la lunga crisi e l'economia italiana poverta' divari e lo sforzo della ripresa

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1 LA LUNGA CRISI E L’ECONOMIA ITALIANA Crescita della povertà e dei divari territoriali. Lo sforzo della ripresa ITALIA, ECONOMIA E SOCIETA’ - Analisi e materiali per la discussione Paper n. 1 (11 marzo 2017) 1. PREMESSA Dopo dell’esito del referendum del 4 dicembre, prevalentemente interpretato più come un voto di “protesta” verso il Governo Renzi che come un voto sulle proposte di modifica della Carta costituzionale, continuano a dominare il dibattito nazionale il tema della povertà e quello delle diseguaglianze. Due aspetti che, secondo i critici e i partiti di opposizione, il Governo non avrebbe saputo affrontare con politiche economiche adeguate. Questa valutazione non solo è ingenerosa ma non rispecchia la realtà. Infatti, il Governo e il PD (con la segreteria Renzi) hanno sempre avuto ben presente la gravità del trend di aumento della povertà generata dalla lunga crisi economica iniziata nel 2008. E non hanno mai ignorato i preoccupanti segnali di crescita della deprivazione e dei divari socio-economici: un fenomeno di portata storica che riguarda non solo l’Italia ma la generalità dei Paesi avanzati. Forse, sotto questo profilo, se un errore c’è stato nell’esperienza del Governo Renzi è quello di aver posto una maggiore enfasi comunicazionale sulle politiche per la crescita piuttosto che su quelle rivolte ad alleviare il disagio sociale, dando così l’errata impressione di non prestare sufficiente attenzione alle nuove sacche di povertà e all’allargarsi dei divari territoriali, con il Mezzogiorno sempre più in difficoltà. E, forse, anche le dimensioni complessive del disagio sociale sono state in parte sottovalutate un po’ da tutti gli osservatori, per il carattere inedito che questo fenomeno sta presentando, con una accelerazione che deriva da un mix di eredità negative di globalizzazione, crisi finanziaria e impatto delle moderne tecnologie sul mercato del lavoro, che concerne non solo l’Italia ma anche Paesi economicamente molto solidi (a cominciare dagli stessi Stati Uniti). Si aggiunga il ritardo con cui vengono pubblicati i dati ufficiali Eurostat-Istat sulla percentuale di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale, il che non aiuta i decisori politici a capire se le misure che essi stanno mettendo in campo contro il peggioramento dei divari di reddito e delle condizioni di vita stiano producendo nell’immediato effetti concreti oppure no. Infatti, le statistiche più recenti disponibili – appena rese note – al momento si fermano per la UE e l’Italia al 2015. Ma in realtà i dati relativi alla povertà e alla

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LA LUNGA CRISI E L’ECONOMIA ITALIANA

Crescita della povertà e dei divari territoriali. Lo sforzo

della ripresa

ITALIA, ECONOMIA E SOCIETA’ - Analisi e materiali per la discussione

Paper n. 1

(11 marzo 2017)

1. PREMESSA

Dopo dell’esito del referendum del 4 dicembre, prevalentemente interpretato più come un voto di

“protesta” verso il Governo Renzi che come un voto sulle proposte di modifica della Carta costituzionale,

continuano a dominare il dibattito nazionale il tema della povertà e quello delle diseguaglianze. Due aspetti

che, secondo i critici e i partiti di opposizione, il Governo non avrebbe saputo affrontare con politiche

economiche adeguate.

Questa valutazione non solo è ingenerosa ma non rispecchia la realtà. Infatti, il Governo e il PD (con la

segreteria Renzi) hanno sempre avuto ben presente la gravità del trend di aumento della povertà generata

dalla lunga crisi economica iniziata nel 2008. E non hanno mai ignorato i preoccupanti segnali di crescita

della deprivazione e dei divari socio-economici: un fenomeno di portata storica che riguarda non solo

l’Italia ma la generalità dei Paesi avanzati. Forse, sotto questo profilo, se un errore c’è stato nell’esperienza

del Governo Renzi è quello di aver posto una maggiore enfasi comunicazionale sulle politiche per la crescita

piuttosto che su quelle rivolte ad alleviare il disagio sociale, dando così l’errata impressione di non prestare

sufficiente attenzione alle nuove sacche di povertà e all’allargarsi dei divari territoriali, con il Mezzogiorno

sempre più in difficoltà.

E, forse, anche le dimensioni complessive del disagio sociale sono state in parte sottovalutate un po’ da

tutti gli osservatori, per il carattere inedito che questo fenomeno sta presentando, con una accelerazione

che deriva da un mix di eredità negative di globalizzazione, crisi finanziaria e impatto delle moderne

tecnologie sul mercato del lavoro, che concerne non solo l’Italia ma anche Paesi economicamente molto

solidi (a cominciare dagli stessi Stati Uniti).

Si aggiunga il ritardo con cui vengono pubblicati i dati ufficiali Eurostat-Istat sulla percentuale di persone a

rischio di povertà ed esclusione sociale, il che non aiuta i decisori politici a capire se le misure che essi

stanno mettendo in campo contro il peggioramento dei divari di reddito e delle condizioni di vita stiano

producendo nell’immediato effetti concreti oppure no. Infatti, le statistiche più recenti disponibili – appena

rese note – al momento si fermano per la UE e l’Italia al 2015. Ma in realtà i dati relativi alla povertà e alla

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instabilità del lavoro (due sotto-indici dell’indice generale sulla povertà ed esclusione sociale) sono ancor

meno recenti e riguardano il 2014.

Nonostante le obiettive difficoltà, il Governo Renzi, con il suo impegno in Europa per cambiare la politica

dell’austerità, le sue riforme (a cominciare da quella del lavoro), le politiche per le imprese e gli

investimenti e i suoi interventi in economia per sostenere i ceti meno favoriti e ridurre le tasse, ha cercato

di affrontare in modo organico la sfida della ripresa dopo la lunga recessione-depressione italiana.

E, anche dopo la fine del Governo Renzi e l’avvio del Governo Gentiloni, il PD è assolutamente determinato

a proseguire nella strada intrapresa, promuovendo, oltre a quelle già avviate, nuove misure per il rilancio

dell’economia e la lotta alla disoccupazione, essendo assolutamente consapevole della gravità e

dell’urgenza del problema sociale in Italia, caratterizzato da un numero di famiglie residenti in condizione di

povertà assoluta pari, secondo l’Istat, a 1 milione e 582 mila e a 4 milioni e 598 mila individui nel 2015.

2. LA GRAVITA’ DELLA CRISI CHE ABBIAMO DOVUTO AFFRONTARE. IL CROLLO DEL PIL, DEI CONSUMI

E DEGLI INVESTIMENTI

Molti di coloro che criticano il Governo Renzi e il PD per le azioni di politica economica avviate negli ultimi

tre anni e la loro presunta (modesta) efficacia sembrano essersi dimenticati dello stato disastroso in cui

versava l’economia italiana alla fine del 2013. E molti degli gli stessi che oggi dibattono sulla crescita del

disagio sociale e delle diseguaglianze sembrano egualmente essersi dimenticati delle responsabilità di

coloro che, molto prima che il Governo Renzi entrasse in carica, avevano portato il Paese sull’orlo di una

crisi finanziaria senza precedenti e poi dentro una recessione estremamente profonda. Una crisi economica

che, unitamente alla cattiva gestione degli amministratori, ha lasciato in eredità all’Italia anche le ben note

difficoltà di diversi istituti bancari (aspetto, quest’ultimo, trattato dal Paper n. 2).

2.1. La crisi economico-finanziaria ereditata dal Governo Renzi

Il profilo della crisi 2008-2013 si caratterizza per tre distinte fasi che hanno progressivamente aggravato la

situazione economica italiana determinando un bilancio complessivo di forte arretramento del PIL, dei

consumi, degli investimenti e dell’occupazione durante il periodo considerato (tabelle 1a e 1b).

La prima fase della crisi, nel 2008-2009, vede una caduta del PIL italiano (-6,5% rispetto al 2007)

determinata essenzialmente da un collasso dell’export (-20,6%) dopo lo scoppio della bolla immobiliare e

finanziaria mondiale (che tra le sue immediate conseguenze generò per diversi mesi una vera e propria

paralisi del commercio internazionale). Questa prima fase “importata” della crisi italiana colpisce, oltre

l’export, soprattutto gli investimenti (-12,7%) e l’industria manifatturiera, con una rilevante diminuzione

degli occupati in questo settore (-271mila rispetto al 2007); ma determina anche un calo del reddito lordo

disponibile delle famiglie consumatrici (si veda specificamente il paragrafo 3.1) e una flessione del 2,6% dei

consumi privati.

Nel frattempo, la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane e delle istituzioni non profit rispetto al

2006 diminuisce nel triennio 2007-2009 di 560 miliardi di euro a prezzi correnti, principalmente per effetto

del crollo dei valori azionari ma anche per un aumento dell’indebitamento. Questa evoluzione è più che

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compensata nello stesso periodo dal corrispondente aumento del valore del patrimonio immobiliare delle

famiglie ma il calo di cui sopra della ricchezza finanziaria netta è notevole e non trova analogo riscontro in

Germania (dove la ricchezza delle famiglie cresce di 226 miliardi, vedi tabella 2) e in Francia (dove la

flessione si limita a 17 miliardi).

Nel 2010-11 vi è un illusorio recupero del PIL italiano, trascinato soprattutto dal rimbalzo dell’export. I

consumi privati per il momento sembrano non soffrire molto e recuperano parte del terreno perso nel

2008-2009. Ma l’economia italiana in realtà continua a peggiorare: in particolare, continuano a calare sia gli

investimenti fissi lordi, che nel bilancio del quadriennio 2008-11 perdono rispetto al 2007 il 14,9% in termini

reali, sia l’occupazione totale del Paese che rispetto al massimo del 2008 perde 506mila addetti. I servizi nel

complesso riguadagnano occupati ma non il commercio, segnale importante, questo, che evidenzia il

malessere di fondo dell’economia.

E’ in questo già fragile scenario interno che si entra nella seconda fase della crisi italiana, con la tensione

finanziaria sui debiti sovrani, scandali politici e la contemporanea perdita di credibilità internazionale del

nostro Paese che porta nel 2011 alle dimissioni del Governo Berlusconi IV. In questa seconda fase, la

ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane subisce una ulteriore flessione, diminuendo nel biennio

2010-11 di 203 miliardi di euro circa a prezzi correnti. Nel complesso, rispetto al 2006, la ricchezza

finanziaria netta delle famiglie italiane nel quinquennio 2007-11 diminuisce di 763 miliardi a prezzi correnti,

un calo che non trova riscontro nelle contemporanee esperienze di altri grandi Paesi UEM come la

Germania e la Francia (che invece nel periodo registrano aumenti, rispettivamente, di 422 miliardi e 160

miliardi). Benché per il momento la crescita del valore delle attività immobiliari in Italia prosegua ancora, la

suddetta flessione del patrimonio finanziario delle famiglie, unitamente al contemporaneo calo del loro

reddito lordo disponibile (vedi paragrafo 3.1), introduce uno straordinario elemento di prudenza

nell’atteggiamento dei consumatori italiani, che dispiegherà ampiamente i suoi effetti negativi sulla

domanda interna nel periodo successivo.

Con il calo dell’occupazione e degli investimenti e con la perdita di reddito e di ricchezza finanziaria dei

cittadini, l’economia italiana nel 2011 era dunque già caricata come una molla per entrare in una possibile

recessione. Per evitare questa eventualità sarebbe servita, a quel punto, una forte spinta per rilanciare la

domanda interna, la produzione e l’occupazione, pur senza dissestare i conti pubblici e proseguendo

assennatamente sulla strada della riforma delle pensioni. Invece no. Accadde l’esatto opposto.

A fine 2011, con lo spread alle stelle e la caduta del Governo Berlusconi IV, prende avvio il Governo Monti

(a cui succederà il Governo Letta nel 2013). L’Italia entra nella terza fase della crisi, quella dell’austerità.

In stretta osservanza ai diktat europei, viene applicata la ricetta sbagliata, quella di un assoluto rigore sui

conti pubblici attraverso un forte aumento del prelievo fiscale, ad una economia già molto indebolita nelle

sue componenti reali. Ricetta doppiamente sbagliata, rispetto ai casi di Grecia, Portogallo e Spagna, nel

caso di un importante Paese produttore come l’Italia, perché una crisi del mercato domestico forzata

artificialmente avrebbe sicuramente provocato, come in effetti è avvenuto, un ulteriore avvitamento della

produzione nazionale di beni e servizi e, conseguentemente, dell’occupazione.

Dopo la significativa diminuzione della ricchezza finanziaria che aveva interessato le famiglie italiane negli

anni precedenti, la tassazione sulla casa introdotta dal Governo Monti contribuisce a far precipitare anche

la ricchezza immobiliare. Le attività reali possedute da famiglie e istituzioni sociali private, secondo la Banca

d’Italia, subiscono un calo nel biennio 2012-13 di 209 miliardi di euro a prezzi correnti; nello stesso biennio

gli investimenti fissi lordi diminuiscono del 15,3% in termini reali e l’occupazione nelle costruzioni perde

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225mila addetti (-12%); le compravendite di unità immobiliari diminuiscono tra il 4° trimestre 2011 e il 1°

trimestre 2014 del 28,5%. A poco vale il contemporaneo recupero della ricchezza finanziaria favorito dai

miglioramenti delle borse (fenomeno che riguarda più o meno nella stessa misura anche Germania e

Francia). Le famiglie italiane restano sfiduciate e prudenti e con un reddito disponibile in ulteriore forte

calo; i consumi privati crollano del 6,3%; gli occupati manifatturieri diminuiscono di altre 194mila unità e il

PIL arretra in un biennio di ben 4,5 punti percentuali. In aggiunta, a dimostrazione del fallimento della

ricetta eccessivamente rigorista, il debito pubblico anziché diminuire, sale dal 116,5% del PIL del 2011 al

129% del 2013: un aumento di 12,5 punti in soli due anni, non distante da quello precedentemente

generato dal Governo Berlusconi IV nel periodo critico 2008-2011 (+16,7%).

Complessivamente, rispetto al 2007 il bilancio della crisi economica italiana 2008-2013 è tremendo: PIL -

8,7% in termini reali; consumi privati -7,7% (ma con punte negative in alcuni settori di beni del made in Italy

di oltre due cifre), investimenti fissi lordi –27,9%; 1 milione circa di occupati in meno (rispetto al 2007-

2008). E’, questa, la disastrosa situazione economica ereditata dal Governo Renzi nel 2014. Per un

confronto, nello stesso periodo 2008-2013 in Germania il PIL è aumentato del 3,9%, i consumi privati del

4,6%, gli investimenti fissi lordi dell’1,3% e l’occupazione è cresciuta di circa 2 milioni di persone.

Se si considerano i dati trimestrali, dai valori pre-crisi fino ai rispettivi punti di minimo, la caduta delle

principali variabili macroeconomiche è stata ancora più ampia di quella evidenziata dai dati annuali (tabella

1c):

-9,5% il PIL;

-8,1% i consumi privati;

-30,7% gli investimenti fissi lordi.

Si aggiunga che rispetto al 2006, nel periodo 2007-2013 la ricchezza totale netta delle famiglie è aumentata

in Italia solo di 502 miliardi a valori correnti, cioè del 5,5% (principalmente per effetto della crescita del

valore del patrimonio immobiliare avvenuta antecedentemente il 2012), mentre in Germania l’incremento

è stato di ben 2.291 miliardi, cioè del 28,8%, oltre 4 volte superiore al nostro.

In Italia, nel 2003 la sola ricchezza finanziaria netta delle famiglie risultava inferiore di 386 miliardi di euro a

prezzi correnti rispetto a quella del 2006, mentre quella tedesca contemporaneamente era cresciuta di 820

miliardi.

La crisi ha dunque prodotto un sorpasso storico: nel 2006 il patrimonio netto totale delle famiglie italiane,

tradizionale punto di forza della nostra economia, era di 1.151 miliardi di euro più alto di quello delle

famiglie tedesche; nel 2013 era invece diventato di 637 miliardi più basso. In termini reali, deflazionando

rozzamente la ricchezza totale netta italiana e tedesca con i rispettivi indici armonizzati dei prezzi al

consumo, significa che il patrimonio delle famiglie italiane nel periodo 2007-2013 è diminuito del 9,4%

rispetto al 2006 mentre quello delle famiglie tedesche è invece aumentato del 13,7%.

2.2. La ripresa durante il Governo Renzi

Il Governo Renzi è sempre stato ben conscio di non poter realizzare alcun miracolo economico. Al contrario,

data la difficile situazione ereditata, ha cercato di pilotare razionalmente l’economia italiana su un sentiero

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di ripresa in grado di portare a dei primi risultati concreti. I miglioramenti del quadro economico nel

triennio di Governo, pur ancora distanti dai livelli pre-crisi, appaiono evidenti dai dati statistici (tabella 3).

In particolare, rispetto al 1° trimestre 2014, nel periodo 2°trimestre 2014-4° trimestre 2016 il PIL è cresciuto

cumulativamente in termini reali del 2% (in base ai dati destagionalizzati e corretti per il calendario): un

risultato discreto, ottenuto senza aumenti della spesa della Pubblica amministrazione, che anzi è calata (-

0,1%). Buoni appaiono i progressi, dal lato della domanda, dei consumi privati (+3,5%) e dell’export

(+10,8%), ma anche gli investimenti fissi lordi appaiono in recupero (+7% dal punto di minimo del ciclo

caduto nel 4° trimestre 2014).

Dal lato della produzione appare apprezzabile l’incremento del valore aggiunto dell’industria in senso

stretto (+4,4%), mentre è stata ancora deludente la dinamica delle costruzioni (-1,1%) anche se ha mostrato

dei segnali di recupero nel 2016.

Più oltre, nel capitolo 4, daremo un quadro dettagliato dei più significativi miglioramenti dell’economia

italiana.

3. LA PERDITA DI REDDITO, DI POSTI DI LAVORO E L’AUMENTO DELLA DEPRIVAZIONE

La caduta del potere di acquisto delle famiglie, il crollo dell’occupazione, la percentuale di italiani

insoddisfatti delle loro condizioni economiche e la percentuale di cittadini che vivono in condizioni di severa

deprivazione sono quattro precisi indici di disagio socio-economico elaborati dall’Istat che tratteggiano in

modo chiaro ed inequivocabile quanto siano state profonde le conseguenze della lunga crisi per l’Italia. E

che ci dicono quanto sia impervia la strada che c’è ancora da fare oggi, nonostante i progressi realizzati, per

riportare il Paese alla normalità.

Non esistono bacchette magiche, chi suggerisce ricette miracolistiche prende solo in giro la gente. Soltanto

consolidando la ripresa, proseguendo sul sentiero delle riforme e sostenendo con un adeguato modello di

protezione sociale i più colpiti, l’Italia potrà lenire le profonde ferite che le sono state inferte prima dalla

crisi economico-finanziaria e poi da una austerità miope che ha inciso profondamente sulla produzione, sui

livelli di benessere, sul ceto medio, sui giovani e sulle fasce più deboli della popolazione.

3.1. La perdita di potere d’acquisto delle famiglie italiane

Dopo aver toccato nel 2007 i 1.112 miliardi di euro (a valori concatenati 2010), il potere d’acquisto delle

famiglie consumatrici italiane (cioè il loro reddito lordo disponibile in termini reali) è inizialmente

precipitato in quattro anni di 56 miliardi complessivi scendendo a 1.056 miliardi nel 2011 come effetto della

crisi economico-finanziaria. In seguito, il reddito reale delle famiglie ha lasciato sul campo altri 63 miliardi di

euro nel 2012-13 nel periodo della austerità. In totale, prima dell’avvio del Governo Renzi, il potere

d’acquisto degli italiani si è ridotto in termini reali di 119 miliardi di euro in 6 anni (2008-2013): una cifra

enorme, pari ad una perdita del 10,7% del valore di partenza. Questa è la prima cifra da memorizzare per

inquadrare correttamente i termini del profondo disagio economico-sociale che la lunga crisi ha prodotto

nel nostro Paese.

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Nel periodo successivo che va dal 2014 all’anno scorrevole 4°trimestre 2015-3° trimestre 2016, il potere

d’acquisto delle famiglie consumatrici italiane ha recuperato 30 miliardi di euro in termini reali. Gli 80 euro

e l’eliminazione della tassa sulla prima casa, nonché l’aumento del numero degli occupati favorito dalle

decontribuzioni e dal Jobs Act, solo per citare i provvedimenti principali, evidentemente a qualcosa sono

serviti. Non è stato un progresso mirabolante di cui vantarsi ma solo un semplice e promettente inizio di

guarigione dell’economia. Un primo miglioramento vero dopo 6 lunghi anni di sofferenza. Questi sono i dati

nella loro assoluta semplicità (figura 1).

In conclusione: prima del Governo Renzi il potere d’acquisto degli italiani aveva perso 119 miliardi in 6

anni; con il Governo Renzi ne ha riguadagnati 30 in 3 anni. Ed è da qui, al di là delle polemiche, che si deve

continuare in una linea coerente di politica economica se si vuole combattere realmente il grande

malessere sociale e l’aumento della povertà nel Paese.

3.2. Il crollo dell’occupazione

Il secondo indicatore che inquadra la drammaticità del peggioramento delle condizioni di vita degli italiani

durante la lunga crisi è la dinamica dell’occupazione, che ha avuto connotazioni territoriali abbastanza

diverse.

Considerando l’Italia nel suo complesso, i dati trimestrali destagionalizzati dell’Istat relativi alla rilevazione

delle forze di lavoro evidenziano una perdita di 989mila occupati tra il 2° trimestre del 2008 e il 3° trimestre

2013 (figura 2). Non era mai accaduto niente di simile in Italia nel Secondo Dopoguerra. Una perdita di posti

di lavoro che è stata anche maggiore, pari a 1 milione e 63mila, se si considerano i dati mensili, da massimo

a minimo, in base alle ultime serie storiche mensili disponibili (aggiornate a gennaio 2017).

Nel Nord Italia la perdita di occupati è stata di 394mila unità tra il 3° trimestre 2008 e il 1° trimestre 2014

(figura 3). Nel Centro Italia il calo di occupati è stato più contenuto, di 75mila unità, tra il 4° trimestre 2008

e il 1° trimestre 2013 (figura 4). Chi ha più sofferto il calo dell’occupazione è stato il Mezzogiorno d’Italia,

che tra il 2° trimestre 2008 e il 1° trimestre 2014 ha perso ben 643mila occupati, cioè quasi il 10% del valore

di partenza (figura 5): una vera ecatombe che spiega ampiamente il peggioramento delle condizioni di vita

in quest’area geografica del Paese già particolarmente arretrata e svantaggiata rispetto al Nord-Centro.

Il tasso di disoccupazione totale in Italia è cresciuto dal 5,7% dell’aprile 2007 fino a un massimo del 13,1%

nel novembre 2014, dunque più che raddoppiando (figura 6a). Mentre il tasso di disoccupazione giovanile

(15-24 anni) ha compiuto un balzo dal 18,2% del marzo 2007 fino al picco storico del 43,9% toccato nel

marzo 2014 (figura 6b).

Va osservato che durante la crisi il tasso di disoccupazione nel Paese nel suo complesso è tendenzialmente

cresciuto di più della perdita di posti di lavoro perché con il progressivo venir meno del numero di persone

occupate ha cominciato a calare anche il numero degli inattivi, soprattutto dal 2011 in poi.

I dati annuali di contabilità nazionale sugli occupati a livello macro-regionale sono leggermente diversi da

quelli delle forze di lavoro ma rispecchiano le stesse tendenze di fondo e permettono anche un importante

approfondimento settoriale degli anni più duri della crisi (tabella 4).

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Secondo tali dati, rispetto al 2007 l’Italia nel 2013 aveva perso 972mila occupati di cui 567mila nel

Mezzogiorno. Il Mezzogiorno, in particolare, oltre ad aver perso più occupati in agricoltura rispetto alle

altre aree (-51mila), aveva perso ben 209mila occupati nella manifattura, pur non essendo un’area

industriale vocata come il Nord e il Centro, e aveva accusato soprattutto il più forte calo occupazionale

nelle costruzioni rispetto al Centro-Nord: infatti nel periodo in esame gli occupati nelle costruzioni erano

diminuiti di 193mila al Sud e nelle Isole. Vale a dire che durante la crisi quasi 2 addetti su 3 persi in Italia

nelle costruzioni sono stati a carico del Mezzogiorno. Inoltre, il Mezzogiorno aveva fatto registrare anche un

calo, unica tra le 3 macro-aree geografiche, di 114mila occupati nei servizi, con le perdite maggiori

nell’istruzione (-81mila occupati) e nella pubblica amministrazione (-50mila occupati), oltre ad aver

accusato anche la flessione più forte nel commercio (-56mila occupati).

Sotto il profilo settoriale dal 2008 al 2013 la maggiore perdita di posti di lavoro si è avuta in Italia

nell’industria manifatturiera (-658mila occupati) seguita dalle costruzioni (-318mila occupati), mentre nei

servizi vi è stato un moderato incremento (+93mila occupati) pur a fronte di situazioni diversificate che

hanno visto arretrare pesantemente commercio, istruzione e pubblica amministrazione mentre vi sono

stati progressi per alloggio e ristorazione, sanità e personale domestico.

Questa, per sommi capi, la situazione disastrosa dell’occupazione in Italia prima dell’entrata in carica del

Governo Renzi.

Dal marzo 2014 si è poi avuta una chiara inversione di tendenza, sia pure non ancora sufficiente per

riportare i livelli occupazionali complessivi ai massimi pre-crisi.

In base ai dati mensili destagionalizzati, che si spingono fino al mese di gennaio 2017, rispetto al minimo

occupazionale della crisi economica, toccato nel settembre 2013, l’aumento degli occupati è stato sinora di

ben 727mila unità. Considerando che tra l’aprile 2008 e il settembre 2013 erano andati distrutti 1 milione e

63mila posti di lavoro, a tutto gennaio 2017 ne sono stati quindi recuperati il 68% circa, di cui +16mila

occupati negli ultimi 5 mesi del Governo Letta, +681mila durante il Governo Renzi e +30mila nel primo

mese del Governo Gentiloni (figura 2b).

A ciò si aggiunge il fatto che, rispetto a febbraio 2014, durante il Governo Renzi e nel primo mese del

Governo Gentiloni il numero degli occupati dipendenti permanenti è aumentato di 509mila unità (figura

2c). Grazie alle decontribuzioni e all’entrata in vigore del Jobs Act i posti stabili rappresentano dunque il

72% del contemporaneo aumento dei nuovi occupati totali. Nello stesso periodo il numero totale degli

inattivi è diminuito di ben 822mila persone: ciò significa che un crescente numero di persone è stata

indotta, a causa di una maggiore fiducia rispetto al passato, a cercare lavoro. Questa è la principale ragione

per cui, nonostante la forte crescita dell’occupazione (+711mila unità durante gli ultimi due Governi), il

tasso di disoccupazione totale è diminuito paradossalmente solo di 1,2 punti percentuali dal 13,1% del

novembre 2014 all’11,9% del gennaio 2017. Il tasso di occupazione totale è però aumentato di 2,1 punti

percentuali dal febbraio 2014 al gennaio 2017. Inoltre, il tasso di disoccupazione giovanile è sceso di 6 punti

dal 43,9% del marzo 2014 al 37,9% del gennaio 2017.

Si aggiunga che i nuovi 711mila occupati generati nel periodo del Governo Renzi e nel primo mese del

Governo Gentiloni sono stati ottenuti in una Italia non solo in difficile convalescenza economica ma anche

nel pieno di una vera e propria rivoluzione demografica, con un numero sempre maggiore di anziani e un

numero fortemente calante di giovani. Infatti, la popolazione italiana in età lavorativa 15-64 anni è

diminuita di circa 400mila unità dal febbraio 2014 al gennaio 2017: aspetto di cui quasi nessuno sembra

essere a conoscenza. Ciò nonostante, nel frattempo gli occupati da 15 a 64 anni sono aumentati di 588mila

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(figura 7), essendo i restanti 123mila che mancano al totale di +711mila aumentati nella classe di età 65

anni più.

Il calo della popolazione italiana in età lavorativa intervenuto proprio in piena coincidenza con i 3 anni del

Governo Renzi è un fatto storico senza precedenti. Si pensi, per avere un riferimento, che nel decennio

precedente, cioè dal 2004 al 2013, la popolazione in età lavorativa 15-64 anni era ancora cresciuta di circa 1

milione di persone. Dunque decontribuzioni e Jobs Act hanno avuto successo pur in presenza di un forte

vento contrario della demografia.

Anzi, applicando la recente metodologia Istat che tiene conto dell’invecchiamento della popolazione per

classi di età lavorativa e del minor ricambio di giovani1, la performance occupazionale al netto della

componente demografica durante il Governo Renzi e nel primo mese del Governo Gentiloni è stimabile in

circa +984mila occupati (tabella 5). Quindi una crescita superiore a quella “osservata”.

Tornando ai dati trimestrali, più dettagliati anche se meno aggiornati di quelli mensili, osserviamo che la

ripresa dell’occupazione è stata difforme nelle varie aree geografiche. Alla fine del 4° trimestre 2016,

infatti, il Nord contava ormai solo lo 0,4% degli occupati in meno rispetto al massimo pre-crisi; al Centro gli

occupati erano addirittura superiori del 3% rispetto ai livelli pre-crisi; mentre nel Mezzogiorno la situazione

permaneva molto grave in quanto mancavano ancora all’appello 463mila posti di lavoro, cioè il 7,1% in

meno rispetto al livello degli occupati pre-crisi.

Nel Nord Italia nel 4° trimestre 2016 il tasso di disoccupazione è sceso al 7,6% dopo aver toccato un

massimo dell’8,8% nel 1° trimestre 2014. Nel Centro Italia il tasso di disoccupazione è diminuito al 10,5%

dopo aver raggiunto un picco negativo dell’11,8% nel 4° trimestre 2014. Mentre il tasso di disoccupazione

nel Mezzogiorno è dapprima diminuito dal massimo del 20,7% del 3° trimestre 2014 al 19% del 3° trimestre

2015 per poi risalire in modo preoccupante al 20,2% nel 4° trimestre 2016.

1 Nel Comunicato stampa “Occupati e disoccupati. Dicembre 2016”, del 31 gennaio 2017, l’Istat ha presentato per la

prima volta una metodologia per analizzare l’impatto della componente demografica sul mercato del lavoro per classi di età. Secondo l’Istat, “la dinamica dell’occupazione risente dei mutamenti demografici che negli anni recenti evidenziano un progressivo invecchiamento della popolazione. In particolare, si osserva il calo della popolazione tra 15 e 49 anni (-2,5% nell’arco di due anni, da gennaio 2015 a dicembre 2016, pari a circa 680 mila persone) determinato dalla fuoriuscita dalla classe di età delle folte generazioni dei quarantanovenni (complessivamente quasi 2 milioni di persone nate tra il 1965 e 1966) non compensata dall’ingresso dei quindicenni (circa 1 milione 150 mila giovani nati tra il 2000 e il 2001); tale calo è parzialmente attenuato dalla dinamica migratoria, positiva in questa classe di età. Simultaneamente – continua l’Istat - si rileva la crescita della popolazione nella classe 50-64 anni (+3,1%, pari a oltre 380 mila, nello stesso periodo)”. Secondo l’Istat “nell’analisi delle variazioni tendenziali dell’occupazione è possibile distinguere due componenti: la prima misura l’effetto delle variazioni della popolazione a distanza di 12 mesi, la seconda rappresenta una stima della variazione dell’occupazione al netto della “componente demografica”, ossia nell’ipotesi di invarianza della popolazione rispetto a 12 mesi prima. La seconda componente può essere interpretata come una misura della “performance occupazionale” delle diverse classi di età”. In concreto, scelto un intervallo di tempo, la “componente demografica” è data dalla popolazione del mese finale moltiplicata per il tasso di occupazione del mese di partenza. La “performance occupazionale” è invece data dalla popolazione di partenza moltiplicata per il tasso di occupazione del mese finale. L’Istat ha sinora applicato questa metodologia solo per analizzare le variazioni tendenziali annuali a partire dai dati mensili destagionalizzati. Noi qui l’abbiamo invece applicata all’intervallo febbraio 2014-gennaio 2017, disaggregando cinque classi di età: 15-24 anni; 25-34 anni; 35-49 anni; 50-64 anni; 65 anni e più.

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9

3.3. Il peggioramento del livello di soddisfazione economica degli italiani

Dai dati delle inchieste Istat si può osservare che la percentuale complessiva di italiani poco soddisfatti della

propria condizione economica (“poco” o “per niente” soddisfatti secondo le risposte) è andata

tendenzialmente crescendo a partire dal periodo di maggiore pressione della globalizzazione nei primi anni

2000 (che generò crisi importanti in molti distretti industriali italiani del tessile-abbigliamento-pelli-

calzature e del legno-mobili) e si è poi ulteriormente accentuata durante la crisi 2008-2013.

Tale percentuale di italiani insoddisfatti delle proprie condizioni economiche era di poco superiore al 33%

nel 1999 ed è poi salita fino al 46,3% nel 2007. Quindi ha compiuto un secondo balzo toccando il culmine

nel 2013 con il 58% di insoddisfatti in piena fase di austerità, prima dell’avvio del Governo Renzi (figura 8).

Il 2013 è stato anche l’anno con la percentuale più alta di cittadini insoddisfatti delle loro condizioni

economiche nelle tre grandi aree geografiche del Paese: infatti, nel 2013 la percentuale di insoddisfatti ha

toccato un massimo storico del 51,4% al Nord, del 57,1% al Centro e addirittura del 67,5% nel Mezzogiorno.

In seguito la percentuale di insoddisfatti è calata sensibilmente nella media italiana scendendo al 47,7% nel

2016, anno in cui al Nord gli insoddisfatti sono diminuiti al 39,7%, al Centro al 46,8% e al Mezzogiorno al

58,9%. Sono progressi incoraggianti ma i livelli di insoddisfazione degli italiani per le loro condizioni

economiche restano molto elevati. Ed anche questo tipo di indicatore, unitamente a quelli del potere

d’acquisto e dell’occupazione, evidenzia la complessità e le difficoltà della sfida della povertà e del disagio

economico-sociale che tuttora affligge l’Italia.

3.4. La percentuale di italiani in condizioni di severa deprivazione materiale

Secondo l’indagine Istat 2015 sulla popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, elaborata in

conformità con i criteri e gli obiettivi di “Europa 2020”, la percentuale di italiani a rischio di povertà o

esclusione sociale è pari al 28,7% (figura 9b). Tale percentuale riguarda la popolazione che sperimenta

almeno una delle seguenti condizioni:

(a) rischio di povertà (nel 2014 il 19,9% della popolazione);

(b) grave deprivazione materiale (nel 2015 l’11,5% della popolazione)2;

(c) bassa intensità di lavoro (nel 2014 l’8,5% della popolazione)3.

2 Percentuale di persone che vivono in famiglie con un reddito disponibile equivalente nell’anno precedente a quello

di rilevazione inferiore a una soglia di rischio di povertà, fissata al 60% della mediana della distribuzione individuale del reddito disponibile equivalente. Il reddito considerato per questo indicatore rispetta la definizione Eurostat e non include l’affitto figurativo, i buoni-pasto, gli altri fringe benefits non-monetari e gli autoconsumi. Nel 2015 la soglia di povertà in Italia (calcolata sui redditi 2014) è pari a 9.508 euro annui. 3 Percentuale di persone che vivono in famiglie per le quali il rapporto fra il numero totale di mesi lavorati dai

componenti della famiglia durante l’anno di riferimento dei redditi (quello precedente all’anno di rilevazione) e il numero totale di mesi teoricamente disponibili per attività lavorative è inferiore a 0,20. Ai fini del calcolo di tale rapporto, si considerano i membri della famiglia di età compresa fra i 18 e i 59 anni, escludendo gli studenti nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni. Le famiglie composte soltanto da minori, da studenti di età inferiore a 25 anni e da persone di 60 anni o più non sono considerate nel calcolo dell'indicatore.

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10

Il sotto-indice più aggiornato dell’inchiesta Istat sui cittadini italiani in condizioni di povertà ed esclusione

sociale è il dato relativo al 2015 sulla percentuale di individui che vivono in condizioni di severa

deprivazione materiale. Sono così definite, secondo una procedura definita in sede Eurostat, le persone in

famiglie che, in base alle interviste, registrano almeno quattro segnali di deprivazione materiale sui nove

indicati qui di seguito: 1) essere in arretrato nel pagamento di bollette, affitto, mutuo o altro tipo di

prestito; 2) non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione; 3) non poter sostenere spese impreviste di

800 euro; 4) non potersi permettere un pasto adeguato almeno una volta ogni due giorni; 5) non potersi

permettere una settimana di vacanza all’anno lontano da casa; 6) non potersi permettere un televisore a

colori; 7) non potersi permettere una lavatrice; 8) non potersi permettere un’automobile; 9) non potersi

permettere un telefono.

Come appare dalla figura 9b, il tetto di persone “deprivate” è stato toccato in Italia e in tutte le macro-

regioni italiane nel 2012, anno di picco dell’austerità, ad eccezione del Nord Est in cui la percentuale storica

più alta di persone deprivate è stata raggiunta nel 2013.

Si può notare che rispetto agli anni pre-crisi, la percentuale di persone deprivate nel 2012 è grosso modo

raddoppiata in Italia e in tutte le diverse macroregioni. In seguito la percentuale è calata ed è poi rimasta

sostanzialmente stabile (considerando anche un intervallo di confidenza del +/-5%). Ciò è positivo ma resta

il fatto che le condizioni di deprivazione restano estremamente elevate, soprattutto nel Sud e nelle Isole,

evidenziando un disagio economico-sociale molto diffuso.

4. SENZA CRESCITA NON VI SONO RISORSE NE’ PER GLI INVESTIMENTI E L’OCCUPAZIONE NE’ PER LA

SOLIDARIETA’: PROGRESSI E CRITICITA’

Disagio economico e diseguaglianze si possono combattere non soltanto con provvedimenti ad hoc che

tamponino le emergenze sociali, come ad esempio le misure più urgenti per la povertà, ma anche e

soprattutto con riforme e politiche strutturali per la crescita e per l’occupazione. Le stesse risorse

compensative per mitigare la povertà possono essere trovate nelle pieghe delle finanze pubbliche solo se

l’economia cresce e, con essa, se crescono anche le entrate di cui lo Stato può disporre per soccorrere le

fasce meno abbienti della popolazione.

Sgombrato il campo da un possibile equivoco su una presunta mancanza di attenzione per i temi del disagio

economico e sociale, l’azione di Governo nel campo dell’economia e le relative scelte della maggioranza a

guida PD che lo supporta dovrebbero essere misurate in termini di efficacia soprattutto sulla base dei dati

oggettivi relativi alla dinamica dell’occupazione, dei redditi delle famiglie, dei risultati delle imprese e della

pressione fiscale. Così come è compito del Governo stesso capire dai dati, cioè dalla realtà e non dalle

supposizioni, quali siano le variabili economiche che stanno “ingranando” la marcia e quelle che invece

sono ancora inceppate e non stanno aiutando la crescita complessiva.

4.1. La sfida dell’occupazione e del Mezzogiorno

Cominciamo dalla creazione dei posti di lavoro, che merita una trattazione specifica, così come l’emergenza

del Mezzogiorno.

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Nel mercato del lavoro sono evidenti i progressi generati dal Jobs Act, se è vero che dall’inizio del Governo

Renzi, come abbiamo visto, sono stati creati secondo le rilevazioni delle forze di lavoro dell’Istat circa

711mila nuovi occupati da marzo 2014 fino a gennaio 2017, primo mese del Governo Gentiloni. Certo, si

tratta di un miglioramento che ancora non basta a compensare tutti i posti di lavoro persi in precedenza,

ma esso è una base importante per guardare avanti. Soprattutto è importante considerare che grazie alle

decontribuzioni e al Jobs Act vi è stata una forte crescita degli occupati dipendenti a tempo indeterminato,

con una significativa stabilizzazione dei posti di lavoro.

La vera sfida dell’occupazione è ora completare il Jobs Act, da un lato, rafforzando le politiche attive per il

lavoro, e creare le condizioni per una ripresa anche dell’occupazione indipendente, dall’altro, dopo la forte

emorragia di piccole professioni e piccoli negozi, microimprese familiari, ecc. determinata dalla lunga crisi,

nel quadro di una tendenza di lungo periodo che già vedeva un calo costante di questa tipologia di

occupati. Sotto questo profilo, per invertire la tendenza, è importante favorire la nascita di nuove

professioni (nel digitale, nel risparmio energetico, nel governo dell’industria 4.0, nel turismo, nell’arte e

nella cultura, ecc.).

Sul piano territoriale le maggiori preoccupazioni riguardano invece l’occupazione nel Mezzogiorno, dove i

livelli occupazionali sono ancora molto distanti dai livelli pre-crisi e il tasso di disoccupazione giovanile 15-

24 anni resta su livelli elevatissimi (51,7% la media annua del 2016, pur in calo dal 55,9% del 2014).

Analogamente, il tasso di disoccupazione della fascia di età 25-34 anni è molto alto (30%, pur in calo dal

31,2% del 2014) (figura 10).

Purtroppo, è da rilevare che molti dei posti di lavoro persi dal Mezzogiorno dal 2008 al 2013, sia tra i maschi

sia tra le femmine, sia nel privato (particolarmente nelle costruzioni) sia nel settore pubblico

(particolarmente nell’istruzione e nella PA), non sono facilmente ricostituibili. Fondamentale perciò è

creare condizioni più favorevoli e più sostenibili di crescita futura per l’economia del Mezzogiorno, per

rilanciare i settori produttivi e gli investimenti e, allo stesso tempo, è prioritario rendere più efficienti i

centri di servizio per l’impiego, che sinora localmente non hanno ben funzionato.

Durante il Governo Renzi il tasso di occupazione complessivo (cioè la percentuale di occupati sulla

popolazione di riferimento in età lavorativa 15-64 anni) è migliorato in modo sostanziale, risalendo dal

55,4% del febbraio 2014 al 57,4% del dicembre 2016, riportandosi sui valori non distanti da quelli dello

scorso decennio antecedenti il picco della bolla occupazionale del 2007-2008 (figura 11).

Sul piano delle differenti fasce di età lavorativa è da rilevare che durante il Governo Renzi e il primo mese

del Governo Gentiloni sono leggermente migliorati i tassi di occupazione dei 15-24enni (dopo un

ininterrotto declino cominciato sin dall’inizio degli anni 2000), dei 25-34enni (fortemente calato durante la

crisi), e dei 35-49enni (la fascia con il tasso di occupazione più elevato ed anche numericamente la più

importante). E’ inoltre proseguita la crescita storica del tasso di occupazione della fascia di età 50-64 anni

(la seconda per importanza numerica) anche per effetto dell’allungamento dell’età per poter accedere alla

pensione (figure 12-15).

Questi risultati recenti relativi ai tassi di occupazione vanno valutati anche considerando attentamente che

proprio nei 3 anni in cui ha operato il Governo Renzi, come già ricordato più sopra, la popolazione più

giovane sotto i 50 anni rilevata dalle indagini Istat sulle forze di lavoro è diminuita in misura estremamente

rilevante, nel quadro di un invecchiamento progressivo della popolazione italiana. Infatti, rispetto al

febbraio 2014, nel periodo marzo 2014-gennaio 2017 del Governo Renzi e del primo mese del Governo

Gentiloni si è registrata una marcata diminuzione della popolazione delle fasce di età 15-24 anni, 25-34 anni

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e 35-49 anni, mentre è aumentata sensibilmente la popolazione delle fasce di età 50-64 anni e 65 anni e

più. Nel complesso, durante il periodo considerato gli under 50 sono diminuiti di 1 milione mentre gli over

50 sono cresciuti di oltre 1 milione e 100mila (tabella 6).

Tenendo conto di questo autentico sconvolgimento demografico, il Jobs Act e le decontribuzioni hanno

dunque migliorato in modo sostanziale il quadro globale del mercato del lavoro italiano, con una crescita

degli occupati che, al netto della componente demografica, ha fatto registrare una performance superiore a

quella osservata, come già rilevato in precedenza (tabella 5). Tuttavia, il terreno da recuperare è ancora

molto. In particolare, il miglioramento futuro dei tassi di occupazione delle fasce più giovani (soprattutto

25-34 anni, sia maschili sia femminili) è fondamentalmente legato alla creazione di prospettive e spazi per

nuove occupazioni indipendenti, a cui le politiche del lavoro e della formazione, unitamente anche ad

adeguate politiche di fiscalità, devono dare assoluta precedenza. Solo la crescita di nuove piccole imprese e

nuove professionalità può generare opportunità per i giovani, che la lunga crisi ha penalizzato

drammaticamente.

4.2. Il bilancio dell’economia italiana nel triennio 2014-2016

Per capire se l’economia italiana sta facendo realmente dei passi avanti, dopo una crisi così profonda come

quella del 2008-2013, è importante analizzare, oltre alla dinamica dell’occupazione, anche i più recenti dati

Istat settoriali relativi al PIL, al valore aggiunto, ai consumi delle famiglie e agli investimenti.

Inoltre, è fondamentale fare il punto anche sullo stato di salute dei conti pubblici. Infatti, se l’economia

migliorasse solo per mezzo di un aggravio della contabilità dello Stato, allora vorrebbe dire per un Paese

molto indebitato come l’Italia rischiare di tornare alle condizioni finanziarie critiche del 2011. Condizioni

che furono poi la causa della successiva austerità e dei conseguenti peggioramenti dell’occupazione, della

povertà e dei divari sociali di cui talune parti politiche oggi si lamentano genericamente senza però

ricordare da quale epoca e da quali cause realmente originano gran parte dei problemi attuali dell’Italia.

In base ai dati annuali di contabilità divulgati dall’Istat il 1° marzo 2017 si può ormai tracciare un bilancio

abbastanza consolidato dell’andamento dell’economia italiana nel triennio 2014-2016 (prevalentemente

coperto dal Governo Renzi, salvo i primi due mesi del 2014). Un bilancio il più possibile oggettivo, che serva

al Governo (e al PD) per capire dove le politiche economiche stanno funzionando e dove no. E che serva

anche alle opposizioni per confrontarsi in modo civile e non demagogico sui risultati economici, facendo

proposte costruttive e non solo polemiche vuote. La tabella 7 rappresenta uno sforzo per mettere

organicamente sul tavolo tutti gli aspetti fondamentali dell’economia italiana nella loro più recente

evoluzione e discuterne in modo franco ed aperto.

4.2.1. Il PIL

Rispetto al 2013 nel triennio 2014-2016 il PIL italiano è cresciuto cumulativamente dell’1,8% in termini reali

(aumento che si eleva al 2% considerando la dinamica dei dati trimestrali destagionalizzati e corretti per il

calendario relativi agli ultimi 11 trimestri rispetto al 1° trimestre 2014). La cifra del PIL però non è un

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“monolite” ma un mix che deriva da andamenti settoriali più positivi ed altri meno. Vediamo di capire

meglio tali andamenti.

Agricoltura - Il valore aggiunto della agricoltura italiana è aumentato dell’1,3% nel 2014-2016. Si stanno

raccogliendo in questo settore gli sforzi encomiabili dei produttori ma anche i frutti di misure precise che il

Governo ha varato a supporto e a tutela dell’agricoltura italiana, inclusa l’eliminazione dell’IRAP agricola.

Preoccupazioni vi sono però per i forti danni all’agricoltura arrecati dal terremoto nel Centro-Sud Italia.

Industria in senso stretto - Il valore aggiunto dell’industria italiana escluse le costruzioni nel 2014-2016 è

cresciuto del 3,4%, trainato soprattutto dal settore manifatturiero il cui progresso è stato del 4,1%. La

crescita del manifatturiero italiano è stata forte soprattutto nell’ultimo biennio (+3,5%) e superiore a quella

della Germania (+3,2%) e della Francia (+3%). Nel caso del valore aggiunto manifatturiero l’Istat ha operato

recentemente delle revisioni al rialzo così rilevanti (si veda il Paper n. 4) da modificare radicalmente il

giudizio su come ha performato l’industria italiana nel triennio del Governo Renzi, che pure è stato a lungo

accusato, prima di queste revisioni, di non aver stimolato abbastanza la ripresa economica con misure a

favore delle imprese.

Costruzioni – Nel triennio 2014-2016 il settore delle costruzioni in Italia ha continuato a soffrire perdendo

un altro 6,6% di valore aggiunto: si tratta di oltre 4 miliardi e mezzo di euro a prezzi 2010 tolti alla crescita

del PIL. Vi è stato però finalmente un certo miglioramento nell’ultimo trimestre del 2016.

Servizi – Il settore dei servizi è stato globalmente meno brillante dell’industria in senso stretto nel 2014-

2016. La crescita del suo valore aggiunto si è infatti fermata all’1,7% per effetto dell’andamento

contrastante di vari comparti. Per alcuni comparti la crescita è stata abbastanza buona, superiore a quella

del PIL (commercio, trasporti e turismo; attività immobiliari; attività professionali e di supporto) mentre in

altri comparti è stata più debole, cioè inferiore a quella del PIL (attività ricreative) o addirittura negativa

(banche e assicurazioni; comunicazioni e informazione).

4.2.2. La domanda interna

Consumi finali e investimenti - Nonostante la gravità del problema della povertà e delle diseguaglianze, su

cui l’attenzione non deve calare, va sottolineato che i consumi privati sono cresciuti significativamente nel

triennio 2014-2016: +3,2%, cioè 1,4 punti percentuali più del PIL. Ciò costituisce un importante elemento

oggettivo di miglioramento del tenore di vita degli italiani, anche se non ancora sufficiente, che è il frutto di

un progresso delle condizioni dell’economia, della ripresa dei posti di lavoro e delle minori tasse.

La dinamica degli investimenti fissi lordi è stata globalmente inferiore, pari a +2,2%, appesantita dagli

investimenti in costruzioni, che hanno fatto registrare nel bilancio cumulato del triennio 2014-2016 un

ulteriore arretramento del 6%. Ma è stata molto positiva la ripresa degli investimenti in macchinari e

attrezzature (+7,4%) e in mezzi di trasporto (+67,4%) sostenuta anche da importanti misure supportate dal

Governo come la nuova Legge Sabatini e il super ammortamento. La crescita combinata degli investimenti

in macchinari e mezzi di trasporto nel triennio 2014-2016 è stata del 14,8% rispetto al 2013.

In sintesi, a chi sostiene che le misure di politica economica introdotte dal Governo Renzi per famiglie e

imprese (80 euro, eliminazione della tassa sulla prima casa, eliminazione della componente lavoro dell’Irap,

eliminazione della tassa sugli imbullonati, incentivi agli investimenti, patent box, ecc.) non hanno

funzionato, la miglior risposta è che l’aggregato di voci di contabilità nazionale composto dai consumi delle

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famiglie e dagli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto è cresciuto nel 2014-2016 del 4,2% ed in

particolare l’aumento è stato molto forte nel biennio 2015-2016 (+3,8%), quando tutte le misure varate dal

Governo sono entrate a regime.

Il dettaglio della spesa delle famiglie – La spesa complessiva delle famiglie residenti (incluse le spese

all’estero) è aumentata nel 2014-2016 del 3,2%, a fronte di una spesa sul territorio economico (inclusi i non

residenti) cresciuta leggermente di più: +3,4%.

In base al dettaglio delle statistiche di spesa sul territorio economico risulta che alcuni consumi sono

aumentati significativamente rispetto al 2013: trasporti +10,7%, alberghi e ristoranti +5,2%, ricreazione e

cultura +5,9%. Ed anche le spese sanitarie e per l’abbigliamento sono cresciute leggermente sopra la media

(+4,2% e +3,5%, rispettivamente). Le famiglie hanno invece moderato la spesa per gli alimentari (+1,6%) e

ridotto alcolici e tabacco (-1,1%).

4.2.3. Il commercio estero

Il commercio estero italiano ha visto proseguire nel 2016 il forte miglioramento della bilancia commerciale,

che nel 2016 ha raggiunto il record storico di 51,6miliardi di euro (si veda il Paper n. 3).

Nonostante il rallentamento del commercio mondiale, nel 2016 l’export italiano è cresciuto rispetto al 2015

dell’1,1% circa in valore, grosso modo come quello tedesco, progredito dell’1,2%, mentre quello francese è

diminuito dello 0,7% (comunicato stampa Eurostat del 15 febbraio 2017).

Nel 2016 il surplus commerciale italiano con l’estero è migliorato significativamente rispetto allo stesso

periodo del 2015 di 9,8 miliardi di euro: è stato il più forte incremento registrato nell’UE-28. Il surplus

tedesco, per un confronto, nello stesso periodo è migliorato di 9,1 miliardi, mentre il deficit francese è

peggiorato di altri 3,9 miliardi.

Questi ottimi risultati sul fronte dell’export e della bilancia commerciale sono principalmente merito delle

imprese del made in Italy che negli ultimi anni non solo hanno saputo specializzarsi sempre di più in

prodotti innovativi e di qualità, ma hanno anche accresciuto la loro diversificazione geografica aggredendo

nuovi mercati.

Anche il Governo, però, ha fatto la sua parte. Infatti, ricordiamo che la legge di stabilità per l’esercizio 2015

ha attribuito uno stanziamento triennale straordinario alle attività di promozione e sviluppo

dell’internazionalizzazione dei prodotti e dei servizi del made in Italy. L’ammontare complessivo è pari a

220 milioni di euro di cui 130 milioni nel 2015. Si è trattato di uno sforzo finanziario senza precedenti che è

motivato dalla consapevolezza della rilevanza della componente estera per la nostra economia, sia in

termini di PIL che di occupazione.

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4.2.4. I conti pubblici

Deficit pubblico – Il deficit pubblico italiano è sceso dai 47,2 miliardi di euro del 2013 a 40,7 miliardi nel

2016. In rapporto al PIL l’indebitamento netto è diminuito dal 2,9% del 2013 al 2,4% del 2016, migliorando

di 0,5 punti percentuali. E’ il livello più basso toccato dal deficit pubblico italiano in rapporto al PIL dal 2007

ed è il terzo più basso dal 2000.

Avanzo statale primario – Nel triennio 2014-2016 il bilancio statale primario dell’Italia (cioè il bilancio

prima del pagamento degli interessi sullo stock del debito pubblico) è stato sempre positivo, pari a 25,5

miliardi nel 2014, 23,8 miliardi nel 2015 e 25,7 miliardi nel 2016. Nel triennio 2014-2016 l’avanzo statale

primario italiano è rimasto costantemente compreso nell’intervallo 1,4%-1,6% del PIL.

Tirando le somme, durante il Governo Renzi il bilancio primario pubblico dell’Italia è risultato nel triennio

2014-2016 in attivo per complessivi 75 miliardi, ovvero per 4,5 punti percentuali di PIL. Considerati i Paesi

dell’Eurozona, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone, quella dell’Italia durante il Governo Renzi, nel

2014-2016, è stata la terza migliore gestione del bilancio pubblico prima del pagamento degli interessi dopo

Germania (6,3% di bilancio primario cumulato rispetto al PIL) e Lussemburgo (5,9%), a fronte di deficit

primari cumulati significativi di Paesi come Olanda (-0,5%), Stati Uniti (-3,4%), Finlandia (-4,5%), Francia (-

4,7%), UK (-6%), Spagna (-6,5%) e Giappone (-6,8%) (vedi figura 16).

A chi sostiene che, approfittando dei bassi tassi di interesse generati dal Quantitative easing della Banca

Centrale Europea, l’Italia avrebbe dovuto migliorare ancora di più il suo avanzo statale primario per ridurre

a tappe forzate il debito pubblico, è facile rispondere che, senza aver utilizzato le misure di flessibilità che il

Governo Renzi ha ottenuto a Bruxelles per sostenere redditi e consumi e per stimolare assunzioni e

investimenti, probabilmente il nostro Paese oggi sarebbe ancora in stagnazione. Visti i risultati disastrosi

dell’austerità sulla dinamica del rapporto debito/PIL italiano nel 2012-2013, dovrebbe essere ormai

considerata una regola aurea la banale constatazione che è più facile tenere sotto controllo il debito se c’è

crescita piuttosto che in assenza di crescita. Ma, evidentemente, non tutti lo hanno ancora capito…

Debito pubblico – Nel corso del Governo Renzi il rapporto debito/PIL dell’Italia è andato stabilizzandosi

dopo il forte aumento fatto registrare nel periodo 2008-2013.

Questa tendenza appare evidente considerando la dinamica trimestrale del rapporto debito pubblico/PIL

che è stata ricostruita nella figura 17. Tale ricostruzione tiene già conto delle ultime revisioni operate da

Istat e da Banca d’Italia sui dati trimestrali del debito pubblico e del PIL (grezzo, non destagionalizzato)4.

Come si può osservare dalla figura 17, durante la lunga crisi economica iniziata nel 2008 il rapporto debito

pubblico/PIL dell’Italia ha evidenziato tre distinte fasi:

- la fase del binomio crisi finanziaria-spread durante il Governo Berlusconi IV

- la fase del binomio austerità-recessione dei Governi Monti e Letta

- la fase del binomio flessibilità-ripresa del Governo Renzi

4 Secondo la metodologia adottata in sede europea il rapporto trimestrale debito pubblico/PIL è calcolato

considerando il valore del debito alla fine di ogni trimestre e rapportandolo alla somma del PIL grezzo (non destagionalizzato né corretto per i giorni lavorativi) degli ultimi 4 trimestri (“rolling year”).

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Durante il Governo Berlusconi IV il rapporto percentuale debito/PIL dell’Italia è salito dal 102,2 del 1°

trimestre 2008 lasciato dal Governo Prodi al 116,5 del 4° trimestre 2011: +14,3 punti percentuali di PIL.

Durante il Governo Monti il debito/PIL è passato dal 116,5 lasciato dal Governo Berlusconi IV al 126,8 del 1°

trimestre 2013: +10,3 punti percentuali di PIL.

Durante il Governo Letta il debito/PIL è cresciuto dal 126,8 lasciato dal Governo Monti al 131,6 del 1°

trimestre 2014: +4,8 punti percentuali di PIL.

In totale, nei due Governi consecutivi della fase austerità-recessione il rapporto debito/PIL dell’Italia è

cresciuto complessivamente di 15,1 punti di PIL, a dimostrazione che la ricetta di un eccessivo rigore nei

conti pubblici, generando recessione, non migliora il rapporto debito/PIL, anzi lo fa peggiorare

significativamente.

Infine, durante il Governo Renzi il rapporto debito/PIL è salito moderatamente dal 131,6 lasciato dal

Governo Letta al 132,6 del 4° trimestre 2016: dunque soltanto di 1 punto percentuale di PIL (meno di un

decimale di crescita media al trimestre).

D’altro canto, durante il Governo Renzi è venuta progressivamente rallentando anche la stessa crescita

tendenziale del valore monetario del debito pubblico italiano, a riprova di una politica fiscale attenta e di

un uso responsabile della stessa flessibiltà ottenuta da Bruxelles. Lo si vede chiaramente nella figura 18

dove è stata riportata la variazione trimestrale percentuale del valore del debito rispetto allo stesso

trimestre dell’anno precedente (linea rossa). Quando il Governo Renzi è entrato in carica ha ereditato dal 1°

trimestre 2014 una crescita trimestrale tendenziale del valore del debito del 4,2%. Progressivamente tale

crescita monetaria del debito si è ridotta di trimestre in trimestre fino a toccare variazioni intorno al 2% ed

anche inferiori.

Nella stessa figura 18 è anche indicata la variazione trimestrale tendenziale del PIL annuale “scorrevole”

dato dalla somma del PIL degli ultimi 4 trimestri (linea verde). Durante il Governo Renzi l’Italia è uscita dalla

recessione e il PIL nominale, pur in un periodo di bassa inflazione, si è gradatamente portato vicino a tassi

di crescita percentuali compresi tra l’1,5% e il 2% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente.

Come va letta la figura 18? E’ molto semplice. Quando la curva verde si avvicina a quella rossa diminuisce la

crescita del rapporto debito/PIL. Se poi la curva verde supera quella rossa il rapporto debito/PIL diminuisce.

Ormai l’Italia è molto vicina a raggiungere stabilmente questo traguardo, che sarà ulteriormente facilitato

dalla ripresa dell’inflazione nel 2017, la quale determinerà tassi più alti di crescita del PIL nominale.

In conclusione, l’insegnamento della storia recente, ben sintetizzata nella figura 18, è che impossibile

pensare di ridurre il rapporto debito/PIL soltanto con il rigore, soprattutto se tale rigore viene propinato al

sistema economico in dosi troppo massicce e concentrate nel tempo, come è avvenuto durante il biennio di

austerità 2012-2013 e come prevede il sempre più anacronistico meccanismo del “Fiscal compact”.

Soltanto combinando in modo equilibrato serietà nei conti pubblici e crescita, come è successo durante il

Governo Renzi, il rapporto debito/PIL può venire dapprima stabilizzato per poi essere avviato verso un

sentiero di riduzione.

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17

4.2.5. Pressione fiscale e 80 euro

Nel triennio del Governo Renzi la pressione fiscale in rapporto al PIL è scesa di 0,7 punti dal 43,3% del 2013

al 42,6% del 2016.

Va notato che tale diminuzione non tiene conto degli effetti del “bonus” degli 80 euro, misura di cui è ora

finalmente possibile ricavare un primo bilancio completo. Infatti, i dati recentemente diffusi sulle

dichiarazioni Irpef del 2016 riferiti al 2015 hanno permesso per la prima volta di contabilizzare l'impatto

pieno del bonus degli 80 euro mensili sul reddito annuo degli italiani. Finora non era stato possibile perché

nel 2014 gli 80 euro erano stati erogati soltanto da maggio, quando erano entrati in vigore, sino a

dicembre: dunque il bonus era stato goduto dagli aventi diritto non per un anno intero, come invece è

accaduto nel 2015, ma solo per otto mesi.

Secondo il Dipartimento delle Finanze nel 2015 hanno avuto diritto al bonus degli 80 euro mensili circa

11,2 milioni di persone per complessivi 9 miliardi di euro e per una cifra media annua di 800 euro a

persona. L’importo del bonus Irpef, come è noto, spetta per un totale annuo di 960 euro (80 euro al mese)

per tutti coloro che hanno un reddito complessivo fino a 24.000 euro; al superamento di tale limite il

credito decresce fino ad azzerarsi al raggiungimento di 26.000 euro. Si tratta, nei fatti, di una delle più

importanti manovre di redistribuzione del reddito mai realizzate in Italia.

È vero che nel quadro complessivo dell'operazione 966mila contribuenti hanno dovuto restituire

integralmente il bonus perché non ne avevano diritto una volta cumulati altri redditi da essi percepiti nel

2015 (cosa del tutto ovvia, anche se ha suscitato polemiche). E che altri 765mila soggetti ne hanno invece

dovuto restituire una parte per le medesime ragioni oppure perché́ l’imposta dovuta è risultata inferiore

alle detrazioni per lavoro dipendente. In quest’ultimo caso, tuttavia, va anche notato che i soggetti

interessati hanno ottenuto una restituzione maggiore delle ritenute Irpef indebitamente versate (pari

complessivamente a 697 milioni di euro) rispetto al bonus restituito (508 milioni).

Ma ciò che conta in termini macroeconomici è che il bilancio "consolidato" dell'operazione 80 euro, ora

finalmente documentato da cifre precise, mostra un impatto decisamente positivo per i contribuenti.

Infatti, nel 2015 i sostituti di imposta, cioè le imprese e i datori di lavoro, hanno erogato 8,86 miliardi di

bonus Irpef. Inoltre, la parte di bonus Irpef eventualmente non erogata dal sostituto di imposta ma fruibile

in sede di dichiarazione dei redditi è stata pari ad altri 599 milioni di euro mentre quella non spettante da

restituire è stata, come detto, di 508 milioni di euro, cioè dunque di poco inferiore. Il risultato netto finale

dell'operazione bonus 80 euro nel 2015 è stato quindi favorevole per i contribuenti, come detto, per 9

miliardi circa.

Nel 2015 il PIL nominale dell'Italia è cresciuto dell'1,4% mentre l'imposta netta totale Irpef dichiarata è

cresciuta del 2,6%5. Tuttavia, come rileva il Dipartimento delle Finanze del MEF, considerando gli effetti

degli 80 euro tale imposta è aumentata soltanto dello 0,7%, cioè solo la metà del PIL nominale. Quale

migliore dimostrazione che gli 80 euro sono stati una diminuzione delle tasse a tutti gli effetti e non una

"mancetta elettorale" come sostengono in malafede alcune parti politiche? Infatti, appare evidente dalla

loro rilevante ricaduta economica che gli 80 euro rappresentano un provvedimento fiscale strutturale, di

natura permanente e dagli ampi risvolti sociali, di cui ha beneficiato una platea significativa di cittadini

italiani.

5 L’aumento dell’imposta netta totale dichiarata è attribuibile sia alla crescita del PIL in termini nominali, sia al rientro

a tassazione ordinaria dei premi di produttività attribuiti ai lavoratori dipendenti nell’anno di imposta 2015.

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Si aggiunga che, considerando le persone fisiche la cui imposta netta è stata interamente compensata dal

bonus mensile di 80 euro, i soggetti che di fatto nel 2015 complessivamente non hanno versato l’Irpef, cioè

quelli che fanno parte dell'area dei contribuenti aventi una imposta pari a zero, sono saliti da circa 10

milioni a 12,2 milioni, cioè sono cresciuti di 2,2 milioni.

5. CONCLUSIONI

Questa conclusione non è fatta di commenti ma semplicemente di 30 numeri eloquenti su cui riflettere.

In modo stilizzato la storia dell’economia italiana 2008-2016 si può riassumere in:

- i 10 numeri più significativi della grande crisi;

- i 10 numeri che hanno maggiormente caratterizzato la ripresa;

- i 10 numeri riguardanti le sfide più complesse che abbiamo ancora davanti per guarire dalla lunga

malattia in cui la recessione ci ha sprofondato.

5.1. I 10 numeri della grande crisi italiana

I dati salienti del periodo 2008-2013 della crisi finanziaria e dell’austerità si possono così riassumere

(rispetto al 2007, in base ai dati annuali di contabilità nazionale, salvo diversa indicazione):

- PIL -8,7%

- Consumi privati -7,7%

- Investimenti fissi lordi -27,9%

- Compravendite immobiliari -48,2% (tra l’anno “scorrevole” 3° trimestre 2005-2° trimestre 2006 e

l’anno “scorrevole” 2° trimestre 2013-1° trimestre 2014)

- Reddito lordo disponibile delle famiglie - 119 miliardi (-10,7%)

- Ricchezza finanziaria netta e immobiliare delle famiglie -1.000 miliardi (in termini reali)

- Occupati totali -1 milione circa

- Occupati nel Mezzogiorno -570mila circa

- Disoccupazione giovanile dal 18,1% al 43,9%: +25,8 punti percentuali (dal minimo di marzo 2007 a

marzo 2014)

- Debito pubblico/PIL +29,2 punti percentuali di PIL

5.2. I 10 numeri della ripresa

Ecco invece i dati più salienti del periodo 2014-2016 della ripresa economica, durante il Governo Renzi

(rispetto al 2013, in base ai dati annuali di contabilità nazionale, salvo diversa indicazione):

- PIL +1,8%

- Consumi privati +3,2%

- Investimenti fissi lordi in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto +14,8%

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- Valore aggiunto industria manifatturiera +4,1%

- Reddito lordo disponibile delle famiglie +30 miliardi di euro

- Compravendite immobiliari +21,6% (tra l’anno “scorrevole” 2° trimestre 2013-1° trimestre 2014 e

l’anno “scorrevole” 4° trimestre 2015-3° trimestre 2016)

- Occupati totali +681mila (Istat, indagine sulle forze di lavoro; da marzo 2014 a dicembre 2016

rispetto a febbraio 2014)

- Occupati dipendenti a tempo indeterminato +490mila (Istat, indagine sulle forze di lavoro; da

marzo 2014 a dicembre 2016 rispetto a febbraio 2014)

- Inattivi -770mila (Istat, indagine sulle forze di lavoro; da marzo 2014 a dicembre 2016 rispetto a

febbraio 2014)

- Rapporto debito pubblico/PIL stabilizzato tra il 132%-133%

5.3. Le sfide ancora aperte: povertà, giovani e Mezzogiorno, fisco, edilizia, banche

Infine, sono qui sintetizzate dieci tra le sfide principali che, nonostante i progressi dell’economia, l’Italia

deve affrontare:

- Persone in povertà assoluta 4 milioni e 598 mila individui

- Persone in condizioni di rischio di povertà o esclusione sociale 28,7% della popolazione

- Italiani in condizione di severa deprivazione materiale 11,5% della popolazione

- Persone deprivate nel Sud 18,6% della popolazione

- Persone deprivate nelle Isole 24,2% della popolazione

- Tasso di disoccupazione giovanile 37,9% (gennaio 2017): ancora elevatissimo

- Occupati nel Mezzogiorno ancora - 460mila circa rispetto ai livelli pre-crisi (figura 19)

- Pressione fiscale scesa dal massimo storico del 43,6% (2012-2013) al 42,9% (2016): ancora troppo

elevata

- Costruzioni: il valore aggiunto del settore è diminuito ancora del -6,6% nel 2014-2016

- Crisi delle banche Un dato su tutti. Le sole prime 10 banche popolari hanno avuto perdite lorde di

oltre 20 miliardi di euro nel 2011-2016. Cifra che dimostra quanto sia stata urgente e necessaria la

riforma delle Popolari fortemente voluta dal Governo Renzi! Senza tale riforma l’intero sistema

delle Popolari oggi sarebbe a rischio e con esso il risparmio di milioni di italiani.