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DOMENICA 31 LUGLIO 2011/Numero 337 D omenica La di Repubblica i sapori Mare e montagna, dubbio risolto LICIA GRANELLO e DARIO VERGASSOLA l’incontro Martone, “Perché noi credevamo” ANNA BANDETTINI cultura Il diario glamour di Cecil Beaton AMBRA SOMASCHINI e GIUSEPPE VIDETTI l’attualità Voyager, un clandestino nello Spazio ELENA DUSI e VITTORIO ZUCCONI PAOLO RUMIZ DISEGNO DI ALTAN MONTEVERGINE (Avellino) I l temporale stava arrivando e noi ci eravamo persi in un labirinto di strade sterrate. Bisognava fare in fretta perché la cima del Monte Partenio — un complicato saliscendi coperto di selve — si stava trasformando in acchiappafulmini. Eravamo già sul punto di scappare quan- do, in cima a una salita, a quota 1.200, vedemmo un cancello arrugginito cigolare nel vento. Restammo senza fiato. Oltre quel portale semiaperto iniziava una strada in discesa con doppio guardrail. E lì in fondo, tra le nubi al galoppo, c’era una spianata aperta sul nulla, coperta di enormi, nude piattafor- me di cemento e strani muretti semicircolari. Sembrava il cerchio del sole di Stonehenge, un tempio in- ca per sacrifici umani. Invece era l’ex base Nato di Monte- vergine, il nido smantellato dei radar della Sesta Flotta, l’oc- chio dell’America sul Mediterraneo. Esattamente quello che cercavamo. Nemmeno Marco, che era del posto, c’era mai arrivato ed era, come noi, senza parole. Gli americani aveva- no portato via tutti i loro impianti, e il luogo, riconsegnato al- la natura, aveva assunto una forza preistorica, quasi minera- le. Verso ovest, tra gli squarci di nebbia, oltre il querceto nel- la tempesta, comparivano la piana di Nola e la Valle Caudi- na. Napoli era invisibile nella pioggia. Fu allora che venne la fatamorgana. Tra un sipario e l’altro di nubi comparve una cresta dentata come di stegosauro, e poi un’altra ancora. Era- no colline irte di antenne, parevano le guglie del duomo di Milano, e in quel clima da Poltergeist — stava grandinando — la cresta del Partenio, con i suoi luoghi sacri in contatto da millenni con la Dea Madre, ora si svelava coperta di una fo- resta pluviale di ripetitori, attivi o dismessi. Una montagna di ferro e ruggine dove il rapporto col cielo continuava sotto for- ma di una tempesta elettromagnetica che additava un’om- bra terribile sopra di noi. Non avremmo potuto scoprire quel luogo in un momento più fantasmagorico. La base Nato era vuota, ma il resto delle antenne estinte era lì, tra le nubi, con ancora appesa la targa dell’esercito, della polizia, delle poste o di varie televisioni. Ci si aprì un mondo. Torri di metallo abbandonate da non più di dieci anni friggevano nel temporale come gabbie di Fara- day. Una montagna di ferri contorti come ramponi sulla gob- ba di un capodoglio friggeva nel temporale e urlava verso il cielo chissà quale messaggio. (segue nelle pagine successive) le tendenze Un’estate all’insegna del patchwork LAURA ASNAGHI e ILARIA ZAFFINO Spiriti Case Le degli spettacoli Poveri ma belli, i bozzetti della domenica NATALIA ASPESI e FRANCO MONTINI Rocche abbandonate, fabbriche arrugginite, paesaggi dimenticati Incomincia il viaggio estivo di “Repubblica” alla ricerca del Paese perduto Repubblica Nazionale

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DOMENICA 31 LUGLIO 2011/Numero 337

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

Mare e montagna, dubbio risoltoLICIA GRANELLO e DARIO VERGASSOLA

l’incontro

Martone, “Perché noi credevamo”ANNA BANDETTINI

cultura

Il diario glamour di Cecil BeatonAMBRA SOMASCHINI e GIUSEPPE VIDETTI

l’attualità

Voyager, un clandestino nello SpazioELENA DUSI e VITTORIO ZUCCONI

PAOLO RUMIZ

DIS

EG

NO

DI A

LT

AN

MONTEVERGINE (Avellino)

Il temporale stava arrivando e noi ci eravamo persi inun labirinto di strade sterrate. Bisognava fare in frettaperché la cima del Monte Partenio — un complicatosaliscendi coperto di selve — si stava trasformando in

acchiappafulmini. Eravamo già sul punto di scappare quan-do, in cima a una salita, a quota 1.200, vedemmo un cancelloarrugginito cigolare nel vento. Restammo senza fiato. Oltrequel portale semiaperto iniziava una strada in discesa condoppio guardrail. E lì in fondo, tra le nubi al galoppo, c’era unaspianata aperta sul nulla, coperta di enormi, nude piattafor-me di cemento e strani muretti semicircolari.

Sembrava il cerchio del sole di Stonehenge, un tempio in-ca per sacrifici umani. Invece era l’ex base Nato di Monte-vergine, il nido smantellato dei radar della Sesta Flotta, l’oc-chio dell’America sul Mediterraneo. Esattamente quello checercavamo. Nemmeno Marco, che era del posto, c’era maiarrivato ed era, come noi, senza parole. Gli americani aveva-no portato via tutti i loro impianti, e il luogo, riconsegnato al-la natura, aveva assunto una forza preistorica, quasi minera-

le. Verso ovest, tra gli squarci di nebbia, oltre il querceto nel-la tempesta, comparivano la piana di Nola e la Valle Caudi-na. Napoli era invisibile nella pioggia. Fu allora che venne lafatamorgana. Tra un sipario e l’altro di nubi comparve unacresta dentata come di stegosauro, e poi un’altra ancora. Era-no colline irte di antenne, parevano le guglie del duomo diMilano, e in quel clima da Poltergeist— stava grandinando —la cresta del Partenio, con i suoi luoghi sacri in contatto damillenni con la Dea Madre, ora si svelava coperta di una fo-resta pluviale di ripetitori, attivi o dismessi. Una montagna diferro e ruggine dove il rapporto col cielo continuava sotto for-ma di una tempesta elettromagnetica che additava un’om-bra terribile sopra di noi.

Non avremmo potuto scoprire quel luogo in un momentopiù fantasmagorico. La base Nato era vuota, ma il resto delleantenne estinte era lì, tra le nubi, con ancora appesa la targadell’esercito, della polizia, delle poste o di varie televisioni. Cisi aprì un mondo. Torri di metallo abbandonate da non piùdi dieci anni friggevano nel temporale come gabbie di Fara-day. Una montagna di ferri contorti come ramponi sulla gob-ba di un capodoglio friggeva nel temporale e urlava verso ilcielo chissà quale messaggio.

(segue nelle pagine successive)

le tendenze

Un’estate all’insegna del patchworkLAURA ASNAGHI e ILARIA ZAFFINO

SpiritiCase

Le

degli

spettacoli

Poveri ma belli, i bozzetti della domenicaNATALIA ASPESI e FRANCO MONTINI

Rocche abbandonate,fabbriche arrugginite,paesaggi dimenticatiIncomincia il viaggioestivo di “Repubblica”alla ricercadel Paese perduto

Repubblica Nazionale

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2011

la copertinaLe case degli spiriti

Inseguendo i luoghi perduti

Un cancello arrugginito, una selva di antenne, blocchidi cemento. È ciò che resta della base Nato di Montevergine,l’occhio dell’America sul Mediterraneo.Comincia da quiil viaggio estivo di “Repubblica”.Un itinerario tra fabbrichedismesse, stazioni fantasma, case abitate dal ventoPerché ciò che abbiamo abbandonato continua a parlarci

Neppure Marco che era del postoera mai arrivato lassù

Come noi, davanti a quella crestadentata di stregosauro,

restò senza parole

sina mi ero messo ad aspettare il silenzio. Ma il silenzio nonveniva. Era una notte dannatamente animata. Grilli, cani lon-tani, asini, capre, fruscii nella boscaglia. E poi quella densitàpazzesca di oscuri dei-guardiani infrattati come fauni tra icorbezzoli e i ginepri.

Verso mezzanotte mi accorsi che un San Basilio mi guar-dava in silenzio. La Luna era sorta dalla montagna e attraver-so il tetto sfondato del monastero illuminava un affresco pie-no di santi. Dal mio sacco a pelo vidi una processione usciredal buio e farsi strada verso l’uscita. Eusebio, Timoteo, Gio-vanni Crisostomo e altri andavano sotto le stelle verso il por-tale aperto sullo Jonio immenso e nero. L’ultimo era Basilio,che roteava gli occhi infossati. La Luna aveva ridato colore al-l’affresco sbiadito dalle intemperie, e i gerarchi erano là, ter-ribili, schierati come i dignitari di Bisanzio nel mosaico diSant’Apollinare a Ravenna.

Non avrei mai più visto una notte simile. Presi frenetica-mente appunti fino all’alba. Scrissi: «Mantide religiosa, un ge-co che tenta di prenderla. Geco che batte in ritirata, lancia ilsuo sordo richiamo. Colonna di formiche illuminata dalla Lu-na. Brucare di capre. Cane color del miele entra nella chiesa,

mi annusa, poi mi si accuccia vicino e si fa carezzare». E an-cora: «Vento sibila tra le pietre come un’arpa eolica. I santi tor-nano nel buio. Luna scende a perpendicolo nella Jonio colorzinco. Dormiveglia con litanie e parole greche antiche, Anth-ropos, Ouranòs. Primi galli sulla montagna, scricchiolio dellepietre all’alba». Le vecchie pietre parlavano, ne ero sicuro.Non occorreva che fossero abbandonate da secoli. Pochi an-ni bastavano per instaurare un rapporto. Era sufficiente che ilvento ne diventasse inquilino.

***La conferma la ebbi due anni dopo in Appennino. In una not-

te di temporale — aveva nevicato sul Gran Sasso — ero arriva-to in un nido d’aquila di nome Rocca Calascio. Mi avevano in-dicato una locanda per pernottare ma i fulmini illuminavanosolo i resti di un maniero coronato da un torrione. Mentre guar-davo quei resti, sbucò dalla pioggia una donna di nome Susan-na, che mi fece strada tra vecchie case e stradine in selciato e in-fine mi spalancò l’uscio di una stanza calda e confortevole.

Spiegò che il paese era rimasto vuoto per anni ma lei col ma-rito (erano entrambi romani) l’avevano riabitato, ci avevanocresciuto cinque figli e sistemato i vecchi muri come albergodiffuso. Quando se ne andò, mi sistemai, felice come un toponel formaggio. L’apparenza sinistra del luogo era smentita e ri-masi sveglio per un bel po’ ad ascoltare la pioggia. L’indomaniSusanna raccontò nei dettagli il suo incontro col luogo. Era in-verno, e lei col suo uomo stavano scendendo con gli sci nellaneve fresca da Campo Imperatore, quando videro le rovine del-la rocca possedute dal vento e da nuvolaglia di quota.

Era strano. Tutti erano scappati dal paese, ma i nuovi venu-ti ne sentivano il richiamo. «Vieni», dicevano loro le rovine. Daallora la vita di Susanna Salviati cambiò. La chiamata divenne

CPAOLO RUMIZ

(segue dalla copertina)

i arrampicammo nel labirinto, passammo liberamente vertigi-nosi ballatoi, sentimmo il vento sibilare in vecchie strutture pa-raboliche, oltrepassammo squarci di filo spinato, calpestam-mo piattaforme di cemento coperte di muschio e vetri rotti,sfiorammo pannelli elettronici spolpati dai vandali, passam-mo sotto torrette di guardia perfettamente vuote e indecifrabi-li totem d’acciaio. Non erano segni di una civiltà estinta ma re-sti parlanti del nostro secolo.

***Fu allora che pensai alla prima volta in cui avevo sentito del-

le presenze in una rovina abitata dal vento. Era successo inGrecia nel 2004. Ero solo, e non so cosa mi avesse preso di bi-vaccare sui faraglioni di Zante, nella chiesa di Aghios Andreassemidistrutta da un terremoto negli anni Cinquanta. C’erasolo un cartello stinto di legno a indicarla, ma egualmente erosceso a piedi per un sentiero da capre. Alcune edicole con pic-cole icone e lumini punteggiavano la strada nel tramonto.Portavano nomi di santi — Elia, Dionisio, Dimitri o Maria —che nascondevano malamente gli dei che li avevano prece-duti. Forse per questo richiamo pagano ero stato attratto dalluogo. Le pietre appese al precipizio mi parlavano.

L’ultimo sole affondava in un mare omerico «color del vi-no» illuminando il Santissimo oltre i resti dell’iconostasi, e ioavevo pensato di godermi quelle magnifiche rovine nella cer-tezza di una pace assoluta. Avevo tirato fuori dal sacco pomo-dori, pane e formaggio greco, ci avevo aggiunto capperi sel-vatici cresciuti su un muretto sbilenco, e dopo un sorso di ret-

Repubblica Nazionale

La prima volta in cui sentiidelle presenze in una rovina

fu in Grecia, a ZanteMi accadde poi sugli Appennini

Ora è come una febbre...

un ordine e la coppia lasciò Roma per trasferirsi in Abruzzo e ri-colonizzare la rocca. Aprirono una trattoria, sistemarono unacasa per abitarvi, fecero figli, restaurarono altre case per acco-gliervi ospiti. Ascoltai affascinato il racconto e poi, come adAghios Andreas, aspettai la notte per andare a caccia dei santi-guardiani. Fu un’altra notte speciale, perché sopra un mare dinubi basse c’era solo la Luna piena e il monte Sirente che navi-gava nell’aria senza vento.

***Ma la febbre dei luoghi abbandonati mi prese davvero solo

quando conobbi Paolo Vittone, un innamorato dei fari. Era uncollega milanese di Radio Popolare, di quindici anni più giova-ne, con cui avevo vissuto la guerra in Bosnia. Già allora, a Sa-rajevo, mi aveva parlato di rovine. Le chiamava «dimore delvento» e mi aveva svelato un mondo di fortezze, stazioni, fab-briche, ville nobiliari, miniere e relitti sui fondali. L’Italia erapiena di posti così, diceva, e si sarebbero dovuti inventariareper costruire una carta geografica speciale. «Mlp» la chiamava,mappa dei luoghi perduti.

I fari, dicevo. Ne cercava uno abbandonato per vivere, e in-vece ne trovò uno solo per morire. Un faro in funzione, nellamia Trieste, con una casa accanto. Non esattamente quello checercava, ma era pur sempre un’altana dove spalancare le im-poste sul mare. Si era gravemente ammalato. Negli ultimi me-si parlammo tantissimo e lui, guardandomi con occhi febbrili,spesso evocava luoghi perduti. Tonnare, manicomi, impiantiidroelettrici. Fabbriche, catacombe, strade e ferrovie. Dicevache le rovine erano mille volte più vive degli ipermercati. Equando il terremoto spazzò via l’Aquila, vaticinò che il ventoandava a impossessarsi dell’indicibile. La città.

Mi lasciò vecchi libri di storia e marineria, e in uno di questi

— Agenti segreti di Venezia a cura di Giovanni Comisso — tro-vai mesi dopo una mappa d’Italia disegnata a mano. Era chia-ramente un primo abbozzo della mitica Mlp. Indicava unatrentina di luoghi con formule allusive o metaforiche. A Nor-dest della Sardegna, tra Caprera e Maddalena, aveva annotato«Fortezza Bastiani». Sopra Avellino c’era un’ancor più miste-riosa «Cresta del Drago». In mezzo alla pianura padana stavascritto infine «Professor Nebbia». Da perderci la testa.

Non seppi mai se l’avesse fatto apposta. Fatto sta che da al-lora non ebbi pace. Portai sempre la mappa con me nei viaggidi lavoro, e questa si arricchì talmente che ne generò un’altra,più grande e completa. Ma lo spazio non bastava mai perchéovunque andassi trovavo indicazione di altre grandiose, inso-spettabili e sconosciute rovine. I miei viaggi si riempirono diuna geografia parallela. Paolo aveva ragione. L’inventario erasterminato e la mappa, come in un racconto di Borges, sem-brava disegnare il volto di qualcuno.

Per cominciare cercai il professor Nebbia. Non era unoscherzo di Paolo, l’uomo esisteva davvero. Emiliano, ottanta-cinque anni, una barbetta da elfo, Giorgio Nebbia era il piùstraordinario conoscitore di impianti industriali abbandonati

del Paese e, contrariamente al cognome, era uomo allegro da-gli occhi lucenti e mobilissimi. In un dialogo durato quattro oremi portò come un bracco a fiutare un labirinto di piste perdu-te, così la mia mappa si infittì di annotazioni. Aggiunsi la ferro-via marmifera delle Apuane, con le nuove cave aperte nelle gal-lerie. Le piattaforme dei missili Trident contro la Jugoslavia, si-lenziosamente installati e silenziosamente smantellati neglianni Sessanta. Le fabbriche papaline di allume, le zolfare sici-liane. Dietro a Marghera, altri cimiteri di veleni. E un’infinità dialtre primizie sconosciute.

Fu allora che mi munii di taccuino e partii a caccia dei luoghiabbandonati d’Italia. La nostra storia. E questo che segue, piùche un viaggio, è il rapporto di una malattia che dura da tanto,la mia. Uno zibaldone di scoperte fatte in tempi diversi dall’e-state del 2009, ma allineate geograficamente per non disorien-tare il lettore. Fari, miniere, passi alpini, fortezze, strade, ferro-vie, stazioni, fattorie, depositi di scorie atomiche, dighe. Rovi-ne benefiche o sinistre. Abitate da epopee o da storie nere. Ca-se degli spiriti dove talvolta ho provato brividi di paura, ma piùspesso serenità, specie là dove madre natura si era ripresa il suo.In molti di quei luoghi, come nel monastero greco, non avreiesitato a dormire da solo.

E adesso che parlino le pietre muschiate e le ruggini glorio-se. Che parlino i luoghi del vento, consumati dalla pioggia, dalsole o dal mare. I miserabili ruderi e i calcinacci sono cose mu-te, ma le rovine, perdio, hanno una voce sommessa e percepi-bile che anche un semplice restauro può spegnere. Per questo,quando ne varchiamo la soglia, il nostro silenzio ha più sensoche altrove.

(1 — continua)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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LE TAPPE

Le 25 successive puntate del viaggio di Paolo Rumiz

saranno pubblicate da domani, ogni giorno,

sulle pagine di R2. Anche il sito RE Le inchieste,

a partire da oggi, avrà l’articolo, il video,

la fotogalleria e la mappa di ogni puntata,

nonché l’archivio dell’intero viaggio

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 31 LUGLIO 2011

Repubblica Nazionale

l’attualitàOdisseeDopo trentaquattro anni la sonda sta lasciandoil Sistema solare per la Via Lattea.Con sé portail celebre “Disco d’oro”, con la speranza che anche gli altri abitanti dell’Universopossano ascoltare Chuck Berry e Beethoven

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2011

Chissà se ha pianto questo bambino di722 chili, quando è uscito dal grem-bo del Sole e ha cominciato la vita frale stelle? Chissà se Voyager 1, il primoclandestino dell’Universo, ha avutopaura, se già sta provando nostalgia

di quel pianetino e di quel sistema solare che ha ab-bandonato per emigrare e dove era stato concepi-to con amore e con trepidazione 33 anni, 10 mesi e31 giorni or sono? Se anche stesse piangendo, na-turalmente nessuno lo potrebbe sentire, nel vuotoche lo avvolge ora che ha bucato l’eliosfera, la sac-ca amniotica che lo ha avvolto per tutta la sua esi-stenza, ed è arrivato laddove nessun figlio degli uo-mini era mai arrivato nei 13 miliardi di anni dal BigBang. Soltanto noi, qui nella casa dalla quale se neandò, riusciamo ancora a percepire qualche va-ghissimo segnale anche se impiega sedici ore perraggiungerci. Ma uno dei suoi genitori, Tom Kri-migis, ancora lo segue e vorrebbe proteggerlo per-ché, come sappiamo, un figlio è per sempre e nonsi smette mai di essere padri e madri.

Si sa che ha lasciato il Sistema solare, questo an-goletto di Universo del quale noi ci crediamo ilcentro, per avventurarsi dentro la Via Lattea, la no-stra galassia, dentro la quale stiamo in proporzio-ne come una moneta da dieci centesimi caduta nelterritorio della Francia. Ha fatto sapere a casa, dabravo figlio, che attorno a lui è calata una quieteinattesa e gli ultimi soffi del “vento solare”, deglielettroni e protoni emessi dal Sole, non lo raggiun-gono più. Non ha trovato turbolenze, vortici, brut-te compagnie, l’atteso e teorico “shock” che erastato previsto, e continua a sgambettare alla velo-cità di tredici chilometri al secondo, 46mila chilo-metri all’ora. Potrebbe viaggiare per sempre, nel“sempre” della vita dell’Universo, anche dopo che

il suo cuore nucleare al plutonio avrà smesso dibattere nel 2020.

È un clandestino dell’Universo, il primo emigra-to illegale sfuggito al Sole, che nessun’altra stella ogalassia ha mai invitato. Perfetto simbolo delle pe-renni migrazioni di uomini e cose che l’umanitànon cessa mai di compiere, indifferente a leggi,barriere, gravità. Tenta di portare con sé docu-menti che nel 1977, quando fu concepito e lancia-to, fisici, matematici, filosofi della scienza, astrofi-sici come Carl Sagan, scrissero e im-maginarono potessero essere com-prensibili e decrittabili da creature in-telligenti sparse fra i duecento miliar-di di stelle. Potrebbero evitarglil’espulsione, la detenzione o la distru-zione. È il “Disco d’oro”, che sulle pri-me i progettisti non volevano perchétemevano che potesse alterare gliequilibri sensibilissimi della sonda,ma dovettero accettare.

Porta le prime battute dei Concertibrandeburghesi di Bach, sublimeesempio di matematica dell’anima,115 suoni della Terra, vento, mare, uc-celli, balene, messaggi dei trombonipolitici del momento, il segretario ge-nerale dell’Onu Waldheim e il presi-dente americano Jimmy Carter, deiquali a un ascoltatore del quinto o se-sto millennio non potrebbe importa-re di meno. I saluti di terricoli in 55 lin-gue diverse; grafici con i parametri che rappresen-tano il sistema solare; simboli di molecole. Il tuttoè inciso su un disco microsolco di rame placcato inoro a 16 giri, come gli album dell’epoca degli Elvis odei Led Zeppelin, che ormai anche qui sulla Terrasarebbe quasi impossibile da ascoltare, essendo il“16 giri” estinto come i mammuth. Per questo, il

“Disco d’oro” è chiuso in un cofanetto sigillato, contestina e puntina incluse, nella speranza che unE.T. un po’ arretrato possieda un vecchio giradi-schi. O che oltre la Via Lattea esista un sito come e-bay dove acquistare apparecchi usati.

Porta quindi nello spazio intergalattico il segnodi un’epoca che non esiste più e ci appare lonta-nissima nello spazio e nel tempo, quanto lui. Èl’ambasciatore di una Terra che, atomi e molecoleed equazioni a parte, non è più quella che lui lasciò.

Anche i ragazzi di oggi, figuriamoci gli“alieni”, faticherebbero a riconoscer-la. Uomini e donne sono approssima-tivamente ancora quello che erano,qualche centimetro più alti nella me-dia, grazie alla migliore alimentazio-ne di tanti, e destinati a vivere un po-co più a lungo, ma chi dovesse inter-cettare il clandestino delle stelle nonlo saprà mai. Le immagini frontali diun maschio e di una femmina d’uo-mo, che erano state incise sui dischiinseriti nelle sonde Pioneer anch’essedestinate alle stelle, furono eliminateper le proteste dei puritani, indignatial pensiero che qualche inconcepibi-le creatura nell’universo potessescandalizzarsi e pensar male di noiterrestri.

Ma le similitudini fra l’oggi e il ’77finiscono con l’anatomia umana.Quel 1977 era l’anno della morte di El-

vis Presley e dell’insediamento alla Casa Bianca diCarter, della benzina (in America) a 25 centesimi didollaro al litro, della pace fra Egitto e Israele, con ilprimo riconoscimento di uno Stato arabo al dirittoisraeliano di esistere come nazione sovrana. Eral’anno dell’inaugurazione dell’oleodotto dell’Ala-ska, quello che avrebbe dovuto soddisfare per sem-

VITTORIO ZUCCONI

IL DISCO D’OROIl Golden Record trasportatodalla sonda Voyager 1, pensatodai padri della missione comemessaggio terrestre ad altreeventuali forme di vita, è custoditodentro un cofanetto sigillato dotatodi testina e puntina. Tutti i suonisono stati incisi su un disco di rameplaccato in oro a 16 giri

Voyager 1

LA TERRALa prima immagine della Terra vista dal Voyager 1

Il clandestino delle stelle

Il video con i suoni e le immagini

inviate nell’universo a bordo

della sonda Voyager. È il materiale

contenuto nel “Golden Record”,

la capsula del tempo spaziale

sintesi delle conoscenze

dell’umanità e i saluti letti

in 55 lingue del mondo

REPUBBLICA.IT

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 31 LUGLIO 2011

“La mappa del genoma e la fine dell’atomica,ecco cosa aggiungerei oggi nel Golden Record”

Tom Krimigis, padre della missione

ELENA DUSI

Dei cento miliardi di stelle che formano la Via Lattea, possiamofinalmente dire di conoscerne una. Laddove arriva l’ultimoraggio del Sole si è spinta infatti la sonda Voyager 1. A bordo del-

la più lontana scheggia di umanità c’è quel “Disco d’oro” che Tom Kri-migis, uno dei padri della missione, principal investigator alla Nasa eprofessore di fisica alla Johns Hopkins University, ha contribuito alanciare.

Sono passati 34 anni dal decollo. Cosa aggiungerebbe nel “Discod’oro”?

«Informazioni sul livello raggiunto dalla nostra civiltà. Il disco con-tiene molti dati sulla specie umana che non sono cambiati negli ulti-mi tre decenni e mezzo. Ma non ci sono i traguardi recenti, alcuni deiquali avranno ricadute nei secoli a venire. Penso alla lettura del geno-ma umano, che aprirà la strada all’eradicazione delle malattie dallanostra specie. Allo sviluppo delle armi atomiche, che furono realizza-te per scopi di guerra ma ora sono in via di smantellamento proprioper evitare il suicidio di massa dell’umanità. Infine, oggi sappiamo co-me deflettere la rotta di un asteroide o una cometa diretti verso la Ter-ra, come quelli che provocarono l’estinzione dei dinosauri sessantamilioni di anni fa».

Chi scelse i contenuti del disco?«Carl Sagan, uno degli scienziati dell’Imaging Team di Voyager. Fu

lui sostanzialmente a scegliere i contenuti e a sostenere la discussio-ne con la Nasa. La nostra preoccupazione infatti era che il disco noncompromettesse l’equilibrio della sonda o il funzionamento deglistrumenti. La nostra priorità restava il successo della missione».

Voyager avrà energia per altri quindici o vent’anni. Poi?«Lo spazio è tremendamente vuoto. La sonda può durare migliaia

e migliaia di anni anche se non ci trasmette più segnali e ha il motorespento. Già oggi non abbiamo più modo, né bisogno, di correggere lasua rotta. Possiamo solo orientare la sonda affinché guardi una speci-fica regione del cielo. E dire che al momento del lancio nel 1977 ciaspettavamo di raggiungere solo Giove e Saturno. Avevamo un obiet-tivo di quattro anni, se qualcuno ci avesse detto che Voyager 1 avreb-be attraversato tutto il Sistema solare viaggiando per 34 anni lo avrem-mo preso per pazzo».

Oggi la sonda sta facendo “surf” sulla cresta dell’onda del ventosolare, sfruttando il respiro della bolla che oscilla continuamente.Quanto durerà?

«Bella domanda. Avremmo bisogno di un modello teorico per ri-spondere, ma non ne abbiamo perché stiamo esplorando una fron-tiera nuova. L’intuito mi suggerisce che andrà avanti così un paio dianni. Ma Voyager ha già dimostrato che la natura ha più immagina-zione di noi e non sappiamo cosa aspettarci quando la sonda rag-giungerà lo spazio interstellare».

Crede che qualcuno raccoglierà il “Disco d’oro” prima o poi?«Certo non è facile. Ci vorranno altri quarantamila anni prima che

la sonda attraversi un’altra costellazione, quella della Giraffa. L’unicacertezza per questo messaggio in bottiglia cosmico è che, se anchequalcuno lo raccoglierà, noi non lo sapremo mai. Per Voyager, il fina-le dell’avventura è affidato solo all’immaginazione».

pre la fame di petrolio, del primo volo commercia-le del Concorde, della prima risonanza magneticasperimentata a Brooklyn, dell’ultima esecuzionecon la ghigliottina in Francia e della prima esecu-zione di un condannato in America, dopo la pausaimposta dalla Corte Suprema. A Sanremo condu-ceva Mike Bongiorno e vincevano gli Homo Sa-piens con Bella da moriree a Roma governava Giu-lio Andreotti. Proprio nel 1977, Spielberg ci illusecon i suoi Incontri ravvicinati.

Il suo computer di bordo, che pure lo ha guidatoin un viaggio interplanetario che ci ha regalato im-magini meravigliose di Giove, Saturno e la primafoto cartolina del Sistema solare visto da fuori, in-viata nel 1990, è un patetico processore con me-moria da 68K, sessantottomila byte, quattro milio-ni di volte più piccola dei 256G, miliardi di byte den-tro il minuscolo laptop sul quale sto scrivendo. Maquella era la capacità dei personal computer chelanciarono la cyberivoluzione che oggi stiamo vi-vendo nella esplosione della Rete, era la memoriadel Commodor Pet, commercializzato proprio nel1977 o, nello stesso anno, dell’Apple II, l’antenatodella dinastia degli Apple Macintosh. È archeolo-gia del futuro, quella che il bambino ormai adultoe uscito dalla casa del Sole porta dentro di sé, nell’i-potesi neppure quantificabile che in un tempo lon-tano dai noi milioni di anni luce finisca nella rete diqualche pescatore interstellare. Ma se ascoltare ilprimo movimento dei Concerti brandeburghesio ilfruscio del vento in un bosco non dirà nulla agliascoltatori di altri mondi, grazie a quell’ammassodi sofisticatissima e antiquata ferraglia che ora va-ga tra le stelle, abbiamo finalmente la risposta al-l’interrogativo che ci tormenta dalla prima voltache il bisnonno scimmia si eresse sugli arti poste-riori e alzò lo sguardo verso il cielo notturno. I viag-giatori interstellari esistono. Ed è lui. Io, robot.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE IMMAGINISono centoquindici quelle contenutenel Disco d’oro: dalle foto del TajMahal e della Grande Muragliaalle immagini della Terra vistadallo Spazio. Molti anche i disegnie le rappresentazioni scientifiche:la doppia elica del dna,lo spermatozoo che feconda l’ovulo,il feto nell’utero

LE MUSICHEVentisette brani, incisi sul Discod’oro, raccontano la Terra attraversole musiche del mondo: dalla Quintasinfonia di Beethoven al Concertobrandeburghese N.2 di Bach;da Melancholy Blues di LouisArmstrong a Johnny B. Goodedi Chuck Berry; dalle percussionisenegalesi al canto dei Navajo

I SUONISul disco sono stati incisi ancheuna varietà di suoni del pianeta Terra:dall’eruzione di un vulcanoal suono del terremoto; dal soffiodel vento al tintinnio della pioggia;dai canti degli uccelli ai barritidegli elefanti; dai baci tra mammae figlio al battito del cuore; dal rumoredel trattore a quello di un autobus

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Repubblica Nazionale

Sovrani, divi, artisti e potenti del mondoaccorrevano davanti al suo obiettivo perchésapeva cogliere “le maschere di porcellana”

che nascondevano l’alta società. Eppure il ragazzo cockney che anticipòWarhol, cambiò “Vogue”, vinse due Oscar e fotografò Marlon Brandoe Mick Jagger, un giorno disse: “Non ne posso più”. Ecco le sue confessioni

CULTURA*

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2011

Se fosse nato vent’anni dopo avrebbe dato filo da torcere a AndyWarhol. Cecil Beaton (1904-1980) aveva mille manie in comune colmaestro della pop art. Conservare, raccogliere, ritagliare e incollare,ad esempio. Se il fotografo e costumista inglese non avesse riempitoscatole, cassetti e armadi di disegni e manoscritti, prove e bozzetti,scatti mai pubblicati e appunti, i suoi diari non sarebbero mai stati

pubblicati in sei volumi (e poi ripubblicati in versione integrale e ben più piccan-te) e James Danziger non si sarebbe scervellato per compilare uno scrapbook vo-luminoso e intrigante come quello che Assouline si accinge a pubblicare. La dif-ferenza era che Warhol, americano e piccolo borghese, emerso negli anni delboom e del consumismo, razzolava nell’underground e dissacrava miti, mentreBeaton, snob e cockney, si cimentava con un’arte relativamente nuova come lafotografia, smaniava per immortalare profili di sangue blu, divi e simulacri d’al-ta moda schiacciato tra le due guerre, quando la parola glamour suonava blasfe-

ma. Ma, ancora, in comune, Beaton e Warhol avevano la smania di protagoni-smo; uno diventando il Velazquez di regnanti, detronizzati e divi, l’altro spato-lando e litografando impietosamente volti di vip, star ed ereditiere.

Vent’anni facevano la differenza all’epoca. Beaton, figlio di un facoltoso com-merciante di legname di Hampstead con velleità d’attore, era diventato un foto-grafo dandy con velleità di cantante. Pansyera la parola con cui in Inghilterra bol-lavano i ragazzi effeminati e snob come lui, freschi di college (Cambridge, nonOxford con suo sommo rammarico, e senza una laurea). Che comunque ben siguardava dall’ammettere la sua omosessualità (il grande amore della sua vita, Pe-ter Watson, collezionista d’arte, non fu mai suo amante), covando passioni se-grete per i boys e alimentando love story improbabili con dive dall’ambigua ses-sualità come la Garbo. Nel 1948, quando s’incapricciò della Reddish House, lamagione di Broad Chalke dove è vissuto e sepolto, Greta fu la prima ospite illu-stre. Doveva pur essergli grata per averla ritratta nel ’46 fiera, altera e immortalecome una dea. Si era arresa al suo obiettivo stregata dall’immagine che aveva scat-tato nel ’31 a Gary Cooper — la più bella mai vista. Gli aveva persino perdonato laplatonica infatuazione per Marlene Dietrich, il «giocattolo» preferito degli anniTrenta, quando era già fotografo ufficiale di Vogue, in carriera per diventare l’u-nico occhio indiscreto ammesso a Buckingham Palace (ovvio, fu lui a tramanda-re ai posteri l’immagine ufficiale dell’incoronazione di Elisabetta, nel 1953).

Qualcuno l’avrebbe volentieri preso a schiaffi quando se ne usciva con escla-mazioni tipo «forse il secondo peggior crimine del mondo è la noia; poiché il pri-mo è essere noiosi» e raccontava per immagini l’alta moda parigina immersa inun’opulenza degna del Re Sole mentre l’Europa era ancora stordita dai bombar-damenti. Truman Capote, complice e perfido con i vip gay che incrociavano lasua orbita, disse che Beaton era un’autoinvenzione, aveva cioè strumentalizza-to le “vittime” del suo obiettivo per ottenere l’agognato posto al sole, un briciolodi fama che lo facesse sentire in famiglia accanto al Duca di Windsor e Wallis Sim-pson, Marilyn Monroe e Elizabeth Taylor, Yul Brynner e Marlon Brando, Cristo-bal Balenciaga e Hubert de Givenchy. Proprio come Warhol con Elizabeth Tay-lor e Jacqueline Kennedy. Ma non poteva essere solo la smania di compiacere igrandi socialiteche creava meraviglie nella camera oscura se anche Picasso e Dalìsfilarono negli anni Trenta davanti all’obiettivo di Beaton, e di seguito, in 53 annidi attività (1926-1979), Winston Churchill e Charles de Gaulle, Maria Callas e Ka-ren Blixen, Rudolf Nureyev e Georgia O’Keeffe, David Hockney e Barbra Streisand(oltre a mezzo secolo di scatti per i magazine di moda). Non è certo per solidarietàgay che Mario Testino, suo erede alla corte d’Inghilterra, dice: «Ha segnato la suaepoca come se fosse stato l’unico»; e Nick Knight: «Ha fotografato le bellezze del-l’alta società come fossero maschere di porcellana; è sempre stato poetico e sen-sibile, anche nelle memorabili immagini di guerra». La Seconda guerra la patì, mafece il suo dovere. Il ministero dell’Informazione lo incaricò di documentare leattività sul fronte inglese. «Mi sentivo frustrato e avevo vergogna della mia totaleinadeguatezza», scrisse nel diario, eppure portò a casa immagini indimenticabi-li; commovente quella di Eileen Dunne, una piccola vittima di tre anni, che nelletto d’ospedale si stringe al suo orsacchiotto di pezza.

Solo quando una nuova generazione di fotografi, capitanata da Irving Penn eRichard Avedon, si affacciò all’orizzonte, Beaton perse il suo leggendario aplombe scrisse nel journal: «Non ne posso più del mio solito vomito. Foto di giovani mo-delle che sopravvivono solo finché restano impersonali o di vecchie e ricche ar-

pie che posano come se avessero in bocca un panetto di burro che non si scio-glie». Non era più l’unico, ma neanche finito. Lo aspettavano ancora due Oscar(nel 1958 per Gigie nel ’64 per My Fair Lady) e una sfilza di Tony Awards per il suolavoro di costumista a Hollywood e a Broadway. Tra l’obiettivo di Beaton e Au-drey Hepburn si scatenò una magia che solo anni più tardi si sarebbe ripetuta traquello di Herb Ritts e la sua “vittima” Madonna.

L’incontro di Beaton con la cultura pop, una rivoluzione per un ritrattista abi-tuato ad ambienti più blasonati, fu quasi inevitabile, poiché anche il mondo del-la moda ne fu travolto negli anni Sessanta. Memorabili gli scatti a Keith Richardsa bordo piscina. E i ritratti di Mick Jagger ispirati senza dubbio dalla canzone Sym-pathy for the Devil. Ma la scintilla era scattata dopo l’incontro con Warhol, che persua natura mai avrebbe detto no al fotografo della regina. I due s’incontrarononel 1967. E chissà quanti dardi avvelenati volarono nello studio il giorno in cuil’impeccabile pansy inglese fotografò l’eccentrica queer americana.

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GIUSEPPE VIDETTI

CecilBeaton

diariI

di

L’uomo che inventò il glamour

DIVINE E REGINEIn queste pagine una serie di foto scattate

da Cecil Beaton in tutta la sua carriera;

in basso, un biglietto di auguri di Natale

e buon 1965 dalla Regina Elisabetta al fotografo

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 31 LUGLIO 2011

Dalla guerra a “My Fair Lady”i mille occhi di un visionario

AMBRA SOMASCHINI

Voltie occhi scontornati come fossero maschere di car-nevale in miniatura, cartoline, telegrammi, articoli ri-tagliati da quotidiani, magazine e riviste, manifesti, il-

lustrazioni, biglietti natalizi, biglietti di auguri, pezzetti dicarta con la sua calligrafia. In quei volti, in quegli occhi c’era-no Mata Hari, Greta Garbo, Gloria Swanson,Grace Kelly, Sophia Loren. Anche Hitler eMussolini e I coniugi Arnolfini di Van Eyck.Volti selezionati, tagliuzzati, estratti dal loromondo e inseriti nel suo journal, nel suo dia-rio, nel suo scrapbook, nelle sue pagine na-scoste su cui annotava situazioni e giorni,mesi e ore, su cui scriveva e appiccicava le im-magini a cui teneva di più, margini su cui ac-cumulava il passare degli anni. Cecil Beaton,the Art of the Scrapbook, edizione limitata,curata e introdotta da James Danziger (As-souline, 392 pagine, 250 dollari, acquistabilesu shopassouline.com) rivela la passione na-scosta del fotografo celebre per i ritratti, delcorrispondente di guerra, del designer di My Fair Lady. Rive-la la sua inner vision.

Una raccolta privata, un mondo a parte, una rivelazioneper Martine Assouline (specializzata nelle edizioni luxuryart) che ha seguito per dodici mesi l’editing di questa monta-

gna di materiale (quarantadue volumi provenienti dal CBStudio Archive di Sotheby’s Londra) lavorando su ottomilascansioni e sistemando disegni, dipinti, set di teatri, com-menti e didascalie messi insieme dal Fair Beaton — come lodefiniva Diana Vreeland — senza un ordine preciso nell’ar-

co di quarant’anni. Francobolli, fotogram-mi, fotografie: «I live by my eyes», scriveva il fo-tografo. Era un visionario e le immagini era-no il suo nutrimento, il suo cibo intellettuale.Era nelle immagini che canalizzava la suaenergia creativa e tagliava e incollava in mo-do quasi ossessivo-compulsivo ogni pezzo opezzetto di carta che trovava. Un libro imma-ginato come un party surreale, elaborato ederudito e, nello stesso tempo, pettegolo, naife molto, molto personale.

«Il suo interesse per la fotografia era co-minciato quando aveva tre anni — ha scrittoDanziger — era inciampato in un’immaginedi Miss Lily Elsie, un’attrice popolare a quei

tempi e metteva da parte le sue cartoline. Al suo undicesimocompleanno ricevette la sua prima macchina fotografica.Quella che determinò il suo stile e lo fece diventare famosocome Richard Avedon e Irving Penn».

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FO

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Repubblica Nazionale

Per anni sono stati il richiamo che faceva affollare le sale,gli antenati delle locandine. Ma dietro quei manifestiche tappezzavano di atmosfere hollywoodiane i muri

delle città italiane c’era il lavoro di decine di pittori rimasti anonimi.Fino a quandoun collezionista è riuscito a mettere insieme le tavole originali e farne un museo

SPETTACOLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2011

C

Bozzettisti della domenica

ArteL’

povera

FRANCO MONTINI

La maggior parte sono andati perduti: utilizzati come combustibile nelle stufe delle tipogra-fie, dimenticati durante traslochi, gettati nella spazzatura. Così migliaia e migliaia di bozzet-ti originali, da cui sono stati realizzati manifesti cinematografici destinati a stamparsi per

sempre nella memoria collettiva, non esistono più. Fatte le debite proporzioni, è come se de La Gio-conda o di Guernica esistessero solo riproduzioni cartacee, ma non il quadro originale.

Il fatto è che per molto tempo, i disegni originali per i poster cinematografici non hanno godutodi alcuna considerazione, come testimonia l’avvertenza stampata su un bozzetto degli anni Ses-santa: «Non è un’opera d’arte. È una semplice illustrazione realizzata da un artista senza fama, scel-ta per pubblicizzare questo film». E invece, mezzo secolo dopo, questi disegni sono finiti in un mu-seo, il primo e l’unico al mondo che espone i bozzetti originali, realizzati dai più apprezzati cartel-lonisti di cinema: Ballestar, Capitani, Martinati, Brini, Acerbo, Geleng, Cesselon, Iaia, Ciriello, DeSeta, Nano, i fratelli Nistri, Symeoni, Casaro. Il museo, chiamato “Cinema a pennello”, si trova aMontecosaro, un paesino delle Marche a pochi chilometri da Macerata. Ospitato in un palazzo ari-stocratico, è nato per iniziativa di Paolo Marinozzi che, spinto da una passione pura, quasi infanti-le, ha cominciato a raccogliere i bozzetti, a collezionarli e catalogarli, fino ad arrivare a possedernealcune migliaia. La ricerca è stata lunga e complicata e si è svolta spulciando nei mercatini domeni-cali, rivolgendosi a qualche altro collezionista, «anche se — racconta Marinozzi — paradossalmen-te, a differenza di quanto accade con i manifesti, un vero e proprio mercato dei bozzetti non esisteproprio per l’esiguità del materiale», infine contattando gli stessi cartellonisti o i loro familiari, poi-

ché la maggior parte dei pittori di cinema sono ormai deceduti. Ma a parte qualche caso isolato, do-vuto più alla devozione di figli e nipoti nei confronti del lavoro del padre o del nonno, anche gli stes-si cartellonisti hanno conservato pochissimo della propria produzione. «Il fatto — spiega AverardoCiriello, oggi il decano del gruppo, novantatré anni portati splendidamente — è che noi stessi sia-mo stati regolarmente depredati. Nonostante fossimo a tutti gli effetti i titolari dei diritti delle nostrecomposizioni, i disegni, una volta realizzato il manifesto, non ci venivano mai restituiti».

Nel museo sono raccolte alcune migliaia di bozzetti, la maggior parte fatti a tempo di record, inun paio di giorni, perché i ritmi di lavorazione imposti ai cartellonisti erano frenetici. «Tant’è — ri-corda Giuliano Nistri — che i tentativi di coinvolgere in questo lavoro artisti di nome come Guttu-so o De Chirico, si risolsero regolarmente in un fallimento». La collezione di Montecosaro copre unarco di tempo di oltre quarant’anni, dalla fine degli anni Trenta alla fine dei Settanta, quando il ma-nifesto cinematografico, almeno nella versione disegnata, è definitivamente defunto. «Il manife-sto disegnato — racconta un altro cartellonista, Ermanno Iaia — è scomparso per la nascita di nuo-ve fonti di informazioni sui film: i trailer, la pubblicità sui giornali, la Rete, anche se a sferrare il col-po definitivo è stato l’improvviso aumento del costo delle affissioni deciso dai Comuni. Cosa cheha spinto le distribuzioni cinematografiche a realizzare manifesti fotografici ovviamente più eco-nomici, ma che nessuno guarda più».

hissà perché pareva meglio pubblicizzare ifilm con i manifesti disegnati e non con le im-magini del film stesso, con i volti veri dei divicelebri, con inquadrature diventate talvoltasimboli epocali di un attore o di un autore. Illavoro originale di un artista che non aspira-va a essere tale, o meglio di un illustratore (dicopertine di libri, di giornali satirici, di storiea fumetti) e che del resto si adattava alle mi-steriose esigenze dei committenti, non pote-va costare meno di una riproduzione foto-grafica; ma forse si pensava che per un gran-de pubblico, una pubblicità che in qualchemodo richiamasse le copertine della vecchiaDomenica del Corriere o ancor meglio i ro-mantici fumetti di Grand Hotel, sarebbe sta-ta più comprensibile, più gradevole, più sti-molante. Oppure le esagerazioni comiche odrammatiche dei cinecartelloni dipinti po-tevano servire da richiamo come le coperti-

ne dei romanzi gialli, promettendo piùdramma, più mistero, più divertimento. Inun solo manifesto poi si potevano accumula-re personaggi e situazioni, come per esempioin quello di Sentieri selvaggi di John Ford,1956, in cui Averardo Ciriello inserisce JohnWayne con fucile, una cavalcata di pelleros-sa, un deserto; o anche de La dolce ala dellagiovinezzadi Richard Brooks, 1961, in cui Lo-renzo Nistri mette insieme Paul Newmanche abbraccia Shirley Knight, Geraldine Pa-ge che fuma pensosa una sigaretta e dueenergumeni che si accaniscono su Newman:

più del titolo promette passione, tradimen-to, intrigo, vendetta.

Tutto in una volta, il che rendeva i fanta-siosi cartelloni di più facile lettura, più com-prensibili, più capaci di eccitare la fantasia,del realismo e del limite delle cineinquadra-ture. C’era anche la possibilità, attraverso ildisegno, in tempi probi come gli anni Cin-quanta, di esagerare un po’ nelle scollature,nella rotondità del seno, nel turgore delle lab-bra, nella gonna sollevata sulla coscia, comeClaudia Cardinale, seno e gambe espostesotto gli occhi di un inferocito Ugo Tognazzi,

per Il magnifico cornuto di Pietrangeli, 1964,di Alessandro Simeoni. Spesso poi, questeimmagini erano volutamente aliene al sensodel film, per non intimidire un pubblico sem-plice, anche se allora attirato dal cinema in-telligente molto più di oggi: come il grandemanifesto dello stesso Simeoni per La dolcevita, 1960, che riproduce una specie di ViaVeneto in festa, ben poco felliniana.

A rivederli oggi, tutti insieme, nel catalogodel museo di Montecosaro, reperto davveroarcheologico di un cinema scomparso, ci siaccorge di non averne quasi un ricordo, an-

Cinemadel

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NATALIA ASPESI

Quando il quadro era il film

Repubblica Nazionale

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che se riferiti a film tuttora indimenticabili,oppure del tutto dimenticati, o di cui non sisospettava neppure l’esistenza. Adesso ci ap-paiono soprattutto come la memoria delle ci-nesale di paese, quelle parrocchiali o delle se-di di partito, luoghi che come cinema da tem-po non esistono più perché se questo tipo dimanifesto a poco a poco è scomparso, ad unoad uno quei cinema periferici si sono chiusi.Si era esaurito quel pubblico che sino agli an-ni Sessanta correva ovunque, anche nei pic-coli centri, a vedere di tutto, e si entusiasma-va per Tina Pica ma anche per Visconti o Pe-tri, ma poi si era lasciato attirare da altri diver-timenti o chiudere in casa dalla televisione.

Il ricchissimo e straordinario museo che harecuperato non i manifesti ma addirittura i lo-ro preziosi bozzetti originali, non raccontasolo la storia di un cinema soprattutto popo-lare e di un pubblico semplice ma appassio-

nato, ma rivela anche questo mondo som-merso di pittori sconosciuti o noti per altreiniziative: non erano i film insomma a dar lo-ro la popolarità, quando la raggiungevano,come se illustrare Stanlio e Ollio tra aeropla-ni e paracaduti di palloncini e arabi a cavalloper I diavoli volanti, 1939 (Giovanni Di Stefa-no), o riprodurre la faccia di Nino Manfredi inmezzo a belle gambe femminili per L’impie-gato di Gianni Puccini del 1959 (Rodolfo Ga-sparri), fosse un mestiere secondario, senzaglamour. Certo i tentativi di far firmare i ma-nifesti ad artisti di fama come Guttuso eranofalliti, tuttavia tra molte illustrazioni buttatelà, ce ne sono di interessanti anche se opera didisegnatori non conosciuti, e si può pensareoggi che fosse il committente a non volerenulla di sofisticato o vagamente artistico, pre-tendendo illustrazioni delle più elementari.

Eppure così accumulati nel museo come

nel catalogo, si colgono le differenze,capita la sorpresa, la possibilità diun’invenzione, un accenno di creati-vità. Ermanno Iaia è tra i più prolificicartellonisti e ne crea alcuni che avreb-bero potuto essere opere esposte in mo-stre d’arte contemporanea: come peresempio quello de Il conformista (Ber-nardo Bertolucci, 1970), in cui campeg-gia il profilo di Trintignan con cappello epistola, punteggiato dalla moltiplicazio-ne della sua faccia; o quello celebre per Ilpadrino (Francis Ford Coppola, 1972),con il volto in ombra di Marlon Brando e lamano di un burattinaio sul titolo del film.Nel 1990 il grande sole stilizzato dietro a unalbero spoglio, per il film Il sole anche dinotte dei fratelli Taviani, diventa il manife-sto ufficiale del Festival di Cannes.

DOMENICA 31 LUGLIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35

LE IMMAGINIPoveri ma belli (1957) di Arnaldo Putzu

Black Jack (1968) di Rodolfo Gasparri

Il brigante Musolino (1950)

di Enrico De Seta

Guerra e pace (1956)

di Alessandro Biffignandi

La strada (1954), schizzo preparatorio

di Giuliano Nistri

Notorious (1946), schizzo preparatorio

di Enzo Nistri per la riedizione del film

La dolce ala della giovinezza (1962)

di Enzo Nistri

Ombre rosse (1939) di Anselmo Ballester

per la riedizione del film

Repubblica Nazionale

le tendenzeAl potere

Motivi e geometrie: rombi, greche, quadri, righe, paisley, fiori,pois. Colori: soprattutto arancione, giallo, azzurro. Materiali:cachemire, lino, tela, ma anche strass. Prendete questi ingredienti,mischiateli a piacere e date sfogo alla vostra immaginazionee creatività. È quanto stanno facendo gli stilisti: da Paul Smitha Missoni è il trionfo del patchwork

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2011

Sono fiori che sbocciano sui vestiti, farfallestampate su abiti svolazzanti. Disegni che par-lano d’Oriente, motivi a intarsio dalle geome-trie variabili: quadri oppure righe, ma anchequadri e righe insieme, alternati, sovrapposti.O il rincorrersi senza tregua, come a inseguire

l’infinito, di una greca. È il trionfo della fantasia, del pat-chwork, che si riassume in una parola, anzi due: mix&mat-ch, ovvero mescola e combina. Perché tutto è concesso, acominciare dagli accostamenti più audaci, impensabili,ironici, come vintage e moderno, maschile e femminile, ilpizzo e la pelle, scozzese e rigato. Basta infrangere qual-siasi regola, accostare tonalità dissonanti, fantasie diver-se, colori eccessivi e stridenti, accessori estrosi e il gioco èfatto. Paul Smith insegna. Basta rompere gli schemi delmonocolore e imparare a osare sempre di più, reinven-tando ogni volta il proprio aspetto: l’effetto spiazzante ènello stesso tempo stimolante e l’insieme che esce fuori inqualche modo funziona.

L’estate in questo aiuta, perché concede mischie ina-spettate, sovrapposizioni a sorpresa, abbinamenti di co-lori inediti, mix di tessuti e materiali, come fa Missoni chenei suoi sandali mescola stoffa, sughero e tacco in verni-ce. Ancora una volta è la natura la vera protagonista, la mu-sa ispiratrice. Non c’è abito, camicia o completo che nonabbia, magari anche solo appena accennato, il suo picco-lo giardino fiorito. L’altra fonte di ispirazione è l’Oriente,

come dimostra il disegno Paisley — quello degli scialli in-diani in cachemire — che non passa mai di moda e cicli-camente riappare sulle passerelle, arricchendo abiti,sciarpe, gonne, borsette. Copiato dai capi indiani origina-riamente in porpora e marrone, il motivo con gocce e fio-ri prende il nome da una cittadina scozzese nei pressi diGlasgow, Paisley appunto, dove dall’Ottocento si comin-ciarono a produrre scialli di cachemire con quella fanta-sia orientale. Da allora è rimasto il motivo più utilizzatoper sciarpe e pashmine.

Non solo fiori però. Fantasia vuol dire anche onde irre-golari, geometrie pop, righe frastagliate, asimmetriche,esuberanti che fanno tanto anni Settanta, come opered’arte che prendono vita sul corpo, pennellate dai coloricaldi, rombi, quadratini, puntini che ricordano la pixel art.La moda si fa specchio di una società sempre più fusion.Gli abiti da sera abbandonano la tirannia del nero e si ve-stono di colori accesi, vivaci, energetici come il giallo, l’a-rancione, l’azzurro. Il disegno definito lascia il posto al-l’imperfezione del segno, alle sfumature, ai contrasti di lu-ce e ombre. Il monocromatico viene scalzato dalle stam-pe. E anche le scarpe partecipano a questo rinnovato de-siderio di libertà, di positività, di allegria che regna incon-trastato: ecco allora tacchi a scultura, sandali ricoperti diswaroski o impreziositi da innesti di pietre e strass. Tuttoun mix (e un match) di colori fluo e geometrie.

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Mix & Match,agitare bene

prima dell’usoILARIA ZAFFINO

ELETTRICASul pantalone tre quarti

blu elettrico

Diane von Furstenberg

abbina un top leggero

dove si ripete

il motivo della greca

VIVACEÈ in cotone il completo

giacca e pantalone

a fiori di un rosso

acceso su fondo nero

proposto

da Louis Vuitton

TROPICALEPrada gioca

sull’accostamento

tra il giallo della camicia

in popeline con banane

stampate e il rosso

della gonna in cotone

FLOREALEMicro top e minigonna

in cotone con stampa

a fiori da abbinare

a una giacca kimono

tutta fiori. Il look

Philosophy per l’estate

CANVASComodissima

la borsa in canvas

stampata

con i manici

in pelle di vitello

Di Bottega Veneta

STRASSIn raso con la fibbia in strass

la scarpa proposta da Roger Vivier

SERPENTEÈ in pelle di serpente

stampata a motivo

geometrico la clutch

firmata Etro

SUGHEROMissoni mescola tessuto,

platform in sughero

e tacco in vernice

per il sandalo

patchwork

con doppio nodo

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 31 LUGLIO 2011

“Stampe barocche ma stile rock ’n’ rollcosì Lady Gaga è impazzita per un disegno ”

l’intervista/Donatella Versace

LAURA ASNAGHI

DonatellaVersace ripropone oggi le stampe baroc-che create da suo fratello e che vent’anni fa se-gnarono un capitolo importante nella storia del-

la maison.Con che spirito l’ha fatto?«Le stampe barocche di Versace hanno sempre avuto

un potere dirompente. Servivano a far uscire la moda dacerti schemi prefissati e anche oggi le ripropongo con lostesso spirito».

Come le inventò suo fratello Gianni?«Erano i primi anni Novanta e Gianni, che ha sempre

avuto una grande passione per l’arredamento barocco,decise di creare stampe dedicate a questo stile. E così me-scolò le stampe alla medusa, usando ventitré colori di-versi. L’effetto finale fu stupefacente: a Miami c’era chiusava i foulard barocchi per farne dei quadri. I primi fu-rono Elton John e George Michael. Erano stampe che an-davano controcorrente, decisamente sexy facevanoemergere le donne dall’anonimato della tinta unita. In-somma, chi sceglieva queste stampe voleva essere pro-tagonista».

Vent’anni dopo come vanno interpretate?«Con uno spirito rock ’n’ roll. Ecco perché sono ne-

cessari accessori forti, come il sandalo con il platform ola borsa colorata».

Tra le fan della stampa barocca c’è anche Lady Gaga... «Sì, mi ha chiamata perché voleva qualcosa di specia-

le e così le ho detto: “Ti metto a disposizione il nostro ar-chivio storico e scegli tu quello che ti piace”. Lei è im-pazzita per le stampe. E quindi ho realizzato apposita-mente per lei una serie di abiti spettacolari che ha poiusato per il suo tour».

Nelle collezioni che andranno in boutique le stampecome vengono utilizzate?

«Sono dappertutto, sugli abiti in seta, sulle maglie, sul-le camicie, sui pantaloni e persino sulla pelle. Fare stam-pe di questo tipo è estremamente costoso. Ma abbiamofatto in modo di mantenere un giusto equilibrio tra qua-lità e prezzo».

Come ha capito che questo era il momento giusto perriproporle?

«Da un sondaggio tra i giovani. Le stampe barocchehanno avuto una accoglienza straordinaria. Evidente-mente in momenti non facili come questi c’è bisogno diuna moda capace di trasmettere energia».

In autunno, andrà in vendita una collezione “limitededition” a prezzi low cost che lei ha disegnato per H&M.Le stampe barocche sono previste?

«Sì, certo ci saranno anche quelle insieme ai miei clas-sici abiti neri tempestati di borchie. Così anche i giovaniche amano la mia moda ma non possono permettersi dispendere molto potranno avere qualche pezzo firmatoVersace».

NATURALEFiori, motivi geometrici

in successione, scritte

si mescolano nell’abito

proposto da Rochas

Il tema dominante

è sempre la natura

TECNICAGonna e top in tessuto

tecnico stampato

fantasia. Sui sandali

in pelle un motivo

a intarsio a contrasto

È la proposta Marni

MORBIDAIn seta fantasia

il completo è composto

da camicia a manica lunga

e gonna morbida in tema

Da Sportmax

per l’estate 2011

ORIENTALESu gonna e tunica

in poliestere

con stampa colorata

di Issey Miyake

spicca la decorazione

tipica del kimono

SIXTIESVersace

abbina top

e gonna

multicolore

di cotone

stampato

con frange:

tra i motivi

geometrici

che ricorrono

c’è la greca

SEVENTIESAbito lungo

in georgette

attraversato

da ruches

e volant

La gonna

asimmetrica

ha un piccolo

strascico

dietro

Emilio Pucci© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2011

i saporiGeografie

Vongole e funghi, crostacei e pollo, calamarie parmigiano. E poi gamberi e mandarini, riccie mandorle, scampi e mele. Dagli antichi vitellotonnato e paella alle nuove invenzioni di oggibasta cambiare “o” con “e” per far incontrare le tradizioni della terra e della pesca

Mare o montagna? La domanda prende for-ma in primavera per diventare il tormentonedell’estate. Solo pochissimi privilegiati si per-mettono il lusso di godersi entrambe le op-zioni, prima uno e poi l’altra, o viceversa. Ilbello di non dover scegliere — bello o

brutto, buono o cattivo, a righe o a quadretti — è invece pra-tica quotidiana e democratica nelle ricette, dove moltospesso la “e” prende il posto della “o”. Unioni al posto diantitesi. In cucina convivono olio e burro, pesto e pomo-doro, agro e dolce. Su mari e monti, poi, si compilano in-teri ricettari.

All’inizio della storia della gastronomia — là dove lacucina smette di essere sopravvivenza per diventarepiacere — l’idea di unire terra e mare serviva a nobi-litare in qualche modo i cibi popolari, rafforzandolie trasformandoli in preparazioni curiose, origina-li, stupefacenti.

Piatto simbolo della gastro-alleanza, il vitellotonnato, che ha come base un pezzo di carne ma-gra, arrostita — nella versione ricca — o più sem-plicemente bollita (così da ricavarne anche il bro-do, raddoppiando la resa). Come renderla più ap-petitosa e diversa, al di là delle cento ricette confunghi, vino e verdure, se non accoppiandola conil pesce? In Piemonte, poca scelta di creature ac-quatiche, al di là di tinche e trote. In compenso,un tempo, grazie alla via del sale, nella campagnalangarola si lavoravano sia le acciughe — con-servate sotto sale, of course — sia i tonni, che ar-rivavano in massa nel mar Ligure in scia ai bran-chi delle acciughe (il loro pasto preferito) e fini-vano sfilettati sott’olio. Due ingredienti dal sa-pore deciso, conosciuti ma non quotidiani, per-fetti per irrobustire il gusto della carne. Non a ca-so, la ricetta originaria codificata dall’Artusi afine Ottocento prevedeva venissero sminuzzati,setacciati, rinforzati con i capperi sotto aceto, di-luiti con olio e limone. Nessuna traccia dellamaionese, che molti anni dopo ha reso la salsa diaccompagnamento ruffiana e delicata, idonea apalati meno rustici.

La stessa commistione golosa firma anchel’arroz valenciano en paella nella sua versioneoriginaria, la paella mixta. In questo caso, a farpremio sulle due culture alimentari, contadina emarinara — la regione valenciana è equamentedivisa tra la striscia che si affaccia sul mar Medi-terraneo e quella occupata dalla Cordigliera Beti-ca alle spalle — lo status di piatto di risulta. La pael-

la, infatti, nasce nelle cucine delle case nobiliari come cibo per la servitù.Un modo creativo ed economico per riciclare gli avanzi dei pasti dei ricchi,assemblando pollo e crostacei, pesci e selvaggina, carni rosse e verdure nel-la bassa padella di ferro, con riso, olio e zafferano. Se un nobile non si sa-rebbe mai abbassato a mangiare dalla paella, il popolo fece rapidamentesuo il godimento della padella messa in mezzo al tavolo, a cui attingere col-lettivamente fino all’ultimo chicco, staccando la crosticina sul fondo. Senon volete spingervi fino alla città firmata dalle magnifiche architetture diCalatrava, regalatevi una gita dove le propaggini montuose si specchianoin mare, dalle Marche alla Liguria. Faticherete a respingere il profumato as-salto di finferli e porcini al vostro piatto di linguine con le vongole.

LICIA GRANELLO

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Maremonti&

Né solo carne né solo pesce

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 31 LUGLIO 2011

Guardiagrele (Chieti)DOVE DORMIREHOTEL VILLA MEDICI

Contrada S. Calcagna,

località Rocca San Giovanni

Tel. 0872-717645

Doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREVILLA MAIELLA (con camere)

Via Sette Dolori 30

Tel. 0871-809319

Chiuso lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRARECARNI JUBATTI

Via Roma 150

Tel. 0871-84090

Valencia (Spagna)DOVE DORMIREAYRE ASTORIA PALACE

Plaza de Rodrigo Botet 5

Tel. (+34) 963-981000

Doppia da 90 euro,

senza colazione

DOVE MANGIAREVUELVE CAROLINA

Calle Correos 8

Tel. (+34) 963-218686

Chiuso domenica, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREMERCADO CENTRAL

Avenida Baron De Carcer

Tel. (+34) 963-829100

Govone (Torino)DOVE DORMIREIL MOLINO

Via XX Settembre 15

Tel. 0173-621638

Doppia da 75 euro,

colazione inclusa

DOVE MANGIAREPIER BUSSETTI AL CASTELLO

Piazza Vittorio Emanuele II 17

Tel. 0173- 58057

Chiuso lunedì, menù da 50 euro

DOVE COMPRARECONSERVE CASA CANTAMESSA

Via San Pietro 22

Tel. 0173-58551

Vitel tonnéLa carne di vitello,

lessata e raffreddata,

si serve a fette nappate

con una maionese arricchita

di brodo, capperi, tonno,

aceto, limone e acciughe

Vongole e funghiTagliolini con molluschi

scaltriti con vino bianco,

poi in padella insieme ai funghi

rilevati in aglio e olio,

con l’aggiunta del liquido

di cottura delle vongole filtrato

Calamari ripieniCottura al forno o in pentola

per i calamari svuotati

e imbottiti con i loro tentacoli

tritati e insaporiti in olio,

carne macinata,

tuorlo d’uovo e parmigiano

TartaraAcciughe sott’olio intere,

sminuzzate in corso d’opera,

nel goloso elenco

di ingredienti con cui si lavora

la carne cruda grattugiata

o macinata grossa

Il gusto di esserecontadini d’acqua salata

DARIO VERGASSOLA

Sono un ligure delle CinqueTerre. Più o meno un contadi-no con vista mare. D’accordo:

d’estate mi piace navigare con gliamici, gironzoliamo su una barcacosì pigra che si chiama “Pelandro-na”. E faccio finta di pescare, tantoper tirarmela un po’ come Jean-Claude Izzo. Avete presente? «Il so-le al tramonto, il mare, la pesca, leamicizie antiche e sincere...». Inrealtà sulle onde mi basta vederePortovenere e la Palmaria per starebene. Se devo scegliere tra mare infaccia e monti alle spalle penso amio padre: uno nato in un paese chesi chiama Corniglia, uno che fin dabambino ha coltivato la vigna, chemagari a pescare qualche volta ci èandato — tirando delle bombe inacqua, ci giurerei — ma è rimasto uncontadino vista mare.

Perché noi liguri delle CinqueTerre siamo così. Quella cosa sem-pre in movimento la guardiamocon diffidenza: è bella, ma non ci sipuò coltivare nulla. I primi pescato-ri di queste parti venivano dalla Si-cilia oppure erano napoletani. Poisono arrivati anche i contadini delmare: pugliesi di Taranto che si so-no messi a coltivare sott’acqua lecozze, i muscoli. Vigneti sommersi.Ma i nostri vigneti restano sulle col-line, colline così aspre che mio pa-dre ci metteva quattro ore di cam-mino per andare a raccogliere l’uva,e sei ore per tornare indietro perchésulle spalle aveva una corba da qua-ranta chili. Capirete bene il valore diun bicchiere di vino dopo tutti queigradini. E magari la smetterete conquesta storia dei liguri avari. La ve-rità è che siamo molto simili a quel-la parodia in cui l’albergatore del-l’entroterra dice al turista: «Belin,ma non te ne potevi stare a casa e

mandarmi la metà dei soldi?». Tut-te queste montagne alle spalle cihanno svuotato d’energie. Anzi, neapprofitto per fare un appello: sevolete rinuncio a fare la prossimaserata, non vengo nemmeno, bastache mi mandiate la metà del cachet.

Tra mari e monti, la risposta sonoi muscoli ripieni di mamma, nata aPignone e donna d’entroterra: apri-va i muscoli vivi e dentro ci mettevaun insieme di pane grattugiato, no-ce moscata, prezzemolo, mortadel-la e parmigiano (se non è “mari emonti” questo!), poi legava con delfilo bianco e faceva andare con olio epomodoro. Una delle cose miglioridel mondo. Anche il vino non è ma-le, ma non quello che facevano untempo. Allora potevi berlo solo doveveniva prodotto: mio padre scende-va in cantina dalla zia e riempiva unatanica da dieci litri per portarla almare, in città, a La Spezia, e si facevadodici chilometri a piedi, ma il gior-no dopo — questione di temperatu-ra, di ambiente — il vino aveva giàpreso un altro sapore. Adesso no, ilvino delle Cinque Terre è tutto buo-nissimo e la gente giovane è tornataa rimettere in piedi i muretti a secco,a scarpinare su e giù.

Nell’entroterra si mangia dap-pertutto da Dio — vi consiglio unposto magico a Groppo di Volastra,Cappun Magru — ma sul mare diManarola le acciughe al limone ti sisciolgono in bocca. E io sono uncontadino con voglia di mare. Aproposito, ancora non so quest’an-no come andrà con Parla con me.Ma se in autunno mi vedrete in bar-ca a pescare, allora saprete cosa èsuccesso.

(testo raccolto da massimo calandri)

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itinerari

CLASSICHE

Tonné VitelMatias Perdomo (Pont de Ferr,

Milano) capovolge

il vitel tonné: fettine

di ventresca cruda di tonno

da intingere nel ristretto

di vitello, con pois di maionese

FioriMaurizio Galligani

(La Refezione, Garbagnate,

Milano) propone le piccole

zucchine dell’orto insieme

ai loro fiori, farciti con tonno

e salsa d’acciughe

Il mare in terraNino di Costanzo (Il Mosaico

del Terme Manzi, Ischia)

fa incontrare gamberi

e mandarini, seppie

e peperoni arrostiti,

palamita e fave di cacao

Sapore di sale...Pino Cuttaia (La Madia, Licata)

appoggia su una sabbia

di mandorle ricci,

vongole, seppie e zucchine

Rifinitura con cedro candito

e spuma di mare

Bosco e crostaceiPer Chicco Cerea (Da Vittorio,

Brusaporto, Bergamo)

scampi con mela e borragine,

gamberi con cappelle

di porcino, granchio reale

con finferli e violette

D’AUTORE

PaellaNell’originaria versione mixta,

la padella di riso

alla valenciana si prepara

a partire dall’abbinamento

tra carne di pollo, pesce,

crostacei e verdure

Repubblica Nazionale

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2011

l’incontroSperimentali Al liceo scappava a Roma con Toni

Servillo per andare a teatro e tornavain tempo a Napoli per la scuolaA vent’anni aveva la sua compagnia,oggi dirige lo Stabile di Torino

ed è reduce dal grandesuccesso al cinemadi “Noi credevamo” “La mia vita”, confessa, “è fatta di cose diverseCome dice Shakespeare,c’è sempre un mondo

altrove. Non è semplice ottimismo ma un autentico principio di realtà”

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Sono un’animasognantema con i piediper terra. In questorivedo i miei genitori:mia madre amavala cultura,mio padre artigianola concretezza

un giorno le riprese per non far lievitarele spese. Tutto è stato pazzesco. Ma conorgoglio posso dire di non aver mollato,ho continuato a studiare, a prepararmi,a lavorare. Alla fine l’entusiasmo delpubblico ha come girato la medaglia. Etutto è stato così appagante per me.Quello che mi fa più piacere è che il filmha riaperto il confronto con una grandestagione politica della nostra nazione,una radice politica piena di contraddi-zioni, fatta di sconfitte e di speranze, dicui noi siamo figli».

Martone incarna un modo poco ita-liano di essere artista: sapiente ma senzatic intellettuali, operoso ma senza esibi-zionismi, abituato a guardare avanti masenza perdere la concretezza. «Sonoun’anima sognante ma coi piedi per ter-ra, e in questo rivedo i miei genitori.Mamma era una donna che amava lacultura e mi ha trasmesso l’amore per ilcinema e i libri. Mio padre era un artigia-no, un uomo abituato a fare più che apensare. Questa commistione per me èstata importante: mi sento una personache ha a che fare col pensiero, ma che sisa rimboccare le maniche e lavorare».

È nato e ha vissuto a Napoli, a Chiaia,primo di due figli maschi. Con tono sor-nione racconta che al liceo, lui e ToniServillo andavano di pomeriggio allaGalleria Lucio Amelio dove arrivavanogli artisti internazionali e alla cineteca diMario Franco. «Soprattutto ci trovava-mo nel Teatro Spazio Libero che era unasorta di Beat 72 di Napoli, cioè dove si fa-ceva l’avanguardia. E dal ’76, almeno,andavamo a Roma a vedere gli spetta-coli. Tornavano a Napoli la notte, in tre-no per essere a scuola l’indomani. Lascuola andava così e così, ma in com-penso imparavamo un mucchio di altrecose. L’avanguardia teatrale degli anniSettanta fu per tanti giovani una scoper-ta: era il ribaltamento di quello che pa-reva scontato. Io andavo a teatro con lascuola, ma quasi sempre gli spettacoli diprosa tradizionale mi annoiavano,mentre a Roma vedevo cose magari perquattro persone che però mi rovescia-vano il cuore. Non parliamo poi quandoscoprii Carmelo Bene».

Ostinato, a diciotto anni fonda ungruppo dal nome forse un po’ ostentato,I Nobili di rosa, da un’antica moneta al-chemica. «Ma l’alchimia c’entrava: me-scolare gli elementi in qualcosa di ina-spettato rispetto al punto di partenza è ilprocesso dell’arte». L’esplosione dueanni dopo, nel ’79 con Falso Movimen-to, ancora oggi ricordato come uno deigruppi che hanno fatto la storia dellasperimentazione teatrale italiana, uncollettivo spericolato di attori (alcuni ap-plauditi nei loro percorsi successivi, co-

me Andrea Renzi e Licia Maglietta) cheimpone un clima espressivo nuovo, do-ve cinema, teatro e musica hanno unrapporto stretto e una funzione rappre-sentativa più che tecnica. Falso Movi-mento segnò un salto di qualità nellascena italiana e Tango glaciale il suospettacolo-manifesto dell’82, un suc-cesso in tre continenti.

Martone ne è ancora orgoglioso.«Quello spettacolo nacque al TeatroNuovo di Napoli pieno di puntelli per ilterremoto e fu una cosa incredibile, nac-que in un rapporto fortissimo con la cittàoltre che dal mio amore per il cinema,specie per Godard. Poi, come spesso miè capitato a un certo punto sento il biso-gno di cambiare, di mettere in discussio-ne quello che è sicuro. In Falso Movi-mento avevamo chiamato a lavorarecon noi Antonio Neiwiller e Toni Servil-lo. Proposi loro di sciogliere ognuno lapropria compagnia e creare tutti insie-me un organismo nuovo. Nacque TeatriUniti che è ancora oggi una esperienzaunica: c’era sì, il nostro gruppo di base,

ma diventarono più frequenti gli attra-versamenti dal cinema al teatro e vice-versa e gli incontri con altri artisti, Leo DeBerardinis, Enzo Moscato con cui feciRasoi, Fabrizia Ramorino che venne ascrivere Morte di un matematiconapole-tano, il mio primo film. Sono stati annimeravigliosi. Eravamo un gruppo di per-sonalità forti ma più forte era l’idea del“cantiere di lavoro” del progettare congli altri. I miei tre film napoletani, Mortedi un matematico napoletano, L’amoremolesto e Teatro di guerra nacquero inquel fervore creativo che forse non si èmai più ripetuto. E poi a Napoli».

La Napoli di Martone è più interioreche vistosa. «È difficile per me parlarneperché a Napoli devo tutto e la amoprofondamente, le ho dedicato spetta-coli teatrali e film e ancora attingo da lì,ma è una città feroce, strana, che ti si puòchiudere addosso e improvvisamenteaprire. È leopardiana, vive questo sensoinfelice del nulla e dell’ineluttabilità deltutto ma, allo stesso modo di Leopardiche nel movimento di una pianta mossadal vento ritrova il senso della vita, Na-poli ti riporta, appunto, la vita».

Tutt’altra storia il «corpo a corpo», co-me lo chiama lui, con l’amatissima Ro-ma che per Martone inizia nel gennaio’99 quando ci si trasferisce da direttoredel Teatro di Roma, suo primo traguar-do nell’ufficialità dell’establishmentteatrale e dove ci resta fino al dicembredel 2000. Due stagioni in cui è successotutto. «Tanto per cominciare è nato ilTeatro India come spazio dedicato ainuovi linguaggi. Ricordo che andavopersonalmente da chi doveva fare la ca-bina elettrica, per esempio, perché ave-vo capito che se passavo per vie ammini-strative non avrei fatto nulla. Poi però lamia idea di dare al pubblico una visionediversa del teatro fu presa come un’in-trusione, il sistema teatrale romano co-minciò la tenaglia. A distanza di tempo,credo che già allora il paese cominciassea cambiare, già soffiava il vento che haportato alla chiusura degli anni succes-sivi. Quanto a me, nella mia vita ho cam-biato molte volte contesti. C’è una frasedel Coriolano di Shakespeare che dice:“C’è un mondo altrove, c’è sempre unmondo altrove”. E poi io non credo alledirezioni a vita dei teatri pubblici. Da noii direttori sono delle maestà e le monar-chie non mi piacciono».

Da quattro anni ha ricominciato unanuova avventura a Torino, «città bella,civile, che guarda al futuro». In teatro hail sostegno entusiasta della presidentes-sa Evelina Cristillin e «di un pubblicostraordinario». A Torino Martone perònon abita. Fa avanti e indietro con Romadove ha preso casa con Ippolita Di Majo,

sua moglie da dicembre, drammaturga,e dove c’è la figlia Luisa, otto anni, che vi-ve a Trastevere con la mamma. Da diret-tore, non riempie di sue regie il teatro diTorino, ha chiamato altri colleghi: Ga-briele Vacis, Valter Malosti, Valerio Bina-sco, quest’anno Andrea De Rosa, MarcoTullio Giordana, gli sperimentali Marci-do Marcidorjs e, dopo la sfida a se stessodi portare in palcoscenico le Operettemoralidi Leopardi che verranno ripresetra un anno visto il successo, progetta unnuovo spettacolo per il 2013. Intanto c’èla lirica, la regia di Fidelio al Regio di To-rino e Luisa Milleralla Scala, ma prima, asettembre, torna a Venezia, dopo il con-corso dello scorso anno, e stavolta conpiù leggerezza, da giurato, accanto a col-leghi di assoluto prestigio come AndréTéchiné, David Byrne, Todd Haynes,l’artista visiva e regista finlandese Eija-Liisa Ahtila, Alba Rohrwacher e DarrenAronofsky presidente.

Vuole anche fare un altro film senzafar passare troppo tempo. Sta pensandoa un docufilm sui Saharawi, idealmentelegato a Noi credevamo perché tocca lastoria di una tribù del Nordafrica chechiede l’indipendenza da quasi un seco-lo. «Non mi spaventa. Cinema e teatronon sono per me la ripetizione di un mo-dello. Anzi, considero il processo di lavo-ro più importante del risultato e nei tan-ti passaggi del mio lavoro rivendico co-me una continuità il non aver dato nullaper scontato. Se penso al ragazzino diTango glaciale chiuso nella stanzetta afare i collage, non è diverso dal me di og-gi che ha passato sei anni sui libri di sto-ria dell’Ottocento italiano per fare unfilm su Risorgimento... Per entrambinon dare nulla per scontato è un’azioneesistenziale. Ma anche politica».

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ANNA BANDETTINI

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Mario Martone

ROMA

L’aria timida da bravostudente, occhialinitondi, modi garbati,l’aspetto di saggio di-

stacco, Mario Martone ce l’ha sempreavuta: a vent’anni quando già lo circon-dava l’aura ipercult dell’artista d’avan-guardia, e oggi a cinquantadue, amato eaffermato regista di cinema e teatro, di-rettore di uno dei più importanti teatripubblici italiani, lo Stabile di Torino. Se-duto al bar, in un caldo pomeriggio ro-mano, pantaloni blu, camicia blu, pog-gia sul tavolino accanto all’acqua un bellibro sui tanti lavori che ha realizzato aTorino per i 150 anni dell’Unità d’Italia emostra un sorriso rilassato. «Mi sento giàin vacanza — dice — Certo, dovrei primafinire di liberare lo studio, ancora invasoda tutto quello che mi è servito per il film:libri, articoli, documenti di storia cheadesso finalmente posso rimettere negliscaffali, dopo tanto tempo». Il film, natu-ralmente, è Noi credevamo, sette David,premi e riconoscimenti di pubblico e cri-tica e ora, si dice, possibile candidato ita-liano all’Oscar.

Per sei anni la vita di Mario Martone siè confusa con quella di questo film, tramolti entusiasmi e molti affanni. «Se mivolto indietro, mi paiono sei anni vissu-ti pericolosamente — dice mentre si ac-cende una delle poche sigarette dellagiornata — l’idea del film è del 2003, hoiniziato a lavorarci nel 2004, poi sono ar-rivate le difficoltà. Immense. I produtto-ri erano spaventati dal tema perché il Ri-sorgimento non è abbastanza glamour,dalla durata della storia, dai costi... Holavorato con l’obbligo di non sforare di

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