la moschea

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Laura Vargiu, mainstream La tranquilla quotidianità di un piccolo e non bene identificato paese di provincia viene turbata all’improvviso da una notizia inattesa: il progetto di costruzione di una moschea da parte della folta comunità di stranieri formalmente bene integrati. In un clima crescente di diffidenza, timore, ottusità e stupido puntiglio nei confronti della novità, a partire dalla stessa amministrazione comunale, si sviluppa la vicenda che vedrà contrapposte le due parti della popolazione, quella degli abitanti locali e quella dei nuovi residenti, tutti di fede islamica. Il progetto di costruzione del nuovo edificio di culto diventerà dunque motivo di disputa, ma anche occasione di riflessione su tematiche attuali quali immigrazione e accoglienza, nonché rispetto e riconoscimento reciproco dei diritti di tutti. Sarà infine il parroco del paese, con l’aiuto di un santo patrono venuto forse dalle stelle, a dire l’ultima parola risolvendo inaspettatamente l’ingarbugliata...

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Page 1: La Moschea
Page 2: La Moschea

In uscita il 23/12/2015 (13,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2016

(2,99 euro)

AVVISO

Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita.

La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi

preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione

dell’anteprima su questo portale.

La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.

Page 3: La Moschea

LAURA VARGIU

LA MOSCHEA

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LA MOSCHEA

Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-939-5

Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2015

Stampato da

Logo srl

Borgoricco – Padova

Ogni riferimento a fatti, persone e santi è assolutamente casuale.

Tranne ciò che non lo è.

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Ad Angelo

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“Ce que tu donnes, Momo, c’est à toi pour toujours; ce

que tu gardes, c’est perdu à jamais!”

(Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran, E.-E. Schmitt)

“Quel ch’è presso di voi rapido passa, quel ch’è presso

Dio dimora in eterno”.

(Corano, XVI:96)

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Capitolo 1

Quella mattina don Eusebio, riposti in tutta fretta i paramenti

con cui aveva celebrato messa, uscì di corsa senza nemmeno ri-

passare dalla canonica.

L’orologio del campanile segnava sette minuti alle otto allorché

lui prese a scapicollarsi giù per la gradinata della chiesa.

“Iniziamo bene la settimana!” borbottò tra sé, mentre finiva di

abbottonarsi il cappotto per strada. “Che diavolo sarà mai suc-

cesso? Che Dio mi perdoni!”

La sera precedente una strana quanto inattesa telefonata da parte

del sindaco aveva interrotto la cena e occupato i pensieri insonni

del sacerdote fino a notte fonda.

«Una questione delicata, padre. Meglio parlarne di persona…»

si era sentito rispondere con tono solennemente preoccupato,

appena aveva domandato di che cosa si trattasse. E gli era stato

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dato appuntamento presso la sala consiliare del comune alle otto

dell’indomani mattina.

Per rispettare l’orario convenuto, e non venir così meno alla sua

nota puntualità, quel giorno don Eusebio s’era dovuto spicciare

più del solito; in verità, già di per sé, non era certo prete che a-

masse tirarla troppo per le lunghe nell’esercizio delle sue fun-

zioni, ancora meno durante la prima messa del mattino che, no-

nostante il suo inizio fosse stato via via posticipato nel corso de-

gli anni, continuava a essere frequentata per lo più da vedove e

vecchie zitelle il cui numero ben di rado superava quello delle

dita di una mano. Ma, in particolare negli ultimi due lustri,

l’affluenza ai riti liturgici, in qualsiasi fascia oraria della giorna-

ta si svolgessero, si era di molto affievolita e solo la messa do-

menicale e quelle delle festività più solenni registravano una

presenza accettabile per la quale valesse ancora la pena di aprire

l’antico portone della chiesa e far suonare le non meno vetuste

campane custodite dalla torre. Lontani i tempi in cui qualcuno

dei fedeli sgomitava per trovar posto tra i banchi affollati della

domenica, o quelli in cui i ragazzini facevano a gara per indos-

sare gli ambiti panni da chierichetto; persino le lezioni di cate-

chismo si svolgevano ormai in sede diversa e a seconda dei

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giorni e degli orari più comodi alle famiglie che vi mandavano i

figli.

Non che tutto ciò facesse dei parrocchiani di don Eusebio dei

cattivi cristiani, al contrario: tutta gente rispettosa e timorata di

Dio, per carità! Tuttavia, era innegabile il fatto che i pignoli co-

stumi religiosi di una volta fossero andati incontro a una certa

inevitabile rilassatezza che, evidentemente, aveva indotto molti

a considerare la strada che da casa propria conduceva fino a

quella di Nostro Signore troppo lunga e faticosa perché potesse

essere percorsa spesso. Forse la colpa era di tutte quelle distra-

zioni moderne che anche in paese iniziavano ad ammiccare agli

abitanti, per tacere poi dei capricci del tempo atmosferico che,

con il freddo d’inverno e il caldo d’estate, in un modo o

nell’altro assecondavano la pigrizia dei fedeli nel farsi vedere in

chiesa. E che cosa poteva farci un povero prete ingrigito da cin-

quanta e passa anni, se non continuare a svolgere con pazienza il

suo dovere e accontentarsi di quel che di volta in volta si presen-

tava? Con questi e simili pensieri, frammisti alla curiosità di co-

noscere il motivo della convocazione, don Eusebio varcò trafela-

to la soglia della sede del municipio prima ancora che le campa-

ne della sua chiesa battessero le otto.

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«Buongiorno, caro padre! Si accomodi pure: aspettavamo solo

lei!» lo accolse il primo cittadino appena la sua tonaca fece ca-

polino nella sala al primo piano dove il consiglio comunale, già

schierato al completo, sembrava essersi riunito con largo antici-

po. Nell’aria si avvertiva un insolito misterioso imbarazzo.

“Non manca proprio nessuno!” pensò il sacerdote, notando subi-

to, oltre a quella dei dodici consiglieri capeggiati dal sindaco,

anche la presenza del comandante dei vigili urbani e, soprattutto,

del professor Arricciasassi, esimio cittadino al quale la comunità

tributava il titolo di professore senza sapere con esattezza che

cosa lui avesse insegnato, dato che nelle scuole cittadine, e così

pure altrove, non aveva mai avuto cattedra. Né si era a cono-

scenza in quale campo si fosse laureato quarant’anni prima. Era

costui esperto di tutto e niente e più dichiarava d’intendersi del

primo, più dimostrava in realtà d’intendersi del secondo; era, i-

noltre, il noto autore di un libro semisconosciuto che dai polve-

rosi scaffali della biblioteca comunale era forse uscito in prestito

sì e no dieci volte in dieci anni. Da tempo immemorabile soste-

neva di essere molto impegnato nella stesura di una seconda o-

pera che, tuttavia, tardava a essere data alle stampe, forse perché

il professore, scapolone impenitente e poco ambito, era solito in-

trattenersi piuttosto ai tavolini dei bar in piazza che alla scriva-

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nia del suo studio. Più presunta che accertata, la sua fama di

uomo di lettere superava di gran lunga quella di maestro Bian-

chi, il vicesindaco, che uomo di lettere lo era per davvero, dal

momento che lui le lettere, quelle dell’alfabeto, le insegnava da

oltre due decenni ai bambini della locale scuola elementare. E,

non a caso per via dei suoi impegni didattici, fu proprio

quest’ultimo, a sollecitare l’inizio ufficiale della riunione.

Riprese allora la parola il suo superiore in grado, con la pacatez-

za che di consueto distingueva il suo parlare: «Padre, anzitutto

perdoni se ci siamo permessi di convocarla qui oggi, così

all’improvviso. Beninteso, questa è una riunione informale, che

ha luogo oltretutto in orario non certo abituale per il nostro con-

siglio comunale. Abbiamo ritenuto opportuno informare anche

lei di una questione; il professor Arricciasassi ne è già al corren-

te. Ho preferito invece non avvisare il maresciallo dei carabinie-

ri, almeno per ora...»

«Venga al punto, signor sindaco!» lo esortò don Eusebio che

ben sapeva, e temeva, quanto l’altro fosse capace di girare a

lungo attorno a un argomento prima di affrontarlo.

Il sindaco Nicolino Fanti, ragioniere vecchio stampo ormai in

pensione, era tipo avvezzo a far economia di tutto fuorché delle

parole. Del resto, già al secondo mandato, non era stato rieletto a

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furor di popolo per aver scialacquato le risorse delle casse co-

munali che la sua giunta amministrava anzi con una strenua par-

simonia che sarebbe stata degna di ammirazione da parte dei più

abili contabili costretti, a superiori livelli di amministrazione, a

fare i salti mortali in tempi di tagli e revisione della spesa pub-

blica. Alle sue rigide direttive di governo, riflesso – malignava

qualcuno – di taccagneria in primo luogo personale, si confor-

mava l’operato di giunta e consiglio, i cui membri lavoravano

insieme nell’interesse della comunità e al di là della rigida quan-

to sterile contrapposizione delle categorie di minoranza e mag-

gioranza.

Le due o, assai sporadicamente, tre liste civiche che si presenta-

vano alle elezioni comunali, chissà perché, non avevano mai a-

derito alle logiche di destra e sinistra dei partiti tradizionali, vec-

chi o camuffati da nuovi che fossero, tant’è che da quelle parti

sia rossi sia neri non s’erano più visti dagli ormai remoti tempi

di guerra e immediato dopoguerra. Nemmeno le campagne elet-

torali dei candidati provinciali e regionali vi facevano più tappa,

ché laggiù la politica, quella delle grandi promesse e

dell’inconcludenza, proprio non riusciva ad attecchire. E così,

vegliato dalle montagne, il piccolo paese era rimasto lì, intorpi-

dito e accovacciato nell’isolamento della sua valle solo in parte

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spezzato dai programmi della televisione e dal passaggio spora-

dico di qualche corriera giornaliera. Al riparo senz’altro da mol-

te cose, ma non da tutto.

«Ebbene!» guizzò il sindaco. «Al qui presente assessore Bour-

mot è stata riferita una notizia che ha trovato un riscontro al-

quanto preoccupante. A dire il vero, molto preoccupati lo siamo

già…»

E tutti ad annuire, confermando gravemente.

«Ascolti, ascolti, don Eusebio!» s’intromise l’assessore in que-

stione, portatore della misteriosa novella.

«Se qualcuno spiegasse infine pure a me…» ribatté il prete che,

sotto sotto, già iniziava a spazientirsi.

Fanti proseguì: «Le dicevo, il nostro Bourmot ha saputo, aven-

doglielo raccontato i due fratelli Roreto, quelli del tabacchino, i

quali l’hanno appreso a loro volta dalla viva voce della vedova

Botto, la sarta, l’ultima volta che questa è andata a fare una delle

sue solite puntatine al lotto, a cui è stato confidato dalla signora

Glossalonga, con la consueta discrezione che distingue il suo la-

voro allo sportello della banca, che…» e qui fece una pausa do-

po tutta una tirata, «…che molti di loro hanno ritirato

all’improvviso, nel giro di pochi giorni, parte dei propri risparmi

depositati presso il medesimo istituto di credito».

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«Mi scusi, non la seguo…» fece don Eusebio, persosi per davve-

ro lungo quella ingarbugliata concatenazione di fatti e persone.

«Mi lasci finire, padre. Certo, fin qui niente su cui sindacare:

ognuno, ci mancherebbe, è libero di disporre dei suoi quattrini

come e quando meglio crede. Non è questo il punto, naturalmen-

te».

«E quale sarebbe, il punto?»

«È presto detto: il possibile utilizzo di quel denaro in contrasto

con gli interessi della collettività!»

«Giustissimo!» si sentì in dovere di commentare a gran voce Ar-

ricciasassi, senza che nessuno gli avesse chiesto niente.

«La ringrazio, professore. Ma vado a precisare meglio e a con-

cludere, in modo tale che ne possa convenire anche don Euse-

bio».

“Dio sia lodato!” non poté trattenersi dal pensare quest’ultimo

che ancora ne sapeva quanto prima.

«Allora, a breve distanza dall’indiretta notizia dei citati prelievi

bancari, manco a farlo apposta, lo stesso Bourmot ne ha appresa

direttamente un’altra che, ora come ora, ci fornisce un quadro

della situazione a dir poco chiaro e completo: sabato scorso, ov-

vero due giorni fa, l’assessore si trovava in farmacia in attesa del

proprio turno allorché uno di loro – lei sa bene quanto sia picco-

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lo il locale del dottor Anselmi e quanti clienti spesso vi si accu-

mulino a causa della lentezza del servizio – iniziò a scambiare

qualche chiacchiera con i propri vicini della fila, raccontando,

forse vantandosene, che pure loro avranno un luogo di ritrovo e

preghiera per il quale stanno provvedendo a una sorta di colletta,

appunto tra loro… Mi dica lei, padre, se due più due non fa

quattro!»

E a ogni loro fino a quel momento pronunciato il sindaco aveva

calcato la voce, rimarcando con cura quello che dunque non era

un semplice né anonimo pronome.

«Se non bastasse la testimonianza di Bourmot, chieda, chieda

pure ad altre persone presenti quel giorno in farmacia, come

Remigio il capocaccia o Ninetta la miracolata, due dei suoi par-

rocchiani più assidui a quanto si sa: tutti hanno potuto sentire le

loro intenzioni!»

«Ma, scusi signor sindaco, loro chi?»

«Loro, gli immigrati!»

Passasse Ninetta, una delle stagionate zitelle che affollavano in

genere la prima funzione del mattino, detta la miracolata perché

tale si era sentita e dichiarata a seguito di un viaggio in un noto

santuario d’oltralpe (tuttavia, secondo don Eusebio, qualche me-

rito doveva pur averlo il medico che l’aveva operata poco prima

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a un’ernia), ma da quando Remigio il capocaccia era uno dei

“parrocchiani più assidui” se alla messa della domenica aveva

sempre preferito il tiro agli uccelli o a selvaggina d’altra specie,

anche nei periodi in cui l’attività venatoria risultava formalmen-

te chiusa?

Forse fu più per questa azzardata affermazione di Fanti, e non

per l’ultima parola da lui pronunciata, che sul volto del sacerdo-

te si dipinse per qualche istante una sconcertata espressione

d’incredulità, con tanto di bocca aperta.

«Gli immigrati!» ripeté il sindaco. «Chi altri, se non gli stranie-

ri? C’è rimasto di sasso pure lei, eh padre?»

Nell’aula esplose di colpo un brusio generale, nel quale ognuno

dei presenti riversava il proprio personale commento sul fatto

all’ordine del giorno. E, a giudicare dal polverone sia pur invisi-

bile che esso già sollevava, all’ordine del giorno ci sarebbe stato

per molti e molti giorni a venire.

«Signore, signori, colleghi… Silenzio, per favore!» si erse in

tutta quella confusione la voce autorevole del primo cittadino.

«Lasciate che adesso il comandante Benincasa esponga anche a

don Eusebio che cosa ha saputo, a dimostrazione di come la si-

tuazione potrebbe prendere davvero una brutta piega».

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Il capo della polizia municipale, tutto impettito e quasi

sull’attenti, scattò dunque riferendo ciò che era pervenuto alle

sue, non per niente, vigili orecchie attraverso l’antico ma sempre

efficace metodo del passaparola: stando a fonti anche in questo

caso attendibili e d’indiscutibile prestigio popolare, loro, gli

immigrati, erano già in trattative con gli eredi del cavalier De

Bernardis, buonanima, per l’acquisto del vecchio rudere

all’ingresso del paese.

«Capisce, don Eusebio?» riattaccò Fanti. «Quelli vogliono com-

prare la malconcia proprietà di De Bernardis, che oramai cade a

pezzi e non è più buona neanche per ripararvi il bestiame…»

«Ma siamo sicuri che i figli del cavaliere siano disposti a vende-

re?» lo interruppe il prete.

«Se siano disposti a vendere?» gli fece ironica eco Arturo Fra-

gorella, assessore all’ambiente e ai lavori pubblici. «Non sem-

brerà loro vero di riuscire finalmente a disfarsi di quell’ammasso

di calcinacci! Che se ne fanno? Da anni vivono in città, qui nes-

suno li ha più visti passare nemmeno per sbaglio!»

«Altroché!» aggiunse qualcun altro tra i banchi del consiglio.

Il sindaco riagguantò il filo del discorso: «Il rischio è grosso,

padre! I De Bernardis, vendendo, faranno di certo un buon affa-

re, ma coloro che ne faranno uno pessimo saremo noi perché è

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più che probabile che quegli altri vogliano buttar giù il rudere

per far sorgere sul medesimo terreno uno dei loro posti di ritro-

vo, uno di quei… Come caspita si chiama? Professor Arriccia-

sassi, mi aiuti lei che ne sa più di tutti…»

«Mo-sche-a!» sillabò prontamente l’interpellato, il quale prese a

declamare come se avesse avuto davanti agli occhi una pagina di

enciclopedia: «Chiamasi moschea quell’edificio di culto atto a

raccogliere i musulmani in preghiera».

Nell’udire codeste parole scese all’improvviso su quella assem-

blea un silenzio profondo che manco al cimitero s’era mai senti-

to.

Un poco in imbarazzo toccò a don Eusebio spezzarlo: «Ma

qualcuno di voi ha provato a parlare della questione con gli inte-

ressati?»

«Beh, no… Non ancora, padre. Sia certo però che si provvederà

al più presto poiché una spiegazione ce la devono, eccome se ce

la devono! Una moschea qui, nel nostro paese! Mi dica lei:

quando mai si è vista?» si scaldò Fanti in modo insolito.

«Ma dove credono di essere? A casa loro?» se ne uscì

l’ultrasessantenne signorina Amelia Passinnanzi, assessore alle

politiche familiari (lei che, di famiglia, non ne aveva mai messa

su una propria) con delega, per di più, a quelle giovanili.

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Qualcosa dello stesso genere bofonchiò anche l’altra donna delle

istituzioni comunali, la più giovane consigliera Celestina Leo;

tra lei e la Passinnanzi – spesso si faticava a comprendere chi tra

le due fosse la più indisponente – si esauriva la rappresentanza

femminile nell’ambito dell’intensa politica locale.

Ulteriori commenti seguirono a ruota libera, esprimendo pensie-

ri che, con buona probabilità, fino ad allora non erano mai stati

oggetto di tanta riflessione da parte di nessuno:

«Chi ce lo garantisce che una moschea serva soltanto per prega-

re?» si preoccupava qualcuno.

«Pure questa sarà dotata di campane, come la chiesa?»

s’interrogava qualcun altro.

«C’è poi la storia poco chiara di quel loro profeta… » si allar-

mava un altro ancora.

«E pensare che sembravano pure brave persone…» biasimavano

e concordavano in molti.

Perplesso e disorientato, don Eusebio ascoltava tutti e tutto, sen-

za sapere bene che cosa pensare. Del resto, riflessivo e medita-

bondo per natura, non aveva affatto l’abitudine di giudicare per-

sone o cose in modo frettoloso, sia pure davanti a prove eviden-

ti; ecco perché, quando il professor Arricciasassi gli si rivolse

domandandogli quale fosse la sua opinione in merito alla fac-

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cenda, lui non poté che rispondere confusamente: «Occorre va-

lutare bene, capire le reali intenzioni…»

«Non c’è molto da capire: due più due fa quattro, le ho già detto

e, mi pare, dimostrato!» esclamò il sindaco che, punzecchiando-

lo, aggiunse: «L’idea di una cosiddetta moschea a poche centi-

naia di metri dalla sua chiesa non credo la lasci indifferente o le

faccia fare i salti dalla gioia: non è così?»

«Effettivamente…» farfugliò il sacerdote, oramai sopraffatto da

tutto quel parlare.

«Comunque, caro don Eusebio, avrà modo di capire e valutare

per bene, come dice lei. A questo punto, infatti, urge convocare

quanto prima una nuova assemblea, alla quale stavolta prendano

parte anche loro! Non tutti insieme, intendiamoci, quanto meno

chi li rappresenta, primo fra tutti quel Mustafà che sembra essere

il capo!»

«Sì, sì, convochiamolo qui e presto!» convennero all’unanimità i

presenti, tutti tranne maestro Bianchi che al trillo della campa-

nella, sebbene non si fosse certo udito fin là, era corso a scuola

dai suoi giovani allievi senza che nessuno dei politici colleghi se

ne fosse accorto.

E con la promessa, o la minaccia, di una prossima e più accesa

riunione, anche tutti gli altri, compreso don Eusebio, tornarono

ai propri impegni e occupazioni di ogni giorno. Soltanto con

qualche pensiero in più.

Fine anteprima.Continua...