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La malattia di Alzheimer tra fede, scienza e tecnologia

ATTI DEL CONVEGNO

Gli atti che seguono si riferiscono al Convegno La malattia di Alzheimer fra fede, scienza e

tecnologia”, tenutosi a Bari il 29 settembre 2016 presso la sala Congressi Villa Romanazzi

Carducci.

Sono destinati a tutti coloro che con il loro impegno contribuiranno all’elevazione delle

conoscenze circa la patologia di Alzheimer e a coloro che direttamente o indirettamente

vivono ogni giorno le difficoltà connesse all’assistenza e alla cura delle persone affette da

demenze.

I presenti atti si rivolgono quindi sia agli addetti ai lavori che alle famiglie, con l’intento di

approfondire l’efficacia di tutte le terapie disponibili nell’ambito delle demenze, con una

particolare attenzione non solo a quelle farmacologiche ma soprattutto a quelle non

farmacologiche e al ruolo che la fede possa avere nell’accettare e affrontare la malattia.

Il congresso vuole aprire gli orizzonti alle tematiche che vedono scienza, nuove tecnologie

e Fede costituire un triangolo equilatero ove gli aspetti si intersecano ed incastrano sino a

rendere possibile la coesione ed il flusso continuo dei tre aspetti che si estrinsecano nel

miglioramento psicologico e clinico dei pazienti affetti da patologie croniche ed altamente

invalidanti quali quelle neurodegenerative.

L’intervento di esperti dei tre campi, scientifico, tecnologico e teologico-ecclesiastico,

renderà ai discenti più semplice comprendere come non esiste scissione tra i vari aspetti

nell’attuare percorsi terapeutici atti migliorare lo stato clinico e la qualità di vita del

paziente con demenza

L’evento è stato organizzato dalla Residenza Sanitaria Mediasan s.r.l., dal Centro Studi e

Formazione della “c.d.c. Madonna del Buoncammino”, Residenza Socio Sanitaria

Assistenziale per anziani di Altamura (BA), sulla base del know how acquisito in più di 30

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anni di attività di assistenza a soggetti a malati di Alzheimer, e dall’Associazione

Alzheimer Bari.

Si ringraziano per il patrocinio l’Università degli Studi di Bari, l’Ordine Chirurghi e

Odontoiatri Provincia di Bari, la Regione Puglia, Card Puglia, la Federazione delle

Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti, l’Associazione Italiana Psicogeriatria,

l’Ospedale Generale Miulli e l’Associazione Geriatri Extraopedalieri.

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INDICE

I SESSIONE: LA FEDE COME TERAPIA?

• Pag. 7… Lectio magistralis: La fede come terapia? - S. E. Mons. Nunzio Galantino

• Pag. 15…La demenza non cancella la persona - Prof. Marco Trabucchi

• Pag. 19… Convergenze e sinergie: la gestione della fede nell’alleanza terapeutica - Dott.

Paolo Boschi

• Pag. 22…Quali i numeri del problema - Prof. Vincenzo Solfrizzi

II SESSIONE - LA DEMENZA: PROBLEMATICA SOCIO-SANITARIA TRA

SCIENZA E TECNOLOGIA

• Pag. 25… Nuove frontiere nella malattia di Alzheimer: diagnosi precoci per nuove

terapie - Prof. Giancarlo Logroscino

• Pag. 33… Il progetto europeo Mario/robot: nuove frontiere della tecnologia -

Grazia D’Onofrio

• Pag. 41… Etica nella ricerca: risultati di uno studio sull'Alzheimer - Prof. Nicola Antonio

Colabufo

• Pag.45 Il progetto NEURONIX per l’Alzheimer: nuove frontiere per la scienza – Dr.

Davide Quaranta

• Pag…47 L'approccio centrato sulla persona di Tom Kitwood nella cura delle persone

con demenza - Dott.ssa Sara Fascendini

• Pag. 49 L’esperienza del viaggio e altre terapie non farmacologiche– Prof. Ivo Giovanni

Cilesi

• Pag. 52 Fede e Medicina nella malattia di Alzheimer - Dr. Pietro Schino

• Pag. 55 Finalità dell’Associazione Alzheimer Bari – Dott.ssa Katia Pinto

INFORMAZIONI GENERALI

Sede

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Villa Romanazzi Carducci

Via Giuseppe Capruzzi, 326,

70124 Bari

Iscrizione gratuita per Medici Chirurghi Area Interdisciplinare, Educatori Professionali,

Fisioterapisti, Infermieri, Terapisti Occupazionali, Psicologi, Terapista della riabilitazione

psichiatrica, Assistenti sociali.

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La fede come terapia? S. E. Mons. Nunzio Galantino

Segretario Generale della CEI

0. Premessa

L’orizzonte di riferimento per questa mia riflessione è costituito

- come richiesto dal Convegno - dal mondo dei malati di

Alzheimer. Un mondo che nel 2040 conterà fino a 4 milioni di

italiani, come ci dicono gli esperti. Oggi se ne contano oltre

600.000. Siamo consapevoli, purtroppo, che sono proprio gli

anziani affetti da malattie neurodegenerative (1.200.000 solo in

Italia) ad essere, tra le persone più a rischio, possibili vittime

della cultura dello scarto in un contesto sociale nel quale

predomina interesse e profitto. In un tempo nel quale le risorse

economiche sembrano scarseggiare, aumenta la povertà

sanitaria e, soprattutto nel sud Italia, l’accesso alle cure degli indigenti sta diventando un

miraggio difficilmente raggiungibile, occorre fare molta attenzione.

La prassi medica e l’interesse di tutta la comunità civile ed ecclesiale impegnano ad offrire a

queste persone, tra le più fragili del consorzio umano, la dovuta attenzione e le risorse

economiche necessarie.

Per andare oltre la semplice presa d’atto di dati abbastanza noti e condivisi, propongo un paio

di affermazioni di papa Francesco che, per forza e chiarezza, mettono in guardia dalla

tentazione di creare moderni rupi tarpee dalle quali eliminare quanti sono inutili e di peso

all’economia di profitto.

Nel messaggio per la XXIII Giornata Mondiale del Malato (2014) si legge: “Quale grande

menzogna si nasconde dietro certe espressioni che insistono tanto sulla “qualità della vita”,

per indurre a credere che le vite gravemente affette da malattia non sarebbero degne di essere

vissute!”. E’ noto che garantire la qualità di vita è ritenuto un obiettivo importante della prassi

medica e assistenziale del nostro tempo. Ma occorre intendersi su quali parametri si giudica la

qualità di vita. Una qualità della vita che è necessario assicurare il più possibile a tutti i malati

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una vita di qualità, pur in situazioni

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di forte disagio, con una puntuale e completa applicazione dell’articolo 32 della nostra

Costituzione (Diritto alla salute e alle cure).

Comprendiamo così fino in fondo anche il senso del secondo passaggio del Magistero di papa

Francesco che vorrei portare alla vostra attenzione, quello espresso nella catechesi del 4 marzo

2015 dove affermò con chiarezza: “La qualità di una società, vorrei dire di una civiltà, si

giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune”.

Sono riflessioni che di questi tempi il nostro Paese deve tenere ben presente essendo alla

vigilia di dibattitti parlamentari sulle proposte di legge circa le Dichiarazioni Anticipate di

Trattamento (DAT) e sull’eutanasia.

1. La fede come terapia? Uno sguardo ai vangeli

a. Le parole di papa Francesco – che ci permettono di andare al cuore del tema affidatomi -

sono la esplicitazione di quello che già il Vangelo ci trasmette, a cominciare dalla presa d’atto

della grande attenzione di Gesù per i malati! Non sorprende che ben 727 dei 3779 versetti dei

vangeli si riferiscano a guarigioni da malattie fisiche e mentali e 31 siano i riferimenti generici

che includono guarigioni.1 I gesti terapeutici compiuti da Gesù rivelano che Egli è venuto

proprio per i malati nel corpo e nello spirito e per stare accanto alle persone più fragili

con misericordia e

compassione. La sua attività taumaturgica non ha lo scopo di guarire tutti i malati che

incontra, ma di porre dei segni eloquenti perché la salute ritrovata di qualcuno sia annuncio di

salvezza per tutti offrendo alla vita lieta o triste di ogni uomo un orizzonte di senso per la sua

vita.

b. Seconda considerazione: anche là dove Gesù opera miracoli di guarigione possiamo notare

che l’evento straordinario non è l’elemento centrale della narrazione, bensì l’annuncio del

Regno e l’offerta del dono della salvezza. In questi racconti risulta centrale più che il malato

che viene guarito, ma di cui sovente non si dice nemmeno il nome, il Cristo che pone i segni

della cura e della guarigione, come segni della vittoria definitiva sulla malattia e sulla morte.

La Buona Notizia è la salvezza di ogni uomo per la potenza di Gesù di Nazareth. Scrive

l’apostolo Paolo: “È necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e

questo corpo mortale si vesta di immortalità. 1 Cfr. C. ROCCHETTA, Guarì tutti i malati, Bologna, 2013, 20-24.

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Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale

d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura. La morte è stata ingoiata per la vittoria.

(1Cor 15,53).

c. Una terza considerazione: altra Buona Notizia annunciata dal Vangelo è la potenza della

fede, condizione perché i gesti terapeutici di Gesù possano essere compiuti. “Va’ la tua fede ti

ha salvato” (Lc 17,19) dice al lebbroso che torna a ringraziarlo per l’avvenuta guarigione; così

nell’episodio del paralitico l’evangelista narra che “vedendo la fede” dei barellieri che portano

il malato, Gesù compie il miracolo (Mc 2,5). Potremmo dire che i racconti di guarigione

hanno un unico centro con una duplice dimensione: Gesù e la fede del malato o di chi chiede

per lui l’atto terapeutico.

Alla luce di queste considerazioni e degli elementi offerti, torniamo alla domanda posta nel

titolo: “la fede è terapia?”. possiamo concludere che la fede del credente non assicura, come

per un atto magico, la guarigione di chi si rivolge al medico divino supplicando il miracolo,

ma è “dono di Dio, virtù soprannaturale da Lui infusa, [per mezzo della quale possiamo

riconoscere] che un grande Amore ci è stato offerto, che una Parola buona ci è stata rivolta e

che, accogliendo questa Parola, che è Gesù Cristo, Parola incarnata, lo Spirito Santo ci

trasforma, illumina il cammino del futuro, e fa crescere in noi le ali della speranza per

percorrerlo con gioia” (Lumen fidei, 7).

Se la malattia e la sofferenza fanno entrare la persona in un tunnel lungo e buio, la fede è

come una luce che può illuminare il fondo di questo tunnel, una luce che possiamo percepire

se teniamo fisso lo sguardo su Cristo Gesù, l’uomo-Dio che ha percorso la stessa strada senza

sconti, in tutta la sua drammaticità, diventando così com- partecipe di ogni patire umano.

Possiamo quindi dire che la fede è terapia se considerata una possibilità vera offerta all’uomo

di non vivere l’esperienza della malattia con disperazione! “La sofferenza – ha scritto ancora

papa Francesco - non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare atto di

amore, affidamento alle mani di Dio che non ci abbandona e, in questo modo, essere una

tappa di crescita della fede e dell’amore. Contemplando l’unione di Cristo con il Padre,

anche nel momento della sofferenza più grande sulla croce (cfr Mc 15,34), il cristiano impara

a partecipare allo sguardo stesso di Gesù” (Lumen fidei, 55).

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2. La malattia come evento esistenziale

Detto questo occorre subito aggiungere che la ricerca di senso, espresso o inespresso, è

proprio di ogni uomo, al di là del suo credo religioso. La persona è oltre la sua condizione di

malato ed è altro dalla sua patologia. Per questo la malattia non è mai solo un evento clinico

ma è anche un evento esistenziale che impone la domanda di senso nella proporzione della sua

gravità. E se il dolore fisico può e deve essere moderato dalle necessarie terapie che, grazie a

Dio ora non mancano, la sofferenza umana ha bisogno di abitare la speranza, di essere

illuminata da orizzonti più vasti, di sapere che la sua lecita domanda di salute non è altro che il

desiderio di superare la sua finitudine ed essere salvato.

Il Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze celebrato nel novembre scorso ha portato la

nostra attenzione sulla necessità di un umanesimo nuovo, un umanesimo integrale,

denunciando sia una certa cultura contemporanea che esalta un essere umano che vuole farsi

Dio, senza limiti e padrone assoluto della vita, sia un’antropologia funzionalista che parla del

corpo umano come di una macchina dai pezzi sostituibili e valida solo se efficiente.

In questo contesto “cogliere il senso della sofferenza, della malattia e della morte è reso

difficile dal fatto che la sanità è spesso irretita nella logica dei mezzi tecnologici e finanziari,

dimenticando l’orizzonte dei fini”2 e questo mortifica un’antropologia della cura

qualitativamente alta che si preoccupi di tutto l’uomo e non solo dei suoi organi malati. La

vera sfida che la sanità ha oggi davanti a sé (anche quella di ispirazione cristiana) è la capacità

di armonizzare nella cura della persona e nella promozione della

salute, logica tecnica e logica etica, mezzi e fini. Non sempre si può guarire, sempre si può e si

deve curare; non sempre ci si può liberare dalla malattia o dall’invecchiamento, sempre si può

liberare la malattia e l’invecchiamento se avremo il coraggio di non mettere a tacere il

significato di eventi esistenziali preziosi.

Da quanto detto finora emerge con chiarezza che la fede (intesa come esperienza religiosa, di

relazione con il Trascendente) e la spiritualità (intesa come orizzonte di senso che una persona

considera importante per la sua vita) sono una risorsa che ha diritto di cittadinanza nel

percorso terapeutico di una persona malata. Non mancano

2 Commissione Episcopale per il servizio della carità e la salute, Predicate il Vangelo e curate i malati, Nota pastorale, Roma, 2006, n. 12.

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studi, più o meno seri, sul rapporto tra spiritualità e benessere. C’è chi azzarda anche a fare

rilevazioni di carattere diagnostico strumentale per dimostrare che in persone che curano la

propria dimensione spirituale l’aumento di produzione di endorfine o di serotonina nel sangue,

regolatori dell’umore e apportatori di senso di benessere, è maggiore. Non è il mio campo di

indagine e non mi prolungo su questo argomento. Ciò che è innegabile, e che è dimostrato sia

dall’esperienza che da indagini serie, è che la preghiera e la spiritualità sono una risorsa

straordinaria nel percorso di cura sia della persona malata che dei suoi familiari, non solo

perché alimentano speranza (e non è poco), ma anche perché porta con-solazione alla

solitudine nella quale la sofferenza e la

malattia (soprattutto se seria) immergono con drammaticità chiunque vi si imbatta.3

Non mancano i testimoni della fede che ci dicono che questo percorso è possibile4.

3. La necessità di una cura integrale del malato

Se quanto detto finora è vero, prendersi cura della dimensione spirituale di una persona

malata, è un dovere non perché credenti, ma semplicemente perché onesti e rispettosi di

quanto la stessa scienza va dimostrando. Aver cura delle domande espresse o inespresse che

un malato si pone e accompagnarlo in un percorso di senso alla luce dei suoi riferimenti

esistenziali è un dovere terapeutico che non può essere trascurato. Occorre fare qualche passo

ulteriore anche verso una cura integrale del malato ponendo un modello antropologico che

guardi all’uomo nelle sue molteplici dimensioni: fisico- biologica, psichica, sociale,

culturale, spirituale e religiosa, poiché qualunque sia la 3 Cfr. Cura della speranza, speranza nella cura, Atti del Convegno tenutosi a Milano il 27 novembre 2015, presso l’Istituto Nazionale dei Tumori, in occasione della presentazione della ricerca fatta su 300 pazienti oncologici da don Tullio Proserpio sul tema “La speranza nel percorso di cura”. 4 E’ nota a tutti, per esempio, l’esperienza della Beata Chiara Luce Badano, una ragazza che a 17 anni scopre di avere un osteosarcoma alla spalla. Chiara non ama soffrire, ma sa che nella vita si incontra anche il dolore; sa che non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e che per questo è importante “come” si vivono queste situazioni. C’è da rimanere sconcertati nel constatare la forza aggressiva del male che attacca la giovane Badano e c’è da rimanere stupiti nel constatare come in lei l’orizzonte di senso è stato più forte del male che l’aggrediva. Illuminante quanto Chiara scrisse pochi giorni prima di morire: “L’importante è stare al suo gioco. Un altro mondo mi attende. Mi sento avvolta in uno splendido disegno che a poco a poco, mi si svela… mi piaceva tanto andare in bicicletta e Dio mi ha tolto le gambe, ma mi ha dato le ali”. La malattia le aveva tolto le gambe, la fede le aveva donato le ali per vedere le cose dall’Alto. In una lettera alle sue amiche Chiara riflette sulla sua esperienza: “Sono uscita dalla vostra vita in un attimo. Oh, come avrei voluto fermare quel treno in corsa che m’allontanava sempre più! Ma ancora non capivo. Ero troppo assorbita da tante ambizioni, progetti e chissà cosa (che ora mi sembrano insignificanti, futili e passeggeri). Un altro mondo m’attendeva, e non mi restava altro che abbandonarmi. Ma ora mi sento avvolta in uno splendido disegno che a poco a poco si svela”. Possiamo paragonare questa giovane ragazza ad un gufo capace di vedere nel buio della notte, nel buio generato dalla sua grave malattia.

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condizione clinica e il livello di disabilità di una persona, tutte queste dimensioni sono sempre

presenti e chiedono di essere armonizzate per realizzare il bene concretamente possibile del

paziente. Poiché l’impatto della dimensione relazionale, spirituale e religiosa sul

rafforzamento della dimensione clinica è ormai un dato innegabile, l’auspicato passaggio dal

to cure (cura della malattia) al to care (cura del malato) che troviamo espresso in tanti manuali

di psicologia clinica, deve ulteriormente concretizzarsi in processi di cura.

E ancora: prendersi cura di una persona malata (soprattutto se portatrice di patologie come

l’Alzheimer) non può fare riferimento soltanto a parametri estrinseci o suggeriti da protocolli

pensati a tavolino, ma significa attenzione alla persona nella sua individualità e unicità. Mi

risulta che questo obiettivo, di notevole interesse per i moderni sviluppi di alcune branche

della medicina (mi riferisco alla medicina personalizzata e alla medicina narrativa), sia ancora

molto lontano. Bene ha scritto il Beato Carlo Gnocchi in un discorso ai medici nel 1954: “Non

esistono malattie, ma malati, cioè un dato modo di ammalarsi proprio di ciascuno e

corrispondente alla sua profonda individualità somatica, umorale e psicologica. La grande

abilità del medico è quella di riuscire a comprendere, o meglio a intuire, la personalità

fisiologica di ciascun paziente”. Come non si possono trattare patologie diverse in modo

eguale, così non si possono trattare persone diverse come fossero e reagissero tutti allo stesso

modo, “oggetti di serie” che rispondono perfettamente, senza peculiarità alcuna, a protocolli

clinicamente attestati.

Un approccio olistico alla persona malata suppone una formazione integrale degli operatori

sanitari che li abiliti a considerare l’uomo nella sua globalità. Nel suo accattivante libro sul

“Prendersi cura degli altri”, Marie de Hennezel, psicologa e palliativista francese scrive: “Le

nostre facoltà di medicina sfornano eccellenti scienziati, ma in esse è quasi inesistente la

formazione alla relazione umana. Sebbene i futuri medici siano per lo più destinati a

confrontarsi con l’angoscia, la sofferenza umana, la paura di morire dei loro pazienti, essi

non ricevono nessuna preparazione psicologica o etica in funzione di tale faccia a faccia. E’

normale che persone che scelgono di prendersi cura degli altri non siano mai interpellate nel

corso dei loro studi, sulla loro capacità di ascoltare la sofferenza, sulle loro specifiche

responsabilità umane? ... Non è introducendo qua e là qualche corso di psicologia, di scienze

umane e

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di etica che si insegnerà ai medici a essere uomini responsabili, ma capovolgendo da cima a

fondo lo spirito stesso della formazione che ricevono. L’uomo, la natura umana vanno

insegnati in modo globale. E’ necessario che gli studenti di medicina vengano preparati a

diventare persone complete”.5 Sono considerazioni particolarmente

importanti quando si parla di persone con patologie neurodegenerative. Conclusione

A conclusione del mio intervento, riprendendo il tema del vostro

convegno, e cioè la cura del malato di Alzheimer, vorrei fare una raccomandazione: non

lasciamo mai soli questi malati sapendo bene che questa patologia si prolunga nel tempo e la

situazione si complica man mano che il paziente invecchia, ma non lasciamo nemmeno sole le

loro famiglie. Sappiamo bene che quando alla porta di una casa bussa un dramma come questo

è tutta la famiglia che ne viene coinvolta. Non dimentichiamo l’importanza del verbo

accompagnare sia per i pazienti che esigono la certezza che non saranno mai abbandonate

dagli operatori sanitari, comunque si complichi la loro malattia, sia delle famiglie che hanno

bisogno di esser sostenute non di meno dei loro cari ammalati. Vedere, giorno dopo giorno, un

parente prossimo perdere l’autonomia, la memoria, la parola e l’autosufficienza è una prova

che non lascia indifferenti. Accompagnare è un verbo esigente perché implica da parte

dell’operatore sanitario un coinvolgimento empatico importante. Esprime certamente meglio

di me questo pensiero papa Francesco quando, concludendo la sua enciclica sulla fede, scrive:

“All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua

risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad

ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto

condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce” (Lumen

fidei, 57).

Auguro a quanti sono a vario titolo impegnati nel mondo dell’Alzheimer di essere artigiani

della cura che trattano ogni persona e ogni malato come “pezzi unici e preziosi”, operatori che

sanno di essere ministri della vita, partecipi dell’amore effusivo di Dio per le sue creature.

Ricordando quanto, il 21 settembre scorso, in occasione della XXIII Giornata mondiale per

l’Alzheimer sul tema “Ricordati di me”, ha detto papa 5 MARIE DE HENNEZELL, Prendersi cura degli altri, Lindau, novembre 2008, 153-154.

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Francesco ricordando l’evento all’udienza generale: “Invito tutti i presenti a “ricordarsi”, con

la sollecitudine di Maria e con la tenerezza di Gesù Misericordioso, di quanti sono affetti da

questo morbo e dei loro familiari per far sentire la nostra vicinanza. E ha continuato:

“Preghiamo anche per le persone che si trovano accanto ai malati sapendo cogliere i loro

bisogni, anche quelli più impercettibili, perché visti con occhi pieni di amore”.

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La demenza non cancella la persona Prof. Marco Trabucchi

,Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

Presidente Associazione Italiana di Psicogeriatria

A. Introduzione

-Definire l’identità di una persona affetta da demenza è un compito difficile per chi non è né

filosofo né neuroscienziato, ma solo un osservatore empirico che cerca di fondare il diritto alla

cura sul fatto che esse mantengono lo status di cittadini, non solo per riconoscimento civile (il

genere umano deve essere considerato in tutte le sue componenti, anche quelle caratterizzate dal

dolore, dalla sofferenza, dalla perdita), ma perché intrinsecamente soggetti che esprimono una

continuità vitale, senza indicibili buchi neri (e quindi senza la possibilità di considerarli

“elementi a perdere”).

-Viviamo nel tempo delle confusioni, di stimoli non affidabili (ogni settimana un nuovo lavoro

scientifico senza significato sulla patogenesi delle demenze); vi è il rischio che il susseguirsi

senza logica di proposte di cura faccia dimenticare la condizione di salute (come vive oggi) della

persona affetta da demenza. Il rischio di semplificazioni banali, che impediscono di comprendere

la complessità del vivente

-Vogliamo costruire per gli ammalati ”more fullfilling lives” (Lancet Neurol, dic '14) in attesa

del farmaco: è un impegno di tutti (il doppio binario). Per curare però bisogna comprendere la

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vita, come premessa per una relazione significativa. Il G8 nel 2013(cura delle D. nel 2025): “the

provision of accessible, high-quality care could allow people living with dementia now to

longer, more fulfilling lives”. E' oggi il nostro principale obiettivo; però anche la speranza per un

futuro che permetta risposte definitive resta un forte fattore di stimolo per lavorare bene

-La difesa dell'essere persona è alla base della difesa del diritto alla cura e alla dignità da

costruire ogni giorno. A questo proposito sono stato colpito –tra le molte vicende del nostro

tempo che negano la dignità e la libertà dei fragili- dalla dichiarazione con la quale un giudice ha

negato ad un detenuto in carcere la possibilità di visitare la madre di 92 anni affetta da demenza.

La motivazione della decisione è stata la seguente: “Il deterioramento cognitivo evidenziato

svuota senz'altro di significato il richiesto colloquio, perché sarebbe comunque pregiudicato un

soddisfacente momento di condivisione”. Purtroppo su queste posizioni si fonda lo stigma ancora

così diffuso, per cui la demenza distruggerebbe la realtà stessa di persona. Dobbiamo quindi

ancor più sentirci impegnati a costruire un modello clinico per il quale la memoria non è la sola

caratteristica che definisce l'umanità di ognuno. E' anche importante il riconoscimento che i

“sani” possono avere rapporti significanti con chi è affetto da demenza, non solo in base al

ricordo del passato, ma anche di un presente non desertificato nei suoi contenuti di rilevanza

affettiva, qui e ora. La “condivisione” è sempre possibile...

-Non mi pongo in una prospettiva religiosa, che riesce a dare risposte esaurienti a chi crede

(Francesco, parlando delle persone affette da demenza: “... perché comunque la loro mente e il

loro cuore non interrompono il dialogo e la relazione con Dio”). Occorre dare un fondamento

fenomenologico (laico), andare alla ricerca della caratterizzazione di ciò che definisce l'essere

persona durante la demenza. Si deve peraltro riconoscere che la spiritualità gioca un ruolo anche

civile, quando sostiene che il valore intrinseco della persona rispetto al suo Dio non è mai

perduto.

B. Alcune premesse

-L'individualità della malattia (“un soggetto, una persona”, come disse Alzheimer) impedisce

trattamenti generalizzati, standard. Ma occorre essere attrezzati per capire i vari livelli di

espressività clinica ed umana: è necessaria ancora molta strada, sia a livello concettuale, che di

studio clinico, che di ricerca con le nuove tecnologie...

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-Lo stigma che ancora circonda la malattia impedisce una lettura profonda; ci si limita alle

apparenze o agli eventi sporadici, mentre una maggiore chiarezza su chi è il malato con demenza

ne metterebbe in luce anche aspetti diversi dalla perdita, e quindi ridurrebbe i timori per la

malattia e la conseguente esigenza di nasconderla

-La crisi della medicina, incapace di cogliere la realtà unitaria dell'individuo, come indicato dalla

“system medicine”. La vita è il prodotto di integrazioni biologiche, cliniche e psicosociali; non la

si coglie esaminandola “a pezzi”: nella vita di chi è affetto da demenza. manca la conoscenza di

un pezzo importante, la continuità dell'essere, indipendentemente dalla condizione clinico-

esistenziale del momento

-Un mondo frammentato che ha rinunciato a proteggere, anche perché non guarda ai fragili nella

loro dimensione complessiva (“abbiamo perso il valore competitivo della coesione sociale”). Per

fare questo occorre capire che non vi sono solo perdite nella vita della persona affetta da

demenza e che la valorizzazione interpersonale di ciò che resta (se caratterizzato) è importante

per costruire una rete di relazioni efficaci (“capitale sociale” che si costruisce anche con le

persone più deboli!).

C. La biologia è immersa nella vita

(constatazione essenziale per dimostrare che anche in condizioni difficili la vita non è mai

neutrale, perché costruisce il proprio futuro attraverso il progressivo realizzarsi di nuove realtà)

-La mente di chi è affetto da demenza è sensibilissima, non ha perso la capacità di reagire. Ad

esempio, i BPSD dipendono in buona parte da trattamenti inadeguati, dalla mancanza di

“tolleranza” dei caregiver. La persona ammalata rimane sensibile allo stato emotivo dell'altro e

può esprimersi con ansia, aggressività, apatia... Un esempio in positivo: la donna affetta da

demenza grave e sorda, che risponde adeguatamente al fratello laringectomizzato quando le

parla. Come spiegare questa realtà umana, apparentemente incomprensibile, se non con la

prevalenza dell'empatia-relazione rispetto alla perdita, in grado di modificare le capacità della

persona ammalata ancora non perdute?

-L'esperienza dei robottini con le sembianze da animale (Paro), che reagiscono in modo sintonico

quando sono affidati alle attenzioni di una persona affetta da demenza. La risposta spesso

positiva dell'ammalato è certamente primitiva, ma dimostra una capacità conservata di

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rispondere a stimoli tattili, uditivi, ecc. e ad esprimere un certo livello di capacità affettivo-

relazionale. Significativo l'atteggiamento di un figlio, che ha reagito male quando ha visto le

attenzioni della madre ospite di una casa di riposo per Paro, accusando gli operatori della

residenza di non rispettarne la dignità.

L'affetto altera la lettura della realtà o vorrebbe imporre un livello più profondo di interazione tra

ammalato e ambiente?

-Le relazioni con chi è affetto da demenza hanno un effetto importante: a) sul piano

dell'esperienza soggettiva; b) sul livello al quale la persona esprime capacità cognitive ancora

attive; c) sulla capacità della persona di affrontare la vita di ogni giorno; d) sulla capacità di

svolgere attività sociali e di dare significati alla vita. Ma la relazione non può essere l'unico

aspetto che definisce “l'altro” (colpito dalla demenza); è certamente “forte”, ma dobbiamo andare

alla ricerca di un fondamento che si potrebbe definire autonomo rispetto alle relazioni sociali,

che pur rivestono un importantissimo ruolo. Trovare un equilibrio tra la definizione di identità

personale come questione interna all'individuo o questione socialmente determinata: è il nucleo

della nostra difficile ricerca. Affidarsi solo al riconoscimento da parte di altri porterebbe

costruire una condizione “friabile”, esposta alle condizioni del momento (psicologiche, etiche,

sociali, economiche); un fondamento antropologico (biologico?) sarebbe invece molto più solido

D. Che cosa resta?

-Hawking: “I computer raddoppiano la loro capacità di memoria ogni 18 mesi; prenderanno il

potere, mettendo a rischio la razza umana”. Se tutto si incentra sulla memoria, questo rischio è

davvero immanente. Che cos'ha l'ammalato, oltre alla memoria, che costituisce la sua umanità

(che quindi è anche quella di tutti, permettendo di sottrarci al dominio dell'intelligenza

artificiale)

-Il significato del corpo anche nella persona affetta da demenza. Deve essere letto come

espressione suprema della vita e non come “macchina efficace”. Anche nella demenza il corpo

rappresenta il ponte più rilevante verso l'esterno, purché se ne accettino i limiti. Spesso si dice

che il nostro cervello è il pezzo più complesso dell'universo. Ma l'intera persona, della quale fa

parte il cervello, è certamente più complessa. E la persona non può essere compresa senza

valutare l'ambiente e le altre persone: si procede per livelli progressivi di complessità (necessaria

per un'interpretazione realistica della vita, anche in corso di malattie come la demenza). Il corpo

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come sinapsi tra dentro e fuori, luogo di unificazione dell'esperienza individuale e collettiva

-La poesia sa dare risposte significative: a) Alberto Bertoni dice del padre affetto da demenza:

“Penso che lui è il poeta, io l'archivista muto” ; b) Roberta Dapunt in “Le beatitudini della

malattia” descrive come la madre, che sembra aver perso qualsiasi contatto con la realtà,

conserva un forte senso religioso, una costante che supera l'apparente destrutturazione del

pensiero: “Mai ti ho vista nel dubbio, fedele orizzonte/che anche nella demenza più sfrontata ti

rimane/di fronte. Ho pensato in quella prima estate:/fossi io la fede sceglierei te come fortezza”;

c) Salvatore Mannuzzu: “Sì, l'attenzione, l'affetto, rivelano che la storia di quella persona, la sua

identità precisa sono ancora incise nella storia. Tratti di umanità baluginano continuamente,

come la piccola fiamma di un lumicino. E' la vita che dimostra così di essere invincibile”. Noon:

“I used to be a candle about eight feet tall, burning bright/now every day I lose a little bit of me

/Someday the candle will be very small/But the flame will be just as bright.” Attraverso la poesia

si intuisce gestalticamente cos'è la vita, ma dobbiamo fare ancora passi avanti, in un impegno

serio, contemporaneo a quello per identificare risposte terapeutiche innovative (non siamo

conservatori!).

E. “A good life with dementia”. Una conclusione

Una conclusione per punti, che collega la possibilità di una “vita buona” anche per le persone

affette da demenza con il riconoscimento di un valore intrinseco della persona, capace di

esercitare alcuni gradi di libertà.

-Aiutare la persona a mantenere il proprio senso di unicità e di identità personale

-Apprezzare il “qui e ora” (It's a moment living life) nel tempo lungo della malattia

-Mantenere meaningful human connections (you don't always need words)

-Sperimentare a full range of emotions (good days and bad days)

-Prendere dei rischi per aiutare a vivere in libertà (what's there to worry about?)

-Ricercare una buona salute, compreso il benessere fisico ed emotivo

La diagnosi e le cure delle persone affette da demenza devono essere adeguate a queste

premesse; non vi è separatezza nell'intervento clinico rispetto al resto. A questo proposito un

ruolo centrale è esercitato dalla valutazione multidimensionale. come metodo per una

comprensione di ogni aspetto della vita.

L’insieme delle indicazioni soprariportate si fonda sulla constatazione, che peraltro è necessario

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integrare con studi e ricerche sempre mirati, che la vita della persona affetta da demenza

continua, nonostante la neurodegenerazione.

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Convergenze e sinergie: la gestione della fede nell’alleanza terapeutica Dott. Paolo Boschi

Presidente Agenzia formativa APOGeO - Firenze

Autore di letteratura manageriale

Formatore aziendale, di qualifica e per le professioni di aiuto – ASL 8 Cagliari

Il rapporto fra fede del paziente e relazione terapeutica è da

tempo oggetto di attenzione. In effetti, la dimensione spirituale

delle persone assistite può essere collocata in quell’approccio

olistico che già dal 1986 The Ottawa Cahrter for Healt

Promotion indica come una delle “questioni essenziali nello

sviluppo delle strategie per la promozione della salute”, per cui

“i servizi sanitari hanno bisogno di adottare un mandato più

ampio, […] sensibile e rispettoso dei bisogni culturali”. L’essere

umano è infatti un sistema complesso superiore alla somma

delle parti, tanto che riportare i principi dell’insieme alle leggi

delle singole unità può generare esiti riduttivi. A conferma, già dagli studi di Andrew Newborg

e Eugene d’Aquili, pionieri nella ricerca dei meccanismi neurobiologici della fede, risulta come

i comportamenti religiosi o meditativi autentici possano attivare risposte positive

dell’organismo. Gli esiti appaiono fra l’altro limitare la concentrazione ematica di ormoni quali

il cortisolo e rafforzare la risposta immunitaria. Oggi si parla inoltre di “Medicina narrativa”

(Rita Charon) dove, attraverso lo sviluppo di una competenza specifica, la narrazione del

paziente viene considerata al pari dei segni e dei sintomi clinici della malattia.

Accogliere la spontaneità delle narrazioni anche in tema di fede, pur contenendole e

finalizzandole, può quindi risultare funzionale ai processi di cura. Ove le dimensioni di medico

e paziente non coincidano, un nucleo minimo di valori condivisibili può comunque bastare per

gestire il rapporto.

La definizione di fede dell’Antico Testamento come “fondamento delle cose che si sperano e

prova di quelle che non si vedono” (Eb. 11,1) può favorire l’apertura verso ogni Credo. La

sintesi di Margherita Hack, per la quale sia credere che non credere è questione di fede, integra

il quadro. Prescindere da questo meta-modello può portare a valutare quanto ci viene riferito in

base alle nostre nozioni e opinioni anziché indagarlo per ciò che è, con derive di chiusura o

conflitto. Per dare spazio alla dimensione olistica e fideistica altrui occorre invece tacere per

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ascoltare e far tacere le proprie convinzioni per capire, almeno in fase esplorativa e per quanto

praticabile.

Le maniere di visitare una cattedrale possono costituire una metafora delle possibilità ricorrenti.

Al primo livello si individua un approccio del sagrato. Qui, il soggetto non entra né guarda la

facciata. È il tacere di chi nega la rilevanza della fede nella relazione di aiuto e respinge il

meta-modello. Compie un percorso consonante chi entra ma cerca solo ciò che già conosce e

condivide. Tutto il resto viene rifiutato. Il visitatore formale considera gli aspetti strutturali o

artistici dell’edificio e commenta di tanto in tanto, per socialità. Manifesta così una forma di

partecipazione, tuttavia perde il senso profondo di ciò che lo circonda, di come indichi il

pensiero e i comportamenti di chi crede.

Nella visita partecipativa ci si chiede che senso possa avere ogni cosa in quanto tale. Qui, chi

scopre che le fondazioni dell’antico edificio sotto alla cattedrale di San Sabino (BA) hanno

l’asse leggermente obliquo rispetto all’attuale non resta indifferente né pensa a un caso o a un

errore. Piuttosto, usa le proprie conoscenze anche di metodo per indagarne il motivo.

Tale approccio configura il luogo delle possibilità, dove l’idea di compliance come

acquiescenza alle indicazioni viene superata verso alleanze e programmi che tengano conto

delle possibilità e delle convinzioni delle persone assistite. Infatti, sempre secondo The Ottawa

Charter, si raggiunge la salute sviluppando e mobilitando al meglio le proprie risorse, per

“soddisfare prerogative sia personali (fisiche e mentali), sia esterne (sociali e materiali)”. Ci si

riallaccia così al concetto per cui "La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e

sociale e non soltanto un’assenza di malattia o di infermità" (Organizzazione Mondiale della

Sanità,1948).

Può accadere però che le convinzioni del personale sanitario e quelle della persona assistita

siano davvero distanti. Occorre allora distinguere: talora la direzione terapeutica risulta

comunque condivisa, talaltra diverge in modo anche ineludibile, consapevole e ben definito.

Nel primo caso, “rimanere sul sagrato” e dire a un credente che il suo benessere dipende solo

dal modo in cui il suo convincimento innesca risposte psichiche e biologiche, può turbare

inutilmente. Questo, finché la persona si attivi secondo quanto concordato. Meglio anzi dare

sostegno, almeno come nella “visita formale”, senza minimizzare le convinzioni altrui o

assumerne i dichiarati come attacchi personali. Idee diverse possono coesistere o risultare

complementari, così come non è certo che qualcosa sia incomprensibile solo perché sul

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momento risulta remoto. Molto sta nell’attivare empatia cognitiva, ascolto attivo e una pratica

linguistica congrua. Specifici laboratori formativi sostengono lo sviluppo di queste abilità.

Nel secondo caso la questione è ben più complessa. La Carta di Ottawa infatti avverte: “Fattori

[…] sociali, culturali […] possono favorire la salute, ma possono anche danneggiarla”. Così,

chi crede può denotare prese di posizione che non si manifestano in chi viva una dimensione

diversa. Anche qui occorre dare attenzione ai contenuti altrui, da conoscere almeno per attivare

il dialogo. È però un rapporto con la fede diverso da quello dell’alleanza terapeutica, che

richiede indagini e riflessioni specifiche. La Convenzione di Oviedo (Consiglio d’Europa,

1997) è uno dei riferimenti per garantire “a ogni persona, senza discriminazione, il rispetto

della sua integrità e dei suoi altri diritti e libertà fondamentali riguardo alle applicazioni della

biologia e della medicina”. Tuttavia, il dilemma etico può rimanere. Qui, come in ogni altro

caso, alla base della ricerca di soluzioni può trovarsi l’idea di non pretendere che chiunque

ragioni e viva proprio secondo ogni nostra regola.

Bibliografia R. Eres, J.L. Decety, W:R: Louis, P. Molenberghs, Individual differences in local gray matter density are associated with differences in affective and cognitive empathy. NeuroImage, 2015, 117, 305-310 B. Johnstone, D. YYoon, D. Cohen, L. Schopp, G.McCormack, J. Campbell, M. Smith, Relationships Among Spirituality, Religious Practices, Personality Factors and Health for Five Different Faith Traditions, Journal of Religion and Health, December 2012, Vol. 51, Issue 4, pp. 1017–1041 P. Boschi, Fatti, valori e dibattito, in AA. VV., “Argomentare le proprie ragioni. Organizzare, condurre e valutare un dibattito”, Loffredo Editore, Casoria-Napoli, 2011 Superare l’Ansia, con L. Sprugnoli, Gruppo Giunti, 1996, 1999, 2006, 2010 R. Charon, Narrative Medicine: Honoring the Stories of Illness, Oxford University Press, Oxford, 2006. P. Boschi e L. Sprugnoli,Gestire le riunioni, Gruppo Giunti, Firenze, 2007 P. Boschi e L. Sprugnoli, Colleghi impossibili, Gruppo Giunti, Firenze, 2003 e 2006 Armando Pavese, Fede come terapia. Analisi psicologica della fede come strumento di guarigione fisica e spirituale in casi reali, Portalupi, 2005 H. Brody, Story of illness, Oxford University Press, Oxford, 2003 Wilcock et al., Coronary Heart Disease Collaborative and Critical Care Programme, NHS Modernisation Agency, 2003 Wilcock, G.C.S. Brown, J. Bateson, J. Carver & S. Machin), Using patient stories to inspire quality improvement within the NHS modernisation agency collaborative programmes, J. Clin. Nurs., 2003, 12, 422–430. R. Charon, The narrative road to empathy, in H. Sprio (Ed.) “Empaty and the Practice of Medicine”, New Haven, Yale University Press, 1993 P. Boschi, Dall’arte alla terapia: un’esperienza scenica in situazione d’incertezza, in Atti dal Convegno “Gruppo, individuo, solitudine” (Firenze 1996), Facoltà di Medicina e Chirurgia (Scuola Spec. Psicologia Clinica) dell’Università degli studi di Firenze, Borla, Roma, 1997 P. Boschi e L. Sprugnoli, Gestire e prevenire Conflitti e Frustrazioni…”, Gruppo Giunti, Firenze, 1997 B.S. Rabin, “Religion and medicine”, The Lancet, vol. 353, 1999 L. Woods, Dell’arte del tacere, Gruppo Giunti, Firenze, 1999 R. Sloan, E. Biagella, T. Powell, Religion, spirituality and medicine, The Lancet, vol. 353, 1999 C. Charles, A. Gafni, T. Whelan, Shared decision-making in the medical encounter: what does it mean? (or it takes at least two to tango), Social Science & Medicine, 1997, 44, 681-692. G.W. Comstock, K.B. Partridge, School of Hygiene and Public Health, Church attendance and health, The Johns Hopkins University, Baltimore, Md 21205, U.S.A., 1972

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Quali i numeri del problema

Prof. Vincenzo Solfrizzi Professore Aggregato Dipartimento Interdisciplinare di Medicina Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

La demenza ha solo di recente ricevuto da parte di tutto il mondo

un’attenzione simile ad altre più importanti priorità di salute pubblica,

come per es lo è per l'HIV/AIDS. Inoltre dal punto di vista demografico

si osserva nella popolazione una quota sempre crescente di persone

anziane che, a causa della sola età, sono ad aumentato rischio di

demenza. Sono sempre più evidenti quali siano gli effetti della demenza

sui malati, sulle famiglie e sulla società, e ci si preoccupa del probabile

aumento del numero di persone affette da questa malattia. Anche se le

politiche di intervento si presume debbano essere basate su prove

scientifiche robuste, studi epidemiologici che misurano chi nella

popolazione è affetto, chi lo sarà e chi invece sfuggirà alla demenza, e se

queste stime cambieranno nel corso del tempo, sono sorprendentemente rari. Le stime possono essere

basate utilizzando i servizi di sanità pubblici o i certificati di morte, come per molte altre patologie come

le malattie cardiovascolari e il cancro, ma questo approccio non è utile per la demenza, perché queste

fonti registrano una variazione percentuale di persone che soddisfano i criteri diagnostici di demenza nel

comunità. Studi di popolazione sono spesso fondati su singole allocazioni regionali, raramente si

determinano arruolamenti sull’intero territorio nazionale. Dati sul verificarsi di eventi riscontrati in studi

epidemiologici basati su popolazione sono fondamentali per la pianificazione e la valutazione dei costi

dei servizi sanitari e dei relativi oneri economici, e quindi sono necessarie stime robuste, pertinenti e

aggiornate per sostenere la creazione di politiche utili per contrastare la demenza. Queste politiche

devono essere sensibili a molti fattori individuali e di contesto, in particolare di tipo culturale,

socioeconomico, di genere, il che significa che le politiche dovrebbero differire da paese a paese e

modificarsi nel tempo.

Nonostante il trauma di due guerre mondiali, i paesi ad alto reddito in Europa si caratterizzano per

ambiti sociali relativamente stabili, condizioni di vita agiate e sistemi di assistenza avanzati, il che

significa che l'aspettativa di vita è in aumento, le popolazioni stanno invecchiando e le preoccupazioni

per i problemi cui si accompagna la demenza sono in aumento. Le prime indagini epidemiologiche sulla

demenza in Europa occidentale, sono state avviate nel 1980 e hanno determinato un’effetto tangibile

sulla politica dei 10 anni successivi. Questi studi influenzano ancora lo sviluppo delle politiche al giorno

d’oggi e continuano a fornire una stima delle dimensioni e della distribuzione della demenza nei singoli

paesi europei e, a confronto, tra tutti i paesi Europa, e vengono utilizzati sia a livello nazionale che

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locale (ad esempio, gli obbiettivi delle cure primarie del Sistema Sanitario del Regno Unito). Le

proiezioni derivanti da questi vecchi studi supportano l'ipotesi di un continuo incremento di nuovi casi

di demenza, una cosiddetta epidemia della demenza. Sebbene questi studi passati abbiano fornito

informazioni importanti sulla demenza chi governa deve prendere ora in considerazione i cambiamenti

della società e il loro potenziale effetto sulla salute della popolazione. Ogni generazione di anziani avrà

subito effetti positivi e negativi sulla propria salute durante tutto il corso della vita. I fattori di rischio

per la demenza noti (ad esempio, quelli vascolari) e di protezione (ad esempio, un elevato livello di

istruzione) si sono modificati enormemente durante le successive generazioni. A causa di questi

cambiamenti nella speranza di vita e nei profili di rischio, ci si aspetterebbe di vedere una variazione

significativa nell’ insorgenza della demenza nel tempo e a confronto tra i diversi paesi. Investimenti

corretti nell’ambito delle politiche sociali e sanitarie hanno bisogno di acquisire informazioni da studi

epidemiologici aggiornati, che misurino possibili cambiamenti avvenuti nell’ambito delle demenze e

misurati in popolazioni rappresentative. Oltre a stimare il cambiamento epidemiologico della demenza e

di contribuire al corpo di conoscenze su come siano mutate la sua storia e la definizione di questa

sindrome, questi risultati influenzeranno anche il dibattito sulla direzione del finanziamento della

ricerca.

Alcuni studi epidemiologici in Europa e negli Stati Uniti hanno misurato una possibile diminuzione nel

verificarsi di nuovi casi di demenza. Questa diminuzione sottolinea i potenziali benefici a lungo termine

delle politiche nazionali in materia di educazione, determinanti sociali della salute che influenzano

disuguaglianze e su comportamenti corretti a favore della salute per le generazioni future. Le politiche

indirizzate a tutta la popolazione, come ad esempio le politiche di prevenzione, promozione della salute

e la fornitura di assistenza sanitaria pubblica, in tutte le fasi della vita, sono certamente di utilità.

Le evidenze provenienti da queste studi europei rafforza l’idea che le strategie di prevenzione da esguire

già dalle prime fasi della vita per ridurre il rischio di demenza siano più efficaci dell'eccessiva enfasi

data agli interventi farmacologici da attuare nelle fasi avanzate della vita quando già la malattia è

manifesta.

Alcuni studi europei presentano un quadro piuttosto diverso dalla cosiddetta epidemia della demenza

riportata in alcune revisioni sistematiche e meta-analisi di recente pubblicate, e suggeriscono che il

numero di persone con demenza nei paesi europei si sta stabilizzando, nonostante l'invecchiamento della

popolazione. Tuttavia, la cura della demenza rimarrà una sfida ancora per molti anni. In particolare, i

soggetti di 85 anni di età e più, rappresentano coloro a rapido incremento demografico nella

popolazione, con circa il 40% attualmente stimato di pazienti affetti dalla demenza, e molti altri con

declino cognitivo e fragilità.

Gli investimenti nella ricerca sia per la prevenzione primaria (politiche che riducono il rischio

aumentando la riserva cognitiva), secondaria (diagnosi precoce e lo screening) e terziaria (da attuare una

volta che la demenza è manifesta) non sono mai stati più forti. In un studio di politica sanitaria sulla

demenza, l'Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo ha ricordato che i sistemi sanitari per la

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salute nei vari paesi membri dell’UE destinano meno del 3% della spesa del loro sistema sanitario per la

prevenzione della demenza. La ricerca sulla demenza indirizza le sue maggiori risorse ancora su

biomarcatori, meccanismi biochimici, trattamenti e cure. Nel Regno Unito il 5% dei finanziamenti per la

ricerca tra il 1990 e il 2012 sono stati dedicati a studi sui fattori di rischio e strategie di prevenzione, con

l'11% investito in quelli per la diagnosi di demenza e il 20% in quelli di cura e supporto, mentre quasi il

65% è stato investito nella ricerca sulle cause, la cura e lo sviluppo di nuovi farmaci.

Le evidenze scientifiche devono essere valutate per i loro punti di forza e debolezze, tenendo presente la

popolazione da cui derivano per fornire maggior valore agli investimenti fatti. La forza di questi studi

eseguiti in Europa, ed in particolare i metodi di studio stabili nel tempo, un campionamento appropriato

e rappresentativo della popolazione, i tassi di partecipazione elevati e un campionamento ripetuto nel

tempo, ha necessità di essere sostenuta e sviluppata ulteriormente. Il progresso della ricerca

epidemiologica potrebbe informare non solo la politica e la pratica clinica, ma anche la nostra

comprensione dello stesso significato da attribuire alla salute in età avanzata.

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MALATTIA DI ALZHEIMER: DIAGNOSI PRECOCE E NUOVE TERAPIE.

Giancarlo Logroscino1,2, Federica Veneziani3

1Unità Malattie Neurodegenerative, Dipartimento di Scienze mediche di base, Neuroscienze ed Organi di Senso,

Università “Aldo Moro” di Bari, Bari, Italia. 2Dipartimento di Ricerca Clinica in Neurologia, Università “Aldo Moro” di Bari, “Pia Fondazione Cardinale G. Panico“,

Tricase, Lecce, Italia. 3 Unità di Psichiatria dell’adulto, Dipartimento di Scienze mediche di base, Neuroscienze ed Organi di Senso,

Università “Aldo Moro” di Bari, Bari, Italia.

La malattia di Alzheimer (MA) è la principale causa di impairment

cognitivo rappresentando il 31,3% di tutti i casi di demenza. Si stima

che 26,55 milioni di persone nel mondo siano affette da MA, circa lo

0,5% della popolazione. Tale numero si prevede tenderà a

raddoppiare nei prossimi 50 anni.1 Considerando l’incremento atteso

nella prevalenza della Malattia di Alzheimer occorre altresì

sottolineare che questa patologia rappresenta, secondo quanto stimato

dal Global Burden of Disease, l’undicesima causa di disabilità

durante l’intero corso della vita (Disability Adjusted Life Years-

DALY) e la prima causa di disabilità (DALY) in ambito neurologico

nei soggetti di età pari o superiore ai 60 anni.2

I costi socio-economici stimati per la Malattia di Alzheimer risultano pertanto ingentissimi,

raggiungendo a livello mondiale secondo quanto stimato nel 2009 i $422 miliardi di dollari, con costi

diretti pari a $279 miliardi di dollari e costi di assistenza informale di $142 miliardi di dollari.3

Allo stato attuale, tuttavia, a fronte del grandissimo impatto socio-sanitario ed economico di questa

patologia le possibilità terapeutiche restano scarse. L’ingresso sul mercato di farmaci con nuovi

meccanismi d'azione approvati per la Malattia di Alzheimer sono stati estremamente rari in questi ultimi

anni. Dati riguardanti l’intervallo temporale 1994-2001 mostrano, infatti, come farmaci attivi sul

sistema nervoso centrale che entrano in protocolli di sviluppo clinico hanno una probabilità

notevolmente inferiore di raggiungere il mercato (7%) rispetto alla media del settore in altre aree

terapeutiche (15%). Farmaci attivi sul sistema nervoso centrale, secondo quanto stimato in letteratura,

necessitano inoltre di un tempo medio per lo sviluppo e l’approvazione di 12,6 anni, intervallo che

appare sensibilmente più lungo rispetto a quanto stimato, per esempio, per farmaci attivi sull’apparato

cardiovascolare (6,3 anni) o gastrointestinale (7,5 anni). 4

Le ragioni alla base di tale difficoltà nello sviluppo di nuovi farmaci in questo settore comprendono:

l'enorme complessità del cervello umano, i cui processi fisiopatologici appaiono ancora largamente poco

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compresi; una propensione dei farmaci attivi sul sistema nervoso centrale a dare luogo ad effetti

collaterali quali, per esempio, nausea, vertigini e convulsioni che ne limitano l’applicabilità clinica; la

presenza della barriera emato-encefalica, attraverso la quale la maggior parte degli agenti terapeutici

devono penetrare, che aggiunge un ulteriore ostacolo alla farmacocinetica delle molecole studiate.

Tali motivazioni rendono conto della scarsa efficacia dei modelli animali nello studio di principi attivi

sul SNC. La difficoltà nell’applicazione traslazionale di modelli animali, tuttavia, non appare correlata

alle sole differenze di complessità biologica rispetto all’uomo ma, come è evidenziato nello studio di

Benatar e coll.5 a problematiche strutturali nel design di tali tipi di studi. Prima tra tutte la distorsione

dovuta ad una over-rappresentazione di piccoli studi che riportano risultati positivi con una scarsità

relativa di piccoli studi pubblicati che non mostrano alcun effetto del trattamento. Infatti, anche se i

risultati "positivi" sono spesso considerati più interessanti e quindi hanno più probabilità di essere

pubblicati, la mancata pubblicazione di studi ritenuti “negativi” può generare un'impressione troppo

ottimistica dell'utilità del modello sperimentale per l'identificazione di agenti terapeutici potenzialmente

utili per gli studi clinici umani e condurre pertanto a inutili applicazioni mediante trial clinici

randomizzati.

Seconda osservazione importante di Benatar e coll5 è che la maggior parte degli studi di trattamento nel

modello animale sono di qualità metodologica limitata essendo solo una minoranza di essi randomizzato

ed in cieco. Per comprendere le implicazioni dei difetti metodologici, è necessario considerare

l'importanza di ciascuno di questi elementi di design sulla validità dei risultati messi in evidenza dagli

studi. L'obiettivo della randomizzazione è garantire che potenziali fattori confondenti, ovvero fattori che

influenzano o alterano l’associazione tra un particolare trattamento ed un outcome selezionato, siano

equamente distribuiti tra i diversi gruppi di trattamento o bracci del trial clinico. Sebbene l'importanza

della randomizzazione in studi clinici umani sia indiscussa, la sua applicazione negli studi animali

appare significativamente più incostante in quanto nei modelli animali, in genere, si utilizzano esemplari

dello stesso ceppo, ovvero, con identico patrimonio genetico, allevati in condizioni standardizzate in

modo da poter assumere come identica l’esposizione a fattori ambientali, pertanto la necessità di

randomizzazione viene ritenuta meno stringente di quanto non avvenga nell’uomo. Sebbene tale

concetto appaia ragionevole, non si può in realtà prescindere dalla randomizzazione nel design di studi

su modelli animali in quanto quest’ultima garantisce una distribuzione uniforme sia di fattori

confondenti noti ma anche di possibili fattori confondenti sconosciuti che genererebbero bias nello

studio.

Negli studi su modelli animali, ancora più importante della randomizzazione, risulta essere la

conduzione in cieco soprattutto quando si utilizzano misure di outcome alquanto soggettive come quelle

basate sulla presenza o assenza di sintomi motori o comportamentali nell’animale da esperimento. La

conoscenza da parte dell’investigator del braccio di trattamento dello studio può, infatti, introdurre bias

significativi sulla presenza o assenza di un particolare endpoint.

Una terza questione metodologica messa in luce da Benatar e coll5 utilizzando come paradigma il

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fallimento di quasi tutte le sperimentazioni di trattamento nel modello murino di sclerosi laterale

amiotrofica riguarda la differenza tra significato clinico di un outcome e significatività statistica. Ad

esempio, può essere possibile dimostrare che una differenza di sopravvivenza di un giorno tra due

gruppi di trattamento che apparirebbe insignificante su di un piano clinico, risulta altresì statisticamente

significativa se la dimensione campionaria è sufficientemente grande e/o se la varianza all'interno di

ogni gruppo è sufficientemente bassa. Il risultato di tale considerazione è che spesso molecole aventi

risposte cliniche irrilevanti, basandosi esclusivamente sulla dimostrazione di significatività statistica

vengono testate in studi clinici umani portando ad un fallimento che era in realtà totalmente prevedibile

ab origine.

Per quanto concerne la difficoltà nello sviluppo e nell’ingresso sul mercato di nuovi farmaci attivi sul

sistema nervoso centrale alle già citate criticità dovute all’inaffidabilità dei modelli animali, va aggiunta

la mancanza di biomarcatori atti a valutare in modo certo se una data concentrazione di agente

neuroterapeutico stia agendo a livello cerebrale in modo sufficiente per modulare l'obiettivo desiderato,

con la conseguente presenza nei vari studi di endpoints estremamente variabili e soggettivi.4

A fronte quindi della necessità di sviluppare più validi modelli di studio per la valutazione di nuove

terapie occorre evidenziare alcuni punti chiave ascrivibili al design dei trial clinici randomizzati.

Validi paradigmi atti ad analizzare alcune criticità nella scelta dei casi negli studi clinici randomizzati

sono forniti dai recenti trial clinici su Solanezumab6 e Bepineuzumab7 quali anticorpi monoclonali

umanizzati favorenti la clearance della βamiloide (Aβ) mediante un legame preferenziale con la forma

solubile di tale peptide nella Malattia di Alzheimer.

Le evidenze in studi preclinici su modello murino avevano individuato, infatti, un anticorpo murino

avente come target il dominio centrale della Aβ, selettivo per forme solubili che aveva dimostrato

rallentare la deposizione di Aβ nel cervello del topo. In tale modello complessi Aβ-anticorpo erano

altresì presenti nel liquido cerebrospinale (CSF) e nel plasma ed i loro livelli correlavano con un

miglioramento dai deficit comportamentali rappresentanti il modello di Malattia di Alzheimer. Il

Solanezumab e Bepineuzumab, analoghi umanizzati di anticorpi murini, sono stati pertanto testati in

studi clinici di fase 1 e 2. Tali studi hanno mostrato un aumento dose correlato dei livelli plasmatici e

liquorali totali di Aβ (peptide legato più peptide non legato).8,9 Tali risultati suggerivano che tali farmaci

potessero avere efficacia nella terapia della malattia di Alzheimer tramite la promozione dell’efflusso

della βamiloide dal sistema nervoso centrale attraverso la circolazione periferica. 10

Pertanto Doody e coll.6 e Salloway e coll7 hanno condotto studi clinici controllati di fase 3,

randomizzati, in doppio cieco di tipo drug vs placebo, in soggetti aventi Malattia di Alzheimer in stadio

lieve- moderato secondo quanto stimato mediante Mini Mental State Examination (MMSE compreso

tra 26 e 16) di età pari o superiore ai 55 anni, non affetti da depressione stimata mediante Geriatric

Depression Scale (GDS minore o uguale a 6). Gli endpoint valutati in tali studi erano i cambiamenti nei

punteggi della sottoscala cognitiva ad 11 item della Alzheimer’s Disease Assessment Scale (ADAS-

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cog11) e della Alzheimer’s Disease Cooperative Study Activities of Daily Living scale (ADCS-

ADL).

I risultati di questi studi non hanno tuttavia confermato la differenza significativa negli endpoint clinici

primari tra il braccio trattato con Solanezumab o Bepineuzumab e quello trattato con placebo come

auspicato dagli studi precedenti aventi come endpoints biomarkers, che avevano mostrato la capacità di

tali anticorpi monoclonali di modificare l’accumulo di βamiloide e di biomarkers a valle della cascata

della Aβ quali fosfo-tau. Tale risultato, come evidenziato dagli stessi autori, sembra indicare che poichè

l’accumulo cerebrale di βamiloide inizia molti anni prima dell’insorgenza del deterioramento cognitivo

(endpoint di tale studio), incomiciare un trattamento con farmaci aventi azione anti-βA in fase

sintomatica è troppo tardi rispetto al decorso della neuropatologia per riuscire a determinare un

miglioramento clinicamente evidente.6,7 Tale considerazione pone un importante accento su un concetto

fondamentale per un più valido design di studi clinici randomizzati di trattamento nella Malattia di

Alzheimer, ovvero, il timing.

Dal 1984, anno di pubblicazione dei criteri NINCDS-ADRDA11 della Malattia di Alzheimer, il

continuo tentativo in ambito clinico e di ricerca è stato quello di rendere la diagnosi della MA quanto

più precoce possibile, individuando fasi del decorso della malattia in cui l’impairment funzionale fosse

meno pronunciato e sulle quali ci si auspicava di poter agire farmacologicamente per bloccare il

processo di decadimento cognitivo instauratosi. Tale tentativo aveva condotto alla individuazione del

Mild Cognitive Impairment (MCI). Tale entità clinica è caratterizzata da performance cognitive

inadeguate rispetto all’età del soggetto, non chiaramente classificabili come demenza secondo i criteri

diagnostici NINCDS-ADRDA, ma definibili come un declino cognitivo che non influenza ancora in

modo significativo le attività funzionali del soggetto. L’MCI può essere inquadrato come una fase di

transizione del soggetto tra il normale invecchiamento ed una diagnosi di demenza, in un continuum

cognitivo i cui margini risultano piuttosto sfumati.12 Soggetti con MCI possono essere classificati in

base alla presenza/assenza di una compromissione clinica nel dominio della memoria rispettivamente in

Mild Cognitive Impairment amnesico e non amnesico. In entrambi questi sottotipi possono essere

compromessi uno unico o più domini cognitivi.13 L’eziologia degenerativa dovuta a malattia di

Alzheimer in fase prodromica può essere considerata quando si riscontra un MCI amnesico con

compromissione a singolo o a multiplo dominio. Sottotipi di MCI quali forme non amnesiche, con

compromissioni in domini quali le funzioni esecutive o le abilità visuo-spaziali risultano più

probabilmente associate ad una progressione verso una demenza di tipo non Alzheimer quali Demenza

Frontotemporale o Demenza a corpi di Lewy.14 Secondo quanto sottolineato da Yuan e coll15 in una

recente meta-analisi di letteratura la Tomografia ad emissione di positroni con Fluorodesossiglucosio

(F18) (FDG-PET) risulta essere un utile complemento per la previsione della conversione a MA di

pazienti con MCI, con una precisione predittiva migliore di SPECT o RM.

L’integrazione pertanto dei criteri diagnostici per Mild Cognitive Impairment amnesico con

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l’esecuzione di FDG-PET potrebbe rappresentare un valido criterio di selezione precoce di casi a

probabile evoluzione verso MA con conseguente spostamento dei trial in fase più prococe nella storia

naturale di malattia.

Lo sviluppo dell’ipotesi della cascata della βamiloide ha successivamente condotto all’individuazione di

una fase di malattia definita come preclinica caratterizzata dalla presenza di un processo patofisiologico

di neurodegenerazione attivo rilevabile mediante biomarker dinamici e dalla assenza di sintomi

cognitivi evidenziabili. I principali biomarcatori patofisiologici e di disfunzione neuronale16 sono:

(I) Deposizione di βA: individuabile mediante ritenzione del tracciante per la βamiloide in

Tomografia ad emissione di positroni (PET) e mediante bassa concentrazione di Aβ1-42 nel liquido

cerebrospinale.

(II) Disfunzione sinaptica: evidenziabile mediante Tomografia ad emissione di positroni con

Fluorodesossiglucosio (F18) (FDG-PET) e mediante Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI).

(III) Danno neuronale: individuabile mediante alti livello di tau o fosfo-tau nel liquido

cerebrospinale.

(IV) Anomalie strutturali cerebrali: evidenziabili mediante Risonanza Magnetica Strutturale

(sMRI).

Sulla base di tali considerazioni nel 2011 Sperling e coll17 hanno pertanto proposto i criteri NIA-AA

che individuano nell’ambito della MA preclinica fasi ordinate di progressione del processo

neuropatologico:

Fase 1: rappresenta individui cognitivamente integri che presentano marcatori di deposizione di

βamiloide positivi (PET e/o Aβ1-42 CSF);

Fase 2: racchiude individui cognitivamente integri che presentano marcatori di danno neuronale

positivi (tau o fosfo-tau CSF, FDG-PET, SMRI) associati a positività di marcatori di deposizione di

βamiloide (PET o Aβ1-42 CSF);

Fase 3: comprende individui con minime alterazioni cognitive associate a positività sia a

marcatori di deposizione di βamiloide (PET e/o Aβ1-42 CSF) che a marcatori di danno neuronale (tau o

fosfo-tau CSF, FDG-PET, SMRI).

Infine era stato individuato un gruppo definito come SNAP caratterizzato dall’assenza di positività sia a

marcatori di deposizione di βamiloide che a marcatori di danno neuronale (tau o fosfo-tau) in presenza

di minime alterazioni cognitive che non soddisfano ancora i criteri MCI quali un lieve cambiamento

rispetto alle performance cognitive basali, scarse prestazioni nei test cognitivi più impegnativi.

Tale sequenza di modificazioni neuropatologiche, radiologiche e cliniche dal normale invecchiamento

alla MA precoce ha permesso pertanto di individuare biomarkers capaci di predire un beneficio clinico o

la mancanza dello stesso su di una base epidemiologica, terapeutica e fisiopatologica. Pertanto si ritiene

essenziale che, negli studi randomizzati che valutano l’efficacia nella Malattia di Alzheimer di una

nuova molecola, si utilizzino biomarcatori precoci di neurodegenerazione sostituendo gli endpoint

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clinici, in quanto essi risultano verosimilmente capaci di individuare una fase di malattia in cui il

processo risulta ancora aggredibile ed auspicabilmente reversibile.

Tale sequenza permette di individuare, altresì, la grande eterogeneità al momento esistente tra quei

soggetti considerati clinicamente silenti in termini di rischio di progressione a MA e di mortalità.

Recenti studi dimostrano, infatti, come individui con MA in fase preclinica, in qualunque fase,

presentano un rischio maggiore sia di mortalità che di progressione a MA sintomatica rispetto ai

soggetti scevri da alterazioni nei biomarkers diagnostici di tale categoria. Inoltre le diverse fasi

individuate nell’ambito dello stadio preclinico differiscono tra loro in termini di rischio di mortalità e di

progressione a MA, con le fasi più avanzate che risultano associate ad un più alto rischio di progressione

verso MA clinicamente manifesta. Tale rischio di progressione risulta indipendente dall’età dei soggetti,

non mostrando significative differenze tra soggetti i più anziani (> 72 anni) e giovani (<72 anni), e

risulta indipendente dallo status di portatore dell’allele APOEε4.18 Il tasso di progressione dei soggetti

appartenenti al gruppo SNAP che secondo quanto stimato da Knopman e coll19 rappresentano il 22%

dei soggetti con sottostante patologia naurodegenerativa, non sembra, invece, differire

significativamente dal rischio di progressione dei soggetti aventi markers di neurodegenerazione

negativi e risultanti integri alle valutazioni cognitive eseguite.

Pertanto si può concludere, secondo quanto indicato da Aisen e coll20 nel rapporto della Task Force

sulla progettazione di Trial clinici randomizzati in fase preclinica di demenza, che lo stadio ottimale per

la conduzione di trial di intervento con terapie modificanti il decorso di malattia è sicuramente

individuabile nelle fasi precliniche. Pertanto la selezione dei casi dovrebbe essere estesa a pazienti in

fase pre-demenza utilizzando i criteri diagnostici per Mild cognitive impairment amnesico a cui

andrebbe associata la positività ad uno o più biomarcatori. Nello specifico, particolarmente utile nella

selezione del campione potrebbe rivelarsi l’utilizzo di marcatori di deposizione di βamiloide quali la

Tomografia ad emissione di positroni (PET) con traccianti specifici per la Aβ e valutazione di basse

concentrazioni di Aβ1-42 nel liquido cerebrospinale. Particolare importanza potrebbe infine essere

rivestita dalla valutazione come endpoint di misure continue cliniche e cognitive piuttosto che

dall’utilizzo di analisi di sopravvivenza che risultano meno significativamente impattate nell’ambito di

tale patologia.

Osservando altresì i criteri di esclusione del trial di fase tre condotto da Salloway e coll7 sull’utilizzo del

Bapineuzumab come anticorpo monoclonale diretto contro la βamiloide nella Malattia di Alzheimer

lieve-moderata è possibile sottolineare l’utilizzo di una risonanza magnetica cerebrale di screening con

esclusione dei casi in cui vi era evidenza di due o più microemorragie, di una singola emorragia o

infarto di dimensioni maggiori di 1 cm3, di due o più infarti lacunari o la presenza di lesioni occupanti

spazio. La recente letteratura internazionale21-24 ha, tuttavia, messo in luce come la malattia

cerebrovascolare e la MA non condividono la sola età come fattore di rischio. Fattori di rischio

vascolare sono stati dimostrati, infatti, essere essenziali nel determinismo della malattia di Alzheimer

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rappresentandone i più importanti fattori di rischio modificabili. Si ritiene che la malattia

cerebrovascolare contribuisca ai cambiamenti neuropatologici osservabili nel corso di MA quali l'atrofia

cerebrale e l'accumulo di proteine anomale, come la βamiloide.

A supporto di tale evidenza vi è la stretta correlazione riscontrata da Yarchoan e coll25 tra

l’aterosclerosi a livello del circolo di Willis e la malattia di Alzheimer, correlazione che non si riscontra

con altri tipi di demenze. Secondo quanto emerso nello studio condotto da Toledo e coll21 la presenza di

malattia cerebrovascolare concomitante è un riscontro neuropatologico comune nei soggetti con

demenza, risultando più comune nella malattia di Alzheimer che in altre patologie neurodegenerative, in

particolare nei soggetti più giovani. La presenza di tali lesioni sembra correlata ad un abbassamento

della soglia di manifestazione clinica di demenza dovuta a malattia di Alzheimer, il che suggerisce che

trattamenti preventivi per la malattia cerebrovascolare potrebbero incidere in modo significativo

ritardando l’insorgenza di demenza di Alzheimer clinicamente manifesta. Considerata, infatti, la scarsità

di strumenti farmacologici al momento disponibili per il trattamento della malattia di Alzheimer, tale

osservazione pone l’accento su un concetto essenziale ovvero il numero dei casi di malattia di

Alzheimer attribuibile a fattori di rischio potenzialmente modificabili.

Secondo quanto stimato da Barnes e coll26 circa 17 milioni di casi di MA potrebbero essere prevenuti

mediante la gestione di fattori di rischio cardiovascolari quali la cessazione del fumo, il controllo dei

livelli di colesterolo e degli zuccheri nel sangue, il monitoraggio della pressione arteriosa e la gestione

farmacologica dell’ipertensione, il controllo del peso corporeo e la prevenzione della obesità. Proprio in

tale direzione, ulteriori studi di letteratura, hanno messo in evidenziato il ruolo significativo di regolare

esercizio fisico e di una dieta a basso contenuto di grassi, ricca di frutta e verdura come fattori essenziali

per il mantenimento di una adeguata funzione cognitiva.

Infine grande rilevanza assumono i livelli di istruzione raggiunti, la complessità del lavoro svolto, il

mantenimento di un adeguato network sociale. Tali fattori secondo quanto evidenziato da Fratiglioni e

coll27 possono aumentare la riserva cerebrale che permette il mantenimento delle funzioni cognitive in

età avanzata e ritarda l'insorgenza di deterioramento cognitivo in soggetti con sottostante processo

degenerativo.

Pertanto così come evidenziato dallo European Dementia Prevention Institute obiettivo fondamentale

accanto alla conduzione di trial di intervento è quello di portare avanti trial di prevenzione multicentrici

che valutino l’impatto multi-dominio di modifiche nello stile di vita, inclusi controllo nutrizionale,

esercizio fisico, training cognitivo, così come di monitoraggio e trattamento di fattori di rischio

cardiovascolari e metabolici sul determinismo e decorso della malattia di Alzheimer. Di qui può nascere

la speranza per un futuro in cui l’Alzheimer non sia un destino inevitabile o un destino senza speranza.

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Il progetto europeo Mario/robot: nuove frontiere della tecnologia Grazia D’Onofrio1, Daniele Sancarlo1, Francesco Ricciardi2, Francesco Giuliani2, Antonio

Greco1

1 Geriatrics Unit & Laboratory of Gerontology and Geriatrics, Department of Medical Sciences, IRCCS “Casa Sollievo della Sofferenza”, San Giovanni Rotondo, Foggia, Italy.

2 ICT, Innovation and Research Unit, IRCCS “Casa Sollievo della Sofferenza”, San Giovanni Rotondo, Foggia, Italy.

Introduzione

Negli ultimi cinquant’anni la popolazione italiana ha subito

un’evidente trasformazione demografica dovuta, in particolare,

all’allungamento delle aspettative di vita, alla riduzione della

mortalità e diminuzione del tasso di natalità. Tutto questo ha portato

ad un progressivo invecchiamento della popolazione che, negli anni

futuri, si stima aumenterà ancora.

Dal punto di vista scientifico-antropologico questo dato viene visto

come un grandissimo successo; invece dal punto di vista socio-

sanitario questo dato viene visto come una pesantissima

responsabilità; cioè la responsabilità di “far vivere bene chi vive a

lungo”. Molte malattie invalidanti e/o cronico degenerative incidono

negativamente sulla qualità di vita della popolazione anziana, traducendo il prolungamento della

sopravvivenza in un prolungamento della sofferenza. Tra queste malattie, una fra le più temibili e

terribili è la demenza: la malattia che trasforma la persona, la sua capacità di organizzarsi la vita, quindi

la malattia che cancella la persona. Si tratta di una malattia lunga, senza speranza di guarigione, che

sovente si traduce in un’esistenza impossibile non solo per le persone che ne vengono colpite, ma

,sempre più spesso, anche per i loro familiari e in generale per chi assume la responsabilità di

un’assistenza continua, pesante e frustrante.

Il termine “demenza” venne identificato per la prima volta nel 1838 da Esquinol come un quadro clinico

caratterizzato dalla perdita della memoria, della capacità di giudizio e dell’attenzione.

La demenza è una sindrome degenerativa caratterizzata da una perdita progressiva delle funzioni

cognitive e della memoria, ma anche della comparsa di sintomi non cognitivi che interessano la

personalità, l’affettività e il comportamento in generale.

Considerando che la demenza in tutte le sue forme è chiaramente uno dei più grossi problemi dei sistemi

sanitari, le ricerche volte a chiarirne l’origine e sviluppare nuove terapie sono da considerarsi tra le più

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urgenti, nel tentativo di individuare in fase precoce, di rallentare o di arrestare lo sviluppo del deficit

cognitivo.

Il costo della demenza è particolarmente alto perché include le spese sostenute per curare individui

disabili per un lungo periodo di tempo; i sistemi sanitari e i servizi sociali devono trovare nuove

soluzioni per ridurre il peso veramente consistente che grava sulla società a causa di questo gruppo di

patologie.

Negli ultimi anni la Information and Communication Tecnology (ICT) è stata messa a disposizione

delle persone affette da demenza includendo un coinvolgimento attivo del caregivers nella relazione

d’aiuto, che ha per obiettivo quello di favorire il passaggio dalla "cura" della malattia all'"aver cura"

non solo della persona malata ma anche di colui che lo assiste. Nel panorama dell’ICT è stato creato un

progetto europeo che vede un robot di servizio chiamato MARIO, al fine di affrontare e far progressi sui

difficili problemi che la demenza comporta come la solitudine, l’isolamento, l’incapacità di prendersi

cura di se stessi e perdita della memoria.

Il Progetto MARIO (Managing Active and healthy aging with use of caRing servIce robots) finanziato

dalla Comunità Europea nel 2015 di cui l’UOC di Geriatria di Casa Sollievo della Sofferenza è partner,

è volto a studiare l’applicabilità di un robot infermiere in grado di affiancare il team sanitario ed i

caregivers nell’assistenza del paziente con demenza di grado moderato.

Il robot MARIO è in grado di eseguire valutazioni come Valutazione Multidimensionale Geriatria

(VMG) e Multidimentional Prognostic Index (MPI), affrontare i problemi di solitudine, isolamento e

depressione dando semplice accesso a una vasta gamma di funzionalità di supporto sia all'interno che

all'esterno del luogo di cura (casa/istituzione/ospedale).

In più, attraverso i nuovi progressi nelle tecniche di apprendimento automatico e metodi di analisi

semantica, si è cercato di rendere MARIO sempre più personale, utile e accettato dagli utenti, riducendo

al tempo stesso i costi di sviluppo e il tempo di risposta per risolvere ai bisogni assistenziali nuovi ed

esistenti.

Le persone che beneficeranno di MARIO quindi non saranno solo le persone anziane affette da demenza

ma anche i professionisti come medici, infermieri, psicologi ed infine i cargiver.

Materiali e metodi

Popolazione studiata

Lo studio è stato condotto tra maggio 2015 e settembre 2016 presso l’U.O. di Geriatria dell’Ospedale

“Casa Sollievo della Sofferenza ” di San Giovanni Rotondo (FG). Lo studio è stato svolto in due fasi:

1. Durante la fase iniziale del progetto (da maggio 2015 a febbraio 2016) è stato somministrato un

questionario (Baseline stage: Questionario) a 130 caregiver formali ed informali per rilevare le

aspettative, le necessità ed i reali bisogni dei pazienti con demenza e dei loro caregiver rispetto al robot

MARIO: l’obiettivo principale del questionario è stato quello di guidare l’implementazione del robot

secondo i suggerimenti dei caregiver.

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2. A settembre 2016 è stato somministrato un breve questionario (Experimentation stage:

Questionario) a 19 pazienti con demenza di grado lieve ricoverati presso l’U.O. di Geriatria per valutare

l’accettabilità e la funzionalità del robot MARIO all’inizio della fase sperimentale.

Criteri d’inclusione:

Caregiver di pazienti con diagnosi di demenza secondo i criteri del National Institute on Aging-

Alzheimer's Association (NIAAA)

Pazienti con diagnosi di demenza di grado lieve.

Consenso Informato compilato e firmato da ogni intervistato.

Criteri d’esclusione:

Pazienti con deficit cognitivo di grado moderato e severo.

Pazienti con patologie (tumori, ipovitaminosi B12, anemia, disturbi tiroidei, ecc.), storia di abuso

di alcool o sostanze psicoattive, trauma cerebrale che possono essere causa di deficit cognitivo.

Baseline stage: Questionario

Mediante un’intervista semistrutturata sono stati raccolti i seguenti paramentri dei caregiver:

- sesso

- età

- scolarità (in anni)

- tipo di caregiving [Caregiver informali (non pagati), Caregiver informali (pagati), Caregiver

formali (geriatri, psicologi ed infermieri)].

A tutti i caregiver è stato mostrato un video sui dispositivi tecnologici che sarebbero dovuti essere

implementati in MARIO (video weblink: https://www.youtube.com/watch?v=v1s2Hbad1l0).

Dopo aver visto il video, è stato somministrato il questionario (Appendice 1) che comprende 43 item

che esplorano 4 aree: A) Accettabilità, B) Funzionalità, C) Dispositivi di supporto, e D) Impatto.

È un questionario quantitativo basato su scala Likert: le risposte si collocano da “Estremamente

importante/probabile/utile” e “Si, molto utile” a “Non importante/probabile/utile” e “No, inutile”.

Experimentation stage: Questionario

Nella fase iniziale della sperimentazione si è cercato di esaminare l’accettabilità del robot MARIO

all’attuale stato di implementazione: il robot si muove mediante l’uso di un joystick, risponde a semplici

domande relative all’orientamento temporale ed avvia un’app per ascoltare musica.

Sulla base delle attuali funzioni di MARIO, è stata eseguita una procedura per la valutazione

dell’accettabilità da parte dei pazienti con deficit cognitivo di grado lieve. È stata effettuata un’attività di

mediazione per preparare i pazienti a ricevere il robot nelle proprie stanze di degenza. Dopo aver

attivamente utilizzato il robot MARIO, i pazienti hanno risposto ad un breve questionario composto da

13 item (Allegato B).

Il questionario, con risposta SI/NO, è di tipo quantitativo e osservazionale.

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Archiviazione dei dati e analisi statistica

La elaborazione e la valutazione statistica sono state eseguite mediante il programma SPSS versione 13 .

I dati sono espressi come media ± deviazione standard (DS) per le variabili qualitative e come frequenza

percentuale sul totale per quelle quantitative.

L’analisi delle differenze tra gruppi in caso di normalità della distribuzione dei dati è stata eseguita

mediante analisi della varianza ad una via (ANOVA). Nel caso in cui la verifica di normalità della

distribuzione dei dati sia negativa è stato impiegato il test di Kruskall-Wallis. Lo studio delle differenze

tra gruppi tra variabili di tipo qualitativo dicotomico è stata effettuata mediante Chi Quadrato di

Pearson. É stata considerata come statisticamente significativa la differenza osservata per un valore di

p<0.05.

Risultati

Baseline stage: Questionario

Durante il periodo di arruolamento, 130 caregiver sono stati reclutati: 39 caregiver presso la National

University of Ireland di Galway (NUIG) (M = 4, F = 35), 70 caregiver presso l’IRCCS Casa Sollievo

della Sofferenza (IRCCS) (M = 28, F = 42), e 21 caregiver presso l’Associazione Alzheimer - Bari

(AAB) (M = 8, F = 13). La Tabella 1 mostra le caratteristiche demografiche dei tre gruppo di caregiver.

I tre gruppi non differiscono nei seguenti parametric: sesso (p = 0.876) ed età media (p = 0.473).

Differenze significative sono state osservate nel livello di scolarità (NUIG=18.88 vs. IRCCS=14.90 vs.

AAB=15.61 anni, p=0.006).

Tabella 1. Caratteristiche dei caregiver. Tutti NUIG IRCCS AAB p

N=130 N=39 N=70 N=21

Sesso (M/F)

36/55 4/35 28/42 8/13 0.004

Età (anni)* range

48.12 ± 15.81 23– 88

- 48.74±14.90 23–88

45.72±19.25 24–82

0.473

Scolarità (anni) range

16.09 ± 6.00 0– 24

18.88 ± 1.22 18 – 23

14.90 ± 7.06 0 – 23

15.61 ± 5.30 5 – 24

0.006

Tipologia di Caregiving

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Caregiver informale (non pagato) N(%) 33 (25.3) 0 (0) 24 (72.7) 9 (27.3)

<0.0001

Caregiver informale (pagato) N(%) 7 (5.4) 0 (0) 6 (85.7) 1 (14.3)

Caregiver formale (Geriatra) N(%) 19 (14.6) 0 (0) 18 (94.7) 1 (5.3)

Caregiver formale (Psicologo) N(%) 7 (5.4) 0 (0) 0 (0) 7 (100.0)

Caregiver formale (Infermiere) N(%) 57 (43.9) 32 (56.1) 22 (38.6) 3 (5.3)

Non indicato (N%) 7 (5.4) 7 (100.0)

0 (0) 0 (0)

I caregiver intervistati hanno dichiarato che l’aspetto ed i compiti che svolgerà MARIO saranno

molto utili per facilitare l’accettazione, la funzionalità, l’attività di supporto e l’impatto sui

pazienti affetti da demenza (Figura 1). Suddividendo i caregiver per sesso, le donne (Figura 2),

i caregiver con un’età compresa tra35 e 49 anni (Figura 3) e con una scolarità più bassa (Figura

4) sembrano mostrare maggiore interesse verso MARIO

Figura 1

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Figura 2

Figura 3

Figura 4

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Experimental stage: Questionario

Durante la fase iniziale dello stadio di sperimentazione del robot all’interno del setting

ospedaliero, sono stati arruolati 19 pazienti con deficit cognitivo di grado lieve (M=6, F=13)

con una scolarità media di 9.63 ± 5.64 anni.

I pazienti hanno ritenuto piacevole e accettabile l’aspetto (100%), il suono della voce (79%), il

volume della voce (52%), il toccare il robot (94%), l’espressione facciale (100%), la facilità

nell’utilizzo (89%) di MARIO (Figura 5).

Figura 5

Inoltre, i pazienti hanno riportato un feedback positivo (Figura 6) nell’utilizzare lo schermo da

seduto (100%) ed in piedi (79%), per quanto concerne l’altezza del robot (83%), la lettura del

testo sullo schermo (94%) e l’utilizzo dell’app per ascoltare musica (100%). Alcuni pazienti

hanno riportato, però, difficoltà a comunicare con MARIO (15%) e difficoltà nell’utilizzarlo

(15%).

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Figura 6

Conclusioni

La fase di sperimentazione del robot MARIO è appena iniziata e gli obiettivi futuri saranno

quelli di migliorare la funzionalità e l’utilità del robot stesso per i pazienti affetti da demenza.

Le ricadute future di questo progetto potranno essere sia si tipo socio assistenziale come

favorire una maggiore autonomia ed integrazione psicosociale dell'individuo, rendere il

paziente consapevole della sua disabilità e di stimolarne un ruolo attivo, sviluppare strategie di

compenso per i disturbi cognitivi e comportamentali. Faciliterà inoltre la costruzione di una

Rete Clinica di Specialità finalizzata alla multidisciplinarietà, evidence based medicine, equità

di accesso alle cure e continuità della presa in carico e centralità del paziente.

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Etica nella ricerca: risultati di uno studio sull'Alzheimer Prof. Nicola Antonio Colabufo

Professore Dipartimento di Farmacia - Scienze del Farmaco Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Introduzione

Il composto MC225 (Figura 1) ligando selettivo per la

glicoproteina-P, sviluppato da Biofordrug srl, è stato [18F]-

radiomarcato presso l’UMCG, Groningen, Olanda ed è stato

valutato in vivo in ratti Sprague Dawley mediante microPET

scan. Dagli studi pre-clinici condotti il radio tracciante [18F]-

MC225 ha mostrato selettività verso il trasportatore in quanto a

seguito di inibizione della glicoproteina-P si osserva un aumento

dell’uptake cerebrale del composto. Inoltre l’inibizione del

trasportatore Breast Cancer Resistance Protein non ha portato ad

ulteriore aumento della concentrazione del radioligando,

confermando l’elevata selettività del ligando. Da studi di stabilità metabolica [18F]-MC225

risulta moderatamente stabile, infatti a 1 h dopo iniezione il 15 % della radioattività plasmatica

e il 76 % della radioattività nel cervello sono rappresentati dal composto ancora intatto. Sulla

base di questi risultati [18F]-MC225 può essere considerato un utile radiotracciante per

misurare la funzionalità della glicoproteina-P a livello della Barriera Emato Encefalica in

pazienti con malattia di Alzheimer e pertanto sarà oggetto di studio clinico nell’uomo.

Figura 1. Struttura m

olecolare di [18F]MC225

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Figura 2. Biodistribuzione a 60 min espressa come (A) SUV e (B) tissue/total plasma values (n=6). **p<0.01, ***p<0.001). Sono stati

utilizzati tre gruppi di ratti Sprague-Dawley per misurare l’uptake del radiotracciante a livello basale (gruppo 1), dopo inibizione della P-gp

(gruppo 2) e dopo inibizione della Bcrp, (gruppo 3). Differenze statisticamente significative tra il gruppo 1 e i gruppi 2-3 sono stati trovati in

fegato, milza , pancreas , rene , intestino, ossa e cervello. Il trattamento con inibitori P-gp e BCRP (gruppi di 2-3 ) provoca una diminuizione

del rapporto tissue/total plasma in molti organi periferici e un aumento nel cervello. Rispetto al gruppo 1, il rapporto nel cervello è 2 volte

superiore nel gruppo 2 e 3 volte più elevato nel gruppo 3.

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Figura 3. Metabolismo di [18F]MC225. Frazione della radioattività totale rappresentata dal composto parente in (A) plasma (TLC (n=6) e

UPLC (n=3)) e (B) cervello (TLC, n=6). (C) Media delle frazioni UPLC del gruppo 1 e(D) esempio di radio-TLC ai tempi 1–10 min.

Figure 4. Immagini SUV-PET durante l’intero scan nel gruppo 1 (in alto), gruppo 2 (centro) e gruppo 3 (in basso). A sinista sezione assiale, al

centro sezione coronale e a destra sezione sagittale.

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Obiettivo dello studio

La glicoproteina-P è un trasportatore di membrana appartenente alla superfamiglia dei

trasportatori ABC (ATP Binding Cassette). Esso è localizzato in vari distretti biologici ed in

particolare a livello dei capillari endoteliali della Barriera Emato Encefalica dove svolge un

ruolo di neuroprotezione in quanto coinvolto nell’efflusso di xenobiotici dall’interno all’esterno

della cellula e nella regolazione dell’omeostasi cerebrale. Negli ultimi anni numerosi studi

scientifici hanno dimostrato il coinvolgimento della glicoproteina-P nell’eziopatogenesi di

patologie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer. Questa patologia è caratterizzata

dall’accumulo di un peptide, il beta-amiloide che si aggrega ad altri peptidi formando delle

placche dense e resistenti che ricoprono le cellule nervose. Il beta-amiloide è un noto substrato

della glicoproteina-P, pertanto essa svolge un ruolo fondamentale nell’efflusso del peptide dalle

cellule endoteliali evitando che esso si depositi e formi le placche amiloidee. Nella patologia di

Alzheimer si osserva una riduzione dell’attività e dell’espressione di questo trasportatore di

membrana che porta al conseguente accumulo di beta-amiloide. La possibilità quindi di

visualizzare la glicoproteina-P a livello della barriera emato encefalica mediante il ligando

specifico [18F]-MC225 rappresenta un importante strumento sia nella diagnosi precoce della

patologia, sia nel monitoraggio di essa. Obiettivo di questo trial è infatti la valutazione

dell’attività e dell’espressione della glicoproteina-P in pazienti con demenza di Alzheimer sia

in uno stadio precoce che avanzato mediante scan PET-CT a seguito di iniezione del

radiotracciante [18F]-MC225. Un ulteriore obiettivo del suddetto trial è quello di monitorare la

glicoproteina-P in seguito alla somministrazione di composti in grado di indurre l’espressione

del trasportatore e di incrementare l’attività di efflusso di beta-amiloide.

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Il progetto NEURONIX per l’Alzheimer: nuove frontiere della Scienza

Dr. Davide Quaranta Dirigente medico neurologo – U.O.C. di Neurologia Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli”

Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma

Evidenze sperimentali preliminari hanno dimostrato che la stimolazione magnetica transcranica

(TMS) può migliorare le performance cognitive dei pazienti con Malattia di Alzheimer (AD)

(Fertonani et al. 2010; Cotelli et al. 2006; Bentwich et al. 2011; Tarraga et al. 2006; Spector et

al. 2003; Orrell et al. 2005). Ulteriori studi hanno evidenziato come un priming corticale

selettivo tramite TMS migliori l’efficacia della riabilitazione cognitiva (Bentwich et al. 2011;

Rabey et al. 2012). Queste premesse hanno portato allo sviluppo del dispositivo NeuroAD

(Neuronix Ltd.), una apparecchiatura medicale che consente di applicare in sequenza TMS e

riabilitazione cognitiva computerizzata. Il progetto sperimentale Neuronix prevede la

somministrazione sequenziale di TMS e training cognitivo mirato su tre aree corticali al giorno

(durata totale del trattamento quotidiano di 45 minuti), per sei settimane. Ai pazienti viene

richiesto di svolgere compiti cognitivi appena dopo la stimolazione corticale. I paradigmi da

effettuare sono diversi: compiti sintattici e grammaticali per la regione corrispondente all’area

di Broca, compiti di comprensione lessicale e categorizzazione per la regione corrispondente

all’area di Wernicke, denominazione di verbi, denominazione di oggetti e compiti di memoria

spaziale (forme, colori e lettere) per le regioni corrispondenti alla ccorteccia prefrotale

dorsolaterale destra e sinistra, compiti di attenzione spaziale (figure e lettere) per le regioni

corrispondenti alle aree R-dlSAC ed L-dlSAC. L’identificazione della regione stimolata viene

effettuata sulla base delle coordinate stereotassiche calcolate sulla Risonanza Magnetica del

soggetto. Lo studio in corso è un trial di fase III, randomizzato, double-blind, controllato

contro stimolazione sham e pseudo-training cognitivo e comprende una estensione in aperto

con follow-up neuropsicologico. I pazienti sono randomizzati ed assegnati in numero uguale a

tre bracci:

- Gruppo A di trattamento: TMS e training cognitivo

- Gruppo B di trattamento: TMS sham e training cognitivo

- Gruppo di controllo: TMS sham e pseudo-training cognitivo.

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L’endpoint primario è rappresentato da un miglioramento di almeno 2 punti del punteggio

ottenuto alla scala ADAS-cog al termine del trattamento (sesta settimana) nei pazienti del

gruppo A rispetto ai pazienti del gruppo B e del gruppo di controllo. I pazienti sono arruolati

presso il Policlinico Universitario Agostino Gemelli – Istituto di Neurologia; i criteri di

inclusione richiedono una diagnosi di Malattia di Alzheimer secondo i criteri correnti ed un

punteggio al Mini-Mental State Examination (MMSE) compreso tra18 e 26. È consentita

l’assunzione di un trattamento farmacologico per la Malattia di Alzheimer (inibitori delle

colinesterasi [donepezil, rivastigmina, galantamina], memantina), ma è richiesto che questo

duri da almeno tre mesi e sia ad un dosaggio stabile per almeno 60 giorni prima dello

screening. Vengono eseguite 30 sessioni di trattamento o di stimolazione sham in 6 settimane

(1 sessione al giorno per 5 giorni a settimana per 6 settimane) dalla settimana 1 alla settimana

6. La TMS verrà erogata su di un massimo di 3 aree corticali ogni giorno (durata totale 45

minuti) seguita da riabilitazione cognitiva. La difficoltà dei compiti cognitivi viene adattata alle

performance individuali dei pazienti durante l'intera durata dello studio. Tutti i pazienti

verranno sottoposti ad una valutazione clinica e neuropsicologica, a risonanza magnetica e ad

elettroencefalogramma a riposo nella valutazione baseline (settimana 0). La valutazione clinica

e neuropsicologica e l’EEG verranno ripetuti a ciascun paziente alla fine del trattamento e dopo

6, 12, 24 e 36 settimane. La valutazione clinica e neuropsicologica include i test MMSE,

ADAS-Cog e ADCS-ADL, CDR-SB e ADCS-CGIC. Un’analisi preliminare dei dati mostra ad

oggi, su un piccolo numero di soggetti e limitatamente al primo follow-up (6 settimane), la

presenza di un lieve vantaggio dei soggetti appartenenti al gruppo A (TMS+training cognitivo)

rispetto ai soggetti appartenenti al gruppo B (sham TMS + training cognitivo).

Se confermati, questi dati sono incoraggianti, ed indicano, nel trattamento con NeuroAD, un

potenziale coadiutore nella cura della Malattia di Alzheimer.

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L'approccio centrato sulla Persona di Tom Kitwood

nella cura delle Persone con demenza

Dr. Sara Fascendini Responsabile Medico Geriatra - Centro di Eccellenza per la cura dei malati di Alzheimer FERB – Ospedale “Briolini” –

Gazzaniga (BG)

Il numero crescente di anziani con disturbi cognitivi rappresenta,

come è noto, una delle sfide principali all’organizzazione sanitaria di

tutti i paesi occidentali. L’intensa ricerca scientifica sulle malattie

suscettibili di provocare demenza e sui meccanismi che stanno alla

base dell’invecchiamento cerebrale ha ampliato notevolmente le

nostre conoscenze in materia, ma per ora non ha prodotto avanzamenti

terapeutici decisivi. In attesa che questi intervengano, è in ogni caso

necessario che la società si prenda cura di queste persone

particolarmente fragili e dei loro familiari. Nella fase in cui le persone

con demenza vivono a domicilio sono indispensabili servizi

domiciliari adeguati e interventi di sostegno ai familiari. Vi è poi

quasi sempre una fase in cui la famiglia non riesce più a fornire l’assistenza necessaria e si rende

necessario il ricovero in strutture residenziali. E’ chiaro che fasi dell’esistenza vi è un rischio elevato di

bassa qualità di vita, specie se l’organizzazione delle strutture si limita ad obiettivi specifici

(alimentazione, eliminazione, sonno…), piuttosto che alla cura dell’individuo nel suo insieme. Non

sono mancate nei due ultimi decenni proposte di nuove modalità di approccio a questi malati, che sono

per molti aspetti diversi gli uni dagli altri.

Una proposta particolarmente interessante è stata formulata nel Regno Unito dal compianto Tom

Kitwood, che è partito dalla necessità di riconoscere il malato affetto da demenza come persona.

Secondo questo studioso, “l’essere persona è uno status conferito ad un essere umano dagli altri, nel

contesto della relazione e dell’essere sociale; esso implica riconoscimento, rispetto e fiducia”. L’accento

sull’aspetto relazionale è al cuore del modello di Cura centrata sulla persona (Person-Centred Care,

PCC) che viene oggi considerato, nel suo paese, l’approccio di riferimento nella cura del malato con

demenza. I lavori di Kitwood e del gruppo da lui fondato presso l’Università di Bradford hanno portato

alla elaborazione di una nuova metodologia, il cosiddetto Dementia Care Mapping (DCM)

(letteralmente: mappatura della cura della demenza), che è al tempo stesso uno strumento rigoroso e

standardizzato di osservazione del comportamento delle persone con demenza (e delle cure che ad essi

vengono prestate) e un processo attraverso il quale si sviluppa la pratica della cura centrata sulla

persona. Esso fornisce dati oggettivi sulla Qualità di Vita sperimentata dalle persone con demenza

residenti in un certo contesto; le informazioni ricavate permettono di porre una lente di ingrandimento

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sui partecipanti alla mappatura in modo da evidenziarne bisogni e caratteristiche allo scopo di

programmare l’assistenza in modo più mirato e puntuale. Si tratta di un processo che prevede un’attenta

preparazione dell'equipe di cura, la pianificazione dell’attività in base ai dati emersi dall’osservazione e

la continua verifica dei risultati. In termini aziendali, ciò si traduce in un processo di miglioramento

continuo della qualità, ma, a differenza dai comuni processi che vanno sotto questo titolo, esso è

contrassegnato da un’ispirazione fortemente umanistica. Il Dementia Care Mapping è stato messo a

punto nelle case di riposo britanniche, ma si è diffuso in molti paesi e si presta ad essere applicato anche

in Italia.

È uno strumento in grado di garantire qualità della cura e, conseguentemente, qualità della vita, ponendo

in secondo piano la “malattia demenza” e focalizzando invece l'attenzione sulla persona, che continua

ad esistere, nonostante la presenza del decadimento cognitivo.

Il testo più noto di Kitwood, “Dementia reconsidered”, ci sollecita a mettere in atto una vera e propria

rivoluzione culturale, invitandoci a “riconsiderare la demenza” e le persone che ne sono affette.

Condividiamo appieno quanto l'autore afferma: “riconsiderare la demenza ci invita soprattutto a

comprendere in modo nuovo che cosa significhi essere una persona, mettendo in discussione l'enfasi

prevalente sull'individualità e l'autonomia e facendo emergere chiaramente la nostra interdipendenza. La

fragilità, la finitezza, il morire e la morte diventeranno più accettabili mentre verranno cancellate le

grandiose speranze di utopie tecniche. La ragione verrà rimossa dal piedistallo che ha occupato così

ingiustificatamente e per così tanto tempo; reclamiamo la nostra natura di esseri senzienti e di esseri

sociali. Così, proprio da quella che sembrava essere la sfera più improbabile, potrebbe invece emergere

una sorgente di energia e compassione. E in essa...potremmo trovare una concezione

incommensurabilmente più ricca di guarigione”

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La Terapia del viaggio e altre terapie non-farmacologiche

Prof. Ivo Giovanni Cilesi Pedagogista, Psicopedagogista ,Supervisore servizio terapie non farmacologiched Centro Eccellenza Alzheimer (FERB) –

Gazzaniga (Bg) Consulente Supervisore gruppo Segesta – Korian Area Alzheimer

Le terapie non farmacologiche

Le terapie non farmacologiche sono approcci che necessitano una

dinamica combinazione di discipline diverse attinenti a varie aree con

una effettiva ricaduta sulle potenzialità occupazionali e relazionali del

paziente.

Queste terapie sono rivolte a persone che presentano decadimento

cognitivo e disturbi del comportamento ( depressione, ansia,

agitazione, etc…) Le terapie non farmacologiche, in sinergia con le

terapie che prevedono l’utilizzo di farmaci migliorano in modo

concreto la qualità di vita dei pazienti. Spesso si parla a livello teorico

di migliore qualità di vita, di migliorare lo stato psicofisico delle

persone, senza collegamenti concreti con gli aspetti sociali e

relazionali dell’accudimento La cura inizia dal saper ascoltare e il saper ascoltare è la base di partenza

delle terapie non farmacologiche e della relazione d’aiuto. Le terapie non farmacologiche sono applicate

in diversi ambiti con efficacia riconosciuta a livello scientifico e sicuramente con risultati concreti.

La Terapia del Viaggio

Rientra fra le terapie non farmacologiche ed è una terapia innovativa utile a gestire difficoltà

comportamentali e stimolare l’area cognitiva di persone con demenza. L’approccio con la persona che

viaggia è validante, validiamo la realtà che vive nel qui ed ora La terapia del viaggio è una terapia che

intercetta la parte affettiva ed emotiva delle persone con demenza. Il treno è un contenitore affettivo

dove sono centrali dinamiche relazionali e sociali che si attivano nel luogo dedicato.

Non è importante la partenza e la meta di arrivo ma è terapeutico il viaggio, nel viaggio la persona si

rilassa è stimolata attiva ricordi, relazioni contatti, sicuramente il viaggio è un contenitore di benessere

della persona ed è strumento utile per gli operatori di cura

La Terapia della Bambola

La valenza terapeutica nell’utilizzo della bambola con pazienti affetti da demenza senile che presentano

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disturbi comportamentali importanti assume significati simbolici in relazione alle potenzialità

emozionali che l’oggetto bambola evidenzia. La bambola è uno strumento che favorisce l’attivazione di

memorie favorendo l’accudimento materno e paterno. L’utilizzo della bambola terapeutica evoca

dinamiche relazionali significative e nella progressiva perdita delle capacità e abilità nelle persone

affette da demenze importanti e particolarmente problematiche, la bambola diviene uno strumento

simbolico contenitore dei vissuti materni e paterni.

Musicoterapia recettiva

La musicoterapia recettiva si può attivare in uno spazio dedicato, o nello spazio della quotidianità. Dopo

una valutazione sonoro musicale si inseriranno in ascolto le musiche e suoni significativi per la persona

dal punto di vista emotivo relazionale. Si utilizzano per l’attivazione di questa terapia delle cuffie da

utilizzare nei diversi momenti della giornata. Le diverse stimolazioni potranno essere proposte sia con

sedute individuali collegate ad interventi mirati ad affrontare specifiche problematiche (disturbi

comportamentali) o con interventi al bisogno, anche in collegamento con gli interventi sanitari e socio-

assistenziali. Questi interventi potranno essere effettuati durante la giornata o nelle fasi notturne se ne

viene rilevata l’esigenza. Questa terapia può essere inserita in differenti ambiti sia a livello residenziale

– semiresidenziale e domiciliare

Musicoterapia ambientale

L’obiettivo di tale intervento è svolgere un’azione di supporto e facilitazione indiretta attraverso il

contesto, ambiente sonoro, atto a:

• favorire alcune attività e/o compiti specifici di precisi momenti della giornata (risveglio,

pasti riposo);

• contribuire ad alleviare tensioni o dolori e a sostenere il tono dell’umore.

Saranno attivati momenti di “ascolti terapeutici” (musicoterapia ambientale), in modo da favorire

l’orientamento temporale e cadenzare i diversi tempi della giornata.

L’ Ambiente che Cura

E’ particolarmente importante l’ambiente e come le persone interagiscono e percepiscono uno

determinato spazio. E’ sicuramente condiviso che gli oggetti e gli arredi devono rimandare all’idea di

casa, all’idea di ambiente domestico. Quando si comincia a non ricordare, ci si ancora alle certezze

vissute nel tempo passato e la casa era vissuta come luogo protetto dove tutta la famiglia si ritrovava, le

persone raccontavano storie di vita spesso difficili e la casa sicuramente facilitava questa unione di

affetti. La stessa casa era vissuta affettuosamente e accudita con cura, l’abitare quello spazio denso di

ricordi e di oggetti cari era in molti casi terapeutico. Questo concetto è sicuramente valido per i nostri

anziani, per le nuove generazioni l’idea di ambiente domestico vissuto come contenitore di ricordi e di

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affetti dovrà essere sicuramente rivisto. Dal punto di vista terapeutico dobbiamo evidenziare sempre di

più l’idea di cura della persona che l’ambiente assolve. Noi siamo immersi in spazi, a volte familiari a

volte anonimi. Se vogliamo che quegli spazi si prendano cura di noi, dobbiamo renderli vivi l’ambiente

deve facilitare e stimolare i ricordi delle persone che lo abitano. Proprio per questo che sono

fondamentali anche i più piccoli particolari. Le finte a vere che siano screpolature dei tavoli, posizionati

ad esempio in vari punti nei corridoi dei reparti, le sedie vintage, per ri-creare piccoli spazi di incontro,

le lampade posizionate in modo che il cono di luce illumini sia tavoli che sedie. E’ importante

evidenziare che i materiali devono essere robusti e stabili. Un ambiente quindi che ripropone tracce di

vita quotidiana,in un contesto di cura innovativo per la malattia di Alzheimer. Un ambiente che si

prende cura anche dei familiari delle persone affette da Alzheimer, perché la malattia si connota come

problema sociale, e i percorsi di cura e di assistenza devono mettere al centro i malati e i loro familiari.

Le diverse stimolazioni ambientali devono essere in equilibrio con i differenti percorsi di cure non

farmacologiche.

Interventi di Rimodulazione dell’ambiente domestico

Cura dell’ambiente familiare: l’ambiente diventa protesico, rimodulando l’ambiente come ricollocando

specchi, quadri, tappeti, fotografie, libri, luminosità (finestre con o senza tende)…….. favorire luci

artificiali soffuse e controllare la temperatura La persona affetta da demenza non ha la capacità di

percepire correttamente l’ambiente e mette in atto delle strategie difensive atte a superare la situazione

stressante esempio: wandering, agitazione, ansia, ecc

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Fede e Medicina nella Malattia di Alzheimer Dr. Pietro Schino

Presidente Associazione Alzheimer Bari

L’aumento della età media della popolazione mondiale determina un

incremento vertiginoso delle patologie croniche con numerose

comorbilità, quali , ad alto impatto sociosanitario, quelle

neurodegenerative quali Parkinson, SLA e soprattutto la malattia di

Alzheimer.

Nella demenza di Alzheimer, probabilmente anche in misura

maggiore rispetto ad altre patologie invalidanti croniche è valida al

affermazione di Jean Philippe Assal : “ il compito del medico è quello

di essere presente sempre, anche quando non c’è più niente da fare,

anche quando il limite della condizione umana sembra prendere il

sopravvento “. Così pure nell’Harrison ( Principi di Medicina

Interna, il testo più consultato del mondo ) troviamo scritto : “ Compito del medico è di guidare il

paziente attraverso la malattia…. La medicina è un’arte….non si può procedere nel proprio lavoro con il

freddo distacco dello scienziato il cui fine è la vittoria del vero e che nel fare questo conduce un

esperimento controllato.. “

La medicina non è una scienza esatta , né deve diventarlo. la medicina ruota intorno a qualcosa che

non esiste in nessun’altra scienza e che rappresenta il nucleo di questa arte della vita: cioè la

clinica (rappresentata dalla oggettività e soggettività del paziente). La clinica non ha nulla di analogo

nelle altre scienze: non è simile alla sperimentazione in fisica, è qualcosa di molto più complesso in cui

intervengono elementi oggettivi e soggettivi. Deve confrontarsi con la fenomenologia oggettiva del

paziente (il segno clinico, l’obiettività), e la sua esperienza soggettiva il sentirsi malato (proprio perché

il malato è un soggetto). La medicina infatti esiste perché gli uomini si sentono malati.

Per la Malattia di Alzheimer ci si potrebbe rifare a Shakespeare che diceva ”Lunga agonia è la vita”.

E’ una affermazione obiettiva e dolorosa che presa come tale farebbe annegare nello scetticismo

qualsiasi sforzo diagnostico e terapeutico.

Tanto è il dolore che la presenza della devastazione nella persona cara evoca che dapprima c’è

ribellione, quindi reazione , quindi compaiono rassegnazione e a volte disperazione, per la mancanza di

un supporto che ti accompagni e protegga durante quei lunghi anni ( circa dieci e più ) che compongono

il percorso della malattia di Alzheimer.

Ecco quindi la necessità di strutture con persone che, per senso di responsabilità , amore cristiano e

coscienza sociale ( spesso presenti tutti e tre ) si sostituiscano alla assenza cronica di assistenza

istituzionale e di welfare. Questo è il ruolo delle Associazioni, , questo è quanto fa la Associazione

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Alzheimer Bari da oltre dieci, proponendosi come punto di riferimento sul territorio, creando con fatica

ed enormi difficoltà quella rete che è necessaria per essere di sostegno ai malati ed ai loro familiari,

spesso unici “ care – givers “ con poche possibilità e scarse conoscenza di quanto presente per procedere

nella gestione della malattia.

Dice P. Mertens : “ Confortare vuol dire non fuggire, restare con qualcuno, a dispetto del disagio

profondo che il dolore e la sofferenza dell’altro provocano in noi.

Come terapeuta, riconosco una cosa fondamentale: il momento più vero non è quello in cui io mi

presto all’interpretazione, ma quello in cui sono testimone della sofferenza più profonda “.

Questa missione comporta fatica e sottrazione di tempo anche a quelli che sono gli affetti personali, ma

con la certezza che l’esempio dei volontari della Associazione durante le loro varie attività di sostegno e

cura possa spingere altre persone a dedicarsi alla umanizzazione della cura di chi soffre.

“La persona umana non è, d’altra parte, soltanto ragione e intelligenza. Porta dentro di sé, iscritto

nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta” (

Benedetto XVI, Verona 19 ottobre 2006 ).

In un mondo pieno di contraddizioni e false ideologie assolutamente materialistiche negli ultimi anni la

scienza medica sta cominciando a riconoscere i benefici della spiritualità. La fede non ha soltanto un

ruolo nelle patologie dello “spirito”, ma recenti studi hanno osservato modifiche di espressione genica

collegate alla preghiera. Secondo queste ricerche non esiste una fede “migliore” e non conta in cosa si

crede.

Nelle culture orientali, ad esempio, non esiste una separazione tra mente e corpo, ma si tenta di

salvaguardare entrambi : la spiritualità in questo caso resta centrale anche per spiegare meccanismi

biologici.

In studi pubblicati ad esempio sul Journal of Religion and Health i risultati hanno dimostrato che un

elevato livello di spiritualità, indipendentemente dal tipo di fede, è associato ad un grado di nevrosi

minore con effetti benefici in termini di maggiore estroversione e predisposizione alla relazione con gli

altri.

Da altri studi emerge infatti l'esistenza di un legame fra la preghiera e i benefici indotti

all'organismo, tanto che negli USA si parla della cosiddetta “prayer therapy”. Lo studio più recente,

pubblicato su Plos One, analizza i profili genetici di 26 volontari che non avevano mai pregato o

meditato in maniera regolare. Dopo otto settimane di “trattamento” si sono osservate modifiche di

espressione genica che hanno avuto come effetto un miglioramento dell’attività dei mitocondri e della

regolazione della glicemia e persino una riduzione della produzione dei radicali liberi. Inoltre, si è avuto

anche un beneficio contro le infiammazioni croniche, responsabili di ipertensione, malattie cardiache e

alcuni di tumori.

Ed in un recentissimo studio pubblicato su JAMA Internal Medicine ed effettuato su un campione di

oltre 74.000 donne si è evidenziato che quelle grandi frequentatrici di funzioni religiose hanno

presentato un rischio di mortalità ridotto del 33% rispetto a quelle che non avevano mai frequentato la

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chiesa, per cause di varia tipologia ( dalle cardiovascolari ridotte del 27% ai tumori ridotti del 21 % ).

“Credere o non credere, è un atto di fede”. Quindi le nostre convinzioni profonde, di qualunque

natura esse siano (spirituali, religiose, filosofiche, umaniste o laiche), hanno certamente

un’influenza sul corpo e sulla biologia, nel bene e nel male.

Il congresso vuole aprire gli orizzonti alle tematiche che vedono scienza, nuove tecnologie e Fede

costituire un triangolo equilatero ove gli aspetti si intersecano ed incastrano sino a rendere possibile la

coesione ed il flusso continuo dei tre aspetti che si estrinsecano nel miglioramento psicologico e clinico

dei pazienti affetti soprattutto da patologie croniche ed altamente invalidanti quali le malattie

neurodegenerative ed in special modo la malattia di Alzheimer.

L’intervento di esperti dei tre campi , scientifico, tecnologico e teologico-ecclesiastico, renderà ai

discenti più semplice comprendere come non esiste scissione tra i vari aspetti nell’attuare percorsi

terapeutici atti migliorare lo stato clinico e la qualità di vita del paziente con demenza.

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Finalità della Associazione Alzheimer Bari Dr. Katia Pinto

Vice Presidente Federazione Alzheimer Italia

La malattia di Alzheimer è una patologia neurologica degenerativa che

colpisce il cervello, conducendo progressivamente il malato ad uno

stato di totale non autosufficienza creando, quindi, una situazione

molto complessa ed estremamente difficile per i familiari che si

dedicano alla sua assistenza ed alla sua cura.

Sebbene la medicina e la farmacologia abbiano fatto progressi, e

continuano a farne, la malattia rimane ancora senza cure risolutive;

pertanto la famiglia rimane sempre e comunque il principale e

continuativo supporto per chi ne è affetto ed a fronte di tale circostanza

il concreto aiuto ad essi si dimostra il loro migliore sostegno.

L’Associazione “Alzheimer Bari” nasce nel 2002 per volontà di un

gruppo di familiari desiderosi di portare aiuto a coloro che, colpiti direttamente o meno dal morbo di

Alzheimer, si possono trovare in difficoltà socio-sanitarie conseguenti a tale patologia.

Ispiratore e capofila di tutti loro fu il giornalista e scrittore Ignazio SCHINO che, affetto da questa

terribile malattia, comprese appieno l’enorme necessità ed utilità di divulgarne la sua conoscenza, con ciò

favorendo l’istituzione e l’incremento di una rete di servizi assistenziali.

Il Sodalizio raggruppa familiari, medici, psicologi, operatori socio-sanitari ed altre figure tutte coinvolte a

vario titolo nella gestione dei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer e dei loro familiari; la sua attività

si è andata sempre più consolidando nel tempo ed oggi è in grado di offrire a chi ne ha bisogno e vi si

rivolge, una articolata diffusione della sua presenza in Puglia grazie alla sua sede principale di Bari ed ai

suoi attuali 14 sportelli periferici, favorendo così la costante crescita di una sensibilità collettiva che trova

riscontro nei traguardi conseguiti.

L’Associazione “Alzheimer Bari” – confederata con la Federazione Alzheimer Italia – è una Onlus

riconosciuta dalla Regione Puglia con DPRG n° 368 del 19 settembre 2006, iscritta al n° 751 del

Registro Generale delle Organizzazioni di Volontariato ed opera prevalentemente sul territorio della

provincia di Bari.

L'Associazione si propone di:

a) informare e sensibilizzare l'opinione pubblica e tutte le figure professionalmente coinvolte nella

malattia;

b) stimolare la ricerca e per quanto possibile coordinarla sulle cause, prevenzione, assistenza e terapia

della malattia di Alzheimer;

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c) assistere e sostenere i familiari ed i malati di Alzheimer divenendone un punto di collegamento e

coordinamento;

d) tutelare i diritti del malato e dei suoi familiari per ottenere una migliore politica pubblica e una

migliore legislazione;

e) promuovere la nascita di centri pilota per la diagnosi e l'assistenza, e per la formazione di personale

socio-sanitario specializzato.

Per conseguire le proprie finalità, avvalendosi eventualmente di appositi comitati, l'Associazione:

a) promuove la diffusione di ogni informazione giudicata potenzialmente utile a migliorare la gestione

del malato sia nell'ambito familiare che presso enti pubblici o privati;

b) promuove una continua diffusione di informazioni sulla malattia di Alzheimer e sulle sue disastrose

conseguenze emotive ed economiche sui familiari, al fine di modificare progressivamente la sensibilità

pubblica sul problema;

c) formula proposte operative alle istituzioni pubbliche, traducibili in norme legislative;

d) collabora ed eventualmente promuove iniziative volte alla redazione e al continuo aggiornamento del

quadro epidemiologico descrittivo della malattia di Alzheimer e correlate, allo studio dei fattori che

influenzano la durata della vita del malato in famiglia e/o istituzione, all'elaborazione di tecniche

strumentali (biologiche o comportamentali) atte a identificare i fattori predittivi dell'evoluzione della

malattia;

e) collabora ed eventualmente promuove ogni proposta scientifica che sia di almeno potenziale utilità al

malato ed alla sua famiglia e salvaguardi in ogni caso la sua persona fisica e morale;

f) promuove, in collaborazione con giuristi, neurologi, psichiatri, geriatri, filosofi, ecc. la costituzione di

gruppi bioetici per ogni problema che coinvolge il malato;

g) promuove iniziative culturali, corsi, pubblicazioni, conferenze, convegni ed altre manifestazioni che

facilitino la diffusione delle informazioni e la raccolta di fondi per la realizzazione degli obiettivi;

h) opera comunque in qualunque modo venga ritenuto utile od opportuno per migliorare la posizione

assistenziale, sociale ed umana delle persone affette dalla malattia di Alzheimer e disturbi correlati e

delle loro famiglie.

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CENTRO DI ASCOLTO Ascoltare non vuol dire semplicemente sentire ma, soprattutto, udire prestando attenzione.

Chi ascolta attentamente un interlocutore si fa carico dei motivi che hanno spinto questa Persona a

raccontare ad altri frammenti della sua vita, episodi sensibili e spesso dolenti, momenti delicati, aspetti

critici del proprio vissuto e che, quindi, si attende in risposta comprensione, affabilità, partecipazione e,

più di ogni altra cosa, competenza.

Il Centro di Ascolto dell’Associazione Alzheimer Bari, ubicato nella sede di Bari in via Papa Benedetto

XII, 21 (rione Poggiofranco) vuole rappresentare proprio un luogo qualificato di compartecipazione ed

aiuto per coloro che decidono di fidarsi ed affidarsi a chi possa dare risposte alle loro domande.

Il nostro personale è disponibile ad ascoltarti: nel corso del primo colloquio da effettuarsi nella sede

cittadina o in uno dei nostri sportelli periferici presenti in Puglia nei quali si svolge tale attività (una

dozzina – vedi sezione “Gli sportelli sul nostro territorio” al fondo della home page del nostro sito

internet) potrai raccontarci la tua situazione, i tuoi problemi, i tuoi ostacoli, le tue difficoltà, le tue

speranze e le tue richieste.

Insieme decideremo poi se e come attuare lo specifico supporto o l’intervento per il tuo caso.

Il Centro barese è attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 09.30 alle ore 12.30 e dalle ore 16.00 alle ore

19.00 chiamando il numero telefonico 080 / 556.36.47 oppure giungendo al nostro indirizzo.

Esso è rivolto a tutti i nuclei familiari del territorio ed agli operatori del settore per fornire informazioni

utili sia sulla malattia di Alzheimer sia per facilitare l’accesso ai servizi messi a disposizione dalle

Istituzioni per le persone anziane e/o affette da demenza.

Questo primo approccio decodifica il bisogno, ne filtra la sostanza, orienta nel ventaglio dei percorsi

attuabili ed accompagna con professionalità fornendo per ogni richiesta consigli, informazioni e

consulenze, inoltre indicando i vari servizi offerti dalle ASL, dai Comuni, dal Terzo Settore e da ogni

altra realtà presente sul territorio barese.

Gli operatori che lo presenziano hanno ricevuto una formazione adeguata per relazionarsi ed ascoltare le

diverse tipologie dei soggetti chiamanti.

Essi sono in grado di riconoscere correttamente il motivo della richiesta espressa, al fine di classificare i

diversi bisogni sociosanitari e distinguere quelli urgenti da quelli differibili.

Per un migliore risultato complessivo, si utilizzano le informazioni disponibili in archivio, si tengono

presenti tutti i riferimenti territoriali contattabili e tutta la rete dei servizi disponibili ed attivabili,

indirizzando così l’utente verso una conoscenza ampia e diversificata attraverso una risposta il più

possibilmente corretta.

Tutte le richieste vengono appuntate in un’apposita scheda prestampata e tutte le informazioni ricevute

sono successivamente immesse in un database nel pieno rispetto della necessaria ed obbligatoria privacy.

Nel cuore di ogni telefonata e dentro ogni scheda vi è una storia di sofferenza e coraggio, di paura ed

amore, di dedizione e speranza; sono storie particolari ed ognuna di esse resta speciale ed unica, tutte

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però accomunate dalla caparbietà e dalla tenacia con cui le famiglie, fino in fondo, combattono, al fianco

dei loro cari ammalati, questa ingiusta e spesso devastante battaglia.

Di queste storie noi ne facciamo tesoro ed esperienza, per poter consentire anche ad altri di sentirsi

compresi da chi dedica con passione e disinteresse molte ore della propria giornata, esercitando una

straordinaria, esaltante, gratificante attività chiamata volontariato.

ATTIVITÀ DI SOSTEGNO IN FAVORE DELLA PERSONA CHE ASSISTE Un primo approccio con la nostra struttura lo si può appunto avere telefonando al Centro d’Ascolto (080 /

556.36.47) presidiato da operatori qualificati a rispondere alle prime richieste ed aiutare prontamente per

procedere con eventuali interventi.

Tra le molteplici attività che l’Associazione Alzheimer Bari Onlus svolge all’interno della sua sede

operativa di via Papa Benedetto XIII, 21 in Bari, una particolare attenzione è rivolta a quella che si

preoccupa di fornire informazioni, assistenza, aiuto, sostegno, consigli, indicazioni ai familiari dei

pazienti che presentano i segni della malattia di Alzheimer, tanto da considerarla una priorità; essi

vengono generalmente definiti “caregivers” ed in tale termine si intendono raggruppare tutte le persone

che quotidianamente si occupano di pazienti affetti da demenza.

Questo complesso caleidoscopio di servizi, viene erogato da un nutrito numero di persone qualificate e

specializzate – psicologhe, educatori, assistenti telefonici etc. – che ogni giorno (dal lunedì al venerdì e

dalle ore 09.30 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 19.00) dedicano la loro opera di volontariato a coloro che

chiedono il nostro aiuto.

Siamo assolutamente convinti che una informazione più completa possibile, crea in essi una

consapevolezza che si rivela fondamentale per il benessere della persona malata e, per questo motivo,

dobbiamo in ogni modo supportare e tutelare la loro dignità e la loro qualità della vita.

Con il rivolgersi a noi, il “caregiver” ci dà la possibilità di valutare obiettivamente le risorse ed i limiti del

nucleo familiare, al fine di costruire insieme una rete protettiva non solo dedicata al paziente ma, fatto

salvo l’aspetto clinico, terapeutico ed assistenziale rivolto al malato, soprattutto di estremo interesse e

beneficio per lui stesso.

E’ ormai accertato che l’azione del “caregiver” non può fermarsi ad essere solamente “spontanea” e

guidata esclusivamente dall’affetto e dal buon senso; egli dovrà essere informato al meglio, istruito

sapientemente e sostenuto professionalmente per poter affrontare le mille difficoltà giornaliere, potendo

attingere ad un bagaglio di conoscenze che solo esperti del settore possono fornirgli.

Infatti si deve prestare la massima attenzione affinché il carico di lavoro assistenziale sia proporzionato

all’età ed allo stato di salute di chi si prende cura del paziente.

E poiché al “caregiver” deve essere data la possibilità, per esempio, di ritagliarsi del tempo da dedicare a

se stesso per prevenire un ipotizzabile isolamento che può comportare, a lungo andare, pesanti

ripercussioni sul suo stato psico-fisico, diventa importantissimo potergli offrire una solida e sicura sponda

che, in caso di difficoltà, lo possa spronare a chiedere aiuto a sua volta rivolgendosi a chi può

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rispondergli.

Egli può anche esporsi a sentimenti non positivi quali la disperazione, il sentirsi impotente davanti al

progredire della malattia del proprio caro, l’angoscia, la frustrazione etc.

Ebbene, questi sentimenti non dovranno essere repressi, bensì occorrerà che il soggetto possa parlarne

liberamente con qualcuno di sua fiducia.

Presso la nostra “Casa Alzheimer Don Tonino Bello” realizziamo un “percorso benessere” per i familiari:

si compendia in una strategia incredibilmente utile e mirata a ricaricare le energie fisiche e mentali che

vanno esaurendosi ed evitare di andare incontro a fenomeni di esaurimento psicoemotivo (burn out),

sintomi entrambi dannosi non soltanto per chi li vive ma anche per il malato di cui devono occuparsi.

All’interno del percorso sono previsti incontri di musicoterapia, esercizi di rilassamento, ortoterapia,

ginnastica dolce e corsi di potenziamento della memoria.

Quest’ultimo è un itinerario educativo/informativo finalizzato allo stare bene della mente ed all’efficacia

della memoria, per potenziarne la capacità di reagire alla percezione del suo declino attraverso un

migliore uso delle proprie risorse interne e l’apprendimento di adeguate strategie.

Tutto ciò viene svolto mentre i pazienti sono impegnati in altre attività riabilitative.

Infine, riassumendo, possiamo coadiuvare i “caregivers” nell’affrontare le seguenti tematiche:

10.30 assistere e supportare la persona nella soddisfazione dei propri bisogni primari;

10.31 rispettare l’autodeterminazione del singolo;

10.32 individuare le necessità non soddisfatte del soggetto;

10.33 intervenire con provvedimenti di riabilitazione e di attività di socializzazione;

10.34 contribuire alla programmazione delle attività di assistenza socio – sanitaria;

10.35 utilizzare correttamente protocolli ed ogni altra modulistica attinenti alle proprie funzioni;

10.36 informare i familiari sui servizi socio – sanitari presenti sul territorio, orientandoli nel contesto

organizzativo;

10.37 aiutare i parenti a gestire situazioni di emergenza;

10.38 gestire strategie di relazione d’aiuto;

10.39 collaborare con altre figure professionali ed in équipe.

Nella sede operativa dell’Associazione “Alzheimer Bari”, che dispone di molti ambienti da adibire allo

scopo funzionale che si è prefissato e che a tutt’oggi rappresenta una assoluta novità nel variegato

palcoscenico offerto da altre realtà, tutte comunque attinenti alla patologia in questione, un nutrito,

qualificato e preparatissimo gruppo di neuropsicologi ed educatori svolge una serie di attività tra esse

interconnesse e plasmabili, in grado di offrire un sostegno di prim’ordine agli ospiti affetti da un

deterioramento cognitivo di entità lieve o lieve-moderata.

A questo si aggiunge un’implementazione dell’offerta dei servizi con l’assistenza erogata in favore dei

familiari dei pazienti, anch’essi distintamente seguiti da neuropsicologi ed educatori durante le sedute

dedicate ai propri cari.

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CICLI DI STIMOLAZIONE COGNITIVA

(8 sedute – 75 minuti ciascuna – martedì e venerdì mattina)

Ad oggi sappiamo bene che la terapia farmacologica ha un effetto abbastanza limitato sui pazienti affetti

da demenza, in particolare su quelli affetti dalla malattia di Alzheimer; per questa ragione un numero

sempre maggiore di studiosi sta indagando sull’efficacia della pratica della stimolazione cognitiva quale

terapia non farmacologica tendente a rallentare il progredire della patologia.

La maggior parte dei trattamenti utilizzati comprende tecniche cognitive specifiche per la stimolazione

della memoria, dell’orientamento spazio-temporale, dell’attenzione e del linguaggio.

CICLI DI FISIOTERAPIA

(4/8 sedute – 45 minuti ciascuna – lunedì e mercoledì mattina)

E’ noto che il declino cognitivo viene rallentato da una riduzione, se possibile, dei fattori di rischio

cardiovascolare quale l’ipertensione, il diabete, l’ipercolesterolemia e l’obesità.

Gli esercizi proposti sono indirizzati a migliorare l’equilibrio, la forza muscolare e lo schema del passo,

facilitare un cammino funzionale, maggiorare la sicurezza, stimolare l’autonomia nelle attività quotidiane

e la relativa coordinazione ed, infine, ridurre il dolore e la rigidità del tono muscolare.

CICLI DI RIABILITAZIONE LOGOPEDICA

(8 sedute – 60 minuti ciascuna – lunedì e mercoledì mattina)

Il linguaggio, localizzato nell’emisfero cerebrale sinistro, è in assoluto la funzione cognitiva più

complessa; quando i centri del linguaggio subiscono un danno consistente e si riscontra una lesione delle

aree deputate alla produzione ed alla comprensione linguistica, si determina l’afasia.

Diviene fondamentale, quindi, che gli ospiti afasici possano ricevere una riabilitazione logopedica che,

cercando di stimolare le loro abilità residue, diventi funzionale all’individuazione di strategie che gli

consentano di comunicare il più efficacemente possibile con qualsiasi interlocutore, nonostante si sia in

presenza di un deficit conclamato.

LABORATORIO MUSICALE

(2 incontri settimanali – 75 minuti ciascuno – martedì pomeriggio)

In funzione della potenzialità espressa dal gruppo dei partecipanti, vengono strutturati momenti di

esercizio dove la musica (suonata, cantata ed anche ballata) diventa il vettore che, con riscontri

eccellenti, persegue lo scopo di stimolare le abilità cognitive, motorie e relazionali degli ospiti.

Attraverso l’ascolto di notissimi brani musicali si propongono esercizi di stimolazione cognitiva e si

facilita la capacità di ricordare dell’ospite, offrendo una numerosa gamma di spunti adatti all’attività di

reminiscenza su tradizioni, usi e costumi.

STIMOLAZIONE MAGNETICA TRANSCRANICA

La TMS è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica del tessuto cerebrale, che viene

utilizzata a scopo diagnostico e terapeutico.

Per mezzo di uno strumento chiamato “stimolatore”, si fornisce energia elettrica ad un manipolo (detto

“ansa” o “coil”) che genera un campo magnetico per un breve periodo di tempo prestabilito.

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Passando senza ostacolo attraverso il cuoio capelluto e la scatola cranica, lo stimolo raggiunge facilmente

le strutture del cervello sottostanti e ne modifica, quindi, l’attività elettrica, ciò al fine di migliorarne le

proprie funzioni.

Ormai numerosissimi studi hanno dimostrato che trattamenti effettuati con stimolazioni magnetiche

transcraniche ripetitive, sono risultate efficaci nella cura della depressione e dell’ansia farmaco-resistenti,

degli esiti di ictus cerebrali ( che avevano causato deficit motori, cognitivi o del linguaggio), del dolore

cronico, della sindrome di Parkinson, del morbo di Alzheimer, delle dipendenze (alcool, droga e fumo),

dei disturbi alimentari (bulimia ed anoressia), dei disturbi ossessivi compulsivi e della schizofrenia.

Info 335 / 446.939 – 347 / 601.50.32 Dr. R. Settembre

TRENO DELLA MEMORIA E TERAPIA DEL VIAGGIO

In una stanza della struttura è stato riprodotto uno spaccato di una odierna stazione ferroviaria.

Una prima parte riproduce una locale sala di aspetto con la biglietteria, gli orari, l’orologio, la panchina

ed altro mentre la seconda parte, più grande, è allestita come un vero scompartimento di un vagone

ferroviario con la porta, coppie di poltrone l’una di fronte all’altra, luci di cabina, portapacchi,

cappelliere, riproduzioni degli originali quadretti di un tempo, tavolino e, soprattutto, il grande finestrino

nel quale è posizionato un grande monitor sul quale scorrono filmati di ambienti esterni ripresi “ad hoc”

da treni in movimento; durante l’attività terapeutica vengono anche riprodotti i suoni ed i rumori reali che

si percepiscono nel corso di un viaggio.

Gli ospiti vengono invitati a compiere tutti gli atti che attengono ad un viaggio a cominciare dall’acquisto

e dalla timbratura del biglietto per poi accomodarsi nei posti assegnati all’interno dello scompartimento in

attesa della partenza vera e propria del il viaggio-terapia.

In precedenza, in seguito all’acquisizione di specifiche informazioni biografiche e di vita vissuta da parte

del paziente, l’equipe multidisciplinare preposta avrà strutturato un itinerario personalizzato che potrà

aiutarlo a recuperare ricordi ed esperienze della propria storia a lui cari.

Il viaggio, quindi, diventa un momento di riappropriazione del passato e del presente.

Questa terapia rientra tra gli interventi appunto non farmacologici che, insieme a tutte le altre, si

prefiggono il benessere degli ospiti andando a stimolare ricordi, attenuando i disturbi del comportamento

(ansia, agitazione, aggressività, affaccendamento, wandering, irritabilità) che accompagnano i disturbi

cognitivi nella malattia di Alzheimer, dando nel contempo sensazioni piacevoli e gratificanti.

In alcuni casi può anche favorire il dialogo e la relazione fra persone; in questo percorso la persona deve

essere accompagnata.

La Terapia del Viaggio, dunque, si inserisce a pieno titolo tra le novità del panorama di attività a sostegno

dei pazienti e, per la prima volta nel centro / sud d’Italia, viene erogata nella nostra sede.

ATTIVITÀ SPIRITUALE

Ormai molti studi hanno osservato essere utile, per un paziente con demenza, il partecipare a funzioni

religiose.

Tali attività, però, devono essere gradite al soggetto e consone al suo vissuto ed alle sue attuali

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condizioni.

Per coloro particolarmente devoti o che hanno avuto un ruolo della propria comunità ecclesiastica,

prendere parte ad attività spirituali può rappresentare un modo per mantenere l’autostima ed il senso di

appartenenza sociale, oltre che a favorire la relazione con gli altri.

Le funzioni religiose, inoltre, sollecitano la reminiscenza, facilitando la rievocazione di ricordi e

tradizioni del passato e stimolano l’orientamento temporale, data la cadenza delle feste religiose nel corso

dell’anno.

Anche in questo caso, nella nostra struttura abbiamo riprodotto con grande accuratezza una chiesetta dove

è possibile svolgere attività spirituali terapeutiche per i nostri ospiti.

COGS CLUB

(1 incontro settimanale – 210 minuti)

La recente letteratura scientifica ha dimostrato l’efficacia di interventi non farmacologici quali la

Stimolazione Cognitiva (Cognitive Stimulation Therapy CST / Spector, 2003 – Orrell, 2005), la Terapia

Occupazionale (Graff M., 2006) e la Musicoterapia nel contrastare la perdita delle residue abilità presenti

nei pazienti affetti da demenza, con benefici paragonabili e sovrapponibili a quelli ottenuti mediante la

somministrazione della terapia farmacologica.

Oggi si avverte sempre più il bisogno di avere opportunità da offrire a coloro che presentano sintomi di

decadimento cognitivo in fase iniziale che, giudicati appunto “non gravi”, non possono essere inseriti

nella rete dei servizi e nel contempo prestare assistenza e sostegno alle loro famiglie, al fine di far loro

ritrovare momenti di pausa e sollievo, senza tralasciare di aiutare il paziente a gestire le prime difficoltà

cognitive ed invogliarlo a sentirsi ancora autonomo.

Il progetto “COGS Club” nasce in Inghilterra nel 2011 e si è affermato nella Regione Emilia Romagna

grazie al lavoro ed alla dedizione profusi dal dr. Andrea Fabbo, responsabile del programma demenze

AUSL della città di Modena, e dalla sua equipe.

In conseguenza di una stringente collaborazione tra le parti, un simile progetto ha visto la luce presso

“Casa Alzheimer don Tonino Bello” nella sede della nostra Associazione.

Esso si configura come il primo, ed unico, “COGS Club” presente in tutto il territorio del Centro / Sud

Italia e si offre come assoluta avanguardia nella erogazione di terapie non farmacologiche.

In esso viene rappresentata una forma multidisciplinare di terapia che integra omogeneamente

Stimolazione Cognitiva (CST), Terapia Occupazionale, Attività Motoria, Reminiscenza e Socializzazione

da erogarsi a soggetti con demenza lieve o lieve-moderata, mirando a rendere maggiormente efficienti

“gli ingranaggi senili ed arrugginiti” del cervello.

Nel corso dell’incontro si alternano due psicologi, un terapista occupazionale ed alcuni volontari

specificatamente formati ed addestrati per svolgere le necessarie attività.

Questo progetto, ormai pienamente avviato, vuole insomma sviluppare una nuova tipologia di servizio,

cosiddetta “a bassa soglia”, che possa intercettare quelle situazioni, ormai diffusissime ed in crescita, che

rappresentano una prima soluzione alle incombenti necessità di accudire il proprio caro che impatta con la

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demenza e sostenere i suoi caregivers.

E se consideriamo il desolante panorama assistenziale offerto dai nostri territori, esso appare come un

vero e proprio fiore all’occhiello della nostra struttura.

CAFFÈ ALZHEIMER OVVERO AMARYLLIS CAFÉ

(3 incontri settimanali – 120 minuti ciascuno – lunedì, mercoledì e giovedì 16,00 / 18,00)

L’Amaryllis Café costituisce uno spazio/tempo dedicato alle persone affette da deterioramento cognitivo

ed ai loro familiari; tale inscindibile connubio nasce dalla volontà di aprire e mantenere in essere una

comunicazione con queste persone, al di fuori di qualsivoglia contesto sanitario e/o istituzionale, affinché

possa favorirsi la loro socializzazione col restituirgli la propria identità ed il loro senso di autoefficacia.

Esso è strutturato sulle linee guida dei Caffè Alzheimer diffusi su tutto il territorio nazionale, ma si

differenzia sostanzialmente dal modello “classico” per metodologia ed approccio diversi.

La nostra “equipe” è abilitata alla erogazione del metodo “Gentlecare®“, che consente di personalizzare

gli interventi e modellarli sulle caratteristiche della persona.

Gli ospiti, in diverse stanze, svolgono attività cognitive ovvero manuali, artistiche e laboratoriali; questa

diversa opportunità offre il vantaggio di poter soddisfare al meglio le specifiche necessità dei soggetti

interessati nonché le loro attitudini.

Un ulteriore implemento innovativo è rappresentato dalla costante presenza e conseguente attività da

parte del neuropsicologo che coordina il gruppo dei familiari presente in un’altra stanza e, inoltre,

fornisce strategie utili al “caregiver” per affrontare al meglio la quotidiana gestione del proprio caro.

Info 080 / 556.36.47 – 329 / 163.08.60

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EPIDEMIA ALZHEIMER - ISTRUZIONI PER L'USO

Una delle grandi vittorie dell'uomo e' quella di aver allungato di tanto la durata della vita, tanto che a

tutt'oggi un uomo vive mediamente 82 anni ed una donna addirittura 84-85. La terza età , comunque, non

potendo dissociarsi dal fisiologico invecchiamento , porta all'aumentare delle patologie croniche proprie

del soggetto anziano : ipertensione, malattie respiratorie, diabete e assolutamente non per ultimo il

decadimento cognitivo e le demenze vere e proprie quali la malattia di Alzheimer.

Diversi sono gli istituti di ricerca, nazionali ed internazionali, impegnati nello studio di tale patologia. La

stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel suo Piano Globale di Azione per la Salute

Mentale ha dichiarato la demenza uno dei 7 disturbi neuropsichiatrici prioritari, in vista di poterne ridurre

l’inadeguatezza di trattamento nei Paesi con scarse risorse. Nel Rapporto 2015, l’ADI, Alzheimer Disease

International, ha stimato che attualmente le persone affette da demenza siano 46 milioni in tutto il mondo

e questo numero è destinato a raddoppiare nei prossimi 20 anni: si prevedono 74 milioni di malati nel

2030 e 131 milioni nel 2050.

Pertanto la malattia di Alzheimer sta acquisendo i connotati di una vera e propria epidemia: In Italia,

sempre secondo il rapporto, si stimano attualmente 1,241,000 persone con demenza, che diventeranno

1,609,000 nel 2030 e 2,270,000 nel 2050. I nuovi casi nel solo 2015 sono 269,000 ed i costi ammontano a

37,6 miliardi di euro.

E’ questo il grido di allarme che viene lanciato in OGNI occasione ci si trovi a parlare di questo dramma

socio-sanitario. Sino a ieri si diceva che si diagnosticava un malato di Alzheimer ogni 7 secondi , ad oggi

se ne diagnostica uno ogni soli tre secondi. Si dice che ogni 10 minuti un italiano perda la memoria. E con

l’aumento della incidenza si è più che raddoppiata la velocità di impatto della malattia sul tessuto sociale.

Come inevitabile conseguenza sono aumentati i costi relativi alla gestione di tutto il percorso diagnostico,

terapeutico e soprattutto assistenziale di questa che prende le sembianze di una vera e propria epidemia.

L’impatto economico si aggira intorno agli 818 miliardi di dollari, che equivalgono al PIL di una nazione

al 18° posto nel mondo.

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Per di più in un momento storico-politico caratterizzato da una profonda crisi etica ed economica, che

vede aumentare sempre di più i disagi delle classi sociali meno abbienti, questa malattia , che dura

mediamente oltre 10 anni, mette a dura prova le famiglie coinvolte, che hanno purtroppo difficoltà a

trovare nelle istituzioni un’ancora di salvataggio o aiuto e pertanto sono in balia di un uragano e di uno

tsunami che quando entra nella casa dell’ammalato travolge tutti e tutto.

Sono numeri impressionanti che possono mettere in difficoltà l' assetto socio-sanitario di qualsiasi paese,

specie di quelli che, purtroppo , come l'Italia non hanno pensato a mettere a punto un piano per contenere

gli effetti di una tale patologia, che, tuttavia, potrebbe essere controllata attraverso la messa in atto di

strategie di cura ed intervento precoci. La ricerca dimostra l’importanza di sostenere i costi e i vantaggi

della diagnosi precoce e degli interventi dei servizi socio-assistenziali sin dalle prime fasi della malattia.

Questa malattia fu scoperta nel 1907 a Tubingen in Germania dal neurologo Alois Alzheimer , che

descrisse il caso di una signora di 57 anni , Augustine, la quale aveva mostrato strani segni di

decadimento mentale, con deliri di gelosia ,perdita di memoria per le cose recenti, difficoltà a riconoscere

la persone abituali, la impossibilità a svolgere le normali attività compiute sono a poco tempo prima ecc.

Il professore aveva come assistente il medico italiano Gaetano Perusini che lo aiutava attivamente nella

ricerca sulla malattia.

Alla morte della signora, il prof. Alzheimer pratico' l' autopsia della paziente e nel cervello di Augustine

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vide una evidente atrofia dello stesso e, nei neuroni ammassi di una sostanza, chiamata poi Beta-

amiloide, che impedivano il normale funzionamento , con una degenerazione che portava, infine alla

morte della cellula stessa.

Pertanto se interviene una malattia come l'Alzheimer, i normali processi di pertinenza neuronale si

riducono in maniera estremamente più veloce, ed ecco comparire i segni del deficit di memoria, di

linguaggio, di riconoscimento di cose e persone note, di abilità a fare quello che prima ci riusciva

normalmente ecc.

Il momento della diagnosi

La malattia ha quasi sempre un inizio subdolo, a volte scambiato con semplici dimenticanze, magari di

persone distratte, ma quando compaiono episodi più particolari ( ad esempio mettere il ferro da stiro nel

freezer, i libri nel forno, avere difficoltà a rientrare a casa, dimenticare frequentemente il nome delle cose

di uso comune o dei familiari, avere difficoltà a fare calcoli anche elementari ) si deve pensare di essere di

fronte ad una persona con un deficit cognitivo e diventa necessario affrontare un percorso diagnostico per

inquadrare una eventuale demenza nel gruppo delle quali la malattia di Alzheimer rappresenta oltre

l'ottanta per cento.

Diversi test neuropsicologici , quali il MMSE ( Mini Mental State Examination ), il MOCA ( Montreal

Cognitive Assessment ), il MODA ( Milan Overall Dementia Asessment ), lo ADL ( Activities of Daily

Living ) lo IADL. ( Instrumental Activities od Daily Living ), ed il recente TyM-I ( test your memory

versione italiana), possono essere somministrati con discreta semplicità al paziente di cui si sospetta la

malattia ed indirizzano già verso la diagnosi della demenza che, in seguito, deve essere confermata da

indagini diagnostiche tese a confermare la ipotesi, quali TAC cranio , RM encefalo, PET, SPECT ( non

reperibili dovunque ) come pure esami ematochimici che confermino o eliminino altre ipotesi

diagnostiche ( come ad es. FT3, FT4 e TSH, la omocisteina, lo ione rameico ecc. ).

Ultimamente la ricerca scientifica va verso l'individuazione di marcatori precoci della malattia, perché la

diagnosi precoce, potrebbe dare ai pazienti prospettive terapeutiche e gestionali migliori. Questo e'

proprio quello di cui si sta occupando la facoltà di Scienze del Farmaco di Bari, con l'equipe diretta dal

professor Nicola Colabufo , che ha già messo a punto un’esame per il dosaggio dello ione rameico (

spesso aumentato anche in assenza di sintomi di malattia ) ed è quello che la nutrita equipe del Prof.

Logroscino della Facoltà di Neurologia dell’Università di Bari ( percorso clinico diagnostico precoce ) sta

approntando in un ultraspecialistico laboratorio dedicato presso l’Ospedale Panico di Tricase.

Il percorso della malattia

Fatta la diagnosi comincia il doloroso e lungo percorso della malattia, che dura all'incirca dagli 8 ai 12

anni, che vede la,vita del malato e di chi gli presta assistenza ( il cosiddetto CARE GIVER )

completamente rivoluzionata da un uragano, da uno tsunami che travolge tutto e tutti .

Il malato perde giorno dopo giorno tutte le sue capacità, lui se ne accorge, eccome, all'inizio spesso cerca

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di mascherare, poi si ritira in se stesso, per la paura di sbagliare, di non saper fare, di non riuscire a fare,

cadendo molte volte in depressione che peggiora il quadro mentale già alterato.

Il familiare d'altro canto, principale care-giver, passa attraverso diversi stadi : prima la non accettazione

della malattia, quindi subentra rifiuto della stessa al quale segue una cupa rassegnazione.

Il conivolgimento di tutto il nucleo familiare fa sì che a soffrire dello stato di malattia siano più persone,

rendendo pertanto l’Alzheimer una malattia della famiglia ed una vera e propria emergenza sociale.

Il malato, purtroppo , finisce per essere spettatore , del suo deterioramento mentale e conseguente

regressione, che si sviluppa alternando periodi di maggiore o minore gravità , necessitando pero' sin

dall’inizio di assistenza continua e specializzata.

Dove curare il nostro malato.

Diversi studi hanno evidenziato che il migliore luogo deputato per la cura del malato di Alzheimer , a

detta dei familiari intervistati , e' la propria casa, perché non vengono persi i pochi punti di riferimento

conservati dal paziente .

Pertanto sarebbe auspicabile un buon servizio di Assistenza Domiciliare da parte dei Comuni, che

aiutando i familiari nella,loro abitazione permetterebbero la continuità della assistenza del malato nella

sua abitazione.

Altra possibilità utile al paziente anche a scopo riabilitativo e come pure al familiare a scopo "

rigenerativo " sono il Café Alzheimer, il Meeting Alzheimer ed i Centri Diurni dedicati, dove un

ammalato di livello lieve-moderato può fare esercizi di riabilitazione cognitiva per mantenere le residue

capacità e rallentarne la perdita, mentre (nel Café e Meeting Alzheimer ) il familiare scambia esperienze

con altri care-givers, chiede e da' consigli utili per la gestione quotidiana dei problemi legati alla malattia,

con la presenza di psicologi ed educatori.

Nel percorso, come gia' detto spesso lungo, della malattia, molte volte il paziente incorre in periodi in cui

è preda di disturbi comportamentali con aggressività, alterazioni del rapporto sonno/veglia ( dormono di

giorno e sono svegli durante la notte ), affaccendamento continuo con girovagare senza meta a volte

anche deliri e allucinazioni che hanno chiaramente un impatto devastante su chi lo assiste.

Il più delle volte per tali problematiche ( che spesso compaiono nel' ultimo livello della malattia , quello

grave ) si rende dolorosamente necessario la istituzionalizzazione presso strutture residenziali ( RSA :

Residenze Sanitarie Assistenziali ed RSSA : Residenze Socio-Sanitarie Assistenziali ) possibilmente con

il cosiddetto Nucleo Alzheimer, per assicurare adeguata e specialistica professionalità. È il momento della

resa da parte dei familiari, che non riescono più a sopportare il peso della assistenza senza rimetterci in

salute.

Terapia farmacologica:

Allo stato attuale non sembra che i farmaci a disposizione riescano a modificare la storia della malattia,

sono in commercio diversi farmaci che verosimilmente possono solo parzialmente rallentare il decorso.

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Come pure hanno parziale importanza anche la terapie sintomatiche ( ansiolitici, ipnoinduttori,

tranquillanti ) che adeguatamente utilizzate possono comunque ridurre le alterazioni comportamentali.

Sono allo studio un vaccino specifico, l’utilizzo di cellule staminali, l’ingegneria genetica e l’utilizzo di

nano-particelle.

Terapia non farmacologica :

La terapia non farmacologica, che sicuramente ha notevole utilità nel trattamento del paziente con

Malattia di Alzheimer è finalizzata a conservare il più elevato livello di autonomia mediante tecniche che

hanno lo scopo di:

1. Controllare i disturbi del comportamento

2.Rallentare il declino cognitivo e funzionale

3.Compensare le disabilità.

Le tecniche sono diverse a secondo lo stadio della malattia, nelle fasi iniziali si applicano :

—Stimolazione cognitiva

—Introduzione di ausili esterni

—Colloqui di sostegno e psicoterapia

Nelle fasi lievi-moderate faremo uso di :

—ROT (RealityOrientationTherapy)

—Terapia di reminescenza

—Terapia di rimotivazione

—Terapia occupazionale

Nelle fasi fasi moderate-severe :

—Terapia di validazione(ValidationTherapy)

Comunque durante tutte le fasi della demenza è utile fare :

—Attività motorie

—Gentlecare

—Musicoterapia

Ruolo della Associazione Alzheimer

Per venire in aiuto di tutti e specialmente dei più bisognosi ecco che nascono le Associazioni che si

occupano dell'Alzheimer, perché la maggiore attenzione dedicata oggi alla malattia è solo un primo

piccolo passo verso la creazione di una rete socio-assistenziale per i malati e le loro famiglie che spesso si

ritrovano da sole a dover gestire il carico di un’assistenza sfibrante anche perchè i piani socio-sanitari non

hanno ancora preso atto della necessità di un’inversione di rotta dalla "cure" alla "care" (dal "curare" al

"prendersi cura").

L’Associazione Alzheimer Bari associata alla Federazione Alzheimer Italia nasce, il 19 febbraio del 2002,

per opera di un gruppo di familiari desiderosi di aiutare chi si viene a trovare in gravi difficoltà

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sociosanitarie, perché colpito direttamente e non dalla malattia, e su sollecitazione di Ignazio Schino,

giornalista e scrittore pugliese, che colpito dall’Alzheimer ( papà di chi vi scrive ), ne ha compreso

appieno le necessità divulgative per incrementare la istituzione di una rete di servizi assistenziali. E’

associata alla Alzheimer Italia di Milano.

La famiglia non può essere lasciata sola a gestire i numerosi problemi della vita di ogni giorno e a

fronteggiare una malattia che attualmente si può trattare, ma non guarire. A tal riguardo, un dato

scoraggiante è che oggi in Italia otto famiglie su dieci si fanno carico dei costi dell’assistenza al paziente (

61.000 euro tra costi diretti ed indiretti ) che viene spesso curato a casa, poichè i servizi assistenziali e

sanitari per questo tipo di patologie sono molto scarsi soprattutto per la fascia di popolazione medio-bassa

che non può accedere ai servizi privati.

L’Alzheimer Bari cerca di offrire sostentamento ed aiuto a malati e familiari fornendo :

1) Sostegno psicologico;

2) Informazione sui servizi esistenti;

3) Assistenza per le pratiche di invalidità civile ed altri benefici di legge ( amministratore di sostegno,

sgravi fiscali ecc. );

4) Impegno con le Istituzioni per la creazione di strutture adeguate, centri di ascolto, centri diurni,

assistenza domiciliare integrata, strutture semi-residenziali.

Ai pazienti viene fornita su richiesta:

1) Valutazione neuropsicologica

2) Consulenze specialistiche

3) Assistenza domiciliare

4) Riabilitazione cognitiva

5) Consulenza legale

6) Possibilità di frequentare l’Amaryllis Cafè (Caffè Alzheimer)

Ultimamente per fornire questi servizi l’Alzheimer Bari ha aperto centri di ascolto a Ruvo di Puglia,

Canosa, Gravina in Puglia, Acquaviva delle Fonti, Molfetta, Cassano delle Murge, Monopoli e Taranto.

Da ottobre 2012 ha aperto un Cafè Alzheimer ( Amarillis Cafè ) a Bari, frequentato da oltre 40 pazienti e

familiari.

Da fine 2012 si è instaurata una collaborazione lo Spin Off Biofordrug della Facoltà di Farmacia della

Università di Bari, dove il laboratorio diretto dal Prof. Nicola Colabufo studia biomarkers per la diagnosi

precoce della Malattia.

Dal dicembre 2013 è attiva “ Casa Alzheimer Don Tonino Bello “ che l’Associazione spera possa essere

sempre più il punto di ingresso per il paziente ed i familiari ed il posto dove realizzare quasi tutto il

percorso di aiuto e sollievo per il malato ed i familiari ove si realizzano attività di vario tipo, tese alla

informazione, formazione del personale e dei familiari e divulgazione della malattia, di assistenza e

riabilitazione tre volte la settimana presso il Cafè Amarillis .

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A Casa Alzheimer Don Tonino Bello, dice il Presidente Dott. Pietro Schino, figlio del giornalista barese

Ignazio Schino colpito dall’Alzheimer, cerchiamo di far fronte a tutti quelli che sono i problemi di chi

quotidianamente affronta la tremenda malattia che è l’Alzheimer, dalle semplici informazioni fornite dal

centro di ascolto ( oltre 700 contatti telefonici ), alla assistenza legale per le pratiche di invalidità e , ad

esempio, la nomina dell’amministratore di sostegno, alle consulenza mediche specialistiche, per non dire

delle consulenze neuropsicologiche per una corretta diagnosi di malattia, riconosciute dalle Commissioni

di Invalidità Civile, alla frequentazione di molti malati dell’Amaryllis cafè, momento di recupero per i

familiari e di integrazione e minima riabilitazione cognitivo-comportamentale dei malati, per finire al

mercatino dell’auto-aiuto dove i presidi sanitari che non sono più necessari ad un nucleo familiare e che

non vengono ritirati dalla ASL vengono ben volentieri accettati da altri malati e familiari.

Il tutto in un clima cordiale e simile ad un ambiente domestico ( ecco il perché del nome “ casa Alzheimer

Don Tonino Bello “ ), che non altera minimamente quelli che sono i precari equilibri psicologici dei

pazienti.

L’Associazione Alzheimer Bari prosegue la dott.ssa Katia Pinto , vicepresidente della stessa e

Vicepresidente Nazionale, organizza un evento – a partecipazione assolutamente gratuita - nel quale

viene concentrato, a grandi linee, tutto il mondo Alzheimer, promuovendone così la sua XXIII^ Giornata

Mondiale.

Presso la nostra sede operativa “Casa Alzheimer Don Tonino Bello” – a Bari in via Papa Benedetto XIII,

21 – il 22 settembre 2016 senza soluzione di continuità dalle ore 09.00 alle ore 19.00 sarà possibile avere

da parte di esperti notizie di carattere generale per conoscere la malattia e le terapia non farmacologiche.

Così facendo pensiamo di far comprendere il diverso mondo che vive un paziente Alzheimer e quanto

possibile attuare dal punto di vista terapeutico non farmacologico, proponendoci in tal modo di aiutare e

sostenere i caregivers.

Ultima novità, infine, prima a realizzarsi nel Centro-Sud, sempre presso Casa Alzheimer di Bari è la “

Terapia del Viaggio o Terapia del Treno “, che Consiste in una terapia non farmacologica innovativa,

finalizzata alla gestione dei disturbi comportamentali e alla stimolazione cognitiva del paziente con

malattia di Alzheimer.

In uno spazio dedicato, è stato realizzato su misura uno scompartimento di un vagone ferroviario,

ricostruito in modo identico ai vecchi convogli di una volta.

Comprende due coppie di poltrone, l'una difronte all'altra, un po' retrò, vecchie stampe identiche a quelle

che venivano utilizzati sui convogli delle FFSS oltre vent'anni fa, porta valige ed un grande monitor al

plasma, che funge da finestrino virtuale, che proietta filmati di ambienti esterni ripresi dai treni in

movimento lungo tratte familiari per i pazienti.

L'ospite, pertanto, vede le immagini proiettate ed attraverso queste si ricreano le condizioni per la

reminiscenza e /o ricordi personali.

Per ogni ospite viene organizzato un viaggio su misura che richiede:

• perfetta conoscenza storia di vita paziente

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• attenta osservazione del paziente

• strutturazione del momento viaggio: invito, consegna del biglietto, timbratura, partenza,, arrivo…

Viaggiare può essere una cura. e la cura può essere «virtuale», anche se i suoi effetti benefici sono reali

La Associazione e tutti i volontari iscritti ha nel cuore due verbi : ACCOMPAGNARE E

PROTEGGERE.

Accompagnare il malato ed il familiare in un percorso che, come si è detto, e' tristemente lungo ( oltre

10 anni ) e Proteggere perché questo cammino e' pieno di insidie e di momenti di acuta difficoltà , nei

quali, a volte si sono compiuti gesti estremi per liberare e liberarsi dal dramma e dal dolore.

Solo così , con quella che è stata definita una “ frugale solidarietà “ ed imparando a tenere bene a mente

i due verbi “ accompagnare e proteggere “ si può pensare di aiutare chi soffre, a volte in maniera

silenziosa, ma disperata, proponendoci come aiuto e sostegno ai suoi caregivers e facendo comprendere,

veramente e tangibilmente il diverso mondo che vive un paziente Alzheimer

L'Alzheimer Bari ha la sua sede in Via Papa Benedetto XIII n° 21 ed i recapiti (

per coloro che dovessero avere bisogno di informazioni o per altre necessità )

telefonici ed informatici sono : 0805563647 Cell.335446939

Sito internet www.alzheimerbari.it

e-mail [email protected]

Pietro Schino

Presidente Alzheimer Bari

Immagini della terapia del treno

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Mario robot infermiere per combattere la demenza

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