Era viene suddivisa.
Gli organismi tipici di questo periodo sono le Rudiste ovvero Mollu-
schi bivalvi (vedi vongole e cozze) che, apparsi alla fine del periodo precedente, si estinsero alla fine del Cretaceo, segnando, così, anche la fine della stessa Era.
La loro struttura indica che il loro ambiente di vita fosse quello delle scogliere
coralline (vedi le attuali Bahamas), dove davano origine a vere e proprie bioco-struzioni nei mari caldi del periodo, contribuendo con i loro accumuli alla for-
mazione di cospicui depositi di “calcari a Rudiste”, i cui fossili sono cospicua-
mente diffusi in varie località del Matese, anche del versante molisano.
A segnare la fine del Mesozoico, anche detta Era di mezzo, è anche e soprattutto, la ben più famosa estinzione dei caratteristici Dinosauri, i veri
dominatori del Mesozoico, tanto che questo tempo è anche detto Era dei rettili.
L’Era successiva, la Cenozoica, che rappresenta una frazione rile-vante del territorio molisano, è anche detta Era dei mammiferi, in ragione del-
la loro affermazione in tutti gli ambienti, sia terrestri che acquatici e in qual-
che caso anche aereo, in quando poterono, finalmente, liberarsi, dei temutissi-mi rettili che ne avevano impedito, fino ad allora, la diffusione e lo sviluppo.
Per quanto riguarda i fossili, così come'è possibile indicare quali
fossili guida (organismi che per la loro storia di vita, sono in grado di dare
precise indicazioni circa la loro età), i Nummuliti per il Cenozoico, in partico-lare per il Periodo del Paleogene, ci si può riferire alle Rudiste per il Cretaceo
e/o alle Ammoniti, non
rintracciabili all’interno dei confini molisani, per
il Giurassico. ☺ [email protected]
Fruttato Leggero: Tagliaferri Domenico di S.
Elia A Pianisi
Fruttato Medio: Mottillo Bruno di Larino
Fruttato Intenso: Di Battista Manrico di S. Cro-
ce Di Magliano
Miglior Olio Appartenente alla Categoria Bio/
Dop Giuria assaggiatori professionisti:
Patuto Alessandro di Larino
Miglior Olio Appartenente alla Categoria Bio/
Dop
Giuria assaggiatori alunni IV° B Novelli di La-
rino:
Berchicci Luigi di Larino
Miglior Olio Appartenente alla Categoria
Bio/Dop
Giuria assaggiatori studenti ITAS sez. Casa
Circondariale di Larino:
Patuto Alessandro di Larino
Miglior Olio Appartenente alla Categoria Bio
Giuria assaggiatori professionisti:
Olio di Flora de “La Casa Del Vento” di Di
Lena Pasquale di Larino
Miglior Olio Appartenente alla Categoria Bio
Giuria assaggiatori alunni IV B Novelli di Lari-
no: Olio Di Flora de “La Casa Del Vento” di Di
Lena Pasquale di Larino
Miglior Olio Appartenente alla Categoria Bio
Giuria assaggiatori studenti ITAS sez. Casa
Circondariale di Larino:
Olio di Flora de “La Casa Del Vento” di Di
Lena Pasquale di Larino
Miglior Olio Appartenente alla Categoria Dop
Giuria assaggiatori professionisti:
Auriemma Maria Luisa di Larino
Miglior Olio Appartenente alla Categoria Dop
Giuria assaggiatori alunni IV B Novelli di Lari-
no:
Auriemma Maria Luisa di Larino
Miglior Olio Appartenente alla Categoria Dop
Giuria assaggiatori studenti ITAS sez. Casa
Circondariale di Larino:
Auriemma Maria Luisa di Larino
Gran Premio Francesco Ortuso
Valutato dalla giuria assaggiatori professionisti
Auriemma Maria Luisa di Larino
Informazioni sul premio: www.arsarp.it sezione
Goccia d’Oro
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sport
Vincenzo Li Volsi
lo sport della terza età Pensate di essere troppo
“vecchi” per fare sport? Niente di più
sbagliato. Ecco un esempio di ciò che
fanno una serie di atleti cosiddetti vecchi!
Nel 2012 alla veneranda età di 102 anni, un simpatico atleta giapponese
Miyazaki Hidekichi è diventato il corrido-
re più anziano del mondo, detentore di un
primato mondiale di 100 metri in 29 se-
condi e 83 primi. Soprannominato il Bolt
d'oro, annunciò di voler migliorare il pro-
prio tempo, infatti poco tempo dopo, cor-
re i 100 metri in 22 secondi e 83 centesi-
mi. Pensate che sia unico? Niente di più
sbagliato, infatti Stanislaw Kowalski,
104 anni, polacco è il centenario europeo
più veloce nei 100 metri. Li ha corsi in 32.79 secondi. Nato il 14 aprile 1910, ha
tre figlie, dieci nipoti e dodici bisnipoti.
Luciano Acquarone è la punta di
diamante di questo movimento. Si è fatto
tutte le categorie, negli ultimi tre decenni.
E non appena compiuto gli anni, ad inizio
ottobre, è andato all’assalto dei record
over 85. “Ci vuole anche tempismo, per-
ché alla nostra età pochi mesi fanno la
differenza”, scherza. L’impresa è riuscita:
proprio il 4 ottobre, giorno del suo com-pleanno, ha stabilito il nuovo primato sui
cinquemila metri, domenica 18 quello dei
diecimila. Con prestazioni di tutto rispet-
to: 24’51’’33 sulla prima distanza,
52’33’’ sulla seconda. In entrambi i casi
strappando il record al britannico Gordon
Porteus, che resisteva dal 1999.
Hamamoto Hirosky corre i 100
metri in 18 secondi, pensate che sia un
tempo molto alto? Se li corre un atleta
giapponese di 84 anni, diventa un tempo
eccezionale, questo atleta ha una resisten-za, una forza e una velocità pari a quella
di un cinquantenne allenatissimo, infatti
fa salto in lungo e in alto, lancio col di-
sco, 1500 metri, fa il salto ad ostacoli,
lancia il giavellotto per più di 20 metri, fa
i 1500 metri in meno di 9 minuti (vi ricor-
do che stiamo parlando di un 84enne), e
poi ancora lancia il disco, il peso, insom-
ma è il decatleta più vecchio del mondo.
Ugo Sansonetti, soprannominato
Matusalesto è nato a Roma il 10 gennaio 1919, è un atleta italiano, più volte cam-
pione mondiale nella categoria master di
atletica leggera, da sempre sportivo; a
partire dagli anni ‘90 si dedica professio-
nalmente all'atletica leggera vincendo
oltre 70 medaglie, di cui 42 d'oro. È l'atle-
ta italiano che ha vinto più titoli agli Eu-
ropei master indoor di atletica, con 13
medaglie d'oro. Nel 2002 stabilisce il record del mondo master nei 200 metri
indoor.
Nel 2009, in occasione dei cam-
pionati italiani master, ha ritoccato il re-
cord del mondo degli 800 metri MM90
(meno di novanta anni) migliorandolo a
4'28"07 (vittoria con la quale colleziona
un poker di medaglie d'oro ai campionati:
100-200-300-400). Successivamente, ai
campionati mondiali master vince i 100
metri con il tempo di 17"82, sfiorando
l'attuale record del mondo (17"80); il
giorno seguente Sansonetti conquista il
suo secondo oro, nei 200 metri, ma la più grande soddisfazione arriva dai 400 metri
piani dove, oltre al metallo più prezioso
conquista anche il record del mondo
(migliorandolo di ben tre secondi) in
1'35"04. Nel 2010 stabilisce il record
mondiale nei 60 metri indoor (11"38). A
93 anni si è ritirato per un infortunio ma
dopo essersi ripreso continua a fare sport
iniziando a praticare il nuoto.
Un minuto e 17 secondi. È que-
sto il tempo impiegato dall'afroamericana
Ida Keeling nel 2016 per percorrere 100 metri alle Penn Relays, le annuali compe-
tizioni di atletica che si svolgono presso
l'Università della Pennsylvania: un risul-
tato da guinness dei primati perché l'atleta
in questione ha 100
anni. Mai nessuna
centenaria aveva im-
piegato un tempo
inferiore in una gara
simile. "Sono l'esem-
pio di ciò che puoi fare per te stesso - ha
dichiarato Ida Keeling
- e ringrazio Dio ogni
giorno per questo".
Da poco ha fatto registrare il
nuovo record italiano sui 200 metri con il
tempo di 29”81 nella categoria Master 75,
e la carta d’identità non lo spaventa. Beni-
to Bertaggia, 76 anni compiuti ad aprile, è pronto alla nuova sfida delle Olimpiadi
Master di Torino. L’atleta varallese gareg-
gerà nei 100 metri e successivamente
nelle batterie dei 200 metri. L'atleta ha
anche dichiarato di voler prendere parte
anche alla staffetta 4x100, ma che molto
dipenderà dalle condizioni dei compagni
di squadra.
Ho avuto la fortuna di essere
giudice di Atletica Leggera ai Master Ita-
liani (gare riservate ad atleti non profes-
sionisti) e ho visto scene di puro sport, quello con la esse maiuscola, dal fondista
che offre le proprie scarpe di riserva
all'avversario a cui si sono rotte ed essere
il primo a stringergli la mano all'arrivo
dopo aver perso i 1500 metri proprio da
lui; ho visto la casalinga, con borsa della
spesa, arrivare sul campo, cambiarsi, scen-
dere in pista, vincere la finale e rivolgersi
al giudice: “Scusi a che ora c'è la premia-
zione, sa devo andare a casa a preparare il
ragù a mio marito”. Ho sentito un atleta di oltre ot-
tanta anni imprecare perché aveva stabili-
to l'ennesimo record europeo nel lancio
del disco e dire (testuali parole) “Porca
#§#@ dovrò tornare il prossimo anno per
battere il record mondiale, anche stavolta
l'ho mancato per dieci centimetri”.
Cosa può spingere queste perso-
ne che vengono da svariate estrazioni
sociali, culturali, nazionali, considerando
che ho elencato solo alcuni degli innume-
revoli record registrati negli anni in Atleti-ca Leggera e potrei scriverne decine e
decine di altri? Credo che lo Sport sia
proprio questo: fare ciò che piace esclusi-
vamente a se stessi, per il proprio diverti-
mento e non per i soldi, i record, o entrare
nel Guinness dei Primati!
Ma credo che sia una mia illusio-
ne, una semplice illusione.☺ [email protected]
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Una delle prime erbe ad essere utilizzata dai nostri antenati per il suo profu-
mo intenso, canforato e di sapore amaro, è il
timo. Tante sono le antiche leggende riferite
a questa pianta, come quella secondo la quale Arianna, figlia del Re di Creta, pianse
lacrime amare quando Teseo, che lei aveva
aiutato per sconfiggere il Minotauro, la ab-bandonò nell’isola di Nasso: proprio dalle
sue lacrime nacque il timo. L’ impareggiabi-
le profumo e la delicatezza che i fiori di timo conferivano al miele erano molto ap-
prezzati dai Greci e dai Romani, per i quali
il timo divenne una delle erbe preferite. Ma
quel profumo, anche se ormai soverchiato da quelli di origine chimica, rimane ancora
oggi un’autentica magia del mondo vegeta-
le, che colpisce all’improvviso le narici mentre si costeggia un bosco umido.
Il genere Thimus appartiene alla
famiglia delle Labiate o Lamiacee e com-prende circa 350 specie. Le più diffuse per
le loro proprietà terapeutiche sono il timo
comune (Thimus vulgaris) e il serpillo
(Thimus serpillum). Il suo nome deriva dal greco thymós = “coraggio”. I soldati romani,
infatti, lo utilizzavano per trovare il coraggio
di affrontare le battaglie e nel tempo diventò un vero e proprio amuleto per infondere
coraggio a chi lo portasse con sé. Gli Egizi
lo usavano, insieme alle altre erbe, per
l’imbalsamazione delle mummie. Il timo è una pianta perenne, fitta-
mente ramificata, alta da 20 a 60 centimetri,
con fusti dal portamento eretto che tendono a lignificare intorno al quarto o quinto anno
di vita. Le foglie sono di piccole dimensioni
(lunghe 5-8 mm e larghe 2-4 mm), lanceola-te, di colore grigio-verde, più chiaro nella
pagina inferiore per la presenza di numero-
sissimi peli secretori. I fiori, che general-
mente compaiono a partire dal mese di giu-gno, sono piccoli, di forma tubolare e di
colore violetto, più raramente rosa pallido o
bianco. Il frutto contiene piccoli semi ovoi-dali lisci di colore bruno.
Originario della regione mediter-
ranea, cresce spontaneo dal litorale fino ai 1500 metri di altitudine. Vegeta bene in
posizioni soleggiate, preferendo i climi tem-
perati: nell’orto, o nel giardino, in particola-
re a ridosso di un muro. Non tollera i freddi prolungati e gli inverni umidi; talvolta tem-
perature inferiori ai -12°C possono essergli
letali. Non presenta particolari esigenze rispetto al terreno e infatti è spesso presente
le nostre erbe
anche in ambienti sassosi, pur preferendo terreni leggeri e calcarei. Nei terreni pesanti
e mal drenati cresce stentatamente ed è poco
longevo. La propagazione può avvenire sia
con i semi sia con le talee basali radicate. Le ridotte esigenze di coltivazione della pianta
consentono a ognuno di seminarla o trapian-
tarla anche in un vaso e di tenerla sempre a disposizione sul proprio terrazzo insieme ad
altre piante aromatiche. Le foglie possono
essere raccolte tutto l’anno. Si possono con-sumare fresche in cucina, sia per le pietanze
che per gli infusi, e vanno conservate in un
contenitore di porcellana o di vetro, al riparo
dalla polvere, in modo da preservare intatto
il loro aroma. Mentre i rametti vanno legati tra loro con uno spago e posti a testa in giù
in un luogo fresco ed asciutto, per essere
utilizzati al bisogno.
Il timo è assai conosciuto per il suo largo utilizzo in cucina come aromatiz-
zante di arrosti (si consiglia di strofinare
carne di vitello o di agnello prima di arro-stirla, con timo, sale e pepe), stufati e tanti
altri piatti. È ottimo anche
riscaldato nel burro per l’aragosta, i gamberetti e
gli scampi alla griglia. Si
possono poi preparare
delle sottili frittatine al timo: alle uova battute
basta aggiungere sale,
pepe e abbondante timo tritato. Si usa per aroma-
tizzare olio, aceto, liquori
e vini. Usato sia come condimento sia come
bevanda, il timo ha una
Gildo Giannotti
felice azione sulla digestione, sulla circola-zione e sul sistema nervoso, favorendo il
lavoro intellettuale, procurando un benesse-
re generale e conciliando il sonno.
Non meno interessanti sono infatti le virtù antisettiche di questa pianticella che,
a partire dal Medioevo, fino agli anni ’30,
divenne il vero conservante per la cacciagio-ne e le carni: il rametto di timo immerso
nella marinata serviva a conservare il pezzo
di carne per diversi giorni, dato che il timo-lo, un antisettico più potente del fenolo,
impediva la putrefazione. Questa abitudine
si diffuse anche grazie a Carlo Magno, che,
nei suoi famosi “Capitolari”, elencava il timo tra le erbe da coltivare obbligatoria-
mente nei giardini e nei monasteri. Nel Ri-
nascimento, il timo cotto nel vino veniva utilizzato per curare l’asma e le infezioni
alla vescica. La stessa pianta, assieme alla
lavanda, al rosmarino e alla salvia, era uno dei preziosi ingredienti dell’“aceto dei quat-
tro ladroni”, rimedio infallibile contro tutti i
mali, soprattutto durante le pestilenze (si
veda la fonte n. 6 del 2008). Verso la metà dell’Ottocento, il chimico francese Lalle-
mand riuscì ad estrarre dal timo l’olio essen-
ziale, utilizzato dai poveri come antibiotico, un uso che durò sino alla prima guerra mon-
diale e alla scoperta degli antibiotici moder-
ni. Per i numerosi principi attivi che contie-
ne (flavonoidi, tannini, saponine, triterpeni, ecc.) è tuttora impiegato in caso di tosse e
malattie da raffreddamento.☺ [email protected]
l’antibiotico dei poveri
Foto Silvio Mencarelli
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etica
Nel discorso alla conclusione del Sinodo (24 ottobre 2015) Papa Francesco
confessa: “Mentre seguivo i lavori del Sino-
do, mi sono chiesto: che cosa significherà per
la Chiesa concludere questo Sinodo dedicato alla famiglia?” Risponde a sé e lo propone ai
Padri sinodali presenti: “Non significa aver
concluso tutti i temi inerenti la famiglia, ma aver cercato di illuminarli con la luce del
Vangelo, … infondendo in essi la gioia della
speranza senza cadere nella facile ripetizione di ciò che è indiscutibile o già detto. Non
significa aver trovato soluzioni esaurienti a
tutte le difficoltà e ai dubbi che sfidano e
minacciano la famiglia, ma aver messo tali difficoltà e dubbi sotto la luce della Fede,
averli esaminati attentamente, averli affrontati
senza paura e senza nascondere la testa sotto la sabbia.
Significa aver sollecitato tutti a
comprendere l’importanza dell’istituzione della famiglia e del Matrimonio tra uomo e
donna. Significa aver ascoltato e fatto ascolta-
re le voci delle famiglie e dei pastori della
Chiesa portando sulle loro spalle i pesi e le speranze, le ricchezze e le sfide delle famiglie
di ogni parte del mondo. Significa aver dato
prova della vivacità della Chiesa Cattolica, che non ha paura di scuotere le coscienze
anestetizzate o di sporcarsi le mani discuten-
do animatamente e francamente sulla fami-glia. Significa aver cercato di guardare e di
leggere la realtà, anzi le realtà, di oggi con gli
occhi di Dio, per accendere e illuminare con
la fiamma della fede i cuori degli uomini, in un momento storico di scoraggiamento e di
crisi sociale, economica, morale e di prevalen-
te negatività. Significa aver testimoniato a tutti che il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte
viva di eterna novità, contro chi vuole
“indottrinarlo” in pietre morte da scagliare contro gli altri. Significa anche aver spogliato i
cuori chiusi che spesso si nascondono perfino
dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro
le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare. Significa aver affermato
che la Chiesa è Chiesa dei poveri in spirito e
dei peccatori in ricerca del perdono e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi
quando si sentono poveri e peccatori. Signifi-
ca aver cercato di aprire gli orizzonti per supe-rare ogni ermeneutica cospirativa o chiusura
di prospettive, per difendere e per diffondere
la libertà dei figli di Dio, per trasmettere la
bellezza della Novità cristiana”. Il Sinodo è appena concluso, il papa
non ha ancora potuto lavorare sulla relazione
finale che ha la stessa data 24 ottobre 2013 e che, come prassi, i Padri consegnano al papa
perché da quelle 94 proposte (propositiones),
votate una per una e
approvate, sia tratta ispirazione per la lette-
ra apostolica sulla
famiglia. In sei mesi di lavoro il papa prepara
l’Amoris Laetitia;
porta la data del 19 marzo 2016, festa di
S. Giuseppe. Alla
breve introduzione (1
-7) seguono nove capitoli, e ben 325
paragrafi, in cui svi-
luppa il tema: “La gioia dell’amore che
la gioia dell’amore Silvio Malic
si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa.. nonostante i numerosi segni di crisi
del matrimonio, il desidero di famiglia resta
vivo, in specie fra i giovani… Come risposta
a questa aspirazione l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona
notizia” (AL 1). Affronteremo passo passo lo
sviluppo di questa esortazione. Ma in questo primo approccio,
dopo aver sottolineato il significato della dop-
pia convocazione sinodale, sembra importan-te, “recuperare alcune idee/tensioni chiave
emerse durante il cammino sinodale che ci
possono aiutare a comprendere lo spirito che
si riflette nell’esortazione… con tre immagini bibliche che ci permettono di prendere contat-
to con il passaggio dello Spirito nel discerni-
mento dei Padri sinodali”. Lo propone Fran-cesco all’assemblea gremita della diocesi di
Roma, in S. Giovanni in Laterano, il 16 giu-
gno 2016. 1) “Togliti i sandali dai piedi, per-
ché il luogo sul quale tu stai è suolo san-
to” (Es 3,5). Questo fu l’invito di Dio a Mosè
davanti al roveto ardente. Il terreno da attra-versare, i temi da affrontare nel Sinodo, ave-
vano bisogno di un determinato atteggiamen-
to. Avevamo davanti i volti concreti di tante famiglie. Questo dare volto ai temi esigeva, ed
esige, un clima di rispetto capace di aiutarci
ad ascoltare quello che Dio ci sta dicendo
all’interno delle nostre situazioni, un rispetto carico di preoccupazioni e domande oneste
che miravano alla cura delle vite che siamo
chiamati a pascere. Ci libera dall’affrettarci per ottenere conclusioni ben formulate ma
molte volte carenti di vita; ci libera dal parlare
in astratto, per poterci avvicinare e impegnarci con persone concrete. Ci protegge
dall’ideologizzare la fede mediante sistemi
ben architettati ma che ignorano la grazia. La
sua Parola è venuta a noi non come una se-quenza di tesi astratte, ma come una compa-
gna di viaggio che ci ha sostenuto in mezzo al
dolore, ci ha animato nella festa e ci ha sem-pre indicato la meta del cammino (AL, 22).
2) “O Dio, ti ringrazio perché non
sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblica-
no”(Lc 18,11). Una delle tentazioni (cfr AL,
229) alla quale siamo continuamente esposti è
avere una logica separatista. Per difenderci,
mi abbono a la fonte
per fare buon uso del bollettino postale
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“Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale […]; e le società anoni-
me, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi,
aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli
d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandan-do doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che
a privati; […] tra gli uomini d’affari le grevi contese d’interessi si
placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale”.
Impossibile non avvertire in queste parole, che aprono l’ultimo rac-
conto di Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, intitolato I figli di Babbo Natale, quella sottile nota di ironia che talvolta contraddistin-
gue la penna di Italo Calvino. Nell’ormai lontano novembre del 1963,
quando venne pubblicata per la prima volta questa divertente raccolta,
Calvino aveva già intuito la trasformazione del Natale in un motore propulsore per il commercio e in una festa dell’industria che, nel rito
dello scambio di regali, spesso imbarazzanti, cela la propria esigenza
di produrre e smerciare, smerciare e produrre. È così che il povero Marcovaldo, un manovale sempre alle prese con ristrettezze economi-
che e problemi familiari, ingenuo e buffo, ma anche estremamente
sensibile, è costretto a travestirsi da Babbo Natale per la ditta Sbav per la quale lavora e a consegnare regali porta a porta con il figlio Micheli-
no. Quest’ultimo, entrando nella casa lussuosa di un grande industriale
e vedendone il figlio solo, triste e annoiato, lo scambia per un bambi-
no povero. Decide allora di regalargli un martello, una fionda e dei fiammiferi, con cui il bambino devasta la casa e tutti gli altri regali
ricevuti. Il giorno dopo, Marcovaldo va al lavoro temendo di essere
licenziato, invece scopre che, poiché il grande industriale è rimasto colpito da quei doni che hanno fatto tanto divertire il figlio, la Sbav ha
stabilito di lanciare sul mercato il “Regalo Distruttivo”. Il protagonista,
perplesso, ricomincia così le consegne, ma, questa volta, di doni mo-
dernissimi, che servono a “distruggere articoli d’ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al merca-
to…”. È chiaramente un’altra frecciatina al cinico universo economi-
co, questa meraviglia straniata di Marcovaldo, al quale non resta che tornare “nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e
bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di
Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zam-pognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano salta-
re padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente”.
Nella struggente descrizione del clima di festa natalizio, rimane il
messaggio, suggerito dal bambino viziato, di distruggere il lusso e il consumismo che finiscono per emarginare. Ma, subito dopo, inatteso,
un altro finale: mentre la città viene progressivamente coperta dalla
neve, un leprotto, sfuggito ad un lupo, scappa saltando. “È qua? È là? No, un po’ più in là? Si vedeva solo la distesa di neve bianca come
questa pagina”. Finale solo poetico o finale a chiave? Si resta incerti.
Forse un vero e proprio significato nascosto non c’è. Resta la neve, che cade sull’anno passato. La vita si sposta di nuovo, in un nuovo
anno, un po’ più in là.
un anno più in là
frammenti di saggezza
Filomena Giannotti
crediamo di guadagnare in identità e in sicurezza ogni volta che ci diffe-renziamo o ci isoliamo dagli altri, specialmente da quelli che stanno
vivendo in una situazione diversa. Considero necessario fare un passo
importante: non possiamo analizzare, riflettere e ancor meno pregare
sulla realtà come se noi fossimo su sponde o sentieri diversi, come se fossimo fuori dalla storia. L’accento posto sulla misericordia ci mette di
fronte alla realtà in modo realistico, non però con un realismo qualsiasi,
ma con il realismo di Dio… nulla è paragonabile al realismo evangeli-co, che non si ferma alla descrizione delle situazioni, delle problemati-
che - meno ancora del peccato - ma che va sempre oltre e riesce a vede-
re dietro ogni volto, ogni storia, ogni situazione, un’opportunità, una possibilità. Il realismo evangelico si impegna con l’altro, con gli altri e
non fa degli ideali e del “dover essere” un ostacolo per incontrarsi con
gli altri nelle situazioni in cui si trovano.
3) “Gli anziani faranno sogni profetici” (cfr Gl 3,1). Con questa terza immagine vorrei sottolineare l’importanza che i Padri sino-
dali hanno dato al valore della testimonianza come luogo in cui si può
trovare il sogno di Dio e la vita degli uomini. Come società, abbiamo privato della loro voce i nostri anziani - questo è un peccato sociale
attuale! - li abbiamo privati del loro spazio; li abbiamo privati
dell’opportunità di raccontarci la loro vita, le loro storie, le loro espe-rienze. Scartandoli, scartiamo la possibilità di prendere contatto con il
segreto che ha permesso loro di andare avanti. Ci siamo privati della
testimonianza di coniugi che non solo hanno perseverato nel tempo, ma
che conservano nel loro cuore la gratitudine per tutto ciò che hanno vissuto (cfr AL, 38). Questa mancanza di modelli, di testimonianze,
questa mancanza di nonni, di padri capaci di narrare sogni non permette
alle giovani generazioni di “avere visioni”... Non permette loro di fare progetti, dal momento che il futuro genera insicurezza, sfiducia, pau-
ra.☺
voglio credere
Non credo al diritto del più forte, al linguaggio delle armi, alla potenza
dei potenti.
Voglio credere al diritto dell’uomo, alla mano aperta, alla potenza dei
nonviolenti.
Non credo alla razza o alla ricchezza, ai privilegi, all’ordine stabilito.
Voglio credere che tutte le persone, donne e uomini, sono persone, e che
l’ordine della forza e dell’ingiustizia è un disordine.
Non credo di potermi disinteressare a ciò che accade lontano da qui.
Voglio credere che il mondo intero è la mia casa e il campo nel quale
semino, e che tutti mietono ciò che tutti hanno seminato.
Non credo di poter combattere altrove l’oppressione se tollero
l’ingiustizia qui. Voglio credere che il diritto è uno, tanto qui che altrove, che non sono
libero finché una donna o un uomo è schiavo.
Non credo che la guerra e la fame siano inevitabili e la pace irraggiungi-
bile.
Voglio credere all’azione semplice, all’amore a mani nude, alla pace
sulla terra.
Non credo che il sogno degli uomini resterà sogno e che la morte sarà la
fine.
Oso credere invece, sempre e nonostante tutto, all’umanità nuova.
Osiamo credere al sogno di Dio stesso: un cielo nuovo, una terra nuo-
va, dove abiterà la giustizia.
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sisma
L’aria è cambiata. Il no alla strava-gante riforma costituzionale ha rimesso in
movimento le “correnti” e nonostante il Gen-
tirenzi primo, il sole è sorto lo stesso. Anche
il cielo è terso. I grandi giornali, già schierati per il sì alla riforma, oggi offrono nuove nar-
razioni. Gli unici a non essersi accorti di ciò
che è avvenuto, oltre a Renzi naturalmente, sono i Renziani. Maria Elena che doveva
lasciare la politica siede alla destra del Padre,
la venere del Botticelli, esperta in brutte figu-re, si prepara a collezionarne delle nuove; il
capo delle cooperative rosse, autore della
pregiata legge sul lavoro, chiede di andare al
voto in fretta, per evitare di essere travolto dal prossimo referendum. Intanto l’ex presidente
del consiglio, tornato al suo vecchio lavoro -
dirigente nell’azienda di famiglia - costringe il babbo Tiziano a pagargli i contributi previ-
denziali: sempre meglio del Jobs Act.
In Molise, una volta tanto, è andata come altrove. Questa volta non ci siamo fatti
notare. A Campobasso e Termoli, dove il
centrosinistra è forte, ha prevalso nettamente
il no; a Isernia, comune a guida centrodestra, pure. Qui dopo il no al referendum non è
accaduto niente di catastrofico, anche perché
noi molisani nella catastrofe ci viviamo da sempre e non perché la terra ci è ostile: siamo
noi a farci del male, con ostinazione. La sini-
stra molisana governa ormai da quattro anni
questa regione e nessuno dei problemi af-frontati ha trovato soluzione: lo sviluppo e il
lavoro, la sanità, la ricostruzione post terre-
moto, lasciati nel pantano dal precedente governo regionale, sono tutti lì ad aspettare la
prossima campagna elettorale, alla fine della
Domenico D’Adamo
nessuna fretta quale è indifferente chi vince e chi perde: l’importante non è dove andare a sedersi, ma
trovare un posto. È da anni che i lavoratori
dello zuccherificio del Molise chiedono atten-
zione per i loro problemi e la politica cosa fa oltre che a ricorrere alla cassa d’integrazione
per i dipendenti ormai allo stremo? Prende
tempo. Lo fece Iorio aspettando Frattura, lo fa Frattura aspettando il prossimo governatore.
Si affida al modello Parmalat e chiama a
risolvere il problema uno dei manager che aveva operato in quel contesto. Il tecnico,
certo dr. Alfieri, suggerisce alla proprietà -
Regione Molise - di costituire una New Co
alla quale cedere in affitto lo stabilimento con tutte le maestranze; nel contempo propone ai
numerosi creditori, regione in primis, un
concordato preventivo - fallimento pilotato - offrendo in cambio gli asset dello storico
zuccherificio i quali, a quanto risulta
dall’analisi dei bilanci, avrebbero un valore pari alla somma dei debiti iscritti: si tratta di
cento milioni di euro, accumulati da quando il
socio privato ha ceduto la sua quota e quello
pubblico non ha esercitato il diritto di prela-zione, ma questa è un’altra vicenda tutta da
raccontare, visto e considerato che i giudici
tardano a farlo. Era ed è evidente che Parma-lat era un’azienda con un mucchio di debiti,
lo zuccherificio, un mucchio di debiti senza
azienda: mancava, diciamo così, il patrimo-
nio, tanto che dopo numerosi incanti rimasti deserti lo si vuole smembrare per regalarne le
spoglie a qualche amico, la New Co, nuovo
zuccherificio, azienda anch’essa priva di patrimonio, con tanti dipendenti e un
“incredibile” piano industriale, nel frattempo
rapidamente fallita. Oggi a pagare per le scelte scelle-
rate fatte dalla politica negli
ultimi quindici anni saran-
no i lavoratori, senza futuro e senza lavoro, oltre ai
cittadini molisani che ripia-
neranno i debiti, circa 40 milioni di euro, persi dalla
regione in questa lucida
follia. Non va meglio nella Sanità,
mondo nel quale alcuni
politici hanno, nella migliore delle ipotesi, favorito brillanti carriere in cambio di voti.
Spesso la disputa tra sanità pubblica e sanità
“confessionale” nasconde solo l’intenzione di
mettere la mani sulla sanità privata per fare ciò che fanno nella pubblica: la sanità o è
pubblica o è privata, la terza via, quella
dell’integrazione, o è un inciucio o non esiste. Dopo quindici anni di attacchi più o meno
espliciti alla sanità confessionale si scopre che
il problema è un altro, il sistema sanitario regionale molisano è troppo costoso così che
invece di tagliare le spese inutili o di recupe-
rare i sessanta milioni di euro spesi per far
fronte alla mobilità passiva - pazienti che vanno a curarsi fuori regione - si decide di
sopprimere due ospedali Larino e Venafro in
un solo giorno, lasciando nell’incertezza un intero territorio, quello del “cratere sismico”,
stracotto a causa di altre brillanti iniziative
messe in campo sempre dagli stessi soggetti. Se ora il vero problema sta nel fatto che la
sanità confessionale fa ombra ai luminari del
Cardarelli, la si sposti dove c’è bisogno di
frescura, ma smettiamola di dire stronzate. Purtroppo la catastrofe molisana
non finisce qui, anche se il governatore spesso
dice che per la ricostruzione post terremoto è tutto a posto. Sarà vero per quanto riguarda la
situazione del suo vice, al quale è stato già
riconosciuto il contributo regionale per la
ricostruzione; non è invece così per tutti quelli che devono ancora ricostruire e sono tanti -
progetti per oltre 180 milioni di euro - ma è
soprattutto per quelli inseriti nella classe A dei comuni di Ripabottoni, Bonefro, Casacalenda
e Larino ed altri, esclusi dagli accordi di pro-
gramma quadro sottoscritti col Ministero dello sviluppo economico, oltre cento a detta
dell’avvocatura dello Stato, per ognuno dei
quali il TAR ha censurato il comportamento
della regione e della Agenzia di Protezione Civile con la seguente motivazione: “perché
non è visibile né tracciabile - dai documenti
esaminati - la ragione per la quale il progetto del ricorrente Consorzio sia stato escluso,
dopo essere stato ammesso all’iter della pro-
grammazione e classificati al livello più eleva-to (classe A)”. Il disprezzo che Paolo Frattura
nutre nei confronti dei terremotati molisani,
quelli veri, lo si rileva dal fatto che contro
queste sentenze il governatore ha proposto appello. “Nessuno sarà lasciato da solo”.
Quante volte abbiamo sentito risuonare queste
parole nel momento del dolore!☺ [email protected]