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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 NUMERO 520 Cult VASCO ROSSI P RATICAMENTE FU UN SUCCES- SONE. DA SUBITO. Ma un successone di brutto. Da Modena, da Reggio, da Bologna, fin da piazza San Marco, a Venezia, un mucchio così di gente che ci voleva conosce- re, parlarci, tanto che all’inizio ab- biamo dovuto dare il numero di te- lefono di casa mia, e a rispondere c’era mia mamma. Tutto all’oscuro di mio padre, naturalmente, che però siccome faceva il camionista era quasi sempre via. Invece in pae- se, sull’Appennino modenese, a Zocca, che è dove sono nato io e tut- ti gli altri, vedevano sì il gran movi- mento, ma non riuscivano a capirlo proprio esattamente. Ci chiedeva- no: «Ma che cos’è che state facen- do?». E noi: «Stiamo facendo una ra- dio». E loro: «Come una radio?» — perché molti pensavano che stessi- mo costruendo un apparecchio, e gli sembrava piuttosto strano: «Tutta ‘sta gente qua per far su una radio?». E noi: «Ma no, una radio per far ascoltare quello che diciamo nel- la radio». E allora loro ci dicevano «Ma va a cagare!». Ci prendevano per matti, non capivano come po- tessimo trasmettere, noi, dentro una radio. Non ce n’era mica in quel momento là. Solo una, ma su a Mi- lano, e poi la Rai. Dopo, sei mesi do- po, hanno cominciato a venir fuori le altre. Red Ronnie si può anche at- taccare, dai retta a me, ha iniziato un anno dopo, lui, con una radio pic- cola che tra l’altro si era messa sulle nostre stesse frequenze. Un giorno prendo su e scrivo la mia autobio- grafia e le dirò tutte queste cose qua, le dirò. Adesso, intanto, però, fatemi raccontare come nacque la nostra di radio, giusto quarant’an- ni fa, e perché fu grazie a lei se poi si liberarono tutte le altre. Dunque, al- lora, dicevamo la frequenza: erava- mo sui 103.7, o forse 103.8, no, no, eccola: sui 104, eravamo sui 104. In- fatti: volevamo essere sicuri di sta- re verso la fine della banda. Ma cominciamo dal principio. A Zocca quell’anno lì era l’estate del ‘72 e noi avevamo bisogno di far qualcosa per divertirci che non c’e- ra mai niente da fare. Mettiamo su una discoteca. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Radio Vasco L’attualità. Richard Dawkins: “Credo solo nell’agnosticismo” L’inedito. Madame De Staël e il gingillo di Bonaparte Spettacoli. Phoenix: “Una vita squilibrata” La copertina. L’arte del dubbio nell’epoca della bufala Straparlando. Alvar González-Palacios: io e Caravaggio Mondovisioni. Palazzo con vista su piazza Tahrir Se quarant’anni fa nascevano le prime radio libere fu anche grazie a un ragazzo di Zocca e ai suoi amici Il signor Rossiracconta a“Repubblica” quell’avventura bella e spericolata ZOCCA (MODENA), 1972: UN VASCO ROSSI VENTENNE ESCE DALLA CHIESA DEL SUO PAESE DOPO UNA MESSA ROCK/FOTO GENTILMENTE CONCESSA DA ARTURO BERTUSI PER CHIAROSCURO CREATIVE.COM

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 NUMERO 520

Cult

VASCO ROSSI

PRATICAMENTEFUUNSUCCES-SONE. DA SUBITO. Ma unsuccessone di brutto. DaModena, da Reggio, daBologna, fin da piazza

San Marco, a Venezia, un mucchiocosì di gente che ci voleva conosce-re, parlarci, tanto che all’inizio ab-biamo dovuto dare il numero di te-lefono di casa mia, e a risponderec’era mia mamma. Tutto all’oscurodi mio padre, naturalmente, cheperò siccome faceva il camionistaera quasi sempre via. Invece in pae-se, sull’Appennino modenese, aZocca, che è dove sono nato io e tut-ti gli altri, vedevano sì il gran movi-mento, ma non riuscivano a capirloproprio esattamente. Ci chiedeva-no: «Ma che cos’è che state facen-do?». E noi: «Stiamo facendo una ra-dio». E loro: «Come una radio?» —perché molti pensavano che stessi-mo costruendo un apparecchio, egli sembrava piuttosto strano:«Tutta ‘sta gente qua per far su unaradio?». E noi: «Ma no, una radio perfar ascoltare quello che diciamo nel-la radio». E allora loro ci dicevano«Ma va a cagare!». Ci prendevanoper matti, non capivano come po-tessimo trasmettere, noi, dentrouna radio. Non ce n’era mica in quelmomento là. Solo una, ma su a Mi-lano, e poi la Rai. Dopo, sei mesi do-po, hanno cominciato a venir fuorile altre. Red Ronnie si può anche at-taccare, dai retta a me, ha iniziatoun anno dopo, lui, con una radio pic-cola che tra l’altro si era messa sullenostre stesse frequenze. Un giornoprendo su e scrivo la mia autobio-grafia e le dirò tutte queste cosequa, le dirò. Adesso, intanto, però,fatemi raccontare come nacque lanostra di radio, giusto quarant’an-ni fa, e perché fu grazie a lei se poi siliberarono tutte le altre. Dunque, al-lora, dicevamo la frequenza: erava-mo sui 103.7, o forse 103.8, no, no,eccola: sui 104, eravamo sui 104. In-fatti: volevamo essere sicuri di sta-re verso la fine della banda.

Ma cominciamo dal principio. AZocca quell’anno lì era l’estate del‘72 e noi avevamo bisogno di farqualcosa per divertirci che non c’e-ra mai niente da fare. Mettiamo suuna discoteca.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

Radio VascoL’attualità. RichardDawkins: “Credo solonell’agnosticismo”L’inedito. MadameDe Staël e il gingillodi BonaparteSpettacoli. Phoenix:“Una vita squilibrata”

La copertina. L’arte del dubbio nell’epoca della bufalaStraparlando. Alvar González-Palacios: io e CaravaggioMondovisioni. Palazzo con vista su piazza Tahrir

Se quarant’anni fa nascevano le prime radio libere fu anche grazie a un ragazzo di Zocca e ai suoi amici Il signor Rossiracconta a“Repubblica”quell’avventura bella e spericolata

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Eravamo

la Repubblica

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 28LA DOMENICA

<SEGUE DALLA COPERTINA

VASCO ROSSI

AVEVAMO UN GIRADISCHI SOLO, quello di Marco Gherardi dettoGherardo. Le casse le aveva costruite lui insieme a Lucio, chepoi è Lucio Serra, genio del paese, uno che se non ci fosse sta-to lui non sarebbe partito proprio un bel nulla. Le casse eranoenormi e secondo noi si sentivano molto bene. C’era uno chemetteva su i dischi, l’altro che li tirava via e io che parlavo almicrofono. Avevamo una sincronia della madonna: tac, tactac. Eravamo il mixer. Io ero anche quello con la chitarra, pas-savamo dei gran pomeriggi a suon di Battisti, ma quando in-vece facevo sentire le mie di canzoni non è che gli amici era-no troppo contenti. Dicevano «scappa scappa che arriva Va-sco». Lo sapevo anch’io che le mie canzoni in confronto a quel-

le di Guccini, o di De André, il mio mito, facevano veramente pena. La prima un po’ carinaera una che diceva “Era vestita di bianco lo stesso” e parlava di una ragazza che si dovevasposare e che per sposarsi si era vestita di bianco anche se in paese lo sapevano tutti che neaveva combinate di ogni. Era una cosa così, era una cosa ingenua e così resterà.

Ma già, la discoteca. Quell’estate lì prendemmo in affitto la pista di pattinaggio, che poi almattino ci toccava smontare tutto, anche il bar che avevamo costruito con dei tronchi di pi-no. La chiamammo “Il Punto Club”. D’estate a Zocca c’era la villeggiatura: la gente aveva leseconde case e veniva su da Bologna a prendere un po’ d’aria, per cui si formò tutta una com-pagnia intorno a questa discoteca. I conti però non tornavano mai, ché bevevamo quasi tut-to noi. Un bel giorno Gherardo, che era partito a militare a Milano, torna e mi fa: «A Milanoc’è una radio che trasmette in Fm pirata». E io: «Ma come fa?». Perché noi un po’ di queste co-se qua le sapevamo già per via del baracchino, roba da radioamatori che ci eravamo costruiticon Lucio all’università. E lui: «Ha messo su un trasmettitore». Ho pensato: questa è un’ideageniale. Non esisteva niente che trasmettesse la musica che piaceva a noi, i Genesis, i PinkFloyd, Bruce Springsteen, Lou Reed. Sì, Lucio aveva costruito un impiantino che trasmet-teva da casa sua in cortile, dove venivano gli amici e le ragazze per ascoltare i nostri dischi.Ma fare una radio: che sogno è? Quel giorno ho visto passare il treno da Zocca, ché di ferro-via lì non ce n’era, e ho detto: ragazzi, questo treno noi lo dobbiamo prendere per forza.

Andiamo su a Milano, che io ancora non c’ero mai stato, e dal tipo di Radio Milano Inter-national ci facciamo vendere un trasmettitore da dieci watt che non è che andasse molto be-ne, ma noi ce lo siamo fatto andar bene ugualmente. Poi affittiamo una casa a Montombra-ro, accanto a Zocca, perché sta sulla cresta, a 750 metri d’altezza, e dì li vedi tutta la pianu-ra. Lo disse Lucio: «Qui va bene perché con gli Fm copri tutta la pianura». Chiediamo a quel-li della discoteca se ci stanno a fare la radio. Siamo una decina. Soci fondatori. Per iniziareperò bisogna fare una società, chiedere un prestito in banca e designare un amministrato-re. E a quel punto tutto il progetto già si arena: chi se la prende la responsabilità? Dico: «Io,lo faccio io!», tanto non avevo mica niente daperdere ma sapevo che si apriva un mondo eche ci stava aspettando. In banca ci danno unfido di sette milioni di lire, ed erano dei gransoldi (probabilmente ce li diedero solo per-ché c’erano dentro Marco Gherardi e MarcoManzini, figli di famiglie in vista in paese).Montiamo delle antenne stratosferiche fat-te costruire secondo le regole di Lucio. E co-minciamo a far le prove. Punto Radio, la chia-miamo così. Io parto in macchina per anda-re a vedere giù dalla collina come si prende:due curve e non sento più niente; poi però va-do avanti e zac! qui invece si sente; poi di nuo-vo niente. In pratica scopriamo che l’Fm ar-riva solo dove vedi. Così, per dire: in certe zo-ne di Bologna non arrivava perché c’era lacollinetta di San Luca, in compenso si senti-va fino a Venezia. L’aveva detto Lucio. Daquell’altezza coprivamo tutta la pianura: fi-no a piazza San Marco c’eravamo solo noi, eRadio Milano International.

Era il ‘75, cominciamo a trasmettere il 21settembre e salta fuori subito il primo pro-blema: microfono. Nessuno voleva parlarcidentro. Poi alla fine a Zocca le cose funziona-no sempre così: io ero quello che suonava lachitarra, io ero quello che d’estate faceva ildj e quindi dovevo essere io anche quello cheparlava al microfono. Ma non potevo micaparlare solo io, anche perché trasmetteva-mo 24 ore su 24: di notte nastri preregistra-ti e al mattino i turni per aprire alle otto (aproposito: la nostra prima sigla è stata Jessi-cadegli Allman Brothers Band, prova un po’a metterlo su va’). All’inizio ci alternavamoin tre, o quattro, imparò anche Manola, la Ri-ghetti, unica donna, si vergognava per viadella timidezza. Io facevo i palinsesti, ero ildirettore e l’amministratore, pensa un po’te, quello che doveva tenere i conti a postoche dopo cinque anni di Ragioneria non sa-pevo neanche cosa volesse dire tenere i con-ti a posto. Poi c’era Marietto che gli piacevala musica pop, nel senso di pop-rock, ma an-che a Manzini piaceva. Musica leggera mai.Di italiano solo i cantautori.Praticamente mette-vamo su solo la mu-sica che ascolta-vamo noi. Bel-la, bella musi-ca. Non c’eraconfronto con lealtre radio chepoi sarebbe-ro arri-v a -

La copertina. Radio Vasco

te, eravamo avanti anni luce noi. Una cosainimmaginabile per quei tempi là, che tu eriabituato alla Rai, che al massimo ti mettevasu Dalla, una volta a settimana, oppure un’o-ra Per voi giovani, poi finita, solo canzonetteche per l’amor di dio ma a noi non ci piace-vano mica. E mica solo a noi. E infatti. Quan-do nacque la radio andarono tutti nei matti.

A quei tempi non si chiamavano ancoraradio “libere”, eravamo radio “pirata”. Tan-to pirata che dopo un anno, estate del ‘76, icarabinieri di Zocca vengono su, mettono isigilli e, in quanto amministratore, mi de-nunciano all’Escopost. Finisce tutto al pre-tore di Vignola, che per fortuna era una per-sona illuminata e dopo due settimane disse-questra tutto. Poi arriva da Genova un avvo-cato, l’avvocato Porta, uno che si era già oc-cupato di queste cose qua, e mi dice: guardisignor Vasco, la difendo io, e la difendo gra-tis perché voglio portare avanti una batta-glia di libertà. Sosteneva che il monopolioRai non era costituzionale. Perfetto dico io,anche perché altrimenti non avrei saputo dache parte voltarmi. Fu la mia prima volta intribunale (poi dopo ce ne sono stateanche delle altre) e alla fine vengoassolto con formula piena: il mo-nopolio della Rai era antico-stituzionale. Quella sentenzaha fatto diventare “libere”tutte le radio d’Italia.

Dopo il processo e coltempo diventava-mo sempre piùbravi, più pro-fessionali.Per dirneu n a ,dentrola ra-

“Avevamo vent’anniquarant’anni faDall’Appenninoci sentivanofino in San Marco,a Venezia,e mandavamoin onda soltantobella musica”Il signor Rossiraccontacome nacquerole radio libereE come poi diventòuna rockstar

LA COMBRICCOLA

PRIMAVERA1976, FOTO DI GRUPPO DAVANTI AL RESIDENCE GIULIANA DI ZOCCA, SECONDA SEDE DI “PUNTO RADIO”. 1. VASCOROSSI (OGGI ROCKSTAR) 2. MAURIZIO FERLITO(INGEGNERE) 3. IVO RIGHETTI(ATTIVITÀ COMMERCIALE) 4. ANTONELLA (IMPIEGATA) 5. GIOVANNI UBALDI(IMPRENDITORE) 6. GERRY7. FLORIANO FINI (MANAGER E PRODUTTORE DI VASCO)8. GAETANO CURRERI (LEADER DEGLI STADIO)9. SERGIO SILVESTRI (HA UN’AZIENDA FAMILIARE) 10. RICCARDO BELLEI(GIORNALISTA) 11. RICCARDORODOLFI (REGISTA TEATRALE).LA FOTO È DI MARCO GHERARDIDETTO GHERARDO (HA UN’ATTIVITÀ FAMILIARE)

IL PRIMOGIORNOSALTÒ FUORIIL PRIMOPROBLEMA: IL MICROFONONON C’ERANESSUNO CHECI VOLESSEPARLAREDENTRO

VASCO ROSSI NEL 1975NELLA PRIMA SEDE DI “PUNTO RADIO”

A MONTOMBRARO,VICINO ZOCCA (MODENA)

IN QUEGLIANNI LÌPOTEVI SOLOSENTIRE LECANZONETTEDELLA RAI.NOICERCAVAMOLOU REED,I GENESISI PINK FLOYDLA COPERTINA DI “PUNTO

RADIO COMPILATION”,ANTOLOGIA

ALLEGATA AL VOLUME 9DEL “BLASCO STORY”

ORA C’ÈFACEBOOK.DOPO TUTTEQUESTECANZONISTA A VEDERE CHE SARÒRICORDATOPER UN CLIPPINO

FEBBRAIO 2015, VASCONEL SUO QUARTIER

GENERALE A BOLOGNAINCONTRA LA “DOMENICA

DI REPUBBLICA”

solo noi

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ceva un casino perché faceva canzoni diver-se da tutti: “dai su sbattiamoci”, cose così.

Insomma ci divertivamo, e ci divertivamoda matti, e a un certo punto ci siamo accortiche eravamo nei debiti. E che debiti. Settan-ta milioni, roba che se mio padre l’avesse sa-puto mi avrebbe fatto fuori. E allora chiamoun amico di Zocca, Gianni Monduzzi, che nelfrattempo era diventato ricco, oddio ricco,abbastanza, secondo noi, aveva due caseeditrici qui a Bologna. Veniva su a Zocca condei macchinoni e chiedeva a me, «ma secon-do te che macchina è meglio portar su percuccare di più, prendo la Porsche o quell’al-tra?», e io gli dicevo prendi la Porsche, nelsenso che, voglio, dire, se c’hai la Porscheprendi la Porsche — a me non me ne fregavamica niente, bastava avere i ribaltabili. Lochiamo e gli dico: Gianni vieni su ché noi sia-mo messi male. E allora lui accettò di com-prare il 30 per cento per sedici milioni. Poitrovò una cordata di industriali bolognesiche ci avrebbero dato 100 milioni all’anno dipubblicità se noi avessimo accettato qual-che compromesso, tipo spingere velata-mente il nostro pubblico a votare a destra.Ma noi eravamo degli idealisti, eravamo du-ri e puri, e non se ne fece niente. A quel pun-

to lì non ci rimaneva che chiedere aiutoal Partito comunista, giù a Modena:

prima ci promisero che l’avreb-bero comprata ripagando tut-

ti i debiti e lasciandocela in

la Repubblica

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 29

dio niente canne, che a Zocca ci guardavanogià come dei matti. Ci inventavamo conti-nuamente cose nuove. Una notte col Ma-rietto volevamo trovare il modo di fare comequelli di Radio Montecarlo che finivano diparlare proprio quando partiva il disco. E lotrovammo: loro avevano semplicemente deimixer da paura, noi invece mettevamo il di-sco sul piatto, ascoltavamo dove comincia-va, gli facevamo fare un giro indietro equando l’etichetta era tornata al punto giu-sto finivamo di parlare e il pezzo cominciava.Venivano su dalle altre radio per vedere iltrucco. Facevamo interviste: la prima a Guc-cini, io in via Paolo Fabbri al 43. La pubblicità— che per noi allora era il male, e per me lo èanche oggi — la prendevamo perché dove-vamo, ma massimo tre annunci all’ora e i te-sti li ideavamo e li interpretavamo noi. Perdire: a quelli della Coca Cola dicemmo no per-ché lo spot se lo volevano far loro. Ci davamo

anche uno stipendio: cin-quantamila al mese, che

vivendo tutti a casa deigenitori ci andava an-

che bene. Poi a uncerto punto siccometre di noi facevanodelle canzoni, co-

minciammo a chiamarci “Puntautori” e de-cidemmo di usare la radio per trasmettere lenostre canzoni. Quando ho fatto il primo 45giri, quello con Jenny è pazzae Silvia, ne ven-detti più di ventimila copie. Ma a me di an-dare su un palco a cantare e prendere deglischiaffi non è che proprio ci tenessi, e poi mipiaceva troppo fare il dj: ormai diventavo fa-moso e mi chiamavano anche nelle discote-che per mettere su robaccia, ma ero pieno disoldi e di figa e giravo per Modena con un cap-pello in testa che sembravo Clint Eastwood.

Anche su a Zocca, d’estate, continuavamoad avere sempre la nostra discoteca, solo chea quel punto arrivavano duemila persone asera, perché la radio tirava, e tirava da mat-ti. E allora facevamo venir su “le attrazioni”,è così che si chiamavano. Una volta a setti-mana ci doveva essere un cantante famoso.Io andavo a prenderle a Bologna, da Ballan-di, e prendevo quelle che ci potevamo per-mettere. Sandro Giacobbe, che aveva appe-na scritto il suo capolavoro, Signora mia, peresempio (lui lo mettemmo a dormire a casadella mia ragazza che dopo quella notte lìnon fu più la mia ragazza, anche se lei mi dis-se che non c’era stato niente ma io non le homai creduto), o Dino Sarti. Scritturai un gio-vanissimo Renato Zero, che a me pia-

gestione, poi ci convocarono a Bologna a unariunione del Comitaten Centralen del Polit-buro o come si chiamava e lì ci comunicaro-no che invece no, l’avrebbero gestita loro,che doveva diventare la radio del partito. Ioci rimasi di merda. Il Pci non era mai stato ilmio partito, semmai votavo socialista chémio padre era socialista, e comunque ero piùanarchico, un indiano metropolitano. Peròmi aspettavo che avrebbero capito il mio di-scorso, che noi volevamo fare una radio sen-za etichette perché solo così potevamo par-lare a tutti, anche a mia nonna per dire. Di-ventando una radio di partito sarà solo unmegafono per gli iscritti e non varrà più unasega. Gli dissi proprio così, e così fu.

Su una vecchia fanzine Manola ha scrittodi quel periodo lì: «Eravamo giovani, spen-sierati, senza malizia. Un bellissimo giocoche è durato quello che doveva. Personal-mente non ho rimpianti, solo bellissimi ri-cordi». È vero. Nessuna furbizia, nessunamalizia, e tutti quei ragazzi che erano lì a farla radio pensavano di fare un gioco, per unanno o per due e poi... Manola la segretariaa scuola, Ferlito l’ingegnere. Io ero quelloche non aveva nessun lavoro a cui pensare,se non il camionista, come mio padre. Mispiace che non abbia potuto mai vedereniente di tutto quello che ho fatto dopo, èmorto prima. Però so che una volta tornan-do a casa disse a mia mamma “Oh, oggi hosentito Vasco alla radio, ma sì che son sicu-ro, han detto proprio così: Vasco Rossi”. De-ve aver pensato che in qualche modo me lasarei cavata. Che è poi la stessa cosa che

penso anch’io dei miei figlioggi: non so bene che caz-

zo fanno, ma so che se lacaveranno.

MULTIMEDIA

OGGI SUL SITODI REPUBBLICA E DOMANI SU REPTVNEWS (ORE 13.45 E 19.45, CANALE 50DT E 139 SKY) VASCO ROSSIRACCONTA “PUNTO RADIO” CON AUDIO, VIDEOE FOTO

QUEL GIORNO DA ZOCCAVIDI PASSARE

IL TRENOCHÉ DI FERROVIA LÌ NON CE N’ERA. DISSI: RAGAZZI TOCCA PRENDERLOPER FORZA...

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IL PERSONAGGIO

RICHARD DAWKINSÈ NATO A NAIROBINEL 1941DA GENITORIINGLESI. NEL 1962SI LAUREAIN BIOLOGIAA OXFORD.TRA LE SUE OPEREPIÙ IMPORTANTIPUBBLICATEIN ITALIA(DA MONDADORI):IL GENE EGOISTA(1976), IL FENOTIPOESTESO (1982),L’ILLUSIONE DI DIO(2006),IL PIÙ GRANDESPETTACOLODELLA TERRA.PERCHÉ DARWINAVEVA RAGIONE(2009) E LA REALTÀÈ MAGICA: COSASAPPIAMODAVVERODEL MONDOCHE CI CIRCONDA(2011).IN GRAN BRETAGNAHA PUBBLICATOL’AUTOBIOGRAFIAAN APPETITEFOR WONDER(2013)

la Repubblica

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 30LA DOMENICA

RICARDO DE QUEROL

OXFORD

RACCONTA CHE DA BAMBINO AVEVA GIÀ CAPITO che Babbo Natale eraun signore mascherato che si chiamava Sam. Richard Dawkinsnon si accontenta di essere giunto alla conclusione che Dio nonesiste: vuole che lo capiscano tutti. Tiene alta la bandiera delloscetticismo, questo biologo e etologo dell’Università di Oxford,studioso di Charles Darwin, salito alla ribalta quando scrisse,ne Il gene egoista (1976), che non siamo altro che veicoli deigeni, macchine programmate per renderli quasi immortali. Daallora Dawkins è diventato un divulgatore scientifico e saggi-sta di successo, un frequentatore abituale degli studi televisi-vi e da tempo tiene viva la polemica anche sui social network,dove colpisce e viene colpito. Ritiene che la sua missione sia

quella di combattere i dogmi religiosi, le superstizioni e le pseudoscienze. Nel 2006, ha pub-blicato L’illusione di Dio, un libro che aspira fin dalla prima pagina a far perdere al lettore latanta o poca fede che gli è rimasta, un testo impetuoso e ironico che ha la pretesa di smon-tare uno per uno gli argomenti del cristianesimo e delle altre credenze religiose. Ne Il piùgrande spettacolo della Terra, 2009, Dawkins spiega lucidamente a qualsiasi profano le pro-ve schiaccianti del fatto che è la selezione naturale che ha modellato e continua a modella-re la nostra realtà. E in questo modo attacca il creazionismo, l’idea cioè che il mondo sia sta-to fatto in sei giorni e che l’uomo abbia convissuto con i dinosauri, argomenti che certi am-bienti di destra come il Tea Party cercano di far passare nel sistema scolastico americano.Nello stesso anno il suo attivismo ateo lo portò ad acquistare spazi pubblicitari sugli autobus

A colpi di saggi, talk show, spot , tweet e adesso anche con un’autobiografia adora provocare il mondo su temi sensibiliIl più scandaloso degli scienziati spiegacome iniziò a credere. Nell’agnosticismo

Non può essere dogmatico e intollerante

anche l’ateismo?

«Devi sempre argomentare la tua causa,non mettere a tacere la gente. Abbiamo ac-cettato per secoli che non si potesse critica-re la religione e che si facesse sembrare in-tollerante l’ateismo, ma non lo è».

Nei suoi libri si dice contrario al modo in

cui molte famiglie inculcano spiegazioni

magiche ai propri figli: “Perché gli adulti

coltivano la credulità dei bambini? È dav-

vero un errore pazzesco proporre ai bam-

bini che credono a Babbo Natale un picco-

lo e semplice gioco di domande e risposte

che li faccia pensare? Quanti camini do-

vrebbe visitare in una notte?”.

«Non si tratta di dirgli che Babbo Natalenon esiste, ma di stimolare l’abitudine diporsi delle domande con spirito critico».

Si rende conto che è un atteggiamento im-

popolare, vero?

«Ogni volta che propongo questo discorsomi mandano via a calci dicendo che voglio in-terferire nella magìa dell’infanzia».

Lei è anche un accanito utente di Twitter

(@RichardDawkins), dove ha suscitato

diverse polemiche.

londinesi con la scritta: “Probabilmente Dionon c’è. Smettila di preoccuparti e goditi lavita”. Oggi, a settantatré anni, Dawkins hatrovato il tempo per guardarsi indietro e af-frontare le sue memorie. Nella sua autobio-grafia, An appetite for wonder, (non ancorauscita in Italia) racconta come è giunto a es-sere quello che è. L’infanzia in Kenya da unafamiglia britannica di funzionari dell’Impe-ro con una tradizione tecnica e scientifica; ilritorno in Inghilterra all’età di otto anni; epoi il racconto della rigida scuola degli anniCinquanta, del bullismo e della sua balbuzie,del passaggio nelle università di Oxford, de-cisivo nella sua carriera, e di Berkeley, dovevisse l’esplosione del fenomeno hippy.

Ci riceve a casa sua, un imponente edificiotradizionale a Oxford, in un salone pieno diluce dove si può percepire un certo saporedel colonialismo che ha segnato la sua in-fanzia. Grandi sculture in legno di animali,maschere, tessuti etnici sui divani. Un pia-noforte, una tela sul suo leggìo. Libri, qual-che cranio sullo scaffale. Due piccoli cani dalpelo molto lungo si rallegrano della visita.

Ha scritto che la religione è al centro di

molti conflitti attuali, come in Siria e in

Iraq, in Palestina o in Ucraina. E, prima, in

Jugoslavia o in Irlanda. Non lotteranno

per la terra più che per la loro idea di Dio?

«Non credo che i conflitti siano motivatiunicamente e direttamente dalla religione.Per esempio, nell’Irlanda del Nord il conflit-to è tra cattolici e protestanti, ma non credoche le persone che mettevano le bombe pen-sassero al dogma della transustanziazione.La religione mette un’etichetta: in Irlandadel Nord si identificano come cattolici e pro-testanti benché parlino la stessa lingua e sia-no dello stesso colore. Ti identifica perfino ilnome: se ti chiami Patrick sei sicuramentecattolico, se William sei protestante. Tuttociò determina la tribù: ci sono due tribù in Ir-landa del Nord. Ed è stato così per secoli».

Lei era di fede anglicana e molto religioso

quando aveva tredici anni. Poi che è suc-

cesso? È stato Darwin?

«Già a nove anni mi ero reso conto che esi-stevano diverse religioni: il buddismo, l’i-slam, l’induismo, il politeismo dei greci, deivichinghi... Ogni bambino pensava che solola sua fosse quella vera. Io invece ero prontoper essere antireligioso. Non so perché ri-masi cristiano, sarà stata l’influenza dellascuola. Ma, effettivamente, sono statiDarwin e il darwinismo a salvarmi da tuttociò. Avevo quindici anni quando avvenne».

Perché ritiene necessario mobilitarsi con-

tro la religione?

«Sento l’assenza di qualsiasi ragione percredere in Dio o nelle fate. Come scienziato,la bellezza del mondo e dell’Universo micommuove. Come educatore, mi sembraperverso educare i bambini a delle falsitàquando la verità è così bella».

«Twitter è un posto strano perché c’è mol-ta gente che urla. Se cammini per strada, unubriaco o uno scemo ti possono insultare. Suinternet hai un moltiplicatore di questo ef-fetto. Bisogna avere la corazza».

Si è pentito di qualche tweet?

«Sì, perché è molto facile che vengano in-terpretati male».

Uno dei suoi tweet ha scatenato una bu-

fera: “Lo stupro subìto da uno che conosci

è brutto. Quello subìto da uno sconosciu-

to col coltello è peggio. Se pensi che que-

sta sia un’apologia del primo, vattene e

impara a pensare”.

«Credo che sia stupido negare che vi sianodiversi gradi nei delitti sessuali. C’è genteche per ragioni emotive vuole che tutti i cri-mini siano considerati dello stesso livello. Ècome pensare che il furto di un portafogliosia pari alla rapina a mano armata in unabanca. Sono tutti e due dei delitti, ma uno èpiù grave dell’altro. Non le pare?».

Mi sembra che qualsiasi violenza abbia

conseguenze gravi a lungo termine.

«Lo penso anch’io».E mi è difficile pensare a una violenza mo-

derata o una violenza lieve.

L’attualità.Questioni di fede

LA REALTÀ DIPENDEDA PARTICOLARIMOLTO PICCOLI.

PER ESEMPIO LA SECONDAGUERRA MONDIALENON SAREBBE SCOPPIATASE IL PADRE DI HITLERAVESSE STARNUTITOIN UN CERTO MOMENTO

È IMMORALE METTEREAL MONDO UN FIGLIODOWN CONDANNATO

A UNA VITA DI DOLORE.NON È UNA REGOLAUNIVERSALE, MA LO ÈPER ME E PER IL NOVANTAPER CENTO DELLE MADRIDAVANTI A QUELLA SCELTA

L’IDEA DI MIGLIAIADI INDIVIDUIRIPRODOTTI

IN COPIA MI FA ORRORESE QUALCUNO VOLESSECLONARMI SAREI MOLTOINCURIOSITO, NON VORREIMAI PERÒ CHE LA MIAREPLICA FOSSE LA PRIMA

COME STUDIOSOLA BELLEZZADEL MONDO

MI COMMUOVE.COME EDUCATOREMI SEMBRA PERVERSOEDUCARE I BAMBINIA DELLE FALSITÀ QUANDOLA VERITÀ È COSÌ BELLA

Le fatenon

esistonoE neanche

Dio

Intervista a Richard Dawkins“È stato Darwin a salvarmi”

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la Repubblica

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 31

«Non si tratta di questo. È in compagnia dimolti stupidi su Twitter. Quando uno diceche una cosa è peggiore di un’altra, non la staapprovando».

Dawkins ha inoltre offeso molti, con i suoi“cinguettii”, quando qualcuno gli chieseconsiglio su che cosa fare se il figlio che aspet-tava avesse avuto la sindrome di Down.«Abortisca e ci riprovi. Sarebbe immoralemetterlo al mondo se ha scelta», rispose.

Crede davvero che l’aborto sia un obbligo

morale nel caso della sindrome di Down?

«Ho detto che personalmente mi sembra-va immorale metterlo al mondo. Non che fos-se una regola universale, ma lo è per me e peril novanta per cento delle donne in quelle cir-costanze. Muoiono molto giovani, hannoterribili malattie, deficienza mentale. Credoche quando il feto non sia sufficientementesviluppato e non abbia un sistema nervoso,sia meglio abortire. Mi hanno bombardatosu Twitter inviandomi fotografie di bambi-ni Down e dicendomi: lei vuole uccidere miofiglio. Ovviamente non voglio uccidere il fi-glio di nessuno, ma fermare la possibilità chevengano al mondo altri bambini come luiquando non sono che degli embrioni».

Troverebbe preoccupante la clonazione

degli esseri umani?

«Uno scenario come quello de Il mondonuovodi Aldous Huxley, con quelle catene diproduzione di migliaia di copie di esseri uma-ni identici creati per fare i giardinieri o qual-siasi altro lavoro, mi fa orrore, perché io so-no un prodotto del Ventesimo secolo ed èqualcosa di molto lontano dal mondo a cui so-no abituato, dai miei valori. Se qualcuno vo-lesse clonarmi, mi interesserebbe molto, miincuriosirebbe molto, ma non vorrei che ilmio clone fosse il primo, perché sarebbe vit-tima di una spaventosa pubblicità».

In un programma televisivo le hanno pro-

posto un esperimento che non è poi stato

possibile realizzare. Volevano isolare il

suo genoma e seppellirlo nella tomba di

famiglia, davanti alle telecamere, affin-

ché qualcuno lo ritrovasse e lo resuscitas-

se tra un migliaio di anni. Era un pretesto

per discutere sulla clonazione, e così le

hanno chiesto se il suo clone del futuro sa-

rebbe stato lei stesso.

«No che non sarei stato io. È come chiede-re a due gemelli identici se sono due personeo se uno è una persona e l’altro uno zombie.

Un’altra cosa che mi volevano chiedere eradi scrivere dei consigli per il mio clone, affin-ché, visto che avrebbe avuto i miei stessi ge-ni, non commettesse i miei stessi errori».

Lei si interroga sul concetto di identità

personale, dato che le cellule che abbiamo

non sono le stesse che c’erano quando sia-

mo nati. Allora ne siamo solo la memoria.

«È una domanda interessante per la filo-sofia. Immagini di poter fare una replica per-fetta del suo corpo, non un clone in senso ge-netico, ma una copia di ogni atomo. Non èpossibile farlo scientificamente, ma possia-mo farlo filosoficamente. Probabilmente lareplica avrebbe il suo corpo, i suoi ricordi, glistessi pensieri. Ma una volta lì, comincereb-bero a separarsi, avrebbero nuove esperien-ze e allora, quale sei? Sono questioni a cuinon si può rispondere in maniera sperimen-tale ma sono filosoficamente affascinanti».

Stephen Hawking sostiene che la filoso-

fia è morta, perché adesso è la scienza che

dà le risposte.

«Non credo che la filosofia sia morta, macertamente ha perso terreno».

Lei ha scritto che la Seconda guerra mon-

diale non sarebbe scoppiata se il padre di

Hitler avesse starnutito in quel momen-

to. E che in un altro secolo lei sarebbe sta-

to un chierico. Siamo casuali fino a questo

punto? È scettico o ateo solo per un caso?

«La realtà dipende da particolari moltopiccoli. Sappiamo che tutti i mammiferivengono da un individuo esistito all’epocadei dinosauri. Se quel piccolo mammiferofosse morto prima di riprodursi, forse i mam-miferi ci sarebbero lo stesso, ma sarebberocompletamente diversi. Forse quel mammi-fero sopravvisse per uno starnuto del dino-sauro. Rispetto all’esempio di Hitler, ognu-no di noi deve la sua esistenza al fatto che tramilioni di spermatozoi ce n’è stato uno cheha fertilizzato l’ovulo. Il più leggero movi-mento mentre i suoi nonni copulavano, se uncane, abbaiando, gli avesse fatto perdere laconcentrazione, avrebbe prodotto un risul-tato diverso. Per questo dico che uno star-nuto qualche anno prima ci avrebbe rispar-miato la guerra. E nessuno di noi esistereb-be oggi se non fosse esistito Adolf Hitler».

(Traduzione di Luis E. Moriones) ©2014 Ricardo de Querol

Ediciones El País, SL

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la Repubblica

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 32LA DOMENICA

glia di sapere perché». «Non mi piacciono le donneche scrivono», avrebbe rincarato alla stessa cena

Bonaparte, rivolto a Madame de Staël. E anchequesta risposta viene cassata dai manoscritti:«Generale, se avessi l’onore di chiamarmi Ma-dame Bonaparte non cercherei una gloriapersonale».

I manoscritti di questa prima versionecriptata, e tutta dedicata a Bonaparte, diquello che diventerà Dieci anni d’esilio,vengono ora riprodotti e trascritti. Sono

inediti — solo in parte pubbli-cati in Francia nel 1996,

da copie quasi gemelle,dalla compianta spe-

cialista Simone Ba-layé — e interes-santi per più di unmotivo. Intanto, la“mascheratura” èun’immagine ter-

ribile e concretadella vigilanza ine-

sausta e capillare dellapolizia di Napoleone.C’è qui poi la sequenza— che non comparenella versione definiti-va — del viaggio di Ma-

dame de Staël in Italia,all’epoca in cui Napoleo-

ne si proclama prima Pre-sidente e poi re d’Italia: con

alcuni dettagli, dice laStaël, «piccanti». Vo-

lendo parlare in ita-liano — lingua cheBonaparte nonpadroneggia —invece di dire «pò-

pol mio» dice evi-dentemente «popòl

mio», che ai francesi

suona come “popaul”, affettuosa metafora virile. I Cento giorni e Waterloo avranno poi un grande rilie-

vo nel rapporto tra Napoleone e Germaine: e questo peruna pagina importante della storia di Francia. Il padre diMadame de Staël, Necker, fu più volte ministro di LuigiXVI: amatissimo dai francesi perché nel 1778 aveva de-posto nelle casse esauste dell’erario la metà dei suoi be-ni, la somma (enorme) di due milioni (i Necker eranostati, in Svizzera, banchieri di indiscussa probità e peri-zia). Dal 1793 la Rivoluzione cessa però di versare aNecker — in esilio ormai a Ginevra, nel castello di Cop-pet — gli interessi (poco più che simbolici) e dimenticala restituzione. Forse nell’esilio di Madame de Staëlgiocò il retropensiero di impedirle di «reclamare quelloche le era dovuto». Racconta infatti nel manoscritto Ger-maine che Napoleone andò a trovare Necker: e lui, pernon danneggiare la figlia, non fece parola del suo credi-to. Napoleone invece giudicò Necker «pomposo», e man-tenne la figlia al bando da Parigi, e dal suo salotto — mi-sura per lei atroce: «Che male mi ha fatto il Primo Con-sole! Se ne avesse avuto un’idea piena, lo avrebbe fattoindietreggiare». Alla caduta di Napoleone, la Restaura-zione di Luigi XVIII avvia la restituzione del “debitoNecker”: ma a quattro giorni dalla liquidazione, arriva lanotizia dello sbarco di Napoleone al Golfe-Juan. I due mi-lioni servivano ormai a Germaine come dote per il ma-trimonio della figlia: che viene infatti differito. AncheNapoleone Imperatore dei Cento giorni arriva in realtàa un passo dalla restituzione — ma interviene Waterloo.Sarà insomma il re Borbone, a fine 1815, a liquidare il pri-mo milione: la piccola Staël potrà sposarsi, e diventareduchessa. Tra le pagine di piccola storia cancellate all’e-poca dalla de Staël, c’è anche un ballo del 1800. Tale è giàl’imperio di Napoleone sui parigini, che, all’entrata del-la sua nemica Germaine, la folla letteralmente si ritrae:solo la giovane contessa Delphine de Custine le andrà in-contro, gesto che darà poi il titolo al suo romanzo Delphi-ne. Eppure Napoleone, a sua volta in esilio a Sant’Elena,sembrò ripensare a Madame de Staël e al loro lungo duel-lo di fronte alla Storia. Era un donna di talento, scrive nelMemoriale: «Lei, resterà».

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Censurata e costretta all’esilio, la fondatricedel Romanticismo si vendicò con un perfidomanoscritto criptato. Solo ora, nel bicentenariodella caduta di Bonaparte, ritrovato.E svelato

L’inedito. In codice

DARIA GALATERIA

U LA GRANDE NEMICA DINAPOLEONE.Madame de Staël, la scrittrice di Corinne o l’Italia, la grandama di Parigi, fu esiliata dal Cittadino Primo Console nel 1803, e visse circonfusa da allo-ra da un’«aureola di proscrizione». Il grande Generale della Rivoluzione si era mutato inImperatore, e Germaine de Staël si autocelebrò come testimone della Libertà contro il Di-spotismo. Ora, nel bicentenario della caduta di Napoleone — dopo l’epopea dei Cento gior-ni, da marzo a giugno 1815, e la sconfitta definitiva a Waterloo — si pubblica il manoscrit-to di un curioso ritratto di Napoleone: un Bonaparte «in maschera», secondo la formula del-l’autrice stessa, per l’appunto Madame de Staël. In maschera: ecco perché. Nel 1810, Del’Allemagne, il capolavoro della Staël che, illuminando la civiltà tedesca, fondava il Ro-manticismo — e in un certo senso anche l’Europa — fu proibito. La censura lo aveva pas-sato, fu Napoleone in persona a bloccarne la pubblicazione quando era già in stampa. «Nonsiamo ancora ridotti a cercare dei modelli nei popoli che ammirate. Il vostro libro non è fran-

cese», aveva scritto a Madame il capo della polizia, il tenebroso Savary, neo-duca di Rovigo. Mentre le cinquemilacopie già tirate andavano al macero, e l’editore falliva, de Staël mise in salvo una copia manoscritta che come

al solito aveva fatto fare: il fido Wilhelm Schlegel, precettore dei suoi figli, mise le carte al sicuro a Vienna,dal fratello Friedrich, il tragediografo, e il saggio uscirà a Londra, nel 1813: è così che possiamo leggerlo.Dunque si può immaginare che, accingendosi a scrivere un ritratto di Bonaparte, Madame de Staël sipreoccupò di fare molte copie del nuovo testo. E per ingannare l’occhiuta polizia napoleonica, alcune diqueste sono appunto «mascherate»: fingono cioè di essere un’opera sul Seicento inglese, l’epoca di Elisa-

betta d’Inghilterra. Si tratta di cambiare sul filo della ricopiatura i nomi dei personaggi e dei luoghi — Na-poleone sostituito da Cromwell oppure da Elisabetta I d’Inghilterra. Così pure vengono tagliate le parole

troppo legate alla persona di Germaine — “salotto”, per esempio, o “esilio”; e perfino “noia”, che era, notoria-mente, il terrore della Stael, il suo “vampiro”. “Lord Protettore” sostituisce “Primo Console”; e sono cancellate lebattute troppo note, come la risposta di Madame de Condorcet a Napoleone, che dichiarava di non amare le don-ne che si occupano di politica: «Generale, in un paese in cui si taglia la testa alle donne, è naturale che abbiano vo-

nemicoNapoleoneIl mio

F

Mme de Staël

IL LIBRO

IL TESTO DELLA DE STAËLE I MANOSCRITTI, CONCESSIDALLA FONDATION OTHENIND’HAUSSONVILLE, SONOTRATTI DA “DIECI ANNID’ESILIO-I MANOSCRITTICRIPTATI” A CURADI DARIA GALATERIAIN LIBRERIA DAL 26 FEBBRAIO(FONTANA DI TREVI

270 PAGINE, 18 EURO)

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la Repubblica

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 33

(Nel testo, tra parentesi, i luoghi e i nomireali che nel manoscritto ritrovato di Madame de Staël sono invece criptati)

GERMAINE DE STAËL

DECISI DI PASSARE l’inverno inFrancia (Italia). Non avevoancora l’idea dei piaceri cheoffre questo bel paese, econfesso che con i miei

pregiudizi inglesi (francesi), giudicavodegna di essere frequentata solo lasocietà di Londra (Parigi). Ma dovettiricreder e da allora ho nostalgia delcontinente (dell’Italia) come di unaseconda patria. Il primo degli agenti del duca di Gloster(di Bonaparte) con cui ebbi a che fare inFrancia (in Italia) fu Lord Melville (ilgenerale Menou, comandò l’esercitofrancese nella campagna d’Egitto), cheera diventato ebreo in Scozia(musulmano in Egitto). Arrivai aAbbeville (Torino) il giorno di Natale, emi propose di andare a sentire la Messadi mezzanotte con lui. Era la prima voltache assistevo a una messa in Francia (inItalia), e mi sembrò di vedere nel cultoche praticava Lord Melville, insiemeebreo e cristiano rinnegato, un emblemadella religione che il Reggente (il PrimoConsole, Napoleone) aveva ristabilito.Un predicatore, il dottor Shaw(Monseigneur de Boisgelin), uomointelligente, ma completamenteimbevuto dei principi del Reggente, fuscelto per pronunziare dal pulpito un

discorso in onore della Reggenza (delConsolato). Nel discorso egli presentò ilduca di Gloster come il vero erede altrono. La ragione che determinò la sceltadel dottor Shaw è semplice. Egli avevatenuto il sermone per l’incoronazionedi Edoardo IV (Luigi XVI). Così sisarebbe svilito più di chiunque altro.È un’attenzione che il duca diGloster ha quasi sempre versoquelli che lo servono, far perdereloro ogni dignità personale. Ildottor Shaw, dopo aver esauritogli aggettivi di “grande”, “nobile”e “giusto”, aggiunse un ultimoepiteto, legittimo. Il vecchioPortland (Jean Etienne MariePortalis, giurista e autore del codicecivile napoleonico) si fregava lemani: «Legittimo! Legittimo! Chedichiarazione preziosa!». Vidi poi il duca passare col suocorteo. Mi sembrò singolarmenteingrassato. Aveva avuto, di ritornodal paese del Galles (dallacampagna d’Italia), una specie dimagrezza pallida e cupa che facevacredere a un’agitazione interioredella mente; ma quando si vede unafigura grassoccia con occhi cosìseveri il contrasto è sgradevole. LaFrancia (l’Italia) è la nazione cheRiccardo III (Napoleone) preferisce etutti i ricordi della sua infanzia lo leganoa questa lingua che non parla bene perquanto ne abbia conservato l’accento.Volendo rispondere all’indirizzodi saluto dei gallesi (degliitaliani), fece un errorepiccante: invece di dire “ilmio popolo” disse “il miogingillo”.

(Traduzione di Giorgio Pacifici)

Quel ducache chiamail popolo“il mio gingillo”

LA FORMAZIONE

GERMAINE DE STAËL NASCEA PARIGI NEL 1766: IL PADRE,IL BANCHIERE NECKER,È MINISTRO DELLE FINANZEDI LUIGI XVI. LA MADRE,EX ISTITUTRICE, SI DEDICAALL’EDUCAZIONEDELL’UNICA FIGLIA CHEA SETTE ANNI FREQUENTAGIÀ I SALOTTI LETTERARI

LA RIVOLUZIONE

NEI GIORNI DELLARIVOLUZIONE FRANCESE,IL PADRE È ESILIATOCON TUTTA LA FAMIGLIAA COPPET, SUL LAGODI GINEVRA: LA STESSACITTADINA SVIZZERADIVENTERÀ PIÙ TARDILA SEDE DELL’ESILIO ANCHEDI MADAME DE STAËL

IL COLPO DI STATO

DOPO LA RIVOLUZIONEGERMAINE TORNA A PARIGINELLA SPERANZACHE NAPOLEONE REALIZZIGLI IDEALI RIVOLUZIONARI.MA CON IL COLPO DI STATODEL 18 BRUMAIO(9 NOVEMBRE 1799) INIZIALA SUA OPPOSIZIONEAL REGIME NAPOLEONICO

L’ESILIO

NEL 1803 VIENE ESILIATADA NAPOLEONE CONIL DIVIETO DI AVVICINARSIA MENO DI 150 CHILOMETRIDA PARIGI: L’OSTILITÀDI BONAPARTE LA RENDEFAMOSA IN TUTTA EUROPA.INIZIANO COSÌ I SUOI VIAGGIPER IL CONTINENTE, PRIMAIN GERMANIA E POI IN ITALIA

IL CIRCOLO DI COPPET

NEL 1805 MADAME DE STAËLTORNA AL CASTELLODI COPPET DOVE IL SUOSALOTTO DIVENTA IL LUOGODI INCONTRO DEI MAGGIORIINTELLETTUALI E FILOSOFIEUROPEI DELL’EPOCA.CONTINUANO I SUOI VIAGGICOSPIRANDO OVUNQUECONTRO NAPOLEONE

LA CENSURA

NEL 1810 PUBBLICA “DEL’ALLEMAGNE”, MANIFESTODEL ROMANTICISMOCHE LE COSTA L’INIMICIZIADEFINITIVA DEL GOVERNONAPOLEONICO: NAPOLEONEIN PERSONA NE BLOCCALA PUBBLICAZIONEE ORDINA IL SEQUESTRODELLE COPIE IN FRANCIA

LA RIABILITAZIONE

NEL 1815, ORMAI GIUNTOALLA FINE DEL SUO REGNO,NAPOLEONE RICONOSCEINFINE IL SUO ERRORE:«MADAME DE STAËLMI HA CREATO PIÙ NEMICIIN ESILIO DI QUANTIME NE AVREBBE PROCURATIIN FRANCIA», DIRÀ POCOPRIMA DI MORIRE

LA MORTE

CON LA FINE DELL’IMPERONAPOLEONICO GERMAINETORNA A PARIGI DOVEMUORE NEL LUGLIO 1817.NEL 1821 IL FIGLIO PUBBLICAL’OPERA POSTUMA “DIECIANNI D’ESILIO”, MEMORIESUL PERIODO TRASCORSOA COPPET PERSEGUITATADA NAPOLEONE

È UN’ATTENZIONECHE HA VERSO QUELLI

CHE LO SERVONO: FARPERDERE LORO OGNI DIGNITÀPERSONALE. QUANDO SI VEDEUNA FIGURA GRASSOCCIACON OCCHI COSÌSEVERI IL CONTRASTOÈ SGRADEVOLE

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DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 34LA DOMENICA

Ora l’onda lunga degli “indie” (lo è stato ancheMinecraftin origine che oggi veleggia oltre i ses-santa milioni di copie) è arrivata fino a noi. E co-sì sono fioriti progetti fuori dal coro: in Tonzilla,con la sua grafica in bianco e nero, si urla per ab-battere gli avversari; gli autori di The town of li-ght hanno invece ricostruito l’ex ospedale psi-chiatrico di Volterra ormai abbandonato per fartoccare con mano quel che era la vita di una per-sona malata di mente prima che i manicomi ve-nissero chiusi; Super cane magic zeroè uno stra-no incrocio fra i vecchi giochi per Game Boy ri-visitati dal fumettista Sio.

JAIME D’ALESSANDRO

ROMA

L’AUTODROMO diVal le lunga,quaranta chi-lometri a norddi Roma, è de-serto. Nemme-no all’entrata,due strisce diasfalto chescendono ver-so il circuitosotto il sole in-

vernale, c’è qualcuno a controllare. Parcheggiovuoto, chiuso il bar, le officine dei meccanici e lescuole di guida sportiva hanno le saracinescheabbassate. Eppure è qui l’appuntamento conMarco Massarutto, una delle anime della KunosSimulazioni. Si è fatto notare con Assetto Corsa,uscito a gennaio per pc, un gioco di gare auto-mobilistiche, prendendo voti alti in tutto il mon-do. Non era scontato, accade raramente a vi-deogame italiani. Ma qualcosa nel nostro Paesesta cambiando, le case di sviluppo sono raddop-piate nel giro di tre anni appena toccando quo-ta cento, e per quanto possa sembrare stranoquesto nuovo made in Italy digitale è fiorito pro-prio in posti come l’Autodromo di Vallelunga.

«Assieme a Stefano Casillo, l’anima tecnicadella Kunos, siamo passati per diversi fallimen-ti e dopo aver incontrato mille ostacoli. Se nonfosse stato per la caparbietà, avremmo dovutogettare la spugna», spiega Massarutto nel suo

Play

Next.Game Open

Le Software house in Italia

inItaly

ufficio che affaccia sulla pista. Classe 1972, pe-rito informatico con un lungo passato da tassi-sta del quale va fiero, venne folgorato sulla viadi Damasco da Pong e dal film Wargame quan-do era bambino. La sua azienda ora fa parte diquel trentaquattro per cento di software houseche ha fra i sei e i venti dipendenti. Ma a farla dapadrone, in termini numerici, sono le più picco-le. Imprese individuali, o con appena cinque di-pendenti, che rappresentano il cinquantanoveper cento della produzione italiana in fatto digiochi elettronici. Un’esplosione di realtà mi-nuscole che, a macchia di leopardo, sono spun-tate ovunque, soprattutto al nord e al centro.«In parte è merito del mondo mobile e delleapp, sulle quali si sono buttati in tanti»prosegue Massarutto. «Ma hanno con-tribuito molto anche i canali di ven-dita online di giochi per pc, comeSteam, dove puoi pubblicare iltuo gioco magari a prezzi bassisenza dover passare per uneditore».

Non è una novità e non èuna peculiarità nostrana. Ilrapporto diretto con il pub-blico e il poter vendere cosìil proprio videogame a co-sti contenuti, ha fatto na-scere in tutto il mondo unanuova generazione di titoliindipendenti che ragionacon logiche diverse rispettoalle grandi multinazionalidell’intrattenimento digitale.

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DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 35

Ma se altrove gli investimenti privati sonouna leva importante per le software house al-l’esordio, da noi invece sono pressoché assenti.E questo impedisce a molte piccole realtà di di-ventare imprese e di affiancarsi a case di buonlivello come Milestone, Ovosonico, Forge Re-ply, Digital Tales. «I dati sono incoraggianti»,conferma Thalita Malagò della Aesvi, l’associa-zione di categoria che raduna gli editori e i pro-duttori di giochi in Italia. «C’è stato un aumen-to del trenta per cento del fatturato e dell’occu-pazione. Ma molti, troppi, studi sono concen-trati sulle applicazioni per smartphone dove iguadagni sono bassi. E poi mancano gli investi-menti. Solo il dieci per cento degli sviluppatoriha ricevuto fondi da banche o da finanziatori.Mentre circa l’otto per cento è riuscito ad acce-dere a fondi regionali o europei».

Il confronto con l’estero per certi versi è an-cora impietoso. Tralasciando Inghilterra, Fran-cia e Germania che giocano in un campionatodiverso dal nostro, sempre secondo l’Aesvi inOlanda hanno ben trecentotrenta aziende. InSvezia sono oltre duemila, con un giro di affarida mezzo miliardo di euro. Ma quella è la terradella Mag di Ruzzle e della Dice di Battlefield,della Simogo che ha prodotto alcune delle apppiù belle degli ultimi anni, da Device 6 a Yearwalk, senza dimenticare la Mojang di Mine-craft. Peggio di noi? Spagna, Portogallo, Grecia.

«Oggi è molto più facile sviluppare. Ieri servi-va una vera azienda per fare un progetto di li-vello. Adesso ci sono strumenti tecnici molto ac-cessibili che ti permettono di realizzare cose se-rie con poche persone», racconta Alberto Belli,

trentacinque anni, che assieme a Carlo Bianchiguida la Storm in a Teacup, altra software hou-se romana che entro marzo dovrebbe pubblica-re, su Xbox 360 e One, Nero, un viaggio oniricoin una terra fantastica che ha conquistato la Mi-crosoft. «Il problema vero non è tecnico, quindi.Quando sviluppi, all’inizio, l’importante è te-nere i costi bassi. Ed evitare il mondo “mobile”che tutti credono sia più accessibile ma che in-vece è molto più complicato. Riuscire non signi-fica vendere milioni di copie, ma semplicemen-te pubblicare qualcosa che sia economicamen-te sostenibile».

Intanto quest’anno alla Game DevelopersConference, dal 2 al 6 marzo al Moscone Centerdi San Francisco, per la prima volta l’Italia avràun suo stand. Tutto organizzato dalla Aesvi e fi-nanziato dall’Ice (l’Agenzia del ministero delloSviluppo economico che promuove le impreseitaliane all’estero). Ci saranno dodici softwarehouse ospitate in uno stand grande quantoquello dell’Inghilterra, che ha una scena dei vi-deogame molto più ampia che occupa circa ven-timila persone con un business da due miliardidi sterline. «Il futuro? Molto dipenderà da quelche le software house italiane riusciranno apubblicare nei prossimi anni», conclude Thali-ta Malagò. «Se il prossimo gioco per PlayStation4 della Ovosonico, tanto per fare un esempio,avrà successo, magari le cose cambieranno dav-vero». Ci vorrà ancora del tempo quindi primadi capire se è solo un fuoco di paglia. Ma almenoi primi passi li stiamo muovendo. E finalmentenella giusta direzione.

Il nostro Paese non hauna forte tradizione

in fatto di videogiochiMa ora una nuovagenerazione di piccole start up

sfida le grandi multinazionali

E la partita è aperta

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FAVIJ

IO CON I VIDEOGAME CI SONO CRESCIUTO. Hocominciato con la prima PlayStationquando il mondo dei giochi stavaesplodendo. Il primo è stato Metal Gear:avevo tre anni e mezzo e, per quanto

incredibile possa sembrare, riuscii a finirlo. Magiocavo anche a titoli molto più infantili (mene ricordo ad esempio uno di Bugs Bunny). Poila faccenda si è evoluta, perché sono passato aivideogame sportivi come Fifa. Ma i mieipreferiti erano quelli con una trama. Peccatoche dopo la rivoluzione della primaPlayStation i videogame non siano poicambiati molto. Certo, la grafica migliorava,alla fine però le tipologie di fondo eranosempre le stesse.Il vero cambiamento, secondo me, lo hannoportato i videogame indipendenti. Grazie aisistemi di distribuzione digitale, penso aSteam della Valve lanciato nel 2003, i piccolisviluppatori hanno iniziato a poter vendere ipropri giochi direttamente via web a prezzibassi. Steam da questo punto di vista harappresentato un salto notevole. La cosa chemi ha colpito è che spesso non erano e nonsono giochi fatti per vendere, ma nasconodalla pura passione senza vere mirecommerciali. E questo ha portato a videogameimprobabili e bellissimi, basati su idee chenessun editore prenderebbe inconsiderazione. Penso a Goat Simulator o aMinecraft. Credo siano questi il futuro deivideogame: economicamente sostenibili,costano poco, li puoi giocare anche su unportatile qualunque, sono immediati e — cosafondamentale — in sintonia con il pubblico. Lecopie fisiche, i giochi venduti nei negozi sudvd, sono destinate a scomparire. Sarannoquelli indie i protagonisti della scena dellarealtà virtuale, anche grazie all’arrivo diOculus Rift e altri visori simili. Tra i videogameitaliani mi sono divertito molto con In verbisvirtus: poter lanciare magie con la propria voceè strepitoso, ma per essere certi che i giochimade in Italy riusciranno davvero a ritagliarsiuno spazio stabile bisognerà aspettare ancoraun po’. Io, ovviamente, spero di sì.

(testo raccolto da Jaime D’Alessandro)

Sto dalla partedegli “indie”

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INFO

GR

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L’identikit

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DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 36LA DOMENICA

Sapori. A confronto

IL JOSELITOÈ STATO

ELETTO MIGLIOREDEL MONDOE IN FRIULISI STUDIA

LA RISPOSTA.STAGIONATURA,

BRACI DI CILIEGIO,BOSCHI DI QUERCE:

TUTTI I SEGRETIE LE STRATEGIE

ARTIGIANALIPER ARRIVARE

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Jabugo (Huelva)Tel. (+34) 959-121194

San Daniele, pan polenta e salviaINGREDIENTI

PROSCIUTTO SAN DANIELE DOK DALL’AVA 24 MESI

100 G. DI FORMAGGIO FRANT (PRESIDIO SLOW FOOD)

80 G. DI LATTE DI RISO

7 G. DI AMIDO DI MAIS

5 G. DI FOGLIE DI SALVIA

5 G. DI GELATINA IN FOGLI

PAN POLENTA DI EZIO MARINATO

Tagliare a pezzetti il formaggio Frant, im-pastarlo con l’amido di mais e mettere iltutto in una pentola insieme al latte di ri-

so. Portare alla temperatura di 90°C a fiammadolce, continuando a mescolare per qualche mi-nuto. Frullare fino a raggiungere una consi-stenza liscia, poi versare la crema in un conte-nitore, coprirla con la pellicola a contatto e ri-porla in frigorifero a raffreddare. Portare 200grammi di acqua a ebollizione, salare (solo con1 grammo di sale), togliere dalla fiamma, ag-giungere le foglie di salvia e coprire, lasciandoin infusione quindici minuti. Filtrare, addizio-nare con i fogli di gelatina e lasciare raffredda-re in frigorifero. Per il pan polenta, impastaredue parti di farina di frumento integrale con lie-vito madre, a cui addizionare una terza parte,composta da polenta di granoturco bianco mol-to morbida, cotta il giorno precedente, far lievi-tare e infornare. Affettare il pane e tostarloqualche minuto a 220°C. Appoggiare sui crosti-ni il San Daniele, aggiungere la crema di Frantcon un sac-à-poche, la gelatina di salvia a dadinie qualche foglia di salvia per decorare.

LO CHEF

NEREOBALLESTRIEROGESTISCELA CAFFETTERIATORINESEDI PALMANOVA(UDINE).TRA LE PROPOSTESALATE, PICCOLIPIATTI GOLOSICOL SAN DANIELE

San Daniele vs IbéricoIl più dolce o il succulento?Chi ci lascia lo zampinonella sfida del prosciutto

4cose da saperesul San Daniele

Gli indirizzi

StoriaI primi documenti scritti sul consumodi carne magra di maiale conservatasotto sale compaiono a metà del XVsecolo. Nel 1887 nasce la MacelleriaSociale Cooperativa di San Daniele

ProduzioneOgni anno, dalle 31 imprese affiliate al Consorzio escono 2.400.000 prosciutti,per un giro d’affari di 330 milionidi euro. La filiera è controllatadall’Istituto Nord Est Qualità (Ineq)

LuoghiI venti freddi delle Alpi Carniche e la brezza salmastra dell’Adriatico,mediati dal fiume Tagliamento,battezzano il territorio di San Daniele,8.000 abitanti e 35 kmq di estensione

DisciplinareMaiali italiani di almeno nove mesi e 160 kg di peso, allevati in 10 regioni con cereali e siero di latte. Le cosce,lavorate con sale marino, sonomarchiate dopo 13 mesi di stagionatura

LICIA GRANELLO

“PERSEGUITATO NEI SECOLI DA DIETOLOGI e inquisitori, ilprosciutto è stato riabilitato come la sardina, nonscombina il colesterolo se mangiato con entusia-smo e buon senso, ingrassa l’anima molto più di co-lesterolo e acido urico, in tempi nei quali l’anima ètanto anoressica che sarebbe davvero crudele proi-birle il prosciutto, da qualsiasi parte esso proven-ga”. Scriveva così nel suo breve saggio Jamón,jamón, Manuel Vázquez Montalbán. Certo, il suoprosciutto preferito era quello iberico. Ma in Italia,lo scrittore catalano non avrebbe fatto fatica a tro-vare un fratello di zampino nel territorio di San Da-

La ricettaIN SPAGNA

Piadina, crudo e rucola

Filetto alla Wellington

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la Repubblica

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 37

CONCITA DE GREGORIO

IL GUSTO È PERSONALE e lecaratteristiche note. Uno piùdocile, l’altro nervoso. Uno a doppiofondo, l’altro diritto al punto. Nonho nessun titolo, nei match Italia-

Spagna, per difendere una causa: facciola mia scelta, come tutti, e assisto allediscussioni. Quanto al prosciutto però houna certa esperienza di consumo,essendo il piatto freddo la più frequentealternativa al digiuno nei casi — ancorane esistono, a dispetto dell’importantecontributo televisivo — di analfabetismoculinario e fretta endemica. Fino a che imembri più giovani della famigliacresciuti a pressure test con gamberirossi di Mazara del Vallo non hannopreso in mano la situazione “spesa piùesecuzione più (fondamentale)impiattamento”, ecco, fino ad alloraabbiamo reso grazie al prosciutto. Delquale posso dire, questo sì, quantodiverse siano le prestazioni e i casi a cui siadatta. L’iberico è un prosciutto damanifestazione, il San Daniele da pic nic.L’iberico lo puoi mettere a tocchetti in unpiccolo contenitore e poi in borsa, opersino in tasca, e mangiarlocamminando. Lo puoi porgere a unamico che marcia affianco a te, si prendecon le mani. È solidale. Si presta allamarcia di montagna, la masticazionedura a lungo, placa l’horror vacui deimorsi di fame in assenza di altri viveri,tiene compagnia nelle salite e con unacerta pratica si impara anche a tenerlo dilato e cantare. Il San Daniele è da panino.Più individualista, tranne che nei casi dicondivisione del medesimo aricreazione: tende a rimanere inprevalenza in una delle due metà, inquesti casi, e allora si può o far finta diniente o provare generosamente adividerlo con le mani. Operazionecomplessa e frustrante: è di solitotagliato sottile e in fette molto lunghe.L’iberico quando sono passati un paio digiorni si indurisce un poco e somiglia acarne secca. Valido per i viaggi lunghi. IlSan Daniele dopo due giorni nello zaino èimmangiabile. Più elegante, dà il megliodi sé nella stagione tiepida steso in unpiatto al fianco del melone. Si camuffapiù facilmente da pietanza, sulla tavola, ein compagnia di validi alleati gigioneggiacon gli ospiti. L’iberico è refrattario aitravestimenti, anche associato al pane epomodoro (pan con tomate, nella sualingua) resta sempre e soltantoprosciutto. Si può ai commensali tutt’alpiù dire: l’ho portato giusto ieri dallaSpagna, e per enfatizzare il valoredell’import accostare al piatto unaciotola di olive ripiene di acciughe.Funziona, meglio se è estate.

L’italianoè da pic niclo spagnoloviaggia

INGREDIENTI

200 G. DI FARINA

160 G. DI ACQUA

4 G. DI ZUCCHERO

1 G. DI SALE

6 G. DI LIEVITO SECCO

4 UOVA BIO

4 FETTINE DI JAMÓN IBÉRICO JOSELITO

ciogliere il lievito in acqua e zucchero, ag-giungere farina e sale. Far riposare seiore in frigo. Bollire, schiumando e sgras-

sando, 800 g. di osso di jamón ibérico con 80 g.dei suoi ritagli per cinque ore, colare, aggiun-gere 0,5 g. di agar-agar in polvere, riportare aebollizione. Fuori dal fuoco, dentro 0,5 g. di ge-latina ammollata. Versare 50 g. della gelatinaottenuta nei gusci d’uovo vuoti dopo aver sepa-rato i rossi dai bianchi e mettere in frigo. Ta-gliare a dadini 40 g. di grasso di jamón iberico,bollirli con 20 g. d’acqua e 20 di olio digirasole, finchè il grasso è trasparen-te e l’acqua evaporata. Prendere irossi, infarinarli, passarli nella pa-stella e friggerli in extraverginea 180°C. Scaldare i gusci con lagelatina a vapore, aggiungerequalche goccia di grasso fuso, ap-poggiare sopra ognuno i tuorli intempura e rifinire con jamón ibé-rico.

Tuorlo croccante in gelatina di jamón

S

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cose da saperesul jamón ibérico4

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Ibérico al coltello

StoriaDiscendente del sus mediterraneus, il cerdo iberico è originario del sud-ovest della Spagna. Nel XVII secolo le prime testimonianze sulla lavorazione delle cosce col sale

ProduzioneSono 4 milioni i prosciutti di maialeiberico prodotti ogni anno, di cui214mila di pura razza iberica e mezzomilione di razza iberica incrociata(sempre da allevamenti semi-bradi)

LuoghiLe zone certificate denominaciones de origen (D.O.) sono Huelva, Dehesadi Extremadura, Guijuelo e PedrochesUna piccola produzione nell’Alentejoportoghese (presunto ibérico)

DisciplinareQuattro colori in etichetta (bianco,verde, rosso, nero) per quattro tipid’allevamento: intensivo (cebo), libero a base di cereali e libero con ghiande(bellota) da incrocio o iberico 100%

niele del Friuli, e a scriverne con uguale passione.In Italia come in Spagna, l’inverno è il momento-clou per l’artigianato di alta qualità:

una tradizione figlia dei tempi in cui l’unica tecnologia possibile per preservare la salu-brità delle carni era l’associazione di freddo e sale. Celle, abbattitori e impianti di con-dizionamento hanno cambiato le coordinate della lavorazione, soprattutto in campo in-dustriale, mentre le imprese familiari che mantenegono cocciutamente piccoli i nume-ri hanno faticato negli anni a sentirsi protette dai disciplinari. In Italia, la Dop vieta in-silati e additivi chimici, ma glissa sui tipi di allevamento e parla genericamente di be-nessere animale. Luciano Zanini si rifiuta di aumentare di un solo prosciutto la sua pro-duzione, malgrado salumerie e ristoratori facciano la fila per il suo San Danielesfrontatamente dolce. Il segreto è la lavorazione delle cosce (scelte a una a una) a 5°, per-ché la salatura sia la minima necessaria a sanificare. Carlo Dall’Ava è andato in Spagnaa studiare le stagionature e ha progettato un allevamento estensivo sulla falsariga del-la dehesa (macchia mediterranea) iberica. In quanto a Lorenzo D’Osvaldo di Cormòns,pur fuori dalla Dop è diventato un produttore-culto grazie alla lieve affumicatura su bra-ci di ciliegio di cosce di almeno tredici chili (contro gli undici stabiliti).

In Spagna, invece, lo sforzo del singolo è premiato dalla forza collettiva, se è vero cheappena un anno fa il disciplinare del 2007 è diventato più severo, per dare modo alla qua-lità di emergere e ai prezzi alti (anche oltre i cento euro al chilo) di riconoscerne il valo-re. Il “Joselito” di José Gomez, eletto mejor jamón del mundo, alla quinta generazione diallevatori, vanta numeri impressionanti: quarantamila maiali di pura razza iberica al-levati ventiquattro mesi con tre ettari di terra a disposizione ciascuno, quarantamilaquerce ripiantate ogni anno, stagionature fino a otto anni (e segnate in etichetta, comei vini). Perfino il termine usato per la macellazione, sacrificio, testimonia l’approccio ri-spettoso per gli animali, ma anche per le carni, visto che dolore e paura le intossicano diadrenalina, rendendole stoppose e acide. Risultato: prosciutti setosi e succulenti, bor-dati di un grasso sano, grazie all’altissima percentuale di acido oleico, simile a quello del-l’extravergine.

Che scegliate gli zampini friulani — fette sottilissime — o quelli spagnoli — da taglia-re al coltello — abbinateli con pane serio e un bicchiere di buonissime bollicine. L’inver-no andrà via in un attimo.

La ricetta

GLI CHEF

IL TRIO CASTRO-XATRUCH-CASAÑAS(DISFRUTAR,BARCELLONA)PER I SUOI PIATTIUTILIZZA SAPORIORIGINALICOME IL JAMÓNIBÉRICODE BELLOTA

Uovo fritto con jamón

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la Repubblica

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2015 38LA DOMENICA

Infanzia borderline. Famiglia prima hippy e poi seguace di una

setta. Un fratello, River, anche lui attore, morto di overdose. Volen-

te oppure no la sua storia lo ha aiutato a costruirsi un’immagine di

uomo (come l’imperatore cattivo del “Gladiatore”) non particolar-

mente equilibrato. Lui, splendido quarantenne, se ne appropria e

ci gioca su: “Sì, effettivamente non ho la minima idea di come si

faccia a mantenere l’equilibrio.

Nel cinema per esempio: il set è

un luogo protetto, oliato, sicuro.

Troppo. È fantastico quando ci

entra dentro all’improvviso un

po’ di vita vera”

ARIANNA FINOS

ROMA

A I CAPELLI IMPOMATATI E LO SGUARDO TORVO delle giornate no. A cam-biargli l’umore è una citazione: «Sous les pavés, la plage!». «È lamia preferita, come fa a saperlo?». Il caso salva l’incontro. Anchese non è più la variabile impazzita di un tempo Joaquin Phoenix,quarant’anni, è ancora capace di sortite burrascose. Tre anni fa,

alla Mostra di Venezia per The Master, di Anderson, dopo un paio di intervisteabbandonò il tendone e sparì. L’anno scorso al Festival di Roma per Her, di SpikeJonze, ci accolse in questa stessa saletta al De Russie con abbracci e sorrisi. Sta-mattina sembra un animale in gabbia in cerca di vie di fuga. Vuole fumare. Allafine apre una finestra e la chiacchierata si consuma in piedi, una sigaretta dopol’altra, l’aria finalmente rilassata.

Lo slogan del maggio parigino, “sotto i sampietrini, la spiaggia”, sta in epi-grafe al romanzo di Thomas Pynchon Vizio di forma, da cui Paul ThomasAnderson ha tratto il film omonimo che vede Phoenix protagonista. Laspiaggia, in questo caso, è quella immaginaria di Gordita Beach, LosAngeles, 1970: il sogno hippy di ritorno alla natura sepolto da immo-biliaristi e speculatori edili, la marijuana casalinga che cede all’indu-stria del narcotraffico, gli ospedali psichiatrici che si svuotano ma soloa favore di costosi centri di recupero. Anderson traduce con venerazio-ne le pagine del padre della letteratura postmoderna, ripagato dallacandidatura all’Oscar per la sceneggiatura non originale. E come il suomentore Robert Altman aveva imposto nel ‘73 l’emarginato, ca-ratteriale Elliott Gould come protagonista de Il lungo addio, così luipunta tutto sul “cavallo matto” Phoenix. Dopo lo squilibrato se-guace di una setta in The Master gli consegna un altro ruolo ico-nico: il detective hippy Doc Sportello, basettoni da giovane Neil

Young e sandali di gomma. Del vero e proprio colpo di fulminetra i due è lo stesso regista a raccontarci: «Joaquin mi ha folgora-to dai tempi di Da morire di Gus Van Sant. Era prestante e sporco,sexy e animalesco. Ha occhi grandi, belli, intensi, un fisico pos-sente, cinematografico. Da tempo ci cercavamo, e spero faremoancor un bel pezzo di strada insieme».

Il cammino nel mondo dello spettacolo di Joaquin Rafael Phoenix,nato Bottom, inizia parecchio tempo fa. Durante l’infanzia, infanziacomplessa, borderline. I genitori si incontrano a Los Angeles, lei sta fa-cendo l’autostop dopo aver lasciato il marito. Vivono nelle comuni hippy,

quattro dei loro cinque figli avranno nomi molto ispirati: River, Rain, Liberty,Summer. Joaquin si sente escluso. Si farà chiamare Leaf, foglia, fino all’età diquindici anni. «Ai tempi in cui i miei genitori hanno vissuto in una comunitàhippy avevo solo due anni. Non ho ricordi diretti, nulla che io possa dire abbia in-fluenzato la mia interpretazione nel ruolo di Doc Sportello. Quello che vedo, però,è che ancora oggi la California conserva rimasugli di quella cultura. L’ideologialibertaria ha lasciato tracce anche nella scuola. I miei nipoti, per esempio, ne fre-quentano una che si basa su una didattica alternativa a quella solita, molto piùlibera e aperta». Dopo la comunità hippy, per la famiglia Bottom comincia la fa-se della setta dei Bambini di Dio. I genitori di Joaquin se ne fanno missionari inSudamerica. Torneranno in patria, molto delusi dall’esperienza, nel 1978. E al-lora cambieranno il loro cognome in Phoenix, “fenice”, perché è lì che sarebbecominciata una nuova vita. Riservatissimo sull’argomento, Phoenix ci avevaaperto uno spiraglio su quel periodo ai tempi della presentazione di The Master,il film che Anderson girò ispirandosi a Scientology: «Il motivo per cui non voglioe non posso affrontare questi argomenti», disse, «è perché dovrei tirare fuori tut-to ciò che di sbagliato la stampa ha scritto in passato entrando nella mia vita pri-vata. Dunque le dirò soltanto questo: non ho mai vissuto lo stile di vita di una set-ta». Che i media siano intervenuti in modo piuttosto violento nei momenti piùdolorosi della vita dell’attore è vero. Quando il fratello più famoso, River, si ac-cascia al Viper di Los Angeles — e poi morirà di overdose — è Joaquin a chiama-re il 911. La registrazione di quella telefonata disperata sarà data in pasto ai me-dia e replicata migliaia di volte.

Joaquin inizia a lavorare bambino, in tv. I genitori si sono ormai separati. Lamadre ha un contratto da segretaria alla Nbce inserisce i figli nel giro dei talent.Se River, che sfonda per primo, fisicamente ricorda lei, Joaquin è invece il ri-tratto del padre che nell’89 decide di raggiungere in Messico mollando l’indu-stria dello spettacolo che pure cominciava a premiarlo. Si costruisce così l’im-magine di outsider, di quello che molla e fugge. Lui decisamente nega: «Non misono mai considerato un outsider rispetto a Hollywood. Al contrario, penso di es-serci dentro mani e piedi. È il mio business, il mio lavoro, lo faccio da tutta la vi-ta. E se qualche volta ho staccato è solo perché sentivo che iniziavo a pianificaretroppo, che la recitazione diventava maniera. Io credo che il set debba essere unasituazione un po’ fuori controllo, qualcosa che ti porti a reagire. Quando arrivosul set reagisco immediatamente agli stimoli. Per questo con Anderson mi tro-vo bene. Sul set di Vizio di forma spesso cambiava le cose e mi trovavo in situa-zioni diverse da quelle previste, a interagire con personaggi che non avrebberodovuto essere lì. Ma la mia confusione era assolutamente funzionale al perso-naggio. Mi trovavo invischiato in una storia intricata e oscura, proprio come lui».

C’è stato un momento nella sua carriera — era già stato candidato all’Oscarper il ruolo dell’imperatore cattivo, Commodo ne Il gladiatore, e per quello diJohnny Cash in Quando l’amore brucia l’anima — in cui ha giocato sulla sua fa-ma di incontrollabile e messo a soqquadro Hollywood: quando annunciò di la-sciare il cinema per fare il rapper, si fece crescere il barbone e iniziò a compor-tarsi in modo particolarmente bizzarro in svariate occasioni, tipo a un Letter-man Show. In realtà, si seppe dopo, con il cognato attore e regista Casey Affleckstava girando il mockumentary (un falso documentario) Io sono qui. Tutte le

reazioni (vere) di colleghi, conduttori televisivi, registi e giornalisti ven-nero filmate e poi mostrate nel film. «È stata un’esperienza liberatoria, chemi ha rigenerato. I set sono luoghi protetti, meccanismi costosi, oliati, si-curi. È stato fantastico fare irruzione nella vita vera, lavorare senza ga-ranzie, sapendo che può succedere di tutto e che no, stavolta non puoi ri-fare la scena». A Hollywood — e più in generale nel mondo dei media —qualcuno non ha preso bene la trovata. Si è lievemente sentito preso in

giro: «Ma no, non volevamo offendere nessuno. Rifarei tutto. Anzi, soche con Casey c’inventeremo qualcos’altro».

La decisione di intraprendere una carriera da rapper era sta-ta giudicata credibile da molti degli intervistati perché la mu-sica è l’altra grande passione di Phoenix. «Chiunque della miagenerazione ha fantasticato almeno una volta di salire sulpalco con i Public Enemy». Non c’è solo il suo Johnny Cash(per cui aveva sperato nell’Oscar), Joaquin ha anche di-retto un paio di videoclip: «Un’esperienza grazie alla qua-le ho capito che non sono tagliato per la regia. Per ogni at-tore la voglia di mettersi dietro la macchina da presa pri-ma o poi arriva a un certo punto della vita. Come quella didiventare padre. Sinceramente però ho trovato il pro-cesso più stressante che emozionante. Ero costante-mente infuriato con gli attori. In particolare me la sono

presa con una giovane collega: “Ma cosa stai facendo?” leurlavo a ripetizione, “ma cosa stai facendo?”. Al suo posto

io avrei mollato tutto». Nonostante tutto rispetto al passato sembra più sere-

no, ma lui ci scherza su: «Mica starai parlando di equilibriocon uno come me? Non ho la minima idea di come si faccia amantenere l’equilibrio. Diciamo piuttosto che oggi mi sento

felice». Complice anche il fidanzamento consolidato con unadeejay ventenne.

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CON ANDERSON MI TROVO BENE PERCHÉ È UN REGISTACHE CAMBIA LE COSE SENZA PREAVVISO. LAVORANDOA “VIZIO DI FORMA” UN SACCO DI VOLTE MI SONOTROVATO IN CIRCOSTANZE INASPETTATE. ESATTAMENTECOME IL PERSONAGGIO CHE DOVEVO INTERPRETARE

È UN PO’ COME LA VOGLIA DI PATERNITÀ,PRIMA O POI PER CHI FA QUESTO MESTIEREARRIVA IL DESIDERIO DI METTERSI DIETROLA MACCHINA DA PRESA. MA IO HO CAPITOCHE NON FA PER ME: DETESTO GLI ATTORI

NON MI SONO MAICONSIDERATOUN OUTSIDER

A HOLLYWOOD,CI SONO DENTRO

MANI E PIEDIE SE QUALCHE

VOLTAHO STACCATO

È PERCHÉ INIZIAVOA PIANIFICARE

TROPPO MENTREIO ADORO

LE SITUAZIONIFUORI

CONTROLLO

L’incontro. Belli e dannati

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JoaquinPhoenix