il cinema di michael haneke

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EDIZIONI FALSOPIANO Fabrizio Fogliato Il cinema di Michael Haneke {la visione negata } {la visione

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La carriera e i film di un grande maestro del cinema

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Page 1: Il cinema di Michael Haneke

EDIZIONI FALSOPIANO

Fabrizio Fogliato

Il cinema di

MichaelHaneke

{la visione negata}

{la visione

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VIAGGIO IN ITALIA

una collana diretta da Fabio Francione

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al piccolo Pietro

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LA VISIONENEGATA

IL CINEMA DI

MICHAEL HANEKE

EDIZIONI FALSOPIANO

Fabrizio Fogliato

Page 6: Il cinema di Michael Haneke

© Edizioni Falsopiano - 2008via Baggiolini, 3

15100 - ALESSANDRIAhttp://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Falsopiano

Stampa: Impressioni Grafiche S.C.S. a r.l. - Acqui TermePrima edizione - Dicembre 2008

Page 7: Il cinema di Michael Haneke

INDICE

Nota editorialedi Fabio Francione p. 11

Capitolo primo: La visione negata p. 13

Esercizi crudeli p. 13Frammenti dal passato p. 17Austria Infelix p. 20

Capitolo secondo: Michael Haneke p. 25

Ritratto di un regista “contro” p. 25Spostamenti progressivi del dolore p. 28

Capitolo terzo: La trilogia glaciale p. 34

“Guerra civile” minuto per minuto p. 34Apartament complex p. 36Il limite estremo dell’interazione p. 42

Capitolo quarto: Der Siebente Kontinent p. 45

La strada maestra che conduce alla morte p. 45Architettura della solitudine p. 48Il logaritmo della follia p. 50

Capitolo quinto: Benny’s video p. 54

Programmato per uccidere p. 54L’ossimoro dello sguardo p. 57Transmediatico p. 61

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Capitolo sesto: Die rebellion p. 65

Der Letzte Mann p. 65Österreich decadence p. 69

Capitolo settimo: 71 Fragmente einer chronologie des zufalls p. 76

Amore e morte nel giardino della quotidianità p. 76Il diavolo probabilmente... p. 81Trans-europe-express p. 83

Capitolo ottavo: Das schloss p. 85

Partitura incompiuta per un passaggio televisivo p. 85Il puzzle dell’assurdo p. 88

Capitolo nono: Funny Games: l’archetipo della crudeltà p. 91

Quando “i clowns” bussano alla tua porta p. 91Irreversible p. 95

Capitolo decimo: Funny Games p. 97

Giocare con il Male p. 97La morte ha fatto l’uovo p. 100Reality horror show p. 105

Capitolo undicesimo: Code inconnu p. 108

Good news: la follia della normalità p. 108Import/export p. 116XYZ: il codice del nulla p. 119

Capitolo dodicesimo: La pianiste p. 122

L’occhio del sesso p. 122L'immagine p. 127Malattia = normalità p. 130Il sorriso della iena p. 133

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Capitolo tredicesimo: Le temps de loup p. 135

Ils p. 135Profondo nero p. 144No man’s land p. 149

Capitolo quattordicesimo: Caché p. 152

Schegge di paura p. 152Blow-up p. 157Black-out – progressiva frammentazione familiare p. 159

Capitolo quindicesimo: Funny Games U.S. p. 162

American Replay? p. 162Il resto di niente: il ri-vedibile p. 169American family’s war p. 173

Capitolo sedicesimo: Leahcim Ekenah p. 176

Note al testo p. 178

Io, Haneke – Scritti d’autore p. 185

Io, Haneke – Interviste p. 207

Nota biografica p. 228

Filmografia p. 231

Bibliografia p. 236

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Nota editorialedi Fabio Francione

L’aver accolto nel palinsesto editoriale della collana “Viaggio in Italia” illibro di Fabrizio Fogliato La visione negata. Il cinema di Michael Hanekeconsente alcune riflessioni sul modo d’intendere la critica cinematograficaoggi. Già da qualche anno, dopo la dissacrazione operata nei confronti deiformati (il libro non si riconosce più dalle misure e dalla grafica “fissa”, madal contenuto che crea la sua forma “pubblica”) o la teorizzazione della cri-tica cinematografica come curatela (formula sintetizzata nella figura delcurautore che ha trovato applicazione fortunata in più occasioni e fatta peral-tro propria in tempi recentissimi dalla critica letteraria militante che si radu-na su fogli come Alias del “Manifesto”), la collana è riuscita a mettersi alpasso con i tempi superando la propria vocazione esclusiva tutta italianaapparentemente dettata dal suo “eponimo” cinematografico. Infatti, maiquanto ora il capolavoro rosselliniano svela compiutamente la propria dimen-sione internazionale, europea e mondiale. Non sono più i due coniugi stra-nieri che guardano il Belpaese, ma è l’Italia che cerca di scorgere un appiglioalla modernità che le due esistenze in disfacimento sembrano poter ancoraesprimere. Insomma, i valori già individuati dalla nouvelle vague franceseche consacrò il film di Rossellini in anni ormai lontanissimi, in questo pienoprimo decennio del 2000 trovano piena residenza in molti cineasti e cinema-tografie. Questa è la prospettiva critica e storica nella quale si inscrivono adesempio la panoramica sulla cinematografia americana dal muto all’under-ground degli anni Sessanta (a tal proposito chi ricorda più l’operazione piùcreativa che critica cortocircuitata da Marco Melani con Stefano Beccastrinitra questo cinema e il Rossellini televisivo?) e la monografia sul cinemasociale e rigoroso di Jean-Pierre e Luc Dardenne. Ora, provocata, quest’ondalunga trascina con sé anche il cinema di Michael Haneke. Invero l’obiettivosu Michael Haneke ha una gestazione lunga e lontana dallo stesso progettoproposto e realizzato da Fogliato che è ancora motivo per il sottoscritto digrande rammarico. Infatti, il mancato concludersi di un progetto editorialelegato al cinema di Ulrich Siedl – fortunatamente terminato altrove, dunquedisponibile ai più – avrebbe consentito alla collana di esporre in vetrina undittico formidabile sull’Austria e su una delle cinematografie più in vista del“vecchio continente” . In un brogliaccio perso chissà dove, in una ricreazio-ne di ruoli del ’900 europeo, riferito dapprima alle dissoluzioni della “FelixAustria” e poi alla frattura dell’Anschluss e della seconda guerra mondialefino all’esplosione mediatica sessantottina (data spartiacque della modernità

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sulla quale non si smetterà mai di fare i conti nemmeno in questo ravvicina-tissimo trentennale:1968-2008), Ulrich Siedl si considerava, in una genealo-gia creativa à rebours, come il prodotto di due snodi culturali fondamentalidel “secolo breve”: i saggi freudiani di Totem e tabù e le performancedell’Orgien Mysterien Theater (Gunter Brus, Hermann Nitsch, Otto Muhl) edel Wiener Aktionismus. Alle due opposte estremità di questa linea si pone-vano la pittura di Egon Schiele e la letteratura del premio nobel ElfriedeJelinek. Proprio la scrittrice della Pianista è il fuso dal quale stavolta perdiritto si percorre la linea che produce il cinema di Haneke, che trova ancorasulla sua strada i citati scritti del padre della psicoanalisi e non più però al suocapo gli “zombie” schieliani, ma la preveggenza dell’architetto e critico delcostume, Adolf Loos (leggere per farsi un’idea della brevità delle distanze loscritto centenario di Degenerazione della civiltà, per l’appunto datato 1908).Mentre, la cesura moderna si consegna nelle mani di Haneke attraverso ireferti cinematografici di Peter Handke, qui considerato nella sua dimensio-ne di sceneggiatore e cineasta più che di scrittore e polemista. Anche se lacontemporaneità ha insegnato che tali steccati sono stati abbattuti dalla forzaconcettuale dell’atto dello scrivere. Riprendendo Handke: la trasposizionetelevisiva del Castello di Franz Kafka o i tanti ritratti femminili disseminatilungo tutta la filmografia di Haneke sono inequivocabilmente debitori del-l’opera dell’autore della Donna mancina. Dopotutto, è acclarato da moltissi-mi - anche dalla stessa Jelinek - come Handke sia un intellettuale tanto eclet-tico quanto capace di esprimere valori assoluti. Questi riferimenti teorico-pratici, insieme alla più smaccata cinefilia (Bresson, Antonioni, ecc.), con-sentono al regista di Niente da nascondere di dar sfogo alla propria vocazio-ne internazionale che lo ha portato addirittura a lavorare con Hollywood nelremake di Funny Games. Infatti, al contrario del collega Siedl, più ancoratoe ne sono testimonianza i tanti documentari, ad una sintesi cinematograficadella realtà che si soffoca nel tentativo di far emergere le contraddizioni esi-stenziali dell’Austria d’oggi, il tentativo di Haneke è quello di attraversaresuggestioni mediatiche e letterarie che gli confezionino un’idea di cinemamondiale che non sia solo il calco fallimentare, su scala maggiore, del suomondo d’appartenenza.

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Capitolo primo

LAVISIONE NEGATA

Il tempo in cui l’uomo era un albero senza organi né funzioni, ma divolontà albero di volontà che avanza tornerà. È stato, tornerà. Perché lagrande menzogna è stata quella di ridurre l’uomo a un organismo.Ingestione, assimilazione, incubazione, espulsione, creando un ordine di fun-zioni latenti che sfuggono al controllo della volontà deliberatrice. La volontàche decide di sé ad ogni istante.

Antonin Artaud

Esercizi crudeli

Il cinema di Michael Haneke è fatto di apparenze e suggestioni che nelmomento in cui prendono forma sullo schermo vengono immediatamenteconfutate dalla messa in scena di una realtà rarefatta e immobile, deprivata diemozioni e carica di provocazioni. Ad una prima visione dei suoi film tuttoappare artefatto, volutamente asettico, freddo e distaccato, e di conseguenzai corpi dei personaggi che popolano il suo cinema sembrano automi mecca-nizzati e privi di anima piegati alle esigenze crudeli del regista demiurgo.Tutto ciò è solo apparenza però, perché il principio che sta alla base dellapoetica di Haneke è quello del “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. Unteatro nato per restituire al palcoscenico una convulsa e coinvolgente conce-zione di vita con una messa in scena di violento rigore ed estrema condensa-zione degli elementi scenici che diventano ostacolo al movimento degli atto-ri, attraverso la quale va intesa la crudeltà sulla quale il teatro stesso si fonda.Elementi questi, ampiamente riscontrabili nei film del regista austriaco cheda Artaud deriva anche la concezione dei corpi attoriali posizionati su un pal-coscenico esistenziale dove il corpo senza organi è quel corpo totale e com-patto che non accetta ferite, che non intravede né possibilità né speranza, chenon “permea tutte le cose, ma tutte le cose sospinge”, ma che è monolitico eindivisibile.

Provocatoriamente, ma consapevolmente è lo stesso regista austriaco adaffermare:

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“I miei film sono una forma di consapevole omissione del lato bello dellavita” 1.

Teorizzando questo punto di vista non si può che considerare, che lavolontà di Haneke è quella di scavare nei gangli di una società, quella con-temporanea, dove benessere e consumismo apparentemente sono indici dievoluzione e progresso, ma nella realtà dei fatti stanno conducendo l’uomoverso un imbarbarimento involutivo e primordiale.

I personaggi del suo cinema sono divisi sostanzialmente in due categorie:vittime colpevolmente inconsapevoli nel rutilante mondo contemporaneo, oautomi meccanizzati e talvolta radiocomandati privi di ogni emozione e diintelligenza.

Il corpo nel cinema di Haneke è quindi si una rivisitazione delle conce-zioni artaudiane, ma nello stesso tempo ne prende le distanze per intrapren-dere una via nuova e sconosciuta. È qualcosa di post-organico e diversamen-te crudele che deviando dalla compattezza del teatro di Artaud si presentasgretolato e frammentato. È un immagine metallica e controllata in un sog-getto post-umano appesantito e oppresso dal gravame della carne.

Il soggetto post-umano è fissato nella sua più consumata disaggregazio-ne molecolare, destituito della sua compattezza ed erra indefessamente allaricerca di una sua reiscrizione soggettivizzante 2.

Quest’idea dell’umano è incarnata in personaggi che spesso diventanoarchetipi e rappresentanti di un orrore della società ampiamente condivisibi-le, ma che talvolta può risultare indigesto ai palati più fini ed edulcorati.

Nel suo cinema c’è qualcosa di Baconiano, sono frammenti che si anni-dano nelle pieghe di inquadrature rigorose e geometriche, in spazi clau-strofobici e agorafobici all’interno dei quali si muovono personaggi falsi eingannevoli. Come nella pittura di Francis Bacon, Haneke costruisce i suoi“quadri” con rigore geometrico e maniacale divisione dei volumi, entro cuiinserisce in una “gabbia” contemporaneamente simmetrica e distorta, figurenormali e quotidiane che dietro ad un’esistenza irreprensibile e a un’appa-rente perbenismo nascondono menzogna e crudeltà.

Intensamente viventi i personaggi di Bacon lasciano a volte vedere i pro-pri denti, pezzetti di scheletro, stalattiti e stalagmiti rocciose che spuntanodavanti alla caverna della bocca... perché, per conoscerla meglio e gustarnetutte le bellezze non si potrebbe esplorare la vita con accanimento senza arri-

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vare a mettere a nudo – almeno a sprazzi – l’orrore che si nasconde dietro ipaludamenti più sontuosi 3.

Questa concezione falsa e inquietante dell’essere umano vive nel cinemadi Michael Haneke sulla dialettica tra angoscia e perturbante.

L’angoscia è quella continuamente trasmessa a livello sensoriale dal dive-nire delle situazioni e dalle azioni compiute dai personaggi. È un’angosciaintesa in senso Sartriano, cioè con un essere che è organizzato nel mondo conuna realtà umana intesa da un lato, come continua emergenza “dell’essere nelnon-essere” e dall’altro come un mondo sospeso nel nulla. Il nulla è all’ori-gine del giudizio negativo, perché “fonda la negazione come atto, perché è lanegazione come essere” 4. In base a ciò la volontà del regista austriaco di“omettere il lato bello della vita” diventa una dichiarazione di intenti, lanecessità di fare un cinema rigoroso ed essenziale per fare emergere la malat-tia e il disagio dell’uomo contemporaneo nel quotidiano, costruendo un“nulla” dove l’unica certezza possibile è quella di una realtà mistificata attra-verso la manipolazione delle immagini.

Il perturbante invece è ciò che Freud definisce come “quell’emozionerisultante dalla trasformazione impercettibile di ciò che è familiare in qual-cosa di sinistro”. Questa condizione nel cinema di Haneke è un basso conti-nuo che attraversa tutte le sue opere e trova la sua compiutezza nei luoghi,negli spazi e nei microcosmi descritti e raccontati nei suoi film, dove da situa-zioni iniziali di calma apparente, attraverso rarefatti movimenti di macchinae progressivi spostamenti della tensione, il regista guida lo spettatore in espe-rienze da incubo che via via assumono forme sempre più crudeli e asettiche.Egli è fautore di un cinema che si rifiuta di dare risposte ma che pone conti-nuamente domande. La sua è una “visione negata” perché non ottimizza maiil rapporto con lo spettatore ma anzi lo negativizza coinvolgendolo in unesercizio crudele e sadomasochistico, dove i ruoli di “servo” e “padrone”sono continuamente invertiti. La sua è un’arte della visione “altra”, ricondu-cibile all’esperienza di Aldous Huxley, basata sul principio: sensazione +selezione + percezione = visione.

Quando noi vediamo, la nostra mente entra in rapporto con gli eventi delmondo esterno per mezzo degli occhi e del sistema nervoso. Nel processodella visione, mente, occhi e sistema nervoso sono strettamente associati inun tutto unico. Influenzando uno di questi elementi si influenzano tutti glialtri 5.

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Anche Haneke coinvolge, attraverso il suo cinema, questi tre elementiagendo continuamente sulla mente attraverso una messa in scena interattivache pone lo spettatore in uno stato di continua tensione psichica ed emotiva.È un sadico inteso nel suo valore più alto, cioè quello impersonale che iden-tifica la violenza psicologica con un’idea della ragione pura, con una dimo-strazione terribile in grado di subordinare a sé l’altro elemento. Manipolacioè a proprio piacere lo spettatore così come racconta che i media manipo-lano la realtà, al fine di portare ogni persona che si pone davanti alla visionedi un suo film ad una reazione estrema: di amore incommensurato o di odioviscerale. È un provocatore per vocazione e intelligenza, che non teorizza mache conosce molto bene la psicologia umana e di conseguenza sa come urta-re la sensibilità dello spettatore per mettere a nudo al sua ipocrisia. Nell’unicosuo film dichiaratamente a tesi, Funny Games (id. 1997), gioca continua-mente a rimpiattino con la crudeltà solleticando nello spettatore gli istinti piùbassi e portandolo incredibilmente ad abbracciare “il Male” attraverso un sot-tile e impercettibile gioco di specchi in una messa in scena teatrale che è l’ar-chetipo della crudeltà artaudiana.

“Come autore ho l’obbligo di prendere sul serio i problemi delle figureche sto cercando di descrivere. È ciò che intendo quando parlo di amare ipropri personaggi. Certo che non amo Paul in Funny Games ma come auto-re devo cercare di farlo agire il più brillantemente possibile” 6.

L’intenzione di Michael Haneke è quella di abituare lo spettatore ad unnuovo modo di interpretazione fino a portarlo a sfondare i suoi limiti e acostringerlo comunque ad una reazione. Secondo il cineasta austriaco lo spet-tatore va al cinema e paga il biglietto per assistere deliberatamente ad unamenzogna, per poter dimenticare la propria vita almeno per un paio d’ore. Suquesto presupposto Haneke agisce invece in maniera simmetricamente oppo-sta con il fine di condurre lo spettatore alla presa di coscienza che la realtàquotidiana è perennemente controllata e costantemente deformata dai media.Teoria questa applicata alla sua opera attraverso la fissità della macchina dapresa e con la lunghezza esasperante di alcune inquadrature, oltre ad un uti-lizzo del nero come spazio mentale di elaborazione testuale del significato. Incontrotendenza rispetto a gran parte del cinema contemporaneo, in Hanekel’utilizzo del montaggio è rarefatto e quasi impercettibile al fine di manipo-lare il meno possibile la narrazione.

“Le sequenze lunghe e ferme non manipolano almeno per quanto riguar-

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da il fattore temporale. Il montaggio invece tende ad abbreviare o a prolun-gare; per questo scelgo la forma che manipola il meno possibile e che tra-smette allo spettatore l’illusione di un realismo quasi documentario” 7.

È quindi, quello del cineasta austriaco un cinema che agisce sul doppiobinario del piacere e del dolore con la tendenza dichiarata e programmaticadi spingersi Freudianamente “al di là del principio del piacere”:

Perché se tale dominio esistesse quasi tutti i nostri processi psichicidovrebbero accompagnarsi al piacere o portare al piacere, conclusione inve-ce smentita dalla generale esperienza 8.

Partendo da questa consapevolezza Haneke costruisce, attraverso il suocinema l’intelaiatura di una società che in maniera irresponsabile e fallimen-tare è tesa verso la conquista di un piacere momentaneo ed è costantementesospesa in uno spazio-altro inesistente, ma enucleato e parcellizzato dal con-tinuo bombardamento di immagini false che producono stereotipi standar-dizzati e banalizzati di una possibile, ma irraggiungibile, esistenza.

Le componenti sociologiche, psicanalitiche, sadiche e crudeli del suocinema sono il compendio necessario per poter porre lo spettatore di frontead uno specchio dove egli non si vuole riconoscere. Uno specchio incrinatodalla spasmodica ricerca dell’effimero e dove non esiste più differenza trarealtà e finzione tanto che i due piani sono inesorabilmente destinati aconfondersi spiazzando e irritando continuamente chi guarda. Per tutti questimotivi quello del cineasta austriaco è un cinema destinato a dividere sempree comunque e che pone l’incauto fruitore di fronte ad una visione pericolosae traumatica. È un esercizio crudele che lascia allo spettatore un’unica alter-nativa: prendere o lasciare.

Frammenti del passato

Un regista come Michael Haneke, con una poetica talmente radicale erigorosa da sfiorare la patologia, porta con se in realtà la dote di tre grandimaestri: Robert Bresson, Alfred Hitchcock e Pier Paolo Pasolini. Se dai primidue prende sicuramente la perfezione della messa in scena e l’eleganza for-male, e dal poeta-regista italiano che viene più influenzato nella rappresenta-zione dell’estetica e della violenza.

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“L’unico che, a mio avviso, è riuscito a rappresentare la violenza inmaniera responsabile, è stato Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma.Lì la violenza era quello che è e questa violenza non si può consumare, ameno che non si abbia qualche serio problema. Se ci si sente responsabili peril film come opera d’arte questa è l’unica possibilità. Se, invece, il cinema è,per definizione, merce, allora è giustificato qualsiasi cinismo e tutto puòessere rappresentato, tutto è legittimo e diventa solo una questione di bravu-ra tecnica. Ma questa è una posizione con la quale non mi voglio neancheconfrontare, perché la trovo fatale” 9.

Come Pasolini quindi, anche Haneke rifiuta dichiaratamente l’uso consu-mistico della violenza nel cinema. Egli non vuole confrontarsi con un discor-so estetico e plastico della rappresentazione della violenza, ma raccontarlasemplicemente per quello che è: un istinto primordiale che provocatoriamen-te, nel suo cinema, assume con malcelato sadismo un aspetto ludico e/ometaforico. Nel cinema di Haneke anche le immagini più banali possonoassumere da un momento all’altro risvolti sinistri ed esplodere in atti di vio-lenza messi in scena con freddezza e distacco e realizzati con la cura di unentomologo. L’occhio di Haneke osserva, viviseziona e trasferisce nel fuoricampo l’atto di violenza che attraverso questo espediente assume connotatiestremi e talvolta insostenibili. Il regista porta quindi lo spettatore ad esserecosciente di quel che è successo: ne vede le cause, sente il dolore ma gli èstato impedito di vedere l’azione violenta… e questo per lo spettatore moder-no è veramente qualcosa di inconcepibile. Secondo il cineasta austriaco, lanostra società è messa in pericolo dall’accumulo di immagini violente edeprivate di contesto e di realtà, che vengono presentate dal cinema e dallatelevisione senza una scala di valori che permetta loro di poter essere sele-zionate e percepite per quello che sono. Così, riconducendosi a Pasolinianche Haneke è convinto che la realtà innocente del corpo è violata, mani-polata, manomessa dalla forza inarrestabile del consumismo e che anzi la vio-lenza sui corpi, diventati merce è il dato più macroscopico della società con-temporanea.

“Le vite sessuali private hanno subito il trauma sia della falsa tolleranzache della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era doloree gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia” 10.

Haneke racconta, quindi, la banalità del quotidiano attraverso l’orrore diuna violenza ghignante senza più codici né dialettica, utilizzando personag-

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gi/archetipi così come faceva Robert Bresson. Come il regista francese, a cuiHaneke qualche anno fa ha anche dedicato un saggio, sa scorgere le caratte-ristiche dell’organizzazione poetica dell’esistenza oltrepassando i limiti diuna logica rettilinea per esprimere la complessità stratificata dei legamiumani e la verità della vita. Lo fa attraverso la negazione, e cioè l’omissionedella felicità, al fine di fare emergere lo sguardo di personaggi la cui malva-gità ha qualcosa di gratuito e di necessario allo stesso tempo, come se fosse-ro inclini e costretti al Male senza averne coscienza.

Esaurita l’apologia, ma non la ricognizione, dell’inferiorità antagonisti-ca, l’occhio del regista si posa sul mondo, e sulla trasparenza di negatività edi orrore che ne promana. La negazione non assume più la forma dell’azio-ne, del gesto del comportamento ma si trasmette tutta e soltanto allo sguar-do…11

La “visione negata” di Haneke è quindi riconducibile ad un’astrazionenecessaria per poter distogliere il reale dalla matassa inestricabile della fin-zione e della menzogna e ciò può avvenire solo attraverso lo sguardo.Sguardo che, come in Bresson si risolve nella fissità dell’immagine che portacon se un ritmo nascosto. Ciò è esplicitato nella estrema essenzialità delleinquadrature all’interno delle quali il rapporto spazio-tempo crea una pres-sione ritmica che non rende necessario l’utilizzo del montaggio. In questadirezione si spiega anche l’utilizzo diegetico che Haneke fa della colonnasonora, perché egli come Tarkowskij è convinto che:

“Il mondo risuona in maniera tanto meravigliosa di per sé che, se impa-rassimo ad ascoltarlo nella maniera dovuta, la musica non sarebbe affattonecessaria al cinema” 12.

Questa essenzialità bressoniana legata alla sequenzialità delle immaginicostruisce una sensazione in divenire di tensione costante mutuata diretta-mente dalla poetica di Alfred Hitchcock.

C’è nel cinema di Haneke una perenne sensazione di minaccia imminenteche incombe sull’uomo che da un lato è cosciente che il primo significato del-l’esistenza è quello di combattere il male che è dentro di sé, ma dall’altro è con-sapevole della sua inclinazione verso la malvagità che lo conduce ad una degra-dazione spirituale. Questa ambigua minaccia assume toni hitchcockiani attra-verso l’uso inconsueto della suspense, che nel caso di Haneke non dilata mai itempi dell’azione, ma amplia le attese e a volte perfino gli spazi all’interno di

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una sola inquadratura. Azioni banali e apparentemente insignificanti assumononel contesto della narrazione impensabili aspetti di minaccia pronta a scaricar-si improvvisamente su uno o più personaggi o destinata a crescere spasmodi-camente per poi restare cinicamente inevasa. Si può quindi dire che la poeticadi Michael Haneke ha sì dei padri nobilissimi, ma da essi prende contempora-neamente le distanze per frammentarsi in una serie di spunti riveduti e correttie più spesso piegati alle proprie esigenze narrative.

La sottile intelligenza di Haneke sta infatti nella sua capacità di costruireuna messa in scena perturbante, in apparenza semplice ed essenziale ma chein realtà è assai complessa e stratificata, e in cui le cose non dette e non espli-citate sono il vero corpo sommerso del suo iceberg cinematografico.

Austria infelix

L’immagine idilliaca dell’Austria, con le sue splendide montagne inneva-te e l’incantevole paesaggio alpino, nasconde dietro di sé un passato repres-so che più volte è stato preso come punto di partenza per una critica violen-ta alla società da parte di scrittori autoctoni come Thomas Bernard e ElfriedeJelinek. Haneke come regista si è in un primo tempo inserito in questa lineadi pensiero continuando il lavoro sia di illustri predecessori del cinema mutoquali Erich Von Stroehim e Joseph Von Sternberg, sia di famosi documenta-risti quali Ulrich Seidl. Recentemente il giornale tedesco “FrankfürterAllgemeine” si è spinto addirittura a parlare di una renaissance cinemato-grafica austriaca in considerazione dei premi conferiti da vari festival cine-matografici ad opere come Hundstage (Canicola, 2001) di Ulrich Seidl,Lovely Rita (id., 2002) di Jessica Hausner e Die Klavierspielerin (La piani-sta, 2001) di Michael Haneke. Inoltre, a questi film di alto profilo vannoaggiunte una serie di opere minori che in patria hanno sbaragliato i botte-ghini con incassi superiori ad ogni aspettativa; tra questi, degni di nota sonol’interessante commedia grottesca Der Uberfall (La rapina, 2000) e il giallocaratterizzato dal più tipico milieu viennese Komm, Süßer Tod (Vieni, dolcemorte, 2000). Tutti questi film, che fanno da corollario all’opera di MichaelHaneke, indiscusso leader artistico, raccontano un “Austria Infelix” fatta dibrutture, di degrado, di solitudine e violenza, lontana parente dell’immagineda cartolina raccontata nei film dell’imperatrice Sissi, tanto cara agli abitan-ti della terra di Mozart.

Per capire quindi, questo nuovo cinema austriaco, ma anche l’immaginesconcertante di questo paese che ci viene fornita da una pellicola come

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Canicola, bisogna tornare indietro nel tempo e ripercorrere la storia.L’impero austro-ungarico era immenso e culturalmente molto attivo ad

inizio secolo, ma dopo la prima guerra mondiale non restò più niente di que-sto antico splendore che era perfino in grado di mettere Vienna in competi-zione con Parigi. L’Austria svuotata della sua popolazione e amputata deisuoi territori, continua però a vivere con l’idea dell’impero e una strutturasociale da anciènne regime: clero, nobiltà, stato.

Nasce allora nella popolazione un insopportabile senso di frustrazione chela porta ineluttabilmente ad abbracciare la Nazionalpolitik di Adolf Hitler.Con Hitler l’Austria si illude di tornare a essere la grande potenza che erastata, poiché con l’anschluss diventa parte del grande impero tedesco, e peril popolo austriaco avere un loro concittadino (Hitler era originario diBraunau) a capo del Terzo Reich, è motivo di orgoglio da grande potenza.Nel 1938, quando Hitler tornò in Austria venne acclamato da una follaimmensa: uomini, donne e giovani ebrei furono costretti a pulire i marcia-piedi con degli spazzolini da denti per accogliere il Führer. Alcune foto lotestimoniano. Questa infatuazione incondizionata per Hitler si spiega colfatto che fa emergere negli austriaci ciò che diventa l’animo umano quandoviene lasciato libero dopo secoli di addomesticamento. Dopo il trauma dellaseconda guerra mondiale, nel 1955 l’Austria viene dichiarata “vittima diguerra” il che è un’enorme menzogna fatta passare dagli alleati.

Tutto ciò ha portato gli austriaci a non porsi mai il problema delle lorocolpe, tanto che i vecchi nazisti hanno tranquillamente continuato a fare laloro vita e a lavorare in patria. In questo contesto ipocrita e in un’atmosferache si fa sempre più irrespirabile, nasce in Austria un movimento artisticoestremo di cui Haneke non può non aver tenuto conto durante la sua forma-zione: la Vienna direct art. Gli Azionisti (questo è il nome degli autori di que-sta avanguardia estrema), Hermann Nitsch, Otto Muehl, Günter Brüs… sonoi protagonisti di performances, realizzate a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, doveil corpo è lo scenario dell’azione. Si tratta di messe in scena estremamentecrude e destabilizzanti (incluse la rappresentazione esplicita di atti sessuali eil reciproco cospargersi di fluidi corporei) che hanno l’obiettivo di rivolgereun violento attacco estetico ai tabù autoritari e mostrare la valenza liberato-ria della natura degli istinti.

“La distruzione è la premessa stessa di qualsiasi costruzione. La libertàdell’arte si afferma attraversala distruzione delle barriere intellettuali,morali e sociali che impediscono questa libertà. Per poter creare bisognaprima di tutto distruggere” 13.

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Queste esperienze scioccanti, violente e brutali, sono il sintomo di un forteattacco ad una società, quella austriaca, implosa e narcisa che continua aspecchiarsi in un passato ormai inesorabilmente tramontato e che vive in unaincomunicabilità in continua espansione, trasversale a tutte le classi sociali edalla quale lo stesso Michael Haneke non rimane immune.

“L’incapacità di comunicare è un’esperienza centrale della mia vita, siaprofessionalmente che personalmente. Credo che l’incomunicabilità sia unadelle esperienze più formative dell’uomo moderno. […] L’esperienza dellafreddezza, del non-amore, l’incapacità di comunicare sono immagini forma-tive, indelebili e molto forti” 14.

Haneke quindi, riesce a far tesoro degli aspetti più negativi del mondo con-temporaneo e anzi a valorizzarli come elementi formativi: cosa questa peraltromolto presente nel suo cinema e che fonda le sue origini ancora una volta nellastoria di un paese che a ben guardare è molto diversa da ciò che crediamo.

All’inizio degli anni ’80 in Austria resiste la Grosse Koalition tra PartitoSocialdemocratico e Partito Cristiano Sociale Popolare, che nel corso deldecennio porta al raggiungimento di un elevato standard di vita, ma anche adun disinvestimento della popolazione nell’interesse politico e ad un atteggia-mento di totale delega verso le istituzioni. Negli anni ’90 però la situazionecambia drammaticamente sia in Austria che in Europa. Con la caduta delsocialismo reale, il capitalismo acquista nuovo vigore e si spinge verso il neo-liberismo con proposte di “ammodernamento” dello stato sociale e tante pri-vatizzazioni. Con l’entrata nell’Europa il governo austriaco ha condotto unapolitica antisociale e antipopolare tagliando settanta miliardi di scellini dagliaiuti sociali e determinando contemporaneamente una riduzione sostanzialedei lavoratori dipendenti. In questo contesto di sbandamento socio-politico siinserisce la figura sinistra di Jörg Haider, recentemente scomparso in un inci-dente automobilistico. Nato a Bad Goisern nel 1950 da una famiglia pesan-temente collusa con il nazismo, Haider diventa leader, sin da giovane sul fini-re degli anni ’70, del movimento liberale FPÖ (Partito Liberale Austriaco)nella sezione della Carinzia. Grazie al suo carisma nel 1986 diventa segreta-rio nazionale, abbandonando il capitalismo per una sorta di populismo nazio-nalista che lo porta alle politiche del 1999 ad ottenere quasi il 30% dei voti.Sale quindi al governo dell’Austria stringendo alleanza tra il suo FPÖ e ipopolari del ÖVP, con un accordo contestatissimo dall’Unione Europea erimasto in vigore fino al 2002, quando Haider ritira la fiducia al governo gui-dato dal popolare Wolfgang Schüssel; atto, questo, che segna l’inizio della

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sua parabola discendente. Questa figura di leader populista e xenofobo, cheporta con sé il culto delle “piccole patrie” che odia gli intellettuali e che sipresenta come se fosse un maestro di sci è l’archetipo del fascista contempo-raneo europeo, frutto del crollo delle ideologie e sintesi di un vuoto politicoche non è solo austriaco. Non è quindi una figura marginale come si potreb-be pensare tanto che la stessa Elfriede Jelinek gli ha dedicato un causticoritratto nel monologo L’Addio, la giornata di delirio di un leader populista,e che lo stesso Michael Haneke ha più volte sintetizzato nei caratteri di alcu-ni protagonisti dei suoi film.

“I miei film sono stati commentati spesso dal partito di Haider, ma io loconsidero come un complimento, non mi disturba. Intorno al mio ultimo filmscatteranno sicuramente tante discussioni e polemiche, anche perché la FPÖnon perderà l’opportunità di scagliarsi nuovamente contro l’autrice ElfriedeJelinek” 15.

Il suo cinema glaciale quindi, affonda le radici nella storia di un paese cheancora oggi non sembra riconoscersi per quello che è e che inconsapevol-mente si sta dirigendo verso un primitivismo dei sentimenti e un individuali-smo becero e ottuso. Questo è frutto di anni di repressioni, ipocrisie, e finteillusioni e rappresenta il delirio di una nazione, centro di un Europa che apoco a poco si sta lasciando contagiare dallo stesso male.

“Cerco di non legare i miei film a luoghi geografici particolari. Cerco didar loro una significatività a prescindere dal posto in cui vengono visti” 16.

Questa dichiarazione rilasciata da Michael Haneke al festival di Cannesnel 1989 è la risposta ad una giornalista che gli domandava dopo aver vistoil film Der Siebente Kontinen (Il Settimo continente, 1989): “Ma l’Austria èdavvero così orribile?”. Il regista è quindi consapevole che l’orrore non èesclusivo del suo paese ma è qualcosa di serpeggiante in tutto il continente.Analizzando il suo percorso artistico è più che evidente la volontà del registadi rendere irriconoscibili le location dei suoi film. Linz, Vienna, Parigi…sono nel cinema di Haneke città anonime e mai caratterizzate, luoghi univer-sali che rappresentano il tentativo di raccontare un continente privo di iden-tità e che non si riconosce in valori comuni ma che si vuole ostinatamenteconsiderare unito. Quella descritta dal regista austriaco è un’ Europa da incu-bo, assimilabile a quella raccontata da Eli Roth nell’incompreso e sottovalu-tato Hostel (id., 2005). In questo film il giovane regista americano costruisce

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un continente-lagër dove “puoi pagare per fare qualunque cosa”: questo èciò che fanno annoiati e boriosi manager o falliti e frustrati commercianti, chepagano ingenti somme di denaro per torturare e uccidere giovani vittime. Icarnefici però sono solo l’ultimo anello di una catena composta da ambiguigestori di ostelli, giovani e disinibite ragazze dell’est, e apparentemente inno-cui viaggiatori, che sono invece il veicolo “fantasma” che conduce gli ignarie ingenui stranieri verso una morte orribile. Nell’Europa di Hostel le ragazzeconcedono sesso e morte contemporaneamente e i bambini uccidono per unagomma americana. Il film di Roth quindi, non è altro che un’esplicitazionedell’orrore contemporaneo, lo stesso che Haneke preferisce mantenere impli-cito. Entrambe i registi raccontano un’Europa senza speranza né per i carne-fici, né per le vittime: lo fanno senza dare risposte, ma lasciando allo spetta-tore il compito ingrato di affrontare il valore politico delle loro opere, altri-menti sospeso in un’inquietante ambiguità. L’Europa per Haneke è un calde-rone di etnie non integrate, di persone che non vivono ma che compiono azio-ni, ed è un posto dove le immagini hanno più potere delle parole e dove lacomunicazione è un “codice sconosciuto”. L’Europa è figlia della sua storiache in un secolo l’ha portata dall’anciènne regime all’Unione Europea mache non ha mai mutato il proprio conservatorismo e che vive sospesa in una“permanenza del possibile” che è destinata a rimanere tale.

Questo disincanto del regista austriaco è figlio della rabbia degli Azionistiviennesi che distruggevano per ricreare, illudendosi di destabilizzare uno sta-tus quo inossidabile. Haneke sostituisce all’evidenza provocatoria delloshock degli azionisti un cinema glaciale e definitivo che cerca di frantumarei tabù del mondo contemporaneo come il culto del denaro e il politically cor-rect, attraverso una visione-off radicale, che costringe comunque lo spettato-re a ragionare sul proprio vissuto e sulle proprie scelte, ma che vuole spin-gersi ambiziosamente a porre domande e a riportare in luce questioni repres-se e/o dimenticate della storia recente. Da Der Siebente Kontinent (Il SettimoContinente, 1989), fino all’ultimo Caché (Niente da nascondere, 2005), c’èun lungo filo rosso legato a doppio nodo con un passato mai riconciliato econ una storia forzatamente rimossa che è pronta a saltar fuori all’improvvi-so con il suo carico di orrore per destabilizzare tranquille famiglie apparen-temente indifese, chiuse in moderne abitazioni hi-tech, inconsapevoli che ungiorno qualunque la storia può suonare alla porta e chiedere loro conto dicolpe commesse da altri. Haneke in definitiva è autore di un cinema moder-no che racconta realtà contemporanee che sono le conseguenze di un passatostorico che appartiene a tutti ma che nessuno si sogna mai di analizzare percercarne la verità.

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Capitolo secondo

MICHAEL HANEKE

La negazione è l’unica forma d’arteche si possa prendere sul serio

Michael Haneke

Ritratto di un regista “contro”

La carriera di Michael Haneke si può ricondurre ad un percorso di ricercae innovazione continua, inevitabilmente teso ad un orientamento cinemato-grafico. In Austria i mezzi principali di sperimentazione sono il teatro e latelevisione. Questi due “opponenti” per storia e tradizione sono il veicolo piùfruibile per i giovani che si vogliono avvicinare all’arte della rappresentazio-ne. La maggior parte dei registi, ma anche dei tecnici austriaci, impara ilmestiere lavorando per la televisione, da quella nazionale ai piccoli canaliregionali dove spesso si cimentano nell’allestimento di spettacoli teatrali edove nella maggior parte dei casi vi rimangono imprigionati dal punto divista lavorativo.

Molto di rado capita che il riconoscimento culturale di un regista passi dauno di questi due mezzi a quello cinematografico. Il cinema austriaco para-dossalmente vive, per motivi economici ma anche di opportunità, all’ombradi quello che ovunque e quasi sempre, è considerato il “figlio di un Dio mino-re”: la televisione. Partendo da questi presupposti Michael Haneke può esse-re quindi considerato un regista “contro” non solo per il suo modo di farecinema, ma anche per il suo percorso culturale e di formazione.

Nasce il 23 Marzo 1942, quando per motivi di lavoro i genitori si trovanoa Bad Gastein e l’ospedale più vicino è quello di Monaco di Baviera. Il padreFritz Haneke è figlio di un commerciante di Düsseldorf e lavora prevalente-mente e limitatamente in Germania. Sin da giovane intraprende la carriera diattore che lo accompagnerà per tutta la vita, accanto a quella di regista tea-trale. Sposa in seconde nozze Beatrix Von Dagenschild, futura mamma diMichael Haneke.

Beatrix ha origini nobili ed è anche lei attrice presso il Burgtheater di

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Vienna. Il mestiere e l’esperienza di vita di questi genitori marchiano indele-bilmente la volontà e le scelte del piccolo Haneke, che volente o nolente sitrova spesso e inconsapevolmente in contatto con famiglie e personalitàaustriache di alto livello.

Sin da piccolo Haneke si trova a contatto con personaggi illustri passati efuturi della scena artistica Viennese. Ha solo tre anni quando incontra aSalisburgo una sua coetanea dal luminoso avvenire: l’incontro con RomySchneider avviene grazie all’amicizia tra le due madri e alle frequentazionifamiliari del più alto milieu viennese.

Nel 1946 il giovane Haneke si trasferisce a Wiener Neustadt, in campagnadove frequenta il liceo tra non poche difficoltà, portandolo a termine in ritar-do soltanto nel 1962. In questo lungo periodo viene praticamente cresciutodalla zia che lo ospita, poiché la madre va a trovarlo soltanto la domenica.

L’immersione totale in un mondo artistico a 360° non può che contagiar-lo, e così mentre frequenta la scuola, va di nascosto a Vienna per studiare pia-noforte ma vede naufragare il suo desiderio di diventare pianista a causa dellasua mancanza di talento.

“Da giovane ero molto interessato alla musica e alla letteratura. Volevoinfatti diventare un pianista, però mi sono reso conto che non possedevo suf-ficiente talento e allora mi sono buttato sulla letteratura con la ferma inten-zione di diventare scrittore” 17.

A diciassette anni si reca quindi a Vienna per dare l’esame di ammissioneal Reinhardt-Seminar (Accademia d’arte drammatica di Vienna), ma vienerespinto. Naufragata anche l’ipotesi di intraprendere una carriera d’attore siiscrive all’università alla facoltà di Filosofia e scienze teatrali. Questo è ilperiodo più fertile per la sua formazione che comincia a delinearsi in dueambiti distinti ma complementari: la scrittura e il cinema. La prima gli offrela possibilità di dare corpo alle influenze di D. H. Lawrence e LawrenceDurrel che lo appassionano in quegli anni e che ispirano il raccontoPersephone che viene anche premiato alle Jugend kulturtagen (giornate cul-turali della gioventù). Il secondo invece, rimane un desiderio e un obiettivoalimentato da una impulsiva cinefilia che lo porta per alcuni anni ad andareal cinema anche tre o quattro volte al giorno. A questo periodo di immersio-ne totale nell’arte ne segue uno nettamente contrapposto dove le necessità ele responsabilità familiari prendono decisamente il sopravvento.

“Poi mi sono sposato, mia moglie aspettava un bambino e perciò sono

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stato costretto ad accettare i lavori più diversi: in una fabbrica di pentole,alla posta ecc. Era come cambiare mondo, lì non si parlava affatto di cine-ma e letteratura; e io non avevo più tempo per dedicarmi ad esse. Ho cerca-to poi di lavorare per una casa editrice. Ho dato ad Hans Weigel dei testi cheavevo scritto perché li passasse alla Residenz di Salisburgo” 18.

In questo periodo di difficoltà anche economiche, Haneke scrive la suaprima sceneggiatura: Wochenende (Weekend) che racchiude dentro di sél’embrione delle tesi enunciate nel futuro Funny Games.

Ottiene 300.000 marchi di sovvenzione per la realizzazione del film manon riesce a portare a termine il progetto per mancanza di conoscenze inambito cinematografico e deve quindi restituire i soldi. È il 1967 e adHaneke, che nel frattempo scrive recensioni cinematografiche e letterarie,viene offerto un posto al canale televisivo Südwestfunk di Baden-Baden. Quirealizza alcune trasmissioni radiofoniche sugli allestimenti teatrali che glivalgono una scrittura come drammaturgo televisivo.

I tempi sono maturi ormai per l’agognato salto alla regia: prima teatrale epoi passando attraverso la televisione, verso quella cinematografica. È il1971, Haneke lascia il posto alla Südwestfunk per dirigere l’allestimento diGiorni interi tra gli alberi di Margherite Duras, allo Stadttheater di Baden-Baden. A questo primo lavoro ne seguono altri in Austria, e poi in Germaniaa Berlino e ad Amburgo dove mette in scena La notte delle lesbiche diEnquist.

L’esperienza della regia teatrale consolida le conoscenza letterarie e glipermette di acquisire la necessaria sicurezza per controllare la messa in scenaoltre a fortificare le sue capacità relazionali bypassando la sua timidezza.Questi sono piccoli passaggi che preparano il suo futuro dove vedrà realizza-ti i suoi desideri e le sue aspettative.

L’anno della svolta definitiva è il 1974. Haneke ha 32 anni e raggiunge ilprimo obiettivo per il grande salto verso il cinema: la regia televisiva. È anco-ra la Südwestfunk, cui è sempre rimasto legato, ad offrirgli l’opportunità didirigere il film per la televisione Und was kommt dannach (After Liverpool);un film grezzo e “povero” dove prevalgono le inquadrature fisse e un impian-to fortemente teatrale. Haneke continuerà a lavorare per una quindicina d’an-ni per la televisione con lavori come: Lemminge (Lemming, 1979), Variation(Variazione, 1983) e Fraülein – Ein deutches Melodram (Ragazza - Un melo-dramma tedesco, 1986 ).

“Quando ho iniziato a fare cinema sono stato costretto ad abbandonare

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l’attività teatrale soprattutto per mancanza di tempo. Ma alla fine è statosempre il cinema che mi ha dato più soddisfazioni, perché mi ha permesso direalizzare le mie idee e di avere il controllo totale sui miei progetti. In teatroinvece la regia è maggiormente condizionata dalla capacità degli attori, edalla necessità di controllarli. La mia forza consiste nell’inventarmi qualco-sa e trasmetterlo, sia alla gente che lavora con me, si agli spettatori chevanno a vedere i miei film” 19.

Arriva quindi il 1989, Michael Haneke esordisce nel cinema a 47 anni efa subito rumore. Il suo Der Siebente Köntinent (Il Settimo Continente, 1989)spiazza contemporaneamente critica e pubblico e getta le basi provocatorie edestabilizzanti per il suo cinema a venire. Un cinema d’arte che fa della“negazione” il suo asso portante e dell’”opposizione” alla regola alla sualinfa vitale.

Spostamenti progressivi del dolore

La scelta è o mente che desiderao desiderio che ragiona e tale principio attivo è l’uomo

Aristotele

Il senso dell’immagine nel cinema di Michael Haneke è un concetto estre-mamente dinamico che si regge su un equilibrio instabile fatto di percezionie piccoli e invisibili spostamenti dello sguardo. L’occhio del cineasta viveattraverso un punto di osservazione “esterno” alla situazione narrata, in unaposizione strategica in grado di mettere in scacco lo spettatore e le sue con-solidate certezze. Haneke si interroga continuamente sul possibile disagioche si crea nell’uomo quando viene posto di fronte al dolore degli altri. Il flui-re interminabile di immagini che avvolge la vita dell’uomo contemporaneoottunde la percezione e annulla il senso critico delle singole persone che sottol’incessante bombardamento di pixel televisivi vivono in una realtà aliena evirtuale. In questo, il pensiero del regista austriaco coincide esattamente conquello della sociologa Susan Sontag che in un suo saggio sulla fotografia esulle immagini di guerra sostiene che:

Possiamo anche sentirci obbligati a guardare fotografie che documenta-

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no grandi crimini e crudeltà. Ma dovremmo sentirci altrettanto obbligati ariflettere su quel che significa guardarle, sulla capacità di assimilare real-mente ciò che esse mostrano. Non tutte le reazioni provocate da tali immagi-ni sono controllate dalla ragione e dalla coscienza 20.

La perdita del controllo sulle immagini è quindi l’elemento cardine attor-no a cui ruota l’atteggiamento dell’uomo verso di esse. Se da un lato prevalel’assuefazione ad aver ormai già “visto tutto”, dall’altro il fermare lo sguar-do, e quindi la macchina da presa, sull’orrore e sui tabù della società, provo-ca irritazione e sdegno in chi guarda, a causa del senso di colpa “incoscien-te” che vive dentro ogni spettatore. Questa oppressione indotta dalla colpa siconcretizza in una claustrofobia onnipresente nel cinema di Michael Haneke.Paure e ansie alimentano una sindrome da accerchiamento generata dalrestringimento delle storie e dal confinamento dei personaggi in spazi asfitti-ci e soffocanti, vittime di nevrosi o stati d’animo indotti da situazioni di chiu-sura impreviste. Il mondo quotidiano, le abitazioni, gli uffici, e quindi glispazi dove “si vive” sono privi di qualità emozionale: le pareti sono scarne,l’arredamento spesso segue geometrie pre-definite, i colori freddi e le “vie difuga” spesso non esistono, tanto da suscitare una situazione di ingabbiamen-to che inevitabilmente genera nei personaggi emozioni negative e stati didepressione.

La figura a cui spesso rimanda il cinema di Haneke è quella della tana,della caverna, e quindi del rifugio primordiale, cioè di un luogo facilmentedifendibile e controllabile finché le sue dimensioni non oltrepassano un certolimite. Sono spazi entro i quali esplode una violenza insensata e assurda edove paradossalmente, ma perfettamente in linea con le ansie di sicurezza eil vivere odierno, il pericolo non viene dall’esterno, ma da un interno semprepiù familiare e intimo. Ecco quindi che l’indice di imbarbarimento dell’uomocontemporaneo, secondo Haneke, si manifesta nella necessaria esiguità dispazi su cui esercitare un maniacale controllo che diventa però inutile quan-do la tragedia e il dolore sfondano gli argini dell’emotività e deflagrano sullascena in tutto il loro criptico orrore.

L’emersione della violenza nella situazione-trappola dipende in granparte dal disagio per il mancato rispetto della nostra bolla personale, cioè lo“spazio nostro” da non invadere attorno a noi 21.

Diventa quindi fondamentale nella costruzione dell’immagine hanekianala condizione del rapporto uomo-ambiente dove il corpo-unico dell’individuo

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si trova in contrapposizione ontologica con il corpo-multiplo della società,ma dove non trovando vie di scampo per evadere e fuggire dall’orrore quoti-diano, sceglie la regressione barbarica e la discesa verso una relazione pri-mitiva con le persone, gli spazi e gli oggetti.

Haneke che individua nella manipolazione dell’immagine e nell’impossi-bilità umana di contenere il dolore l’origine scatenante di questo ritorno alprimitivismo, e che ha una visione apocalittica delle conseguenze possibili,costruisce le sue immagini attorno a due soli elementi: il tempo e il nero. Iltempo dilatato delle inquadrature del regista austriaco ha uno scopo ben pre-ciso: quello di portare lo spettatore a osservare la scena e non semplicemen-te a vederla. C’è la volontà di spingere il pubblico ad una visione “attiva”scevra di effetti e/o sovrastrutture, che attraverso gli occhi attiva il cervello esi connette al sistema nervoso. Paradossalmente questo avviene nel cinema diHaneke attraverso la rappresentazione della negatività insita nell’uomo, chea differenza di quanto accadeva invece per Bresson, non sfocia mai in unaredenzione, bensì approda quasi sempre a d una tragedia e a uno stato dellecose sospeso sulla “permanenza del possibile”. Robert Bresson apre il suo Uncondameé a mort s’est éschappe (Un condannato a morte è fuggito, 1956)con le parole del dialogo tra Cristo e Nicodemo:

“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene edove va: così è di chiunque è nato dallo spirito” 22.

e consegna il film alla speranza. Haneke apre il suo Der SiebenteKöntinent sulla targa di un’auto chiusa tra le spazzole di un autolavaggio econsegna il film tra le braccia della morte sin dalla prima inquadratura.

La “visione negata” del regista austriaco è quindi connaturata con il tempoin cui egli vive. Oggi chi vuole riflettere seriamente sui mali della società nonpuò e non deve permettersi il lusso di concedere spazio alla speranza. Questonon per un intento banalmente provocatorio e supponente, bensì per irritarel’occhio e i nervi di una società abituata a tutto, che si può fermare a riflette-re solo davanti ad un orrore senza fine e dove quindi, non può fare altro cheinterrogarsi su se stessa.

In questo contesto assume grande importanza il secondo elemento costi-tutivo delle immagini e del cinema di Michael Haneke: il nero. Lo schermonero domina gran parte della durata dei film della “trilogia glaciale”, mentrenel proseguo della filmografia del regista assume un ruolo più marginale ecircostanziato, ma non meno importante.

Nei primi tre film: Der Siebente Köntinent, Benny’s Video (id. 1992) e 71

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fragmente einer chronologie des zufalls (71 frammenti di una cronologia delcaso, 1994), il nero rappresenta lo spazio pensante. È un nero tranciante cheinterrompe l’azione e che piomba sulle immagini e sui dialoghi come unaghigliottina per spezzare la continuità, ponendo lo spettatore in attesa spa-smodica per il ritorno delle immagini. Il nero che tronca l’azione è lungo efastidioso e spinge lo spettatore ad una doppia reazione: quella di interrogar-si su che cosa sta succedendo e quella, una volta capito il meccanismo, dirilassare la vista e distendere i nervi. Il nero, inteso come spazio pensante incui lo spettatore si pone domande e riflette sull’accaduto, ha la valenza diintervallo nel continuum delle immagini, e serve ad Haneke per comunicareallo spettatore la precarietà e la falsità delle relazioni e delle convenzionisociali; inoltre riesce a trasmettere un fastidioso senso di disagio, che lo pre-para al precipitare degli eventi imminenti.

Il nero, inteso invece come momento di relax, che assumerà nei filmseguenti, a partire da Code inconnu (Storie - Codice sconosciuto, 2000), unaposizione sempre più circostanziata ed evidente, sembra derivare dalla prati-ca del palming descritta da Aldous Huxley.

La più importante di queste tecniche di rilassamento (prevalentemente)passivo è il procedimento che il Dott. Bates ha chiamato palming, nel qualegli occhi vengono chiusi e coperti con le palme delle mani. Per evitare diesercitare una qualsiasi pressione sui globi oculari (che non devono maiessere premuti, fregati, massaggiati o comunque manipolati) bisogna appog-giare la parte inferiore delle palme sugli zigomi e le dita sulla fronte. In talmodo, senza peraltro dover toccare i globi oculari, si impedisce alla luce dipervenire agli occhi. Il palming si esegue al meglio in posizione seduta con igomiti appoggiati un tavolo oppure su un cuscino ben imbottito tenuto sulleginocchia. Quando gli occhi sono chiusi e ogni luce viene schermata dallemani, il campo sensoriale appare agli organi della vista così rilassati di unnero uniforme.

Michael Haneke, si rende conto della tensione insostenibile che i suoifilm innestano nel sistema nervoso di chi guarda e spezza la continuità delleimmagini con spazi dedicati alla distensione. Si allontana quindi dall’os-sessione continuativa delle immagini televisive per mettere in guarda l’uo-mo sul fatto che la necessità di vedere può inconsciamente trasformarsi inuna dipendenza.

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André Bazin sosteneva che:

“L’uomo è spinto ad imbalsamare, a conservare, in qualche modo ciò cheè destinato a perire. Ne deriva un’ossessione riproduttiva che viene prima diogni esigenza estetica” 23.

Haneke riprende questa tesi e la destruttura spezzando, attraverso il“nero” questa tendenza ossessiva verso la riproducibilità. Lo fa parlandodegli uomini: le sue sono storie quotidiane che presentano un progressivospostamento del dolore. Uno spostamento impercettibile sviluppato attraver-so una “regia che non si vede”, che approda ad un movimento subliminaledell’immagine che, spogliata di fronzoli e orpelli, appare lineare nella suaessenzialità e avvolta da una banalità inquietante.

“Quello che cerco è un tipo di atmosfera riconoscibile per lo spettatoremedio di un qualsiasi paese industrializzato. E poi lo distruggo” 24.

Questa tendenza alla distruzione è derivativa dell’Azionismo Viennese edel suo più importante rappresentante Otto Muhel, che nelle sue installazio-ni distrugge subito l’oggetto prima di trasformarlo in qualcosa di inedito.Attraverso la distruzione degli oggetti Muhel mette in scena la distruzionesimbolica delle morali passatiste e sfonda i confini che delimitano i tabù falsie ipocriti che incatenano l’uomo contemporaneo. Così Michael Hanekecostruisce nei suoi film delle situazioni apparentemente serene e quotidianepronte per essere distrutte e vivisezionate ipotizzando che se non si distrug-ge prima un oggetto ne resta sempre qualcosa. Questo qualcosa è il dolore,presenza costante e indispensabile nella cinematografia di Haneke che iden-tifica l’uomo nel suo lato più debole e spaventoso. Il dolore è, per il registaaustriaco, un magma incandescente che si allarga a macchia d’olio e cheprima o poi travolge tutti i suoi personaggi. È una presenza ctonia e persi-stente che abita in ogni fotogramma e che alimenta il progressivo degradaredell’uomo verso il male, parallelamente al suo allontanarsi dalla spiritualità.

“Mi interessa l’uomo cosciente che il significato dell’esistenza consiste inprimo luogo nella lotta contro il male che è dentro di noi, nell’elevarsi nel corsodella propria vita sia pure di un solo gradino in senso spirituale. Un’unica alter-nativa, infatti, si contrappone al cammino dell’elevazione spirituale, ed è quel-la della degradazione spirituale, alla quale tanto ci predispongono l’esistenzadi tutti i giorni e il processo di adattamento ad essa!...” 25

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Come per Tarkovskij anche per Haneke l’uomo è in equilibrio su di un filoteso tra spirito e materia, ma il suo realismo prende nettamente le distanzedall’ascetismo del regista russo.

Le immagini di Haneke, oltre che negare la felicità, costituiscono un siste-ma di “opposizione” che prevede la malattia mentale e fisica come l’unicobaluardo che è possibile alzare contro gli orrori del quotidiano e le angosceesistenziali. Per Haneke l’uomo è incapace di provare sentimenti positivi:non sa più amare e si adagia apaticamente in una società di massa avida disuccesso e di denaro e che ha definitivamente abdicato verso il “criterio discelta”. Per questo il suo cinema statico-dinamico, ci offre una ”visione-negata” delle cose positive e si anima di progressivi spostamenti del dolore,perché i suoi personaggi non fanno scelte e non sono protagonisti attivi dellaloro esistenza, bensì spettatori passivi che si lasciano condurre dal solo desi-derio di alleviare e allontanare il dolore che li colpisce, senza ragionare nésulle cause, né sulle conseguenze. Il consumismo e la “società” di massahanno definitivamente chiuso gli occhi e spento il cervello dell’uomo con-temporaneo così che, paradossalmente per un’artista, l’unico modo per scuo-tere le coscienze rimane quello di negare quella felicità tanto agognata utiliz-zando immagini statiche ed esasperanti da interrompere bruscamente con unoschermo nero, che dentro il suo vuoto apparente racchiude l’essenza del pen-siero e della riflessione.

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