la logica antica

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La logica anticaWalter Cavini e Luca Castagnoli (*)

Dalla tarda Antichità all’Età Moderna la logica antica è stata la sillogistica aristotelica e la sillogistica aristotelica è stata la logica. Come scriveva Kant in un celebre passo della prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragione Pura (1787): "Che la logica abbia seguito [la via sicura di una scienza] sin dai tempi più antichi, si può scorgere dal fatto che essa, da Aristotele in poi, non ha dovuto fare alcun passo indietro […]. Nella logica è ancora degno di nota il fatto che sino ad oggi essa non ha neppure potuto fare alcun passo in avanti e quindi, secondo ogni apparenza, sembra essere conclusa e compiuta” (B viii, trad. it. di Giorgio Colli, lievemente modificata).Ma negli ultimi due secoli entrambe queste tesi millenarie si sono rivelate false: la logica antica in quanto teoria del sillogismo si è ampliata con la riscoperta della sillogistica stoica come alternativa alla sillogistica aristotelica , e la sillogistica aristotelica non è più considerata come la logica, ma solo come un frammento del calcolo dei predicati della logica classica. Inoltre l’ambito della logica antica si è rivelato assai più ricco che non la semplice teoria del sillogismo. Si pensi, per esempio, al rinnovato interesse per la dialettica filosofica dei Topici aristotelici o al perenne interesse esercitato dai grandi paradossi logici come il Mentitore o il Sorite, formulati e discussi in particolare dalla logica megarico-stoica. Come anche all’importanza attribuita alla scoperta e alla discussione a partire dagli Analitici Primi di Aristotele delle modalità aletiche del possibile e del necessario. In questa voce, tuttavia, abbiamo voluto rendere conto solo del nucleo della logica antica, cioè della teoria dell’inferenza deduttiva valida rappresentata dalle due teorie rivali del sillogismo aristotelico e del sillogismo stoico , dove per "sillogismo" si deve intendere, in entrambi i casi, un argomento deduttivo formalmente corretto o concludente, in cui cioè la conclusione consegue necessariamente dalle premesse o in virtù delle premesse. In particolare, ci siamo limitati al sillogismo assertorio, escludendo per ragioni di spazio e di complessità sia la sillogistica modale sia la teoria della dimostrazione, cioè la teoria del sillogismo scientifico.

Logica e sillogistica Logica: una disciplina senza nome Il sillogismo aristotelico Forma logica e teoria del sillogismo Figure e modi Argomenti deduttivi non categorici e proposizioni singolari La logica stoica (*) Filosofia, logica e dialettica nella Stoa ellenistica (*) Fondamenti della dialettica stoica (*) Il sillogismo crisippeo (*) Conclusioni (*)

Logica e sillogistica“La disciplina logica e sillogistica che ora ci proponiamo di trattare, sotto la quale ricadono sia il metodo apodittico sia quello dialettico e peirastico, e inoltre anche il metodo sofistico, è bensì opera della filosofia, ma di essa fanno uso anche alcune altre scienze e arti, che tuttavia la traggono dalla filosofia: a essa infatti spetta la sua scoperta, la sua costituzione e il suo uso per le cose più importanti. Essendo opera della filosofia, alcuni ritengono ne sia anche una parte, altri invece affermano che non è una sua parte ma un suo strumento.”Così inizia il commento di Alessandro di Afrodisia agli Analitici Primi di Aristotele. Questo esordio ci offre in qualche modo un profilo di quella che, secondo il più insigne commentatore di Aristotele dell'Antichità, era la logica aristotelica. In primo luogo essa viene a coincidere con la sillogistica, cioè con la teoria del sillogismo in generale di cui tratta appunto l’opera aristotelica che Alessandro si propone di commentare. In secondo luogo si sottolinea come tale teoria generale del sillogismo

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comprenda sotto di sé quella della dimostrazione (il metodo apodittico o dimostrativo), quella della discussione a domande e risposte (il metodo dialettico) e in particolare dell’esame del presunto sapere dell’interlocutore (la dialettica peirastica o esaminatrice), e infine quella dell’argomentazione sofistica (il metodo sofistico). In terzo luogo, una volta stabiliti il soggetto e l’estensione della logica, se ne precisa la genesi e la natura. Quanto alla genesi, la logica è opera della filosofia, cui si deve la sua scoperta, la sua costituzione e il suo uso più importante. Quanto alla natura, per alcuni la logica non solo è opera della filosofia, ma ne è anche una parte; per altri invece non ne è una parte ma uno strumento.I primi due punti, soggetto ed estensione della logica aristotelica, stabiliscono la preminenza della teoria generale del sillogismo e la sua articolazione nella teoria del sillogismo apodittico o dimostrativo, del sillogismo dialettico e del sillogismo sofistico , cui corrispondono rispettivamente i trattati aristotelici degli Analitici Primi (la teoria generale del sillogismo o sillogistica), degli Analitici Secondi (la teoria della dimostrazione o sillogismo scientifico), dei Topici (la teoria del sillogismo dialettico) e delle Confutazioni Sofistiche (la teoria del sillogismo sofistico ). Insieme questi trattati formano, nell’ordine, il nucleo principale del corpus degli scritti logici di Aristotele, che la tradizione, a partire dall’Antichità, ci ha tramandato col titolo collettivo di Órganon (strumento). A questo nucleo, centrato sulla teoria del sillogismo e le sue articolazioni, sono stati aggiunti, a parte ante, due trattati più brevi, le Categorie e il De interpretatione, considerati propedeutici alla teoria del sillogismo, e, a parte post, anche la Retorica e la Poetica. Ma quest’ultima espansione, accolta dai commentatori greci neoplatonici, non è sopravvissuta nella tradizione manoscritta medievale, che quindi ci ha tramandato solo la versione breve dell’Órganon (i primi sei trattati), quella che ne fa una teoria del sillogismo generale e speciale come “strumento” della conoscenza scientifica del mondo, a esclusione della teoria del discorso retorico e poetico.Il titolo collettivo di Órganon dato agli scritti logici di Aristotele rinvia al terzo punto dell’esordio di Alessandro: la genesi e la natura della logica, in particolare alle due tesi opposte sulla sua natura in relazione alla filosofia: non solo opera ma anche parte della filosofia, per alcuni; per altri, invece, opera della filosofia, ma non parte, bensì strumento. Alessandro nel suo proemio al commento agli Analitici Primi difende ampiamente la tesi della logica come strumento ma non come parte della filosofia, sostenendo in sostanza che la teoria del sillogismo ha un valore d’uso, non un valore di verità, in quanto a differenza della filosofia e delle altre scienze non è parte della nostra conoscenza teoretica o pratica del mondo, ma è solo uno strumento utile a tale conoscenza. E quanto al fatto che sia opera della filosofia, questo non implica che ne sia anche una parte e non possa invece esserne semplicemente uno strumento: "Infatti neanche al martello e all’incudine è precluso di essere strumenti dell’arte del fabbro perché sono opere di essa" (Commento al I libro degli Analitici Primi di Aristotele, 2.20-22 Wallies).A partire da Alessandro di Afrodisia i commentatori greci di Aristotele chiameranno organiká, cioè “strumentali”, le opere logiche di Aristotele, ma tale interpretazione della logica come strumento è molto più antica di Alessandro, e questo per almeno due ragioni. In un passo delle Vit e dei Filosofi di Diogene Laerzio, uno storico della filosofia vissuto forse nel III secolo d.C., ma le cui fonti risalgono all’età ellenistica, si legge a proposito di Aristotele (V 28) che egli divideva "il discorso filosofico" (ton katà philosophian logon) in due parti, teoretica e pratica, e la parte teoretica a sua volta in fisica e logica; ma subito dopo Diogene Laerzio precisa che, secondo Aristotele, la logica va trattata "non come parte di un intero, bensì come uno strumento". Sappiamo inoltre che Andronico di Rodi, filosofo peripatetico del I secolo a.C. e curatore dell’edizione destinata a divenire canonica delle opere acroamatiche o di scuola di Aristotele, consigliava di iniziare lo studio di Aristotele dalla logica; e si ritiene altamente probabile che nella sua edizione abbia posto le opere logiche all’inizio del corpus di tutti gli scritti, così come ci sono state tramandate in seguito nella tradizione manoscritta medievale e sono rimaste nelle edizioni moderne e contemporanee. Non è quindi da escludere che suo sia anche il titolo collettivo di Órganon dato a tali opere, dal momento che questa interpretazione "organica" o strumentale della logica, come testimonia Diogene Laerzio, doveva già essere correntemente attribuita ad Aristotele.

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In età imperiale, dunque, con Alessandro di Afrodisia, la logica aristotelica è in primo luogo la sillogistica, cioè la teoria del sillogismo esposta negli Analitici Primi, e la sillogistica non è una parte della filosofia autonoma dalle altre parti, ma uno strumento della filosofia al servizio delle sue parti. Malgrado in un libro (ma di autenticità, in tutto o in parte, controversa) della Metafisica di Aristotele (K 1, 1059b18-20) si dica che l’apodittica, cioè la teoria della dimostrazione e della conoscenza dimostrativa, sia appunto lo studio di questo genere di cose: la dimostrazione e la conoscenza dimostrativa, per Alessandro di Afrodisia la teoria del sillogismo, sia generale sia speciale, non è uno studio autonomo, come direbbe Aristotele, di un "genere dell’essere", cioè una parte della nostra conoscenza scientifica del mondo, ma uno strumento di tale conoscenza. Ora, anche i fautori della tesi che la logica sia una parte della filosofia, fra cui gli stoici ortodossi, ritengono che la logica, occupandosi di “asseribili” (axiómata) e “proposizioni” (protaseis), non sia parte della nostra conoscenza scientifica del mondo come la fisica e l’etica, e tuttavia, in quanto opera della filosofia, ritengono sia anche parte di essa. Alessandro, invece, come abbiamo visto, nega che l’essere parte consegua dall’essere opera.In età moderna, Gottlob Frege, cui si deve il distacco definitivo della logica dalla millenaria tradizione della sillogistica aristotelica e l’invenzione della logica matematica, osservava che “tutte le scienze hanno come meta finale la verità”, ma la logica ha questo di particolare: “è la scienza delle leggi più generali dell’esser vero”. La generalità è ciò che separa per Frege la logica dalle altre scienze e non, come per Alessandro di Afrodisia, la sua strumentalità rispetto alle scienze teoretiche e pratiche. Vediamo ora come in Aristotele “la disciplina logica e sillogistica” di cui parla Alessandro sia stata opera della filosofia, in che cosa consista il sillogismo aristotelico e quale posto occupi la teoria del sillogismo nel pensiero del suo inventore.Logica: una disciplina senza nomeAristotele non usa mai il termine logica (logiké), cioè non parla mai di una logikè techne o episteme o pragmateia, "arte" o "scienza" o "disciplina del logos", ma per primo fa un uso non sporadico dell’aggettivo greco corrispondente, logikós, e dell’avverbio logikôs, del tutto assenti, per esempio, in Platone. Tale uso tuttavia non è riconducibile né alla logica come disciplina del logos né alla razionalità umana in generale (l’uomo come animale razionale, zô(i)on logikón), le due accezioni principali che l’aggettivo assumerà nel pensiero filosofico successivo. Comunemente, invece, si attribuisce ad Aristotele la definizione di uomo come animale razionale, dove per "razionale" (logikón) si intende "dotato di ragione" (logon echon). In realtà tale definizione non è mai attestata negli scritti del Corpus aristotelicum e la sua attribuzione ad Aristotele deriva probabilmente dal fraintendimento di due passi della Politica (I 2, 1253a9-10 e VII 13, 1332b5) in cui si sostiene che "solo l’uomo fra gli animali ha il logos". Ma il termine logos ha nei due casi significati diversi: nel primo significa parola come facoltà di parlare, nel secondo ragione come facoltà di ragionare. Solo l’uomo fra gli animali ha insieme la facoltà di parlare e di ragionare. In entrambi i casi non compare l’aggettivo logikós ma la locuzione aggettivale logon echon, “che ha il logos”.Per comprendere l’uso e quindi il significato dell’aggettivo logikós in Aristotele è bene partire da un passo del I libro dei Topici (I 14, 105b19-25):“Vi sono, a prendere le cose sommariamente, tre specie di proposizioni e di problemi. Le proposizioni, infatti, sono alcune etiche, altre fisiche, altre ancora "logiche" (logikaí). Etiche sono dunque proposizioni di questo genere, per esempio se bisogna obbedire ai genitori piuttosto che alle leggi, qualora dissentano; "logiche", per esempio se dei contrari si occupa la stessa scienza o no; fisiche, se il mondo è eterno o no. E similmente anche i problemi”.Al di là del significato particolare che i termini tecnici “proposizioni” (protaseis) e “problemi” (problémata) assumono nei Topici, quello che distingue le “proposizioni” (cioè in questo caso le interrogative indirette disgiuntive) "logiche" da quelle etiche e fisiche è la loro maggiore generalità: mentre le proposizioni etiche riguardano solo dilemmi morali e quelle fisiche solo dilemmi naturali, le proposizioni "logiche" non riguardano dilemmi propri di una scienza particolare, pratica (l’etica) o teoretica (la fisica), ma dilemmi propri di ogni scienza, perché ogni scienza si occupa dei contrari, sia morali come il bene e il male o il giusto e l’ingiusto, di cui tratta l’etica, sia naturali come il

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caldo e il freddo o il pesante e il leggero, di cui tratta la fisica. L’uso aristotelico di logikós fa dunque riferimento non a una disciplina particolare (la logica come teoria del sillogismo o dell’inferenza deduttiva valida), ma a questioni generali che riguardano ogni disciplina particolare, pur non essendo proprie di nessuna disciplina particolare. Tali questioni, come quella dei contrari, sono perfettamente lecite e il loro trattamento può essere, come per le questioni particolari, sia filosofico (secondo verità) sia dialettico (secondo opinione). Quello che non è lecito per Aristotele è confondere i due piani, cioè pretendere di risolvere una questione propria di una scienza particolare attraverso argomenti "logici", che come tali non sono propri di una scienza particolare, così come sarebbe illecito pretendere di risolvere una questione propria di una scienza particolare, per esempio l’etica, attraverso argomenti propri di un’altra scienza particolare, per esempio la fisica. In questo caso gli argomenti "logici" risulterebbero “vuoti” (kenoí), perché “estranei” (allótrioi) rispetto ai principi propri della scienza particolare, come, secondo Aristotele, accade a Platone quando nella Repubblica discute del bene (una questione etica) alla luce della sua dottrina delle idee, una dottrina "logica" estranea al dominio dell’etica e tale quindi da risultare “vuota” se applicata a essa. Vi è una scienza aristotelica particolare che si occupa delle questioni "logiche" come tali? In realtà, la tripartizione canonica delle scienze in teoretiche, pratiche e poietiche o produttive che leggiamo in Metafisica E 1, e in particolare di quelle teoretiche in teologia o filosofia prima, fisica e matematica, non sembra lasciare spazio a una scienza aristotelica delle questioni "logiche". Escludendo che si tratti di una scienza pratica, come l’etica e la politica, che ha come fine l’azione umana, e di una scienza poietica o produttiva, come la medicina, che ha come fine l’opera risultante dall’attività (per esempio la salute come risultato della cura medica), non resterebbe che classificare la scienza "logica" fra le scienze teoretiche, che hanno come fine la verità come tale. Ma la tripartizione delle scienze teoretiche di Metafisica E 1 si fonda chiaramente sulla tripartizione del concetto di sostanza in (a) sostanza separata e immobile, di cui si occupa la teologia o filosofia prima, (b) sostanza separata e mobile, di cui si occupa la fisica, e (c) sostanza non separata e immobile, di cui si occupa la matematica. Di quale sostanza dovrebbe occuparsi la scienza "logica" in quanto scienza teoretica? E anche se prendiamo in considerazione la metafisica aristotelica non come “metafisica speciale” (la teologia o filosofia prima di Metafisica E 1) ma come “metafisica generale” o ontologia (la scienza dell’essere in quanto essere di Metafisica G 1-2), a parte il problema di conciliare o meno i due progetti metafici di Aristotele, resta il fatto che anche la metafisica generale aristotelica si fonda sul concetto di sostanza come “significato focale” delle categorie dell’essere, anche se a un livello di generalità che richiama senz’altro quello delle questioni "logiche".Comunque sia, tali questioni non riguardano la sillogistica come teoria del sillogismo: in questo senso la "logica" di Aristotele (la trattazione filosofica o dialettica delle questioni "logiche") non è la logica aristotelica di cui parla Alessandro di Afrodisia. Per altro, Aristotele, come ignora il termine "logica", così ignora anche il termine "sillogistica": quando intende riferirsi alla sua teoria del sillogismo, o rinvia in generale agli Analitici (senza distinguere fra Primi e Secondi) o usa la locuzione en toîs perì syllogismoû, ovvero “nei [libri] sul sillogismo”, riferendosi agli Analitici Primi. Ma è senz’altro vero che Aristotele ascrive a se stesso il merito di avere per primo dato una teoria del sillogismo. In una pagina famosa e singolarmente personale, a conclusione delle Confutazioni Sofistiche (e quindi della versione canonica dell’Órganon) (34, 184a8-b8), Aristotele rivendica la novità della sua trattazione centrandola sulla scoperta del sillogismo:“E sugli argomenti retorici esistevano fin dall’Antichità molte esposizioni, invece sull’argomentare per sillogismi (perì toû syllogízesthai) non avevamo prima d’ora assolutamente nient’altro da menzionare, se non che per molto tempo ci siamo affaticati [intorno a tale questione] ricercando per tentativi. E se a voi sembra, dopo averla considerata, che, per come è stata costituita a partire da tali condizioni iniziali, la nostra ricerca risulti soddisfacente rispetto alle altre trattazioni accresciutesi con la tradizione, allora non resterebbe a voi tutti che avete ascoltato queste lezioni altro compito che avere comprensione per le lacune della nostra ricerca e molta gratitudine per le sue scoperte.”

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È stato giustamente fatto notare che in questo passo spesso frainteso Aristotele non rivendica la scoperta della logica come teoria generale del sillogismo, ma quella della dialettica come teoria particolare del sillogismo dialettico e della sua appendice, il sillogismo sofistico . In effetti, la pragmateia o trattazione a cui fa riferimento nel capitolo finale delle Confutazioni Sofistiche (183b17) e di cui rivendica la novità, è quella riassunta all’inizio del capitolo (183a27-b15) e coincide coi Topici e le Confutazioni Sofistiche. Ma questo non toglie che nel passo conclusivo sopra citato ciò che di veramente originale Aristotele attribuisce a se stesso è di aver condotto per primo una lunga e laboriosa ricerca “sull’argomentare per sillogismi” (perì toû syllogízesthai), di cui il sillogismo dialettico è indubbiamente un esempio. Si tratta dunque ora di ricostruire brevemente il lungo lavoro svolto da Aristotele sull’argomentazione sillogistica in generale.Il sillogismo aristotelico(a) Il sillogismo (syllogismós) è un argomento (logos) (b) in cui, (ba) poste certe cose, (bb) una cosa diversa (héterón ti) da quelle poste (bc) consegue di necessità (ex anankes symbainei) (bd) per il fatto che queste cose sono (tô(i) taûta eînai). (c) Con "per il fatto che queste cose sono" voglio dire che la cosa consegue mediante queste cose (dià taûta), e (d) con "la cosa consegue mediante queste cose" [voglio dire] che non c’è bisogno di nessun termine (horou) esterno perché si produca il necessario (to anankaîon).Così Aristotele definisce il sillogismo all’inizio degli Analitici Primi (I 1, 24b18-22). Definizioni analoghe si trovano anche in altre opere dell’Órganon (Top. I 1, 100a25-27; SE 1, 165a1-2) e nella Retorica (I 2, 1356b15-16), ma quella degli Analitici Primi è insieme la più ampia, contenendo due glosse esplicative ((c) e (d)) dell’oscura formula (bd): "per il fatto che queste cose sono", e l’unica a introdurre la teoria vera e propria del sillogismo aristotelico , che verrà esposta nei capitoli successivi.La definizione aristotelica di sillogismo è chiaramente scandita in due clausole: la clausola principale (a), che determina il genere cui appartiene il sillogismo, e la clausola secondaria (b), che ne individua la differenza specifica all’interno del genere. Per la clausola generica (a) il sillogismo è un argomento, dove per "argomento" si deve intendere un insieme di proposizioni (protaseis) di cui una (la conclusione) è inferita dalle altre (le premesse). Gli argomenti si distinguono in primo luogo in argomenti validi (formalmente corretti) e in argomenti invalidi (formalmente scorretti). Un argomento valido è un argomento concludente, cioè un argomento in cui la conclusione consegue necessariamente o probabilmente dalle premesse: nel primo caso di parla di argomento deduttivamente valido, nel secondo di argomento induttivamente valido. Per la clausola specifica (b) il sillogismo è un argomento deduttivamente valido, per cui parlare di sillogismo invalido è contraddittorio e di sillogismo valido è pleonastico.Vi sono almeno due problemi relativi all’interpretazione che abbiamo dato della clausola generica (a). Il primo riguarda la traduzione di syllogismós con "sillogismo", cioè con la semplice traslitterazione del termine greco. Alcuni interpreti, specie di lingua inglese, preferiscono tradurre syllogismós con "deduzione", ritenendo che la definizione aristotelica valga non solo per le deduzioni sillogistiche di cui gli Analitici Primi sono la teoria, ma si applichi in generale per Aristotele a ogni deduzione, sillogistica e non sillogistica. Il secondo riguarda invece la traduzione di logos con "argomento": questa è stata l’interpretazione corrente dei commentatori antichi e medievali, ma alcuni autorevoli interpreti moderni, Jan Lukasiewicz e Günther Patzig, hanno ritenuto che l’autentico sillogismo aristotelico non sia un argomento valido ma una implicazione vera, cioè una tesi o verità logica. Quanto al primo problema, vi sono almeno tre obiezioni possibili alla traduzione di syllogismós con "deduzione". In primo luogo, il sillogismo aristotelico non è soltanto un argomento deduttivo, ma è un argomento deduttivo valido, e quindi syllogismós non può essere tradotto semplicemente con "deduzione", perché una deduzione può essere valida o invalida. In secondo luogo, come vedremo, la clausola specifica (b) stabilisce fra l’altro che le premesse di un sillogismo siano almeno due e quindi esclude ipso facto gli argomenti deduttivi monolemmatici o a una sola premessa, e inoltre che la conclusione sia diversa dalle premesse e quindi esclude argomenti deduttivamente validi

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come la petizione di principio, nei quali la conclusione è identica a una delle premesse. Infine, risulta chiaro dal contesto della definizione che le premesse e la conclusione del sillogismo sono proposizioni categoriche o predicative, cioè enunciati dichiarativi semplici in cui si afferma o si nega un predicato di un soggetto, e questo pone una severa restrizione al tipo di deduzioni possibili.Quanto al secondo problema, è indubbio che la forma prevalente anche se non esclusiva in cui Aristotele presenta un sillogismo è quella di un’implicazione, per esempio: “Se […] A si predica di ogni B e B si predica di ogni C, è necessario che A si predichi di ogni C” (Analitici Primi, I 4, 25b37-39). Ma è altrettanto chiaro che un sillogismo non coincide necessariamente con la sua descrizione metalinguistica. Inoltre, per Aristotele la dimostrazione, di cui tratterà negli Analitici Secondi, è un tipo di sillogismo (syllogismós tis, Analitici Primi, I 4, 25b30; cfr. Retorica, I 1, 1355a6-8), cioè un sillogismo con premesse vere, universali e necessarie; e una dimostrazione, ovviamente, non è un’implicazione ma un argomento deduttivo.Veniamo dunque alla clausola specifica (b) e alle varie parti che la compongono. Ciascuna di esse stabilisce una condizione che un argomento deve rispettare per essere sillogistico. La prima, (ba) (“poste certe cose”), stabilisce la condizione di pluralità delle premesse (almeno due); la seconda, (bb) (“una cosa diversa dalle cose poste”), la condizione di diversità della conclusione rispetto alle premesse; la terza, (bc) (“consegue di necessità”), la condizione di concludenza necessaria, cioè di validità (concludenza) deduttiva (necessaria); la quarta, infine, (bd) (“per il fatto che queste cose sono”), la condizione che chiameremo "di pertinenza logica". Quest’ultima è senz’altro la condizione più criptica, al punto che Aristotele sente il bisogno di aggiungere una glossa esplicativa (c) e addirittura una glossa esplicativa (d) della glossa esplicativa. Almeno due sono i problemi che l’interprete si trova di fronte in questo caso: in primo luogo, Aristotele non dice, come sarebbe naturale per noi, che una cosa diversa dalle cose poste consegue di necessità dalle cose poste (cioè dalle premesse), ma per il fatto che le cose poste sono; in secondo luogo, come interpretare la locuzione “per il fatto che le cose poste sono”? A questa domanda si è cercato di rispondere dando almeno quattro significati diversi al verbo "essere": (i) “per il fatto che le cose poste sono vere”; (ii) “per il fatto che le cose poste esistono”; (iii) “per il fatto che le cose poste sono così”; (iv) “per il fatto che le cose poste sono poste”. La (i) è senz’altro da scartare, perché il concetto di verità non è pertinente alla definizione aristotelica di sillogismo, come invece accade per il moderno concetto di conseguenza logica, e d’altra parte Aristotele per primo ha riconosciuto che si può avere un sillogismo anche se le premesse sono false. Così pure è da scartare la (ii) in quanto l’esistenza delle premesse come tale non spiega la necessità della conclusione, che è ciò che la condizione (bd) è chiamata a spiegare. Quanto alle ultime due risposte, la (iii) è alquanto vaga (sono così come?) e la (iv) suona in qualche modo tautologica. Non resta allora che seguire Aristotele nelle sue glosse esplicative: la prima, (c), stabilisce una sinonimia tra “per il fatto che queste cose sono” e “mediante queste cose”: la conclusione di un sillogismo, dunque, per Aristotele non consegue di necessità dalle premesse ma mediante le premesse. In questo modo, Aristotele intende sottolineare il fatto che la necessità della conclusione è dovuta solo alla natura delle premesse. È quanto spiega la seconda glossa, (d): “mediante queste cose” significa “che non c’è bisogno di nessun termine esterno perché si produca il necessario”, cioè le premesse di un sillogismo sono sufficienti a rendere necessaria la conclusione. Altrove (Topici, VIII 11, 161b19 e 28-30) Aristotele aggiunge che le premesse devono essere non solo sufficienti (non ellittiche) ma anche necessarie (non ridondanti), e quindi la condizione di pertinenza logica stabilisce che le premesse di un sillogismo devono essere esattamente quelle richieste per rendere necessaria la conclusione. Ma il modo in cui la seconda glossa introduce tale condizione contiene un elemento significativo riguardante la natura delle premesse e la loro pertinenza logica rispetto alla conclusione, cioè il riferimento a un “termine esterno”. Questo ci rinvia al problema iniziale della clausola generica, se cioè Aristotele stia definendo la deduzione (valida) in generale o un particolare tipo di argomento deduttivamente valido, il sillogismo. Il riferimento al “termine esterno” è un’ulteriore prova che la definizione aristotelica riguarda il sillogismo e non la deduzione in generale. Aristotele, infatti, fa

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precedere all’inizio degli Analitici Primi la definizione di sillogismo da quelle di “proposizione” (prótasis) e di “termine” (horos) (I 1, 24a16-18). Per “proposizione” si intende l’enunciato (logos) categorico o predicativo, cioè l’enunciato dichiarativo semplice, in cui si afferma o si nega un predicato di un soggetto; e per “termine” o “confine” della proposizione si intende ciò in cui la proposizione si risolve, cioè il predicato e ciò di cui si predica, il soggetto. Le proposizioni sillogistiche (premesse e conclusione) sono dunque enunciati categorici o predicativi, e la definizione aristotelica di sillogismo come insieme di proposizioni sillogistiche è la definizione del sillogismo categorico o predicativo.Forma logica e teoria del sillogismoNel definire la proposizione Aristotele opera tre distinzioni, due "formali" (riguardanti la forma logica della proposizione sillogistica come tale) e una "materiale" (riguardante la differenza tra le proposizioni apodittiche o dimostrative e quelle dialettiche). Per la forma logica del sillogismo aristotelico sono essenziali le due distinzioni formali, mentre quella fra proposizioni apodittiche e dialettiche non è rilevante ai fini della teoria del sillogismo.La prima distinzione formale è quella che la tradizione chiamerà “qualità” della proposizione, cioè il suo essere affermativa (il predicato è affermato del soggetto) o negativa (il predicato è negato del soggetto). La seconda distinzione formale, invece, è quella che la tradizione chiamerà “quantità” della proposizione, cioè il suo essere universale, particolare o indeterminata, quantità che si coniuga necessariamente con la qualità, per cui avremo:(1) proposizioni universali affermative, della forma "A appartiene a ogni B", per esempio, "Bene appartiene a ogni piacere", ovvero, "Ogni piacere è un bene";(2) proposizioni universali negative, della forma "A non appartiene a nessun B", per esempio, "Bene non appartiene a nessun piacere", ovvero, "Nessun piacere è un bene";(3) proposizioni particolari affermative, della forma "A appartiene a qualche B", per esempio, "Bene appartiene a qualche piacere", ovvero, "Qualche piacere è un bene";(4) proposizioni particolari negative, della forma "A non appartiene a qualche B", per esempio, "Bene non appartiene a qualche piacere", ovvero, "Qualche piacere non è un bene";(5) proposizioni indeterminate affermative, della forma "A appartiene a B", per esempio, "Bene appartiene al piacere", ovvero, "Il piacere è un bene"; (6) proposizioni indeterminate negative, della forma "A non appartiene a B", per esempio, "Bene non appartiene al piacere", ovvero, "Il piacere non è un bene".Aristotele non menziona invece le proposizioni singolari, affermative (per es. "Socrate è buono") o negative (per es. "Socrate non è buono"), come anche nella sua teoria del sillogismo non tiene conto delle indeterminate, limitando le proposizioni sillogistiche ai primi quattro tipi, che tradizionalmente si chiamano “proposizioni a” le universali affermative, “proposizioni e” le universali negative, “proposizioni i” le particolari affermative e “proposizioni o” le particolari negative (dove le vocali affermative a e i sono le prime due vocali del verbo latino adfirmo e le vocali negative e e o sono invece le vocali del verbo latino nego, secondo un uso introdotto dai logici medievali latini). Pertanto ai quattro tipi di proposizioni sillogistiche corrispondono le formule seguenti:(1) "AaB" (A appartiene a ogni B);(2) "AeB" (A non appartiene a nessun B);(3) "AiB" (A appartiene a qualche B);(4) "AoB" (A non appartiene a qualche B).Le maiuscole A e B sono lettere sillogistiche e stanno per termini generali concreti come "buono" e "piacere". Aristotele per primo si serve di tali lettere sia negli Analitici Primi e Secondi come lettere sillogistiche sia anche in altre opere del corpus (Fisica, De Caelo ed Etica Nicomachea) ma non come lettere sillogistiche, mutuandone verosimilmente l’uso dalla geometria greca del tempo. L’uso di tali lettere (sillogistiche e non sillogistiche) è invece significativamente assente dagli altri trattati dell’Órganon.Se le lettere sillogistiche, in quanto stanno per termini generali concreti, sono la “materia” della

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proposizione, le vocali sillogistiche medievali a, e, i e o ne rappresentano la “forma logica” predicativa. Le relazioni che intercorrono fra i quattro tipi di proposizioni sillogistiche sono quelle del cosiddetto Quadrato degli Opposti o Quadrato Aristotelico, tratteggiato da Aristotele in De Interpretatione 7: (i) le universali affermative (a) e negative (e) si dicono “contrarie” e non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false; (ii) le particolari affermative (i) e negative (o) si dicono “subcontrarie” e non possono essere entrambe false (perché le rispettive contrarie sarebbero entrambe vere), ma possono essere entrambe vere (perché le rispettive contrarie possono essere entrambe false); (iii) infine le coppie di proposizioni universali affermative (a) e particolari negative (o), da un lato, e universali negative (e) e particolari affermative (i), dall’altro, si dicono “contraddittorie” e non possono essere né entrambe vere né entrambe false, ma in generale di ogni coppia contraddittoria una proposizione è vera e l’altra falsa.Le due distinzioni formali e le quattro vocali sillogistiche corrispondenti ai quattro tipi di proposizioni individuati da Aristotele determinano la forma logica delle proposizioni che compongono il sillogismo aristotelico . Si tratta ora di vedere qual è la forma logica del sillogismo, quella che determina la necessità della conclusione e che abbiamo chiamato “condizione di pertinenza logica” delle premesse rispetto alla conclusione.Figure e modiLa forma logica del sillogismo aristotelico ha due componenti che si combinano tra loro: da un lato, quelle che Aristotele chiama “figure” (schémata) del sillogismo; dall’altro, quelli che la tradizione chiamerà “modi” (trópoi) delle figure. Le figure riguardano la disposizione dei termini nelle premesse, i modi invece la qualità e quantità delle proposizioni (cioè le vocali sillogistiche). I termini necessari e sufficienti per avere un sillogismo aristotelico sono tre: due termini “estremi” (akra) e un termine “medio” (meson) distribuiti su due premesse. Il termine medio compare in entrambe le premesse e per questo è detto anche termine “comune” (koinón) ma non nella conclusione; gli estremi invece compaiono ciascuno in una premessa ed entrambi nella conclusione: il termine che funge da predicato della conclusione è detto termine “maggiore”, quello che funge da soggetto termine “minore”. Aristotele individua pertanto tre figure possibili in base alla posizione (thesis) del medio nelle premesse:“Se dunque è necessario assumere un termine comune a entrambe le premesse, e ciò è possibile in tre modi: (I) o predicando A di C e C di B, (II) o predicando C di entrambi, (III) o predicando entrambi di C, e queste sono le figure di cui si è detto, è chiaro che ogni sillogismo si produce necessariamente tramite una di queste figure. ”(Analitici Primi, I 23, 41a13-18). Nella I figura il termine medio C è soggetto della premessa maggiore (quella in cui compare l’estremo maggiore A) e predicato della minore (quella in cui compare l’estremo minore B); nella II è predicato in entrambe le premesse; nella III invece è soggetto di entrambe:I AxC, CxBII CxA, CxBIII AxC, BxCdove x sta per "appartiene a" o "si predica di".In Analitici Primi I 4-6 Aristotele descrive le tre figure sillogistiche adottando per ognuna una diversa tripla di lettere greche in sequenza alfabetica, onde far risaltare la posizione del medio e distinguere così la figura in esame dalle altre. Per la I figura la sequenza alfabetica è A, B, G, dove B è il termine medio, A il termine maggiore (“quello in cui è il medio”) e G il termine minore (“quello che è sotto il medio”). Per la II figura la sequenza è invece M, N, J, dove M (“primo per posizione”) è il termine medio, N il termine maggiore (“quello presso il medio”) e J il termine minore (“quello più lontano dal medio”). Per la III infine è P, R, S, dove S è il termine medio (“ultimo per posizione”), R il termine minore (“quello più vicino al medio”) e P il termine maggiore (“quello più lontano dal medio”). Solo dunque nella I figura il termine comune, B, è anche termine medio, cioè intermedio fra gli estremi A e G, mentre nelle altre figure o è primo (M) o è ultimo (S).Se per Aristotele le figure possibili in base alla posizione del medio sono solo tre (e quindi è esclusa la possibilità di una quarta figura, riconosciuta invece dalla tradizione successiva come conversa

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della I figura), i modi possibili, cioè le possibili distribuzioni della qualità e quantità delle due premesse e della conclusione, sono 64 per ogni figura (4x4x4). Dei modi possibili, tuttavia, solo alcuni sono validi, cioè sillogisticamente “fertili” o concludenti; gli altri invece, la grande maggioranza, risultano invalidi, cioè sillogisticamente “sterili” o non concludenti. Il metodo adottato da Aristotele per distinguere i modi validi dai modi invalidi è quello del controesempio: quando un modo può essere esemplificato da un argomento con premesse vere e conclusione falsa, allora non è un sillogismo, cioè un argomento valido, perché, come Aristotele per primo ha sottolineato, mentre è possibile dedurre validamente una conclusione vera da premesse false, non è possibile dedurre validamente una conclusione falsa da premesse vere.Attraverso il metodo di reiezione del controesempio Aristotele arriva a individuare solo 4 modi validi per la I figura, 4 per la II e 6 per la III. In tutto 14 modi validi, i cui nomi tradizionali risalgono ai logici medievali latini, che li riassumevano in questi versi:Barbara, Celarent, Primae Darii, FerioqueCesare, Camestres, Festino, Baroco, SecundaeTertia grande sonans edit Darapti, Felapton,Adjungens Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison.I modi validi della I figura sono dunque Barbara, Celarent, Darii e Ferio, e corrispondono ai seguenti schemi sillogistici (dove il simbolo H, la "tornella" che separa le due premesse dalla conclusione, significa la conseguenza necessaria e può essere letto come "dunque"):I i AaB, BaGH AaGBarbaraI ii AeB, BaGH AeGCelarentI iii AaB, BiGH AiGDariiI iv AeB, BiGH AoGFerioQuelli della II figura sono invece Cesare, Camestres, Festino e Baroco:II i MeN, MaJ H NeJCesareII ii MaN, MeJ H NeJCamestresII iii MeN, MiJ H NoJFestinoII iv MaN, MoJ H NoJBarocoQuelli della III figura Darapti, Felapton, Disamis, Datisi, Bocardo e Ferison:III i PaS, RaS H PiRDaraptiIII ii PeS, RaS H PoRFelaptonIII iii PiS, RaS H PiRDisamisIII iv PaS, RiS H PiRDatisiIII v PoS, RaS H PoRBocardoIII vi PeS, RiS H PoR FerisonI nomi medievali sono in realtà degli ingegnosi termini mnemotecnici, dove ogni consonante iniziale, alcune consonanti interne e ogni vocale hanno un significato: così le consonanti iniziali significano in quali modi della I figura si risolvono quelli delle altre figure, per esempio Cesare (II i) in Celarent (I ii) e Felapton (III ii) in Ferio (I iv); alcune consonanti interne (c, m, p, s) indicano i metodi di risoluzione dei modi di II e III figura in quelli di I figura, da applicare alla proposizione segnalata dalla vocale che precede la consonante; infine, le vocali sillogistiche significano la qualità e quantità delle proposizioni.Aristotele considera “perfetti” i sillogismi corrispondenti ai modi validi della I figura, perché in essi la necessità della conclusione risulta evidente e quindi non è necessario dimostrarne la validità, mentre quelli delle altre figure sono “imperfetti” e se ne dimostra la validità risolvendoli in modo diretto o indiretto nei sillogismi perfetti della I figura. I metodi di risoluzione indicati dalle consonanti interne sono: c la dimostrazione indiretta (per contradictoriam), m lo scambio delle premesse (mutatio praemissarum), p la conversione per accidens e s la conversione semplice (conversio simplex). Di particolare importanza sono le due regole di conversione per le proposizioni assertorie, cioè per gli enunciati categorici non modali (né necessari né possibili), di cui Aristotele dimostra la validità in Analitici Primi I 2. La conversione semplice riguarda le proposizioni

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universali negative e particolari affermative, che si convertono nelle loro converse conservando sia la qualità sia la quantità, cioè sono interdeducibili con esse: "Se nessun piacere è un bene, allora nessun bene è un piacere" (AeB H BeA), "Se qualche piacere è un bene, allora qualche bene è un piacere" (AiB H BiA). La conversione per accidens riguarda invece le universali affermative, che si convertono nelle loro converse conservando la qualità ma non la quantità: "Se ogni piacere è un bene, allora qualche bene è un piacere" (AaB H BiA). Le particolari negative invece non si convertono né simpliciter né per accidens.Prendiamo allora tre esempi di sillogismi rispettivamente di I, II e III figura: (1) Ogni bene è un fine(2) Ogni piacere è un bene(3) Dunque ogni piacere è un fine Barbara (I i)(1) Nessun fine è un bene(2) Ogni piacere è un bene(3) Dunque nessun piacere è un fine Cesare (II i)(1) Ogni bene è un fine(2) Ogni bene è un piacere(3) Dunque qualche piacere è un fine Darapti (III i)Nel sillogismo in Barbara abbiamo un termine comune alle premesse (bene) che è soggetto della premessa maggiore (1) e predicato della premessa minore (2), un estremo maggiore (fine) che è predicato sia della premessa maggiore sia della conclusione, e un estremo minore (piacere) che è soggetto sia della premessa minore sia della conclusione. La posizione del medio (il termine comune alle premesse) è quindi intermedia fra i due estremi, come è proprio dei sillogismi di I figura. Invece nei sillogismi in Cesare e Darapti il termine comune è rispettivamente predicato e soggetto di entrambe le premesse, cioè non è intermedio fra i due estremi, ma o li precede (II figura) o li segue (III figura).La teoria del sillogismo degli Analitici Primi riguarda sia i sillogismi assertori (I 4-7) sia i sillogismi modali del necessario (apodittici) e del possibile (problematici) (I 8-22), la cui elaborazione risulta molto più ampia e controversa e non può essere discussa qui. Alle due teorie, assertoria e modale, del sillogismo categorico sono premesse le distinzioni e le definizioni relative alle proposizioni sillogistiche e al sillogismo (I 1), e le regole di conversione delle proposizioni sillogistiche assertorie (I 2) e modali (I 3). È quella che potremmo chiamare la teoria analitica del sillogismo categorico, riguardante cioè enunciati categorici o predicativi generali (universali o particolari), a esclusione di quelli indeterminati e singolari. Argomenti deduttivi non categorici e proposizioni singolariAristotele tuttavia è disposto a chiamare "sillogismi" anche argomenti deduttivi validi non categorici e sillogismi della I figura con proposizioni singolari. Un esempio del primo caso è il dilemma costruttivo complesso (un sillogismo ipotetico misto in Modus Ponendo Ponens) di Topici I 8. Un esempio invece del secondo caso, sempre nei Topici (VIII 10, 160b25-33), è il sillogismo categorico della I figura:(1) Chi è seduto scrive(2) Socrate è seduto(3) Dunque Socrate scrive,in cui l’estremo minore (Socrate) è appunto un termine singolare. E anzi, fin dall’Antichità (cfr. per es. Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, II 163), l’esempio per eccellenza, sempre citato (anche se a torto), di sillogismo aristotelico è proprio un sillogismo della prima figura con Socrate come termine singolare:(1) Ogni uomo è un animale(2) Socrate è un uomo(3) Dunque Socrate è un animaleAnche Woody Allen, nel film Amore e Guerra, ne darà una sua personale versione:(A) Tutti gli uomini sono mortali

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(B) Socrate è mortale(C) Tutti gli uomini sono SocrateL’argomento suona senz’altro come un sillogismo (ne crea l’atmosfera peculiare), ma, a voler essere pedanti (col rischio di guastare la battuta del film), non si tratta in realtà di un sillogismo, cioè di un argomento deduttivo valido, perché le premesse sono vere e la conclusione decisamente falsa. Né tantomeno si tratta di un sillogismo categorico della II figura, come farebbe pensare la posizione del medio (mortale), che è predicato di entrambe le premesse, perché i modi validi della II figura hanno tutti una premessa e una conclusione negative. Si tratta quindi, come direbbe Aristotele, di un paralogismo o sillogismo apparente. Tuttavia, volendo essere giusti con Woody Allen, la conclusione vera e propria del suo "sillogismo" non è (C) ma(D) Tutti gli uomini sono omosessuali,che è poi ciò che veramente preoccupa il pavido protagonista del film. In questo caso invece siamo di fronte a un sillogismo vero e proprio con una premessa implicita (quello che tradizionalmente si chiama “entimema” nel senso non aristotelico del termine di sillogismo abbreviato), cioè[*] Socrate era omosessuale(C) Tutti gli uomini sono Socrate(D) Tutti gli uomini sono omosessuali,dove la premessa implicita [*] è stata in precedenza derivata anch’essa sillogisticamente dalle premesse:(1) Tutti gli antichi Greci erano omosessuali(2) Socrate era un antico greco.Un autorevole logico contemporaneo, John Lemmon, osserva nel suo manuale introduttivo di logica che vi sono solo ragioni storiche per studiare il sillogismo aristotelico , pur riconoscendone l’importanza sia per la storia della logica sia per la storia della filosofia. Da un punto di vista logico la tradizionale dottrina del sillogismo (cioè la sillogistica aristotelica ) è in effetti solo un frammento del calcolo dei predicati della moderna logica formale, incapace fra l’altro, a differenza di quest’ultimo, di trattare argomenti deduttivi non categorici e di rendere conto delle proprietà formali delle relazioni. Quanto alla parzialità della teoria, Aristotele sarebbe senz’altro d’accordo: come scrive alla fine delle Confutazioni Sofistiche, anche se i risultati ottenuti dalla sua ricerca sembrano sufficienti rispetto a quelli di discipline molto più antiche, tuttavia è inevitabile che essa contenga delle lacune, essendo l’inizio di una nuova disciplina. Ma proprio per questo si deve “avere comprensione per le lacune della nostra ricerca e molta gratitudine per le sue scoperte”.La logica stoica (*)“Crisippo divenne così rinomato in campo dialettico che i più pensavano che se tra gli dèi ci fosse stata la dialettica essa non avrebbe potuto che essere quella di Crisippo”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 180)Questo è il celebre elogio tributato a Crisippo di Soli, terzo scolarca della Stoa ellenistica, dai suoi contemporanei e immediati successori. Come vedremo, la “dialettica” è la parte fondamentale della logica stoica e, secondo il catalogo delle opere crisippee, tramandatoci anch’esso da Diogene Laerzio, Crisippo, il più fecondo e originale filosofo stoico, dedicò alla logica non meno di 130 opere in 300 libri (per dare un’idea delle proporzioni impressionanti di questo corpus, si trattava di una mole di scritti almeno 20 volte superiore a quella dell’Órganonaristotelico nella sua forma odierna). Con l’eccezione di alcuni frammenti papiracei delle sue Ricerche Logiche, l’intera opera logica di Crisippo è andata perduta e per una ricostruzione della logica crisippea, e della logica stoica più in generale, dobbiamo affidarci a brevi sinossi, citazioni, parafrasi, riferimenti, allusioni e critiche presentateci da una serie di fonti posteriori, tutte databili dal I secolo a.C. in poi (in particolare Cicerone, Galeno, Sesto Empirico, Diogene Laerzio e i commentatori greci di Aristotele, a partire da Alessandro di Afrodisia). Queste fonti tendono a concentrarsi sulle teorie e sugli argomenti più basilari, non sono sempre sufficientemente informate, precise e affidabili, e hanno spesso un approccio apertamente polemico nei confronti della logica stoica.Lo stato e la natura dell’evidenza testuale a nostra disposizione hanno costituito uno degli ostacoli

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fondamentali per l’apprezzamento del valore della logica stoica in epoca moderna. Per esempio, nella sua Geschichte der Logik im Abendlande (Lipsia, 1855) lo storico della logica Carl Prantl, chiaramente influenzato dal celebre giudizio kantiano sulla mancanza di progresso in logica dopo Aristotele, scriveva quanto segue:“In realtà Crisippo non ha creato niente di nuovo in logica, ma ha ripetuto solo ciò che esisteva già nei peripatetici e alcuni dettagli scoperti dai megarici; la sua attività è consistita nell’aver portato la trattazione del materiale a un grado pietoso di insulsaggine, banalità e scolastica involuzione […], cosicché egli è un prototipo di ottusità e pedanteria”. (Vol. I, p. 408) Questa vera e propria invettiva è solo la più celebre e ingenerosa tra quelle, numerose, abbattutesi sulla logica crisippea fin dalla tarda Antichità. Le accuse mosse da Prantl erano il frutto di una scarsa conoscenza delle (già parziali) fonti antiche a nostra disposizione e di un completo fraintendimento della natura stessa della logica stoica, e sopravvissero pressoché invariate almeno fino agli anni Trenta del secolo scorso.La nascita della moderna logica formale giocò un ruolo determinante nella riabilitazione della logica stoica, mettendo nelle mani di un valente logico e storico della logica come Jan Lukasiewicz l’apparato concettuale necessario a una sua radicale reinterpretazione e rivalutazione (Zur Geschichte der Aussagenlogik, "Erkenntnis", 5 (1935), pp. 111-131). Ciò che era stato bollato come “ottuso formalismo” divenne agli occhi di Lukasiewicz lodevole ricerca del rigore formale, e la differenza sostanziale tra logica aristotelica e logica stoica, la differenza cioè tra una logica dei termini o dei predicati, da una parte, e una logica delle proposizioni, dall’altra, poteva finalmente essere apprezzata. Crisippo, che Prantl aveva messo alla berlina meno di un secolo prima, poteva così entrare nel novero dei nobili antenati della ancor giovane logica proposizionale formale, e l’interesse nei confronti del contributo stoico alla logica cresceva enormemente. Da questo punto di vista, il rinato interesse per la logica stoica nel secolo scorso ha avuto la sillogistica proposizionale crisippea come suo “centro di gravità”, e alla sillogistica crisippea sarà dedicato il terzo paragrafo di questa sezione. Per cominciare, però, sarà necessario inquadrare brevemente la posizione e la funzione della logica all’interno della filosofia stoica e offrire alcuni cenni sui fondamenti della dialettica stoica, di cui la sillogistica fa parte.Filosofia, logica e dialettica nella Stoa ellenistica (*)Nell’ambito del dibattito tardoantico sulla questione se la logica fosse parte o strumento della filosofia, gli stoici appaiono costantemente come rappresentanti e difensori della prima posizione. Più precisamente, lo stoicismo ortodosso fece della logica (logiké) una delle tre parti (mere) del “discorso filosofico” (ho katà philosophian logos), insieme alla fisica e all’etica (cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 39: per uno studio della sottile ma importante distinzione tra “parti della filosofia” e “parti del discorso filosofico” si veda K. Ierodiakonou, The Stoic Division of Philosophy, "Phronesis", 38 (1993), pp. 57-74). Sebbene esistesse un dibattito all’interno della scuola su quale ordine andasse seguito nell’insegnamento e apprendimento delle varie parti del discorso filosofico, è chiaro che la filosofia stessa, in quanto disposizione e attività dell’anima, era per gli stoici un’unità sistematica e “organica”. Gli stoici si servirono di varie similitudini per illustrare l’interrelazione tra le diverse parti del discorso filosofico (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 40): la filosofia è come un uovo, in cui la logica corrisponde al guscio, l’etica all’albume, la fisica al tuorlo (o, secondo Sesto Empirico, Contro i logici, I 22, la fisica all’albume e l’etica al tuorlo); la filosofia è come un frutteto: la recinzione esterna è la logica, la terra e gli alberi sono la fisica, i frutti sono l’etica; la filosofia è come una cittadella ben governata e fortificata, le cui mura rappresentano la logica; oppure, secondo lo stoico più tardo Posidonio, dal momento che le parti della filosofia sono in realtà un tutto organico, la filosofia andrebbe comparata a un animale: la logica è rappresentata da ossa e nervi, la fisica da carne e sangue, e l’etica dall’anima (Sesto Empirico, Contro i logici, I 19; cfr. PASSO ANTOLOGICO 1 stoici). Così come non ci sono uova senza guscio e animali senza scheletro e sistema nervoso, e così come un frutteto e una cittadella non potrebbero sopravvivere senza difese, allo stesso modo non può darsi filosofia senza logica. Perciò quest’ultima non è un mero strumento della filosofia, ma ne è

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parte integrante. Per gli stoici la logica si occupa, in senso ampio, di tutto ciò che ha a che fare con il logos, che va inteso qui non solamente come “argomento” o “ragionamento” ma, in maniera più ampia, come “discorso razionale”. La logica stoica include perciò come sua parte fondamentale non solo la dialettica (dialektiké) come “scienza (episteme) del dialogare correttamente (orthôs dialégesthai) nei discorsi condotti attraverso domande e risposte”, ma anche la retorica (rhetoriké) come “scienza del parlare bene (eu legein) nei discorsi in forma continua” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 42). Si noti che per gli stoici la dialettica merita, a differenza della sillogistica aristotelica , lo status di scienza. Il riferimento etimologico al corretto dialogare nella definizione di dialettica è un indizio dell’origine della riflessione logica nel primo stocismo (la definizione potrebbe risalire a Zenone di Cizio, il fondatore della scuola): lo studio della logica nasce dalla concreta pratica del dialogo socratico e dalla necessità di essere in grado di difendere o “dare conto” delle proprie dottrine, rispondendo a obiezioni e argomenti avanzati dai propri avversari, e argomentando a propria volta contro le posizioni rivali. Al tempo della fondazione della Stoa, con il nome di “dialettici” erano anche conosciuti gli appartenenti a una scuola socratica (o un particolare gruppo di filosofi megarici, anch’essi di ispirazione socratica) che includeva Diodoro Crono e il suo allievo Filone; Zenone studiò con entrambi e, verosimilmente, i loro ben documentati interessi logici esercitarono un’influenza decisiva sulla formazione e sullo sviluppo iniziali della dialettica stoica. L’originaria funzione difensiva della dialettica stoica, attestata da numerose fonti (per es. Sesto Empirico, Contro i logici, I 22-23; Epitteto, Discorsi, III 26, 15-16; Filone di Alessandria, Sull’agricoltura, 15-16), è anche riflessa nelle similitudini sopra citate del guscio d’uovo, della recinzione del frutteto e delle mura fortificate, adottate per l’intero genus della logiké. È a partire da questo fondamentale interesse pratico-argomentativo che nel III secolo a.C. Crisippo trasformò la dialettica in una scienza sistematica che indaga tutti gli aspetti del discorso razionale, dai fondamenti grammaticali, sintattici e semantici del linguaggio alla sillogistica e alla teoria della dimostrazione.Fondamenti della dialettica stoica (*)Secondo Crisippo, la dialettica si occupa di (1) “significanti” (semaínonta) e di (2) “significati” (semainómena), a cui corrispondono le due suddivisioni principali di questa scienza (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 62).(1) I significanti sono entità “corporee”: al livello più fondamentale, un “proferimento” o “suono vocale” (phoné) è aria che è stata messa in movimento dagli organi fonatori. Gli esseri umani sono in grado di emettere suoni articolati o “espressioni” (léxeis); ma solo le espressioni significanti, che sono prodotto e manifestazione di un pensiero, hanno lo status di “discorso” (logos). Gli stoici classificarono varie “parti del discorso”: “nome proprio” (ónoma), “appellativo” (prosegoria, che include sia sostantivi sia aggettivi), “verbo” (rhema), “connettivo” (syndesmos), “articolo” e “avverbio”. Anche se la dialettica stoica esprimeva un forte interesse per gli aspetti fonetici e puramente grammaticali del linguaggio (per esempio dialetti e solecismi) ed ebbe un’influenza fondamentale sullo sviluppo della grammatica greco-romana, va notato che le parti del discorso erano identificate in base al loro significato o al loro contributo al significato. Per esempio, un “appellativo” è definito come parte del discorso che significa una “proprietà comune” (“cavallo” significa la proprietà di essere un cavallo, che, secondo gli stoici, è corporea); un verbo è quella parte del discorso che significa un “predicabile” incorporeo (per esempio “scrive” significa qualcosa, lo scrivere, che può essere predicato di qualcos’altro); un connettivo è quella parte del discorso che ha la funzione di collegare altre parti del discorso significanti.(2) Al centro della dialettica stoica, e alle fondamenta della sua seconda sezione, concernente i significati, troviamo il concetto di “dicibile” (lektón). Quando parliamo proferiamo espressioni significanti in una determinata lingua, ma ciò che in tal modo viene detto o espresso sono “dicibili” incorporei, i significati delle nostre parole, compresi solo da chi è un parlante di quel linguaggio (un dicibile è, letteralmente, “qualcosa che può essere detto” proferendo una certa espressione linguistica). Dal momento che nell’ontologia stoica solo ciò che è corporeo esiste, i lektá incorporei (chiamati anche prágmata, “cose” o “stati di cose”) non esistono, ma “sussistono” (così come gli

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altri incorporei stoici, spazio, vuoto e tempo). Gli stoici dunque adottarono una teoria del significato a tre livelli, in cui (1) espressioni linguistiche (significanti corporei) significano (2) lektá incorporei, che sono quanto viene detto attraverso quelle espressioni riguardo a (3) oggetti corporei nel mondo e le loro proprietà (anch’esse corporeee): per esempio, (1) “Dione cammina” significa (2) il camminare, o che cammina, (3) di Dione (cfr. Sesto Empirico, Contro i logici, II 11-12; Seneca, Lettere a Lucilio, 117.13). Sebbene questa teoria sia stata spesso associata alla fortunata distinzione fregeana tra parola, senso e riferimento, il parallelo è in reltà meno evidente e diretto di quanto si sia supposto (si veda M. Frede, The Stoic Notion of a Lekton, in S. Everson (a cura di), Companions to Ancient Thought 3: Language, Cambridge 1994, pp. 109-128). Quel che è certo è che i lektástoici non sono oggetti mentali, ma entità “pubbliche” che, in quanto tali, rendono la comunicazione interpersonale possibile: è lo stesso “dicibile” che viene espresso da un certo parlante e che diviene il contenuto proposizionale del pensiero di chi ascolta quel proferimento. Sebbene i lektá non siano pensieri, essi sono dunque gli oggetti intenzionali dei nostri pensieri: “un dicibile è ciò che sussiste in accordo con una rappresentazione razionale” (Sesto Empirico, Contro i logici, II 70). Gli esseri umani differiscono dagli altri animali esattamente perché le loro “rappresentazioni” (phantasiai) sono “razionali” (logikaí), cioè possono essere espresse attraverso il logos. Mentre anche taluni animali, come i pappagalli, condividono il “linguaggio proferito” (producono suoni articolati), solo gli esseri umani dispongono di quel “discorso interiore” (logos endiáthetos) che è una funzione della ragione e che, significativamente, è in grado di operare inferenze e possiede il concetto di “conseguenza” (akolouthia, cfr. Sesto Empirico, Contro i logici, II 275-6; per il concetto di “conseguenza” si veda il paragrafo successivo). I “dicibili” si dividono in “incompleti” e “completi”. I “predicabili” (kategorémata), cioè i significati incorporei di espressioni verbali, sono lektá incompleti. Il significato di un verbo è fissato da ciò che, proferendolo, si può dire o predicare di qualcosa: per esempio, “scrive” significa qualcosa (lo scrivere) che può essere predicato di qualcosa; nessuno stato di cose completo viene espresso, però, finché un predicabile non viene connesso a un “caso nominativo” (per esempio, Socrate; cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 63-64). La nozione stoica di “caso” (ptôsis) è particolarmente oscura: non è chiaro se i casi siano essi stessi significati di nomi propri e appellativi, e se vadano anch’essi catalogati come lektá incompleti, o se, piuttosto, i significati di nomi e appellativi siano entità corporee nel mondo, e dunque a termini come “Socrate” o “cavallo” non corrisponda alcun dicibile.Gli stoici introdussero una classificazione dei “dicibili completi” basata su ciò che si fa “dicendoli”: per esempio, gli “asseribili” (axiómata) sono dicibili “dicendo i quali facciamo asserzioni, e che sono veri o falsi” (“Socrate scrive”), mentre i dicibili “imperativi” sono quelli “dicendo i quali emettiamo un comando”, e che non sono né veri né falsi (Sesto Empirico, Contro i logici, II 71-73). Gli stoici distinsero numerosi altri tipi di lektá completi, tra cui, per esempio, “domande” (che richiedono “sì” o “no” come risposta), “richieste” (domande aperte che invitano una risposta discorsiva), “giuramenti”, “preghiere” e “invocazioni”. La tassonomia stoica è paragonabile a certi trattamenti moderni degli atti linguistici: a differenza di Aristotele, secondo cui il linguaggio non assertorio (o non “apofantico”) appartiene alla sfera retorica e poetica, per gli stoici lo studio di tutti i tipi di “cose che possono essere dette” appartiene alla scienza dialettica.Gli asseribili sono uno dei cardini fondamentali della dialettica stoica, essendo il “materiale” di cui argomenti e sillogismi sono composti. Gli asseribili stoici sono spesso stati associati alle nostre proposizioni astratte, in quanto significati di enunciati dichiarativi e portatori primari di verità e falsità (gli enunciati dichiarativi sono veri e falsi in maniera derivata, in virtù del fatto di avere asseribili veri o falsi come contenuti proposizionali). Gli stoici adottarono una versione “temporalizzata” del Principio di Bivalenza: ogni asseribile è vero o falso in un determinato tempo, dal momento che un asseribile può cambiare il proprio valore di verità nel tempo. Per esempio, l’asseribile che sta piovendo, espresso dall’enunciato “Piove”, è vero ora perché sta piovendo e diventerà falso tra venti minuti, quando non starà più piovendo (la teoria stoica della verità è chiaramente corrispondentista). Gli asseribili stoici differiscono dalle proposizioni anche per il fatto

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che possono essere al passato (“Pioveva”), presente (“Piove”) o futuro (“Pioverà”), e possono contenere indessicali, come “io” o “questo”: l’enunciato “Io ora sto mangiando questa cosa qui”, proferito in tempi diversi da parlanti diversi che indicano oggetti diversi, significa lo stesso asseribile. Incidentalmente, gli asseribili sono anche portatori di modalità (possibilità, impossibilità, necessità); Crisippo fece progredire lo studio della logica modale, già intrapreso da Aristotele e continuato da Diodoro Crono e Filone.Gli stoici offrirono una sofisticata classificazione di asseribili “semplici” e non “semplici”, distinguendo tra i primi (cfr. Sesto Empirico, Contro i logici, II 96-100; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 69-70):(1) asseribili “definiti”, che includono un riferimento deittico (“Questo qui sta camminando”); (2) asseribili “intermedi”, composti da un caso nominativo e un predicabile (“Socrate sta camminando”); (3) asseribili “indefiniti”, governati da una “particella indefinita” (“Qualcuno sta camminando”).Gli stoici distinsero anche tre forme di negazione (su cui si veda W. Cavini, La negazione di frase nella logica greca, in W. Cavini et alii (a cura di), Studi su papiri greci di logica e medicina, Firenze 1985, pp. 7-126, in particolare pp. 51 ss.):(1) asseribili “negativi”, formati prefissando la particella “non” a un asseribile (“Non: Socrate sta camminando”). Questa negazione contradditoria “esterna” è vero-funzionale: se un asseribile p è vero, allora la sua negazione -p è falsa; se p è falso, allora -p è vero;(2) asseribili “denegativi”, con un pronome negativo come soggetto (“Nessuno sta camminando”);(3) asseribili “privativi”, in cui una particella privativa è prefissa al predicabile (“Socrate è im-mobile”).È interessante notare che enunciati negativi di forma standard (e gli asseribili corrispondenti), in cui, come nel caso della negazione aristotelica, la particella negativa governa il predicato (“Socrate non sta camminando”), non rientrano in questa classificazione; gli stoici evidentemente dovevano considerare la loro forma logica equivalente a quella di enunciati affermativi. Non solo l’uso della negazione esterna permette di riconoscere la qualità dell’enunciato (e dell’asseribile corrispondente) a prima vista, ma garantisce anche il principio secondo cui se un asseribile è vero (falso), allora la sua negazione è falsa (vera) e il Principio del Terzo Escluso: quando il soggetto X (per esempio “Socrate”) è vuoto, per gli stoici sia “X è F” (“Socrate è malato”) sia “X non è F” (“Socrate non è malato”) sono falsi, perché entrambi gli asseribili hanno portata esistenziale, mentre “Non: X è F” (“Non: Socrate è malato”) è vero. Ciò mostra come la classificazione stoica degli asseribili non fosse dettata dall’osservazione di strutture linguistiche del linguaggio naturale, ma da precise considerazioni logiche e metafisiche.Questo è ancor più evidente nell’ambito della classificazione degli asseribili non semplici, cioè di quegli asseribili composti da due o più asseribili (o dallo stesso asseribile ripetuto due o più volte) collegati da uno o più connettivi. Il connettivo principale viene sempre posto all’inizio dell’enunciato, per rendere immediatamente chiaro e non ambiguo quale tipo di asseribile esso esprima. Crisippo distinse tre asseribili non semplici, che sono al fondamento della sua sillogistica (si noti che gli asseribili negativi contano come asseribili semplici):(1) un asseribile “congiuntivo” (sympeplegmenon) ha la forma “sia (kai) p sia (kai) q” (con almeno due congiunti). La congiunzione stoica è vero-funzionale, ed è vera se e solo se tutti gli asseribili congiunti sono veri;(2) un asseribile “condizionale” (synemmenon) ha la forma “se (ei) p, q” (dove p è l’“antecedente”, q il “conseguente”). A differenza delle analisi del condizionale che erano state offerte da Filone e Diodoro, e forse accolte dai predecessori di Crisippo nella Stoa, il condizionale crisippeo non è vero-funzionale: un condizionale è vero quando c’è “conseguenza” (akolouthia) tra l’antecedente e il conseguente, e per Crisippo tale conseguenza si dà solo nel caso in cui ci sia “connessione” (synartesis) tra di essi, cioè quando l’asseribile contraddittorio del conseguente è “in conflitto” (mache) con l’antecedente (Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, II 110-2; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 73 [BRANO ANTOLOGICO 2 stoici]).

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(3) un asseribile “disgiuntivo” (diezeugmenon) ha la forma “o (etoi) p o (e) q” (con almeno due disgiunti). La disgiunzione crisippea, come il condizionale, non è vero-funzionale: una disgiunzione è vera quando i disgiunti sono in “conflitto completo” (mache teleia) tra di loro, e di conseguenza uno e solo uno di essi è vero (disgiunzione forte o esclusiva).In maniera indiretta o diretta, le condizioni di verità del condizionale e della disgiunzione crisippei sono dunque stabilite con riferimento al concetto di conflitto (mache). Due asseribili p e q sono in conflitto quando non possono essere veri insieme; il conflitto è completo quando, in aggiunta, anche i loro contraddittori -p e -q (nelle quali il simbolo - indica la negazione) sono in mutuo conflitto (e dunque p e q non possono essere nemmeno falsi insieme: Galeno, Introduzione alla logica, XIV 5). Un’analisi attenta delle nostre fonti chiarisce che l’impossibilità alla base del conflitto non è riducibile a una mera “incompossibilità” vero-funzionale, cioè all’impossibilità della congiunzione vero-funzionale pandq. Non è sufficiente che p sia impossibile per potere concludere che p e q “non possono essere veri insieme”: anche se “2+2=5” è impossibile, non c’è alcun conflitto tra questo asseribile e “Parigi è la capitale della Francia” (i due asseribili non sono incompatibili o confliggenti, in un senso importante avrebbero potuto essere veri insieme – se i principi della matematica fossero stati diversi). Allo stesso modo, la nozione stessa di “connesione” è tale da escludere che un condizionale possa essere vero in virtù del mero fatto che il suo conseguente è necessario, o il suo antecedente è impossibile (evitando in tal modo i cosiddetti “paradossi dell’implicazione stretta” e del condizionale diodoreo): il nesso condizionale crisippeo è più forte, e deve esistere una reale connessione, logica o causale, tra l’antecedente e il conseguente, tale che se l’antecedente è (fosse) vero, anche il conseguente dovrà (dovrebbe) essere vero in virtù della verità dell’antecedente (sul condizionale crisippeo si veda L. Castagnoli, Il condizionale crisippeo e le sue interpretazioni moderne, "Elenchos", 25 (2004), pp. 353-395; Synartesis crisippea e tesi di Aristotele, in M. Alessandrelli e M. Nasti De Vincentis (a cura di), La logica nel pensiero antico, Napoli 2009, pp. 105-163). Alcuni stoici post-crisippei introdussero altri tipi di asseribili non semplici, tra cui il “paracondizionale” (parasynemmenon), della forma “Dal momento che (epei) p, q”, il “causale” (aitiodes), della forma “Poiché (dioti) p, q” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 71-4), e due forme distinte di “paradisgiuntivo” (paradiezeugmenon), con condizioni di verità differenti rispetto a quelle del diezeugmenon crisippeo (Aulo Gellio, Notti Attiche, XVI 8.14).Il sillogismo crisippeo (*)Con i tre asseribili non semplici della logica crisippea (congiunzione, condizionale e disgiunzione) giungiamo finalmente alla teoria dell’argomento valido e alla sillogistica, a cui sappiamo che Crisippo dedicò non meno di 18 opere. Un argomento (logos) è definito come un composto di (due o più) premesse (lémmata) e conclusione (epiphorá o sympérasma) (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 45); sia le premesse sia la conclusione sono asseribili (con alcune eccezioni che non è necessario prendere in esame qui). È chiaro sin dall’inizio che anche per Crisippo non possono esistere argomenti con una sola premessa, analogamente alla condizione di pluralità delle premesse del sillogismo aristotelico (almeno due); solo lo stoico Antipatro sposò la tesi non ortodossa che si danno argomenti con una sola premessa (monolémmatoi logoi: Sesto Empirico, Contro i logici, II 443). Tra gli argomenti, alcuni sono validi o “concludenti” (synaktikoí, perantikoí) e altri sono invalidi o “inconcludenti” (asynaktoi, apérantoi). Un argomento è valido se e solo se la sua conclusione segue dalle premesse (se c’è un rapporto di akolouthia tra le premesse e la conclusione), cioè quando il condizionale che ha la congiunzione delle premesse come suo antecedente e la conclusione come conseguente è vero (cfr. Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, II 137). Secondo tale principio di condizionalizzazione, un argomento della forma p, q+- r sarà valido se e solo se il corrispondente asseribile condizionale (pandq) → r è vero. Dal momento che, come abbiamo visto, per Crisippo un condizionale è vero se e solo se il contraddittorio del conseguente è in conflitto con l’antecedente, ne risulta che un argomento è valido se e solo se il contraddittorio della conclusione è in conflitto con la congiunzione delle premesse (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 77). Un argomento è

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invalido, dunque, quando l’asseribile contradditorio della conclusione non confligge con le premesse (cioè la conclusione potrebbe essere falsa anche se le premesse sono vere). Alla luce della condizione vista sopra che un argomento deve avere almeno due premesse, nonostante tutti gli argomenti validi corrispondano a condizionali veri, non tutti i condizionali veri corrispondono ad argomenti validi (per esempio, il condizionale “se è giorno, c’è luce” è vero, ma “è giorno; dunque c’è luce” non è un argomento stoicamente valido).Agli stoici è anche attribuito dalle nostre fonti una classificazione di quattro modi distinti in cui gli argomenti possono risultare invalidi (Sesto Empirico, Contro i logici, II 429-34). Oltre alla situazione tipica in cui l’argomento non ha la corretta forma logica (l’esempio usato è quello della fallacia classica della negazione dell’antecedente: p→q, p +- q), meritano una menzione particolare gli argomenti invalidi per “superfluità” o “ridondanza” (katà parolkén): se una delle premesse è superflua, nel senso che è irrilevante per la verità della conclusione, che segue anche qualora la premessa sia eliminata, allora l’argomento iniziale è invalido:(1) Se è giorno, c’è luce.(2) È giorno.(*) La virtù è un bene.------------------------------(3) Dunque c’è luce.Incontriamo qui una prima differenza fondamentale tra la logica crisippea e il calcolo proposizionale classico a cui essa è stata troppo facilmente associata al momento della sua riscoperta: la logica crisippea non è monotonica, cioè non si dà il caso che aggiungendo una qualsiasi premessa a un argomento valido l’argomento rimanga valido. Questo dipende dalla concezione di “conseguenza” che dal condizionale connessivo crisippeo si estende, tramite il principio di condizionalizzazione, alla validità di un argomento: se in un condizionale vero il conseguente deve essere “connesso” all’antecedente in modo tale che se l’antecedente è (o fosse) vero, allora anche il conseguente deve (o dovrebbe) essere vero in virtù, o a causa, della verità dell’antecedente, allora anche in un argomento valido la conclusione deve seguire in virtù di tutte le premesse assunte e non semplicemente di un sottoinsieme di esse. Da questo punto di vista, l’analogia tra il criterio di rilevanza che governa la validità crisippea e la condizione di pertinenza logica delle premesse del sillogismo aristotelico è evidente, e la logica crisippea è stata più recentemente e correttamente associata, così come la logica aristotelica, alle moderne logiche “connessive” o “della rilevanza” (cfr. J. Barnes, Proof destroyed, in M. Schofield, M. Burnyeat, J. Barnes (a cura di), Doubt and Dogmatism: Studies in Hellenistic Epistemology, Oxford 1980, pp. 161-181; L. Castagnoli, artt. citt.).Nell’ambito degli argomenti validi, la logica crisippea distingue tra “argomenti sillogistici” (syllogistikoì lógoi) o, più semplicemente, “sillogismi” (syllogismoí) e argomenti “validi in maniera specifica” (perantikoì eidikôs) (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 78). Non è dato ritrovare nell’Órganonaristotelico alcuna analoga distinzione esplicita tra validità e sillogisticità. Sono sillogismi quegli argomenti che o hanno la forma logica di uno dei cinque cosiddetti argomenti “anapodittici” o “indimostrabili” (anapódeiktoi), o possono essere “ridotti” (anaphéresthai) a, o “analizzati” o “risolti” (analyein) in, anapodittici (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 78). I cinque sillogismi “anapodittici” di Crisippo hanno tutti la medesima struttura: essi sono composti da una “premessa dominante” (hegemonikòn lêmma), “una premessa aggiuntiva” (próslepsis) e una conclusione (epiphorá o sympérasma). In tutti gli anapodittici la premessa dominante, o “tropica” (tropikón), è un asseribile non semplice: condizionale (primo e secondo anapodittico), congiunzione negata (terzo anapodittico) e disgiunzione (quarto e quinto anapodittico), mentre la premessa aggiuntiva è uno degli asseribili che compongono la premessa dominante o la sua negazione:p?q, p+- q Se è giorno, c’è luce; ma è giorno; dunque c’è luce p?q, ¬q+- ¬p Se è giorno, c’è luce; ma non c’è luce; dunque non è giorno. ¬(p&q), p +- ¬q Non: 2+2=5 e Parigi è la capitale della Francia; ma Parigi è la capitale della Francia; dunque non: 2+2=5.

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p v q, p +- ¬q O è giorno oppure è notte; ma è giorno; dunque non è notte.p v q, ¬p +- q O è giorno oppure è notte; ma non è giorno; dunque è notte.La validità degli anapodittici non richiede (e non ammette) dimostrazione, in quanto autoevidente (analogamente alla sillogisticità dei “sillogismi perfetti” aristotelici di I figura); questa autoevidenza potrebbe consistere nell’evidente verità del condizionale corrispondente, o forse nel fatto che comprendere il significato dei connettivi coinvolti è già di per sé sufficiente a “vedere” la validità degli anapodittici. Come i sillogismi aristotelici , i sillogismi stoici non sono tesi logiche, ma schemi di inferenza validi (o meglio, schemi inferenziali sono i cosidetti “modi” (trópoi) sillogistici, in cui ad asseribili concreti vengono sostituiti gli ordinali “il primo”, “il secondo”, “il terzo”, ecc., con funzione simile a quella delle nostre variabili proposizionali: per brevità ho sostituito i tipici ordinali stoici con le lettere p, q, r). L’unione delle due condizioni secondo cui un argomento deve avere almeno due premesse e in un argomento valido tutte le premesse devono essere rilevanti esclude la maggior parte degli argomenti che hanno la conclusione identica a una delle premesse (per esempio, p +- p o p, q +- p), in modo analogo, ancora una volta, a quanto accade per i syllogismoíaristotelici. Esistono però eccezioni alla regola, rappresentate dai cosidetti argomenti “non differentemente concludenti” (adiaphoros peraínontes), quali per esempiop?p, p+- p Se è giorno, è giorno; ma è giorno; dunque è giorno.p v ¬p, p+- p O è giorno o non è giorno; ma è giorno; dunque è giorno.p v ¬p, ¬p+- ¬p O è giorno o non è giorno; ma non è giorno; dunque non è giornoQueste istanziazioni di anapodittici non violano la condizione di rilevanza: sebbene infatti la conclusione segua dalla premessa aggiuntiva presa da sola (i “condizionali duplicati” della forma p?p o ¬p?¬p sono veri), esiste una derivazione valida che include anche la premessa dominante.Argomenti validi che non rispondono allo schema inferenziale dei cinque anapodittici sono anch’essi “sillogistici” qualora siano riducibili agli anapodittici tramite l’applicazione di una o più regole di inferenza di secondo livello, chiamate thémata, che operano su argomenti complessi “risolvendoli” o “analizzandoli” in argomenti più semplici. La sillogistica crisippea dunque non procede per deduzione di argomenti complessi a partire dai cinque indimostrabili utilizzati come assiomi, ma si serve di un “test di sillogicisticità” applicabile a qualsiasi argomento dato, e basato su una procedura di decisione della riducibilità dell’argomento agli anapodittici. Le nostre fonti fanno riferimento all’esistenza di quattro thémata, ma la precisa ricostruzione di alcuni di essi è controversa. Il primo thema garantisce che “quando da due asseribili un terzo segue, allora da uno dei due insieme al contradditorio della conclusione segue il contraddittorio dell’altro” (Apuleio, Sull’interpretazione, 209.12-14):(I) Se p, q +- r allora p, ¬r +- ¬q e q, ¬r +- ¬p.Per esempio, l’argomento p, q+- pandq (“Piove; è freddo; dunque piove ed è freddo”) è sillogistico perché è riducibile al terzo anapodittico tramite l’applicazione del primo thema: dal contradditorio della conclusione, -(pandq), e una qualsiasi delle premesse (per esempio p) segue sillogisticamente il contradditorio dell’altra premessa (-q). Per quanto riguarda gli altri tre thémata, mi limito a riportare qui l’eccellente (per quanto inevitabilmente congetturale) ricostruzione proposta da Susanne Bobzien (Stoic Syllogistic, "Oxford Studies in Ancient Philosophy", 14 (1996), pp. 133-192):(II) Quando da due asseribili p e q segue un terzo asseribile r, e da r e uno tra p e q (o entrambi) segue un quarto asseribile s, allora s segue da p e q;(III) Quando da due asseribili p e q segue un terzo asseribile r, e da r e un asseribile esterno t (o da r e due o più asseribili esterni t, u ...) segue un quarto asseribile s, allora s segue da p, q e t (e u...);(IV) Quando da due asseribili p e q segue un terzo asseribile r, e da r e uno tra p e q (o entrambi), con l’aggiunta di asseribile esterno t (o di due o più asseribili esterni t, u ...), segue un quarto asseribile s, allora s segue da p, q e t (e u...).L’applicazione dei thémata ad argomenti complessi offre una procedura finita e semimeccanica che permette di determinare la sillogisticità di una quantità di argomenti usati dagli stoici, quali per

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esempio i dilemmi costruttivi della forma p?q, ¬p?q, p v ¬p +- q e gli argomenti “a partire da due premesse composte” (dià tôn dyo tropikôn) [cf. PASSO ANTOLOGICO 3 stoici].Gli argomenti validi ma non sillogistici, perché non riducibili agli anapodittici, sembrano avere incluso almeno i seguenti gruppi: (1) gli “argomenti totalmente ipotetici” (della forma p?q, q?r +- p?r); (2) gli “argomenti iposillogistici”, che hanno una forma logica soggiacente equivalente a quella di argomenti sillogistici, ma non sono formulati in maniera appropriata (per esempio “q segue da p; ma p; dunque q”, è equivalente al primo anapodittico, ma la sua premessa dominante non ha la forma richiesta di un asseribile condizionale “se p, q”); (3) gli “argomenti concludenti in maniera non metodica” (amethodos peraínontes), per cui non esiste alcuna procedura formale di dimostrazione della validità (per esempio, “È giorno; ma tu dici che è giorno; dunque tu dici il vero”, cfr. Alessandro di Afrodisia, Commento al I libro degli Analitici Primi di Aristotele, 345.20-30). L’iposillogisticità è un chiaro indizio dell’interesse crisippeo per la costruzione di un sistema di sillogistica formale (o semiformale), quell’interesse che, come abbiamo visto, sollevò aspre critiche fin dall’Antichità; un analogo interesse non è riscontrabile in Aristotele, che per esempio, per formulare premesse universali affermative, usava in maniera indifferente e intercambiabile “A appartiene a tutti i B” o “A è predicato di tutti i B”.Agli argomenti validi non sillogistici dovevano appartenere anche quegli argomenti che “traducono” nella logica ipotetica stoica i sillogismi predicativi aristotelici. Per gli stoici una proposizione universale affermativa della forma “Tutti i B sono A” andrebbe riformulata in forma condizionale: “Se qualcosa è B, quella cosa è A” (Sesto Empirico, Contro gli etici, 11). Sulla base di questa traduzione, un sillogismo aristotelico in Barbara assumerebbe la seguente forma:(A) (C) (4) Ogni piacere è un bene. Se qualcosa è un piacere, quella cosa è un bene.(5) Ogni bene è un fine. Se qualcosa è un bene, quella cosa è fine.(6) Dunque ogni piacere è un fine. Dunque se qualcosa è un piacere, quella cosa è un fine.Sebbene anche una volta che venga riformulato in questo modo il sillogismo aristotelico in Barbara (A) non sia un sillogismo crisippeo – (C) non è riducibile agli anapodittici e assomiglia piuttosto agli argomenti “totalmente ipotetici” –, questo esempio mostra “in azione” la differenza fondamentale nell’analisi della forma logica di enunciati e argomenti tra una logica dei termini e una logica delle proposizioni (o degli asseribili, per usare il vocabolario stoico).Ovviamente un argomento valido, che sia sillogistico o meno, non può avere premesse vere e una conclusione falsa (mentre una conclusione vera può seguire validamente da premesse false). Un argomento è “vero” (alethés), per gli stoici, quando è non solo valido, ma ha anche tutte le premesse (e dunque la conclusione) vere. Con la discussione della verità materiale degli argomenti e dello status epistemico delle premesse e della conclusione, muoviamo al di là del terreno della sillogistica e giungiamo alla teoria stoica della dimostrazione, che è anch’essa parte della sezione dialettica della logica: una dimostrazione (apódeixis) è definita come un argomento valido e vero, la cui conclusione non evidente viene “rivelata” dalle premesse (Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, II 143). Così come in Aristotele, la teoria della validità e del sillogismo sono al servizio della teoria della conoscenza scientifica (oltre che al servizio dell’identificazione e diagnosi di fallacie, sofismi e paradossi, di cui Crisippo si occupò estesamente). Ma invece che inoltrarci in questo terreno, tracciamo ora alcune conclusioni generali sui rapporti tra la sillogistica aristotelica e quella stoica.Conclusioni (*)Nella sezione di questa voce dedicata alla sillogistica stoico -crisippea, abbiamo messo in evidenza un certo numero di interessanti analogie che intercorrono tra questa e la sillogistica aristotelica . Se e in quale misura lo sviluppo della logica e sillogistica stoica sia stato influenzato, storicamente, dagli scritti di Aristotele, o dai successivi sviluppi della sillogistica ipotetica di Teofrasto, è quasi impossibile divinare (su questo punto si veda J. Barnes, Aristotle and Stoic Logic, in K. Ierodiakonou (a cura di), Topics in Stoic Philosophy, Oxford, 1999, pp. 23-53).Indipendentemente dalla questione delle loro interrelazioni storiche, è evidente che sin dalla tarda Antichità i due grandi sistemi sillogistici vennero percepiti come alternativi e rivali, e non come

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compatibili e complementari, diversamente dunque dal modo in cui il loro rapporto è stato costruito al momento della riscoperta della logica stoica nel XX secolo (per un’analisi approfondita della questione si veda Frede, Stoic vs. Aristotelian Syllogistic, "Archiv für Geschichte der Philosophie", 56 (1974), pp. 1-32, rist. in Id., Essays in Ancient Philosophy, Oxford, 1987, pp. 99-124). Il partito aristotelico pone la relazione di “predicazione” o “appartenenza” (universale o particolare) tra termini e predicati (o l’assenza di tale relazione) alla base dell’analisi della forma logica degli argomenti; il campo stoico consegna la stessa funzione alle due diverse relazioni di “conseguenza” e “conflitto” che intercorrono (o non intercorrono) tra asseribili e stati di cose. Questa diversa scelta ha radici metafisiche ed epistemologiche profonde, che non è possibile indagare qui, ma che escludono che un filosofo tardo-antico, per cui la logica è parte di un sistema unitario di comprensione della realtà, potesse conciliare irenicamente le due logiche come approcci diversi, ma utilmente complementari, allo studio dell’inferenza valida.Al di là del dibattito sulla natura stessa della logica come parte o strumento della filosofia, che è uno dei capitoli del disaccordo tra stoici e aristotelici, come abbiamo visto la sillogistica sta alle fondamenta della teoria della dimostrazione scientifica tanto per Aristotele quanto per Crisippo. Mentre Aristotele viene però spesso accusato dai suoi critici di avere fatto, dopo tutto, un uso limitatissimo, se non addirittura nullo, del presunto “strumento” sillogistico nell’ambito della concreta pratica del suo discorso filosofico e scientifico, gli stoici sono ben noti per il loro frequente ricorso ad argomenti in rigorosa forma sillogistica nell’ambito della loro fisica, etica e teologia, come illustrato dal sillogismo che presentiamo qui a fianco (Cicerone, Sulla divinazione, I 82-83):(1) Se (p) gli dèi esistono e (q) non rivelano il futuro agli uomini, o (r) gli dèi non amano gli uomini, o (s) gli dèi ignorano il futuro, o (t) gli dèi pensano che non sia nell’interesse degli uomini conoscere il futuro, o (v) gli dèi pensano che non sia dignitoso da parte loro fornire agli uomini segni riguardanti il futuro, o (w) gli dèi non sono in grado di fornire agli uomini segni riguardanti il futuro. (p&¬q)?(r v s v t v v v w)(2) Ma né (r) gli dèi non amano gli uomini, né (s) gli dèi ignorano il futuro, né (t) gli dèi pensano che non sia nell’interesse degli uomini conoscere il futuro, né (v) gli dèi pensano che non sia dignitoso da parte loro fornire agli uomini segni riguardanti il futuro, né (w) gli dèi non sono in grado di fornire agli uomini segni riguardanti il futuro. ¬(r v s v t v v v w)(3) Dunque non si dà il caso che (p) gli dèi esistono e (q) non rivelano il futuro agli uomini. ¬(p&¬q) – da (1) e (2) per il secondo anapodittico(4) Ma (p) gli dèi esistono. P(5) Dunque (q) gli dèi rivelano il futuro agli uomini (e la divinazione è una scienza). q – da (3) e (4) per il terzo anapoditticoSecondo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VII 179), il giovane Crisippo pregava il suo maestro Cleante di insegnargli solo le dottrine della Stoa, sostenendo che si sarebbe occupato di trovare le dimostrazioni egli stesso: come lo stoico Posidonio avrebbe rimarcato oltre un secolo più tardi, la logica stoica non è solo uno strumento di difesa da attacchi esterni, ma costituisce l’ossatura stessa del discorso filosofico, necessaria a dare forma, consistenza e coesione, dall’interno, al complesso organismo delle teorie della scuola.