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DOMENICA 28 GIUGNO 2009 D omenica La di Repubblica i sapori Zuppe di pesce, di necessità virtù LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA l’incontro La passione segreta di Rushdie ANTONIO MONDA spettacoli Woodstock, l’addio alla rivoluzione FURIO COLOMBO e PINO CORRIAS cultura Quando Pio XII scomunicò il Pci ORAZIO LA ROCCA, AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI e MARCO POLITI l’attualità Teheran, i motociclisti e i ragazzi twitter VANNA VANNUCCINI e BIJAN ZARMANDILI ROBERTO SAVIANO per certa ‘ndrangheta, per alcune famiglie di Cosa Nostra. Quan- do invece le vedi vestite bene, curate, truccate, allora il loro uomo è vicino, è libero. Comanda. E comandando riflette sulla sua don- na il suo potere, lo trasmette attraverso la sua immagine. Eppure le mogli dei boss carcerati, sciatte sino a divenire quasi invisibili, so- no spesso quelle che facendone le veci più comandano. Tutte le storie delle donne in terra criminale si somigliano, sia che abbiano un destino tragico sia che riescano a galleggiare nel- la normalità. In genere marito e moglie si conoscono da adole- scenti e celebrano il loro matrimonio a venti, venticinque anni. Sposare la ragazza conosciuta da piccola è la regola, è condizione fondamentale perché sia vergine. In genere, invece, all’uomo è permesso di poter avere amanti, ma il vincolo dato dalle loro mo- gli negli ultimi anni è che siano straniere: russe, polacche, rume- ne, moldave. Tutte donne considerate di secondo livello, incapa- ci di costruire una famiglia, secondo loro, di educare i figli come si deve. Mentre farsi un’amante italiana o peggio del proprio paese sarebbe destabilizzante, e un comportamento da punire. Attra- verso la sessualità passa molta parte della formazione di un uomo e di una donna in terra di mafia. «Mai sotto una femmina» è l’im- perativo con cui si viene educati. (segue nelle pagine successive) FOTO DI ALBERTO GIULIANI / GRAZIA NERI E ssere donna in terra criminale è complicatissimo. Re- gole complesse, riti rigorosi, vincoli inscindibili. Una sintassi inflessibile e spesso eternamente identica re- golamenta il comportamento femminile in terra di mafie. È un mantenersi in precario equilibrio tra mo- dernità e tradizione, tra gabbia moralistica e totale spregiudicatezza nell’affrontare questioni di business. Possono dare ordini di morte ma non possono permettersi di avere un amante o di lasciare un uomo. Possono decidere di investire in in- teri settori di mercato ma non truccarsi quando il loro uomo è in carcere. Durante i processi capita spesso di vedere donne accalca- te negli spazi riservati al pubblico, mandano baci o semplici saluti agli imputati dietro le gabbie. Sono le loro mogli, ma spesso sem- brano le loro madri. Vestirsi in maniera elegante, curarsi con smal- ti e trucco mentre tuo marito è rinchiuso, è un modo per dire che lo fai per altri. Tingersi i capelli equivale a una silenziosa confessione di tradimento. La donna esiste solo in relazione all’uomo. Senza, è come un essere inanimato. Un essere a metà. Ecco perché le vedi tutte sfatte e trascurate quando hanno i mariti in cella. È testimo- nianza di fedeltà. Questo vale per i clan dell’entroterra campano, Donne i luoghi Il paese dei contadini aristocratici STEFANO MALATESTA Gomorra di Sud a Roberto Saviano racconta riti, regole, comportamenti sessuali imposti all’universo femminile nelle terre di mafie Repubblica Nazionale

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DOMENICA 28GIUGNO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

Zuppe di pesce, di necessità virtùLICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

l’incontro

La passione segreta di RushdieANTONIO MONDA

spettacoli

Woodstock, l’addio alla rivoluzioneFURIO COLOMBO e PINO CORRIAS

cultura

Quando Pio XII scomunicò il PciORAZIO LA ROCCA, AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI e MARCOPOLITI

l’attualità

Teheran, i motociclisti e i ragazzi twitterVANNA VANNUCCINI e BIJAN ZARMANDILI

ROBERTO SAVIANO per certa ‘ndrangheta, per alcune famiglie di Cosa Nostra. Quan-do invece le vedi vestite bene, curate, truccate, allora il loro uomoè vicino, è libero. Comanda. E comandando riflette sulla sua don-na il suo potere, lo trasmette attraverso la sua immagine. Eppure lemogli dei boss carcerati, sciatte sino a divenire quasi invisibili, so-no spesso quelle che facendone le veci più comandano.

Tutte le storie delle donne in terra criminale si somigliano, siache abbiano un destino tragico sia che riescano a galleggiare nel-la normalità. In genere marito e moglie si conoscono da adole-scenti e celebrano il loro matrimonio a venti, venticinque anni.Sposare la ragazza conosciuta da piccola è la regola, è condizionefondamentale perché sia vergine. In genere, invece, all’uomo èpermesso di poter avere amanti, ma il vincolo dato dalle loro mo-gli negli ultimi anni è che siano straniere: russe, polacche, rume-ne, moldave. Tutte donne considerate di secondo livello, incapa-ci di costruire una famiglia, secondo loro, di educare i figli come sideve. Mentre farsi un’amante italiana o peggio del proprio paesesarebbe destabilizzante, e un comportamento da punire. Attra-verso la sessualità passa molta parte della formazione di un uomoe di una donna in terra di mafia. «Mai sotto una femmina» è l’im-perativo con cui si viene educati.

(segue nelle pagine successive)

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Esseredonna in terra criminale è complicatissimo. Re-gole complesse, riti rigorosi, vincoli inscindibili. Unasintassi inflessibile e spesso eternamente identica re-golamenta il comportamento femminile in terra dimafie. È un mantenersi in precario equilibrio tra mo-dernità e tradizione, tra gabbia moralistica e totale

spregiudicatezza nell’affrontare questioni di business. Possonodare ordini di morte ma non possono permettersi di avere unamante o di lasciare un uomo. Possono decidere di investire in in-teri settori di mercato ma non truccarsi quando il loro uomo è incarcere. Durante i processi capita spesso di vedere donne accalca-te negli spazi riservati al pubblico, mandano baci o semplici salutiagli imputati dietro le gabbie. Sono le loro mogli, ma spesso sem-brano le loro madri. Vestirsi in maniera elegante, curarsi con smal-ti e trucco mentre tuo marito è rinchiuso, è un modo per dire che lofai per altri. Tingersi i capelli equivale a una silenziosa confessionedi tradimento. La donna esiste solo in relazione all’uomo. Senza, ècome un essere inanimato. Un essere a metà. Ecco perché le veditutte sfatte e trascurate quando hanno i mariti in cella. È testimo-nianza di fedeltà. Questo vale per i clan dell’entroterra campano,

Donne

i luoghi

Il paese dei contadini aristocraticiSTEFANO MALATESTA

GomorradiSuda

Roberto Savianoracconta riti,regole,comportamentisessuali impostiall’universofemminilenelle terre di mafie

Repubblica Nazionale

la copertina32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28GIUGNO 2009

Donne a sud di GomorraEssere madre, moglie o figlia all’interno di un clansignifica aderire a un codice di segni in cui nulla è lasciatoal caso. E così i colori del lutto e del sangue sono indossatia seconda delle occasioni. Lo scrittore napoletanoracconta la criminalità dentro le mura domestiche,svelandone regole e costumi sessuali

(segue dalla copertina)

Se mentre fai l’amore, decidi di stare sotto, stai sce-gliendo pure di sottometterti nella vita di tutti i gior-ni. Farlo per puro piacere ti condannerà, nella lorologica, a sottometterti. «Mai sesso orale». Riceverlo èlecito, praticarlo a una donna è da «cani». «Non devidiventare cane di nessuno». Vecchio codice a cui si

attiene ancora molta parte delle nuove generazioni di affiliati. Eregole anche più rigide valgono pure al di fuori dell’Italia. La Yar-die, la potente mafia giamaicana egemone in molti quartierilondinesi e newyorkesi, oltre che a Kingston, ne è un esempio.Vietato praticare sesso orale e riceverlo, vietato sfiorare l’ano

delle donne e avere rapporti anali. Tutto questo è consideratosporco, omosessuale (i gay sono condannati a morte nella cul-tura mafiosa giamaicana), mentre il sesso dev’essere una prati-ca forte, maschile e soprattutto ordinata. Senza baci. La linguaserve per bere, un vero uomo non la usa se non a quello scopo.

Gli affiliati delle cosche sono ossessionati non solo dalla lorovirilità, ma da come poterla esercitare: farlo secondo la rigida ap-plicazione di quegli imperativi categorici, diviene un rito con cuisi riconfermano il loro potere. Valgono, quelle norme chiare einderogabili, in pressoché tutti i paesi di ‘ndrangheta, camorra,mafia e Sacra Corona Unita. E sono, a ben vedere, qualcosa inpiù del semplice specchio di una cultura maschilista. Nulla co-me quel codice sessuale dice forse come in terra di criminalitànon possa esistere ambito che si sottragga alle logiche ferree diappartenenza, gerarchia, potere, controllo territoriale. Potere

sulla vita e sulla morte, di cui la morte subita o data è posta a fon-damento. E chi crede di poter esserne libero, si sbaglia. Il con-trollo della sessualità è fondamentale. Anche corteggiare diven-ta marcare il territorio. Avvicinarsi a una donna significa ri-schiare un’invasione territoriale.

Nel 1994 Antonio Magliulo di Casal di Principe tentò di cor-teggiare una ragazza imparentata con un uomo dei casalesi epromessa in matrimonio a un altro affiliato. Magliulo le facevamolti regali, e intuendo forse che la ragazza non era felicissimadi sposare il suo fidanzato, insisteva. Era invaghito di questa ra-gazza assai più giovane di lui e la corteggiava come dalle sue par-ti è abituale. Baci Perugina a San Valentino, un collo di pellicciadi volpe a Natale, “postegge” ossia attese fuori dal luogo di lavo-ro nei giorni normali. Un giorno in piena estate un gruppo di af-filiati del clan di Schiavone lo convocò per un chiarimento al li-do La Scogliera di Castelvolturno. Non gli diedero neanche iltempo di parlare. Maurizio Lavoro, Giuseppe Cecoro e GuidoEmilio gli tirarono una botta in testa con una mazzola chiodata,lo legarono e iniziarono a ficcargli la sabbia in bocca e nel naso.Più inghiottiva per respirare più loro lo ingozzavano. Rimasestrozzato da una pasta di sabbia e saliva che gli si è cementifica-ta in gola. Fu condannato a morte perché corteggiava una don-na più giovane, col sangue di un importante affiliato, già pro-messa in moglie.

Corteggiare, chiedere anche solo un appuntamento, passareuna notte insieme è impegno, rischio, responsabilità. ValentinoGalati aveva diciannove anni quando è sparito il 26 dicembre2006 a Filadelfia, che non è la città fondata dai quaccheri ameri-cani, ma un paese in provincia di Vibo Valentia, fondato da mas-soni. Valentino era un ragazzo vicino alla ndrina egemone. Ave-va sangue ndranghetista e quindi divenne ndranghetista, lavo-rava per il boss Rocco Anello. Quando questi finisce in galera peraver organizzato un sistema di estorsioni capillare (per una pic-cola tratta ferroviaria ogni impresa che vi partecipava doveva pa-gargli 50 mila euro a chilometro), sua moglie Angela ha semprepiù bisogno di una mano da parte della ndrina per andare avan-ti. Spesa, pulizia della casa, accompagnare i bambini a scuola. AValentino capita di essere uno dei prescelti. Così lentamente,quasi naturalmente, nasce una relazione con Angela Bartucca.Punirlo è indispensabile e quando non lo si vede più girare per il

paese, nessuno si stupisce.Condannato a morte perché è stato con la moglie del boss. So-

lo sua madre Anna non vuole crederci. Suo figlio amante dellamoglie di un boss? Per lei è impossibile: è divenuto da poco mag-giorenne, è troppo piccolo. Ammette che Angela veniva anchein casa a prendere il caffè, e da quando suo figlio è sparito, non siè fatta più vedere. Ma per la madre di Valentino questo non di-mostra nulla. «Mio figlio non c’entra niente con questa storia».Insiste a credere vi siano altri motivi, ma per la magistratura an-timafia non è così. Per lungo tempo Anna ha dormito sul divanoperché lì c’era il telefono ed ha aspettato una chiamata di suo fi-glio, terrorizzata che in camera da letto potesse non sentire ilsuono «dell’apparecchio», come a sud lo chiamano. Così, alla fi-ne, la madre di Valentino si chiude nel silenzio di un dolore cherispetta il silenzio dell’omertà, continuando a negare contro

ogni evidenza.La stessa sorte era già capitata a Santo Panzarella di Lamezia

Terme, ammazzato nel luglio del 2002. Santo si era innamoratodi Angela Bartucca quattro anni prima. Sempre lei. Gli hannosparato contro un caricatore, convinti di averlo ucciso lo hannomesso nel portabagagli. Ma Santo Panzarella non era morto.Scalciava nel portabagagli. Così gli hanno spezzato gli arti infe-riori per non farlo continuare a intralciare con i calci il suo ulti-mo viaggio; infine gli hanno sparato in testa. Di lui è stata ritro-vata solo una clavicola, che ha però permesso di far partire le in-dagini. Anche lui condannato a morte per aver sfiorato la donnasbagliata. Valentino quindi forse sapeva di rischiare la pelle, maha continuato lo stesso ad avere una relazione con quella donnaproibita.

Ci si immagina Angela Bartucca come una sorta di donna fa-

ROBERTO SAVIANO

SAVIANO

“Possono dare ordini di morteo decidere di investire in interi settori

di mercato, ma non truccarsiquando il loro uomo è in carcere”

“Sposare la ragazza conosciutada piccola è condizione fondamentale

perché sia vergine. Ai mariti sonoconcesse le amanti, purché straniere”

Il nero, il rosso, il sessonelle terre delle cosche

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 28GIUGNO 2009

tale, una mantide come i giornali l’hanno spesso chiamata, ca-pace con la propria seduzione di far superare persino la pauradella morte. Una donna che amava e amando condannava amorte. Ma in realtà a vederla non sembra essere così come vuo-le la leggenda. Dalle foto si vede il viso di una ragazzina, carina,la cui colpa principale era la voglia di vivere. Un marito in carce-re per le donne di mafia significa astinenza totale. Di affetti e dipassione. Solo i boss maturi, se sono sposati con donne più gio-vani e sono condannati a pene pesantissime, permettono che lemogli possano avere qualche marito sostitutivo. Quasi sempresi preferisce il prete del paese quando disponibile o un fratello,un cugino, un parente comunque. Mai un affiliato non del san-gue del boss, che godendo del rapporto con la donna potrebbeassumerne in qualche modo di riflesso il carisma e sostituirlo.

Molte donne vestono di nero, anche quelle giovani, e quasi pe-

rennemente. Lutto per un marito ucciso. Lutto per un figlio. Lut-to perché è stato ucciso un fratello, un nipote, un vicino di casa.Lutto perché è stato ammazzato il marito di una collega di lavo-ro, lutto perché è stato assassinato il figlio di un lontano paren-te. E così c’è sempre un motivo per tenere il vestito nero. E sottoil vestito nero si porta sempre un panno rosso. Le anziane signo-re indossavano una maglietta rossa, per ricordare il sangue davendicare, le giovani donne indossano un intimo rosso. Un ri-cordo perenne del sangue che il dolore non fa dimenticare, anziil nero accende ancora più il colore terribilmente intimo dellavendetta.

Rimanere vedove in terra criminale significa perdere quasi to-talmente l’identità di donna e ricoprire soltanto quella di madre.Se resti vedova puoi risposarti solo con il consenso dei figli ma-schi. Solo se ti risposi con un uomo dello stesso grado del padre

(o superiore) all’interno delle gerarchie mafiose. Ma soprattut-to solo dopo sette anni di astinenza sessuale e osservazione rigi-da del lutto. Perché gli anni della vedovanza dovevano corri-spondere al tempo che secondo le credenze contadine un’ani-ma ci metteva per raggiungere l’aldilà. Così si aspettava che l’a-nima arrivasse nell’altro mondo, perché se ancora stava in que-sto avrebbe potuto vedere la moglie «tradire» con un altro. An-tonio Bardellino, boss carismatico di San Cipriano d’Aversa,tendeva a liberare le vedove da queste regole medievali e da que-sto perenne dolore imposto. In paese molti ricordano che fino aquando comandò, don Antonio diceva: «Si mettono sette anniper raggiungere il paradiso, noi andiamo da un’altra parte. Equella parte si raggiunge presto, int’ a na’ nuttata».

Ma quando fu fatto fuori Bardellino arrivò l’egemonia degliSchiavone, e tornarono le vecchie regole sessuali. Nell’agosto

del 1993 Paola Stroffolino fu scoperta con un amante. Lei mogliedi un boss molto importante, Alberto Beneduce, tra i primi adimportare cocaina e eroina direttamente sulle coste del Caser-tano. Dopo che Beneduce fu ucciso, lei non rispettò i sette annidi vedovanza e intraprese una relazione con Luigi Griffo. Il clandecise che un atteggiamento del genere era irriguardoso nei con-fronti del vecchio boss. E così per eseguire la punizione scelseroun suo caro amico, Dario De Simone. Invitò la coppia in unamasseria di Villa Literno con la scusa di volergli far assaggiare leprime mozzarelle dell’estate. Un solo colpo alla testa per l’uomoe uno per la donna. Non di più per due infami che avevano in-sultato la memoria e l’onore del morto. Poi, aiutato da VincenzoZagaria e Sebastiano Panaro, l’uomo che aveva mostrato la sualealtà uccidendo scaraventò i corpi in fondo ad un pozzo moltoprofondo a Giugliano.

Sandokan, cioè Francesco Schiavone, e suo fratello furono ac-cusati come mandanti. La vedova di un boss è intoccabile, ma sesi sporca con un altro uomo, perde lo status di inviolabilità. I pen-titi che cercavano di superare l’incredulità dei giudici, diederouna risposta che è anche una sintesi eccezionale: «Dottò, ma sco-pare qui è peggio che uccidere. Meglio se uccidi la moglie di uncapo. Forse puoi essere perdonato, ma se ci scopi sei morto si-curo». Amare, decidere di fare l’amore, baciare, regalare qualco-sa, fare un sorriso, sfiorare una mano, provare a sedurre una don-na, esserne sedotto può essere un gesto fatale. Il più pericoloso.L’ultimo. Dove tutto è legge terribile, i sentimenti e le passioniche non conoscono regole condannano a morte.

Copyright Roberto Saviano 2009 - Publishedby Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

“Sono ossessionati non solodalla loro virilità, ma da comepoterla esercitare. Corteggiarediventa marcare il territorio”

“Rimanere vedove equivale a perderequasi totalmente l’identità.Se resti

vedova puoi risposarti soltantocon il consenso dei figli maschi”

L’APPUNTAMENTO

Il testo di Roberto Saviano che pubblichiamoè un’anticipazione da L'Italia che ci riguarda, serata speciale

del Festival delle Letterature alla basilica di Massenzioa Roma, di cui lo scrittore sarà protagonista martedì 30giugno. Introdotto da Anna Bonaiuto, l'intervento saràarricchito delle immagini di Alberto Giuliani. Il Festival

delle Letterature è promosso dal Comune di Roma, ideato ediretto da Maria Ida Gaeta, con la regia di Fabrizio Arcuri

Ieri Roberto Saviano era a Capri, dove ha duettatocon Nathan Englander sul tema dell'invidia e della rabbia

LE IMMAGINILe fotografie che illustrano queste paginee la copertina sono di Alberto Giuliani/Grazia Neri. Le donne ritratte vestonoil lutto secondo la tradizione locale,e non sono coinvolte in crimini di mafia

REPUBBLICA TV“Come un bambino nella neve”è il titolo della Dark Room conRoberto Saviano che domanisarà in onda su Repubblica TvLo scrittore parla delle donnee dell’amore, dei genitori,delle case in cui rimane solopoche settimane, dei suoilettori e della libertàL’intervista è di Laura Pertici

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Repubblica Nazionale

l’attualitàRivolte

La polizia antisommossa usa quelle rosse; i “bassiji”,le milizie volontarie khomeiniste, i pesanti motorini indianiSono il simbolo e lo strumento della repressioneiraniana: armi a due ruote che piombano sulla folladisarmata lasciandosi dietro sangue e morte. Sono comei carri armati di Tienanmen, ma non danno nell’occhio

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28GIUGNO 2009

TEHERAN

Ancora una volta, all’ultimo mo-mento, un portone si apre, unaserranda si alza per offrire rifugioai manifestanti inseguiti a tutta

velocità da una falange di polizia antisommossache travolge la gente come birilli su un tavolo dabiliardo. Gruppi di cittadini stanno cercando in-vano di arrivare al Parlamento, dove è stata fissa-ta per il nono giorno consecutivo una manifesta-zione di protesta contro la gigantesca frode elet-torale che ha regalato la vittoria al presidenteuscente, Ahmadinejad, e defraudato il candida-to a cui tutti sanno di aver dato il proprio voto, MirHossein Moussavi.

Poco prima la strada era stata bloccata dai bas-siji, le milizie volontarie che Khomeini creò comemodello di devozione fino alla morte alla Repub-blica islamica (bassiji significa appunto mobili-tati) e che ora vengono usati come strumenti d’in-

timidazione e di repressione. Da un vicolo dietrouna moschea ne erano usciti un centinaio, arma-ti di randelli, di fruste, con i caschi e i giubbotti an-tiproiettile sopra gli abiti civili. I manifestanti —ormai solo giovani, ragazzi e moltissime ragazze— si erano difesi, appiccando il fuoco ai casso-netti e lanciando sassi raccolti nel cantiere di unpalazzo in costruzione. I bassiji erano arretrati,tra le grida di giubilo di tutti gli abitanti della stra-da. Ma il giubilo era durato poco. Subito dopo erapiombata sulla strada la polizia antisommossa. Ilsuo passaggio aveva lasciato la strada come uncampo di battaglia abbandonato, dappertuttosangue, zainetti, occhiali spezzati.

Se uno le paragona ai carri armati turriti chevent’anni fa il governo di Pechino mandò controgli studenti sulla piazza Tienanmen, le motoci-clette dei poliziotti antisommossa di Teheranpossono sembrare un gioco da ragazzi, e co-munque qualcosa di improvvisato. Non è così.Le unità in motocicletta che piombano sulla fol-la possono fare altrettanti morti di un carro ar-mato, con il vantaggio che le loro immagini in tvnon equivalgono come quelle dei carri armati al-l’ammissione della bancarotta morale e politicadi un governo. Il regime teocratico conosce i van-taggi tattici delle unità in motocicletta già daltempo in cui, estremamente mobili e veloci, ve-nivano lanciate sugli obiettivi iracheni durante

la guerra contro Saddam Hussein. Nelle paratemilitari a Teheran, accanto ai supertecnologicimissili Shahab-3, sfilano sempre anche le moto-ciclette. Quelle pesanti che in occidente si chia-mano streetfighters, e i grossi motorini di fabbri-cazione indiana con un bassij alla guida mentreun altro sta in piedi sul sedile posteriore col lan-ciarazzi in spalla.

Per quanto tempo si potrà tenere sotto chiaveuna gioventù che è più di due terzi della popola-zione? Mi chiede una giovane amica. Ormai per-fino Twitter non funziona quasi più. La mancan-za di comunicazione, insieme alla repressioneselvaggia, ha finito per bloccare un movimentospontaneo, nato perché ognuno sapeva chi ave-va votato e non voleva subire un affronto cosìumiliante. «A voi occidentali potrà sembrare unparadosso», mi diceva questa amica accompa-gnandomi per le strade di Teheran, «ma noi gio-vani abbiamo sempre creduto che il nostro votocontasse, avesse importanza». Essere nati dopola rivoluzione significa qualcosa in Iran. Signifi-ca per esempio credere nella Repubblica. In que-gli elementi repubblicani dello Stato teocraticoche all’inizio erano, almeno sotto il profilo reto-rico, prevalenti, mentre il potere assoluto delLeader non era ancora stato precisamente defi-nito e si confondeva con il carisma personale diKhomeini. «Ai nostri genitori molte frasi fattesulla partecipazione dei cittadini, o sull’islamche doveva consentire un governo giusto, appa-rivano ipocrite, ma noi in qualche modo ci cre-devamo. Per questo non eravamo andati a vota-re negli anni passati, era un gesto per manifesta-re la nostra disapprovazione». L’esperienza del-la rivoluzione era stata paradossale soprattuttoper le donne, la cui partecipazione alla vita poli-tica veniva valorizzata mentre si imponeva lorouno status d’inferiorità.

Per anni, dopo la delusione dovuta alla man-cata realizzazione delle promesse di riforma diKhatami, il presidente che avevano eletto inmassa nel 1997, i giovani iraniani erano sembra-ti l’incarnazione dell’apatia politica. Si esercita-vano nell’escapismo: la chitarra, l’arte, lo yoga, lemeditazioni nel deserto, la droga. Studiavanopsicologia per capire chi erano e come tuttoquello che era accaduto fosse potuto accadere. Ilfuori e il dentro, il pubblico e il privato eranomondi separati. Fuori l’obbedienza alla regoleislamiche, il silenzio, la simulazione. Dentro lafrustrazione, e per chi se lo poteva permettereuno stile di vita occidentale. Una tensione a vol-te insostenibile.

La speranza che la protesta pacifica nella capi-tale e in tutte le maggiori città iraniane avrebbeavuto qualche effetto è durata quasi una settima-na. All’inizio la teocrazia era sembrata per un mo-mento indecisa, il rinvio al Consiglio dei Guar-diani del riesame delle schede aveva fatto spera-re che il Leader supremo Khamenei, che si eraschierato per Ahmadinejad prima ancora del ri-sultato definitivo del voto, si sarebbe lasciatoconvincere dalle centinaia di migliaia di persone

in piazza. Che ci sarebbero state nuove elezioni,o un ballottaggio, o almeno qualche concessione.Ma dopo la preghiera del venerdì, tutti i sogni so-no svaniti. In quella preghiera il Leader ha messotutto il suo peso accanto a quello di Ahmadinejad,contro la tradizione khomeinista che vedeva laGuida suprema al di sopra delle parti.

«Un colpo di Stato deciso perché i radicali sisentono sotto assedio, dall’interno perché cono-scono lo scontento della popolazione, dall’ester-no per via della mano tesa di Obama: Khameneiè sicuro che anche il più piccolo spiraglio porte-rebbe al crollo del sistema islamico. Come inUnione sovietica aveva portato al crollo del si-stema comunista», mi aveva detto un analistairaniano, ora in carcere: «Indipendentemente dacome va a finire questa resterà una data memo-rabile nella storia della Repubblica islamica. Unamezza democrazia e una mezza teocrazia, comeera stata finora, non potrà più esserlo: o avremouna dittatura in piena regola, oppure ci sarannoriforme importanti. Questo è il senso della lottadi potere di questi giorni».

VANNA VANNUCCINI

Il regime conosce i vantaggitattici di queste unitàda quando venivanolanciate contro gli iracheninella guerra contro Saddam

Le motociclette di Teherane i ragazzi di Twitter

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 28GIUGNO 2009

Giovani vittime e carneficidivisi dai signori della morte

BIJAN ZARMANDILI

Sempremeno Ali, Hussein, Mohammad, Fatemè, i nomi della tra-dizione islamica, e sempre più Atash (Fuoco), Negah (lo sguar-do), Sahar, (Alba), Shab Naz (carezza della notte) e poi, Neda

(Suono), Neda appunto: «Siamo tutti Neda», si grida in questi giorninelle piazze di Teheran. «Il mio nome è Abdollah, ma mi chiami pureShervin», ti dice il ragazzo che per caso conosci in un taxi, oppure inuna riunione di parenti che frequenti di rado. Lo vedi costantementemettersi la mano sui capelli, resi rigidi dal gel, per assicurarsi che noncambino verso. Porta dei jeans strappati e una maglietta colorata sucui leggi «Don’t worry be happy»: per un istante ti senti disorientato enon ti rendi conto dove sei, nei pressi della Sorbona, a Islington, a viaCaracciolo a Napoli, oppure a Amir Abad di Teheran? Poi, in un filma-to su Youtube girato lo scorso sabato, vedi Abdollah-Shervin a terra inpiazza Azadi, con la faccia dipinta di verde, e su di lui un altro giovanedella sua stessa età, con i pantaloni neri, la camicia bianca abbottona-ta fino al collo e la barba incolta che lo sta bastonando: «Bokoshesh,kafarè», «ammazzalo, è ateo», lo incita un altro.

Sono due tipologie urbane della gioventù della Repubblica islami-ca: uno con sintomi più immediati della perdita d’identità, che rifiutail proprio nome, illudendosi di vivere in un mondo immaginario, suimodelli visti nei film che compra al mercato nero; l’altro che invece siè trasformato in un automa, con il compito di ripulire il Paese in nomedi un islam puro, di una rivoluzione che ha già divorato i suoi miglioriuomini e ideali. E sia gli uni che gli altri rischiano di costruire una so-cietà acefala, un corpo enorme con una testa vuota.

Quei movimenti di corpi in fuga, di passi disperatamente allungati,quei volti sconvolti, occhi arrossati dai gas lacrimogeni, ragazze conl’hejab, ragazzi in t-shirt che si fanno scudo e si aiutano a vicenda a li-berarsi dagli aguzzini con il manganello e la pistola, la loro mimica si-mile a quella di tutti gli altri giovani del mondo, sono i primi disperatitentativi di riempire quel vuoto: un vuoto che spesso viene colmatodagli strateghi della morte. Eppure i giovani iraniani trasformati in vit-time e carnefici appartengono tutti a una società fortemente urbaniz-zata in un brevissimo lasso di tempo. La sola capitale è popolata da ol-tre tredici milioni di persone e rappresenta il modello sociale urbanopiù avanzato del Paese.

E i modelli occidentalizzati non sono una novità: già nei primi delNovecento, con lo sviluppo di una borghesia commerciale, la gioventùaveva adottato diverse forme della modernità occidentale. Ma in quel-la stessa fase anche i giovani delle periferie e delle prime bidonvillescercavano i propri modelli, trovandoli in un bullismo che aveva le sueradici nelle tradizioni religiose e nel feudalesimo iranico. Un divariotra la modernità e le tradizioni che il regime teocratico e la smisurataurbanizzazione hanno esasperato, fornendo oggi una base sicura agliapparati della repressione, ai gruppi radicali: un serbatoio di risorseumane nelle immense periferie, mentre l’altra gioventù, quella dellaclasse media e dei ceti più elevati, tra jeans strappati, gel sui capelli eritmo di rap nella testa, si fa ammazzare pur di essere libera.

PER STRADAIn questepagine, fotodi squadreantisommossae miliziekhomeinistein motocicletta;qui sopra,supporterdi Moussavi

Repubblica Nazionale

Sessant’anni fa, il primo luglio 1949, Pio XII decretavala “morte ecclesiastica” per chi aderiva al Pci o anchesoltanto gli forniva appoggio politico. Un gesto

che si inseriva nel clima della Guerra fredda ma che suscitò perplessitàperfino dentro al Vaticano e al partito cattolico. E soprattutto una condannache non valse a sradicare la falce e martello e che fu poi sepolta, anche se maiformalmente revocata, dalla distinzione tra errore ed errante di Giovanni XXIII

CULTURA*

Scomunicati, privati della comunione, del matrimonioreligioso, del funerale religioso: questa la sorte decreta-ta da Pio XII per chi aderiva al Partito comunista o gli da-va appoggio politico o soltanto leggeva «libri, riviste,giornali che difendono la dottrina e l’azione comunista».Persino chi diffondeva un volantino incappava nella

morte ecclesiastica. Il decreto, emanato il primo luglio 1949 dal Sant’Uffizio, tecnica-

mente era una riposta a quattro quesiti. Se sia lecito aderire ai parti-ti comunisti o sostenerli; se sia lecito pubblicare o diffondere stam-pa comunista; se i cristiani che abbiano «coscientemente e delibe-ratamente» compiuto una di queste azioni possano essere «am-messi ai sacramenti»; se i cristiani, che professano e difendono ladottrina comunista, «materialistica e anticristiana», debbano in-correre nella scomunica quali «apostati della fede cattolica». La con-clusione si espresse in tre secchi no e un sì categorico: scomunica to-tale per i cristiani fautori del Partito comunista, salvo l’abiura e il ri-torno all’ovile dei politicamente pentiti.

Così Pio XII, che non aveva mai scomunicato il nazismo e che daSegretario di Stato vaticano aveva spinto i vescovi tedeschi a nonostacolare l’adesione dei cattolici al Partito nazista pur di stringere ilconcordato con il Reich hitleriano, impugnò l’arma della scomuni-ca contro i comunisti. Fu un gesto segnatamente marcato da preoc-cupazioni politiche italiane, anche se a valenza generale. Pio XI ave-va già condannato nove volte il marxismo. La decisione di Pio XII si

inserisce nel clima della Guerra fredda e della cortina di ferro appe-na instaurata. A Praga il colpo di stato aveva sepolto la democraziain Cecoslovacchia, il sistema stalinista si impadroniva dell’Europaorientale, l’Italia aveva aderito al Patto atlantico.

Fu un «colpo duro» per i comunisti italiani, ricorda Pietro Ingrao,allora neo-deputato e dirigente all’Unità, perché interveniva dopola sconfitta del Fronte popolare alle elezioni politiche del 1948. Uncolpo specialmente per la gente semplice, che aderiva al Partito co-munista per motivi di riscatto politico e non per ideologia «materia-lista». Raniero La Valle, all’epoca studente cattolico della Fuci, nondimentica la storia di una coppia della Sabina: lui comunista, lei cat-tolica e incinta. La sera prima della celebrazione religiosa il parrocochiese allo sposo l’abiura. Al suo rifiuto, la chiesa il giorno dopo re-stò chiusa. La coppia vagò tutta la giornata per trovare un’altra chie-sa finché un prete non li unì in una cappella di campagna. La donnaandò poi dal vescovo per chiedere conto del fatto e alle motivazionidel prelato rispose, indicando il ventre gravido: «Questo non lo avre-te».

Non tutti condivisero la scelta di Pio XII. In Vaticano, è il ricordodel cardinale Silvestrini, «il Pro-segretario di Stato Tardini era per-plesso all’idea che si avessero milioni di scomunicati». E anche An-dreotti, allora sottosegretario, rammenta che il premier De Gasperi«non era favorevole alla decisione, pur considerandola in linea diprincipio giusta: temeva le polemiche che ne sarebbero derivate al-la Chiesa e gli esiti più negativi che positivi». Il defunto ex Segretario

MARCO POLITI

LE IMMAGINIQui sopra, Pio XII; a destra,manifesti di propagandaanticomunista degli anniQuaranta e Cinquantae un avviso affisso nelle chiese

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28GIUGNO 2009

di Stato vaticano Casaroli dirà nelle sue memorie che Pio XII consi-derava suo «gravissimo dovere» mettere in guardia dalla minacciacomunista, ma ammette che la scomunica «di rado (produsse) con-versioni», cioè ripensamenti politici negli elettori e militanti del Pci.Ingrao concorda: «Alla fine la feroce campagna ecclesiastica non in-cise». Il comunismo italiano non fu sradicato; il dialogo fra comuni-sti e cattolici andò avanti, proseguirono persino contatti segreti fraesponenti comunisti e rappresentanti del mondo ecclesiastico; To-gliatti, segretario del Pci, tenne la barra sul rifiuto dell’anticlericali-smo e l’attenzione al cattolicesimo. «Finì che un giorno — raccontaIngrao — una personalità come padre Balducci mi fece fare una pre-dica dal pulpito nella sua chiesa».

Il peso politico della scomunica durò appena parte degli anni Cin-quanta. Come scrive Andrea Tornielli nel suo recente libro su PaoloVI, ancora nel 1953 il sostituto Segretario di Stato vaticano Montini(futuro papa) indirizza una lettera al rettore dell’Università cattoli-ca per deplorare qualsiasi intervento della rivista Vita e Pensieroa fa-vore della collaborazione con i «marxisti» (in questo caso i socialistidi Nenni). Ma già emergevano le spinte alla collaborazione fra Dc ePsi, che negli anni Sessanta portarono al governo di centro-sini-stra.La scomunica fu dimenticata, rimase sepolta dalla distinzionedi Giovanni XXIII tra dottrine e persone, dal rifiuto del concilio Vati-cano II di decretare una nuova condanna del «comunismo ateo»,dall’esplosione del ‘68 che spostò a sinistra pezzi consistenti delmondo cattolico, dall’accordo di governo tra Moro e Berlinguer.

Una reliquia del passato come il Sillabo, anch’esso mai formal-mente abrogato.

Comunismo

LaScomunica

del

SIgnora Marisa Rodano, cosa provocò nei cat-tocomunisti la scomunica del ’49? E suo maritoFranco Rodano come reagì?

«Fu un grave colpo alla fede deisemplici (lavoratori, braccianti,contadini, donne...) che militava-no nel Pci per difendere il lavoro emigliorare le condizioni di vita. Miomarito, già colpito nel 1947 da “in-terdetto” per aver scritto articoli suipreti poveri, considerò la scomunicaun errore politico. Ma è sbagliato par-lare di cattocomunismo».

E dov’è l’errore?«Il cattocomunismo, termine peral-

tro all’epoca non ancora inventato, nonè mai esistito. C’erano cattolici militan-ti nel Pci come ce ne sono ora nella sini-stra: una scelta politica, non ideologica,che non coinvolge la sfera della pratica re-ligiosa e della fede».

Cattolici respinti però dalla casa ma-dre, la Chiesa.

«Purtroppo. La gerarchia condannava ilmarxismo «ateo», ma la scomunica colpivanon solo i cattolici che militavano nel Pci o lovotavano, ma anche gli iscritti al Psi, allaCgil... In realtà per moltissimi di loro il marxi-smo era una parola vuota di senso e il comu-nismo significava solo una società di liberi e dieguali, senza sfruttamento, diritti per tutti,specie i più deboli, cioè istanze omogenee almessaggio evangelico. Quella condanna hacontribuito alla secolarizzazione e scristianiz-zazione della società italiana».

Quando finì l’ostracismo?«Gli effetti durarono per il pontificato di Pio XII,

via via attenuandosi nella pratica. Con GiovanniXXIII e col Concilio la ricerca di dialogo si sviluppò.Si pensi ai rapporti tra Palmiro Togliatti e don Giu-seppe De Luca, o allo storico scambio di lettere tra En-rico Berlinguer e il vescovo Luigi Bettazzi».

“Il papa danneggiòl’Italia cristiana”

Marisa Cinciari Rodano

ORAZIO LA ROCCA

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 28GIUGNO 2009

La scomunica pone un fedele nell’im-possibilità di celebrare la comunio-ne, ossia l’Eucarestia; comporta dun-

que una separazione temporanea dalla co-munità ecclesiale. Il nesso tra scomunica eEucarestia ha radici storiche antiche. Nel1215, il concilio Lateranense IV decretò chei fedeli avevano l’obbligo di fare la comu-nione una volta all’anno, il giorno di Pa-squa; e chi non si fosse comunicato in quelgiorno si sarebbe auto-scomunicato ipso

facto. La scomunica era allora già da tempodivenuta anche strumento di lotta politica.Da quasi due secoli, il papato aveva infattidato vita a un rito di scomunica contro i “ri-belli” della Chiesa che si celebrò fino a metàdel Quattrocento tre volte all’anno (GiovedìSanto, Ascensione, 18 novembre), poi, permolti altri secoli, una sola volta all’anno, ilGiovedì Santo (Coena Domini).

Nel suo Viaggio in Italia (1580), Montai-gne descrive così il rito: il Giovedì Santo, ilpapa sale in Vaticano sulla Loggia delle be-nedizioni, assistito dai cardinali e tenendoin mano una torcia. A un suo lato, un cano-nico di San Pietro legge ad alta voce la bollain latino che scomunica «una infinita seriedi gente, tra gli altri gli Ugonotti (imperver-sava allora in Francia la “guerra di religione”tra cattolici e protestanti), e tutti i principiche occupano terre della Chiesa». La bollaviene tradotta in italiano dal cardinale chesta accanto al papa, dall’altro lato. Il papalancia poi la torcia accesa verso il popolo ecosì fanno due cardinali. Il lancio delle tor-ce provoca confusione tra il popolo che si

accapiglia per ottenerne dei pezzi.La torcia è simbolo delle fiam-

me dell’inferno, al quale rinvia ilcolore nero del tessuto posto sul

parapetto che viene sostituito daun tessuto di altro colore quando il

papa, alla fine del rito, dà la benedi-zione e promulga l’indulgenza.

In quegli stessi anni, tra il 1560 e il1580, ossia nel periodo più forte della

Controriforma (concilio di Trento),due grandi pittori, Giorgio Vasari e Fe-

derico Zuccari, illustrano il rito pontifi-cio di scomunica in due affreschi. Il primo

mette in scena una delle più celebri sco-muniche medievali, quella lanciata da pa-

pa Gregorio IX (1227-1241) contro l’impe-ratore Federico II (1227, 1239). Il secondoquella contro il re d’Inghilterra Enrico VIII(1538) da parte di papa Paolo III Farnese(1534-1549): lo Zuccari stava affrescandoalcune sale pubbliche di Palazzo Farnese aCaprarola. In ambedue questi affreschi, ilpapa tiene in mano la torcia accesa che staper lanciare tra la folla.

Prima che fosse costruita, nella secondametà del Quattrocento, la Loggia delle be-nedizioni, il rito veniva celebrato sulla sca-linata di San Pietro da una tribuna in legno.Il 15 aprile 1462, Pio II scomunicò «ed espul-se dalla Chiesa di Cristo» due «fratelli tiran-ni, uno di Rimini, l’altro di Cesena, Sigi-smondo e Domenico Malatesta». L’effigiedi Sigismondo fu «pubblicamente bruciatain due luoghi, davanti alla scalinata di SanPietro e nel Campo dei Fiori perché non cre-deva alla vita futura, e asseriva, con linguaostinata e proterva, che l’anima periscenel corpo».

Nei secoli precedenti, il rito si svolgevaregolarmente per lo più in Laterano, do-ve i papi risiedettero fino all’inizio delTrecento, dapprima da una tribuna inlegno sulla piazza, poi da una loggia —quella costruita da Bonifacio VIII(1294-1303) — che serviva, ci ricordaancora il Platina verso il 1475, a cele-brare le “esecrazioni” ossia le sco-muniche in contumacia dei “ribel-li” della Chiesa. Lì il papa avrebbe

scomunicato il re di Francia Filippo il Bel-lo.

Il rito pontificio di scomunica accompa-gna dunque un periodo lunghissimo di sto-ria politica del papato, da quel lontano Un-dicesimo secolo in cui il papato medievalesi trasformò sotto la spinta della Riformagregoriana e della lotta per la “libertà dellaChiesa”, fino al tardo Settecento. Soltantoallora, negli anni 1770, dopo un secolo diforti polemiche proprio nei confronti dellalegittimità della scomunica politica (Tho-mas Hobbes), il papato abbandonò il rito ela Loggia vaticana fu usata da allora in poi —fino ai giorni nostri — soltanto per le bene-dizioni papali, oltre che per l’annuncio diun nuovo papa (habemus papam…).

Quelle torcein fiamme

AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI

Repubblica Nazionale

Era il 15 agosto di quarant’anni fa. L’uomoandava sulla Luna, il napalm bruciavail Vietnam, i sogni dei Kennedy e del reverendo

King erano stati assassinati. Centinaia di migliaia di ragazzi si radunaronoad ascoltare il più grande concerto di tutti i tempi. Due libri, uno di Laterzae uno di Arcana, raccontano quella utopia

SPETTACOLI

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28GIUGNO 2009

Quella volta, dai cieli elettricid’America, scese davvero larivoluzione e prese la formagentile di un concerto. Era il15 agosto del 1969, l’annoin cui l’uomo salì sulla Lu-

na, scese sul mondo l’Era dell’Acquario,e i fuochi del napalm bruciavano il Viet-nam. Durò tre giorni e per sempre. Siaddensò a Woodstock, ottanta miglia anord di New York City. Divenne «il piùgrande spettacolo rock di tutti i tempi».Divenne un sogno che sognava il futu-ro, ma non un’illusione. Si riempì dimusica indimenticabile e di pioggia. Lapioggia danzò dal venerdì alla domeni-ca, trasformando quelle migliaia di ra-gazzi bagnati in una comunità e poi inuna generazione. Che all’inizio intonòFreedom di Richie Havens come unospiritual, cantò mantra ai tramonti, siprese per mano, dormì sotto le stelle, eall’alba dell’ultimo giorno, ai bordi del-la fine, ascoltò le distorsioni dell’innonazionale, Star Spangled Banner, comeuna rivelazione d’identità, come un de-stino, scegliendo suo sacerdote un me-ticcio mancino che suonava a occhichiusi, e si chiamava Jimi Hendrix.

L’onda di quei giorni reinventò la gio-

vinezza. Chiedeva pace & amore. Por-tava fratellanza. E addirittura una co-lomba bianca su chitarra acustica, co-me mostrava il logo disegnato da Ar-nold Skolnich. Metteva insieme tutte lestrade dell’Altra America — quelle deglihipster e di Jack Kerouac, dei treni mer-ci e di Bob Dylan, dei figli dei fiori ca-liforniani e dell’urlo all’idrogeno di Al-len Ginsberg, dei campus in rivolta e deirenitenti alla leva — per farle converge-re nella New York Interstate Thruway,fino alla conca verde della fattoria diMax Yasgur, trecento acri circondatidalle Catskill Mountains.

«Tutti accampati sul terreno», scri-verà Joni Mitchell, sparpagliati «comeoro, come polvere di stelle», per via deifuochi nella notte e dei joint di marijua-na che passavano di mano in mano,lampeggiando viaggi mentali. Velocicome le motociclette di Easy Rider, ap-pena decollate sugli schermi del nuovosogno americano, con scia di smalti co-lorati e il sangue di due spari, invece dellieto fine.

«C’era un sacco di energia in giro»,racconterà Michael Lang, ventisei anni,il più vecchio tra i quattro organizzato-ri del concerto. «L’idea nacque perchévolevamo guadagnare qualche soldo,d’accordo. Ma anche perché avevamo

bisogno di guardarci in faccia, di cono-scerci come generazione. Di uscire alloscoperto, creare una festa. Avevamo bi-sogno di un raduno».

Woodstock divenne l’apoteosi di tut-ti i raduni. Divenne un gigantesco in-gorgo di pulmini Volkswagen, di capel-loni e di significati. Tutti e tre mai quan-tificati del tutto, ora che sono passatiquarant’anni, meno che mai il numerodei ragazzi affluiti dalle due Coste, for-se cinquecentomila, forse un milione emezzo, con biglietto a diciotto dollari ecinquanta, il sacco a pelo in spalla, i san-dali, i bikini, i foulard, le barbe, i fiori, ibambini, i coriandoli di lsd e il viatico diTimothy Leary che recitava: «Turn on,Tune in, Drop out», accenditi, sintoniz-zati, lasciati andare.

Nessuno ancora sapeva che sareb-bero stati loro il programma, loro l’e-vento, loro l’energia. Come mai accad-de prima, per esempio al festival diMonterey, anno 1967, quando OtisReading performò Satisfaction in ver-sione rhythm and blues. Né mai sareb-be più accaduto in seguito, neppure neiLive Aid di iridescenza planetaria, e di-ritti tv contesi tra studi di avvocati e ma-nager e satelliti. Fu l’energia di quellagenerazione a torso nudo a scalare ilpalco di Woodstock e a issarlo dentro la

Storia del Ventesimo secolo, a accende-re i suoi cento amplificatori per sinto-nizzarli alle vibrazioni della nuova Era,e lasciarli andare lungo gli incanti diuna sequenza musicale che si sarebberivelata tra le più sontuose di tutti i tem-pi.

In quei tre giorni nascono stelle, mi-ti, epopee. Gli Who che salgono sul pal-co alle cinque del mattino, litigano conAbbie Hoffman, leader della contesta-zione, suonano My Generation, sfascia-no le chitarre sugli amplificatori e PeteTownshend le lancia tra il pubblico. Epoi l’interminabile assolo di Alvin Lee,solista dei Ten Years After, che rincorreper diciotto minuti il suo I’m Going Ho-me. E John Sebastian che dalla chitarraacustica estrae il dolcissimo I Had aDream che plana come un riverberolungo l’intera vallata. E Ravi Shankar,maestro di sitar, che trasforma il suoconcerto in una meditazione collettiva.E Carlos Santana che suona strafatto dimescalina, trascina l’onda dei ragazzidentro la trance di Soul Sacrifice, aper-ta dal crescendo dell’assolo di batteriadi Michail Shrieve, diciassette anni, an-che lui completamente perso di fronteallo spettacolo del pubblico: «Erano tal-mente tanti, sembrava di ammirare l’o-ceano, vedevo solo acqua, orizzonte e

PINO CORRIAS

JOAN BAEZ

ARLO GUTHRIE

TIM HARDIN

RICHIE HAVENS

INCREDIBLESTRING BAND

RAVI SHANKAR

SLY ANDTHE FAMILY STONE

SWEETWATER

KEEF HARTLEY CANNED HEAT CREEDENCECLEARWATER

GRATEFUL DEAD JANIS JOPLIN JEFFERSONAIRPLANE

MOUNTAIN QUILL

Tre giorni di rockper salvare il mondo

BERT SOMMER

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Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 28GIUGNO 2009

cielo». E i Canned Heat, i Jefferson Air-plaine, i Greatheful Dead già stelle del-l’altra costa, e Janis Joplin che avevapassato notti insonni all’Holiday Inn diBethel, con bottiglie di bourbon espeedball, per poi inventarsi la più bel-la e addolorata versione di Summerti-me. Fino all’exploit di Joe Cocker, ma-glietta psichedelica e gesti sincopati dachitarrista sognante che diventa di col-po la star del concerto, quando l’organoHammond scandisce il giro di note cheapre With a Little Help from My Friends,trasformato nell’inno rauco di quel ra-duno. Seguito, nel buio della notte dalset acustico dei Crosby, Still, Nash andYoung, insieme per la prima volta, conil loro scintillante Suite: Judy Blue Eyes.

Convergono in quel catino di massi-ma libertà temporanea tutti i nodi emo-tivi e le rivelazioni, anche politiche, de-gli anni Sessanta. Dagli ultimi sorrisi diJohn Fitzgerald Kennedy, sotto il sole diDallas, fino agli spari di Memphis, cheuccidono il reverendo Martin LutherKing e rendono immortale il suo sogno.Nelle università è cresciuta un’altraAmerica che vuole archiviare il presen-te nel passato, abolire la guerra e i dolo-ri del mondo, ma anche le cravatte e l’i-pocrisia. Tra i ragazzi la parola d’ordineè: «Non fidarti di nessuno che abbia più

di trent’an-ni». L’onda si infrangecome uno scandalo sull’Americapuritana. Nelle scuole sono proibiti ijeans e i capelli lunghi, ma il musicalHair, da un anno in cartellone al Bilt-more Theater, sta cambiando la moda,la musica, in attesa del prossimo avven-to, quello di Jesus Christ Superstar. In-sieme con l’Acquario, preme l’amoreuniversale, versione hippy. Differenticostellazioni musicali sembrano ap-paiarsi — dal blues nero dei ghetti, alrock bianco di Elvis Presley — e conver-gere a Woodstock. Per addensarsi inquel «magnifico incidente» di cui par-lerà Arlo Guthrie, «che non sarebbe po-tuto succedere una seconda volta».

È a quel punto che arrivò la pioggia.Prima i temporali, poi i nubifragi. I tor-renti d’acqua, le tende travolte, il cibo fi-nito, gli elicotteri degli approvvigiona-menti bloccati dal maltempo, il fangoche sommergeva tutto. «Già alla fine delprimo giorno avevamo perso il control-lo, ci aspettavamo la catastrofe da unmomento all’altro», racconterà Mi-chael Lang. Invece accadde il contrario.Dal massimo disordine, fiorì un nuovoordine. I ragazzi cominciarono a gioca-re con la pioggia e il fango. E non tro-vando riparo, a spogliarsi. Racconterà

unodi loro: «Da nu-di scoprimmo che le nostreidentità non erano poi così importan-ti». Un altro: «Capimmo che stavamotutti sotto lo stesso cielo e se il destino cibagnava, potevamo affrontarlo insie-me». Stando insieme si poteva fare ameno di tutto, compresa la musica dalpalco — anche se Joan Baez stava can-tando We Shall Overcome—, e sedersi erespirare, fare il bagno nelle acque delFilippini Pond, aspettare il sole, rimet-tersi in viaggio.

L’incantesimo durò fino alle otto delmattino del quarto giorno, quando JimiHendrix e la sua Fender Stratocasterscelsero di trasformare quell’accordoin un risveglio. Volavano carte sul pra-to. I ragazzi se n’erano andati, ne rima-nevano quarantamila, sparpagliati trapiccoli fuochi e spazzatura. Hendrixsuonò in quel vuoto e lo riempì, trasfor-mando l’inno d’America nel suo spec-chio. Le note, in bombardieri B52. Fu loshock del raduno. Fu la vita vera che tor-na dopo la festa. Lui scrisse: «Per unavolta, e per ciascuno, la verità aveva ces-sato di essere un mistero».

IL DVDVenerdì 3 lugliocon Repubblicae L’espressoa 9,90 euroin più, Woodstock,il documentariopremio Oscardiretto da MichaelWadleighcon quarantaminuti inediti

JOHNNY WINTER

TEN YEARS AFTER

IRON BUTTERFLY

JIMI HENDRIXCROSBY, STILLSAND NASH

SANTANA THE WHO THE BAND JEFF BECK GROUP BLOOD, SWEATAND TEARS

JOE COCKER

Alladomanda che mi viene rivolta spesso: a Woodstock c’eri? rispon-do no. Ma se la domanda viene riformulata in un altro modo («hai vi-sto Woodstock?») rispondo sì. E preciso: quel giorno e sul posto. Ma

allora — insistono gli interlocutori che sanno del mio lungo attraversa-mento dell’America da un capo all’altro e con molti personaggi ed interpretidell’epoca per tre decenni — c’eri o non c’eri? C’ero, e ho visto; ma in un al-tro modo. E dal punto in cui mi trovavo mi è sembrato di essere testimonedi un momento in cui qualcosa cambia per sempre.

Ho visto le ultime ore della musica dei giovani figli ribelli degli Usa. Ho vi-sto finire la musica dei ragazzi e nascere il grande business. Ho visto il po-polo giovane che aveva spinto alla nascita quella musica trasformarsi — inun magico istante — da popolo a pubblico, da protagonista a consumato-re, da proprietario ad utente della nuova musica. In quel momento, finita lapolitica con l’uccisione di Martin Luther King e di Robert Kennedy, la mu-

sica era il territorio largo, vivo, ben presidiato, il più giovane al mondo,di ciò che restava della speranza. Woodstock è il giorno — e la not-

te e il giorno, e il sole e il fango e la pioggia, e i giovani corpi avvin-ghiati e senza difesa — in cui tutto finisce. È finito a tal punto chein quelle ore ha cominciato a deperire la musica. E per decen-ni (possiamo dire fino a Obama?) si è spenta la politica, trasfe-rita, intanto, nelle inchieste giornalistiche e nei tribunali delWatergate. Ecco la mia testimonianza: ho visto Woodstock da

un elicottero, quando mi hanno portato alla festa appena scop-piata con uno scampanio di chitarre nel vasto prato popo-

lato da una folla che nessuno aspettava, un im-menso sostare nel niente di ragazze e ra-

gazzi giovani e nudi, precipitati a decinedi migliaia, poi a centinaia di migliaia

dentro il loro sogno ostinato in cui musi-ca, vita e politica (e dunque pace in Viet-

nam, pace ovunque) erano la stessa cosa.Quando Joan Baez ha deciso di esserci, non

era più possibile arrivare in auto alle spalle del

palco. Non era possibile attraversare a piedi la folla dei ragazzi zombie, im-mersi nella frenesia dolce — ma anche impossibile da interrompere — delsogno-allucinazione. Dall’elicottero vederli che salutavano come naufra-ghi quel volo (quei voli) che portavano le loro voci, i loro amici, i ragazzi-di-vi, quasi sempre coetanei, con cui — fino a quell’istante — avevano convis-suto, era il segno del grande cambiamento.

Stava infatti cambiando per sempre la vita giovane, dalle marce dell’Ala-bama allo schierarsi di fronte ai soldati con baionetta innestata, l’anno pri-ma, agosto 1968, stessi giorni di agosto, nelle strade di Chicago, mentre laConvenzione Democratica, protetta dal filo spinato e dalle truppe, sceglie-va la guerra e perdeva i suoi giovani. Erano in tanti a Chicago a guidare il gran-de canto di protesta, che nessuna baionetta aveva avuto la forza di spegne-re. Quella folla di corpi era la stessa Woodstock? Non lo sapremo mai. Mal’andare e venire degli elicotteri nel cielo, che forse a qualcuno avrà ricor-dato le immagini del Vietnam, hanno segnato la separazione. Di qua le star,di là il pubblico. Di qua le grandi case che produrranno i dischi con splendi-de copertine; di là i ragazzi che credevano di essere tutti insieme, tutti arti-sti, tutti star, perché altrettanto belli e giovani. Ma sono stati separati e di-chiarati per sempre «consumatori».

Dal palco — che era inaccessibile e, per forza, molto alto sopra la folla, epoi, dopo l’uragano, quando la partenza è stata possibile — li ho visti nel fan-go. Sostavano esausti e abbracciati, dopo una lunga marcia piena di sogni(illusioni?), di attese insensate, di canzoni che dureranno trent’anni, tantoerano (sono) belle e colme di uno strano fervore e di un suono che resta den-tro per sempre. Ma erano là, come un’illustrazione di Gustavo Doré a unaDivina Commedia, però a colori. Il colore dei loro corpi, dei loro jeans, deiloro capelli, delle camice perdute lontano nelle pozzanghere, era tutto ciòche restava di quel decennio indimenticabile di vita, di morte, di attesa diquel grande Messia collettivo che è la vita dei giovani. Per un attimo aveva-no posseduto la Storia. Avevano fermato il mondo di affari e di armi. Tutti,per un istante — anche in guerra — hanno dovuto ascoltare la loro musica.Poi basta. L’elicottero, la casa discografica, la grande distribuzione, i registi,i creativi, i «packaging people», vanno via nelle nuvole.

Furono le ultime ore della rivoluzionepoi il “popolo” divenne “pubblico”

FURIO COLOMBO

IL LIBRO/2

Michael Lang,organizzatore della manifestazione,ricorda quei giorni,anche con fotoinedite che in parteriproduciamo in queste pagine, nel libro Woodstockscritto con HollyGoerge-Warren(Arcana, 236 pagine,18,50 euro)

IL LIBRO/1

Le idee e la forza della controcultura e le migliori menti musicalidi una generazione. Ernesto Assante

e GinoCastaldolo raccontanoin Il tempodi Woodstock(Laterza, 208pagine,15 euro)In libreriail 2 luglio

Repubblica Nazionale

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28GIUGNO 2009

i luoghiMemorie toscane

Montefollonico è un borgo del Senese, oggi turistico,ma fino a ieri centro agricolo e minerario. I suoi abitanticonducevano una vita durissima, iniziando a lavorareda quando “s’era capaci di camminà”. Un libro ha raccoltoi ricordi degli anziani, che raccontano fatica e povertàma anche un’intensa vita sociale fatta di feste, musica e cacce

meno editoriale letterario della provin-cia italiana, che da qualche anno si vabeatamente interrogando sulle proprieradici. I giornali continuano a parlaredella globalizzazione, che dovrebbe rag-giungere anche le contrade più remote,e noi tutti siamo in attesa del momentoin cui i cinesi, diventati i padroni delmondo, ci faranno tirare i risciò al postodei coolies in un simpatico contrappas-so. Ma in Toscana per la verità i paesani,non si capisce bene se per timore di que-sta globalizzazione di cui non vedono gliscopi o più semplicemente perché se nefregano altamente di questi temi mon-diali, hanno reagito con un comporta-mento che si potrebbe definire la sin-drome della marmotta: ad ogni segnaleche non rientra nelle loro usanze tradi-zionali, si vanno a rifugiare nel profondodelle loro tane. O nel proprio “particula-re”, come direbbe Guicciardini. A Pien-za tutti hanno seguito con interesse l’e-lezione di Obama, ma la vera attrazionequest’anno come negli anni scorsi è sta-ta la gara del lancio del panforte, alla qua-le questa volta non ho partecipato, conmio grande rammarico. L’aspetto sor-prendente di questa riscoperta della ci-viltà contadina, non solo il lavoro deicampi, ma i modi, gli usi, le feste, le ri-correnze, gli scherzi, i motti e il linguag-gio, è il suo tono accentuatamente edul-corato. Come se gli autori, quasi tutticontadini o meglio figli di contadini, chein realtà non si sono mai mossi dal bor-go, non avessero capito bene quello chesi raccontava in casa. Trenta o qua-rant’anni fa l’immagine della vita neicampi era quella di una fatica che stron-cava i corpi come le menti, inumana perdefinizione. Anche in Toscana, dove ibraccianti erano in numero limitato,non esisteva latifondo e i contadini era-no quasi tutti mezzadri, vivere in cam-pagna significava immensi sacrifici eprivazioni costanti. Adesso quasi tutti neparlano, seduti nei caffè di Montalcino,con i divani di velluto rosso, o in piazza aPienza, come di un’età felice, una sortadi Bengodi del genere Amici miei, dovegli scherzi si alternavano alle mangiate ebevute e la vita della famiglia mezzadri-le era sana e unita. Oh i bei tempi di quan-do Brunetto, il proprietario del bar diPienza, andava a piedi a Siena per nonperdersi la nuova quindicina. E sonomolto rari gli accenni a tutta quella vio-lenza, soprattutto sulle donne e suibambini, che era la realtà nascostadi ogni cultura rurale. Sembradi essere ritornati ai raccontidi lingua toscana infioc-chettati e lustri di BinoSanminiatelli, chegirava in calessi-

no dalle parti di Lamole, o di Gotti Lega,l’autore di Memorie toscane. Personaggispesso di forte simpatia, avarissimi co-me tutti i proprietari toscani, scrivevanolibri inzeppati di storie noiosissime, co-me la gita dallo zio arciprete che faceva il«vino bono» e l’«oio bono», le due osses-sioni primarie dei toscani nella vita co-me nelle conversazioni, o quando eranoandati a rubare le ciliegie nel giardino delcurato, parlando di quegli anni come diun’età dell’oro.

Memoria di un Paese: Montefolloni-co… ieri ricorda un celebre saggio mini-malista, il Montaillou di Le Roy Ladurie,splendido narratore. La differenza stache il ritratto del paese occitano viene ri-cavato da una pazientissima analisi ditesti trattati con una cura filologica estre-ma. Mentre Butazzi si è servito delle te-stimonianze dirette di sopravvissuti,che parlano una lingua finalmente nonaffettata, ma trasparente e chiara chesuona come musica alle orecchie. Il me-rito del libro di Butazzi è quello di man-tenere un equilibrio tra la narrazionedelle miserie di un mondo ormai tra-montato per sempre e tutti i momenti incui una razza di contadini, la più tenace,la più acuta e spesso anche la più aristo-cratica d’Italia, riusciva a scrollarsi didosso quelle immani fatiche e a cammi-nare lesta e leggera godendo il panora-ma, il vino e la compagnia degli amici, ecreando una vita sociale straordinaria-mente intensa fatta di manifestazionereligiose, di musica, di balli, di cacce.

Nella famiglia mezzadrile si lavoravada quando «s’era capaci di camminà». Iragazzi più grandi andavano con gliadulti a seminare e a mietere e i più pic-coli a badare ai maiali e alle pecore. Si la-vorava dodici, quattordici, anche sediciore al giorno e c’erano case colonicheche erano porcilaie, senza nessun servi-zio igienico, niente strade, niente acquae niente luce. Da marzo fino a dicembre«‘un c’era pace», nelle case c’erano pochiletti e in tre letti dormivano sette o ottopersone. Quando si accendeva il fuoco,il fumo invece di andare su per il camino,si spargeva per la stanza. Ma quando ar-rivava il carnevale, tutti andavano a bal-lare anche senza orchestra, con la fisar-monica, e quelli che non ballavano siesercitavano alla rotella o andavano avedere le corse dei cavalli nella chiesa diRenellino, o le corse a piedi, e a chi vin-ceva davano una gallina e un coniglio. Lacampagna era piena di vigneti e alla finedella giornata tutti si ritrovavano sdraia-ti nell’erba a sognare quando avrebberofatto fuori il padrone.

Il paese dei contadini aristocratici

Montefollonico è unborgo del Senese, al-to sulle colline, nonha i nobili palazziumanistici di Pienzae nemmeno quegli

scorci architettonici e quella vista sullaVal d’Orcia di Monticchiello. Ma lastraordinaria bellezza del paesaggiotutt’intorno, una delle campagne più aregola d’arte che esistano, con le coltiva-zioni già identiche a campiture stese sutela con colori ad olio, i fondali che sfu-mano dall’azzurrino al turchiniccio, i ca-sali color mattone che spezzano le lineeorizzontali dei prati verdi, si riversa nelborgo dandogli un fascino che nonavrebbe altrove.

Ogni tanto qualche sindaco della To-scana, dedito all’autolesionismo, provaa modificare questo paesaggio senzarendersi conto che si dà la tradizionalezappa sui piedi. La venustà della campa-gna toscana non è solo una cosa degna dicontemplazione e basta, che viene pre-servata per contentare gli esteti alla Ru-skin che passano da una visione estaticaall’altra. Rappresenta quello che è laFord per Detroit o la Borsa per Londra: ilvolano di tutta l’economia della regione.Se l’immagine di questo paesaggio si in-crina e i turisti disgustati se ne vanno, i bi-lanci della regione sprofonderebberosenza speranza. Negli ultimi tempi lemeraviglie della natura, i palazzi, i museiricolmi di opere geniali sembrano esse-re stati creati come splendida cornice adattività molto più materiche che spiri-tuali: una continua ossessiva ricerca dicibo definito «genuino» e «naturale», chesembra diventata lo scopo primario del-le masse di turisti in Toscana. Pienza,una volta chiamata città dell’arte, si statrasformando in città del cacio, con de-cine di botteghe aperte lungo il corso chevendono oltre ai pecorini, anche mar-mellatine, salamini, prosciuttini, senzache nessuno sappia mettere un freno adun’attività commerciale insensata edannosa nella sua frenesia. Montefollo-nico si è salvata dal cacio, ma tutta l’areaè dedita al culto della bistecca chianina enumerose trattorie intorno diffondononell’atmosfera il profumo della tagliataal rosmarino, che sembra quasi un odo-re connaturato al posto, come il profu-mo del sandalo nello Yemen o il gelso-mino in Sicilia.

Su Montefollonico è uscito in questigiorni un bellissimo testo, Memoria diun Paese: Montefollonico… ieri, di Ren-zo Butazzi, pubblicato dall’Accademiadegli Oscuri di Torrita di Siena, che soloin apparenza rientra in un vistoso feno-

STEFANO MALATESTA

IL LIBRO

Memorie

di un Paese:

Montefollonico...

ieri di Renzo Butazziè pubblicatodall’Accademiadegli Oscuridi Torrita di Siena([email protected])Le immaginidi questa paginasono trattedal volumee si pubblicanoper gentileconcessionedi Enzo Sodi

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 28GIUGNO 2009

le tendenzeEstate sicura

In Italia, la tintarella non soltanto non è mai passatadi moda, ma si conferma un fenomeno in crescitaEppure, secondo sondaggi e ricerche, non sappiamoancora difenderci dal sole, usiamo poco e malele protezioni e non conosciamo i rischi dei raggiultravioletti. Ecco come preservare le nostre vacanze

Ogni anno gli stessi sbagli. Gliitaliani non sanno proteg-gersi dal sole, usano poco emale le creme che dovreb-bero difenderli dalle scotta-ture e continuano a non

avere la percezione del rischio. Si calcolasiano almeno undici milioni coloro cheusano i solari solo nei primissimi giorni di

vacanza, certi poi di non averne piùbisogno. Spesso si tratta di

prodotti scelti a casoe anche mal

conservati.E invece

c’è il

solare snellente (magari!), quello antimac-chie, antiage, drenante, levigante, esfolian-te, con micropigmenti iridescenti, e persi-no il solare antimedusa.

Altro errore molto comune è la parsimo-nia con cui (non) ci cospargiamo di cremaprotettiva. Noi e i nostri bambini. Secondole indicazioni del ministero della Salute laquantità raccomandata è di due milligram-mi di crema ogni centimetro quadrato dipelle; uno studio recente ha dimostrato in-vece che la media effettiva è di 0,39 mg: mol-to meno di un quarto. Lo schermo solareinoltre andrebbe applicato ogni due ore,anche quando si sta all’ombra.

La crema solare (oggi venduta anche informato braccialetto di gomma da portaresempre con sé, pure nuotando) non deveessere un lusso di alta profumeria, e confor-ta che in cima alla classifica stilata dalla ri-vista Altroconsumo ci sia un prodotto checosta 13,50 euro. Cifra accettabile per una

crema che risulta garantire il massimo diprotezione, idratazione, fotostabilità,

resistenza all’acqua. Il tanto agogna-to sole, com’è noto, può trasforma-

re la vacanza in un incubo. Si cal-

cola che un terzo degli italiani soffra di der-matite solare, patologia in crescita soprat-tutto a causa dell’inquinamento. Per un ita-liano su dieci si può parlare di vera e propriaallergia: un’intolleranza — o fotodermato-si — che dal 2000 a oggi ha fatto registrareun raddoppio dei casi. In aumento anche ladiffusione della cheratosi solare, una formadi tumore della pelle che colpisce di prefe-renza chi si espone in modo prolungato eimprudente ai raggi del sole e alle lampadeabbronzanti: il tre per cento degli ultracin-quantenni. Siamo un Paese in controten-denza rispetto al resto d’Europa: l’abbron-zatura — spesso del tipo selvaggio — nonsoltanto non è passata di moda, ma si con-ferma un fenomeno in crescita. Per i forza-ti dei raggi ultravioletti diventa una vera epropria malattia che crea dipendenza e perla quale gli esperti hanno coniato il termine“tanoressia”. «È una dispercezione corpo-rea: così come l’anoressico non si vede maiabbastanza magro, allo stesso modo il ta-noressico ritiene di non essere mai suffi-cientemente abbronzato», spiega il derma-tologo Matteo Cagnone, presidente dell’Ir-deg (Istituto di ricerca e cura di dermatolo-gia globale), che ha condotto uno studio suquattromila persone.

Il tanoressico tipo, o stacanovista del rag-gio, è donna, ha un’età fra i sedici e i qua-rant’anni e risiede al Nord. Da questa stessaricerca condotta sulle nostre spiagge risultache il novanta per cento degli italiani, per-centuale allarmante, continua ad abbron-zarsi «in modo inopportuno», o meglio austionarsi, esponendosi nelle micidiali orecritiche e utilizzando creme con filtri trop-po bassi. L’Unione europea, lo ricordiamo,ha stabilito che il total block non esiste: alnostro buon senso salvarci la pelle.

Abbronzarsi salvando la pelle

LAURA LAURENZI

IN UN SOLO WEEKENDAccelera la tintarellaGolden Beauty,l’autoabbronzantedi Helena Rubinsteincon colorazione gradualeed effetto naturale

SPRAY UNISEXÈ ideale per chipratica sport sottoil sole lo sprayoil-free Bronzage

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anche dopo il bagno Bronze Goddess,il sunscreen di Estée Lauder

IL CANE E LA BAMBINAÈ dal 1959 il noto logodella Coppertone, l’azienda americanaleader nel settore delle creme solari

PER I PIÙ SENSIBILIÈ indicato per le pellipiù sensibili lo sticksolare a protezione

molto alta di Lichtena

PER SEMPRE GIOVANEÈ antimacchia e antirughela crema viso abbronzanteal mandarino di Collistar

BEBÈ AL MAREIdrata e dà sollievo alla pelle dei piùpiccoli dopo l’esposizione ai raggisolari il latte doposole di Aveeno

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e una pelle morbida prometteSôleil Dna Guard di Lancôme

PELLE BABYProtegge visoe corpodei bambiniPiccolosole

la crema solarebimbiresistenteall’acqua

PREVENZIONE ANTIETÀProtegge dai danni del soleed è indicata per viso, colloe scollatura Sunleya Age Minimizing

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di Lancaster

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28GIUGNO 2009

Alchimie

Mescolare è bello. E il meticciatoin salsa ittica regala grandi gioieal palato, esattamente comesuccede con i pot-pourri di ver-dure: egualmente facili, mal-leabili, pronte a combinarsi tra

loro senza ombra di razzismo gastronomico. Tragli animali terrestri, tutto è più difficile: assembla-re nella medesima pentola manzo e maiale, agnel-lo e pollo, tacchino e cinghiale, rappresenta una ve-ra mission impossible anche per il più scapigliatodegli chef.

Il mare, invece, è un orto annegato nel blu: lezuppe di pesce, proprio come quelle di ortaggi, so-no veri tourbillon di ingredienti. La riuscita è affi-data alla sensibilità e alla capacità di chi sceglie, ac-costa, spadella. Che si tratti di verze, patate e zuc-chine, o di scorfani, pescatrici e seppie, che si ag-giungano acqua e sale o i condimenti più sfiziosi,che si scelga di tenere tutto al dente o si cuocia ab-bondantemente per poi passare al setaccio a mo’di crema densa, tutto o quasi è permesso. Se l’al-chimia funziona, anche grazie ai piccoli trucchi in-confessati come le cotture separate o le zeste diagrumi aggiunte all’ultimo momento, il risultato èdavvero trionfante.

Non esiste piatto in partenza più povero e di ri-sulta. Da sempre, alla fine della nottata di pesca,dopo che l’ultimo dei clienti è stato accontentato,nelle reti, sulla banchina, rimangono i resti: minu-taglie, pesci spezzati, altri impigliati nelle maglie dicorda, altri ancora così poco conosciuti che nessu-no li ha voluti. La magia di zuppe, brodetti e guaz-zetti comincia lì, dalla necessità di recuperarequel bendidio travestito da Cenerentola. DaGoro a Otranto, da Camogli a Cetara, da Al-ghero a Mazara del Vallo, non c’è pescato-re senza ricetta di zuppa. A volte ruvidae scarna, spesso elaborata e corposa.Nel coccio, il sapore si moltiplica perquante sono le varietà di pesci,molluschi, crostacei usati.

Le ricette sono infinite, arric-chite, negli anni, dalle varietàpregiate — scampi, tartufi,mazzancolle — che mai i pe-scatori si sarebbero potutopermettere. Si parte dalbrodetto descritto nellaMaria Risorta, romanzodi inizio Novecento asfondo marinaro («dueroscioli, due seppie, duefolpi, qualche sfoglia, unpo’ di pesce matto; li lavinell’acqua salata, li mettisu senza scolarli: sale, pepe,olio e un soffrittino di cipol-la. Al resto ci pensa il fuoco»),e si arriva ai magnifici tredici(pesci) del caciucco — seppia,polpo, palombo, grongo, murena,cappone, scorfano, gallinella, ghioz-zo, bavosa, boccaccia, cicala, sugarello— passando dal tegamaccio umbro, ricettasolitaria di zuppa di pesci d’acqua dolce.

Certo, occorre dare del tu al mare, conoscere i se-greti nascosti sotto squame e carapaci, per prepa-rare la Zuppa Regina. Una sapienza che si traducein pazienza infinita nel pulire come nell’attenzio-ne maniacale alle cotture sfalsate, rispettando leconsistenze di ognuno. Se non avete troppa confi-denza con il misterioso mondo degli scorfani — pe-sce fondamentale per la riuscita della zuppa — or-ganizzate una gita settembrina a Fano, nei giornidel Festival del Brodetto. E lasciate che gli chef del-l’Adriatico lavorino per voi.

È il piatto pot-pourriper eccellenza,dove la riuscita è affidataalla capacità degli chefdi assemblaregli ingredienti. È cosìche nascono brodettie guazzetti, ricette poveresolo in apparenza

i sapori

LICIA GRANELLOZuppe

pescedi

Il mare servito in tavola

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 28GIUGNO 2009

La rivincitadegli scorfani

MARINO NIOLA

Chi lo chiama caciucco, chi brodetto, chi bouillabaisse.Ma in fondo è sempre la solita zuppa. Sempre la stessa,eppure ogni volta diversa. Il suo bello, infatti è proprio

l’infinito assortimento dei pesci che si buttano in pentola. Maquesta fantasmagorica varietà, prima di diventare un impera-tivo gastronomico, è stata per secoli il semplice risultato del ca-so e dell’indigenza.

Piatto poverissimo per antonomasia, preparato con i residuidella pesca, quando i lavoratori del mare dopo aver vendutotutto il vendibile raschiavano letteralmente il fondo della reteper prepararsi da mangiare. Pescetti minuscoli, spinosi, umi-li, senza appeal, abbandonati al loro destino. Dei trovatelli delmare. Orfani destinati a fare la parte degli scorfani. Trasfor-mandosi da brutti anatroccoli delle acque in pesci simbolo delbrodetto mediterraneo. Insieme a tracine, gronghi, murene,gallinelle, polpi, seppie, triglie, palombi, sogliolette, merluzzie pochi frutti di mare di risulta buttati lì alla rinfusa.

Così l’armata brancaleone diventa una squadra vincente.Proprio come nell’Adelchimanzoniano il volgo disperso solle-va la testa scalando le vette della gastronomia. È il solito con-trappasso delle cucine povere capaci, per secolare attitudine,di fare di necessità virtù e di trasformare la scarsità in bontà. Maanche la mescolanza in eccellenza.

I nomi stessi di molte celebri zuppe di pesce hanno a che fa-

re proprio con i benefici della contaminazione. Primo fra tuttiil caciucco livornese che deriverebbe, secondo alcuni, dal tur-co kuçucche significa piccolo. Secondo altri, invece, dallo spa-gnolo cachuco, un succedaneo del dentice che viene usato perindicare il pesce in generale. Come dire l’intero popolo del ma-re. E secondo altri ancora, all’origine di tutto ci sarebbe l’araboshakshukli, che vuol dire mescolanza. Un gran misto di maredunque ad immagine e somiglianza di quel gran misto di terrache è Livorno, antico crogiolo di umanità, di culture e di ga-stronomie: ebraiche, levantine, africane, anglosassoni. Anco-ra una volta la cucina si conferma specchio fedele della società,lente di ingrandimento dei suoi caratteri profondi, quelli chenon sono scritti a chiare lettere nei libri di storia, ma che gli in-tenditori e gli animi sensibili sanno leggere.

E la celebre zarzuela, versione spagnola della zuppa di pe-sce, prende il nome da un genere teatrale barocco che mesco-la tragedia, commedia, musica e danza. Come dire che ce n’èper tutti i gusti. Esattamente come nella caldeirara portoghe-se che sposa pesce e patate, come molte cucine di colorito oc-citanico, non ultima quella genovese.

Mirabili guazzabugli. Come la bouillabaisseprovenzale, re-gina delle soupes de poisson, che un guazzabuglio lo è letteral-mente, essendo un misto di pesci, aromi ed erbe che bollono esguazzano insieme. Un brodo primordiale del sapore dove ci èdolce naufragare. Aggrappati ad un crostino.

Mare bluSalernitana legata alla cucina di mare,Viviana Varese (“Alice”, Milano)propone una zuppa leggiadra,con pesci e crostacei al vapore,su un fumetto di pesce reso coloratograzie all’infusione di cavolo viola

Casseruola Rilettura golosa per ’a zuppa ’e pisccampana. Ernesto Iaccarino (“DonAlfonso”, Sant’Agata sui Due Golfi,Napoli) la impreziosisce con l’astice,il suo fondo di cottura e zabaglioneallo zafferano

Caciucco 2000Luciano Zazzeri (“La Pineta”di Bibbona Mare, Livorno) rielabora la ricetta, cuocendo i pesciin extravergine a bassa temperatura servendoli con crostini e una bisquedi cozze, cicale e gamberi

CaciuccoDeriva dal cachuco (pesce spagnolo)

la zuppa livornese – con varianteviareggina – che assembla tredici

tipologie di pesce cotte con la salsa di pomodoro. Da servire

su fette di pane abbrustolito

BouillabaisseNella zuppa marsigliese,

un piatto per il pesce, l’altro per la partebrodosa (in Francia soupe de poisson)

A coté, crostini da spalmarecon salsa rouille, a base

di maionese, aglio e zafferano

BrodettoPercorre tutto l’Adriatico

la tradizione del brodo (coi pesciavanzati dopo la vendita al porto)

che imbeve pane e pezzi di pesceTra le varianti, acqua di mare, aceto,

pomodoro, peperoncino

BuriddaUn trito di acciughe sciolte

nell’extravergine caratterizza la zuppaligure, che ha per base il baccalà

dissalato . Nella pentola di coccio, anche alloro, prezzemolo, aglio,

pomodoro e vino bianco

Brodetto di crostacei Campione 2008 per il brodettoal festival di Fano, Mauro Uliassi(“Uliassi”, Senigallia) alterna la zuppain coccio con padellata di molluschie crostacei, lemon grass e basilico,in acqua di scampi e vongole

Ai tavoli dei localidel borgo di pescatori,si servono bagnun,buridda e ciupìn, zuppedi pesce e ortaggi,da gustare con vinicome Rossese e Pigato

DOVE DORMIREL’ARCHIVOLTOVia Roccaro 6 Tel. 019-611820Camera doppia da 90 euro con colazione

DOVE MANGIAREDOC Via Vittorio Veneto 1 Tel. 019-611477Chiuso lunedì e martedì, menù da 50 euro

DOVE COMPRAREGASTRONOMIA FERRARIVia Giacomo Matteotti 138Tel. 019-61041

Borgio Verezzi (Sv)La tradizionepeschereccia si esprime nel brodetto di pescelocale, da gustare dopoaverlo fatto riposareTra un boccone e l’altro,l’immancabile Verdicchio

DOVE DORMIREHOTEL DE LA VILLEViale Cairoli, 1 Tel. 0721-838000Camera doppia da 80 euro con colazione

DOVE MANGIAREAL PESCE AZZURROViale Adriatico 48/aTel. 0721-803165Chiuso lunedì, menù da 10 euro

DOVE COMPRAREMERCATO ITTICO COMUNALEViale Adriatico 50Tel. 0721-887431

Fano (PU)Pesci, crostacei, molluschi,sugo cotto a parte, pepee pane fritto, nella ricettache domina i menùdella cittadina sullo IonioAbbinamento d’obbligocon il rosato salentino

DOVE DORMIREMASSERIA LI SAULISS 274 Gallipoli (uscita Lido Pizzo)Tel. 0833-201536Camera doppia da 105 euro con colazione

DOVE MANGIAREIL BASTIONERiviera Nazario Sauro 28Tel. 0833-263836D’estate sempre aperto, menù da 40 euro

DOVE COMPRARE MERCATO ITTICOPiazza della Dogana

Gallipoli (Le)

itinerariGiovane e talentuoso, Pietro D’Agostino gestisce“La Capinera” di Taormina, dove il pesce regna sovranoTra i piatti più sfiziosi, il guazzetto di pesce e crostaceicon cous cous alle verdure servito in cartoccio

l’appuntamentoDal 3 al 5 luglio, in Abruzzo, la costa

chietina celebrerà i suoi “trabocchi”, storicipontili attrezzati per la pesca cantati

da D’Annunzio, nell’annuale manifestazione“Cala Lenta”. In programma, laboratoridel gusto di Slow Food, cene a tema,

escursioni di pesca-turismo, mercati e lezionidi cucina nel porto di Vasto, dove – al rientrodei pescherecci – verrà cucinato il “brodetto

alla vastese” con le tipologie di pesceazzurro dell’Adriatico

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28GIUGNO 2009

l’incontroFerite aperte La famiglia, religiosa ma tollerante;

l’inquieta vita amorosa; i primi passicome pubblicitario; il “realismomagico” che lo lanciò e che adesso

contesta.Lo scrittoreche ha avuto la vita segnatadalla fatwa di Khomeinisi racconta,spiega comela scelta di trasferirsia New York abbia rimessoin moto la sua energia

e confessa il sogno di fare l’attore,che lo ha spinto a interpretarese stesso in numerosi “cameo role”

‘‘

Credo che esistaqualcosadi misteriosoe incomprensibile,che tuttavianon è trascendenteIo mi dico ateo,e dunque credoin un’anima mortale

pre in vantaggio sulle risposte. Rushdie si dichiara ateo ma, se si par-

la con lui di questioni spirituali, risultaevidente che nel suo intimo resiste ilmistero del senso ultimo dell’esistenza:«Credo che esista qualcosa di segreto eincomprensibile, che tuttavia non è tra-scendente. Uso il termine anima per-ché non ne esiste uno più efficace o piùsecolare: credo in un’anima mortale».Chi lo conosce sa che un’affermazionedel genere non è una battuta, ma una ri-flessione costante e ancora non conclu-sa che è cominciata sin dalla gioventù.

Salman Rushdie è nato il 19 giugno1943 in quella che oggi si chiama Mum-bai, ma che lui continua a chiamareBombay, spiegando che «la decisionedel cambio di nome è puramente poli-tica e reazionaria. Un modo per segna-re un taglio con il passato e forzare il per-corso naturale e culturale della storia.Sono felice che il tentativo di ribattez-zarla sia ignorato dalla stragrande mag-gioranza della popolazione, come èsuccesso in Vietnam dove la gente con-tinua a chiamare Saigon la città rinomi-nata Ho Chi Minh City».

Il padre, Anis Ahmed, era un avvoca-to laureato a Cambridge che si rein-ventò uomo d’affari, mentre la madre,Negin Butt, era un’insegnante. Il valoredella cultura ha svolto sempre un ruolopredominante nella sua educazionema, ogni volta che abbiamo occasionedi discuterne, Rushdie torna diretta-mente al tema religioso: «Sono di fami-glia musulmana sciita. Mio padre erauno studioso della religione, ma nonera credente. Mia madre aveva inveceun’osservanza blanda. Eppure nellamia famiglia c’è un’autentica tradizio-ne spirituale: mio nonno era un religio-so aperto e tollerante, una persona co-me ne ho incontrate poche in tutta lamia vita. Ricordo ancora adesso l’affet-to e il rispetto con cui cercava di capireda me perché non credessi. Mio nonnoe in particolare il suo approccio nei con-fronti della religione sono stati deter-minanti nella mia scrittura e nella miaintera esistenza».

Prima di dedicare la propria vita allascrittura, si è mantenuto lavorando inpubblicità. È un mestiere che non è mairiuscito ad amare, ma che ricorda congratitudine: «È grazie a quella esperien-za che ho imparato il senso della disci-plina e della professionalità. Lo facevoesclusivamente per pagare le bollette,ma ho imparato cosa significasse con-segnare un lavoro all’esatta scadenza, oa dedicare il massimo impegno affin-ché venisse realizzato senza difetti».

Il primo romanzo, Grimus, scrittoquando aveva trentadue anni, non ebbe

una grande accoglienza, ma I bambinidella mezzanotte, scritto sei anni dopo,divenne un best seller internazionale: inmolti parlarono di «realismo magico»per dare un nome al particolare stile delromanzo, anche se la definizione non loha mai convinto. «Per alcuni versi sonolusingato, perché è stata utilizzata pergrandi scrittori come Borges, Marquez,Vargas Llosa e Fuentes. Ma credo che siacorretta parlando del Sud America do-ve, almeno in apparenza, non c’è unasostanziale differenza tra realismo emagia». Rushdie è scettico anche ri-guardo all’identificazione che in moltihanno fatto con il protagonista SaleemSinai: «Ci sono molte cose in comune:siamo della stessa generazione, venia-mo dalla stessa città, dallo stesso quar-tiere e abbiamo frequentato la stessascuola. Ma ci sono anche differenze so-stanziali: Saleem non abbandona mail’India e il Pakistan, e invecchiando di-venta sempre più passivo, sembra che le

cose e gli avvenimenti lo condizionino enon viceversa. Quando presentavo il ro-manzo molti lettori rimanevano delusida queste differenze».

In maniera simile a quanto accaddecon la definizione di «realismo magi-co», la critica ha cercato sin dall’iniziodella sua carriera riferimenti e ispira-zioni, a cominciare da Calvino e Pyn-chon. Rushdie non li ha mai negati, masottolinea una differenza: «Calvino è unautore che amo profondamente, e lasua influenza è evidente anche nel mioultimo romanzo, l’Incantatrice di Fi-renze. Mentre lo scrivevo ho sentito let-teralmente la sua presenza sulle miespalle, e ho pensato ancora una volta alibri formidabili come Le città invisibilio alla raccolta delle Fiabe Italiane. Di-verso il caso di Pynchon, un grandissi-mo scrittore che mi ha influenzato so-prattutto nei primi libri. Quella di libe-rarmene è stata una mia scelta: si tratta-va per alcuni versi di una voce troppoforte».

Ma c’è un momento nella vita di Ru-shdie in cui la letteratura viene travoltadalla vita: la fatwa lanciata dall’Ayatol-lah Khomeini dopo la pubblicazionedei Versi Satanici.Tutti gli eventi tragiciscatenati in quel giorno di San Valenti-no hanno avuto inevitabilmente riper-cussioni pesantissime sulla sua esi-stenza. Si è scritto moltissimo sulla vitanascosta e blindata in Gran Bretagna, larottura per causa sua delle relazioni di-plomatiche tra Londra e Teheran, e lalunga scia di sangue lasciata da fonda-mentalisti islamici in obbedienza al-l’invocazione di morte dell’Ayatollah.Ma quello che forse ancora oggi lasciapiù profondamente il segno è il logorioinesorabile dei rapporti più intimi, cheha portato tra le altre cose al fallimentodel legame con la moglie MarianneWiggins, sposata dopo un primo matri-monio con Clarissa Luard. In seguitoRushdie ha sposato Elizabeth West ePadma Lakshmi, e ha avuto molti altrilegami sentimentali.

Da quel giorno di febbraio Rushdieha lottato con tutte le forze per ricon-quistare la libertà, e solo recentementeè riuscito a vivere con relativa norma-lità, soprattutto grazie alla scelta di tra-sferirsi in una metropoli come NewYork, a proposito della quale confessa ilproprio senso di appartenenza perché«è una città della quale sei cittadino an-che se non hai la nazionalità america-na». Quello che intende è che New Yorkè la città della Statua della libertà. Ognianno, nell’anniversario della fatwa, ri-ceve un «biglietto di San Valentino» daparte di fondamentalisti che gli ricor-dano di «non aver dimenticato», ma è il

primo a sostenere che si tratta «più di re-torica che di una vera minaccia».

La vita ritrovata lo ha portato a scri-vere nuovamente in maniera prolifica econ grande passione, a frequentare am-bienti estremamente glamour e persi-no a togliersi qualche sfizio: oggi con-fessa di aver sempre sognato di fare l’at-tore, e negli ultimi anni ha interpretatose stesso in numerosi cameo, come adesempio nel Diario di Bridget Jones. Nelmomento di massimo pericolo non gliè stato possibile partecipare al film Lu-lu on the Bridge dell’amico Paul Austera causa del rifiuto da parte delle com-pagnie assicurative di coprire il rischio.Ci è rimasto male e oggi spiega in questitermini la passione per la recitazione:«Da piccolo sognavo di partecipare agrandi film hollywoodiani, e mi è sem-pre rimasta questa debolezza. Nonscambierei la recitazione con la scrittu-ra, ma devo dire che quando mi vedosullo schermo, provo autentico piace-re. Mi sono detto che forse nel momen-to in cui interpreto qualcuno creo unpersonaggio, e si tratta di un procedi-mento non molto differente da quellodella scrittura».

Ma il cinema lo appassiona anche co-me spettatore: adora Bergman, e moltidei grandi italiani come Fellini, De Sica,Rossellini e Visconti. Di The Millionaire,il film ambientato nella sua città che hatrionfato quest’anno agli Oscar, diceche lo considera niente più che un «abi-le spettacolo. Finché viene definito cosìnon ho nulla da dire, ma se sento parla-re di realismo reagisco duramente. Co-nosco intimamente quel mondo, comeso bene cos’è il cinema di autentica qua-lità. Non scherziamo, per favore».

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ANTONIO MONDA

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L’unica cosa di cui ti chie-de di non parlare è lafatwa, e tutto quelloche ha scatenato nella

sua esistenza. Ma poi è lui stesso a citar-la, e a parlare del 14 febbraio 1989 comedi un San Valentino che non dimenti-cherà mai. Da quel giorno Salman Ru-shdie non è più uno scrittore ammiratoe amato per il suo mondo interiore affa-scinante e sorprendente, ma una per-sona condannata a morte per motivi re-ligiosi e dunque, per un tragico para-dosso, uno degli uomini più celebri delpianeta. Quando lo avvicini, metti afuoco un uomo che ama parlare di let-teratura e di politica, ma intuisci subitoche la ferita aperta quel giorno non si ri-marginerà mai e che — al di là dell’in-telligenza veloce, delle battute spiaz-zanti e provocatorie, di una scelta di vi-ta nella quale la cultura alta si mescolacon il glamour — attorno a Rushdie si èconsolidato un alone di fragilità, forseanche di paura.

Stasera Rushdie parteciperà al Festi-val Le conversazioni di Capri, dedicatoquest’anno ai sette vizi capitali, dove hascelto di parlare dell’accidia. Una deci-sione che, conoscendo la sua storia e ilsuo carattere, ha colto un po’ tutti di sor-presa. Tuttavia, la riflessione accoratasu un vizio che definisce «quello a cuispetta il massimo disonore» rivela unmodo di concepire la vita fondato suuna religione laica che pone l’etica alcentro di tutto, una condizione umananella quale le domande risultano sem-

Salman Rushdie

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