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Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali Direttore: Gino Massullo ([email protected]) Comitato di redazione: Rossella Andreassi, Antonio Brusa, Oliviero Casacchia, Renato Cavallaro, Alberto Mario Cirese, Raffaele Colapietra, Gabriella Corona, Massimiliano Crisci, Marco De Nicolò, Norberto Lombardi, Sebastiano Martelli, Massimiliano Marzillo, Gino Massullo, Giorgio Palmieri, Roberto Parisi, Rossano Pazzagli, Edilio Petrocelli, Antonio Ruggieri, Saverio Russo, Ilaria Zilli Segreteria di redazione: Marinangela Bellomo, Maddalena Chimisso, Michele Colitti, Antonello Nardelli, Bice Tanno Direttore responsabile: Antonio Ruggieri Progetto grafico e impaginazione: Silvano Geremia Traduzioni in Inglese: Roberto Ratti e Martine Vanhèe Questa rivista è andata in stampa grazie al contributo di: Provincia di Campobasso Molise Unioncamere Unioncamere Molise Redazione e amministrazione: c/o Il Bene Comune, viale Regina Elena, 54 – 86100 Campobasso, tel. 0874 979903, fax 0874 979903, [email protected] Abbonamento annuo (due numeri): € 25,00. Per abbonamenti internazionali: paesi comunitari, due numeri, € 37,00; paesi extracomunitari, due numeri, € 43,00. I ver- samenti in conto corrente postale devono essere effettuati sul ccp n. 25507179 inte- stato a Ass. Il Bene Comune, Campobasso Garanzia di riservatezza per gli abbonati. L’editore fornisce la massima riservatezza nel trattamento dei dati forniti agli abbonati. Ai sensi degli artt. 7, 8, 9, D. lgs. 196/2003 gli interessati possono in ogni momento esercitare i loro diritti rivolgendosi a: Il Bene Comune, viale Regina Elena, 54 – 86100 Cam- pobasso, tel. 0874 979903, fax 0874 979903, [email protected] Il garante per il trattamento dei dati stessi ad uso redazionale è il direttore responsabile

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  • Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali Direttore: Gino Massullo ([email protected]) Comitato di redazione: Rossella Andreassi, Antonio Brusa, Oliviero Casacchia, Renato Cavallaro, Alberto Mario Cirese, Raffaele Colapietra, Gabriella Corona, Massimiliano Crisci, Marco De Nicolò, Norberto Lombardi, Sebastiano Martelli, Massimiliano Marzillo, Gino Massullo, Giorgio Palmieri, Roberto Parisi, Rossano Pazzagli, Edilio Petrocelli, Antonio Ruggieri, Saverio Russo, Ilaria Zilli Segreteria di redazione: Marinangela Bellomo, Maddalena Chimisso, Michele Colitti, Antonello Nardelli, Bice Tanno Direttore responsabile: Antonio Ruggieri Progetto grafico e impaginazione: Silvano Geremia Traduzioni in Inglese: Roberto Ratti e Martine Vanhèe Questa rivista è andata in stampa grazie al contributo di:

    Provincia di Campobasso

    MoliseUnioncamere

    Unioncamere Molise Redazione e amministrazione: c/o Il Bene Comune, viale Regina Elena, 54 – 86100 Campobasso, tel. 0874 979903, fax 0874 979903, [email protected] Abbonamento annuo (due numeri): € 25,00. Per abbonamenti internazionali: paesi comunitari, due numeri, € 37,00; paesi extracomunitari, due numeri, € 43,00. I ver-samenti in conto corrente postale devono essere effettuati sul ccp n. 25507179 inte-stato a Ass. Il Bene Comune, Campobasso Garanzia di riservatezza per gli abbonati. L’editore fornisce la massima riservatezza nel trattamento dei dati forniti agli abbonati. Ai sensi degli artt. 7, 8, 9, D. lgs. 196/2003 gli interessati possono in ogni momento esercitare i loro diritti rivolgendosi a: Il Bene Comune, viale Regina Elena, 54 – 86100 Cam-pobasso, tel. 0874 979903, fax 0874 979903, [email protected] Il garante per il trattamento dei dati stessi ad uso redazionale è il direttore responsabile

  • 2-3

    Economie

    NOVEMBRE 2010 – MAGGIO 2011

    Andreassi / Barba / Bellomo / Bindi / Chimisso / Cocozza / Corona / Crisci / di Laura Frattura / Fanelli / Iarossi / Lombardi / Marracino /

    Martelli / Massullo / Nardelli / Palmieri / Parisi / Pasquale / Pasquetti / Pazzagli / Petrocelli /Presenza / Ruggieri / Zilli

  • In copertina: Cristiano Carotti, Whales in the sky, acriclico, 150x120, 2007 © 2011 Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali, Edizioni Il Bene Comune Tutti i diritti riservati Registrazione al Tribunale di Campobasso 5/2009 del 30 aprile 2009

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    Indice 11 Economie

    IN ITALIA 21 Economia e conoscenza. Scuola e agricoltura nel Mezzogiorno a

    cavallo dell’Unità di Rossano Pazzagli

    37 Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno

    di Roberto Parisi

    1. Produzione edilizia e paesaggi dell’industria 2. Prodromi edilizi della “questione meridionale” 3. Acque e cemento. Percorsi edilizi verso la modernizzazione assistita 4. L’edilizia “organizzata” per la costruzione totale del paesaggio e delle

    comunità 59 Gli urbanisti, l’ambiente e la città. Tecnica e politica in Italia negli

    ultimi quarant’anni del Novecento di Gabriella Corona

    1. La pianificazione contro le implicazioni distruttive del mercato 2. Il recupero dei centri storici 3. Urbanistica e austerità 4. La città come ecosistema

    IN MOLISE

    73 Questioni agricole

    di Gino Massullo

    1. Dalla ripresa settecentesca alla crisi agraria 2. Novecento 3. Oggi e domani: la questione agricola come questione glocale

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    91 L’industria alimentare di Rosa Maria Fanelli

    1. Il sistema agroalimentare molisano 2. Il tessuto produttivo del settore agricolo 3. Struttura, importanza e dinamiche dell’industria alimentare 4. La dimensione territoriale quale leva strategica di sviluppo dell’industria

    alimentare 5. Una lettura di sintesi delle principali filiere a tipicità regionale

    109 Alla ricerca di una vocazione industriale

    di Ilaria Zilli

    1. Premessa 2. Fra vincoli ambientali e vincoli culturali: pecore, grano ed emigranti 3. L’’industrializzazione assistita: i vantaggi del ritardatario?

    125 La modernizzazione del Molise nel secondo dopoguerra attraverso i

    documenti della Svimez di Ilenia Pasquetti

    1. La realtà socio-economica del Molise negli anni cinquanta 2. L’industrializzazione guidata 3. Alcuni considerazioni in merito al piano di sviluppo

    143 I primi passi del turismo molisano: l’epoca fascista

    di Marinangela Bellomo

    1. Primi intenti 2. Nuovi progetti di sviluppo turistico negli anni trenta 3. La propaganda nella promozione territoriale 4. Qualche riflessione finale

    167 Il turismo. Volano per lo sviluppo locale

    di Angelo Presenza

    1. Competitività: tutto parte da qui 2. Destination building: impianto teorico di riferimento 3. Le condizioni di competitività per la destinazione turistica 4. Pisu di Termoli: un esperimento di sviluppo turistico su base co-evolutiva 5. Conclusioni

  • Indice

    7

    185 Rompere l’isolamento: la rete dei trasporti fra Otto e Novecento di Maria Iarossi

    1. Una visione d’insieme 2. Tra pubblico e privato: la strada comunale obbligatoria di Castelverrino

    203 Vendere patrimoni, consumare luoghi

    di Letizia Bindi 213 Il Molise: condizione economico-sociale e prospettive di sviluppo

    territoriale di Paolo di Laura Frattura

    1. Lo scenario economico 2. Il mercato del lavoro 3. Istruzione e formazione 4. Formazione, ricerca e sviluppo e innovazione 5. Il sistema imprenditoriale 6. Sistema delle infrastrutture 7. Scenari di sviluppo 8. Conclusioni

    IERI, OGGI E DOMANI

    233 Il Molise e “la cura” della crisi

    Tavola rotonda con Giovanni Cannata, Gianfranco De Gregorio, Franco Di Nucci, Norberto Lombardi, Erminia Mignelli, Gianfranco Vitagliano, Ilaria Zilli a cura di Antonio Ruggieri

    OSSERVATORIO DEMOGRAFICO

    269 La popolazione molisana in età lavorativa: quale futuro?

    di Massimiliano Crisci

    1. Tendenze recenti dell’occupazione molisana: alcuni cenni 2. La popolazione in età lavorativa: invecchiamento dei lavoratori autoctoni

    e inserimento dei migranti stranieri 3. Le migrazioni temporanee dei giovani molisani 4. L’evoluzione futura delle forze di lavoro: invecchiamento e flessione

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    STUDI E RICERCHE 279 Critica dell’ “Isola felice”. Il percorso carsico di «Proposte» nella

    modernizzazione molisana di Norberto Lombardi

    1. Un osservatorio sulla transizione 2. Lettera dalla provincia 3. Ultima generazione 4. «Proposte Molisane» e la crisi della società regionale 5. Vita di contadini 6. «Molise», il confronto sul cambiamento regionale 7. Le nuove «Proposte Molisane» 8. Una diversa modernizzazione

    315 Il Molise dopo la crisi del modello di sviluppo degli anni settanta

    di Edilio Petrocelli

    1. Alcuni settori da rivisitare e riprogrammare 2. L’identità regionale come autoritratto 3. Le indagini e le proposte degli anni sessanta 4. Le scelte programmatiche dopo l’istituzione dell’Ente Regione 5. Gli anni del cambiamento e della congiuntura economica 6. Le infrastrutture europee e i nuovi assetti interregionali 7. Il “complesso” della popolazione e la rottura dei confini territoriali

    329 Venticinque anni di narrativa

    di Sebastiano Martelli 351 Commercianti di bestiame e agricoltori: note sugli zingari in Molise

    tra Sette e Ottocento di Valeria Cocozza

    INTERVISTE

    367 Il caso de La Molisana: conversazione con l’ing. Carlone

    di Maddalena Chimisso 373 Quale turismo? Il caso della Piana dei mulini

    di Camillo Marracino 387 Percorsi di internazionalizzazione: il caso Oleifici Colavita s.p.a.

    di Andrea Quintiliani

  • Indice

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    DIDATTICA 395 L’Atlante delle Storie. Intervista ad Antonio Brusa sul suo nuovo

    manuale di storia per la scuola secondaria di II grado di Selene Barba

    399 Le mani in pasta: mulini e pastifici nella storia del Molise

    di Rossella Andreassi e Gianna Pasquale

    1. Premessa 2. Scheda descrittiva 3. Finalità, obiettivi e scelte di contenuto 4. Strumenti e materiali utilizzati 5. Attività proposte: fase di apprendimento 6. Laboratori

    STORIOGRAFICA

    411 Percorsi di storia del libro: l’Abruzzo nell’Ottocento. A proposito di

    un recente lavoro di Luigi Ponziani di Giorgio Palmieri

    1. Fra luci e ombre: il panorama nazionale 2. L’Abruzzo tipografico 3. Le ricerche sull’Ottocento di Luigi Ponziani

    MOLISANA

    427 La Società operaia di San Martino in Pensilis

    Antonello Nardelli legge Michele Mancini 431 Abstracts 441 Gli autori di questo numero

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    Venticinque anni di narrativa

    di Sebastiano Martelli

    Tra le molte iniziative editoriali coraggiose e “a rischio” di Enzo Nocera, una collana dedicata alla narrativa occupa un posto significativo considerato che il Molise tra Otto e Novecento evidenzia una lacuna nel genere romanzo, che viene colmata solo in parte negli anni venti-trenta con la Pietravalle e soprattutto con Jovine e la nuova generazione di narratori del secondo dopo-guerra (Rimanelli, Incoronato, Del Vecchio). L’idea progettuale nasce nel 1980 dalla collaborazione tra l’editore e Filippo Poleggi impegnato in quegli anni, anche con il premio “Nuova Poesia”, a sollecitare un’attenzione nella regione verso la letteratura contemporanea.

    Non è certo un caso che nello stesso scorcio di tempo dei primi anni ottanta Enzo Nocera sostiene editorialmente il ritorno di un qualificato periodico, «Proposte molisane», diretto da Norberto Lombardi, che nei primi anni set-tanta aveva messo in campo una riflessione su un necessario cambio cultura-le che coniugasse un ripensamento della memoria storica regionale e la ca-pacità di analisi dei processi di trasformazione in corso non disgiunta da una rinnovata passione civile.

    L’incertezza progettuale della collana – “Narratori meridionali” con sezioni regionali a cominciare ovviamente da quella molisana, in cui rientrano i pri-mi quattro titoli – sembra risolversi a partire dalla quinta uscita, Ritorno a Palenche di Pietro Corsi, apparso nel 1985 con una veste grafica nuova a si-gnificare una sistemazione definitiva.

    I primi due titoli, L’incontro di Fiora Luzzatto e Vita di contadini di Donato Del Galdo, pubblicati entrambi nel 1981, rivisitati oggi a distanza di un venti-cinquennio rivelano una forte coerenza con alcune intuizioni editoriali all’ori-gine della collana, rispondono cioè all’esigenza di una narrativa capace di rap-presentare segmenti significativi della identità regionale ed insieme le rotture che le trasformazioni sociali e culturali avevano provocato anche nel Molise.

    In Vita di contadini si srotolano i fotogrammi della condizione e della sto-ria del mondo contadino visto nel microcosmo di San Giuliano di Puglia del primo Novecento, in cui il tempo ciclico è scandito dal lavoro nei campi con il suo totale assorbimento del vissuto di cui impronta anche il tempo residuo.

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    Un documento antropologico alimentato da una scrittura che, grazie alla for-te vitalità e alle esperienze di vita dell’autore – partecipa alle lotte contadine del dopoguerra nel Basso Molise come dirigente comunista delle leghe brac-ciantili; impegno politico e sindacale che continua tra gli emigrati in Belgio negli anni sessanta – ha oltrepassato la soglia della lingua dei semicolti con-quistando un livello medio «connotativo» che risponde anche ad «una presa di coscienza» politica e ideologica, come giustamente nota il prefatore Um-berto Di Muzio. Un innato piacere della scrittura educato alla scuola della politica: «il partito mi ha dato la possibilità di esprimermi, di avere un lin-guaggio chiaro e un’organizzazione mentale».

    Il tutto confermato dal successivo libro apparso nella collana, Poema di Sa-crificio (1986), dove con una scrittura di più marcata connotazione letteraria Del Galdo propone altri fotogrammi del suo mondo contadino, molto più mos-si poiché la dimensione biografica, autobiografica, il recupero dell’oralità e il flusso memoriale gli consentono un racconto integrale che va oltre il docu-mento, sistemando i diversi bozzetti in una rivisitazione segnata dal legame con un mondo che sta morendo e di cui si vuole lasciare testimonianza.

    I due libri di Del Galdo – in particolare il primo – richiamano le biografie contadine del secondo dopoguerra, a cominciare da Contadini del Sud di Scotellaro, ma anche le autobiografie di contadini e operai che contribuisco-no a disegnare un capitolo peculiare nella letteratura degli anni settanta, un nuovo realismo che tocca le punte estreme con i “franchi narratori” feltrinel-liani e proposte varie di “letteratura selvaggia” che mettono in campo scritto-ri naif, storie di vita attraversate da marginalità, sofferenza, violenza.

    Una scrittura narrativa totalmente diversa ritroviamo nel libro di Fiora Luzzatto, L’incontro: è il racconto autobiografico di una non molisana, figlia della colta borghesia settentrionale, laureata e con esperienze internazionali, giovane assistente sociale morsa da una tensione che via via diventa presa di coscienza tanto che abbandona l’impiego sicuro presso il comune di Genova e approda nel Molise degli anni sessanta, mentre i “furori” giovanili comin-ciano ad allargare, anche nella società molisana, quei cunei che l’emigra-zione, l’industrializzazione e soprattutto la scolarizzazione di massa avevano aperto nel blocco sociale e culturale che nel secondo dopoguerra aveva in-globato la civiltà contadina entrata nel suo crepuscolo.

    Il racconto, con una scrittura agile, fortemente comunicativa, si snoda co-me un controcanto di due vite parallele, che dagli ultimi anni dell’Ottocento approdano agli anni sessanta del Novecento; sono le storie delle due fami-glie, quella dell’autrice e quella del suo compagno di vita che incontrerà nel Molise; una sorta di memoriale, scritto per la figlia Valeria, in cui si alterna-no i capitoli paralleli sulle due famiglie che rappresentano quasi icasticamen-te due mondi, due Italie – l’una, quella della colta borghesia settentrionale, l’altra, quella contadina meridionale – destinate a non incontrarsi e che i

  • Martelli, Venticinque anni di narrativa

    331

    cambiamenti epocali degli anni sessanta condurranno invece ad un appunta-mento fatale tanto da intrecciare le loro vite. Una vicenda che traduce esem-plarmente le rotture e le trasformazioni, gli sconvolgimenti sociali, culturali che attraversano il nostro paese negli anni sessanta, veicolati, in questo caso, anche da una presa di coscienza civile e politica che costituisce il collante che intreccia definitivamente vite e vissuti prima atavicamente separati.

    Se la Luzzatto sceglie di vivere nel Molise c’è chi negli stessi anni sceglie di partire dalla regione per immergersi anche professionalmente nei cambiamenti portati dal vento della modernità: Lucio Pasquale, giornalista ed esperto di comunicazione e marketing, in Corpo 8 e corpo 10 (1982) narra di un giovane provinciale che nei primi anni settanta vive la sua avventura giornalistica nella capitale, lavorando in un giornale, “Gente del Sud”, dotato di pochi mezzi, che sopravvive grazie all’entusiasmo, al coraggio del direttore e dei giovani colla-boratori: un romanzo di formazione del provinciale molisano che si confronta con un universo sociale e culturale distante anni luce da quello delle origini.

    Una robusta architettura narrativa rivela il romanzo di Simonetta Tassinari, Gente di Pietra (1987): ambientato a Pietracatella nella seconda metà del-l’Ottocento, con un’abile utilizzazione di documentazione storico-archi-vistica dispiega una fitta tela romanzesca centrata sulla famiglia Feo, di cep-po nobiliare spagnolo, col contorno di altre due famiglie dello stesso ceto so-ciale; sullo sfondo il microcosmo contadino che a lunghi silenzi alterna im-provvise irruzioni come al tempo del brigantaggio, con devastazioni, furti e incendi che toccano direttamente le vite della famiglia protagonista.

    Una struttura apparentemente tutta distesa sul modello del romanzo storico, in cui entrano però ben altri modelli narrativi: il romanzo di formazione, il grande romanzo borghese europeo a cominciare da I Buddenbrook di Thomas Mann per finire al romanzo femminile contemporaneo. E tutto “al femminile” è il punto di vista del racconto che ha come voce narrante donna Filomena che, ormai settantenne nel 1912, dispiega la narrazione della sua famiglia in quel piccolo angolo di provincia, un mondo che nell’ultimo ventennio dell’Otto-cento giunge ad un passaggio epocale. La crisi post-unitaria, in particolare quella degli anni settanta-ottanta, destabilizza anche nel Molise la vecchia no-biltà, apre il varco all’emigrazione di massa e al formarsi di una piccola bor-ghesia, al modificarsi dei rapporti sociali e degli orizzonti di vita. Soprattutto della prima l’autrice ricostruisce con abilità fabulatoria e gusto rappresentativi gli interni, i costumi, i modi di vita, la mentalità, figure che riemergono dal passato come se uscissero da un vecchio album fotografico e riprendessero a vivere e a sfilare davanti al lettore con i propri intrecci di vissuto. Una memo-ria raccontata al femminile che affida alle donne di casa Feo la sola possibilità di gestire e fermare in qualche modo la decadenza della famiglia al tramonto dell’Ottocento, con la consapevolezza di dover modificare modelli di vita in direzione di una inevitabile borghesizzazione economica, sociale e culturale.

  • / 2-3 / 2011 / Studi e ricerche

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    E naturalmente sarà una donna, Clelia, a compiere il gesto di più forte ri-bellione, rinunciando al matrimonio con un esponente della nobiltà locale, fuggendo al Nord e aderendo alle nuove idee anarchiche e socialiste. Un punto di vista “al femminile” che ben traducono le parole della voce narrante in attesa che la nipote partorisca: «Signore, ti prego – supplicò – che non sia un altro Linuccio! […] Dio ti prego, fai che sia una femmina».

    Un punto di vista che filtra con ironia e malinconia immagini e sapori di un’epoca, interni di case ottocentesche ridestate dalla vitale energia femmi-nile a fronte delle incertezze e dei tormenti esistenziali o del grigiore delle figure maschili; una classe sociale accerchiata dal mondo contadino che mai sarebbe potuto entrare nelle sue porte «chiuse a catena, ed il passarvi attra-verso più arduo della evangelica cruna dell’ago». Il tutto supportato da una ricca filiera di materiali storici, letterari e antropologici, poesia colta e canti popolari che danno credibilità al racconto.

    Lo stesso periodo storico, a cavallo tra Otto e Novecento, fa da sfondo al romanzo di Enrico Mancini, Adalgisa Zaticò aveva visto … (2000), con una altrettanto robusta intelaiatura narrativa che, supportata da un evidente piacere fabulatorio, mette in campo l’affollato ritratto della piccola borghesia di paese – una riconoscibile Casacalenda – socialmente e antropologicamente diversa da quella rappresentata nel romanzo della Tassinari. Una borghesia formatasi dal disfacimento delle strutture feudali del primo Ottocento e dall’ampliarsi del terziario nel periodo post-unitario, che si caratterizza per il suo orizzonte culturale assai ristretto, che consuma le proprie energie e i propri giorni nella difesa della rendita fondiaria da allargare con strategie matrimoniali. Protago-niste del romanzo di Mancini sono alcune di queste famiglie, calate in una so-ciabilità paesana disegnata a tutto tondo: interni familiari in cui si elaborano progetti matrimoniali per figli riluttanti, una mentalità riempita da grettezza, pettegolezzi, formalismo nei rapporti sociali; il ritrovarsi dei galantuomini al circolo del paese, la Casina, vero e proprio foro della sociabilità paesana; l’in-namoramento a distanza dei giovani che si consuma negli sguardi in chiesa o nelle lettere portate clandestinamente dalle domestiche; le più carnali frequen-tazioni dei borghesi maturi; l’addottoramento in giurisprudenza dei figli ma-schi a Napoli, con la scoperta di una libertà di costumi che brucia gli innamo-ramenti romantici del paese. Un universo paesano dove i giorni scorrono lenti ed uguali, riempiti da “non segreti”, rivalità, invidie, sussurri, lettere anonime, dove solo l’imprevisto e la morte riescono a innescare qualche sobbalzo o de-viazione dall’ordine. Della Storia arrivano echi, che non hanno alcuna signifi-cativa ricaduta: l’assassinio di Re Umberto, l’opposizione della Chiesa al nuo-vo Stato liberale attraverso l’applicazione che il parroco vuole farne in paese, la visita di Zanardelli nell’Italia meridionale.

    Mancini programmaticamente dispiega il suo corposo racconto, circa quat-trocento pagine, in un esclusivo ritratto della piccola borghesia molisana

  • Martelli, Venticinque anni di narrativa

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    mentre il mondo popolare, contadino e artigiano, entra solo come comparsa, sta fuori dalle case e dalla Casina dei galantuomini, soltanto presenza in un paesaggio e in un tempo sempre uguali: «i contadini si alzavano che il giorno era ancora di là da venire e sul duro selciato risuonavano gli zoccoli dei muli […] il passo chiodato dei cristiani che li guidavano, e così un giorno dopo l’altro …», con cui il romanzo si conclude. Anche nel romanzo di Mancini sono le figure femminili a tenere la barra di una navigazione familiare e so-ciale spesso a rischio per la ottusa difesa dell’ordine praticato dagli uomini, per le loro debolezze e la loro incapacità a sintonizzarsi sui cambiamenti che i tempi e le situazioni richiedono. Sarà donna Cristina, conciliando machia-vellicamente “virtù” e “fortuna”, a sbrogliare la matassa ingarbugliata del figlio Ferdinando, che a Napoli ha messo insieme laurea e paternità. Così di-casi di altre figure femminili: Concetta Parlettano, signora napoletana che con spavalda sicurezza cittadina gestisce la delicata situazione della figlia Annarella, rimasta incinta del giovane Ferdinando; donna Liboria, che riesce a sposare l’ispettore regio suo pensionante; infine, la giovane Adalgisa – personaggio che dà il titolo al romanzo – che «aveva visto», cioè aveva capi-to: «Io non voglio più sognare, voglio guardare in faccia la realtà …», dopo il tradimento e la fine dell’innamoramento romantico adolescenziale.

    Se i residui di letture scolastiche e dei versi di Parzanese lasciano tracce solo nell’eloquio che riempie il circolo alla Casina o nelle lettere di adolescenti in-namorati, le letture dei romanzi di consumo – di cui ad esempio si nutre donna Cristina – aprono uno squarcio su mondi, immaginario e modelli di vita oltre l’orizzonte del paese. Una romanzesca cronaca paesana cui alcuni topoi narra-tologici danno ulteriore credibilità: quell’ “aura” favolosa, imprinting inelimi-nabile nella rappresentazione della società provinciale ottocentesca, come ha dimostrato magistralmente Jovine in Signora Ava: il tesoro nascosto del bri-gante Zizzuotto, le pratiche magiche della fattucchiera Vicenzella, l’eredità americana che piove addosso ad una delle famiglie protagoniste del romanzo.

    Ma a rendere quell’ “aura” è soprattutto la lingua del romanzo: flessuosa, con modulazioni sintattiche e lessicali di stampo classico; una prosa dall’andamento lento che rende bene il tempo immobile, lento, del mondo ottocentesco della provincia molisana. La lezione manzoniana e verghiana è evidente nella scan-sione dei diversi registri linguistici: modulazioni auliche che entrano nel lin-guaggio dei personaggi della piccola borghesia cui si affiancano quelle del ceto popolare piegate alla sintassi del dialetto e dell’italiano popolare. Una lingua compiaciuta, ricca di stilemi, locuzioni, immagini, citazioni, prelievi dalla buo-na cultura classica dell’autore, attraversata dal costante filo dell’ironia che sen-za appesantimenti ma con leggerezza entra nel tessuto narrativo, grazie anche alla evidente capacità fabulatoria.

    Con lo pseudonimo di Hermes di Morgabrale è firmato un romanzo in due tomi, Spinapucio e Addio Spinapucio (1984): una fluviale narrazione am-

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    bientata nel Molise e a Napoli durante gli anni che immediatamente prece-dono e seguono l’avvento del Fascismo. Una scrittura ibrida, tipica del ro-manzo popolare di fine Ottocento, in cui non mancano omicidi, vendette, or-fanelli, agnizioni, punizioni di malvagi, peripezie amorose, umanitarismo socialista e spiritualismo esoterico; il tutto su fondali di paesaggi molisani e napoletani, avvenimenti storici e personaggi politici convocati a dare verità ad una inverosimile catena di svolgimenti narrativi.

    L’ingresso di Pietro Corsi nella collana con tre libri (La giobba, 1982; Ri-torno a Palenche, 1985; Omicidio in un paese di cacciatori, 2000) rappre-senta uno slargo significativo in direzione di scrittori che coniugano le radici della propria terra molisana con esperienze oltre i confini regionali e nazio-nali, immersi in altre lingue e altre culture. Corsi, emigrato dal Molise negli anni cinquanta, per quarant’anni ha incrociato comunità e individui muoven-dosi fra Stati Uniti e Messico mentre nella scrittura – una sorta di attività se-greta, «notturna», come l’ha definita Giose Rimanelli – riversava e ricreava i “pezzi di mondo” che via via si accumulavano nel suo vissuto provando in-sieme a mantenere un filo sotterraneo con il mondo delle origini: un mondo che nell’ultimo decennio – quando ormai l’autore ha abbandonato la sua at-tività ai vertici di una importante compagnia americana di navigazione da crociera – è riemerso occupando in maniera quasi totale lo spazio della sua scrittura, come mostra il terzo romanzo apparso nella collana, Omicidio in un paese di cacciatori.

    La giobba – la cui prima stesura risale agli inizi degli anni sessanta – tra-duce narrativamente esperienze, immagini del primo tempo da emigrante vissuto dall’autore in Canada negli anni cinquanta; un titolo a forte valenza semantica, preso dallo slang italoamericano, traduce il riferimento al lavoro che per gli emigrati del secondo dopoguerra è soprattutto quello nei cantieri della grande espansione edilizia: lo sfruttamento dei lavoratori, gli omicidi bianchi, gli intrecci tra vecchie e nuove mafie, insomma le durezze, i rischi, le difficoltà, le lacerazioni della vita degli emigrati.

    Un mondo che troviamo rappresentato nei romanzi di John Fante e Pietro Di Donato, i quali magistralmente hanno fissato nella loro narrativa l’immagine del lavoro degli emigrati italiani, della loro “giobba” nei cantieri dove si co-struisce il Nuovo Mondo, spesso non solo con la fatica degli emigrati, ma con la loro stessa vita, come in Cristo fra i muratori di Di Donato. Anche i due protagonisti de La giobba, emigrati in Canada, il contadino Onofrio Annibalini e l’ex studente Rob Perussi – due tempi di una storia unica a più voci – speri-mentano le durezze e i rischi della vita nel Nuovo Mondo: attraversare il pur-gatorio che porta all’accettazione dei nuovi modelli sociali e culturali e all’integrazione. Per riuscire vincitore alla fine di questo viaggio purgatoriale l’emigrato deve venir fuori dall’«ovatta», «togliersi di dosso i panni vecchi» e mettere quelli «nuovi», spezzare le proprie radici: «è quando lascia il proprio

  • Martelli, Venticinque anni di narrativa

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    paese che uno tradisce le proprie origini e capisce la vita». Per scrollarsi di dosso la «disgrazia» dell’essere emigrato, come dice uno dei personaggi de La giobba, «devi fare tutto … tutto, capite! … anche morire!».

    Come i Bandini e i Molise, protagonisti dei romanzi di John Fante, i perso-naggi di Pietro Corsi scommettono sul sogno italoamericano senza voltarsi no-stalgicamente indietro, ma senza neppure rinnegare il mondo delle radici, che rimangono sullo sfondo; ulissidi che mettono alla prova continuamente se stessi non per tornare ad Itaca ma per vivere e tornare nel mondo. Come acca-de ai personaggi di Ritorno a Palenche che consumano il tempo di vivere e non quello del tornare: un Messico sfondo di avventure esotiche, donne, sesso, violenze, il desiderio e il rischio di morte, appuntamenti mancati o realizzati col destino; una esplorazione ininterrotta di paesaggi reali e paesaggi interiori alimentata anche dalla memoria letteraria di Conrad, Graham Greene e dalle pagine di viaggio (Biglietto di terza) del suo sodale Rimanelli.

    Omicidio in un paese di cacciatori è, invece, tutto dentro il “ritorno” alle ra-dici molisane, riannodando i fili della memoria di quel tempo, gli anni cin-quanta, prima che la diaspora dell’emigrazione investisse lo stesso autore e a-limentasse la sua avventura nel Mondo Grande. La scrittura ha un taglio reali-stico coerente con l’opzione cronachistica del racconto, un episodio realmente accaduto a Casacalenda nel settembre del 1951: un omicidio inspiegabile che coinvolge tutti gli abitanti rompendo quel clima immobile del “paese sereno” di joviniana memoria. La rappresentazione del microcosmo paesano è realiz-zata da Corsi con una scrittura rapida e sintetica, che non cancella il tratto fa-bulatorio, il piacere del raccontare, la cui matrice è nella oralità del racconto familiare tradizionale o di quello sussurrato e sceneggiato nei luoghi di ritrovo. Nei fotogrammi della vita immobile del paese compaiono i primi graffi, i pri-mi segni provocati dall’emigrazione e dall’irrompere della nuova civiltà in un mondo il cui tempo ciclico è scandito dalle stagioni e rappresentato dal calen-dario di Frate Indovino, i cui “pensieri” con efficace simbolismo sono posti ad epigrafe dei capitoli del libro.

    L’adozione della tecnica del giallo non accosta il romanzo né al romanzo popolare né al giallo psicologico siloniano (Il segreto di Luca), ma è invece funzionale alla rappresentazione del climax in cui è coinvolta tutta la comu-nità del paese; l’omicidio interrompe lo scorrere sempre uguale del tempo in cui la comunità è immersa e la blocca nella fissità dell’evento in attesa dello scioglimento con la scoperta del colpevole.

    Il linguaggio è piegato efficacemente a ricostruire la partecipazione corale della comunità agli sviluppi del fatto delittuoso, nel quale ognuno può essere coinvolto in assenza di indizi certi. E sarà la comunità stessa a farsi carico dello scioglimento della vicenda grazie alla testimonianza di chi, uscendo da un comportamento omertoso e riaffermando i valori di solidarietà, porrà fine ad una spirale inesauribile di coinvolgimento. La scrittura, privilegiando la

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    forma del dialogo, traduce adeguatamente la dialogicità del racconto orale e la coralità e teatralità della rappresentazione; la sintassi e il lessico dialettale intervengono nei momenti di una comunicazione più immediata, familiare o comunitaria. Una scrittura che insieme agli innesti dialettali palesa la com-presenza dell’altra lingua, l’inglese, che da decenni è entrata nel patrimonio culturale ed espressivo dell’autore tanto che alcune locuzioni denotano una sorta di mentale traduzione dall’inglese.

    È fuor di dubbio che i due vertici della collana siano rappresentati dai ro-manzi di Francesco Jovine, Ragazza sola, e di Felice Del Vecchio, La chiesa di Canneto, usciti rispettivamente nel 1987 e nel 1997.

    Il romanzo di Jovine era apparso a puntate su “I diritti della scuola” tra ot-tobre 1936 e luglio 1937, rimasto sconosciuto poiché mai pubblicato in vo-lume – segnalato e analizzato da Eugenio Ragni nella sua monografia su Jo-vine (La Nuova Italia, 1972) – e approdato alla collana “Narratori” per meri-to di Francesco D’Episcopo che allo scrittore molisano aveva già dedicato un notevole impegno critico con la riedizione di Un uomo provvisorio e un cor-poso saggio sullo stesso romanzo (Marinelli, 1982), la curatela delle Com-medie inedite e Cronache teatrali (Longo, 1983) e altri numerosi interventi.

    Ragazza sola rappresenta un tassello importante della prima stagione dello scrittore molisano che si colloca tra la fine degli anni venti e gli anni trenta, di cui il romanzo Un uomo provvisorio, apparso nel 1934, è il testo più em-blematico. Ed a questo romanzo rinvia Ragazza sola per il nucleo ideologico intorno al quale si aggregano gli svolgimenti narrativi: la ricerca di una “sin-cerità” e “moralità” dell’arte piegata alla realtà; il contrasto città-provincia, città-campagna, la condizione borghese ritratta nella estraneità e solitudine della società urbana e nella disintegrazione dei suoi interni familiari; l’intellettuale di provincia incapace di impegno progettuale, scisso tra fuga e ritorno, fra modernità e natura fino a precipitare nell’inettitudine. Tematiche che avevano trovato già rappresentazioni letterarie negli anni venti: Rubè (1921) di Borgese, L’uomo nel labirinto (1928) di Alvaro, Gli indifferenti (1929) di Moravia e che Jovine ripropone con un percorso e soluzioni narra-tive originali che rivelano una forte sollecitazione ad uscire da una pratica intellettuale autoreferenziale.

    Il ritorno alla provincia di Giulio Sabò, protagonista di Un uomo provviso-rio, con una reimmersione nel suo habitat antropologico fino a «restituire il cervello alla terra» – che richiama il «desiderio di dissolversi nella sua terra» del protagonista de L’uomo nel labirinto di Alvaro – disegna, pur tra molte ingenuità e cadute ideologiche e stilistiche, un percorso autentico, non più autoreferenziale, malato di intellettualismo, cerebralismo, ma che va ad in-contrare la condizione umana calata nella geografia e nella storia.

    È lo stesso percorso di Livia Dolegani, la protagonista di Ragazza sola: maestrina che dalla provincia è approdata in una famiglia dell’alta borghesia

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    romana come istitutrice e segretaria; una famiglia che ha in sé i germi di una corruzione alimentata da assenza di affetti e da indifferenza morale, via via precipitata in stazioni inevitabili di disintegrazione: fallimento economico e arresto del capofamiglia, morte della moglie, destino negativo verso il quale sono incamminate le due figlie. La fine del fidanzamento di Livia con il se-gretario del suo padrone di casa sembra rientrare nella deriva di un mondo dal quale Livia “si salva” – Uno che si salva è il titolo di un racconto jovi-niano degli anni quaranta che riprende la stessa tematica – abbandonando la città e andando ad insegnare in provincia. Qui Livia verrà a contatto con una realtà ed una umanità che vive i suoi giorni in una condizione non adulterata e con altri modelli comportamentali che le trasmettono certezze e valori pri-ma non conosciuti o dimenticati. Non certo la piccola borghesia di provincia, gretta e chiusa nel suo ristretto orizzonte, ma il mondo contadino portatore di un diverso circuito tra parole e natura, che si riversa nell’autenticità dei rap-porti umani, l’aiuta a ritrovare se stessa, fiducia negli altri ed un senso allo scorrere dei giorni. Questa conquistata nuova dimensione esistenziale le con-sente di tornare in città e ritrovare anche l’amore del fidanzato abbandonato, ora purificato dall’esperienza dolorosa della malattia; un finale che lascia perplessi e che rientra in quella incertezza non solo ideologica ma anche let-teraria in cui Jovine si muove ancora a metà degli anni trenta, che non gli e-vita di inciampare in soluzioni narrative da romanzo rosa, come nel finale, o nel populismo con cui costruisce alcuni personaggi del mondo contadino.

    La compresenza in Ragazza sola di modelli romanzeschi e di stili diversi – non solo i citati Borgese, Alvaro, Moravia, ma anche D’Annunzio, Pirandel-lo, Bontempelli – che già in Un uomo provvisorio aveva alimentato una me-scidanza spesso anche artificiosa, qui trova in qualche modo una riduzione, una semplificazione grazie ad un privilegiamento della dialogicità che sosti-tuisce gli iterati monologhi di Giulio Sabò. Una riduzione cui non è estranea la rivista destinataria del romanzo a puntate, “I diritti della scuola”, una rivi-sta per i maestri, al cui orizzonte di attesa risponde anche la scelta del perso-naggio della maestra e della sua esperienza in una scuola di campagna. Un tema, quello della condizione della classe magistrale, assai dibattuto dentro e fuori la scuola post-unitaria e che aveva trovato anche significative rappre-sentazioni narrative già a fine Ottocento, basti citare Scuola normale femmi-nile (1886) della Serao, Il romanzo di un maestro (1890) di De Amicis e Pa-ria moderno (1895) del molisano Berengario Amorosa; un uomo di scuola come Jovine fa rientrare anche questa condizione nel suo percorso di avvici-namento alla realtà e alla storia, che approderà di lì a qualche anno al grande affresco di Signora Ava.

    Con il recupero de La chiesa di Canneto la collana mette a segno un colpo importante per diverse ragioni: un romanzo di notevoli qualità letterarie che al suo apparire da Einaudi nel 1957 aveva riscosso molti apprezzamenti dalla

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    critica e aveva vinto il premio Viareggio “Opera prima”. Ma poi del roman-zo si perde la memoria, non resta traccia neppure nelle minuziose ricostru-zioni della storia letteraria novecentesca fatte da Manacorda e Spagnoletti; il fatto è che con il romanzo è scomparso anche l’autore, la cui vicenda esi-stenziale ed intellettuale è riemersa dal silenzio grazie alla riedizione del suo primo ed unico romanzo. Felice Del Vecchio rappresenta un caso unico nel panorama della letteratura italiana degli ultimi cinquant’anni, un autore che con le sua opera prima aveva rivelato una scrittura di straordinaria qualità: distante dai modelli neorealistici e naturalistici meridionali e che alla manie-ra del Cristo si è fermato a Eboli di Levi incrocia il dettato saggistico con quello narrativo ma con un filtro lirico di grande originalità.

    Le potenzialità evidenziate dal romanzo e il suo successo di critica lasciava-no presagire una carriera letteraria di lungo corso ed invece l’autore si perde, travolto da una crisi intellettuale ed esistenziale che non credo fosse generata solo dal diverso abbrivio che la Storia aveva imboccato rispetto alla rivoluzio-ne comunista, in cui Del Vecchio aveva creduto insieme agli operai pisani mentre frequentava la Normale, e poi con i contadini molisani percorrendo campagne e paesi impegnato nelle dure battaglie politiche dei primi anni cin-quanta. Si perderà nella nebbia di Milano dividendo le sue giornate tra l’insegnamento nella scuola secondaria per sopravvivere e la biblioteca Sor-mani dove consuma ore ed ore a leggere testi sul marxismo, sull’URSS e sulla lotta di classe inseguendo con maniacale dedizione le ragioni del “Dio che è fallito”. Per tutti questi motivi la riedizione de La chiesa di Canneto rappre-senta un evento per la cultura regionale e nazionale. Il romanzo è una densa ricostruzione memoriale autobiografica di notevole «sapienza stilistica» (Ca-ses), cui il giovane Del Vecchio comincia a lavorare nell’inverno tra il 1953 e il 1954, dopo l’abbandono dell’impegno politico militante, chiuso in una sof-fitta gelida del centro storico di Campobasso e nelle altrettanto fredde stanze della Biblioteca Provinciale “Albino”. Lì si materializza un percorso memoria-le nei luoghi della sua infanzia, la valle del Trigno, Roccavivara, la chiesa di S. Maria del Canneto, la pieve romanica dello zio prete che lo aveva cresciuto e fatto studiare; una discesa nella memoria totalmente distante da qualsiasi ab-bandono nostalgico che si dispiega invece come riscoperta della realtà e della storia, come «interrogatorio morale» (Niccolò Gallo); realtà, quella del paese, assorbita dallo sguardo del ragazzo e riletta dentro di sé con le lenti del norma-lista e del militante che ha consumato una immersione profonda nel corpo del-la civiltà contadina molisana, stretto fra atavico immobilismo e nuove lacera-zioni, a cominciare da quelle causate dall’ultimo grande esodo migratorio.

    Il paese, la comunità entrano nella scrittura attraverso un vettore che si ali-menta alla condizione e sospensione prerazionale infantile e contestualmente alla coscienza e comprensione dell’adulto; una «concezione proustiana della memoria per cui il marginale-infantile, schiudendo […] il senso dell’atempo-

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    ralità meridionale, diventa una forma di conoscenza a sé, o addirittura […] un criterio ermeneutico superiore per intendere anche la realtà matura» (Cesare Cases). Attraverso un insistito utilizzo della descrittività e della dissolvenza, in originalissima simbiosi, la scrittura deposita nel racconto un’«atmosfera statica ed estetica», una intensa evocazione lirica, che traducono l’immobilità del mondo contadino senza mai emarginare i «piani di coscienza». Il ragazzo io narrante protagonista, in questa atmosfera in sospensione che la scrittura or-chestra con grande densità e perizia stilistica, diventa contenitore e specchio di un mondo che palesa segni indelebili del suo crepuscolo: vicoli deserti, mura screpolate, vani e finestre aperte di case vuote della piccola borghesia ormai oggetti e segni di un passato familiare, forse potente, ma ora consumato, di-sperso, divenuto labile ombra e che si affianca, senza più distinzione, alle mu-ra, agli oggetti, ai segni contadini del paese. Le pietre, in cui è «celata la storia del paese», passate dalle mani dei contadini a quelle dei signori nel tempo lun-go della storia, ritornano nelle mani dei primi quando le mura di quelle case cominciano a sfaldarsi, ad andare in rovina ed essi le riutilizzano per alzare le mura delle proprie case, ma sono pietre «porose come spugna, imbevute di calcina e di fatiche» sicché le case dei contadini sono «ugualmente confuse e pericolanti» come quelle in rovina dei galantuomini.

    Dunque, tutto accomunato sul limitare del grande crepuscolo della civiltà contadina meridionale: la fine di quel mondo è ineluttabile, la dialettica sto-rico-sociale marxiana con il passaggio del testimone da una classe all’altra – in cui il normalista militante comunista aveva creduto – qui non può realiz-zarsi, tutto è come unificato dando l’immagine di un paese «monumento di cose mancate». Il ragazzo io narrante si muove in questo paesaggio segnato da un tramonto irreversibile, epocale, da cui provengono segni e colori di cui solo la scrittura può fissare la memoria consentendone la sopravvivenza; la scrittura diventa sequenza di una vita còlta nella sua staticità ed immobilità, testimone di un tempo senza sviluppo ed insieme del senso della fine di un mondo precipitato in un «imbuto […] scavato sotto il paese» impossibile da tirare su alla luce del nuovo giorno della modernità.

    Da quell’angolo del Molise, microcosmo della più vasta vicenda del Mez-zogiorno, proprio quando sembrava poter uscire dalla leviana “non storia”, in cui per secoli era stato immerso, l’onda del tempo nuovo che lo sta travol-gendo lascia solo «un fondo sfigurato, quasi informe». Al ragazzo protagoni-sta, che per radici, coscienza e destino ne è dentro e fuori, quel mondo sem-bra affidarsi per una estrema testimonianza della lunga durata della sua non storia e del tempo acre e malinconico del suo tramonto.

    La riproposta de La chiesa di Canneto ha favorito l’apertura dei cassetti dello scrittore e il recupero di un racconto lungo che con il titolo Il nido di pietra (2002) è apparso nella stessa collana. È un testo che dopo qua-rant’anni riparte, con un concentrato percorso autobiografico, proprio dal

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    tempo e dai luoghi del primo romanzo: Roccavivara, che nel racconto è “il paese”, arroccato sulla montagna come un «nido di pietra» che l’emigrazione va spopolando giorno dopo giorno.

    Qui l’io narrante ritorna dopo una deludente esperienza nella capitale, atta-nagliato da una crisi politico-ideologica, causata dal rapporto Kruscev e dall’irrompere della destalinizzazione, che si trasforma via via in una più complessiva crisi esistenziale: «non riuscivo a capire neppure quello che sta-va capitando a me stesso»; nel paese che si va spopolando il giovane prota-gonista trascorre alcuni mesi senza riuscire più a dare un senso, una prospet-tiva ai suoi giorni. Suo unico interlocutore è don Giustino, l’anziano prete che aveva consumato la sua vita in paese dopo aver rinunciato alla prospetti-va di lavorare a Parigi; ma questa rinuncia, che gli aveva procurato rimpianto e sofferenza, non gli aveva impedito di svolgere con grande dignità, dedizio-ne, tolleranza, la sua missione sacerdotale ricambiato dal rispetto e dalla so-lidarietà dei contadini.

    Il protagonista trascorre lunghe ore accanto a don Giustino malato, che gli rivela pagine segrete della sua vita, dai suoi rapporti col modernismo ad un suo amore contrastato, al desiderio di abbandonare il paese, alla rinuncia la-sciandosi ingoiare dai giorni sempre uguali in quell’angolo di mondo. La morte dell’anziano parroco accelera la decisione del protagonista di abban-donare il paese: si sentiva «afferrato […] da un proposito disperato di fuggi-re, di andare a prendere un treno alla cieca per chissà dove». E un mattino all’alba sale su una corriera che lo porterà a Pescara e di qui a Zurigo, a lavo-rare come tanti emigranti che in quegli anni avevano abbandonato un paese senza futuro; solo altrove avrebbe «potuto lavorare, vivere, capire».

    Come si vede, il racconto concentra consistenti segmenti autobiografici: la parentesi romana, la crisi ideologica e politica, il ritorno in paese, la figura di don Giustino che ripropone diversi tratti di don Duilio Lemme, zio di Del Vecchio, parroco di Roccavivara cui si deve il recupero e la valorizzazione della chiesa romanica di S. Maria di Canneto; una figura straordinaria cui nel 1980 Del Vecchio aveva dedicato un profilo biografico denso di affettuosa riconoscenza e gratitudine per quello che aveva significato nella sua vita.

    Del Vecchio con questo racconto ha tentato di riannodare i fili spezzati do-po la pubblicazione del primo romanzo; è tornato a fare i conti con quel mondo dell’infanzia, quel microcosmo del paese attraverso il quale aveva percepito e rappresentato il grande crepuscolo, ma da quel mondo ormai quasi desertificato non riesce ad avere alcuna risposta né ai suoi tormenti in-tellettuali e politici né a quelli esistenziali; esso alimenta solo un bisogno di fuga: «il paese ci stava di fronte e mi doleva il cuore a guardarlo, sopra quel catafalco di terra della montagna».

    Il racconto concentra un vissuto ed uno spettro di rovelli intellettuali ed e-sistenziali che per oltre quarant’anni hanno accompagnato la vita dell’autore

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    giorno per giorno e che non trovano, e forse non potevano trovare, gli svi-luppi narrativi che ci saremmo aspettati. La risposta ultima probabilmente va cercata tra le pagine della biografia di don Duilio Lemme, lì dove Del Vec-chio accenna a quella «ambizione non soddisfatta», a quella rinuncia che come un’«ombra» lo aveva tormentato per tutta la vita, la stessa che ritro-viamo nel don Giustino del racconto: «in realtà se si è vissuti in un certo modo, vuol dire che così e non altrimenti si doveva vivere, che quello e non altro doveva essere il corso della propria vita, il proprio destino, come si usa dire: il resto è ombra vana anche se angustiosa, nient’altro che ombra».

    Per questo al racconto non possiamo neppure chiedere il recupero di quella originale scrittura evocativa del primo romanzo, di cui solo in qualche rapido scorcio ritroviamo l’eco: «la sera della vigilia mi aggirai sino a tarda ora per le vie, lungo i sentieri scavati nella neve, tra le case, dalle quali trasparivano le luci […] Le campagne, gli alberi, le macchie dei ginepri, degli agrifogli sulla costa della montagna, tutto sembrava posare e attendere in un silenzio assorto misterioso». O come nel finale quando il protagonista lascia definiti-vamente il paese: «Superata l’ultima curva della circonvallazione, il paese, che prima stava alle spalle, mi si parò davanti. E mentre guardavo quel nido di pietra dov’ero nato e cresciuto, mi accorsi che le lampadine accese ai canti delle case diventavano come tante gocce tremule di luce e mi coprii gli occhi con le mani per non far vedere che si erano riempiti di lacrime».

    La collana “Narratori” con i suoi ventotto volumi offre un ricco ventaglio di modelli che fanno riferimento all’evoluzione della narrativa otto-novecentesca, a volte con soluzioni che, contaminando diversi modelli, pervengono a risultati nuovi. È il caso de La “sdrenga” (1989) di Giuseppe Jovine, in cui l’autore ri-scrive racconti popolari anonimi di un’area del Basso Molise; la trascrizione è in dialetto con a fronte la traduzione in lingua. Questa operazione risponde ad una convinzione di lungo tempo dell’autore, messa in atto anche in poesia – Lu pavone (1970); Chi sa se passa u’Patraterne (1992), pubblicati dallo stesso editore – che il dialetto e la cultura popolare hanno in sé una valenza letteraria che consente loro di confrontarsi con la tradizione colta egemone, sia classica che moderna; che il dialetto può e deve piegarsi a tutti i registri, l’elegiaco, il picaresco, l’ironico, il grottesco, il surreale fino a toccare lo sperimentalismo novecentesco. È nella reinvenzione linguistica che si recupera la forza origina-ria della vita e della morte, dell’eros, degli uomini e degli animali, dei paesaggi, degli oggetti. E questi racconti popolari anonimi proprio attraverso la reinven-zione linguistica dialettale, che «conserva una sua magia fonica e un suo vigore espressivo esemplari», evidenziano la «capacità creativa o reinventiva» dei rac-contatori popolari. Quello che interessa a Jovine non è l’identificazione degli archetipi, dei modelli originari quanto piuttosto «la capacità di manovra posse-duta dal raccontatore popolare, del meccanismo narrativo e l’attitudine a modi-ficare e adattare i testi […] di variare e reinventare i materiali narrativi».

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    Un materiale narrativo che evidenzia una continua contaminazione, intera-zione e integrazione fra cultura egemone e cultura popolare delle classi su-balterne, che lungo lo scorrere dei secoli attraversano le civiltà spesso sca-valcando confini e barriere nazionali e continentali. I racconti “realistici” popolari che nel Molise, a differenza di altre regioni, non hanno trovato nella stagione positivistica e neppure in epoca successiva raccoglitori e editori, trovano qui una loro riscrittura consapevole: proprio i materiali narrativi del-l’area “realistica”, della facezia fescennina, licenziosa, più che altri esaltano il ruolo del raccontatore popolare che amplifica le possibilità di assimilazio-ne e reinvenzione mescidando contenuti e variazioni di diversa provenienza, sia della cultura egemone che di quella subalterna tanto da coinvolgere reli-gione e sessualità, magia e scienza, teologia e filosofia. La sessualità, l’ero-tismo popolaresco, che veicolano quasi ossessivamente gran parte di questi racconti, rinviano a una condizione non solo dei ceti popolari, di repressione sessuale che non era dettata solo dalla morale religiosa ma anche da motiva-zioni storiche, sociali e culturali e, come avviene anche nella letteratura cól-ta, da una «funzione catartica e teatralizzante» che si esplica attraverso la fa-cezia, il paradosso, la malignità ridanciana o l’«agrezza di una giocosa e immaginosa maldicenza».

    È impensabile che un uomo possa spendere tutta una vita per i libri facendo l’editore in una realtà difficile – che non garantisce risultati certi e costringe a vivere sul filo del rischio – se non ha una passione forte per i libri non solo come oggetto ma come compagni di idee, storie, memoria, immaginario. Enzo Nocera, con la sua caparbia e spesso solitaria avventura editoriale lungo oltre un quarantennio, è una conferma di questo assunto. Ad esplicitare ancora me-glio il suo rapporto con la scrittura è il romanzo Il Lunario dell’Osteria, appar-so in questa collana nel 1999: un affondo nelle memorie sommerse dell’in-fanzia trascorsa a Bojano tra la seconda metà degli anni trenta e i primi anni quaranta. Un’infanzia vissuta nell’osteria di nonna Marietta nel centro storico della città diventata uno spazio-tempo totale e così trasferita nel libro tanto che attraverso di essa è ricostruito tutto il vissuto dell’io narrante, la sua scoperta della realtà di quel mondo ancora tutto dentro la civiltà tradizionale. L’osteria non è solo lo spazio familiare in cui troneggia nonna Marietta con la collabo-razione delle tre zie vergini ma è il “foro” dove quotidianamente si rappresenta la vita sociale, usi, costumi, mentalità della comunità paesana e di quella del circondario. Il cibo, la filiera degli alimenti che esaurisce tutta la gamma del conoscibile – piuttosto nutrita nella realtà di una cittadina commerciale, punto di confluenza dei prodotti e della gastronomia del circondario – rappresenta il vettore con il quale l’autore-regista costruisce una straordinaria rappresenta-zione di quel mondo: personaggi, avvenimenti, stagioni, usi, costumi, riti, fe-ste, santi, credenze popolari, magie, leggende, superstizioni, paure e pratiche ancestrali tutto si concentra in quell’universo dell’osteria rimasto impresso

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    nella memoria onnivora e fertile del bambino, che oggi adulto trasferisce nella scrittura con straordinaria simpatetica capacità.

    Anche in quel microcosmo passa la Storia e nei fili della memoria riman-gono le immagini del Fascismo, dell’«Impero in provincia» – per dirla con Jovine – e poi del tempo di guerra quando proprio l’osteria diventa luogo privilegiato per conoscere e capire bisogni, miserie, fame, solidarietà di un tempo ancora più difficile.

    Libro «stupendo» lo definisce Giose Rimanelli nella bella introduzione, in cui giustamente insiste sulla tipologia della memoria dell’autore che rende la fisici-tà di quel mondo dell’infanzia, una memoria che la scrittura riesce a «far rivive-re e riaccendere». Una scrittura piana, comunicativa – che ha messo a frutto an-che l’esperienza giornalistica di Nocera – conduce abilmente l’inventario an-tropologico di un mondo ormai cancellato, cui vocaboli e locuzioni dialettali danno pregnanza e fisicità. Gli studiosi di storia dell’alimentazione e di antro-pologia troveranno in questo libro un repertorio lussureggiante di cibi, ricette, usi e costumi alimentari, segmenti di una rappresentazione che scorre come una vecchia pellicola che proietta non solo immagini ma odori e sapori di un mondo scomparso. Una scrittura che sa assumere e gestire diversi toni e modulazioni, un’evocazione che ha come imprinting la leggerezza, capace di concentrare i-ronia e pathos. Il lettore non può non provare piacere e simpatia nella lettura di questo romanzo-memoriale: lasciarsi prendere dalla figura di nonna Marietta con le sue vesti leggere indossate al di sotto della più pesante veste di panno, che ricopriva anche la borsa di stoffa «piena di monete sonanti, attaccata alla cintola». E le zie vergini con la loro dignità di una vita non vissuta, e poi il bambino io narrante, che in quell’osteria ha assorbito tutto con la curiosità dello sguardo infantile che l’adulto è riuscito a conservare insieme al desiderio-necessità di ricordarlo e di riviverlo.

    Un percorso memoriale che non poteva non chiudersi con le immagini di nonna Marietta sul letto di morte, mentre il bambino si aggira solo nell’osteria dove regna il silenzio: «Fuori c’è la neve, anche lei mi pare fatta di neve, ma è diversa, questa, una neve che allucina ma che non si riflette sulle azzurrate vetrine dell’osteria […] Una mosca “invernale” si attarda at-torno all’ultimo calore della cenere nel camino di nonna Marietta, e adesso so che più nulla, più nulla potrà riscaldare il mio cuore».

    Se Enzo Nocera rivisita la memoria di un Molise scomparso focalizzando il racconto sul piccolo universo familiare e comunitario dell’osteria, per Anto-nio Andriani (La corriera di zio Amos, 2004) è invece la corriera a concen-trare la memoria del Molise degli anni cinquanta. Lungo le strade ancora bianche e polverose, quel lento ippogrifo accumula immagini che rinviano a segni e simboli di un passaggio epocale: la promiscuità affollata degli stu-denti che dai paesi sciamano verso le scuole dei centri maggiori; la nuova mobilità di contadini e artigiani; il mescolarsi di generazioni e classi sociali,

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    di mentalità, costumi, modelli comportamentali. Insomma il racconto di quei viaggi lungo le polverose strade molisane in cui cominciavano a disegnarsi i destini delle nuove generazioni ed insieme con esse i cambiamenti che di lì a poco avrebbero scosso il tempo lento della società molisana.

    Per Antonello Carlone (A caccia col padre, 2005) è lo spazio-tempo della caccia ad alimentare immagini e impressioni di un Molise più recente, assorbi-te dall’occhio di chi, come l’autore, vive la passione della caccia quale occa-sione di un diverso rapporto con la natura, di ricerca di nuovi equilibri umani e ambientali, di affermazione di valori da trasmettere alle nuove generazioni.

    In coerenza con l’impostazione progettuale la collana ha accolto una narra-tiva che privilegia la rappresentazione di momenti, personaggi, ambienti del-la storia regionale, dunque una caratterizzazione storico-geografica che ov-viamente trova esplicazione soprattutto in alcuni generi e modelli narrativi, come il racconto a forte connotazione autobiografica e il romanzo storico, che infatti risulta assai frequentato. C’è da aggiungere che nel corso dell’ulti-mo ventennio tutto ciò è risultato in sintonia con quanto è avvenuto in campo nazionale, dove abbiamo assistito a frequenti riprese del romanzo storico, che si è confermato come uno dei generi di più lunga frequentazione anche nella letteratura dell’ultimo secolo, dopo le stagioni ottocentesche del ro-manzo storico e di quello realista e verista.

    Nel Medioevo ci riporta Federico Di Bartolomeo con La morale del barbaro (2000): un Molise al tempo dei Normanni, epoca fondativa di alcuni segmenti della sua identità, terra di conquiste e di scambi tra monarchie e feudatari dell’Europa, attraversata da cavalieri, conti, religiosi, nobili; un paesaggio na-turale con presenze di castelli, villaggi, città, monasteri che hanno segnato la storia della regione: Faifoli, Bojano, Castropignano, Montagano. Uno spazio-tempo che l’autore rende con una intelaiatura storica credibile, in cui si sciol-gono avventure, drammi, passioni, e con una opzione strutturale dove è del tut-to abolito il discorso diretto. Una soluzione funzionale ad un racconto piegato ad un “cunto” storico, cui il discorso diretto potrebbe sovrapporre una più ac-centuata invenzione ed un linguaggio alieno rispetto ai modelli mentali e com-portamentali che il discorso indiretto libero vuole rappresentare.

    Una forma narrativa che solo in parte l’autore aveva già sperimentato nel suo primo romanzo, Caprannunzio (1990), anch’esso da assegnare al genere ro-manzo storico: infatti ripropone una tra le pagine più note del brigantaggio molisano post-unitario, quella di Nunzio Di Paolo, detto “Caprannunzio”. Un racconto che non si limita alla cronaca e alla fedeltà di ambientazione di quella «cupa, disperata, nera epopea», per dirla con Carlo Levi, che fu il brigantaggio anche nel Molise e che l’autore tiene a sottolineare – come dimostra la “nota” archivistica posta in appendice – ma riscrive narrativamente situazioni e per-sonaggi: emblematico il personaggio di Dora, donna del brigante protagonista, in linea con il modello del romanzo brigantesco otto-novecentesco.

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    Questo ricco repertorio di narrazioni ci consente di attraversare quasi tutta la geografia, la storia, le comunità, l’umanità, la dimensione antropologica e quella culturale che insieme hanno via via costruito il Molise e la sua identi-tà: dalla Bojano degli anni quaranta, tra memoria dell’infanzia, nostalgia e immaginario dell’età matura, di Vincenzo Venditti (Verde la mia valle, 2002) alla costa termolese degli anni trenta di Franco Cannarsa (Il Maria Madre, 1986), in cui con toni verghiani l’autore intreccia storie di «cafoni di mare» che l’avvento del progresso mette in crisi e che insieme ai paesaggi della Storia alimentano svolgimenti drammatici rimasti impressi nella me-moria della comunità e in quella dello scrittore. Una sorta di «Fontamara su-gli scogli non meno aspra e avara di quella tra i monti della Marsica», come scrive nella Prefazione Michele Altieri.

    Fotogrammi di altri luoghi del Molise – in questo caso Duronia – sono pro-posti da Umberto Berardo in Storie di vita (2004): con una scrittura molto in-certa tra ricostruzione saggistica e invenzione narrativa, tra autobiografia e immaginazione, l’autore realizza un’«antologia di vita» – come scrive Leo Leone nella Presentazione – piccoli quadri in cui vengono fissati volti e situa-zioni che hanno segnato la vita del paese e la propria. Storie di miseria e di ri-scatto, di fughe e di ritorni, di malattia e di morte, come quella dei trentasei emigrati di Duronia che nel 1907 rimasero sepolti nella miniera di Monongah (West Virginia): la più grande tragedia mineraria degli Stati Uniti, costata la vita a circa mille lavoratori, la metà provenienti dall’Italia meridionale.

    Fotogrammi di Casacalenda sono invece concentrati nei racconti brevi di Lino Di Stefano (Storie Kalenesi, 2001): bozzetti con i quali l’autore vuole dare testimonianza di tradizioni, feste, usanze, riti, scorci della vita del pae-se, di cui chi come l’autore ha potuto registrarli nella memoria in quell’ulti-mo tempo, gli anni cinquanta, prima della loro scomparsa o degrado consu-mistico, vuole lasciare traccia rievocandoli «con la maggiore aderenza, ai fatti, possibile».

    Una scrittura tutta “al femminile”, scevra da proclamazioni ideologistiche, ma innervata in ogni piega della narrazione, ritroviamo in Storie domestiche (2000) di Mena Mascia: storie che alternano pubblico e privato, racconti in-tercalati da lettere alla nipote, privilegiata interlocutrice cui raccontare frammenti del passato e con essi intraprendere un viaggio nella vita, quella familiare e quella nel mondo grande. Un incontro tra generazioni per tra-smettere non semplicemente immagini, memorie, nostalgie, ma piuttosto il valore della conoscenza del passato, il desiderio di comunicare e la capacità di ascoltare gli altri, il senso della vita, uno “sguardo” sul mondo tanto più sensibile e penetrante in quanto rivolto da chi, come l’autrice, ha dovuto so-stituire gli occhi con la parola e l’immaginazione.

    Lo spettro di esperienze autobiografiche presenti nella collana si arricchi-sce ulteriormente con Viaggio nella memoria (2005) di Michele Morelli: un

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    diario su tre anni di vita militare (1943-1945) di cui due di prigionia e depor-tazione in Polonia e in Germania. Il fatto che queste memorie, apparse po-stume, siano affidate alla scrittura oltre trent’anni dopo non le depriva di au-tenticità e immediatezza, del valore di testimonianza umana e storica: si ve-dano soprattutto le pagine sull’8 settembre 1943 quando l’esercito italiano «fu lasciato allo sbaraglio, alla mercè di tutti», e poi quelle sul lungo viaggio della deportazione e del periodo nel lager, dove ogni «sentimento di dignità» è cancellato e la vita «la si sentiva intensamente come un sentimento mala-to». Memorie affidate ad una scrittura «sobria, controllata, piana» – come nota Michela D’Alessio nella Prefazione – che non disdegna lessico ed im-magini della tradizione classica che insieme al «senso della misura», alla di-screzione, al controllo di sé e della parola fanno parte di una dimensione ge-nerazionale, personale e culturale.

    Il fantastico popolare impregna i racconti di Leonardo Tartaglione in Oltre la collina (1997), una silloge che era stata preceduta nella stessa collana dall’altra, La sedia a dondolo, con Prefazione di Giuseppe Jovine, apparsa nel 1981. Una geografia non molisana: si tratta della confinante Daunia pu-gliese, non distante anche da un punto di vista storico, che rappresenta un’umanità di paesi in cui l’avvento della modernità non ha cancellato le stratificazioni antropologiche della civiltà contadina ma le ha contaminate, destrutturate con altri modelli di vita, mentalità, immaginario. Nell’ultima raccolta, superstizioni, magie, mitologie, premonizioni, paure ancestrali at-traversano il vissuto di uomini e donne anche dei paesi odierni, materiali di deriva della civiltà e della condizione contadina che entrano in commistione con altri, tipici della modernità, a cominciare dalle nuove malattie, nevrosi, depressione, come nel racconto che dà il titolo alla raccolta. Una tematica di grande interesse che rientra in quella “crisi della presenza” che Ernesto De Martino aveva indagato nel Mezzogiorno dell’immediato dopoguerra e che nella sua ultima opera, postuma, La fine del mondo, aveva prolungato e rilet-to anche nella condizione moderna all’incrocio di vecchie e nuove paure, spaesamenti, straniamenti. Un «abbassamento di tono», una meno program-matica esaltazione di mitologie popolari, e una più vigile scelta dei registri stilistici avrebbero giovato alla narrazione di Tartaglione, come giustamente nota il prefatore Giovanni Mascia.

    Sia pure con una scrittura che fuoriesce dal canone della narrativa, Arcangelo Pretore nei dodici racconti di Le emozioni del cuore le ragioni della mente (1998) affronta un problema nodale, che in forme diverse è sotteso a molte delle narrazioni proposte nella collana: raccontare la lunga durata della civiltà tradizionale, realizzare una topografia narrativa di uomini e comunità che han-no fatto la storia e la non storia della regione; raccontare il loro rapporto con il mondo altro, quello oltre i confini; e poi l’avvento della modernità con i pro-cessi di cambiamento che nel secondo dopoguerra aprono varchi e stravolgi-

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    menti anche nella società molisana. Non è un caso che in molti racconti e ro-manzi siano gli anni cinquanta ad essere privilegiati come sfondo della narra-zione. Infine il tema del rapporto tra antico e moderno, tra la società regionale odierna e quella del passato, quale recupero della storia, della cultura, dei valo-ri del passato rappresentare che non si traduca in una nostalgica mitizzazione o in una falsificazione. Con quale strumentazione letteraria e ideologica lo scrit-tore contemporaneo, dalla postazione regionale, può raccontare la mutazione antropologica che è avvenuta nella società molisana, veicolata dalla civiltà consumistica e massmediatica, soprattutto televisiva, come raccontare la incer-ta o mancata sintonizzazione su modelli di modernizzazione che hanno incar-nato “uno sviluppo senza progresso”, direbbe Pasolini.

    Gli scrittori della prima metà del Novecento si sono cimentati con il tema della modernità e in questa collana, come abbiamo visto, vi sono due esempi, Jovine e Del Vecchio, che hanno rappresentato due segmenti significativi: città-campagna, civiltà urbana-mondo contadino, il crepuscolo della civiltà contadina, con una consapevolezza e comunque con una tensione che rara-mente ha ceduto al mito e alla nostalgia. Cosa che non sempre accade nelle proposte narrative raccolte in questa collana.

    Le riflessioni raccontate da Arcangelo Pretore – più saggio di natura socio-logica e antropologica che opera letteraria – sono dettate da una sincera scis-sione di vissuto tra antico e moderno, frutto anche di una diretta esperienza della città, l’hinterland milanese, dove l’autore, facendo l’insegnante, ha co-nosciuto e sperimentato gli aspetti negativi dell’industrializzazione e della concentrazione urbana all’origine di un’alienazione che costituisce il nuovo dna della condizione moderna. L’autore in questo libro si fa «cantore del mondo contadino» contrapponendolo «in modo distonico ed apodittico alla brutalità del presente», come scrive Cloridano Bellocchio nella puntuale Prefazione: un passato «sinonimo di tutti i valori che il mondo tecnologico o industriale nega o distrugge», rischiando così di cadere «verso un ideale mi-tico/arcadico, nell’idealizzazione di un eden contadino che nella realtà dei fatti non è mai esistito». Se è vero che l’avvento della modernità tecnologica e industriale ha significato lo stravolgimento e la cancellazione di paesaggi, saperi, storia, cultura, di lacerazioni sociali e umane, la soluzione non è nel ritorno ad una civiltà che non è mai stata «oasi di libertà, di autenticità, di rapporti felici», stretta com’era tra bisogno e controllo sociale. Piuttosto oc-corre saper rivisitare quel mondo con un approccio culturale vigile e nello stesso tempo capace di recuperarne e rappresentare immagini, storie, testi-monianze, come pure occorre sintonizzarsi su un diverso rapporto tra natura e cultura, tra le quali la modernità ha operato una frattura profonda su cui il libro di Pretore avanza conclusioni e scenari apocalittici.

    Ma c’è anche chi, come Duccio Mancini (Cavalli a Mandorla, 1991), il contrasto natura-cultura, campagna-città, antico-moderno lo risolve con uno

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    scarto fantastico, proiettandolo in un Oriente «immaginifico e irreale», im-pregnato di taoismo e zen, dove samurai e cavalli vivono quasi in simbiosi. La costa termolese si prolunga verso questo universo fantastico, il solo dove sia possibile vivere quel niente, «spirito della vera azione» – come scrive Rimanelli nella Prefazione – in cui si sublimano il desiderio della lentezza, della natura, dell’avventura, dell’amore.

    Anche Giovannino Cornacchione in Goggiola (2002), postfazione di Gian Mario Fazzini, trova nelle filosofie e nelle arti orientali un cammino possibi-le verso la gioia di vivere, una ricerca che incrocia l’afflato della natura, le epifanie dell’infanzia, il senso della morte.

    Non manca nella collana neppure il genere romanzo «investigativo», La leggenda di Ripa di Malpasso (2003): un poliziesco ambientato nell’Alto Molise scritto da Luigi Cortellessa, colonnello dei carabinieri, frutto chiara-mente della sua esperienza quale comandante della Tenenza di Agnone. Il protagonista è un giovane tenente dei carabinieri che, come il capitano Bel-lodi de Il giorno della civetta di Sciascia, si trova a indagare su un delitto – in questo caso la morte misteriosa di una donna – dovendosi confrontare con le chiusure, le diffidenze, le omertà della gente del posto. Il senso dello Sta-to, la laicità, l’utopia, che improntano le sue azioni, pongono il protagonista in contrasto con l’ambiente locale, ma fanno emergere anche la giustezza di un approccio diverso alla realtà che consente di dare soluzione a vicende o-scure e di illuminare la differenziata composizione umana e sociale della comunità; un racconto che privilegia molto il dialogo, che risulta «la parte più felice» del libro, come scrive Roberto Gervaso nella Presentazione.

    Nella collana compare anche il romanzo di un autore che con il Molise non ha nulla da spartire se non per il fatto di essere stato l’interprete di Luca Mara-no in uno sceneggiato televisivo tratto da Le terre del Sacramento di Jovine nei primi anni settanta. Adalberto Mario Merli, attore cinematografico e tele-visivo, in questo suo romanzo, Mangereta (1999), con una voluta scelta narra-tologica opta per un narratore «non convenzionale» e affida alla scrittura un percorso autobiografico, quello dell’infanzia, che come un filo si dipana lungo un periplo che da Roma arriva al Friuli, poi in Umbria e poi di nuovo a Roma in anni difficili, 1943-1952, in cui l’io narrante insieme ad ambienti diversi, ai disagi, alla realtà della guerra, scoprirà anche le offese e le negazioni consu-mate soprattutto nei confronti dell’infanzia ed insieme il valore di affetti e so-lidarietà, un racconto «testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accu-mulato nei suoi ricordi», come sottolinea l’autore nell’avvertenza al lettore.

    Il romanzo di Ilka Brunhilde Laurito (La bambina che fece l’America, 1998) costituisce certamente un caso a sé nella collana: si tratta di una tradu-zione dal portoghese, realizzata con fine sensibilità da Angela Di Niro con la revisione di Marlene Suano; il volume è arricchito dai disegni di Lino Ma-stropaolo; un testo che palesa una qualità letteraria di buon livello e che ri-

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    chiama la prima parte di Umbertina di Helen Barolini – il romanzo italo-americano “al femminile” più significativo sull’emigrazione oltre oceano – non solo per la comune ambientazione nella Calabria di fine Ottocento, ma anche per uno sguardo memoriale: qui la vicenda migratoria è ricostruita con gli occhi di una bambina di appena dieci anni, dalla Calabria al Brasile, dove la famiglia giunge nel 1900 e dove l’io narrante, come tanti altri bambini e adolescenti approdati nel Nuovo Mondo, «nasce per la seconda volta».

    L’ultimo titolo apparso, Il Paese degli zii e altre novelle filosofiche (2005) di Leonardo Cammarano, arricchisce la collana di una scrittura del tutto nuova e soprattutto di uno sguardo diverso. Cammarano è un intellettuale napoletano, atipico, disorganico, uomo di vasta cultura europea gestita come la vita, con quel dentro/fuori del grande borghese partenopeo: coinvolgimen-to e distanza, carnalità e utopia, ironia e malinconia, umanità e sberleffo; una formazione in un ambiente colto e nello stesso tempo dissipatore, un itinera-rio da artista bohemien approdato anche alla televisione come programmista, occasione per un ritorno nel Molise della sua infanzia, quando trascorreva le estati nella casa degli zii a Torella del Sannio.

    “Novelle filosofiche” è una indovinata e coerente definizione accolta nel tito-lo del libro, poiché i pezzi che lo compongono richiamano il conte philosophi-que illuminista. E “novella filosofica” è Il Paese degli zii, il racconto che apre il volume e che è tutto riferito al Molise: non si tratta di un semplice viaggio nelle memorie sommerse dell’infanzia, ma di una rivisitazione condotta da una penna voltairiana e casanoviana, che demistifica ogni possibile approccio mi-tizzante e nostalgico del Molise scomparso ed anche di quello attuale.

    La casa di Torella, costruita dai suoi avi dentro un castello medievale di-roccato, è quasi un passaggio del testimone alla borghesia, che anche dalla fisiognomica dei ritratti superstiti palesa quella che è la sua tipologia umana e sociale: «senza voli di fantasia, ma ammalata di tristezza (questa malinco-nia priva d’immaginazione mi pare carattere peculiare, ma non spregevole, dei Molisani): brutale, sentimentale, pavida, ma anche coraggiosa a suo mo-do; costretta dalla carenza d’ideali condivisi al duro eroismo del quotidiano». A questa borghesia appartengono figure come quella dello zio, che «trascor-se quasi l’intera vita in un angolo del focolare, tra gatti spelacchiati, con la fronte puntata sul bastone, perduto nella malinconia».

    Supportato da letture che hanno lasciato il segno, dagli scrittori russi del-l’Otto-Novecento (Dostoevskij, Cecov, Rozànov) a quelli francesi (Flaubert, Balzac, Maupassant) ai grandi del Novecento (Proust, Celine, Svevo) Cam-marano racconta un Molise distante da ogni filtro provinciale: «Da bambino, avevo subito facilmente compreso ed amato Cecov. ‘Campobasso’!, questa la ‘Mosca’ spesso invocata. Ma, dimensioni a parte, il mondo che mi circon-dava era prodigiosamente simile al suo. Ne ho conosciuti non pochi di genti-luomini di campagna che confondevano un impreciso futuro con la nostalgi-

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    a!». In età matura, la lettura di Rozànov «è stata come un ritorno in terre co-gnite. Il Molise era stato per me come un’intuizione in piccolo della venera-bile sterminata ‘Russia’. O forse meglio a me, precoce lettore, la grande im-maginaria Russia apparve simile ad uno sconfinato, più insigne, Molise».

    Questo imprinting letterario di forte spessore favorisce il disegno di perso-naggi prelevati da quella memoria condivisa che solo nel paese può stratificar-si: il folle che per giorni e notti urla «nella neve a perdifiato […] sui cancelli del cimitero», fino ad un «ultimo afono grido di tisico, che lo coprì tutto di sangue»; o l’altro pazzo tisico di nome Dante, «il sembiante sinistro, la fronte madida, le grandi occhiaie troppo azzurre, il pallore mortale», che irrompe nel-la casa dell’autore perché voleva declamare versi, «si suicidò dopo qualche giorno, in un remoto fienile». O ancora Angiolino, figlio del fattore, morto fanciullo, di cui era ancora conservata «la larva in una delle camere di casa».

    Quei personaggi sono scomparsi come i suoni degli organetti, i falò notturni sulle aie e i canti che l’accompagnavano; il vento estivo che «portava folate odorose di miele», il «brusio» degli insetti che «fasciava i pensieri d’un fami-liare lamento»; come è scomparso quel «paesaggio omerico, fatto di querce, di bacche, e del brusio degli imenotteri, attraverso la non predisposta onda sono-ra», di cui l’autore da piccolo percepiva «la stranezza» quasi respirandolo.

    Un mondo, un paesaggio, un vissuto che oggi gli appaiono degradati: se è vero che il passato «era stato miserabile, forse ripugnante» che la memoria sto-rica mistificatrice raccontando di «pretèrite prodezze» rende ancora più «indi-cibile», è pur vero che al degrado umano, civile, culturale di oggi, forse è pre-feribile un mondo nuovo che cancelli completamente l’antico piuttosto che uno antico degradato: «Nulla è più soffocante di un lungo passato fattosi vuo-to, “indino de metro y prosa”, di un lungo passato ormai muto. Così come i ruderi non più rispettati diventano cessi pubblici, non diversamente il passato privato di ogni amore diventa un immondezzaio interiore e presto, con l’oblio, un’inspiegabile deforme tumescenza dell’anima».

    Un punto di vista narrativo, questo di Cammarano che, ponendosi agli antipo-di rispetto a molti altri presenti in questa collana, allarga lo spettro di rappresen-tazione della identità molisana introducendo ulteriori elementi di riflessione.

  • Finito di stampare nel mese di agosto 2011

    da Morconia Print s.r.l. - Morcone (Bn) per conto

    delle Edizioni Il Bene Comune