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Genericamente sono abbastanza preciso sulle cose che faccio, ma dato che “errare humanum est”, vi invito a
verificarepersonalmente ciò che ho scritto, prima di fissare gli argomenti nella vostra memoria
Domande raccolte dall’inizio del 2015 all’inizio del 2017
. gli * indicano la frequenza della domanda
Scrittoda G.G.
DOMANDE DI PATOLOGIA GENERALE(con relative risposte)
GENERALE
Infiammazione acuta e cronica **************************:
ACUTA: caratterizzata da un esordio rapido (secondi o pochi minuti) che ha una durata massima di alcuni
giorni. Può essere causata da infezioni, traumi, agenti fisici e chimici, necrosi e reazioni immunitarie. Ne
consideriamo 4 aspetti: rubor (rossore), calor (calore), tumor (gonfiore) e dolor (dolore). È caratterizzata da
diversi eventi
‐ alterazioni del calibro vascolare: il primo fenomeno è la vasodilatazione (dopo una fugacissima
vasocostrizione che dura pochi secondi),che fa sì che le resistenze dei capillari diminuiscono,
causando un aumento del flusso ematico (che causa calore regionale). Questa dilatazione viene
causata da diverse sostanze quali: istamina, ossido nitrico, leucotrieni, bradichinine e sostanza P.
Alcune di queste sostanze, come l’ossido nitrico inducono rilassamento della muscolatura liscia e
causano vasodilatazione; altre sostanze come l’istamina, causano la contrazione di alcune proteine
contrattili intracellulari delle cellule endoteliali; proteine (quali la miosina) “accorciano” la cellula
dall’interno, costringendo le singole cellule a separarsi tra loro e a separare anche molte giunzioni
cellulari. L’endotelio cosi si “fenestra” consentendo al plasma e ad alcune proteine di uscire
all’esterno dei vasi, penetrando nella matrice dei tessuti. Anche altre sostanze possono causare
vasodilatazione, quali TNF, IL‐1, IFN‐gamma, ma la loro azione è più prolungata nel tempo (24 ore o
più). Ovviamente esistono altri modi affinchè i liquidi possano passare dai vasi al plasma, come:
lesioni endoteliali dirette con necrosi e distacco delle cellule endoteliali, lesioni causate da
irraggiamento con fonti di energia radiante (raggi X), lesione causata da metaboliti tossici derivati
dal sistema immunitario. In ogni caso, all’aumentare del calibro/permeabilità vascolare abbiamo un
aumento della pressione idrostatica, che, superando l’oncotica intravasale ed aiutata dall’oncotica
extravasale, consente ai liquidi di passare nello spazio extravasale; il sangue aumenta di viscosità
‐ rolling, adesione iniziale e marginazione: nell’endotelio infiammato vengono espresse molecole che
normalmente sono latenti nella cellula. Queste molecole, chiamate selectina E, selectina P e
GlyCam si possono legare a recettori espressi sulla superficie leucocitaria e specificatamente, la
selectina‐E si lega al Sialil‐Lewis‐X leucocitario, la selectina‐P si lega al Sialil‐Lewis‐X leucocitario e
GlyCam si lega alla selectina‐L leucocitaria. Questo legame iniziale fa si che i leucociti “rotolino”
sulla parete endoteliale, creando legami che si formano e si dissociano rapidamente a causa del
flusso sanguigno, fin quando l’effetto frenante dato dalle continue adesioni non vince la forza del
flusso, fermando sulla parete il leucocita. A questo punto, la parete endoteliale è tappezzata da
leucociti che hanno “pavimentato” l’endotelio. Se in questa fase il vaso venisse preso e tagliato, alla
sezione microscopica si osserverebbe una “marginazione” dei leucociti mentre i globuli rossi si
troverebbero al centro
‐ adesione stabile: data dal successivo legame di molecole chiamate integrine e dei loro recettori.
Sull’endotelio troviamo ICAM‐1 e VCAM‐1, mentre sui leucociti LFA‐1/Mac‐1 e VLA‐4; ICAM‐1 si
lega a LFA‐1/Mac‐1 e VCAM‐1 si lega a VLA‐4. La produzione delle integrine può essere indotta da
alcune citochine come TNF e IL‐1
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‐ diapedesi *: processo di passaggio dei leucociti attraverso l’endotelio; il passaggio avviene tramite
movimenti ameboidi ed è indotto dal legame di CD31 endoteliale (o PECAM) con il suo recettore
leucocitario, CD31R. La migrazione è spinta anche dal gradiente chimico. Una volta in prossimità
della membrana basale, si suppone che i leucociti secernano collagenasi che consente di perforare
la membrana e giungere nel sito interessato
‐ chemiotassi e attivazione ************: la chemiotassi è un processo di attrazione chimica dei
leucociti nel sito di infiammazione. Le sostanze coinvolte sono varie: prodotti di origine batterica o
virale, sia peptidici che lipidici; fattori endogeni come proteine del complemento, leucotrieni,
chemochine (IL‐8). Sono comunque tutti ligandi di specifici recettori transmembrana accoppiati a
proteine G che possono attivare alcune funzioni cellulari; nella fattispecie la funzione più
importante contemplata è la polimerizzazione dell’actina che consente l’estensione dei filopodi che
consentono il movimento, trascinando la cellula nella direzione dell’estensione dell’actina. La
cascata chimica prevede che la proteina G recluti la PLCgamma (fosfolipasi‐C‐gamma) e la PI3K
(fosfatidil‐inositolo‐3 chinasi); queste due aumenterebbero la concentrazione di calcio
intramembrana e attiverebbero alcune GTPasi. Il concorrere di tutti questi eventi, consente la
polimerizzazione dell’actina nella direzione dello stimolo (e il conseguente avanzamento cellulare).
I prodotti di batteri, virus e cellule necrotiche possono anche agire direttamente sui leucociti,
attivandoli. Questi prodotti vengono percepiti dal nostro sistema immunitario tramite strutture
recettoriali specifiche: i tool like receptor (sono circa 10 e attivano i leucociti in modi diversi a
seconda della molecola segnale; genericamente sono associati a chinasi che stimolano la
produzione di sostanze microbicide), recettori transmembrana accoppiati a proteine G (possiedono
7 domini transmembrane e di norma sono stimolati da sostanze microbiche o danno endoteliale), i
recettori per le opsonine (percepiscono agenti microbici rivestiti da anticorpi) e i recettori per le
citochine (come il recettore per IFN‐gamma dei macrofagi). I leucociti attivati tramite meccanismi
molto simili a quelli che concorrono nelle fasi precedenti (vale a dire attivazione mediata da Ca++ e
da protein‐chinasi‐C), sono capaci di: produrre citochine, liberare gli enzimi lisosomiali, produrre
metaboliti dell’acido arachidonico
‐ fagocitosi e liberazione di mediatori ********: la fagocitosi è una fase dell’infiammazione che
prevede la rimozione delle cellule morte, di microbi e degli agenti lesivi dal sito coinvolto. Le cellule
che vi prendono parte sono normalmente monociti e macrofagi (anche i neutrofili sono capaci di
fagocitosi, ma oltre un certo numero di fagocitosi effettuate muoiono, formando il pus che deve
essere rimosso). Prevede 3 fasi: riconoscimento dell’agente patogeno ed adesione a questo,
ingestione dell’agente con formazione di vacuolo endocitotico, uccisione e degradazione del
materiale ingerito. Riconoscimento ed adesione ‐> sono i recettori del mannosio e i recettori
scavenger. I recettori per il mannosio captano questo zucchero, particolarmente presente sulle
membrane dei microbi; i recettori scavenger captano le lipoproteine a bassa densità ossidate o
acetilate. Ingestione dell’agente con formazione di vacuolo endocitotico ‐> avviene grazie alla
polimerizzazione di filamenti di actina che tramite segnali chimici si direziona verso l’agente
patogeno; arrivato in prossimità della membrana, il patogeno si lega ai recettori e viene
internalizzato in un vacuolo endocitotico. Uccisione e degradazione del materiale ingerito ‐> il
materiale viene degradato grazie alla formazione di intermedi reattivi dell’ossigeno; questa avviene
grazie alla NADPH ossidasi che ossida il NADPH a NADP+, producendo ioni superossido
successivamente convertiti in H2O2 e OH‐. Questi prodotti possono essere rilasciati anche negli
spazi extracellulari, causando danno endoteliale
‐ risoluzione dell’infiammazione acuta: grazie al fatto che i mediatori dell’infiammazione hanno una
certa emivita, parte dell’infiammazione tende a risolversi da sola con il tempo. Esistono comunque
dei meccanismi antiinfiammatori, come il rilascio di citochine antiinfiammatorie (TGF‐beta) e
cambiamenti nel metabolismo dell’acido arachidonico
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Altri fattori possono intervenire sulla vasodilatazione o sulla permeabilità vasale:
‐ le frazioni “A” dei fattori del complemento stimolano la liberazione di istamina, generando
aumento della permeabilità vasale
‐ la serotonina
‐ la bradichinina causa contrazione dei muscoli lisci aumentando la permeabilità vasale e consente
anche la dilatazione dei vasi. La bradichinina viene prodotta quando dal fattore 12 coagulativo
viene prodotto il fattore 12n a causa del contatto col collagene; il fattore 12n converte la
precallicreina in callicreina, che a sua volta cliva il chininogeno producendo bradichinina
‐ la plasmina nel contesto infiammatorio cliva C3 e anche il fibrinogeno; i fattori derivati
promuovono la permeabilità vascolare
‐ il PAF (fattore di adesione piastrinica) viene rilasciato dai basofili nell’infiammazione. A
concentrazioni basse, induce vasodilatazione e aumento della permeabilità con effetto molto
maggiore all’istamina (a concentrazioni alte, media la vasocostrizione
‐ l’ossido nitrico (NO)causa vasodilatazione agendo in maniera paracrina e attivando GMP ciclico, che
tramite una serie di cascate del segnale induce il rilassamento della muscolatura liscia vascolare e
quindi la vasodilatazione. È prodotto da cellule endoteliali, neuroni e macrofagi tramite l’enzima
ossido nitrico sintetasi, enzima che si attiva solo quando vi è un ingente flusso di calcio nel
citoplasma della cellula. La sua sintesi può essere indotta anche da citochine. NO però impedisce sia
il rolling che l’adesione leucocitaria
CRONICA: caratterizzata da una maggiore durata, che può persistere anche per mesi o anni. Le cellule
protagoniste sono linfociti e macrofagi e diversi processi, come fibrosi e necrosi tissutale concorrono in
questa condizione. La vera peculiarità di questa condizione è che mentre l’agente scatenante continua la
sua azione lesiva, il corpo cerca di ripararvi generando nuovo tessuto connettivo. L’infiammazione cronica
può essere causata da infezioni persistenti, reazioni autoimmunitarie o esposizione prolungata a sostanze
tossiche. È caratterizzata da
‐ infiltrazione di cellule mononucleate: i monociti vengono reclutati dal sangue e veicolati ai tessuti
(tramite le vie già viste per l’infiammazione acuta). I fattori chemiotattici per i monociti sono: MCP‐
1, C5a, PDGF, TGF‐alfa e chemochine prodotte da leucociti attivati. Quando penetrano in un tessuto
si trasformano in macrofagi, cellule estremamente più durature (possono persistere anche per
anni), che vengono attivati grazie ad alcuni fattori presenti nel luogo dell’infiammazione (l’IFN‐
gamma è il più potente attivatore macrofagico)
‐ attivazione macrofagica: sempre tramite molecole zonali secrete dal tessuto danneggiato o dai
leucociti circostanti
‐ proliferazione dei macrofagi: raro nelle condizioni acute, ma di usuale riscontro nelle croniche,
specie se gravi
‐ immobilizzazione dei macrofagi: causata da citochine che attraggono continuamente il macrofago
in sede e da lipidi ossidati
‐ produzione di tessuto connettivo: prodotto dai macrofagi attivati, rappresenta un tentativo di
arginare il danno e riparare il tessuto
Infiammazione Granulomatosa *******:
tipologia di infiammazione cronica. Può avere 2 cause essenziali: da corpo estraneo o da cause immunitarie
(nei casi di infezione microbica persistente). Qualunque sia la causa, il granuloma ha una struttura ben
definita, formata da:
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‐ una regione periferica piena di leucociti mononucleati (soprattutto linfociti) e macrofagi attivati,
‐ una regione più interna di macrofagi attivati, aggregati e morfologicamente trasformati in cellule
epitelioidi
‐ una regione centrale che contiene cellule giganti multinucleate, derivanti dalla fusione di più
macrofagi epitelioidi tra loro
i granulomi più vecchi possiedono una parete di fibroblasti e connettivo a limitarli. Quando si forma un
granuloma da infezione persistente, la struttura non è così precisa come quella del granuloma da corpo
estraneo (data la dispersione maggiore dei batteri); in questo tipo di formazione, si ha che i macrofagi
fagocitano i microbi e li presentano ai linfociti T.helper, che rispondono attivandosi e producendo citochine
come IL‐2 per amplificare l’effetto attivante, IFN‐gamma per attivare i macrofagi a produrre i ROS (specie
reattive dell’ossigeno). Questa tipologia di macrofagi vengono chiamati M1 e sono preposti alla fagocitosi,
al reclutamento di altri leucociti, alla presentazione dell’antigene tramite MHC classe 2 ai linfociti T.helper.
Con il perpetrarsi dei fenomeni attivatori, i macrofagi si trasformano in cellule epitelioidi; al processo
fagocitotico si affianca quello riparativo, i macrofagi si trasformano in macrofagi M2 grazie ad alcuni fattori
prodotti dai linfociti T.helper (IL‐4, IL‐13) e secernono fattori di rimodellamento tissutale come PDGF
(fattore stimolante la crescita dei fibroblasti), per far sì di favorire la formazione di tessuto connettivo.
Genericamente, i granulomi infettivi dopo un tot di tempo vanno incontro a necrosi caseosa che si diparte
dalla porzione centrale del granuloma a quella periferica, generando spazi vuoti (caverne)
Opsonizzazione *:
una volta che un microrganismo infetta l’individuo si possono formare (o essere già presenti) anticorpi,
chiamati in questo contesto "opsonine", che legandosi alla struttura superficiale dell’invasore tramite la
porzione Fab (Frammento legante l’antigene) consentono alle cellule fagocitiche di riconoscere e legare le
porzioni Fc (frammento cristallizzabile) e internalizzare il batterio/virus per distruggerlo.
Essudato e trasudato *******:
differenze:
‐ l'essudato è un liquido infiammatorio con elevata concentrazione proteica che si raccoglie nei
tessuti del corpo sottoposti a un processo d'infiammazione. Ne esistono varie tipologie: essudato
purulento (costituito da plasma con neutrofili sia attivi che morti e cellule necrotiche; tipico delle
infezioni, viene comunemente indicato come pus); essudato fibrinoso (composto principalmente di
fibrinogeno e fibrina; si trova in condizioni gravi, come la polmonite batterica); essudato catarrale
(si forma nel naso e nella gola ed è caratterizzato da un elevato contenuto di muco); essudato
sieroso (si manifesta generalmente nelle infiammazioni lievi, con uno scarso contenuto di
proteine); essudato maligno (tipico di condizioni derivate da una neoplasia maligna)
‐ il trasudato è una sostanza liquida derivata dal plasma per ultrafiltrazione; in sostanza si tratta di
una parte liquida del plasma che ha attraversato l'endotelio capillare di vasi normali o una
membrana semi‐permeabile; in genere è caratterizzato da un'alta fluidità e da un basso contenuto
di proteine, cellule e detriti cellulari
Per distinguerli si può utilizzare la prova di Rivalta: versando alcune gocce di liquido in una soluzione di
acido acetico, se questo ha la composizione chimica dell'essudato, si formeranno delle strie simili a fumo,
date dalla precipitazione di macromolecole, prevalentemente proteine
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Radiazioni ***:
fenomeno per cui una sostanza o un corpo emette energia sotto forma di onde o di corpuscoli. Si dividono
in 2 tipologie: radiazioni ionizzanti e non ionizzanti, a seconda del fatto che la loro energia sia maggiore o
inferiore ai 10 eV (elettronVolt). A seconda della tipologia, si possono avere diversi effetti patologici.
‐ radiazioni ionizzanti: comprendono i raggi X ed i raggi gamma. Posseggono energia maggiore a 10
eV e sono così chiamate per la capacità di “ionizzare” la materia. Quando queste radiazioni
incrociano una particella materiale cedono a questa energia, il che consente l’espulsione
dell’elettrone dell’ultimo strato orbitale di questa particella, che assume carica + (ione positivo)
mentre l’elettrone rilasciato risulterà di carica – (ione negativo). Se la fonte radiante colpisce
direttamente il corpo il fenomeno viene definito “ionizzazione primaria”, se invece un secondo
corpo viene colpito e ionizzato dallo ione negativo rilasciato dal primo corpo precedentemente
ionizzato, si parlerà di “ionizzazione secondaria” (il fenomeno avviene solo se lo ione negativo ha
ancora abbastanza energia per causare l’effetto). Gli effetti patologici negli esseri viventi sono dati
proprio da questa cessione energetica: il DNA è il bersaglio primario, in quanto può andare incontro
a rottura dei filamenti, ad appaiamento anomalo di basi, ad ossidazione delle basi, ad appaiamento
con proteine. Per sopperire il corpo umano sfrutta alcuni meccanismi difensivi, come l’attivazione
di P53 che induce l’apoptosi della cellula eccessivamente danneggiata, o l’attivazione di Nf‐kB che
attiva diversi meccanismi preposti alla riparazione del DNA. Sono anche bersagliate le proteine (che
possono andare incontro a dentaturazione) e costituenti lipidici (fosfolipidi in particolare, che si
perossidano). La sintomatologia (in caso di intossicazioni gravi) è quella della “malattia da raggi”,
ossia: sindrome gastrointestinale [meno grave delle altre, data da distruzione dell’epitelio
intestinale con ingente diarrea; terapia antibiotica e sostitutiva dei liquidi persi], sindrome
emopoietica [gravità intermedia, ma risolvibile con terapia adeguata; il paziente ha una gravissima
pancitopenia e va incontro ad ipossia, difetti coagulativi, infezioni opportunistiche; la terapia
prevede il trapianto midollare e la trasfusione sanguigna completa immediata, con reintegrazione
delle componenti mancanti] e sindrome cerebrale [data dall’assorbimento di una dose troppo
massiva di radiazioni, a esito letale; la sindrome prevede sintomi neurologici imponenti e la terapia
possibile è solo palliativa]
‐ radiazioni non ionizzanti: comprendono (in ordine di lunghezza d’onda decrescente) onde radio,
microonde, radiazioni infrarosse, radiazioni luminose,radiazioni ultraviolette. Posseggono energia
minore a 10 eV e tra tutte le radiazioni ultraviolette risultano le più energetiche e con lunghezza
d’onda più piccola. Gli effetti patologici delle onde radio sono supposti ma non comprovati. Le
microonde hanno la capacità di aumentare l’energia rotazionale delle molecole polari, inducendo
un aumento dell’attrito con effetto termico. Le radiazioni infrarosse inducono danno dipendente
molto dalla vicinanza della sorgente e dalla durata dell’esposizione, ma genericamente si parla di
effetto termico anche per queste radiazioni. Le radiazioni luminose, essendo quelle dello spettro
visibile sono genericamente considerate innocue ed essenziali per la vita, ma se concentrate o se
selezionate in fasci di luce monocromatica, possono causare danno termico ingente (laser).
Le radiazioni ultraviolette, avendo maggiore energia, sono anche quelle considerate più dannose.
Ne si distinguono 3 tipi, con 3 effetti diversi:
° UVA [possono essere assorbite esclusivamente da pigmenti fluorescenti]
° UVB [le maggiori responsabili di reazioni eritematose, flogistiche e bollose, del
fotoinvecchiamento e della comparsa di mutazioni]
° UVC [posseggono potente azione battericida, ma sono totalmente trattenute dall’ozono]
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Il danno che possono indurre le ultraviolette avviene su due meccanismi: meccanismo fotochimico
diretto [il danno avviene a carico diretto del cromatoforo (elementi cutanei preposti
all’assorbimento delle radiazioni)] e fotosensibilizzazione [i cromatofori bersagliati e danneggiati, a
causa della troppa energia ricevuta, trasmettono parte dell’energia radiante anche a cellule
limitrofe, danneggiandole].
Le reazioni a cui danno luogo queste radiazioni, qualunque sia il meccanismo considerato, possono
essere: reazioni fotodinamiche [generano ROS in presenza di ossigeno, con conseguente
danneggiamento ossidativo cellulare], reazioni fototossiche [reazioni che alterano alcune molecole
cutanee, trasformandole e generando molecole tossiche per il corpo] e reazioni fotoallergiche [in
questo caso le radiazioni provocano una reazione simile a quella dell’ipersensibilità di 4° tipo]
Apoptosi ******:
parola greca che indica il cadere delle foglie, l’apoptosi è un processo di morte programmata causato dalla
cellula stessa (e solo da quella cellula, senza colpire il tessuto circostante) in risposta ad alterazioni della sua
struttura. Gli stimoli che possono portare ad alterazione sono sia interni che esterni, indotti da agenti fisici,
chimici e biologici. Questo tipo di morte implica che la cellula formi delle vescicole esocitotiche, chiamati
corpi apoptotici, nelle quali diverse strutture cellulari vengono incluse e rilasciate nell’interstizio o nel
sangue, dove espongono in superficie marcatori glucidici che fungono da segnale e vengono captati dalle
cellule fagocitiche che provvedono a rimuovere i corpi e a degradare i componenti alterati. Caratteristica
dell’apoptosi è la mancanza dell’infiammazione. Esempi di apoptosi sono normalmente visibili nel nostro
sistema immunitario come i metodi di selezione dei cloni linfocitari non correttamente maturati. Presenta
due possibili vie: la via estrinseca e la via intrinseca
‐ Via estrinseca
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‐ Via intrinseca
I geni dell’apoptosi sono strutture che codificano per le proteine utili al processo apoptotico. Tra i più
famosi troviamo p53 (inibisce indirettamente l’attività di Bcl‐2 inducendo la formazione di Bax) e Myc (a
livello mitocondriale, stimola il rilascio di citocromo C)
Necrosi **************:
tipologia di azione patologica che ha portato alla morte le cellule di un dato tessuto; può avvenire per
diverse cause: tossiche, ischemiche, infettive, ustioni. La cellula necrotica risulta un forte
immunostimolante dato che vengono liberate numerose citochine pro‐infiammatorie associate al danno,
chiamate DAMPs (HSP, IL‐1, fosfolipidi alterati, acido urico, HMGB‐1, proteine leganti il calcio). Queste
sostanze fungono da fattori chemiotattici, richiamando sul posto diversi leucociti. Il tessuto necrotico può
colliquare a seguito di digestione litica effettuata da macrofagi/monociti e neutrofili. Tipologie di necrosi
più comuni:
‐ necrosi ischemica: esordisce quando l’ossigeno viene meno (per qualunque causa sia) e comporta
un’iniziale “switch metabolico” che costringe la cellula ad abbandonare il metabolismo ossidativo
(ampio produttore di ATP) e ad affidarsi totalmente alla glicolisi anaerobia (con una rendita di ATP
molto più bassa). Una volta terminato il glucosio e acidificato l’ambiente (per colpa dell’acido
lattico come prodotto di scarto terminale della glicolisi anaerobia), sparisce anche l’ultima riserva
energetica della cellula e si va in deficit importante di ATP. A causa di una mancata attività delle
pompe sodio‐potassio, un’ingente quantità d’acqua viene internalizzata nella cellula fino a
danneggiarla; il nucleo si rimpicciolisce, la cromatina si addensa; il calcio penetra in abbondanza, sia
quello che prima era segregato nel RE sia quello proveniente dall’esterno della cellula.
Successivamente, le fosfolipasi‐calcio‐dipendenti vengono attivate dalla massiccia affluenza di
Ca++, che distrugge definitivamente le membrane, causando la morte cellulare. Successivamente il
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calcio si legherà ai fosfolipidi, e genererà saponi di calcio che saranno responsabili delle
calcificazioni dei focolai necrotici
‐ necrosi coagulativa: in questa tipologia di tessuto necrotico causato da sostanze tossiche o
infezioni, la denaturazione proteica nella cellula ancora vivablocca l’azione degli enzimi litici. Segue
un’intensa reazione infiammatoria che rimodella il tessuto. Spariscono le separazioni tra le cellule e
la massa appare coagulata con pochi elementi cellulari distinguibili. Una variante di questa necrosi
è quella caseosa, come quella derivante dal granuloma tubercolare
Amiloidosi ******:
antico nome delle odierne beta‐fibrillosi. L'amiloidosi è una malattia caratterizzata dalla deposizione in
sede extracellulare di materiale proteico a ridotto peso molecolare ed insolubile, detto amiloide, per la
proprietà simile a quella dell'amido di reagire con lo iodio. A differenza di quanto si pensasse inizialmente,
la sostanza non è amorfa, ma ha una struttura a foglietto β, motivo per cui per la malattia si preferisce
utilizzare il termine β‐fibrillosi. Le fibrille si compongono da vari protofilamenti assemblati tra di loro
mediante interazione NH2 e COO, che formano legami idrogeno. La conformazione a foglietto beta rende
indigeribili le fibre formate. A dispetto di quanto si possa pensare, le fibre con struttura più grossa
sembrano meno lesive di quelle a struttura piccola. Possono inoltre formarsi sia nel citoplasma che nella
matrice; sembra che quelle a localizzazione citoplasmatica siano capaci di attivare il complesso
dell’inflammosoma (che attiva IL‐1beta inattiva). Unita alle fibrille troviamo la proteina AP chiamata anche
componente P dell’amiloide; ha un precursore ematico (SAP) e serve come mezzo diagnostico. Di beta‐
fibrillosi ne esistono di varie tipologie: SISTEMICHE, LOCALIZZATE e INDOTTE DA PRIONI.
Le SISTEMICHE si dividono essenzialmente in 4 gruppi: Reattive, Immunocitiche, Eredo‐familiari, da
Emodialisi
‐ Reattive: chiamate anche AA (Amyloid Acute phase) compare nei soggetti portatori di focolai
infiammatori o necrosi tissutale. Sembrano derivare dalla degradazione di una proteina plasmatica
chiamata SAA, di sintesi epatica e componente delle HDL
‐ Immunocitiche: chiamate AL (Amyloid Light chain). In casi di mieloma multiplo o della malattia delle
catene leggere, le catene leggere delle immunoglobuline possono assumere forma beta‐fibrillare e
precipitare. Più spesso precipitano le catene leggere lambda che le kappa. Diagnostico il
reperimento di un eccesso di catene leggere abnormemente glicosilate
‐ Eredo‐familiari: si dividono in non neuropatiche e neuropatiche. Le prime sono scatenate da una
malattia (la febbre familiare mediterranea) che colpisce genericamente le persone di genia turca;
successivamente alla malattia nel sangue si depositano le fibrille beta. Nelle seconde la
transtiretina (TTR) è mutata a causa di una sostituzione di una valina con una metionina; ne
consegue deposizione di fibrille a partire da questo substrato proteico, ragion per cui queste
amiloidosi vengono chiamate ATTR
‐ da Emodialisi: evento che colpisce gli emodializzati di vecchia data (almeno 7‐10 anni). La proteina
che causa questa amiloidosi è la beta‐2‐microglobulina, che a causa della disfunzione renale cresce
di quantitativo nel siero di circa 50 volte
Le LOCALIZZATE: sono 3, ma si dividono essenzialmente in 2 gruppi:Associate a patologie
dell’invecchiamento; Associate a disordini metabolici e Presenti in tumori delle ghiandole endocrine
‐ Associate a patologie dell’invecchiamento: tra le più note si annovera l’Alzheimer. Questo tipo di
patologie sono dovute a depositi di una proteina mutata, la proteina precursore amiloide (APP). La
forma beta‐APP una volta formata si depone sia in sede locale delle cellule nervose, sia nei vasi
sanguigni, specie cerebrali e meningei. Il gene beta‐APP si ritrova anche nella sindrome di Down
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‐ Associate a disordini metabolici e Presenti in tumori delle ghiandole endocrine: in queste patologie
si genera AE ossia Amiloide Endocrina, causata da forme mutate o sovraprodotte di ormoni normali
(precalcitonina, peptide natriuretico atriale, amilina). Il meccanismo è essenzialmente lo stesso
delle altre deposizioni
Le INDOTTE DA PRIONI: i prioni sono strutture proteiche capaci di autoreplicarsi a partire da altre proteine.
Una parte di queste proteine sono virus ma alcune sono normalmente codificate nel nostro DNA senza però
avere effetto deleterio. Una di queste è la PrP/c, codificata sul cromosoma 20. Quando questa proteina
muta, si viene a formare questa forma patologica denominata PrP/res, che varia la sua conformazione da
alfa elica a foglietto beta, determinando deposizione di beta‐fibrille
Alzheimer **:
patologia degenerativa del sistema nervoso centrale, è la statisticamente più frequente. Le aree più colpite
sono quelle dell’ippocampo e della corteccia telencefalica. Le possibili cause sono 2: (1) accumuli
intracellulare di materiale fibrillare formati dalla proteina Tau iperfosforilata (2) placche amiloidi derivanti
da un’anomala proteolisi della proteina APP, con reazione gliale. Nel secondo caso l’anomala degradazione
dell’APP è dovuto all’azione di un complesso anomalo, ossia beta‐gamma secretasi al posto dell’ alfa‐
gamma secretasi. L’APP forma una struttura beta‐fibrillare che va a formare placche amiloidi indigeribili.
Nei casi con familiarità è distinguibile un’alterazione di 2 principali geni, PSEN1 (cromosoma 14 braccio
lungo) e PSEN2, codificanti per le preseniline 1 e 2, entrambi coinvolti nel processo degradativo. La
presenilina1 è la subunità catalitica del complesso della gamma secretasi. Ci sono anche fattori di rischio
per l’alzheimer. Ad esempio, il gene APOE che codifica per l’apolipoproteina E è presente in diverse
isoforme alleliche: epsilon 2, epsilon 3 ed epsilon 4. La forma epsilon 4 iperfosforila la proteina tau e ne
favorisce l’accumulazione in forma beta fibrillare
‐ epidemiologia: 20% dei pazienti over 80 anni
‐ clinica: in primo luogo, il linguaggio diventa meno articolato, la memoria a breve termine viene
compromessa e le attività che richiedono una buona coordinazione (come il lavoro ai ferri)
diventano difficili; nella fase intermedia il linguaggio diviene molto semplice, insorgono disturbi
comportamentali e la memoria a lungo termine inizia a degenerare; l’ultima fase prevede la perdita
del linguaggio, perdita della memoria a lungo termine, assenza di mobilità e perdita della
percezione temporo‐spaziale, fino a che il paziente muore per cause infettive (in circa 5‐10 anni)
Glicogenosi *****:
Le glicogenosi sono un gruppo di malattie metaboliche rare e sono dovute alla carenza o al deficit
funzionale di uno degli enzimi coinvolti nel metabolismo del glicogeno. I tessuti più colpiti sono fegato,
muscoli e rene. I difetti enzimatici alla base delle glicogenosi si trasmettono per via ereditaria autosomica
recessiva, tranne il tipo VIII, che si eredita come recessivo legato al cromosoma X. Si conoscono 10 forme di
glicogenosi (di cui le ultime 2 di recentissima scoperta):
‐ Glicogenosi di tipo I: (o malattia di Von Gierke) l'enzima mancante è la Glusosio‐6‐fosfato‐fosfatasi
(G6P‐fosfatasi). La carenza di questo enzima non consente la fosfatazione del G6P, che dovrebbe
accumularsi nella cellula. In realtà questo non succede perché la via glicolitica e dei pentoso fosfati
smaltisce questo eccesso. Tuttavia questa soluzione causa un aumento notevole di acido urico e
(principalmente) di acido piruvico, da cui si origina una massiccia quantità di acetil‐CoA. Questo
materiale inibisce la mobilizzazione di acidi grassi dal tessuto adiposo e favorisce l’insorgere di una
steatosi epatica
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‐ Glicogenosi di tipo II: (o malattia di Pompe) da deficit di maltasi acida (alpha‐1,4‐glucosidasi)
lisosomiale). Il glicogeno non può essere digerito all’interno dei vacuoli autofagici in quanto
l’enzima adibito alla digestione manca e di conseguenza si accumula nei vacuoli
‐ Glicogenosi di tipo III: l’enzima mancante è l'enzima deramificante (amilo‐1,6‐glicosidasi), quindi il
glicogeno riesce ad essere degradato solo parzialmente. Si instaura un aumento di glicogeno
anomalo, prevalentemente epatico ma anche muscolare, caratterizzato da numerose ramificazioni
e catene laterali molto corte
‐ Glicogenosi di tipo IV: (o amilopectinosi) è tra le più rare di tutte le glicogenosi, l'enzima mancante
è l'enzima ramificante (glucosil‐4,6‐transferasi), l'assenza di questo comporta una sintesi anomala
di glicogeno con scarse ramificazioni ma catene estremamente lunghe che ricordano
l’amilopectina. Le manifestazioni cliniche sono: epatomegalia, cirrosi con ipertensione portale
‐ Glicogenosi di tipo V: (o malattia di McArdle) deficit di fosforilasi muscolare (con impossibilità ad
utilizzare il glicogeno annesso). Non consente al paziente di sostenere sforzi muscolari prolungati e
intensi. Clinicamente causa crampi e deficit funzionale
‐ Glicogenosi di tipo VI: (o malattia di Hers)deficit di fosforilasi epatica. Può essere sia X‐Linked che
Autosomica
‐ Glicogenosi di tipo VII: (o malattia di Tarui) deficit di fosfofruttochinasi muscolare, il compito di
questo enzima è quello di convertire il Fruttosio‐6‐P in Fruttosio‐1,6‐BP. È un enzima chiave nella
regolazione della glicolisi. Manifestazioni cliniche sono: affaticamento muscolare e intolleranza
all'esercizio fisico
‐ Glicogenosi di tipo VIII: caratterizzata dalla presenza dell'enzima fosforilasi epatica ma in forma
inattiva, che può tuttavia essere attivata tramite adrenalina e glucagone
‐ Glicogenosi di tipo IX: deficit di fosforilasi chinasi
‐ Glicogenosi di tipo X: difetto strutturale della fosforliasi chinasi che non viene più attivata da AMPc
‐ Glicogenosi di tipo XI: deficit del trasportatore GLUT‐2, negli epatociti, nel rene, nel pancreas e
nell’intestino
Formula leucocitaria *:
Valori percentuali Numero di cellule per mm3
Neutrofili 40‐75% 2.000 ‐ 8.000/mmc
Eosinofili 0,5‐6% 20 ‐ 600/mmc
Basofili 0‐2% 2 ‐ 150/mmc
Monociti 2‐10% 100 ‐ 900/mmc
Linfociti 25‐55% 1.500 ‐ 5.000/mmc
*ematocrito ‐> 55% plasma 45% eritrociti 1% buffy coat (globuli bianchi, linfociti, piastrine)
Valori emoglobina:
i valori di riferimento sono:
Uomo ‐> emoglobina 13‐17 g/100 ml globuli rossi 4,5‐5,5 milioni/mm3 ematocrito 40‐45%
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Donna ‐> emoglobina 12‐16 g/100 ml globuli rossi 4‐5 milioni/mm3 ematocrito 36‐42%
Valori colesterolo:
Alto rischio Borderline Desiderabile
Colesterolo Totale Maggiore di 239 190‐239 Minore di 190
LDL Maggiore di 160 100‐159 Minore di 100
HDL (uomo) Minore di 35 35‐39 Maggiore di 39
HDL (donna) Minore di 40 40‐45 Maggiore di 45
Trigliceridi Maggiore di 200 150‐200 Minore di 150
*valori intesi in mg/dl
Anemie (classificazione e tipologie) **********************:
per anemia si intende una riduzione della quantità totale di emoglobina (Hb) circolante. Un’anemia si
considera lieve se Hb > 10 g/dl, moderata se 10 g/dl > Hb < 8 g/dl, e grave se Hb > 8 g/dl
Le anemie si distinguono in 4 gruppi:
‐ I GRUPPO: anemia causata da ridotta eritroblastogenesi. In questo caso l’anemia è normocitica e
normocromica perché la formazione eritroblastica ridotta o assente, fa sì che si instauri una
riduzione consensuale del numero degli eritrociti e dell’emoglobina. Possono essere classificate in:
Eritroblastopenia congenita, Eritroblastopenia acquisita, Eritroblastopenia da insufficienza
renale.L’eritroblastopenia congenita è chiamata anche anemia di Diamond‐Blackfan ed è a
trasmissione autosomica dominante. Una mutazione identificata nel 45% dei casi in RPS19 sarebbe
responsabile di apoptosi massiva degli eritroblasti; clinicamente si hanno malformazioni congenite
(cardiache, renali, scheletriche, ecc..) o ritardo mentale. La diagnosi prevede nel 90% dei pazienti
un aumento di adenosina deaminasi eritrocitaria, enzima coinvolto nel metabolismo purinico. La
terapia è con corticosteroidi nella maggior parte dei casi, ma si può anche ricorrere al trapianto
midollare|||altra tipologia di anemia (ma non solo) èl'anemia di Fanconi, definita anche
pancitopenia di Fanconi, è una rara malattia autosomica recessiva. I geni responsabili sono i FANC,
di cui FANCA è il più rappresentativo (65% dei casi). La causa di malattia è genetica sono
compromesse le vie di riparazione del DNA. Di tredici mutazioni almeno una sarebbe legata al
cromosoma X. Per il resto delle altre mutazioni, essendo la patologia un disordine recessivo
autosomico bisogna che entrambi i genitori siano dei portatori affinché un loro figlio o figlia erediti
la anomalia manifesta, mentre la prole rimane portatrice se eredita la caratteristica da uno dei due
genitori. L'aspetto più rilevante della affezione è legata alla funzione del midollo osseo che non
riesce a produrre i globuli bianchi, i globuli rossi o le piastrine. Tale deficit può riguardare
prevalentemente uno o più di tali elementi. Le anomalie di aspetto riguardano maggiormente lo
scheletro, tipica la aplasia del radio; la pelle con iperpigmentazione (macchie di vino, o color
caffellatte), occhi con microftalmia e nistagmo, che portano solitamente ad una diminuzione anche
notevole delle capacità visive, in minore percentuale di incidenza si possono presentare: difetti
cardiaci, renali e urogenitali, ed inoltre bassa statura, sordità e ipogonadismo. La malattia definita
in origine come "Anemia aplastica" è detta più propriamente "Pancitopenia aplastica" essendo
coinvolti nella mancata produzione del tessuto ematopoietico tutti i componenti del sangue, anche
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se risulta spesso prevalente la carenza di alcuni. Nei casi più gravi la malattia è fatale nei primi 5‐9
anni di vita. Per quanto si possa manifestare con una varietà di effetti somatici, la malattia è fatale
prima di tutto per i suoi effetti ematici, dovuti al crollo della produzione dei componenti
corpuscolati del sangue, in particolare delle piastrine per cui il decesso sopravviene per emorragia
cerebrale. In realtà tutti gli elementi del sangue sono coinvolti, ma la carenza temporanea di globuli
rossi e bianchi è maggiormente sopportabile. A causa delle emorragie, la sopravvivenza media è
stimata a 16 anni. Il trattamento risolutivo è il trapianto del midollo osseo, altre terapie sono
costituite da trasfusioni e somministrazione di cortisonici|||L’eritroblastopenia acquisita è
associata a determinate condizioni: timoma, malattie neoplastiche ematologiche, carcinomi,
infezioni (come quella del Parvovirus B19), malattie autoimmuni (contro le cellule eritroidi), farmaci
e anche gravidanza. Può essere acuta, più facilmente riscontrata nell’infanzia a seguito di infezioni,
o cronica, tipica dell’adulto. Diagnosi tramite aspirato midollare che mostra eritroblastopenia.
Terapia con corticosteroidi genericamente, ma nel caso di malattie autoimmuni conclamate la
ciclosporina risulta più efficace. L’eritroblastopenia da insufficienza renale è causata principalmente
da insufficiente produzione di eritropoietina (EPO) che consente lo sviluppo eritrocitario midollare.
Clinica tipica dell’anemia. Diagnosi per dosaggio dell’EPO. Terapia sostitutiva con eritropoietina
ricombinante umana (rHuEPO)
‐ II GRUPPO: anemia causata da ridotta eritrocitogenesi. In questo caso l’anemia è macrocitica a
causa dell’iperplasia eritroblastica, causata da un difetto nella sintesi del DNA. La sintesi
dell’emoglobina è normale mentre quella del DNA avviene a rilento, causando crescita volumetrica
degli eritroblasti data da una mancanza mitotica e lisi cellulare. Il difetto ha 3 cause principali:
Carenza di B12, Carenza di folati, Farmaci. [Vitamina B12: o cobalamina, è costituita da un anello
corrinico composto da 4 unità tetrapirroliche. Presente nelle carni, nei pesci, nell’uovo e nei
latticini, è insintetizzabile dal corpo umano. L’assimilazione avviene tramite vari passaggi: nella
saliva si lega alla proteina R, giunge nello stomaco dove si ritrova il fattore intrinseco di Castle (FI);
nel duodeno viene slegata dalla proteina R e si lega all’FI; viene veicolata nell’ileo dove recettori
specifici per B12‐FI endocitano il complesso; FI si dissocia dalla B12 nei lisosomi e la cobalamina si
lega alla transcobalamina2, che trasporta la B12 nei tessuti] [Vitamina B9: o acido folico o acido
pteroil(mono) glutammico, si compone di 3 parti (pteridina, acido p‐ammino‐benzoico, acido
glutammico. Contenuti in frutta e verdura crude (sono termolabili). Dalla forma di poliglutammato
viene trasformata in acido pteroilmonoglutammico, che si lega alle proteine di trasporto sulla
membrana degli enterociti per poi essere assorbito ed entrare nel circolo sotto forma di acido N5‐
metil‐tetraidrofolato che viene poi veicolato a cellule e tessuti] La carenza di B12 comporta
l’impossibilità di demetilare il N5‐metil‐tetraidrofolato a tetraidrofolato, che si accumulerebbe nelle
cellule sotto forma di poliglutammato. Il N5‐metil‐tetraidrofolato invece esce dalle cellule e non
potrebbe espletare i suoi ruoli cellulari sulla sintesi del DNA. Infatti nella carenza di folati si ha
l’impossibilità di sintetizzare le basi purine e il deossitimidilato (dTMP), essenziali per la replicazione
del DNA. La clinica delle due carenze è sovrapponibile, tranne per gli effetti neurologici che fa
insorgere solo l’assenza di B12; il paziente è pallido e giallastro, con glossite di Hunter, scomparsa di
papille, aftosi recidivante, demielinizzazione/degenerazione assonale e morte dei neuroni. La
diagnosi è fatta sui dosaggi delle rispettive vitamine e la terapia è essenzialmente
sostitutiva/integrativa
‐ III GRUPPO: anemia causata da ridotta sintesi emoglobinica. In questo caso l’anemia è ipocromica e
microcitica perché la scarsa concentrazione di emoglobina consente una divisione mitotica in più,
riducendo la grandezza eritrocitaria. Abbiamo essenzialmente 4 categorie fondamentali: varianti
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strutturali della catena globinica per sostituzione, perdita o aggiunta amminoacidica, alterazione
quantitative della sintesi di emoglobine strutturalmente normali, sintesi a ritmo ridotto, persistenza
di emoglobina fetale.Varianti strutturali della catena globinica per sostituzione, perdita o aggiunta
amminoacidica: queste emoglobine non riescono a rimanere in soluzione nell’eritrocita ma si
aggregano e polimerizzano. La più nota malattia è la Drepanocitosi o anemia falciforme.
L’emoglobina di questa patologia o HbS deriva da una mutazione della catena beta per sostituzione
di un amminoacido (acido glutammico) con un altro (valina). Perdendo una carica negativa,
l’emoglobina si deforma, cristallizzando e facendo assumere una forma a falce al globulo rosso.
Questi eritrociti deformi possono essere captati dai macrofagi o formare trombi nel torrente
circolatorio. La clinica prevede una sintomatologia assente in eterozigosi, mentre una condizione
grave e conclamata in omozigosi (crisi dolorose, danno d’organo e ipossia). La diagnosi è
elettroforetica. La terapia che prima era solo conservativa, ora prevede il trattamento con 5‐
azacitidina o idrossiurea, composti capaci di stimolare la sintesi di emoglobina fetale (HbF), che
funge da sostituto. È utilizzabile anche il trapianto midollare. Alterazione quantitative della sintesi
di emoglobine strutturalmente normali: l’organismo è capace di produrre 6 catene globiniche (alfa,
beta, gamma, delta, epsilon e zeta). Epsilon e sigma sono esclusive dell’età embrionale, gamma
dell’età fetale (+ alfa), delta del neonato (+ alfa), beta e alfa dell’età adulta. Se si ha una carenza
nell’età adulta o dell’una o dell’altra catena, si parlerà di talassemie. Le BETA TALASSEMIE seguono
le regole Mendeliane di trasmissione e sono genericamente dovute a mutazioni del gene in “punti
caldi” della trascrizione (i promoter ad esempio). A loro volta le beta talassemie di dividono in
Talassemia Maiore Talassemia Minor. La Maiorsi divide a sua volta in Talassemia Trasfusione‐
Dipendente e Talassemia Non‐Trasfusione‐dipendente. La Talassemia Trasfusione‐Dipendente o
morbo di Cooley è una grave malattia causata da una omozigosi per mutazioni talassemiche, in cui
la sintesi delle catene beta è molto ridotta o assente; le catene alfa libere si associano tra di loro e
precipitano sulla membrana, determinandone danno e lisi; si forma HbF perché una quota di
eritroblasti capaci di produrre quest’emoglobina si trova favorita nella proliferazione rispetto a
quelli che esprimono le catene beta; la clinica prevede anemia grave congenita, ittero,
epatosplenomegalia, danno da deposizione tissutale del ferro, rarefazione della corticale delle ossa
a causa dell’iperplasia eritroblastica della spongiosa, sviluppo somatico e sessuale incompleto, con
facies “mongoloide” simil‐asiatica e accentuazione delle bozze fontali e delle ossa mascellari; la
diagnosi è laboratoristica con 4‐6 g/dl di emoglobina, con 2 milioni di eritrociti/mm3 e i globuli rossi
presentano forme atipiche (sottili, frammenti di emazie, a bersaglio); terapia con trasfusione a vita
e Deferoxamina per rimuovere gli accumuli di ferro dall’organismo (possibile anche la
splenectomia). La Talassemia Non‐Trasfusione‐dipendente è data da una doppia eterozigosi per
geni talassemici lievi (capaci di produrre una certa quota di catene beta) o da una contemporanea
omozigosi di una beta talassemia e alfa talassemia (il deficit contemporaneo riduce lo
sbilanciamento della produzione di catene globiniche); la clinica è meno grave della precedente, ma
a causa di un esaltato assorbimento intestinale del ferro causato dall’anemia si può sviluppare
emosiderosi; la terapia è con Deferoxamina e occasionale trasfusione. La Talassemia Minor è data
da eterozigosi per un gene beta talassemico; presenta lieve o nessuna anemia, apprezzabile solo
laboratoristicamente; l’importanza sta nel comunicare al paziente la sua condizione per evitare che
si accoppi con un altro eterozigote e rischi di generare un figlio omozigote; il livello emoglobinico
non è mai inferiore a 8 g/dl e quindi non necessita di terapia. Le ALFA TALASSEMIEcolpiscono i geni
alfa, che sono 4, e a seconda del quantitativo di geni de‐funzionalizzati determinano la patologia.
Possiamo avere un genotipo ‐a/aa in cui solo un gene risulterà non funzionante; questo tipo di
difetto non dà segno di se, né clinicamente, né necessita di terapia. Il genotipo ‐‐/aa manca di 2
geni, ma l’anemia è una lieve anemia ipocromica; viene definito “tratto alfa talassemico” e non
necessitante di terapia. Il genotipo ‐‐/‐a invece genera un’anemia moderata o raramente grave; il
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paziente genera un eccesso di catene beta libere, che si associano formando un tetramero
instabile, che tende a precipitare sulla membrana, irrigidendola e rendendola passibile di danno e
quindi lisi eritrocitaria; è considerata quindi anche un’anemia emolitica con spesso splenomegalia;
la diagnosi prevede la precipitazione laboratoristica dell’HbH tramite blu brillante di cresile; la
terapia prevede acido folico, rare trasfusioni o anche la splenectomia per ridurre l’emolisi. Il
genotipo ‐‐/‐‐ è incompatibile con la vita e provoca idrope fetale e morte intrauterina. Sintesi a
ritmo ridotto: causate da carenze di componenti essenziali per la sintesi di emoglobina. La più
conosciuta è l’Anemia Sideropenica o da carenza di ferro (carenza marziale). [Itinerario corporeo
del ferro: il ferro alimentare può esser assorbito dagli enterociti o sotto forma di eme (nell’anello
tetrapirrolico) o allo stato ferroso. L’assorbimento è regolato dall’epcidina. Questa è collegata alla
ferroportina che, legata alla membrana, capta il ferro nel citoplasma dell’enterocita. Se l’epcidina è
presente (condizioni di NON carenza di ferro), questa favorisce la degradazione della
ferroportina/ferro nei lisosomi; quando l’enterocita desquamerà, porterà con se il ferro inutilizzato
e lo eliminerà. Se l’epcidina NON è presente (condizione di carenza di ferro), la ferroportina potrà
veicolare il ferro nel plasma, consegnandolo alla transferrina. La transferrina consegna il ferro nei
tessuti e può circolare in 3 forme: apotransferrina (nessuno dei due siti occupati da ferro),
transferrina monoferrica (occupato un solo sito) e transferrina diferrica (occupati entrambe). Si
deposita principalmente nel fegato e nel midollo osseo sotto forma di ferritina e di emosiderina]
L’esordio è graduale dato che il paziente si abitua al ridotto livello emoglobinico e può ritardare
molto la visita. Dato che il ricambio del ferro nell’organismo è un evento estremamente lento
(perdita di 1‐2 mg/die, reintegrati dalla dieta giornaliera), le cause dell’anemia genericamente sono
imputabili a perdite parafisiologiche nella donna (mestruazioni) o cause organiche per entrambi i
sessi (sanguinamento, emorragia). Il ferro oltre a formare l’emoglobina è componente
indispensabile di diversi enzimi impiegati nel metabolismo energetico. I sintomi prevedono fragilità
delle unghie, dei peli e dei capelli, lingua liscia e arrossata con atrofia delle papille, stomatite
angolare, disfagia e gastrite con atrofia della mucosa gastrica. La terapia è correttiva della causa
scatenante e integrativa del ferro mancante. Persistenza di emoglobina fetale: l’emoglobina fetale
persiste nell’adulto a causa di mancato switch tra catene gamma e beta. Ne sono stati identificate
due tipologie: da delezione e da non delezione. Genericamente la sintomatologia è assente
‐ IV GRUPPO: anemia causata da ridotta sopravvivenza eritrocitaria. In questo caso l’anemia è
normocromica e dovrebbe essere normocitica, ma spesso è lievemente macrocitica a causa dei
numerosi reticolociti che risultano più grandi degli eritrociti. Possono esserci 5 cause: Alterazioni
congenite o acquisite della membrana eritrocitaria, Alterazione di alcuni enzimi eritrocitari
impiegati nel metabolismo cellulare, Alterazioni congenite dell’emoglobina, Alloanticorpi e
autoanticorpi, Cause meccaniche. Alterazioni congenite o acquisite della membrana eritrocitaria:
noti 2 esempi patologici: la Sferocitosi Ereditaria e l’Emoglobinuria Parossistica Notturna. La
Sferocitosi Ereditariaè una malattia a trasmissione autosomica dominante, causata da alterazioni
(sostituzioni amminoacidiche e piccole delezioni) in alcune proteine importanti per mantenere la
forma della membrana plasmatica eritrocitaria. Le alterazioni sono a carico di spectrina, anchirina,
banda 3 e carenza di proteina 4.2; ciascuno di questi difetti indebolisce la coesione verticale del
citoscheletro, facendo si che il globulo si deformi e assuma forma sferica. Quando l’eritrocita passa
nella milza, viene danneggiato dai seni splenici e si rompe. Clinicamente evidenziabile ittero e
colelitiasi con splenomegalia e anemia di grado variabile; complicanza rara è la crisi aplastica (da
infezione da parvovirus B19). La terapia prevede la splenectomia e somministrazione vitaminica
sostitutiva (per l’elevato metabolismo dell’eritrone). L’Emoglobinuria Parossistica Notturnaè una
malattia caratterizzata da crisi emolitiche (non solo notturne, ma prima si pensava che fosse così). È
data da difetti della membrana che consentono al sistema di inibizione del complemento di aderire
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alla membrana dell’eritrocita, causando la distruzione degli eritrociti e anemia conseguente. Un
gene denominato Pig‐a controlla la sintesi di GPI (glico‐fosfatidil‐inositolo) che ancora diverse
proteine inibitrici alla membrana. Tra queste ci sono DAF (dissocia C3bBb), CD59 (dissocia da C5 a
C9), C8BP (inattiva C8). La patologia è caratterizzata dall’emissione di urine ipercromiche
prevalentemente al mattino. Le crisi emolitiche ripetendosi possono dare danno renale cronico o
episodi tromboembolici gravi. La diagnosi si fa dosando gli inibitori del complemento legati alle
cellule. Terapia con eculizumab, anticorpo monoclonale diretto contro C5. Alterazione di alcuni
enzimi eritrocitari impiegati nel metabolismo cellulare: l’eritrocita per sopravvivere ha bisogno di
un certo apparato enzimatico. Procurandosi energia tramite due processi essenziali, Glicolisi
anaerobia e Shunt degli esosomonofosfati, necessita di una buona funzione di almeno 2 enzimi
essenziali: Piruvato chinasi e Glucosio‐6‐fosfato deidrogenasi. Un difetto nella Piruvato Chinasi (PK)
è genericamente trasmesso in maniera autosomica recessiva e genericamente il deficit è sia
quantitativo che qualitativo. Dato che l’enzima consente lo sviluppo di due moli di ATP per ogni
mole di glucosio, un difetto di questo si esplicita nella scarsa capacità dell’eritrocita di sopperire alle
richieste energetiche. La pompa sodio‐potassio della membrana diventa ipofunzionante e gli
eritrociti tendono a lisarsi. La diagnosi prevede la determinazione della PK, test dell’autoemolisi
positivo, normalizzato con aggiunta di ATP. La terapia prevede folati e splenectomia obbligatoria
nelle forme gravi. Un difetto nella Glucosio‐6‐fosfato deidrogenasi (G‐6‐PDH) è trasmesso tramite
il cromosoma X che ospita i geni per questo enzima (quindi risulta più facilmente grave per gli
uomini che per le donne). L’enzima (tramite Shunt degli esosomonofosfati) rigenera il pool di
NADPH dal NADP+, che a sua volta rigenera il glutatione ridotto (GSH) dal glutatione ossidato
(GSSG) tramite la glutatione reduttasi. Il glutatione ridotto è essenziale per evitare che
l’emoglobina si ossidi sui suoi gruppi sulfidrilici (SH). In carenza di questo enzima, l’emoglobina si
denatura, precipita sulla membrana formando inclusioni (corpi di Heinz) e la danneggia
permanentemente. Clinicamente il paziente mostra astenia, dolori lombari, febbre e colorito
subitterico con feci e urine ipercromiche. La diagnosi si basa sulla determinazione della G‐6‐PDH e
sul reperimento dei corpi di Henz. Trattamento profilattico evitando i fattori scatenanti, farmaci o
sostanze ossidanti l’emoglobina (come ad esempio quelle contenute nelle fave) che siano.
Alterazioni congenite dell’emoglobina: si formano emoglobine instabili che precipitano ed
emolizzano il globulo; possono anche essere secondarie ad altre cause (anemia falciforme).
Alloanticorpi e autoanticorpi: gli alloanticorpi che denotano malattia emolitica più comunemente
trattati sono quelli della madre Rh‐ alla seconda gravidanza, dopo aver avuto un figlio Rh+; si
svilupperanno alloanticorpi diretti verso l’antigene Rh+ che passeranno la barriera placentare alla
seconda gravidanza e emolizzeranno gli eritrociti del feto (malattia emolitica del neonato); un’altra
possibilità è causata da trasfusioni di sangue di gruppi diversi da quello del ricevente (a meno che il
ricevente non sia AB+ o che il sangue del donatore non sia uno 0‐). Autoanticorpi possibili in
malattie autoimmuni. Cause meccaniche: causate da protesi valvolari o protesi di segmenti
vascolari arcaiche o da microangiopatie
Senescenza ***:
l'invecchiamento è il processo di deterioramento naturale che intercorre tra la nascita di una struttura
biologica e la morte della stessa. Gli esseri viventi hanno sistemi che consentono loro di contrastare
l'invecchiamento, ovvero di tendere a mantenere costante l'ordine della propria struttura fisica. Questi
processi, almeno per gli organismi pluricellulari, hanno comunque una durata dopo la quale cominciano a
funzionare meno, non consentendo più il blocco dell’invecchiamento.Esistono varie teorie sui meccanismi
che presiedono alla senescenza:
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‐ Teoria della senescenza replicativa:questa teoria prevede che l’accorciamento dei telomeri sia
responsabile dell’invecchiamento cellulare. I telomeri* sono le regioni terminali dei cromosomi
essenziali per la stabilità del patrimonio genetico. Sono costituiti da specifiche sequenze (TTAGGG)
ripetute in tandem. Queste sequenze sono trascritte da un enzima denominato telomerasi, con
funzione di trascrittasi inversa; la telomerasi è costituita da una subunità catalitica detta Tert, una
componente di RNA e una proteina detta Discherina. La telomerasi usa uno stampo di RNA per
replicare i telomeri all’estremità dei cromosomi. C’è da dire che la telomerasi è presente solo nelle
cellule del reparto staminale; la sua assenza nelle altre cellule, infatti, causa la perdita di 50‐200
coppie di base ogni replicazione cellulare. Si è però supposto che, col passare del tempo, la
telomerasi cominci a funzionare meno; a prova di questo ci sarebbe il dato chei telomeri delle
cellule di soggetti di età più avanzata tendono ad essere più corti
‐ Teoria dell’invecchiamento prematuro:stimoli nocivi di varia natura possono indurre la comparsa di
cellule con fenotipo Sasp, ossia secernente chemochine, citochine e metalloproteasi (2 e 4
prevalentemente) e fattori di sopravvivenza. Queste cellule generano un microambiente
infiammatorio che invece di opporsi alle neoplasie (come dovrebbero fare le cellule senescenti), ne
incoraggia la comparsa
‐ Teoria della regolazione genica:si suppone che l’espressione di determinati geni sia predittiva di
possibile longevità
‐ Teoria dell’usura somatica: l’invecchiamento sarebbe causato da un progressivo accumulo di danni
a carico del DNA nel corso delle varie replicazioni cellulari. La minore capacità di riparazione dei
danni farebbe sì che le mutazioni si accumulassero al suo interno, compromettendo la funzionalità
della cellula
‐ Teoria dei radicali liberi: si ipotizza che i radicali liberi ossidanti (o ROS, prodotti soprattutto dal
metabolismo mitocondriale) siano gli artefici dell’invecchiamento. Queste specie reattive possono
modificare il DNA e diverse altre molecole, compromettendone la funzionalità (la doppia catena del
DNA viene rotta a causa della perossidazione del ribosio).A ridurre la loro pericolosità intervengono
alcuni enzimi, come la superossido‐dismutasi, la catalasi. La somministrazione di sostanze
antiossidanti in drosofila ha portato ad un allungamento della vita dei moscerini. Anche la perdita
di funzione di geni come p67 o di sistemi che utilizzano O2 (come i citocromi), rallentano la
senescenza
‐ Teoria della mutagenesi mitocondriale: si ipotizza che mutazioni a carico del DNA mitocondriale che
compromettano il metabolismo energetico possano essere un fattore d’invecchiamento
‐ Teoria degli AGE: è da tempo risaputo che l’invecchiamento causa sclerosi connettivale. Gli AGE
(advanced glication endproduct) sono in parte responsabili di questo fenomeno. Questi AGE si
formano quando il gruppo amminico terminale di una proteina si lega ad uno zucchero (specie
glucosio) e, tramite condensazione, forma un composto instabile; questo composto instabile va ad
aggregarsi con altri composti simili, disidratandosi ulteriormente e generando gli AGE. Gli AGE
reagiscono con RAGE, un recettore presente sui leucociti che consente a questi di individuare
cellule necrotiche. Normalmente RAGE interagirebbe con HMGB1, ossia la vera citochina rilasciata
da cellule necrotiche; tuttavia, a causa della capacità “mimetica” degli AGE, questi riescono ad
ingannare il leucocita facendosi passare per HMGB1, inducendo così una risposta infiammatoria
che può portare alla sclerosi
[Geni della senescenza]
Malattie mitocondriali ********:
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riguardano esclusivamente i mitocondri e i loro sistemi di trasporto/produzione. Ne abbiamo di due
tipologie: primarie se il difetto è di origine genetica; secondarie se dipendono da fattori esterni che o
impediscono il metabolismo mitocondriale o sono dati da carenza dei componenti essenziali per le funzioni
mitocondriali o determinano l’accumulo di metaboliti che blocca la progressione delle vie di produzione
energetica. Si manifestano genericamente con rigonfiamento dei mitocondri. Il DNA mitocondriale (o
mtDNA) si trova sotto forma di un unico cromosoma circolare, contenente 37 geni totali, 13 dei quali
codificanti per polipeptidi; non possiede istoni. I mitocondri sono puramente di derivazione materna dato
che lo spermatozoo non li inserisce nella cellula uovo (si trovano sul collo dello spermatozoo che non
penetra l’ovocita). Dato il numero dei mitocondri, non è detto che tutti subiscano mutazioni;
genericamente si parla di un valore soglia di mitocondri con mutazioni, al di sotto del quale la patologia non
risulta fenotipicamente evidente. Le malattie mitocondriali possono essere dovute a:
‐ Difetti di geni mtDNA che codificano per polipeptidio altre componenti del codice mitocondriale
[quali l’ATPasi 6 (sindrome di Leigh e la NARP)]
‐ Difetti di geni nucleari utili per il metabolismo mitocondriale, quali la frataxina (per l’atassia di
Friedreich)
‐ Difetti di geni nucleari che alterano la stabilità del mtDNA, dato che i fattori per la replicazione ed il
riparo di quest’ultimo sono codificati dal DNA nucleare
‐ Deficit di produzione energetica
‐ Eccessiva generazione di ROS
‐ Innesco dell’apoptosi che può essere causato da un’aumentata esposizione alle ROS o ad un declino
della produzione energetica o ad eccessiva assunzione di calcio, tutti eventi che possono aprire dei
canali aspecifici capaci di generare un collasso del potenziale elettrochimico, con rottura della
membrana esterna, rilascio di AIF e citocromo C e induzione dell’apoptosi
NARP:
sindrome Neuropatia, Atassia e Retinite Pigmentosa**** (NARP). È dovuta alla mutazione nel gene del
mtDNA, MTATP6, che codifica per la subunità 6 dell'ATPasi. La mutazione causa un grave deterioramento
della sintesi dell'ATP mitocondriale, che riduce l'energia e produce la morte cellulare, in particolare nei
tessuti che dipendono fortemente dal metabolismo della fosforilazione ossidativa, come il cervello e la
retina. La mutazione è anche presente nei pazienti con malattia di Leigh che viene chiamata MILS, ed è la
forma clinica più grave della sindrome NARP, generalmente fatale nella prima infanzia. Il trattamento è solo
sintomatico
‐ epidemiologia: 1/12.000 nati
‐ clinica: è clinicamente eterogenea, ma spesso è caratterizzata dalla combinazione tra neuropatia
sensoriale‐motoria, atassia cerebellare e cecità notturna. La sintomatologia clinica comprende
retinopatia precoce, retinite pigmentosa, pupille 'pigre', nistagmo, cecità, debolezza muscolare
prossimale, ritardo di sviluppo, atrofia cortico‐spinale, demenza
Riparazione cellulare/guarigione ferite ***:
quando il corpo viene sottoposto ad un danno, si ha prima il fenomeno d’infiammazione e poi quello di
risoluzione, tramite riassorbimento dell’essudato infiammatorio e tramite l’allontanamento dei fattori
lesivi. Quando il danno causa scollamento delle strutture tissutali o perdita di sostanza tissutale, il semplice
allontanamento dei mediatori infiammatori non basta a terminare il processo; in questo secondo caso il
tessuto deve rigenerarsi e reintegrare le strutture connettivali perdute. Il processo richiede anche la
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formazione di strutture vascolari che forniscano i nutrienti necessari a sostenere il processo. La guarigione
di una ferita può avvenire per 1° o 2° intenzione
‐ Laguarigione per 1° intenzione:prevede che i margini della ferita coincidano, che non ci sia stata
perdita di tessuto e che non vi sia nessun processo di sepsi in atto. In pochi minuti lo spazio tra i
due margini si riempie di sangue che coagula grazie alla presenza della fibrina e della fibronectina.
Si forma successivamente una struttura disidratata chiamata crosta o escara, che funge da barriera
verso i possibili agenti lesivi esterni. Dopo poche ore, i cheratinociti sopravvissuti ai lati della ferita
si attivano, cominciando a migrare al disotto dell’escara, acquisendo caratteristiche fagocitiche. La
migrazione è di circa 0,5 mm/gg. Genericamente la migrazione da sola riesce a garantire la
copertura di ferite piccole, ma se la ferita risulta più grande può essere necessaria anche una
proliferazione. Dopo 24‐48 ore sopraggiungono anche i leucociti; questi digeriscono in maniera
controllata il coagulo. Il 3° giorno inizia il processo di neo‐vascolarizzazione, promosso dai fattori
angiogenici e dall’ipossia; questo processo prevede lo spostamento delle cellule endoteliali verso il
coagulo (anche queste cominciano a secernere proteasi per farsi strada nel coagulo). La migrazione
è di circa 0,4 mm/gg. Avvenuta la vascolarizzazione si formerà un tessuto rosato e granulare,
definito tessuto di granulazione. Infine i fibroblasti deporranno collagene (specie il tipo 3). Dopo 1
settimana lo spessore della pelle e il grado di cheratinizzazione saranno aumentati, mentre inizierà
la formazione di una nuova membrana basale. Alla fine della 2° settimana si avrà una nuova
epidermide ed una nuova membrana basale, mentre i vasi neoformati regrediranno. Nel mese
successivo, continuerà il processo di sostituzione del collagene di tipo 3 con quello di tipo 1,
aumentando il numero di legami stabili tra le varie fibre di collagene. A fine del processo, il tessuto
cicatriziale rimarrà comunque meno solido rispetto alla cute normale (circa il 20% meno solido)
‐ La guarigione per 2° intenzione:prevede un’estesa perdita di sostanza, con un’area che può essere
necrotica o infetta(può esserlo anche quando la guarigione è per 1° intenzione, ma l’area è
estremamente più piccola in quel caso) e pertanto complicata da un'importante risposta
infiammatoria.Gli eventi che caratterizzano la riparazione sono essenzialmente gli stessi, ma
presentano una durata (e una deposizione di sostanza) molto più massiccia. Un fenomeno rilevante
del processo di riparazione è la contrazione della ferita, tanto più importante quanto più estesa è
stata la perdita di tessuto e la formazione di tessuto di granulazione. La contrazione può essere
molto cospicua arrivando in alcuni casi a ridurre la superficie della lesione anche al 10% di quella
originaria, ed è dovuta sia alla disidratazione del coagulo (soprattutto alla superficie esposta all'
aria), sia all' azione dei miofibroblasti che assumono le caratteristiche proprie delle cellule
muscolari lisce; internamente posseggono una struttura di microfilamenti composti da actina,
miosina ed alfa‐actina ed è questa struttura che gli consente la contrazione
I mediatori solubili per le varie fasi sono: PDGF [duplice ruolo: stimolazione dell’infiammazione precoce e
proliferazione tardiva dei fibroblasti], EGF / TGF‐alfa [stimolano la riepitelizzazione], TGF‐beta [fattore
chemiotattico per neutrofili, macrofagi e fibroblasti], HGF / SF [inducono la migrazione, la proliferazione e
la produzione di proteasi dei cheratinociti], FGF [inducono la proliferazione dei fibroblasti e di altre specie
cellulari], VEGF [fattore di crescita angiogenica], angiopoietina [regola il rimodellamento e la maturazione
dei capillari neoformati]
GENETICA
Struttura generica di un gene:
un gene eucariotico è massimalmente così composto (guardandolo da “sinistra a destra”):
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‐ Quando presente, un “Enhancer”, ossia una sequenza di DNA che svolge il suo ruolo pro‐
trascrizione attraverso l'associazione con diverse proteine, tra cui diversi fattori coinvolti nell'avvio
della trascrizione stessa. A differenza dei promotori, queste sequenze possono risultare molto
grandi
‐ Un promotore, ossia una regione di DNA costituita da specifiche sequenze dette consenso, alla
quale si lega la RNA polimerasi per iniziare la trascrizione di un gene; il promotore contiene la
TATA‐box, una sequenza di Adenina e Timina ripetute che formano una regione che facilita
l'attacco della RNA polimerasi
‐ Una regione del “cap” o cappuccio, presente poi sull’RNA messaggero in forma di Guanina
modificata. Questa regione richiama enzimi specifici del “capping” che, legati alla RNA polimerasi 2,
esplicano le loro funzioni prima della trascrizione (il “cap”regola il trasporto extra‐nucleare dell’RNA
messaggero)
‐ Una regione centrale, formata da esoni (sequenze codificanti) ed introni (sequenze non codificanti)
‐ Una coda, formata da un sito di poliadenilazione; queste Adenine ripetute in tandem hanno un
effetto protettivo sull’l’RNA messaggero, evitando la degradazione delle esonucleasi
Dominanza incompleta ******:
si parla di dominanza incompleta quando nessuno dei due alleli per un carattere è dominante sull'altro. Il
fenotipo manifestato dall'eterozigote è un fenotipo intermedio tra quelli dei due omozigoti.Un esempio è
dato dall'incrocio di due varietà floreali, l'una con fiori rossi, l'altra con fiori bianchi: supponendo si tratti di
dominanza incompleta, si ha che l'individuo eterozigote presenterà un fenotipo intermedio, ossia fiori rosa
(si osserva un'aploinsufficienza della copia normale del gene, cioè l'incapacità di una sola copia di garantire
una funzione normale…?)
Isocromosoma ***:
L'isocromosoma è il risultato di un'aberrazione cromosomica strutturale intracromosomica causata da un
errore di divisione durante l'anafase. Il cromosoma si rompe trasversalmente al livello del centromero e
braccio lungo e braccio corto si separano. Il braccio che porta con sé il centromero, solitamente il lungo,
può replicarsi, mentre l'altro viene generalmente perduto. Il nuovo cromosoma sarà quindi formato
dall'esatta duplicazione di uno dei due bracci e genericamente risulta funzionalmente inattivo, dando luogo
a patologie come la sindrome di Turner da isocromosoma X
Codominanza:
nella codominanza gli alleli di un medesimo gene sono espressi con piena funzionalità
contemporaneamente, come accade nel gruppo sanguigno AB in cui sono espressi efficacemente entrambi i
geni per gli antigeni A e B
Epigenetica *:
si riferisce ai cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo. Infatti è la branca della
genetica che studia tutte le modificazioni ereditabili che variano l'espressione genica pur non alterando la
sequenza del DNA. È data da diversi meccanismi, quali:
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fornito in natura dal gatto calico femmina, che possedendo sulla X i geni per i pigmenti del manto, a seguito
di un’inattivazione dell’una o dell’altra X in differenti cellule, mostra diverse pigmentazioni a “chiazze”
Duplicazione segmentale (LCR):
sono regioni genomiche duplicate nello stesso cromosoma; possono avere lo stesso orientamento (LCR
dirette) o orientamento opposto (LCR inverse).Presenti in ogni essere umano in circa il 5% del DNA; sono
presenti in varie regioni del genoma (spesso in regioni pericentromeriche), non sono polimorfiche
altrimenti si tratterebbe di CNV* (copy number variation – segmenti di DNA che variano nel numero di
ripetizioni; sono fattori di variabilità genetica e sono stati anche associati con disturbi quali la
schizofrenia).Il disallineamento della LCR durante la ricombinazione omologa non allelica (NAHR) è un
importante meccanismo alla base dei disturbi cromosomicicomeduplicazioni edelezioni. Molte LCR sono
concentrate in "punti caldi", come la regione 17p. Le NAHR sono responsabili per una vasta gamma di
disturbi, tra cui sindrome di Smith‐Magenis, William e de George. Quindi la duplicazione segmentale non è
la causa di nessuna malattia, ma il probabile innesco di un fenomeno di ricombinazione omologa che può
generare eventi come leduplicazioni e le delezioni,generando malattie
SNP:
polimorfismo a singolo nucleotide è una variazione del materiale genico a carico di un unico nucleotide,
tale per cui l'allele polimorfico risulta presente nella popolazione in una proporzione superiore all'1%. Gli
SNPs all'interno di un gene non necessariamente modificano la sequenza amminoacidica codificata, dal
momento che il codice genetico codifica per varianti ridondanti. Gli SNPs costituiscono il 90% di tutte le
variazioni genetiche umane; due SNPs su tre vedono una variazione tra citosina e timina. Lo studio degli
SNPs è molto utile poiché variazioni anche di singoli nucleotidi possono influenzare lo sviluppo delle
patologie o la risposta ai patogeni, agli agenti chimici, ai farmaci
Allele Equivalente/Amorfo/Ipomorfo/Ipermorfo/Antimorfo/Neomorfo/Polimorfo ********:
‐ Equivalente: variazioni genetiche che non modificano né la quantità né la qualità del prodotto
genico, producono un allele equivalente
‐ Amorfo: variazioni genetiche che eliminanoil prodotto genico tramite una delezione della sequenza
corrispondente, producono un allele amorfo. Genericamente la condizione di emizigosi non genera
malattia ma stato di portatore, a meno che non riguardi un gene il cui funzionamento in
cooperazione con l’altro gene omologo non sia necessario per la normale funzionalità corporea.
Esempi – emofilia, distrofia muscolare di Duchenne
‐ Ipomorfo: variazioni genetiche che riducono la quantità e la qualità del prodotto genico, producono
un allele ipomorfo. Genericamente la condizione di emizigosi non genera malattia ma stato di
portatore, a meno che non riguardi un gene non compenato da un altro gene omologo. Esempio‐
distrofia muscolare di Becker (gene locato sulla X, in soggetti maschi da sempre patologia)
‐ Ipermorfo:variazioni genetiche che aumentano la quantità del prodotto genico ela sua funzionalità,
producono un allele ipermorfo. In qualunque condizione, l’altro allele non può limitare
l’espressività di questo allele che diviene dominante causando le manifestazioni patologiche.
Esempio ‐ acondroplasia
‐ Antimorfo: variazioni genetiche che modificano il prodotto genico, generando una proteina che si
oppone alla funzione di altre proteine cellulari, producono un allele antimorfo. In qualunque
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condizione, l’altro allele non può compensare l’effetto di questo allele che interferisce con i
prodotti dell’altro allele causando le manifestazioni patologiche. Esempio – malattie del collageno
‐ Neomorfo: variazioni geniche che codificano per funzioni nuove e nuovi prodotti proteici. Valgono
le stesse condizioni espresse per l’allele ipermorfo. Esempio‐ meccanismi della carcerogenesi
‐ Polimorfo:variazioni geniche che codificano per uno stesso prodotto genico, ma in più forme
fuzionali possibili. La variazione deve avere una prevalenza maggiore dell’1% nella popolazione. I
polimorfismi possono essere silenti (se la variazione proteica mantiene la stessa funzione) o
manifesti (se si avrà un cambiamento del fenotipo, come proteine modificate la cui funzione
risulterà alterata). Un esempio di polimorfismo sono i gruppi sanguigni AB0
Penetranza ******:
è la frequenza con cui gli individui che hanno un dato genotipo esprimono un certo fenotipo. È definita
completa se tutti gli individui con lo stesso genotipo esprimono quel dato fenotipo. È definita incompleta se
l’espressione fenotipica per lo stesso genotipo è solo parziale nella popolazione. Si può anche parlare di
penetranza circoscritta se l’evidenza fenotipica avviene solo in un secondo momento, a seguito di un
secondo fattore scatenante
Espressività variabile ed eterogeneicità genetica *********: [esempi: retinite pigmentosa, Marfan,
Waardenburg e osteogenesi imperfecta]
l’espressività è l’insieme delle caratteristiche cliniche individuali di una patologia genetica, che possono
però andare incontro anche ad una notevole variazione tra persona a persona, anche negli stessi nuclei
familiari
Aploinsufficienza ***********:
condizione per cui servono entrambe i geni su entrambe gli alleli, provenienti sia dal cromosoma paterno
che materno. In caso di mancanza anche solo di uno dei due geni, si genererà un prodotto insufficiente che
determinerà patologia (emofilia, distrofia muscolare di Duchenne)
Aneuploidie ********:
condizione irregolare del numero di cromosomi in cui, a differenza della poliploidia, la variazione è limitata
a uno o a pochi elementi dell’assetto cromosomico, per eccesso o per difetto. Rientrano le trisomie e le
monosomie
Poliploidie ****:
anomalia della meiosi che consente la formazione di un corredo cromosomico a più copie del normale,
considerando la totalità dei cromosomi e non un singolo. Se un gamete diploide si unisce con un gamete
aploide normale, dà origine a uno zigote con 3n cromosomi, cioè triploide. Se un gamete diploide ne
feconda un altro diploide, nasce un tetraploide 4n
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Mola Idatiforme *:
conosciuta anche come gravidanza molare, è una forma anomala di gravidanza in cui un ovulo fecondato
non vitale si impianta nell'utero e comporta l'instaurarsi di una gravidanza anormale, che non riuscirà ad
essere portata a termine; può quindi essere considerata come un "mancato aborto spontaneo" in quanto la
gravidanza è divenuta non vitale ma il prodotto del concepimento non è stato espulso. Si forma una massa
a seguito del rigonfiamento di villi coriali, che si accrescono in gruppi e strutture cistiche che assomigliano a
grappoli rigonfi di liquido. Una gravidanza molare può svilupparsi quando un ovulo privo di nucleo viene
fecondato. Quest'ovulo non è poi in grado di convertirsi a tessuto fetale. Le gravidanze molari sono
suddivisi in parziali e complete. Una mola completa è causata dalla penetrazione di un singolo spermatozoo
(90% dei casi) oppure di due spermatozoi (restante 10% della casistica) all'interno di un ovulo che ha perso
il suo DNA (lo spermatozoo poi si duplica formando un set "completo" di 46 cromosomi). Il genotipo è
tipicamente 46, XX a seguito di successiva mitosi dello spermatozoo fecondante, ma può essere anche 46,
XY nel caso di 2 spermatozoi. Una mola parziale si verifica quando un ovulo viene fecondato da due
spermatozoi o da uno spermatozoo che duplica sé stesso dando luogo ai genotipi 69, XXY (triploide) o 92,
XXXY (tetraploide). La mola idatiforme presenta un rischio abbastanza elevato di evolvere in
coriocarcinoma
Pseudogene:
si intende una sequenza di nucleotidi simile ad un gene (a livello di struttura), ma priva di alcuna
espressione all'interno della cellula. Solitamente si tratta di geni ancestrali che hanno perso la capacità di
essere espressi o se trascrivibili, non sono in grado di generare un prodotto proteico funzionale, spesso a
causa di mutazioni genetiche consolidatesi durante l'evoluzione. Sebbene gli pseudogeni siano spesso
etichettati come DNA spazzatura, essi contengono all'interno delle loro sequenze informazioni riguardanti i
meccanismi dell'evoluzione. Si dividono in:
‐ Pseudogeni processati (o retrotrasposti) –derivano da RNA messaggeri e sono composti solo da
“esoni”; nel processo della retrotrasposizione, una porzione dell'RNA messaggero di un gene viene
spontaneamente retrotrascritto in DNA e reinserito nel DNA cromosomico. Nel momento in cui
questi pseudogeni si reinseriscono nel genoma, poiché derivano da un mRNA possiedono il sito di
poliadenilazione, ma perdono il promotore (e di conseguenza la capacità di essere ri‐trascritti). Per
questo motivo questi elementi non risultano codificare per proteine funzionanti
‐ Pseudogeni non processati ‐ hanno la struttura di un gene, con esoni e introni. Derivano dalla
duplicazione di un gene con la seguente inattivazione a causa di mutazioni accumulate
nell’evoluzione che distruggono la sequenza codificante, risultando non funzionali
Pseudoermafroditismo maschile e femminile:
Lo pseudoermafroditismo è una condizione per la quale un individuo presenta un aspetto del sesso
opposto a quello cromosomico o un fenotipo sessuale ambiguo. Nei casi di pseudoermafroditismo
maschile, le cause riguardano principalmente una scarsa produzione di androgeni (deficit enzimatici come
quello della 5‐alfa‐reduttasi) o insufficiente risposta a questi (deficit della risposta recettoriale agli
androgeni ‐ Androgen Receptor). Gli individui pseudoermafroditi per deficit della sintesi di
diidrotestosterone (deficit di 5‐alfa‐reduttasi) genericamente hanno pene e testicoli di dimensioni ridotte e
carenza di caratteri sessuali secondari come barba, peluria corporea, profondità della voce. Altri casi
riguardano la sindrome da insensibilità agli androgeni; un individuo con un cariotipo 46, XY può svilupparsi
come una femmina, ma presentando vagina a fondo cieco, assenza degli organi derivati dai dotti di Mueller,
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criptoorchidismo e amenorrea primaria. In caso di pseudoermafroditismo femminile, la causa principale è
ormonale, determinata da difetti enzimatici (iperplasia surrenale congenita), dovuta alla difettosa
produzione dell'enzima 21‐idrossilasi che converte il 17‐OH‐Progesterone in 11‐Deossicortisolo, precursore
del cortisolo. Il deficit da questo enzima comporta la deviazione della sintesi ormonale verso quei
metaboliti che non richiedono tale enzima per la loro sintesi, come testosterone, androstenedione. L'ipofisi,
che funziona come una centralina di regolazione ormonale, registra l'assenza in circolo di cortisolo e
produce ACTH (ormone adrenocorticotropo), la quale stimola le ghiandole surrenali a cominciare le tappe
di produzione del cortisolo. Un eccesso di ACTH porterà accumulo di 17‐idrossi‐progesterone, dal quale
derivano gli androgeni. Il tutto porterà ad un’accentuazione dei caratteri sessuali maschili in un soggetto
femminile
Inattivazione della X ****:
fenomeno normalmente riscontrato negli individui di sesso femminile. Un cromosoma X viene inattivato
per evitarne la sovraespressione. Questa inattivazione tuttavia non è assoluta; alcune regioni chiamate
regioni PAR (che normalmente servono nel crossing over tra gli eterocromosomi, contengono dei geni
chiamati SHOX che si ipotizza possano avere un ruolo centrale nel determinare l’altezza dell’individuo) non
vengono mai inattivate. Il gene X che dovrà inattivarsi produce un RNA chiamato Xist che riveste il gene,
inattivandolo. Il cromosoma X, una volta inattivato non si ri‐attiverà più e formerà una struttura molto più
compatta e spiralizzata, chiamata corpo di Barr. Il processo è noto anche come Lyonizzazione ed è
casualmente attivato allo stato di blastocisti. Esistono casi in cui l’inattivazione non è però casuale, ma
preferenziale, ad esempio nelle traslocazioni del cromosoma X mutato sul cromosoma 9; in questo caso
viene inattivata solo la X sana perchè si inattivasse la X mutata che ha traslocato sul cromosoma 9 si
avrebbe anche l'inattivazione del cromosoma 9, quindi una monosomia del cromosoma 9 e morte della
cellula
Mutazione puntiforme *:
determinano uno scambio di un nucleotide con un altro. Sono definite transizioni qualora vi sia un scambio
di una purina con altra purina (A ↔ G) o di una pirimidina con un'altra pirimidina (C ↔ T); oppure
transversioni quando lo scambio è di una purina con una pirimidina o viceversa (C/T ↔ A/G). Possono
essere definite:
‐ mutazioni sinonimo: quando la mutazione determina un codone diverso ma che codifica per lo
stesso amminoacido (questo è possibile grazie alla ridondanza del nostro codice genetico). Non si
avrà alcun cambiamento nel prodotto genico
‐ mutazioni di senso errato: quando un codone viene sostituito con uno che codifica per un altro
amminoacido. Se quest'ultimo avrà le stesse caratteristiche chimiche (dimensione, carica...) allora
la sostituzione sarà conservativa altrimenti non conservativa. È chiaro che il secondo caso rende più
probabile una variazione nella funzionalità del prodotto
‐ mutazioni non senso: quando la mutazione determina la formazione di un codone di stop
all'interno della sequenza. Questo provoca, se il prodotto è una proteina, un'interruzione precoce
della sua sintesi nella traduzione. In generale maggiore sarà il frammento non tradotto maggiore
sarà il rischio di una mutazione svantaggiosa
Mutazione da inserzioni/delezioni:
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se i nucleotidi vengono inseriti o deleti all’interno di una sequenza genica, si avrà questo tipo di mutazione.
Si parla di 2 casi:
‐ mutazione indifferente: il prodotto proteico non varia di funzione se pur varia minimamente di
forma. Questa condizione è possibile quando il numero di nucleotidi deleti o inseriti è di 3 o
multiplo di 3 (ovviamente anche avere eccessivi multipli di 3 conferirà patologia). La proteina che si
viene a formare pur avendo un amminoacido in + o in ‐, potrebbe comunque riuscire a funzionare
non determinando patologia
‐ mutazione frame‐shift: il prodotto genico varia, perde o acquisisce un’altra funzione. Quando il
numero di nucleotidi deleti o inseriti non è di 3 o multiplo di 3, si ha lo slittamento della cornice di
lettura del DNA dell’intero gene, generando una proteina totalmente diversa da quella di partenza.
Questa proteina può non riuscirsi a ripiegare e quindi non funzionare, o strutturarsi e acquisire una
nuova funzione, positiva (raro) o negativa (tipico) che sia
Mutazione de novo *****:
mutazione genica che avviene nell’individuo senza che appartenga al corredo ereditato dalla famiglia.
Genericamente queste mutazioni avvengono più spesso nella spermatogenesi. Se avvengono nel corpo di
un individuo già formato, possono portare alla formazione di un tumore
Premutazione ***:
condizione genetica che riguarda le patologie da espansione di triplette. Se l’espansione di una data
tripletta non ha ancora superato una lunghezza espansiva critica, il soggetto non ha nessuna malattia, ma è
estremamente probabile che nella futura generazione questa malattia insorga per ulteriori mutazioni
espansive. Questa condizione di predisposizione ad una malattia da espansione di triplette viene definita
“premutazione”
corpo di Barr:
cromosoma X inattivato,formante una struttura molto più compatta e spiralizzata, chiamata corpo di Barr
Regioni PAR o pseudoautosomiche **:
sono regioni localizzate sui cromosomi sessuali X e Y che contiene geni che non vengono inattivati durante
la inattivazione della X nella donna. Quindi sono trasmessi come se fossero dei geni autosomici anche se si
trovano sui cromosomi sessuali. Questa regione è importante per la segregazione del bivalente XY nella
meiosi maschile, perché è l'unica in cui si ha appaiamento tra i due cromosomi e crossing over che è
fondamentale per la corretta segregazione. In realtà le regioni pseudoautosomiche sono due e si chiamano
PAR1 e PAR2 localizzate una sul braccio corto e una sul braccio lungo dei cromosomi sessuali; contengono
dei geni chiamati SHOX che si ipotizza possano avere un ruolo centrale nel determinare l’altezza
dell’individuo
MicroRNA ***:
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sono piccole molecole endogene di RNA non codificante a singolo filamento riscontrate nelcomplesso di
trascrizione genica degli organismi a DNA. Si tratta di polimeri di RNA codificati dal DNA nucleare
eucariotico lunghi circa 20‐22 nucleotidi e principalmente attivi nella regolazione dell'espressione genica a
livello trascrizionale e post‐trascrizionale. I miRNA inducono il silenziamento genico tramite
sovrapposizione con sequenze complementari presenti su molecole di RNA messaggero (mRNA) bersaglio.
Tale legame comporta una repressione della traduzione o la degradazione della molecola bersaglio
Cromosoma Marker:
Un cromosoma marcatore è un cromosoma strutturalmente anomalo non identificabile in nessun altro
cromosoma e si ipotizza possano derivare da trisomie “mancate”. Il significato di un marcatore è molto
variabile, in quanto dipende da ciò che contiene il cromosoma: se il marker è composto di materiale
genetico inattivo, ha poco o nessun effetto; viceversa se contiene materiale codificante la patologia
espressa può essere variabile a seconda del contenuto
Delezione/microdelezione (in che caso si ha la comparsa patologica) ************:
la delezione è la perdita di un tratto di DNA cromosomico; se questo tratto perduto ha dimensioni molto
piccole, si parla di microdelezioni cromosomiche. Entrambe le condizioni possono essere più o meno gravi a
seconda del cromosoma e del tratto interessato. Se il tratto colpito non codifica per nessun messaggio
(sequenze introniche) e la sequenza deleta rispetta l’organizzazione delle altre triplette (i tratti eliminati
devono possedere un numero di nucleotidi multiplo di 3) non si ha patologia; in tutti gli altri casi,
genericamente vi è la comparsa di mutazione patologica
Anticipazione ****:
l'anticipazione è un fenomeno noto nelle malattie di espansione delle triplette, per cui il fenotipo
patologico insorge ad un'età sempre più precoce di generazione in generazione.Il fenomeno
dell'anticipazione è sostanzialmente dovuto a errori di ricombinazione meioticache aumentano nella
progenie il numero di ripetizioni delle triplette nel gene responsabile della patologia. In alcuni casi,
l'espansione delle triplette non porta ad anticipazione ma ad un aggravamento del fenotipo (ad esempio
nella Sindrome dell'X fragile)
Traslocazioni(tipologie bilanciate e non)**********: (test predittivi)
anomalie cromosomiche strutturali causate da riarrangiamenti di pezzi tra cromosomi non omologhi.
Questo tipo di trasformazione è comune nelle cellule tumorali maligne. La traslocazione è bilanciata se lo
scambio di segmenti cromosomici avviene senza nessuna perdita di informazioni genetiche
(essenzialmente, abbiamo solo avuto lo spostamento di un tratto di cromosoma su un altro). La
traslocazione sbilanciata invece prevede che oltre al trasferimento di una porzione cromosomica ci sia una
perdita o un’acquisizione di DNA. Se l’acquisizione/perdita di DNA è piccola, potremmo avere una
mutazione compatibile con la vita; in caso sia grande, genericamente l’individuo muore
Traslocazione Robertsoniana*******:
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traslocazione che coinvolge i cromosomi acrocentrici 13, 14, 15, 21, 22. Questi cromosomi contengono un
braccio corto privo di geni che può andare perduto con la fusione di 2 cromosomi acrocentrici. Se è
bilanciata, non comporta patologia ma condiziona fortemente la possibilità riproduttiva. La più frequente è
data dal cromosoma derivante 13q14q
Inversione cromosomica *:
rare variazioni cromosomiche che comportano la rottura di 2 punti delineanti un segmento di DNA
specifico. Si dicono semplici se la rottura avviene su 2 punti di uno stesso cromosoma. Possono essere
divise in: pericentriche se il segmento invertito contiene il centromero, paracentriche se riguardava solo
uno dei due bracci
Monosomie:
Turner *******:
La sindrome di Turner, nota anche come monosomia X (X0), conseguente ad un errore nel corretto
appaiamento dei cromosomi durante la meiosi. La principale causa della sindrome è la non disgiunzione del
cromosoma sessuale durante la meiosi, nella gametogenesi, che porta alla formazione di gameti aventi un
soprannumero di questi o la totale assenza. Dall'unione di un gamete privo di cromosomi sessuali e uno
normale contenente il cromosoma X nascono individui affetti da questa sindrome. Per più di un 80% dei
casi dipende da un errore nella spermatogenesi che dovrebbe avere con sé un cromosoma sessuale e
invece ne risulta privo. Può però anche risultare da un mosaicismo 45‐X0 e 46‐XX
‐ epidemiologia: nel 98% dei casi risulta letale e la gravidanza termina con aborto spontaneo; le
femmine nate vivesono 1/2.500
‐ clinica: collo corto e con pterigio, attaccatura delle orecchie bassa, bassa attaccatura dei capelli
nella parte posteriore del collo, bassa statura (per colpa della mancanza di una regione SHOX) e
mani e piedi gonfi, mandibola piccola (micrognazia).In genere le donne con la sindrome non hanno
il ciclo mestruale, non sviluppano le mammelle e sono sterili. Frequentemente si verificano difetti
cardiaci. La maggior parte delle persone affette dalla condizione hanno un quoziente di intelligenza
normale
Trisomie ******:
malattie congenite dovute alla presenza di tre corredi cromosomici aploidi, generando un individuo
geneticamente 2n+1 con 47 cromosomi. La causa di queste patologie più statisticamente importante è la
non‐disgiunzione meiotica dei cromosomi patologici. La più frequente delle trisomie è la trisomia 16, che
però porta ad aborto spontaneo. Quelle più rappresentate sono dunque: sindrome di Down (21), sindrome
di Edwards (18), sindrome di Patau (13)
‐ sindrome di Edwards: si manifesta 1/6.000 nati vivi. Presenta malformazioni fisiche che includono
testa piccola (microcefalia), orecchie malformate, possibile ciclopia, mandibola piccola
(micrognazia), palatoschisi e altre malformazioni del massiccio facciale; le malformazioni viscerali
includonomalformazioni renali, difetti cardiaci strutturali, difetti al sistema digerente difetti al
respiratorio, difetti al SNC (come raccolte saccate di liquido intracraniche) e ritardo mentale
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‐ sindrome di Patau: si manifesta 1/5.000 nati vivi. Gli individui con Patau presentano malformazioni
fisiche quali microcefalia, microftalmia, possibile ciclopia, orecchie a basso impianto, palatoschisi e
altre malformazioni del massiccio facciale; le malformazioni viscerali sono renali, cardiache, difetti
dell’urogenitale, displasia della retina o distacco della retina e ritardo mentale
Sindrome di Down *********:
è la più frequente delle trisomie alla nascita ed è dovuta alla non‐disgiunzione meiotica del cromosoma 21
nella madre e tende ad essere più frequente mano mano che la madre aumenta con l’età. In una bassa
percentuale dei casi è di origine paterna o anche da traslocazione del cromosoma 21
‐ epidemiologia: causa aborto nel 75% dei casi; i nati vivi sono 1/1.000
‐ clinica: i bambini nascono sottopeso, ipotonici. Gli occhi hanno taglio mongolico, bocca piccola,
macroglossia, orecchie piccole con attaccatura bassa, mani corte e tozze; spesso si associa
cardiopatia congenita o atresie del digerente (specie duodeno). Ritardo mentale molto comune, ma
di grado variabile, con deficit del linguaggio e della memoria
Trisomie sessuali
Klineferter XXY *********:
XXY è la più frequente trisomia dei cromosomi sessuali; 50% dei casi causato da una non‐disgiunzione
paterna, ma sono anche possibili cariotipi a mosaico. Il prodotto del concepimento è maschio, con caratteri
sessuali poco rilevabili. Una delle X viene genericamente inattivata come succede per le donne, tranne sulla
regione Par, contenente SHOX (il che consente una statura maggiore)
‐ epidemiologia: causa aborto nel 50% dei casi; nati vivi 1/600
‐ clinica: il soggetto presenta arti più lunghi, maggiore altezza, minore sviluppo dei caratteri sessuali,
sia primari che secondari, criptorchidismo, lieve ritardo nel linguaggio e problemi comportamentali.
Aumentati anche i livelli di estradiolo
‐ terapia: somministrazione di androgeni dalla pubertà
XXX *:
facente parte delle trisomie dei cromosomi sessuali, è caratterizzata da 3 X di cui 2 inattivate (e quindi 2
corpi di Barr)
‐ epidemiologia: 1/1.000 nate vive
‐ clinica: maggiore altezza e maggiore probabilità di ritardo mentale
XYY *:
facente parte delle trisomie dei cromosomi sessuali, è caratterizzata da 2 Y e una X
‐ epidemiologia: 1/1.000 nati vivi
‐ clinica: statura più alta e maggiore probabilità di ritardo mentale. In passato tale sindrome venne
erroneamente associata ad atteggiamenti criminali
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Malattie da anomalie submicroscopiche *[ossia ri‐arrangiamenti genomici come microdelezioni, inversioni,
inserzioni o duplicazioni che non superano le 5Mb] ‐> mutazione < 5 Mb
Cri‐Du‐Chat (grido del gatto)****:
causata da una delezione in eterozigosi sul braccio corto del cromosoma 5. Ed è la più grande delezione di
un autosoma compatibile con la vita. Prende il nome dal grido del neonato che simula quello di un gatto
appena nato, poiché la laringe è abnormemente sviluppata
‐ epidemiologia: 1/20.000 nati vivi
‐ clinica: il bambino nasce sottopeso, ipotonico e presenta il classico pianto. La testa è piccola, il naso
ampio, micrognazia, aumento della distanza interoculare. Genericamente il Q.I. non supera il 50
Williams ****: [avviene sempre nello stesso punto (per le lcr)(grandezza della delezione 1,6 Mb)]
causata da una delezione in eterozigosi sul braccio lungo del cromosoma 7. La delezione comprende 21
geni tra i quali quello dell’elastina, di fattori trascrizionali e di proteine leganti i microtubuli
‐ epidemiologia: 1/15.000 nati vivi
‐ clinica: personalità estremamente estroversa, esagerata loquacità, statura più bassa, naso con
punta bulbosa, ipersensibilità acustica, ritardo mentale con Q.I. genericamente compreso tra 60‐70,
difficoltà nella concentrazione, ipercalcemia, stenosi periferica. Dato che le fattezze della faccia
ricordano quelle di un elfo, spesso viene chiamata anche sindrome “faccia da elfo”
De George *********:
causata da una microdelezione in eterozigosi ma con carattere dominante sul braccio lungo del cromosoma
22. La delezione comprende 30 geni per 3 Mb di basi. Dato il mancato sviluppo della terza e quarta tasca
faringea che dà origine a timo, paratiroidi e all'ultimo corpo branchiale,comporta severa immunodeficienza
con riduzione dei linfociti T al di sotto del 5 percentile
‐ epidemiologia: 1/4.000‐5.000 nati vivi
‐ clinica: difetti al sistema immunitario. Malformazioni cardiache, mancata formazione di paratiroidi
e timo, anomalie del palato, anomalie facciali, ipocalcemia, difficoltà di apprendimento e difetti
mentali
Smith‐Magenis ***:
causata da una microdelezione sul braccio corto del cromosoma 17 con mutazione nel gene RAI1. Questo
porta alla produzione di una versione anormale o non funzionale della proteina RAI1, fattore di trascrizione
che regola l'espressione di geni multipli, tra cui alcuni che sono coinvolti nel controllo del ritmo circadiano,
come CLOCK. Per la diagnosi si usa la FISH
‐ epidemiologia: colpisce 1/25.000 nati
‐ clinica: sul piano clinico si evidenziano: ritardo mentale, disordini del comportamento con
aggressività, disturbi del sonno(le persone colpite possono soffrire la sonnolenza durante il giorno,
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ma hanno difficoltà ad addormentarsi e si svegliano più volte ogni notte, a causa di un ritmo
circadiano invertito di melatonina), obesità, bassa statura, mani e piedi piccoli, volto
rotondeggiante con tratti grossolani e difetti renali e cardiaci
Malattie autosomiche dominanti *****
Neurofibromatosi (genetica, segni e caratteristiche) ************:
(o morbo di von Recklinghausen) è una delle più comuni malattie genetiche. Si distinguono 2 tipi, il tipo 1
ed il tipo 2. La prima tipologiaè causata da una mutazione (che può essere nonsenso o missenso) in
eterozigosi del cromosoma 17 sul braccio lungo, che si trasmette con modalità autosomica dominante a
penetranza completa ma espressività variabile. Il gene più sensibile è il NF1. Genericamente si presenta
come malattia “de novo”, con perdita di funzione del NF1 che produce una GTPasi atta a bloccare l’azione
di RAS
‐ epidemiologia: 1/3.000 nati
‐ clinica: macchie caffelatte almeno di 2 cm, sparse per il corpo, neurofibromi lentigginosi, displasia
dello sfenoide, assottigliamento della corticale delle ossa lunghe. È caratterizzata dalla presenza di
numerosi tumori benigni fibrosi (fibromi) della pelle e del tessuto nervoso (neurofibromi).
Genericamente tende a non dare problemi, tranne in caso di tumori endocerebrali. I tumori cutanei
vanno controllati e se risultano “attivi e proliferanti”, vanno rimossi
Legius:
condizione autosomica dominante caratterizzata da macchie caffellatte, spesso scambiata per
neurofibromatosi di tipo I (NF‐1). È causata da mutazioni “perdita di funzione” nel gene SPRED1, localizzato
sul braccio lungo del cromosoma 15
‐ epidemiologia: non è nota con certezza a causa della confusione diagnostica con la
neurofibromatosi 1
‐ clinica: i pazienti mostrano più macchie caffè latte. Altri sintomi possono includere: lentiggini sotto
le ascelle e/o l'inguine. Importante è l’assenza di noduli di Lisch, gliomi dei nervi ottici, anomalie
delle ossa, neurofibromi. Altri sintomi significativi sono: disturbi dell'apprendimento, il disturbo da
deficit di attenzione/iperattività (ADHD) e il ritardo dello sviluppo
Marfan ************:
causata da mutazioni in eterozigosi del gene FBN1 codificante per la fibrillina e inserito sul cromosoma 15
nel braccio corto. È a carattere autosomico dominante ele mutazioni che la causano sono di tipo missenso;
genericamente insorgono de novo. La debolezza del tessuto a causa della mancanza della fibrillina si
manifesta in tutto il corpo con aumento generalizzato dei livelli di TGF‐beta e perdita di rapporti saldi tra
cellula e matrice
‐ epidemiologia: 1/5.000 nati
‐ clinica: aneurisma aortico prossimale, lussazione del cristallino, crescita eccessiva delle ossa lunghe,
deformazione della gabbia toracica con sterno estroflesso in avanti o indietro, aracnodattilia
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Acondroplasia *****:
(anche chiamata nanismo dismorfico) è causata una mutazione in eterozigosi autosomica dominante a
penetranza completa e a carico del braccio corto del cromosoma 4. Questa mutazione sostituisce una
glicina con un’arginina e modifica il recettore3 del Fibroblast Growth Factor (FGFR3), causando una
mancata crescita delle cartilagini di accrescimento. Il tipo di mutazione è di “gain of function”, con
attivazione indipendente dal ligando
‐ epidemiologia: 1/35.000 nati
‐ clinica: braccia e gambe non si sviluppano troppo oltre la grandezza che possedevano già dall’età
infantile. La testa è grossa, la fronte prominente e il naso appiattito. L’altezza massima raggiunge
all’incirca i 130 cm
Ipercolesterolemia familiare **********:
ne esistono 2 forme: monogenica e poligenica
MONOGENICA
patologia a trasmissione autosomica dominante, la malattia è determinata dauna mutazione che può fare sì
che il LDLR non riesca a legarsi con le LDL, oppure che non venga proprio trasportato sulla superficie
dell’epatocita; ne consegue che i livelli ematici di LDL aumentano in modo proporzionale alla riduzione
dell'attività recettoriale, variabile dal 50 al 90‐95% circa.Il parallelo aumento della colesterolemia è dovuto
all'alta percentuale di colesterolo contenuto all'interno di questa classe lipoproteica (LDL). Il gene per il
recettore delle LDL è localizzato sul braccio corto del cromosoma 19. La mutazione comune è sempre in
eterozigosi, quella omozigote è rarissima (1/un milione)
‐ epidemiologia: 1/500 nati
‐ clinica: gli esami indicano che i livelli plasmatici di colesterolo totale nel sangue sono circa 275–500
mg/dL negli eterozigoti e >500 mg/dL nei rari omozigoti. I depositi di colesterolo e LDLcompaiono
tanto più precocemente quanto più grave è la malattia. I pazienti colpiti hanno un'elevata e
precoce tendenza allo sviluppo di aterosclerosi, della malattia coronarica e delle sue espressioni
(angina pectoris ed infarto miocardico), che risulta nettamente superiore per gli omozigoti rispetto
agli eterozigoti
POLIGENICA
la più diffusa, in cui fattori disnutrizionali ed ambientali si sommano ed aggravano il dismetabolismo su
base multi‐genetica (i fattori genici più importanti sono una isoforma atipica dell’apoE)
‐ epidemiologia: è particolarmente diffusa tra gli occidentali, dove interessa fino al 20% della
popolazione
‐ clinica: depositi di colesterolo e LDL, con aterosclerosi e patologie cardiovascolari
Le indicazioni terapeutiche sono essenzialmente mirate all’aumento di attività fisica, alla diminuzione di
grassi e zuccheri semplici dalla dieta. La terapia prevede per i casi più gravi lestatine, farmaci inibitori
dell'HMG‐CoA reduttasi (enzima chiave nella produzione di colesterolo)
Rene policistico:
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malattia a trasmissione autosomica dominante. Il paziente è eterozigote per una mutazione del gene PKD1
sul braccio corto del cromosoma 16. PKD codifica per la policistina (c’è sia la policistina 1 che 2), proteina
implicata nella regolazione delle interazioni cellula‐cellula e cellula matrice; tuttavia, dato che la sola
mutazione non basta per definire una persona come “paziente con rene policistico”, si pensa che sia
necessario un secondo imput per avere l’effetto patogeno
‐ epidemiologia: 1/1000 nati
‐ clinica: si formano numerose cisti renali che distruggono il parenchima, causano l’insorgenza di
insufficienza renale, costringono il paziente prima alla dialisi e successivamente al trapianto
Cowden:
rara malattia ereditaria, autosomica dominante. La sindrome di Cowden è associata a mutazioni germinali
del gene oncosoppressore PTEN, situato nel braccio lungo del cromosoma 10. La funzione di PTEN è quella
di inibire i processi della via PI3K/Akt/mTOR che porta a proliferazione cellulare attraverso defosforilazione
del fostatidil‐inositolo trifosfato (PIP3) a fostatidil‐inositolo bisfosfato (PIP2)
‐ epidemiologia: 1/200.000 nati vivi
‐ clinica: si presenta con manifestazioni cliniche multiple a carico di: cute(90% dei pazienti ha lesioni
papulari in tutto il corpo, soprattutto sulla testa), mucose (80% presenta papule anche sulla lingua,
che realizzano talvolta l'aspetto di "lingua scrotale”), tiroide (60% dei pazienti ha il gozzo,
l’adenoma o il carcinoma), mammella (35% presenta mastopatia, fibroadenoma, carcinoma) e tubo
digerente (30‐40% presenta polipi gastrointestinali di natura benigna). La prognosi è grave,
soprattutto in relazione al rischio di tumori mammari e tiroidei
Sindrome di Lynch:
Il cancro colorettale ereditario non poliposico (HNPCC) o sindrome di Lynch è una sindrome ereditaria
autosomica dominante, con un elevato‐medio grado di penetranza (30‐70%). Gli individui sono portatori di
una mutazione nel gene MSH2, in MLH1 o nel gene MSH6. I geni la cui mutazione è associata a una
sindrome HNPCC appartengono alla famiglia dei geni responsabili del riparo dei difetti di appaiamento del
DNA (DNA mismatch repair o MMR), cioè nel controllo dell'esattezza della replicazione; conseguentemente
aumenta la probabilità di acquisire ulteriori mutazioni a carico di geni oncosoppressori e proto‐oncogèni.
Ciò porta allo sviluppo del tumore
‐ epidemiologia: circa il 60% delle volte la malattia è causata da MSH2
‐ clinica: prevede lo sviluppo di tumori colorettali, endometriali, del piccolo intestino, delle vie
urinarie. La sua diagnosi si basa su tre criteri: 1) almeno 3 soggetti colpiti con tumori confermati
istologicamente che appartengono allo spettro della sindrome HNPCC; 2) uno dei soggetti deve
essere un parente di primo grado degli altri due su due generazioni; 3) almeno uno dei tumori
diagnosticato prima dei 50 anni. Nelle famiglie identificate secondo questi criteri i pazienti
sviluppano principalmente tumori colorettali e/o endometriali con un rischio cumulativo di 70‐80%
ai 70 anni. Si consiglia monitoraggio con colonscopia ogni due anni dopo i 20 anni. È anche
consigliato monitoraggio ginecologico delle donne dopo i 30 anni.
Ci sono due tipi di sindrome:
‐ sindrome di Lynch I: caratterizzata dall'insorgenza di un tumore al colon
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‐ sindrome di Lynch II: oltre al tumore al colon comprende lo sviluppo di tumori nello stomaco,
nell'apparato urinario, nei dotti biliari
Sindrome di Li‐Fraumeni:
malattia ereditaria autosomica dominante, caratterizzata dalla mutazione di un allele del gene TP53, situato
sul braccio corto del cromosoma 17 che codifica per la proteina p53 (i livelli citosolici di questa proteina
aumentano quando viene rilevato un danno al DNA ed essa viene fosforilata così da assumere una
conformazione adeguata al legame con il DNA. Agisce come fattore di trascrizione per alcuni geni che
codificano per proteine in grado di arrestare il ciclo cellulare in G1 in modo che il danno, se possibile, venga
riparato. Nel caso in cui la riparazione vada a buon fine, essa viene degradata e il blocco del ciclo cellulare
viene rimosso. In caso contrario, essa induce la trascrizione di geni pro‐apoptotici). È un gene
oncosoppressore ed è necessaria la perdita omozigote per annullare la sua funzione. È possibile anche la
mutazione per isocromosoma 17
‐ epidemiologia: circa il 70% delle famiglie LFS è stata identificata una mutazione germinale del gene
TP53
‐ clinica: la sindrome è una forma di predisposizione verso molte neoplasie (osteosarcomi, sarcomi
dei tessuti molli tumori del seno, leucemie); tipicamente, l'insorgenza di neoplasie è precoce (meno
di 45 anni), per questo lo screening risulta un elemento necessario per la prevenzione
Osteogenesi imperfetta *:
malattia genetica a trasmissione autosomica dominante per anomalie nella sintesi del collagene tipo I, date
da mutazioni dei geni Col1A1 e Col1A2 sui bracci lunghi dei cromosomi 17 e 7. I fenotipi più gravi o letali
sono la conseguenza di difetti genetici, che determinano molecole anomale di collagene che non riescono a
formare la tripla elica
‐ epidemiologia: 1/20.000 nati vivi
‐ clinica: crea problemi a carico dello scheletro, delle articolazioni, degli occhi, delle orecchie, della
cute e dei denti. Sebbene ce ne siano 8 tipi, i quattro tipi piùfrequenti sono:Tipo I: ritardo di
accrescimento nel 50%, fratture ossee; cifosi e scoliosi con iperestesibilità articolare, sclere bluastre
e perdita dell'udito sia a difetto neurosensoriale che a causa di anomalie ossee dell'orecchio medio
e interno. In certi casi si associa a dentinogenesi imperfetta.Tipo II: è costantemente fatale durante
la vita intrauterina o nel periodo perinatale. Accentuatissima fragilità ossea con fratture multiple
che si manifestano quando il feto è ancora in utero.Tipo III: fratture alla nascita con deformazioni
progressive degli arti e cifoscoliosi, sclere normali, bassa statura, dentinogenesi imperfetta
comune.Tipo IV: la forma clinicamente meno grave, con statura normale o poco ridotta, fragilità
ossea lieve o moderata, fratture postnatali, sclere normali, udito normale, deformità variabili. In
certi casi si associa a dentinogenesi imperfetta. La terapia con bifosfonati ha dimostrato di
migliorare la mobilità e la densità ossea, riducendo il dolore e l'incidenza delle fratture
Malattie con forme autosomiche dominanti e recessive (a seconda del coinvolgimento genico)
Waardenburg:
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malattia genetica rara più spesso caratterizzata da diversi gradi di sordità, difetti minori nelle strutture
derivanti dalla cresta neurale, e alterazioni della pigmentazione Ce ne sono di 4 tipi:
‐ tipo 1: la mutazione è a carico di PAX3, sul braccio lungo del cromosoma 2. I sintomi specifici
includono occhi ampiamente distanziati e perdita dell'udito nella maggioranza dei casi
‐ tipo 2: la mutazione è a carico di MITF, SNAI ed altri geni, sul braccio corto del cromosoma 1, 3 ed
8. Il fatto che ci siano più geni coinvolti e più cromosomi dipende dal sottotipo patologico
considerato. I sintomi specifici includono una perdita permanente dell'udito ed eterocromia
dell’iride
‐ tipo 3: la mutazione è sempre a carico di PAX3 (come il tipo 1), sul braccio lungo del cromosoma 2. I
sintomi specifici includono anomalie degli arti superiori, variazioni nello stato di pigmentazione
della pelle e la perdita dell'udito nel corso del tempo
‐ tipo 4: la mutazione è a carico di EDN, SOX10 ed altri geni, sul braccio lungo dei cromosomi 13, 20 e
22. Il fatto che ci siano più geni coinvolti e più cromosomi dipende dal sottotipo patologico
considerato. I sintomi specifici includono un colon ingrandito che può necessitare di rimozione
chirurgica
Le caratteristiche proprie della malattia:
‐ epidemiologia: l’incidenza media complessiva delle varie tipologie è di 1/45.000 nati
‐ clinica: i sintomi variano da un tipo di sindrome all'altra e da un paziente all'altro, ma
comprendono: occhi chiari, occhi di due colori diversi od occhi con un iride con due colori diversi
(eterocromia settoriale); un ciuffo di capelli bianchi (poliosi) o ingrigimento precoce dei capelli;
occhi distanziati a causa di una larga radice nasale; da una moderata sordità a una grave; una bassa
attaccatura dei capelli; macchie di pigmentazione della pelle ( che risulta bianca); anomalie delle
braccia
Malattie autosomiche recessive ****
Fibrosi cistica *********: [diagnosi tecnica Ola, mutazioni 70% delezione fenilalanina 508 e il restante per
lo più puntiformi, polimorfismo del nord Europa]
abbreviata spesso come FC o anche mucoviscidosi, è una malattia genetica autosomica recessiva. La
patologia è causata da una mutazione nel gene CF sul braccio lungo del cromosoma 7, il quale codifica per
una proteina di 1480 aminoacidi detta CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane conductance Regulator). Le
varianti della mutazione sono più di 1.500, ma la più frequente è una delezione di 3 nucleotidi (CTT), che
provoca la perdita dell'aminoacido fenilalanina codificato dal codone 508 (la mutazione è detta "delta
F508"). La proteina normale, situata sulla membrana cellulare delle cellule epiteliali, funziona come canale
per il cloro attraverso le membrane cellulari a livello di vie aeree, pancreas, intestino, ghiandole sudoripare,
ghiandole salivari e vasi deferenti. In caso di alterazione della sua struttura, la secrezione saràun muco
molto denso e viscoso perché ci sarà una minor escrezione di ioni cloro che porterà ad un conseguente
maggior riassorbimento di sodio e acqua (da cui il muco più secco). La fibrosi cistica è la malattia genetica
ereditaria mortale più comune nella popolazione caucasica; la sopravvivenza è di circa 40 anni. Negli
eterozigoti vi è solo una leggera sintomatologia: questi presentano un bilancio ionico funzionale, ma
espellono più difficilmente acqua dalle cellule
‐ epidemiologia: parlando di popolazione caucasica e americana, si può dire che il rapporto è di
1/5.000 nati, ma nelle popolazioni nordiche di Svezia, Lituania e Danimarca il rapporto è molto più
alto. Fa eccezione la Finlandia, in cui la malattia è riportata solo in poche famiglie
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‐ clinica: la forma classica della malattia si manifesta con un aumento degli elettroliti nel sudore,
insufficienza pancreatica e polmonare spesso di forma grave. Muco denso si accumula nei polmoni,
provocando tosse, mancanza di respiro e infezioni ricorrenti. I maschi possono non essere fertili a
causa dell'assenza congenita dei vasi deferenti. I sintomi spesso compaiono durante l'infanzia,
come l'ostruzione intestinale a causa di ileo patologico da meconio nei neonati. I bambini hanno
difficoltà nel prendere peso e nel crescere in altezza a causa del cattivo assorbimento delle
sostanze nutrienti attraverso il tratto gastrointestinale (ostacolato sia dal muco denso che dalla
“carenza” di enzimi digestivi che riescono ad arrivare nel duodeno). La coagulazione può essere
compromessa sempre a causa di problemi di assorbimento della vitamina K. Il muco denso blocca
anche movimento degli enzimi digestivi nel duodeno e provocano danni irreversibili al pancreas,
spesso sfociando in una dolorosa infiammazione (pancreatite). Sono possibili anche danni: epatici
nel caso in cui il muco funga da “tappo” al fluire della bile e questa sia costretta al ristagno in sede
epatica; a carico del pancreas endocrino a causa della pancreatite; al sistema osteoarticolare a
causa del minor assorbimento della vitamina D3. Patognomoniche della sindrome sono le
cosiddette “dita ippocratiche” a causa del basso tenore di ossigeno nei loro tessuti
La fibrosi cistica può essere diagnosticata grazie a molti metodi diversi, tra cui lo screening neonatale, il test
del sudore e test genetici
‐ screening neonatale: Il test inizia con la valutazione della concentrazione sanguigna del
tripsinogeno immunoreattivo. I livelli di tripsinogeno possono risultare aumentati negli individui
che hanno una sola copia mutata del gene CFTR o, in rari casi, in individui con due copie normali del
gene CFTR
‐ test del sudore: comporta l'applicazione di un farmaco che stimola la sudorazione (pilocarpina). Il
sudore risultante viene poi raccolto su carta o in un tubo capillare e analizzato per valori anomali di
sodio e cloro. Gli individui affetti da fibrosi cistica hanno alti valori di questi due elementi nel
sudore
‐ test genetici: poiché lo sviluppo della fibrosi cistica nel feto richiede che ogni genitore trasmetta
una copia mutata del gene CFTR e poiché il test è costoso, esso viene spesso eseguito inizialmente
su di un unico genitore. Se il test rivela che uno dei genitori è un portatore del gene CFTR mutato,
l'altro genitore viene testato per calcolare il rischio che i loro figli avranno la malattia. La fibrosi
cistica può derivare da più di mille mutazioni differenti. Il test generico analizza il sangue per le
mutazioni più comuni, la maggior parte di essi disponibili in commercio cercano 32 o meno
differenti mutazioni. Se una famiglia ha una nota rara mutazione, uno screening specifico per tale
mutazione può essere eseguito
Il trattamento prevede: antibiotici contro le infezioni polmonari, drenaggi bronchiali per rimuovere il muco
denso, reintegrazione dei nutrienti mancanti e terapia supplementare per gli enzimi pancreatici. Nuove
terapie mirano a introdurre il gene CFR tramite inserimento virale
Chediak Higashi:
malattia autosomica recessiva rara che nasce da mutazioni nel gene CHS1 (chiamato anche LYST),
localizzato sul braccio lungo del cromosoma 1, che produce una proteina che regola il traffico lisosomiale,
portando ad una diminuzione della fagocitosi. La diminuzione della fagocitosi si traduce in infezioni
ricorrenti, albinismo parziale e neuropatia periferica. Istologicamente parlando, la malattia è caratterizzata
da grandi vescicole lisosomiali nei fagociti che hanno scarsa capacità degradativa
‐ epidemiologia: 1/250.000 nati vivi
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‐ clinica: il soggetto presenta infezioni ricorrenti specie alle vie respiratorie, febbre, ipertrofia epato‐
spleno‐linfonodale, ittero, linfoadenopatia, albinismo oculo‐cutaneo con capelli argentati e la
maggior parte dei pazienti sviluppa un progressivo deterioramento neurologico dovuto alle
inclusioni citoplasmatiche nei neuroni, nella glia e nelle cellule di Schwann. Il soggetto nella
seconda decade di vita va incontro a linfoproliferazione nei principali organi del corpo, conosciuta
come "fase accelerata", che porta al decesso la maggior parte dei pazienti che sopravvivono alle
infezioni batteriche. Il trattamento più efficace è rappresentato dal trapianto di midollo osseo
Atrofia muscolare spinale:
(SMA) è una malattia che colpisce le cellule nervose delle corna anteriori del midollo spinale. Generalmente
è una malattia autosomica recessiva, ma esistono anche alcune forme estremamente rare ad ereditarietà
autosomica dominante. La causa della malattia è una mutazione sul braccio lungo del cromosoma 5 del
gene SMN (Survival Motor Neuron); la proteina prodotta codifica per la sopravvivenza dei motoneuroni. Di
SMN ne esistono 2, e quello implicato nella malattia ha localizzazione telomerica (SMN1). Un altro gene
coinvolto nella patogenesi della malattia è il gene definito NAIP (Proteina Inibitrice dell'Apoptosi
Neuronale); sembra che grandi delezioni, coinvolgenti anche il gene NAIP, siano correlabili con la forma più
grave della malattia. Ne esistono 4 forme: Tipo 1 o Acuto, a manifestazione neonatale; Tipo 2 o Cronico, a
manifestazione dopo l’anno di vita; Tipo 3 o Lieve, a diagnosi pre‐adolescenziale; Tipo 4 o Adulto, a
manifestazione dopo i 35 anni
‐ epidemiologia: 1/10.000 nati vivi
‐ clinica: varia di forma in forma, ma si può generalizzare dicendo che la malattia è caratterizzata da
un progressivo indebolimento dell'apparato muscolare a partire dai muscoli più vicini al tronco. Frai
sintomi e i segni clinici ritroviamo l'ipotonia, ipostenia, atrofia muscolare, debolezza muscolare e
paralisi. Si mostrano anche disfunzioni cardiache e nella forma I si presenta spesso anche
fascicolazione della lingua
Atassia‐Teleangectasia ***:
malattia a trasmissione autosomica recessiva; la mutazione è a carico del gene detto ATM (ataxia‐
telangiectasia mutated), mappato sul braccio lungo del cromosoma 11. ATM codifica per una chinasi
(PI3K)polivalente. Quando la mutazione porta ad una perdita di funzione della fosfatidil‐inositolo‐3‐chinasi.
Normalmente PI3K in seguito al riconoscimento di danno al DNA, attiva l'oncosoppressore p53; in caso di
mutazione non riesce più a far sì che il DNA venga riparato
‐ epidemiologia: 1/100.000 nati vivi
‐ clinica: presenta disturbi della postura e dell'andatura, con incapacità di compiere movimenti fini e
con aprassia oculomotoria, cioè con l'incapacità di seguire gli oggetti in movimento attraverso il
campo visivo: il bambino ruota la testa anziché muovere gli occhi. Compaiono successivamente
disturbi del linguaggio e diminuzione della capacità muscolare. Le teleangectasie sono dilatazioni
dei piccoli vasi che si manifestano dapprima a livello delle congiuntive, poi si diffondono su tutta la
cute. L'immunodeficienza esordisce con infezioni respiratorie che col tempo recidivano fino a
portare allo sviluppo di bronchiectasie. Questi soggetti vanno spesso incontro a neoplasie, ma la
terapia è difficile data l’impossibilità del paziente di riparare il DNA a seguito del danno causato dal
trattamento con chemioterapia o radioterapia
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Malattie X‐linked dominanti (sono molto rare. Quando si parla di dominanza sulla X, significa che la
Lyonizzazione non è capace di bloccare il cromosoma X malato e quindi la malattia si esprimerà anche sulle
femmine. Per i maschi non esiste differenza dato che la X posseduta è solo 1, se la malattia è presente su
quella X non c’è modo per evitarla. Genericamente sono tutte a carico del braccio corto della X. Esempi:
sindrome di Rett (atassia, autismo e demenza), Aicardi (agenesia corpo calloso, microftalmia, crisi)
Malattie X‐linked recessive ******** (praticamente onnipresenti se il soggetto è maschio)
Distrofia muscolare ********: [marcatore diagnostico per queste distrofie (CPK)]
Sia la distrofia muscolare di Duchenne che di Becker sono malattie dovute alla mutazione di un gene su uno
stesso allele. La differenza è che nella distrofia di Duchenne l’allele risulterà amorfo mentre in quella di
Becker risulterà ipomorfo. Il gene che codifica per la distrofina è composto da 79 esoni. Si osserva una forte
predisposizione familiare ma è altrettanto comune anche la manifestazione de novo; la mutazione più
frequente è una delezione che può colpire diversi tratti di quel gene ed essere più o meno influente.Poiché
la patologia è trasmessa come tratto recessivo legato al cromosoma X, si manifesta prevalentemente nei
maschi. La distrofina nel muscolo è localizzata sul versante citoplasmatico del sarcolemma dove interagisce
con la F‐actina del citoscheletro, la struttura filamentosa di rinforzo della cellula muscolare. Inoltre è
strettamente legata ad un complesso di proteine sarcolemmali conosciute come proteine legate alla
distrofina (DAPs) e glicoproteine legate alla distrofina (DAGs). La mancanza della distrofina o la sua
diminuita espressione conduce ad una perdita delle DAPs e alla rottura del complesso proteina‐
distroglicano il che rende il sarcolemma suscettibile alla lacerazione durante la contrazione muscolare
‐ Distrofia di Duchenne**************:incidenza di 1/3.300 nati Maschi; le femmine sono
raramente sintomatiche dato che tendono a compensare tramite lyonizzazione dell’X. Alla nascita il
bambino ha valori elevatissimi di enzimi sierici di provenienza muscolare. Il bambino ha difficoltà a
camminare e a correre e procedendo avanti con l’età, la condizione si aggrava, costringendolo in
sedia a rotelle a circa 10‐14 anni. A 35 anni il danno è massivo e il paziente muore per difficoltà
respiratorie e alterazioni cardiache
‐ Distrofia di Becker (approfond genetica) *********: incidenza di 1/25.000 Maschi; le femmine
sono asintomatiche o con leggerissime forme patologiche. Essa provoca debolezza e atrofia degli
stessi muscoli coinvolti nella distrofia di Duchenne ma l'esordio è più tardivo, comparendo intorno
ai 12 anni. L'età media alla quale viene persa la capacità di camminare è di 25‐30 anni e
l'interessamento cardiaco è meno frequente; l’ammalato può anche arrivare ad un’aspettativa di
vita normale se il danno genico è contenuto. In caso contrario la morte sopraggiunge in genere
nella quinta decade di vita
Sindrome di Morris:
persone con corredo cromosomico 46,XY (a cui corrisponde un genotipo maschile) sviluppano caratteri
sessuali femminili; questa condizione viene definita più correttamente sindrome da insensibilità agli
androgeni, in inglese androgen insensitivity syndrome (AIS). Il recettore degli androgeni umano (AR) è una
proteina codificata da un gene localizzato sul braccio lungo del cromosoma X. L'ereditarietà è tipicamente
materna e segue un modello recessivo X‐linked; gli individui con un cariotipo 46, XY esprimono sempre il
gene mutante poiché hanno un solo cromosoma X, mentre 46, XX sono minimamente influenzati. Circa il
30% delle volte, la mutazione di AR non è ereditata (mutazione de novo)a carico delle cellule germinali o
causata da mosaicismo nelle cellule germinali. Esistono tuttavia anche la MAIS [in cui i soggetti sono
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maschi con difetti funzionali alle gonadi e ai genitali esterni] e PAIS [in cui i genitali sono solo parzialmente
mascolinizzati (forma intermedia tra uomo e donna)]; la variante dipende da quanto la mutazione ha
diminuito la risposta agli androgeni
‐ epidemiologia: 1/13.000 nati vivi
‐ clinica: gli individui portatori di questa sindrome sono longilinei, con un bacino stretto. I peli pubici
e ascellari sono diminuiti, la mammella può presentare un capezzolo più chiaro. Non esistono
organi interni femminili (né utero né ovaie), ma esiste un canale vaginale, genericamente più
piccolo del normale e a fondo cieco; ritenuti nell'addome sono presenti gonadi che possono essere
asportate chirurgicamente. In generale nella forma completa (CAIS) il pericolo di degenerazione
tumorale è talmente basso che si tende ad aspettare ad effettuare la gonadectomia o addirittura ad
evitarla. Le persone affette da questa sindrome sono dal punto di vista anatomico e legale delle
donne
Emofilia (trattata nella fisiopatologia dell’emostasi)
Mutazioni dinamiche:
costituite da sequenze nucleotidiche ripetute che si susseguono a tandem. La mutazione consiste
nell’abnorme aumento di questi elementi ripetuti. Se il numero di ripetizioni è elevato, il genoma diventa
instabile. Può avvenire su sequenze non codificanti o su ORF (open reading frame). Le patologie generate
vengono chiamate patologie da espansioni di triplette
Espansioni di triplette *********:
X fragile *********:
le mutazioni avvengono principalmente a carico di una tripletta CCG che diventa il “sito fragile” del
cromosoma X; questa tripletta codifica per FMR‐1, che regola i processi di plasticità sinaptica e la
maturazione neurale. In realtà la mutazione avviene in una sequenza non tradotta e quindi dovrebbe
essere ininfluente, ma l’eccessivo allungamento della catena ne causa la metilazione che causa il
silenziamento della trascrizione, con conseguente mancanza del prodotto. Se le triplette espanse sono
meno di 250 si ha solo una premutazione, che presagisce alla malattia ma non la causa
‐ epidemiologia: 1/1250 nati maschi
‐ clinica: causa principalmente ritardo mentale con un Q.I. che può andare dal 20 al 70, ritardi nel
linguaggio, comportamento autistico. Modificazioni della morfologia sono nelle orecchie che
divengono sporgenti e nell’occasionale riscontro di prolasso della valvola mitrale
Distrofia miotonica***:
(o di Steinert) causata da un’espansione della tripletta CTG nel braccio lungo del cromosoma 19. Il gene
colpito codifica per la DMPK (ossia Distrofia Miotonica Protein Kinasi). Se l’espansione non raggiunge le 20
triplette il soggetto è solo premutato, se arriva fino a 80 la malattia è lieve; si può arrivare ad averne anche
più di 2000 e in quel caso la malattia è grave. L’espansione provoca la formazione di un mRNA che si ripiega
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a forcina, mascherando alcuni tratti genetici e non consentendo lo splicing alternativo; si esprimono solo i
trascritti embrionali
‐ epidemiologia: 1/8000
‐ clinica: danno muscolare e difetti di conduzione cardiaci; incapacità di rilassare i muscoli dopo una
contrazione a freddo, il che causa fenomeno miotonico
Atassia (atassia di Friedreich) *****:
malattia neurodegenerativa ereditaria, a trasmissione autosomica recessiva. Si tratta della forma più
comune di atassia ereditaria causata dalla deficienza di una proteina, la fratassina, che avrebbe il compito
di smaltire i metaboliti del ferro nei mitocondri, causandone l’accumulo e compromettendo l’efficienza dei
processi energetici all'interno del mitocondrio.L'individuo affetto ha 2 geni anomali, FRDA ‐ X25 localizzati
entrambe sul braccio lungo del cromosoma 9.Un’espansione di triplette (GAA) su dati loci, impediscono
l'adeguato "srotolamento" del DNA e quindi la trascrizione della fratassina, che è deficitaria
‐ epidemiologia: 1/50.000 nati vivi
‐ clinica: molto variabile: dipende essenzialmente dal livello di anomalia genetica ed è correlata
all'età di insorgenza. In generale la malattia inizia a dare disturbi dell'equilibrio, per cui il soggetto
affetto ha difficoltà a correre; il paziente perde progressivamente i riflessi osteotendinei agli arti
inferiori, la deambulazione si fa progressivamente impacciata, iniziano a comparire disturbi della
coordinazione che comportano difficoltà a scrivere, a parlare (parola scandita), a deglutire. Non
raramente il soggetto si deve dotare di una sedia a rotelle. Nelle forme più acute si associa una
grave cardiopatia, possibile sordità e possibile perdita della vista. Può correlarsi al diabete mellito. I
pazienti genericamente vivono fino ai 40 anni
Corea di Huntington **********:
il termine corea indica in greco “danza”. La mutazione è a carico di una tripletta CAG, sul gene 4 nel braccio
corto; il gene codifica per la Huntingtonina, proteina che se mutata si associa con la poliglutammina
formando aggregati che inducono il neurone in apoptosi. Se le triplette ripetute sono massimo 39, il
soggetto è in fase di premutazione ma oltre le 39 il soggetto è considerato affetto anche se la patologia non
è ancora manifesta. Se il soggetto decidesse di avere un figlio, il difetto si trasmetterebbe con carattere
autosomico dominante
‐ epidemiologia: 1/10.000 nati
‐ clinica: degenerazione neuronale programmata dei gangli della base causano movimenti
incontrollati simili ad una danza. Altri sintomi precoci sono depressione e irritabilità
Imprinting eDisomia Uniparetale *****:
‐ Disomia Uniparentale: si è accertato che una piccola parte dei geni del genoma umano presentano
differenze significative nell’espressione a seconda del fatto che il suddetto gene sia stato ereditato
dal corredo paterno o materno. Questo fa si che per avere un’espressione genetica corretta sia
necessario che alcuni geni siano di derivazione paterna e alcuni di derivazione materna. Se per
errore vengono ereditati due cromosomi solo dallo stesso genitore (Disomia Uniparentale)
contenenti dati geni, si determina malattia
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‐ Imprinting: meccanismo di regolazione genica che riguarda circa un centinaio di geni conosciuti. La
differente metilazione di un determinato locus genico costituisce una sorta di "impronta", la quale
impone l'espressione di uno solo dei due alleli di quel determinato locus genico, ossia quello della
madre o quello del padre. Alla fecondazione lo zigote perde la metilazione in quasi tutto il genoma,
i geni sottoposti ad imprinting vengono esclusi da questo fenomeno, in quanto la metilazione in
questo caso è impiegata per segnalare la provenienza parentale del gene
Prader‐Wili *********:
la mutazione è una delezione interstiziale a carico del cromosoma 15 sul braccio lungo. Il cromosoma
mutato è quello di origine Paterna oppure nel restante 25% dei casi la patologia è dovuta a disomia
uniparentale materna. La regione deleta contiene le informazioni codificanti per la proteina umana necdina
(NDN), coinvolta nello sviluppo di alcune funzioni del SNC. I pazienti con PWS mancano di SNRP (gene
coinvolto nello splicing del pre‐mRNA), MKRN3 (codifica per una proteina zinc finger) ed NDN. Questi geni
sono sempre metilati sul cromosoma materno
‐ epidemiologia: 1/12.500 nati
‐ clinica: obesità, riduzione del tono muscolare, bassa statura, ipogonadismo, difficoltà
nell’apprendimento. L’obesità è il vero problema dato che questi bambini non riescono a
controllare il loro bisogno di mangiare e mangiano continuamente (iperfagia). Se il soggetto non
viene controllato, va incontro a morte precoce per complicanze dell’obesità (30 anni)
Angelman *****:
la mutazione è una delezione interstiziale a carico del cromosoma 15 sul braccio lungo. Il cromosoma
mutato è quello di origine Materna, oppure nel 3% dei casi la patologia è dovuta a disomia uniparentale
paterna. Il gene è UBE3A che codifica per un’ubiquitina ligasi espressa nel cervello; se il gene è mutato si ha
l’impossibilità di demolire alcune proteine alterate. I luoghi che esprimono più UBE3A sono l’ippocampo e il
cervelletto (che in caso di mutazione risultano più alterati di altri settori). Questi geni sono sempre metilati
sul cromosoma paterno
‐ epidemiologia: 1/15.000 nati vivi
‐ clinica: epilessia, gravi difficoltà di apprendimento, andatura atassica, tremori, assenza di
linguaggio, frequenti esplosioni incontrollate di riso, aspetto felice. La durata della vità non è
diversa da quella di un individuo normale (definita anche happy puppet syndrome)
GENETICA metodiche diagnostiche
Cariotipo (analisi) *********:
rappresenta l’insieme delle caratteristiche che identificano un corredo cromosomico. Comprende: il
numero dei cromosomi, la loro grandezza, la lunghezza delle braccia del cromosoma e le altre
caratteristiche strutturali. Per analizzarlo si usa la colchicina; questa sostanza blocca i cromosomi in
metafase, consentendone la visione sull’asse centrale del fuso mitotico, mentre i cromosomi omologhi
sono tenuti assieme dal centromero, successivamente la cellula si lisa e si colora in soluzione ipoosmolare.
La metodica di colorazione è la colorazione a bandeggio di Giemsa che consente la visualizzazione
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dell’alternanza tra regioni ricche di A/T e C/G. Altre metodiche sono l’analisi FISH o CGH o CGH array per la
visualizzazione delle sequenze in dettaglio
Bandeggio Giemsa *:
questa tecnica consente la visualizzazione dell’alternanza tra regioni ricche di A/T e C/G, facendo risultare il
cromosoma a “bande”. Prima si bloccano con la colchicina i cromosomi in metafase, poi si lisa la cellula;
successivamente si colora con blu di metilene, eosina Y e Azure‐A/B/C. Zone a prevalenza A/T risultano
come bande scure, mentre zone a prevalenza C/G risultano con bande chiare. Variazioni di questa tecnica
prevedono l’uso di coloranti fluorescenti
FISH *************:
(Fluorescent In Situ Hybridization) ai cromosomi parzialmente denaturati è fatta ibridare una sonda
molecolare, costituita da una sequenza di DNA realizzata in vitro costituita da nucleotidi fluorescenti.
Quando la doppia elice di DNA si separa, la sonda molecolare si lega al tratto di sequenza complementare,
mostrando la fluorescenza in quella parte del cromosoma. Alterazioni della posizione della fluorescenza
rispetto alla posizione attesa, indicheranno anomalia genetica
CGH *********:
(Comparative Genomic Hybridization) si usa per rivelare delezioni, duplicazioni o amplificazioni.La CGH
sfrutta la differente competizione di legame di due DNA genomici con cromosomi metafasici non marcati e
appartenenti a un soggetto sano. I due DNA genomici, che servono per ibridare i cromosomi, derivano uno
da un genoma sano (che costituisce il riferimento), mentre l’altro dal genoma del paziente da esaminare. I
due DNA sono marcati con due fluorocromi differenti per permetterne la successiva individuazione.
L’intensità della fluorescenza è quantificata da particolari analizzatori di immagine che calcolano e
confrontano i segnali emessi dal DNA campione e dal DNA di riferimento
CGH Array *****:
simile alla CGH, al posto di usare i cromosomi utilizza una moltitudine di sequenze di DNA fissate ad un
chip, che vengono legate in maniera analoga ad altre sequenze derivate dal paziente e dal DNA di
riferimento a seconda dell’affinità. L’intensità della fluorescenza riportata è quantificata da particolari
analizzatori di immagine che calcolano e confrontano i segnali emessi dal DNA campione e dal DNA di
riferimento
Next Generation sequencing**:
nuovo sistema di sequenziamento genetico. Successore del metodo di Sanger * (consisteva nel’isolare il
frammento di DNA da studiare e inserirlo o in un plasmide batterico o in una PCR [reazione a catena della
polimerasi], attendere che il genoma si fosse amplificato abbastanza e studiarlo), il NGS utilizza una base di
vetro sul quale sono legati alcuni frammenti di DNA (frammentati con ultrasuoni) tramite adattatori
nanotecnologici; quando la PCR si lega al frammento, lo duplica ma questo rimane ancorato al vetrino,
conservando la sua posizione. I nucleotidi neoaggiunti sono fluorescenti, così da consentire al sistema
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operativo il riconoscimento differenziale. Da un singolo frammento di DNA si formano dei veri e propri
cluster che però rimangono separati spazialmente e possono così essere esaminati. Inoltre ogni cluster è
molto più abbondante di quanto servirebbe per effettuare l’esame, circa di 100 volte più abbondante;
questo consente di mappare quasi il 100% delle variazioni in eterozigosi. La tecnica Next generation
sequencing permette di ottenere, in sole 16 ore, un quadro completo delle anomalie genetiche e
cromosomiche dell'embrione, sia quelle che interessano le malattie genetiche ereditarie, sia quelle che
riguardano le alterazioni del numero dei cromosomi (aneuploidie cromosomiche)
MLPA **:
consente il riconoscimento di variazioni in un certo numero di copie di DNA (più di 40 distinte sequenze
genomiche) mediante una reazione di PCR. Si utilizza quando si vogliono caratterizzare delezioni,
duplicazioni o variazioni di copie (aneuploidie), permette anche di determinare lo stato di metilazione di
promotori o regioni imprinted e mutazioni puntiformi o SNPs *. Si preparano due sonde molecolari per ogni
variazione che si intende studiare; queste sonde sono costituite da oligonucleotidi composti da 2 parti, una
sequenza di riempimento complementare al gene/mutato che si intende studiare ed una complementare
ad un primer. Dopo che le sonde si sono fissate, una ligasi le connette le due sonde, consentendo una
reazione di amplificazione della PCR che però non avviene se la distanza tra le due sonde è troppo grande.
Richiede 20ng come minima quantità di DNA genomico
duotest, tritest ***
‐ duotest: test di screening biochimico, basato sul prelievo di un piccolo campione di sangue materno
in cui si vanno a dosare due sostanze di origine placentare, rispettivamente chiamate β‐HCG
(frazione beta libera della gonadotropina corionica) e PAPP‐A (proteina plasmatica A associata alla
gravidanza). Nei casi di trisomia 21, durante il primo trimestre la concentrazione sierica della
frazione β‐hCG è più elevata rispetto alle gravidanze con feto normale, mentre la PAPP‐A risulta
inferiore alla norma. Quindi, al diminuire della PAPP‐A e all'aumentare della β‐HCG, sale il rischio
che il feto sia interessato dalle suddette malattie cromosomiche. Questo test riscontra un’effettiva
Sindrome di Down 9 volte su 10
‐ tritest: test di screening condotto su un campione di sangue venoso materno allo scopo di
quantificare il rischio di anomalie cromosomiche nel feto grazie a tre markers biochimici:
l'alfafetoproteina, l'estriolo non coniugato e la gonadotropina corionica umana.L'interpretazione
dei risultati del tri test, in relazione all'età e ad altre caratteristiche della madre (peso, fumo, razza,
diabete ecc.), permette di quantificare il rischio di dare alla luce un bambino affetto da anomalie
cromosomiche, come la sindrome di Down. Se tale rischio risulta maggiore di un certo valore soglia
(> 0,4%), viene quindi suggerita l'esecuzione dell'amniocentesi, che permette di escludere o
confermare il sospetto clinico. In presenza di Sindrome di Down l’Alfafetoproteina diminuisce di
circa il 25‐30%, mentre aumenta in maniera significativa quando sono presenti difetti del tubo
neurale o della parete addominale. Pertanto, quando il valore dell'alfafetoproteina è
particolarmente elevato, l'esame diagnostico di approfondimento non è l'amniocentesi ma
l'ecografia.L’estradiolo non coniugato diminuisce di circa il 25 ‐ 30% in caso di sindrome di Down. La
gonadotropina corionica umananella Sindrome di Down aumenta, raggiungendo valori circa due
volte superiori rispetto alla norma. Questo test riscontra un’effettiva Sindrome di Down 7 volte su
10
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Translucenza nucale:
test di screening che valuta il rischio di anomalie cromosomiche durante i primi stadi di vita fetale.
Statisticamente parlando, l'interpretazione dei risultati della translucenza nucale permette di identificare il
75‐80% dei feti colpiti da sindrome di Down, con una percentuale di falsi positivi del 5‐8%. La translucenza
nucale consente anche di quantificare la probabilità che il feto sia portatore di alcune malformazioni
scheletriche e cardiache. Gli ultrasuoni dell’ecografia vengono variamente riflessi dai tessuti in relazione
alla loro densità, quindi captate dalla stessa sonda che le ha generate, convertite in un segnale elettrico ed
elaborate da un calcolatore per fornire immagini dei tessuti esaminati. Nella regione posteriore del collo
fetale esiste un'area che non riflette gli ultrasuoni, quindi anecogena e translucente; in questa zona
troviamo un piccolo accumulo fisiologico di liquido fra la cute ed i tessuti paravertebrali sottostanti. La
raccolta di questo fluido inizia a comparire intorno alla 10a settimana di gravidanza ed aumenta di spessore
nelle settimane successive, per poi diminuire fino ad annullarsi dopo la 14° settimana. In linea generale,
maggiore è lo spessore della translucenza nucale e maggiore è il rischio che il feto sia affetto da anomalie
cromosomiche (in particolare da sindrome di Down e meno frequentemente da trisomia 13 o 18).
Nonostante ciò, l'incremento della translucenza nucale non è sempre correlato a patologie, ma può essere
un evento momentaneo; inoltre, quando ha significato patologico può anche essere presente in assenza di
difetti cromosomici, ad esempio a causa di cardiopatie, displasie scheletriche. La misurazione ecografica è
eseguita per via transaddominale o transvaginale; dato che il feto deve essere visionato in determinate
posizioni, si chiede alla paziente di tossire per indurre il movimento del feto. Si esegue tra la 11a e la 14a
settimana di gravidanza
Duotest, Tritest e Translucenza nucale consentono di individuare alterazioni fetali correlate a questi test nel
95% dei casi, contro i 99% dell'amniocentesi
Amniocentesi:
L'amniocentesi consiste nel prelievo per via transaddominale di una piccola quantità del liquido amniotico,
che avvolge e protegge il feto durante la crescita e il suo sviluppo. È una procedura medica mini‐invasiva,
utilizzata prevalentemente per la diagnosi prenatale di anomalie cromosomiche, infezioni ed alterazioni
dello sviluppo fetale, come ad esempio la sindrome di Down. Il liquido amniotico contiene infatti delle
cellule, dette amniociti, che provengono direttamente dal feto; una volta isolate, tali cellule possono essere
moltiplicate ed utilizzate in laboratorio per analisi citogenetiche e/o molecolari.Di regola, l'amniocentesi
viene eseguita a partire dalla 15a settimana di gravidanza, quando la cavità amniotica ha raggiunto
dimensioni tali da non costituire rischi particolari per il feto durante l'esame. Se la gestante è idonea
all'esame ‐ che è ad esempio controindicato in presenza di febbre od altre infezioni in atto ‐ la pelle
dell'addome viene disinfettata con una soluzione antisettica. Sotto costante guida ecografica, si infila un
ago attraverso la cute che ricopre la sottostante cavità uterina, allo scopo di raggiungere la cavità amniotica
e prelevare circa 15 ml dell'omonimo liquido. Si consideri che alla 14esima settimana di gestazione tale
liquido occupa un volume di circa 100 ml, che sale a 150‐200 ml 15/30 giorni più tardi e a 500 ml intorno
alla ventesima settimana. Il monitoraggio ecografico, innocuo, permette di controllare la posizione del feto
e quella dell'ago, minimizzando il rischio di complicanze. Una piccola parte di liquido amniotico viene
utilizzata per eseguire test biochimici diretti, mentre dalla rimanente vengono isolate le cellule fetali,
successivamente coltivate per ottenere un campione numerico sufficiente alla valutazione del cariotipo;
l’amniocentesirichiede fino a tre settimane per la refertazione di laboratorio. L'esame dura pochi minuti e
non richiede il ricovero ospedaliero; al termine dell'amniocentesi è comunque necessario rimanere per 30‐
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60 minuti nel centro sanitario. Nei 2/3 giorni successivi all'esame è bene astenersi da attività fisiche
pesanti. L'amniocentesi presenta una certa percentuale di rischio abortivo di 0,06%
Villocentesi:
tecnica diagnostica invasiva, basata sull'aspirazione di villi coriali sotto controllo ecografico; presentando
feto e villi coriali la stessa origine embrionale, ossia essendo derivati dallo zigote, i cromosomi dei villi
coriali sono gli stessi contenuti nelle cellule fetali, ed il loro studio permette di diagnosticare anomalie
cromosomiche del feto (tra cui la sindrome di Down) e svariate malattie genetiche (fibrosi cistica, sindrome
dell'X fragile, sordità). Si esegue per via addominale o vagino‐cervicale. Nella villocentesi transaddominale,
dopo aver identificato il punto più idoneo, si sterilizza la cute circostante; il campione coriale viene quindi
aspirato sotto guida ecografica continua. Nella villocentesi transcervicale, il materiale coriale viene aspirato
per mezzo di un catetere flessibile di polietilene, fatto passare attraverso il collo dell'utero, sotto controllo
ecografico. Il prelievo dei villi coriali si esegue in ambulatorio e non richiede ospedalizzazione. L’aumento
del rischio abortivo è correlato all’aumento dell’età materna e va dallo 0,5 al 3%. Per evitare fenomeni di
incompatibilità materno fetale, con conseguente malattia emolitica del neonato, nelle gestanti non
immunizzate Rh negative con partner Rh positivo, dev'essere eseguita una profilassi con immunoglobuline
anti‐D
Cordocentesi:
La cordocentesi è una procedura diagnostica invasiva, basata sul prelievo di circa 1‐3 ml di sangue fetale
tramite puntura del cordone ombelicale. L'esame inizia con un controllo ecografico preliminare, necessario
per accertare la vitalità fetale, l'epoca gestazionale e la via d'accesso migliore al cordone ombelicale.
Questa operazione si attua se la placenta è collocata nella parte anteriore dell’utero e non è percorribile
quando la placenta è posteriore o laterale o se si interpongono parti fetali. Si esegue sotto stretto controllo
ecografico ad alta risoluzione, per via transaddominale (puntura dell'addome materno, preventivamente
disinfettato, talvolta in anestesia locale). La puntura si effettua preferibilmente sulla vena ombelicale.
Terminato il prelievo, il feto viene sottoposto ad un ulteriore controllo ecografico.La maggiore invasività
della cordocentesi rispetto alle altre metodiche di diagnosi prenatale diretta, ne consiglia l'esecuzione in
regime di day‐hospital. La funicolocentesi viene eseguita tra la 20a e la 22a settimana, termine ultimo
concesso dalla legge per l'interruzione volontaria di gravidanza. Il tasso di abortivitàintorno al 3%è
leggermente superiore alle altre metodiche di diagnosi prenatale invasiva. tipiche indicazioni alla
cordocentesi sono rappresentate da:
‐ necessità di un accertamento rapido del corredo cromosomico fetale (5 ‐ 7 giorni) per procedere ad
un'eventuale interruzione di gravidanza entro i termini consentiti dalla legge
‐ fallimento di coltura dell'amniocentesi, che in media si verifica in 2 casi ogni 1000 prelievi
Soft markers:
L’ecografia genetica è un esame ecografico che viene eseguito a 16‐18 settimane per la ricerca dei soft
markers per la sindrome di Down. I “soft markers” sono dei segni ecografici, che possono essere associati
alla sindrome di Down, ma si trovano molto spesso anche nei feti sani. Il rischio di sindrome di Down viene
calcolato partendo dal rischio per età che viene modificato, moltiplicandolo per un fattore, che è diverso a
seconda del marker (presenza di focus iperecogeno cardiaco, dilatazione renale pelvica, intestino
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iperecogeno, cisti dei plessi corioidei, femore corto, plica nucale inspessita, ossa nasali ipoplastiche, arteria
ombelicale unica). Viceversa, l’assenza dei markers sotto elencati riduce il rischio di circa la metà.
‐ Focus iperecogeno cardiaco (Golf ball): si evidenzia ecograficamente come un’area iperecogena
(cioè più bianca), solitamente all’interno del ventricolo sinistro del cuore. Esso origina dalla
calcificazione di uno dei muscoli papillari del cuore. Il focus iperecogeno non è una malformazione
del cuore e non compromette in alcun modo la funzionalità cardiaca
‐ Dilatazione renale pelvica: consiste nella dilatazione della pelvi renale, quella struttura che
convoglia l’urina dal rene fetale verso l’uretere. Una dilatazione superiore ai 5mm pone
l’indicazione per una valutazione dettagliata dell’anatomia fetale
‐ Intestino iperecogeno: l’intestino appare più bianco o “iperecogeno”. Può avere molteplici cause
‐ Cisti dei plessi corioidei: ecograficamente si osserva la presenza di aree anecogene (ovvero più
scure) all’interno dei plessi corioidei. La presenza delle cisti dei plessi corioidei non costituisce una
malformazione e non ha alcun significato per il benessere e lo sviluppo del bambino che nascerà
‐ Femore corto: ecograficamente, la misura della lunghezza del femore cade al di sotto del 5°centile.
Le cause di femore corto sono molteplici: costituzionale, sindrome di Down, ritardo di crescita,
displasia scheletrica
‐ Plica nucale inspessita (>6mm): consiste nella misurazione della cute dietro al collo del bambino. La
sua presenza aumenta il rischio di sindrome di Down. La sua presenza, anche se isolata, è
un’indicazione all’esecuzione del cariotipo fetale
‐ Ossa nasali ipoplastiche: il riscontro di ossa nasali assenti o ipoplastiche rappresenta da solo una
indicazione all’esecuzione del cariotipo fetale, e può essere indicativo di alcuni tipi di displasie
scheletriche
‐ Arteria ombelicale unica: normalmente nel cordone ombelicale ci sono tre vasi, due arterie ed una
vena. Nel caso dell’arteria ombelicale unica, nel funicolo ci sono solo due vasi
NIPT:
(non invasive prenatal test) è un nuovo tipo di test estremamente sensibile per le aneuploidie più comuni
(più del duotest). Il NIPT si basa sulla presenza nel sangue materno di cellule provenienti dalla placenta, che
ha lo stesso corredo cromosomico del feto: tramite un prelievo di sangue queste cellule vengono
individuate, separate da quelle materne e moltiplicate. Successivamente ne viene studiato il cariotipo,
permettendo così di individuare la presenza di anomalie cromosomiche con una precisione del 98,6%: si
tratta comunque di un test di screening, il cui risultato deve essere confermato con un test diagnostico
come l’amniocentesi. Uno dei limiti del test è però rappresentato dalle gravidanze gemellari: qualora sia
presente più di un feto, infatti, il NIPT può determinare l’anomalia ma non può stabilire con esattezza a
quale feto essa sia associata. Il NIPT rimane comunque un test molto costoso
Test OLA‐PCR *:
[Oligonucleotide Ligation Assay (OLA)‐PCR] test nato per individuare i portatori sani del gene della FC.
Esistono numerosissime mutazioni (oltre 900) che causano la FC; molte di esse sono rare, molte altre
ancora sconosciute. Generalmente, il test genetico viene eseguito tenendo conto di 31‐200 mutazioni (a
secondo del tipo di analisi effettuata), scelte fra le più frequenti nell'area geografica in questione e che nel
complesso permette di identificare circa 90 per cento dei portatori. Il test genetico non è in grado di
identificarle tutte, ma può evidenziarne circa 100. Il gene responsabile della malattia è stato identificato e
localizzato sul cromosoma 7. Il gene codifica per una proteina chiamata CFTR (Cystic fibrosis
transmembrane regulator). La proteina CFTR ha un ruolo importante nel regolare la quantità di cloro che
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viene secreto insieme ai liquidi biologici. Nei pazienti affetti da FC il gene della CFTR è alterato, in genere a
causa di mutazioni puntiformi. L’analisi presenta varie fasi:
‐ inizialmente una reazione enzimatica di amplificazione del DNA, conosciuta come Polymerase Chain
Reaction (PCR), che consente di amplificare in vitro una specifica regione della molecola,
copiandola fino ad ottenerne milioni di copie
‐ successivamente si usano 2 sonde: le prime sono sonde specifiche sia per la sequenza normale che
mutata e presentano dei modificatori di mobilità di diversa lunghezza, per favorire la separazione in
una corsa elettroforetica; ilsecondo tipo sono sonde fluorescenti complementari alla sequenza
adiacente alla mutazione in esame (che dovrebbe rimanere sempre “normale” “invariata”)
‐ una ligasiunisce la sonda fluorescente alla sonda specifica adiacente
‐ La visualizzazione dei risultati avviene mediante elettroforesi capillare: la fluorescenza si troverà in
diversi punti della piastra elettroforetica a seconda del fatto che il gene sia normale o mutato (la
differenza di migrazione è data dalle sonde specifiche, grazie ai modificatori di mobilità)
Studio di associazione genome‐wide (GWA):
è un'indagine di tutti, o quasi tutti, i geni di diversi individui di una particolare specie per determinare le
variazioni geniche tra gli individui in esame. In seguito si tenta di associare le differenze osservate con
alcuni tratti particolari, ad esempio una malattia. Questi studi normalmente mettono a confronto il DNA di
due gruppi di persone: gli individui che presentano la malattia e individui sani il più possibile simili ai malati.
Vengono prelevati dei campioni cellulari, ad esempio con un tampone orale. Da queste cellule viene
estratto il DNA che è poi analizzato tramite un microarray, individuando SNP marcatori di gruppi di
variazioni geniche. Se alcune variazioni genetiche sono significativamente più frequenti negli individui
malati, allora le variazioni si dicono "associate" con la malattia. La maggior parte degli SNP associati con la
malattia non sono in una regione genica adibita alla codifica di una proteina. Queste sequenze
probabilmente svolgono un'attività di regolazione genica
TUMORI
Iperplasia:
proliferazione anormale di cellule che comunque non subiscono alterazioni genetiche. Può essere
fisiologica o patologica; può essere di causa ormonale o compensatoria. In alcuni casi, può costituire un
fattore predisponente per l’insorgere di neoplasie
Metaplasia:
modificazione reversibile di un dato tipo cellulare che viene sostituito da un altro tipo cellulare avente la
medesima differenziazione ontogenetica. La variazione nell'espressione fenotipica non è da relazionarsi con
una variazione genotipica, ma con una differente espressione genica indotta da una variazione nella
stimolazione ambientale. Il processo metaplasico produce un danno funzionale dovuto alla perdita delle
caratteristiche tipiche di quel tessuto. L'eccessiva esposizione a stress dei tessuti metaplasici può dare
origine ad alterazioni nella replicazione con danno genomico che possono dar luogo alla formazione di
neoplasie
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Displasia:
si intende l'anormale sviluppo cellulare di un organo o tessuto, consistente generalmente in una perdita dei
meccanismi di controllo con sostituzione del tipo cellulare residente con un altro tipo regionale. Data la
modificazione genetica, è definita come un'alterazione inequivocabilmente neoplastica, che può precedere
o essere associata ad una neoplasia
Invasività neoplastica (meccanismi)****:
una neoplasia è un tessuto vero e proprio, costituito sia da cellule normali che da cellule tumorali. Tra la
neoplasia e le cellule normali avviene un intenso “dialogo molecolare” sia autocrino che paracrino,
indirizzato alla secrezione di determinati fattori di crescita e sopravvivenza tumorale. Le cellule non mutate
che maggiormente partecipano nella genesi del tumore sono i fibroblasti e le cellule infiammatorie
(macrofagi associati al tumore, cellule dendritiche, linfociti, neutrofili, eosinofili e mastociti). Le tappe che
consentono l’invasività delle cellule tumorali sono diverse:
‐ adesività e motilità cellulare:ci sono 5 famiglie di molecole coinvolte nei fenomeni di adesione
cellulare: Caderine, Integrine, Selectine, IgSFCAM, Recettori della famiglia di CD44. Le Caderine, di
cui la E‐caderina è il membro rappresentativo più importante, sono proteine coinvolte
nell’adesione intercellulare. La E‐caderina si associa intracellularmente con degli adattatori
chiamati Catenine, che sopperiscono la sua mancata capacità di dare origine da sola a eventi di
trasduzione del segnale. La E‐caderina nello specifico si lega: (1) alla beta‐Catenina[aumenta le
capacità invasive della cellula agendo sulla trascrizione genica] che aggancia la alfa‐Catenina[agisce
sull’actina citoscheletrica modulando i processi di motilità cellulari] e (2) alla Catenina‐p120. Le
Selectine sono molecole coinvolte nell’adesione cellulare primaria e mediano un processo di
“rolling” o rotolamento sull’endotelio vasale anche per le cellule neoplastiche. Le più importanti
sono la E‐selectina endoteliale (lega SLeX), P‐selectina endoteliale (lega SLex) ed L‐selectina (lega
CD34, GlyCAM‐1 e MadCAM‐1).Le Integrine composte da una struttura dimerica alfa‐beta, sono
molecole coinvolte nell’adesione stabile delle cellule all’endotelio, nella proliferazione cellulare, nel
differenziamento. Le più famose integrine endoteliali sono LFA‐1 endoteliale (lega ICAM‐1), VLA‐4
endoteliale (lega VCAM‐1) e Mac‐1 endoteliale (lega ICAM‐1). Le IgSFCAMsi legano fra loro e con
altre molecole quali le integrine. Sono divise in 5 sottoclassi, ossia: le ICAM [molecole d’adesione
intercellulare], le VCAM [molecole d’adesione vascolare], PECAM [molecole d’adesione piastrinico‐
endoteliale], L1 e CECAM [molecole d’adesione correlate all’antigene CEA (inibisce il
differenziamento portando a perdita di adesione tra le cellule). I recettori della famiglia di CD44 [si
legano all’Ankyrina e all’Ezrina, consentendo il controllo della motilità cellulare; promuovono
inoltre la sopravvivenza cellulare]
‐ angiogenesi tumorale: processo mediante il quale il tumore si procura più ossigenazione e nutrienti
per soddisfare la sua alta richiesta metabolica. I processi considerati sono 2: l’angiogenesi
[formazione di strutture vascolari nuove a partenza da vasi preesistenti] e vasculogenesi
[costruzione di capillari a partire da precursori endoteliali indifferenziati]. L’angiogenesi è un
processo che si svolge a tappe: (1) la degradazione della membrana basale endoteliale mediata
dalle MMP con mobilizzazione del vaso (2) un aumento di permeabilitàe perdita di connessioni tra
le cellule endoteliali mediata dall’angiopoietina‐2 Ang‐2 (3) la proliferazione e migrazione delle
cellule endoteliali, stimolata da fattori quali VEGF e bFGF che sono liberati nei tessuti soggetti a
ipossia. Infatti la loro trascrizione è opera di fattori trascrizionali indotti dall’ipossia, HIF‐1 e HIF‐2. Il
fattore VEGF‐C è il principale promotore della linfoangiogenesi tumorale; i recettori coinvolti
nell’angiogenesi possono associarsi a proteine chiamate neuropiline NP1 e NP2, che ne amplificano
il segnale (4) infine vi è la ricostruzione della membrana basale
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‐ degradazione della matrice extracellulare:la cellula tumorale produce diverse proteasi attive sulla
matrice extracellulare, tra le quali MMP, serina proteasi e catepsine. Lo scopo è quello di penetrare
la barriera costituita dalla membrana basale. Le MMP sono segno di prognosi peggiore. MMP‐2 e
MMP‐9 sono adibite alla degradazione dei componenti della membrana basale quale il collagene di
tipo 4 e la fibronectina, funzionando in sinergia con MT‐MMP; MMP‐7 degrada la E‐caderina
[inibitori delle MMP sono le TIMP]
‐ rimodellamento della matrice extracellulare peritumorale:le cellule tumorali rilasciano PDGF che
stimola i fibroblasti a secernere fattori trofici per il tumore, quali IGF‐1. Questo loop paracrino
stimola i fibroblasti a produrre metalloproteinasi (MMP), proteine non collageniche (quali laminina
e tenascina)e collageniche (quali il collagene di tipo 4), che rimodellano il tessuto, aumentando le
possibilità di metastatizzazione. Un esempio di rimodellamento è dato da una reazione
desmoplastica, ossia la crescita di tessuto fibroso o connettivo secondaria ad un insulto. Questa
reazione può avvenire attorno a una neoplasia, causando una densa fibrosi intorno al tumore.
Solitamente è associata solo con neoplasie maligne, in grado di evocare una fibrosi che invade i
tessuti sani
Transizione epiteliale‐mesenchimale (EMT) e transizione mesenchimale‐epiteliale (MET) ***:
meccanismo molecolare che consente alle cellule tumorali epiteliali di variare il loro fenotipo per potersi
diffondere nei tessuti. Le cellule che preferenzialmente possono andare incontro a questa trasformazione
sono le CSC (cancer stem cell) o cellule staminali tumorali. La transizione epiteliale‐mesenchimale è
stimolata da alcuni fattori quali EGF, FGF, HGF e TGF‐beta (iporegola la sintesi di E‐caderine stimolando il
distacco cellulare) e da alcuni eventi quali l’infiammazione. La cellula va incontro a fenomeni riorganizzativi
citoscheletrici che le consentiranno il movimento, aumenta la sintesi di molecole quali vimentina (offre
flessibilità alle cellule, fornendo loro una resistenza assente nella rete dei microtubuli e dell'actina, in
condizioni di stress meccanico), fibronectina ed enzimi litici che degradano la membrana extracellulare. La
transizione mesenchimale‐epiteliale invece prevede che le cellule neoplastiche, una volta approdate nel
sito interessato, riacquistino le caratteristiche epiteliali (come la sintesi di E‐caderine) che consentono loro
di ri‐aderire saldamente ad un tessuto e formare una struttura simile al tumore di partenza
Metastasi, vie metastatiche***********************************:
per metastasi si intende la disseminazione spontanea di cellule neoplastiche che, distaccatosi dalla sede del
tumore primitivo, raggiungono con varie modalità uno o più siti distanti da quello di origine e li colonizzano,
formando una nuova localizzazione neoplastica. I tumori benigni non possono mai metastatizzare in quanto
non riuscirebbero a sopravvivere in un organo diverso da quello in cui si sono originati. Solo una piccola
quantità di cellule che sono riuscite a passare nel sangue si dimostrano capaci di attecchire in altri distretti.
A causa dell’instabilità genotipica delle cellule tumorali queste, anche se originate da un’unica cellula
(tumore monoclonale), possono dare origine a cellule con genotipo molto diverso e diverse capacità. Le
modalità di diffusione metastatica sono:
‐ per contiguità: la metastasi si sviluppa sulla superficie di un organo limitrofo alla sede del tumore e
la diffusione è data dal semplice sconfinamento di un tumore in altri tessuti/organi circostanti.
Esempio di questo è il tumore alla testa del pancreas che si può diffondere al fegato o i tumori
trasportati da cause iatrogene
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‐ per via celomatica: la metastasi diffonde nella cavità sierosa di dati distretti anatomici. La modalità
di diffusione coinvolge il plasminogeno che viene trasformato in plasmina da cellule tumorali
presenti sulla superficie di un organo contenuto nella cavità celomatica; così facendo le metastasi
diffondono nella cavità e possono attecchire ad altri organi intracelomatici. Esempio di questo sono
i carcinomi gastrici/intestinali che si diffondono all’ovaio
‐ per via linfatica:la via in assoluto più caratteristica dei carcinomi. I vasi linfatici a causa della loro
scarsità di giunzioni hanno una membrana basale non continua. Le cellule tumorali sono attirate
dalla chemochina CCL‐21, presente sulle cellule endoteliali dei vasi linfatici, dato che posseggono il
recettore complementare CCR‐7. Le cellule metastatiche inoltre producendo fattori come VEGF‐C e
VEGF‐D, promuovono la linfoangiogenesi, e producendo VEGF‐R3, incrementano il diametro dei
vasi esistenti, accentuando la diffusione. Se le cellule neoplastiche raggiungono il linfonodo,
possono sia proliferare, sia andare incontro a degenerazione, sia restare in uno stato di latenza
‐ per via ematica: caratteristica di sarcomi e carcinomi. La cellula tumorale, secernendo fattori
angiogenici, si “costruisce” una personale rete vascolare costituita da due tipologie possibili di
vascolarizzazione: vascolarizzazione periferica [costituito da grandi tronchi arteriosi che circondano
il tumore e vi gettano vasi all’interno] o vascolarizzazione centrale [costituito da un grande tronco
arterioso che penetra al centro della neoplasia e getta rami che si dirigono verso la periferia].
Penetrate nei vasi, le cellule si diffondono grazie alla corrente sanguigna, si depositano in diverse
zone del corpo e proliferano. Questa è l’ipotesi di “maggiore funzionalità” della cellula considerata;
infatti, diverse metastasi non riescono a fuoriuscire dal flusso sanguigno, morendovi dentro; altre
cellule che invece riescono a penetrare l’endotelio vasale e a portarsi al di fuori del vaso stesso, ma
non riescono a crescere, dando luogo a micrometastasi “quiescenti”. Il processo vero e proprio di
diffusione ematica, dall’ingresso nel torrente fino all’uscita da questo, può essere così
schematizzato: invasione tissutale e penetrazione ematica (già descritto), circolazione delle cellule
neoplastiche nel flusso, adesione alle cellule endoteliali[lavoro svolto sia dalle selectine E e P degli
endoteli, sia dalle integrine della famiglia CAM come ICAM e NCAM (che si legano a lectine
cellulari)], penetrazione nell’endotelio [può avvenire con 2 modalità: o gli pseudopodi della cellula
tumorale vengono spinti all’interno delle giunzioni cellulari dell’endotelio o fattori secreti inducono
la retrazione delle cellule endoteliali, liberando il passaggio]e digestione della membrana basale
con extravasazione [la digestione avviene ad opera di metalloproteasi MMP, catepsina D e
l’attivatore del plasminogeno che tramite idrolisi riescono ad aprire un varco tra la membrana
basale]
‐ per via canalicolare: la metastasi diffonde attraverso il dotto escretore della ghiandola in cui il
tumore si è originato. Esempio costituito dall’adenocarcinoma della pelvi renale che può dare
metastasi alla vescica urinaria
‐ per via subaracnoidea: caratteristico dei tumori maligni cerebrali, che di solito non diffondono mai
all’infuori del sistema nervoso
Classificazione dei tumori e stadiazione *************:
Valutazione del Grading (o Grado) di differenziazione tumorale (per i tumori epiteliali):
‐ G1: tumore costituito da cellule ben differenziate, indicante assenza di malignità e crescita lenta
‐ G2: tumore costituito da cellule con differenziazione intermedia, con crescita relativamente rapida
e possibile malignità
‐ G3: tumore costituito da cellule scarsamente differenziate, a crescita rapida e malignità accertata
‐ G4: tumore costituito da cellule indifferenziate, a crescita estremamente rapida e così alta
malignità da compromettere notevolmente la sopravvivenza del paziente
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‐ GX: tumore costituito da cellule con grado di differenziazione non definibile
Stadiazione di un tumore e sistema TNM: la stadiazione indica il grado di sviluppo di un tumore e la sua
possibile diffusione. T sta per “Tumore” e indica le dimensioni del tumore; N indica il quantitativo di
“linfoNodi” coinvolti; M indica l’eventuale presenza di “Metastasi” a distanza
Tumore: la classificazione varia a seconda del distretto corporeo colpito
‐ T0: indica un tumore primario sconosciuto, identificato solo dalle metastasi
‐ TX: indica la mancanza di requisiti per definire un tumore primario
‐ Tis: indica un carcinoma in situ
linfoNodi: indica il coinvolgimento progressivo di più linfonodi interessati
‐ N0: assenza di interessamento linfonodale
‐ N1: fino a 3 linfonodi interessati
‐ N2: fino a 10 linfonodi interessati
‐ N3: più di 10 linfonodi interessati
‐ NX: mancanza dei requisiti per valutare lo stato dei linfonodi sentinella
Metastasi: indica l’eventuale presenza di metastasi a distanza
‐ M0: indica l’assenza di metastasi
‐ M1: indica la presenza di metastasi
‐ MX: indica l’impossibilità di accertare la presenza di metastasi
Esempi tumori per tessuto:
Tumori del tessuto epiteliale:
‐ Benigni: ne esistono di diverse tipologie, di cui i più diffusi sono i polipi e i papillomi. Entrambi sono
costituiti da una parte stromale centrale formata da connettivo che avvolge alcuni vasi sanguigni,
linfatici e nervi, il tutto rivestito da cellule epiteliali. La differenza tra i 2 tipi sta nel fatto che il
polipo è una struttura cilindrica/sferoidale a carattere singolo, mentre il papilloma ha un’unica
radice ma diverse ramificazioni
‐ Maligni: genericamente chiamati carcinomi, microscopicamente hanno aspetto irregolare, margini
sfrangiati che si insinuano nel tessuto sano circostante, assumendo varie forme, dal nodulo
all’ulcera. Le due tipologie più note sono il carcinoma basocellulare (cellule simili allo strato basale
dell’epidermide; ha l’aspetto di una piccola area tondeggiante di cute rilevata e traslucida o di una
papula; tende ad ulcerare e diffondersi radialmente) e il carcinoma spinocellulare (insorge sia su
cute che su fasi di transizione cute/mucosa; ha l’aspetto di una protuberanza sferoidale, dura;
accrescendosi diventa ulcerata e sanguinante
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Tumori dell’epitelio ghiandolare:
‐ Benigni:sono chiamati adenomi. Tendono a riprodurre abbastanza fedelmente il loro tessuto
ghiandolare d’origine. Una delle forme più diffuse di questi tumori è il fibroadenoma, diffuso nelle
giovani donne; a sede mammaria, si associa ad uno sviluppo del connettivo stromale
‐ Maligni: sono chiamati adenocarcinomi, possono avere un buon grado di differenziazione e
riprodurre il tessuto ghiandolare d’origine o avere una scarsa differenziazione e presentarsi in
forma di aggregati cordonali/insulari
Tumori del tessuto connettivo:
‐ Benigni: prendono il nome del tessuto di origine più il suffisso ‐oma; il loro aspetto non si discosta
rispetto al tessuto originario
‐ Maligni: prendono il nome del tessuto di origine con suffisso ‐sarcoma; possono sia avere un buon
grado di differenziazione e ricostruire le caratteristiche del tessuto d’origine (vengono chiamati
blastici in questo caso) o possedere uno scarso grado di differenziazione e generare tessuti diversi a
quelli di partenza (chiamati in questo caso anaplastici)
Tumori dei tessuti ematopoietici: se prendono origine dalle cellule progenitrici del midollo osseo, sono
definiti leucemie; se prendono origine dai linfociti già maturi vengono detti linfomi
Leucemie: hanno un’origine monoclonale; sono caratterizzati sia dall’abnorme proliferazione, sia dal blocco
maturativo delle cellule
‐ Leucemie linfoidi: derivano dalla trasformazione neoplastica del progenitore dei linfociti T e B;
divise in acute e croniche
‐ Leucemie mieloidi: derivano dai progenitori della linea monocitica/megacariocitica/granulocitica;
divise in acute e croniche
‐ Eritroleucemie: derivano dai progenitori della linea eritroide
Linfomi: si dividono in 2 gruppi principali, Hodgkin (presenza istologica di cellule multinucleate) e non
Hodgkin
‐ Tumori plasmacellulari: ampio gruppo di tumori, derivati da una plasmacellula che ha subito
trasformazione neoplastica. Sono tumori che secernono anticorpi
Tumori del sistema melanoforo:
‐ Benigni: tra i più diffusi troviamo i nevi (o nei). Se congeniti, sono più propriamente definiti
“amartomi”, ossia neoformazioni risultanti dall’accumulo di tessuti di varia origine embrionale.
Sono così diffusi da essere considerati come condizione fisiologica
‐ Maligni: prendono il nome di melanomi; si identificano grazie ai contorni e colore irregolari, alla
dimensione superiore a 7 mm, alla capacità espansiva in tutte e 3 le direzioni spaziali e dalla
velocità dell’espansione
Tumori di origine placentare/embrionale: si originano da cellule che normalmente non dovrebbero più
essere presenti nel corpo adulto. Alcuni derivano dal trofoblasto (corionepitelioma), altri da cellule
embrionali pluripotenti come il teratoma*. I teratomi possono essere sia benigni che maligni e insorgono
preferenzialmente nell’ovaio e nel testicolo; presentano genericamente strutture ben differenziate, come
cartilagini, ossa, pelle, annessi cutanei
Tumori del sistema nervoso: non è sempre possibile ascrivere caratteristiche di benignità e malignità. I
tumori maligni, metastatizzano soltanto nel SNC, senza diffondere al resto del corpo. Il SNC tuttavia è
spesso sede di metastasi. C’è una netta distinzione strutturale tra quelli del SNC e del SNP. I più importanti
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sono: i gliomi (astrocitomi*, oligodendrogliomi, ependimomi), i tumori scarsamente differenziati, i
meningiomi
Proteinuria di Bence‐Jones:le cellule “B tumorali” producono e rilasciano nel sangue un eccesso di catene
leggere delle immunoglobuline, che attraversano il filtro renale finendo nelle urine. Serve a fare diagnosi di
uno specifico tipo di mieloma multiplo o sindrome di Waldenstrom (tumore plasmacellulare). In parte le
catene vengono riassorbite al livello dell’epitelio tubulare, danneggiandolo
Cancerogenesi chimica *****:
per definizione, una sostanza si definisce cancerogena quando è capace di consentire la formazione di
tumori, interagendo con il DNA (in maniera diretta o indiretta) in modo da mutarne la struttura,
accentuandone anche l’espressione. Esistono 3 classi di cancerogeni: cancerogeno acclarato (effetto
confermato di cancerogenicità sull’uomo), cancerogeno animale non verificato sull’uomo (verificato su
animali da laboratorio, ma senza aver conferma di casi umani) e cancerogeno sospettato (possibile
cancerogeno, ma occorre ancora verifica sugli animali da laboratorio). Per indurre trasformazione
cancerosa non basta un singolo contatto con l’agente, anche se questo è ad alte dosi, ma è necessario un
contatto più prolungato e a dosi ridotte. Se insorge una lesione precancerosa a seguito dell’esposizione ad
una sostanza e questa sostanza viene allontanata, si assisterà alla regressione della lesione; la cellula della
lesione in contesto resterà comunque “più predisposta” delle altre cellule ad originare un tumore, e una
successiva ri‐esposizione avrà effetti molto più rapidi in termini di insorgenza tumorale della prima. Non si
assiste a regressione se si è già giunti allo stato di carcinoma. La cancerogenesi viene definita un processo
multifasico: la prima fase prevede l’iniziazione, la seconda la promozione e la terza (indistinguibile dalla
seconda) la progressione
‐ l’iniziazione: processo che prevede il primo contatto con una sostanza capace di indurre mutazione
genica, in modo da trasformare una cellula normale in una precancerosa (ossia capace di dar vita
ad un tumore ma momentaneamente ancora non attiva). I protooncogeni che più facilmente vanno
incontro a mutazione (con successiva trasformazione in oncogeni attivi) sono K‐ e H‐ras.
L’oncosoppressore che più facilmente va incontro a mutazione (con successiva inattivazione e
perdita del controllo oncosoppressivo) è Tp53. Le cellule così generate vengono definite “cancer
stem cell”, ossia “cellule staminali cancerose” e si trovano in una fase definita di “latenza”. Se è
presente uno stimolo di promozione, queste cellule si moltiplicano con le stesse modalità di
divisione delle cellule staminali normali
‐ la promozione: processo che prevede il successivo contatto con una sostanza capace di
promuovere la trasformazione tumorale. Questa sostanza deve essere somministrata con una certa
frequenza fino alla trasformazione cancerosa, oppure la lesione generata tende a regredire.
Sostanze promuoventi note sono il TPA e gli idrocarburi policiclici aromatici. Il TPA, mimando il
DAG, si lega alla PKC, attivandola; PKC attiva IkkB chinasi, che degrada IkB e libera NFkB che,
penetrato nel nucleo, si lega a sequenze geniche codificanti per proteine antiapoptotiche e
mitogeniche, stimolandone l’espressione; la PKC attiva inoltre la via ERK/MAPK, con espressione di
c‐jun e c‐fos che formano AP‐1, proteina iperattiva in diverse forme neoplastiche. Gli idrocarburi
policiclici aromatici si legano al recettore citoplasmatico AhR; il complesso viene traslocato nel
nucleo dove interagisce con promoter ed enhancer di AhRE, stimolando la progressione del ciclo
cellulare
‐ la progressione: indistinguibile dalla promozione, ma è questa la fase in cui compaiono i fenotipi
invasivi e metastatici
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Un’ultima distinzione viene fatta tra: cancerogeni diretti e indiretti: quelli diretti sono forniti di elevata
reattività data dalla carenza di elettroni e tendono a formare facilmente legami covalenti con molecole
quali il DNA, agendo sullo stesso; quelli indiretti non hanno la stessa reattività ma l’acquistano interagendo
con enzimi del nostro organismo, formando derivati reattivi [le fasi di trasformazione prevedono la
conversione di un procancerogeno libero in uno legato ad un complesso costituito da enzimi e citocromo P‐
450; successivamente le conversioni attuate dalla citocromo C reduttasi, dall’ossigeno e dalla
monoossigenasi, convertono il procancerogeno in un cancerogeno, che si slega dal complesso ed effettua la
sua funzione]
Tumori ormono‐dipendenti/responsivi*****:
Leucemie e classificazioni **:
Oncosoppressori *******************************:(p53, rb @@@
ONCOSOPPRESSORI
geni che sopprimono la formazione di mutazioni potenzialmente tumorali. Esistono due categorie di
oncosoppressori: i gate‐keeper (agiscono sul ciclo cellulare in modo da indurre apoptosi e blocco della
progressione cellulare in caso di mutazioni potenzialmente tumorali) e i care‐taker (riparano il DNA, agendo
in modo da evitare lo sviluppo di mutazioni). Le mutazioni dei geni oncosoppressori sono genericamente
loss‐of‐function, mentre quelle degli oncogeni sono genericamente gain‐of‐function. Il meccanismo di
funzionamento alla base delle alterazioni degli oncosoppressori fu ipotizzato da Knudson, che suppose che
mutazioni a carico di un singolo gene fossero sufficienti per indurre la mutazione presso entrambi gli alleli.
Questo modello presuppone che entrambi gli alleli siano mutati per indurre una manifestazione patologica
e questo classifica questo modello come “modello di mutazione recessiva”. I motivi per cui la seconda
mutazione avviene più facilmente sono 2: 1) la ricombinazione genetica tra i 2 cromosomi omologhi nella
mitosi a livello delle sequenze mutate; 2) la conversione genica, che implica che il DNA danneggiato possa
essere ricostruito usando come stampo il cromosoma omologo. Questi 2 meccanismi rendono molto
probabile la mutazione del secondo allele codificante per l’oncosoppressore, generando il “secondo hit”,
necessario all’insorgere della patologia (meccanismi noti come Loss of Heterozygosity). Esistono diverse
eccezioni alla regola de due colpi. Gli oncosoppressori più noti sono:
‐ Gene retinoblastoma (RB): è un gate‐keeper. Codifica per una proteina di 928 aminoacidi, chiamata
p110RB; è contenuta nel cromosoma 13 sul braccio lungo. Questa proteina è un gate‐keeper
capace di arrestare la proliferazione cellulare controllando il punto R (punto di restrizione) alla fine
della fase G1 del ciclo cellulare. p110RB interagisce tramite un dominio definito A/B pocket che
interagisce sia con enzimi capaci di rimodellare la cromatina, reprimendo la trascrizione genica sia
con fattori trascrizionali quali E2F (che in genere consentono la progressione del ciclo cellulare),
inibendoli. Il meccanismo di p110RB nel ciclo cellulare prevede diversi gradi di fosforilazione; la
proteina si inibisce quando viene fosforilata, consentendo la progressione del ciclo cellulare e si
attiva quando defosforilata, agendo da oncosoppressore. I complessi fosforilanti la proteina RB
sono dati dalle varie Cicline + i fattori CDK loro correlati. La proteina RB all’inizio è legata a E2F e ne
reprime l’espressione; successivamente quando sopraggiungono stimoli mitogeni, viene indotta la
trascrizione del complesso Ciclina D + CDK4/CDK6, che comincia a fosforilare la proteina RB; questa
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si dissocia minimamente, consentendo a piccoli quantitativi di E2F di trascrivere la Ciclina E + CDK2.
A questo punto, il complesso della Ciclina E termina di fosforilare la proteina RB, dissociandola e
liberando tutti i fattori E2F dall’inibizione, proseguendo il ciclo
‐ Gene P53: è un gate‐keeper. Codifica per una proteina di 393 aminoacidi, contenuta nel
cromosoma 17 sul braccio corto. Esistono due geni altamente omologhi a P53, ma più ancestrali,
chiamati P63 e P73. L’azione principale della proteina è quella di fungere da induttore apoptotico e
da arresto della proliferazione cellulare in caso in cui la cellula sia sottoposta a stress cellulare,
genotossico o non genotossico che sia.
La proteina è divisa in differenti porzioni:
una porzione amino‐terminale: contiene 2 domini di transattivazione della trascrizione genica
(TAD)
un segmento ricco di proline: importante per la stabilità della proteina
una parte centrale: contiene il dominio legante il DNA (DBD) + una sequenza di localizzazione
nucleare
una porzione carbossi‐terminale: che contiene il dominio di tetramerizzazione (serve per quando
P53 lega il DNA e forma un omotetramero. Mutazioni missenso di questo dominio causano il blocco
della tetramerizzazione con perdita di funzione di P53, anche se la mutazione avviene in
eterozigosi)
Il DNA possiede dei siti di legame per P53, chiamati P53RE (P53 responsive elements), costituiti da 2
sequenze palindromiche connessi da uno spaziatore lungo. I geni che rispondono a P53 presentano
tutti delle P53RE nel loro promotore. P53 può anche stimolare l’espressione di miRNA regolatori.
Importanti bersagli di P53 sono:
p21CIP1: inibitore di CDK, può promuovere l’arresto temporaneo del ciclo cellulare oppure quello
permanente
FAS: recettore di membrana per FASL, promuove l’apoptosi nella via estrinseca
BAX e BAK: proteine che aumentano la permeabilità mitocondriale, inducendo la fuoriuscita di
proteine pro‐apoptotiche come il citocromo C
BCL‐2: P53 può direttamente bloccare questo fattore di sopravvivenza, favorendo l’apoptosi
E2F: indirettamente, tramite p21CIP1 che bloccando le CDK impedisce la fosforilazione di p110RB e
la sua dissociazione da E2F, in modo che E2F‐legato non possa far progredire il ciclo cellulare
La regolazione di P53:
P53 possiede un’emivita tra i 6 e i 20 minuti, poi viene degradata. La degradazione viene operata
dalle proteine MDM con funzione di ubiquitina ligasi, di cui la MDM2 è la principale protagonista.
MDM2 viene sintetizzata sotto stimolo della stessa P53, in modo che ad una maggiore produzione
di P53 corrisponda una sua maggiore degradazione (feedback negativo). La stessa MDM2 è però
sotto il controllo inibitorio di p14ARF, proteina prodotta quando il fattore E2F viene lasciato libero
dalla proteina del retinoblastoma (p110RB). In questo modo, nel caso in cui si avesse un’eccessiva
inibizione di p110RB e il ciclo cellulare fosse lasciato andare troppo liberamente, le MDM2
verrebbero inibite e la P53 liberata, portando la cellula al blocco del ciclo/apoptosi, opponendosi ad
eventuali trasformazioni neoplastiche. Mutazioni che inducono l’iperespressione di MDM2 o che
inducono l’ipoespressione di p14ARF risultano cancerogene a causa dell’effetto che hanno su P53
‐ Gene STK11: è un gate‐keeper. Il gene è capace di bloccare il ciclo cellulare e indurre senescenza;
agisce anche da controllore della disponibilità di nutrienti. Quando i nutrienti mancano, AMP si
accumula nella cellula e attiva una chinasi chiamata AMPK, che a sua volta attiva TSC1. TSC1 è un
inibitore di RHEB, proteina G che regola positivamente mTOR. mTOR normalmente stimola la
sintesi proteica, ma se viene inibita, la via preferenziale favorisce l’autodigestione cellulare e il
blocco del ciclo cellulare. Mutazioni di questo gene comportano la predisposizione a formare polipi
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amartomatosi intestinali e cancro al colon. La sindrome è nota come Peutz‐Jegherz (o PJS); colpisce
1 nato su 200.000
‐ Gene APC: è un gate‐keeper. Localizzato sul braccio lungo del cromosoma 5 e codifica per una
proteina di 2843 aminoacidi. Nelle cellule la APC controlla l’emivita della beta‐catenina,
indirizzandola verso la poliubiquitinazione (degradazione) e non consentendole di fungere da
fattore trascrizionale per la Ciclina D, arrestando il ciclo cellulare. Normalmente l’APC agisce in
sinergia col fattore GSK3‐beta che è preposto alla fosforilazione della beta‐catenina (la
fosforilazione predispone alla degradazione). Tuttavia, in seguito a stimolazione con fattori di
crescita quale WNT, viene prodotta una proteina chiamata Dishevelled che inibisce GSK3‐beta e
stabilizza la beta‐catenina, che si libera dal legame con APC. La beta catenina a questo punto
trasloca nel nucleo dove agisce da fattore trascrizionale per TCF, inducendo la formazione di Ciclina
D e la progressione del ciclo cellulare. Mutazioni di APC predispongomo alla poliposi familiare del
colon (FAP), insorgenza 1/13.000 nati, caratterizzata dallo sviluppo di polipi multipli adenomatosi
nel tratto colo‐rettale
‐ Gene CDH1: è un gate‐keeper. Codifica per la E‐caderina, proteina che consente la formazione di
giunzioni tra cellula e cellula. Se mutata, può predisporre al cancro familiare dello stomaco e della
mammella
‐ Gene MSH2, MLH1 e MSH6: sono care‐taker. Codificano per enzimi di riparo dei mismatch (MMR);
questi mismatch sono errori di appaiamento delle singole basi, causate da una sostituzione o da
piccole inserzioni/delezioni. Mutazioni inattivanti di questi geni predispongono al cancro ereditario
non poliposico (HNPCC) o Sindrome di Lynch, caratterizzato dalla presenza di cancro al colon NON
preceduto da polipi adenomatosi (come nella FAP)
‐ TGF‐beta‐R2: gene antiproliferativo
‐ BAX: gene pro‐apoptotico
‐ BRCA1 e BRCA2: sono care‐taker. I geni sono localizzati rispettivamente sui bracci lunghi dei
cromosomi 17 e 13. Le proteine codificate hanno diversi domini funzionali.
BRCA1 presenta:
una porzione amino‐terminale: possiede un dominio RING, implicato nella regolazione
trascrizionale e nella ubiquitinazione di proteine
una porzione centrale: contiene un dominio di legame al DNA (DBD)
una porzione carbossi‐terminale: contiene 2 domini BRCT coinvolti nel riparo del DNA
BRCA2 presenta:
una porzione centrale: possiede 8 domini BRC, essenziali per il legame con RAD51
Sia BRCA1 che BRCA2 sono essenziali per la ricombinazione omologa (HR) un meccanismo di riparo
del DNA che interviene quando sono presenti rotture del doppio filamento. Un ruolo centrale nella
HR è svolto da RAD51, che consente l’appaiamento delle basi omologhe per consentire la
riparazione della molecola. Mutazioni per i 2 geni generano una predisposizione al carcinoma
mammario (circa il 50% dei carcinomi mammari sono causati da queste mutazioni). La mutazione
avviene secondo il modello a 2 hit di Knudson e genera l’espressione di NHEJ al posto di HR; NHEJ
ripara le estremità non omologhe, ma lo fa con un meccanismo impreciso, che causa instabilità
genica e trasformazione neoplastica
‐ Gene Menina: prevalentemente un gate‐keeper, ma potrebbe anche avere funzioni di care‐taker.
Situato sul braccio lungo del cromosoma 11, produce la Menina, una proteina che svolge diverse
funzioni:
regola la trascrizione genica di alcuni specifici geni: i geni regolati “positivamente” sono inibitori
del ciclo cellulare, mentre quelli regolati “negativamente” codificano per le telomerasi. Per regolare
la trascrizione interagisce con proteine che rimodellano la cromatina (come HDAC)
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può bloccare alcuni fattori di trascrizione: oncogenici quali JUND e NFkB
può stimolare l’apoptosi
Le mutazioni ereditate tramite meccanismo autosomico dominante agiscono tramite meccanismo a
2 hit di Knudson. Quando la Menina muta, si può andare incontro ad una sindrome da neoplasia
endocrina multipla chiamata MEN1, che predispone allo sviluppo di tumori a carico di ghiandole
endocrine
‐ Gene VHL: il suo prodotto proteico consente l’ubiquitinazione e la degradazione di HIF‐ 1. HIF‐1
normalmente indurrebbe la produzione di VEGF e stimolerebbe l’angiogenesi, favorendo la crescita
tumorale. VHL degradando HIF‐1 agisce da oncosoppressore. La mutazione agisce tramite
meccanismo a 2 hit di Knudson e può generare la Sindrome di Von‐Hippel
‐ Gene PTEN: localizzato sul braccio lungo del cromosoma 10, codifica per una fosforilasi che va ad
antagonizzare sia l’azione di PI3K, convertendo il PIP3 in PIP2, sia l’azione di AKT. In questo modo
blocca lo stimolo proliferativo, la sopravvivenza cellulare e la sintesi proteica. La mutazione blocca
la funzione genica già presentandosi in eterozigosi, il che ci suggerisce che PTEN è aploinsufficiente
(il che rappresenta UN’ECCEZIONE al meccanismo a 2 hit di Knudson). La sindrome che si genera
viene chiamata sindrome di Cowden e predispone al carcinoma della tiroide, della mammella,
dell’endometrio
‐ Gene CDC4: induce la degradazione di mTOR, bloccando la sintesi proteica
CICLO CELLULARE (in relazione agli oncosoppressori)
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TGF‐beta (azione oncosoppressiva): TGF‐beta nelle cellule normali recluta TGF‐beta‐R2, che dimerizza con
un omologo. A questo punto fosforila SMAD2/3, che diventano capaci di legarsi a SMAD4 generando il
complesso SMAD 2/3/4. Il complesso SMAD consente la trascrizione di p15INK4B, che può inibire il
complesso Ciclina D + CDK4/6
Oncogeni (proteici, non proteici e classificazione)************************: (ras, src @@@
(non posso metterli dato che non li ho fatti io… ho studiato da estratti fatti da una collega)
[Malattie mieloproliferative]: malattie date dalla proliferazione incontrollata di un precursore mieloide,
senza arresto del processo differenziativo, con iperproduzione di cellule ematiche mature
‐ Policitemia vera: caratterizzata da iperproduzione eritrocitaria
‐ Trombocitemia essenziale: caratterizzata da iperplasia megacariocitaria, con iperproduzione
piastrinica
‐ Mielofibrosi: progressiva fibrosi del midollo osseo, per emopoiesi extramidollare
[Sindromi mielodisplastiche]: alla proliferazione midollare segue un progressivo deficit funzionale delle
cellule midollari, che porta ad alterazioni qualitative e quantitative degli elementi figurati del sangue
FISIOPATOLOGIA
Temperatura corporea controllo:
la regolazione avviene a livello centrale, a carico di alcuni neuroni presenti nell’ipotalamo anteriore e
posteriore.In caso di freddo, l'ipotalamo anteriore (nucleo sopraottico) reagisce liberando serotonina, la
quale attiva il nucleo posteriore (paraventricolare) che, stimolando il simpatico, crea un innalzamento della
temperatura. Viceversa se la temperatura è elevata, il nucleo posteriore (paraventricolare) libera
noradrenalina o dopamina, che stimolano i nuclei situati nella zona anteriore (sopraottico) dell'ipotalamo, i
quali agiscono aumentando la sudorazione e la vasodilatazione periferica. Ci sono diversi tipi di popolazioni
neurali: fibre A, B e C (vengono percorse dalle risposte al caldo e al freddo), neuroni w (neuroni effettori
della risposta termodispersiva), neuroni c (neuroni effettori della risposta termoproduttiva), neuroni W
(sono neuroni responsabili del controllo termico dei neuroni w e c), neuroni I (sono neuroni responsabili
della integrazione di segnalisui neuroni w e c). Esistono diversi meccanismi per regolare la temperatura:
‐ Meccanismi di produzione del calore: normalmente il calore viene prodotto in conseguenza dei
normali metabolismi energetici cellulari (fosforilazione ossidativa, deidrogenazione), ma può anche
non derivare dalla produzione di ATP, prodotto direttamente dal disaccoppiamento dei sistemi
sintetici di ATP, che induce la liberazione di una cascata protonica sulla membrana mitocondriale
interna, con generazione di calore; gli organi più deputati alla produzione di calore sono il fegato e
l’apparato muscolare
‐ Meccanismi di dispersione del calore: normalmente il calore viene disperso attraverso la
respirazione, l’evaporazione e l’irraggiamento, ma più importante di tutti i sistemi è la sudorazione.
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Esistono due tipi di sudorazione: quella insensibile (perspiratio insensibilis) di circa 30 ml ogni ora e
quella visibile che può portare anche a perdere 2‐3 litri in poco tempo
Ovviamente, molte altri fattori sono capaci di interferire nel processo, aumentando la temperatura, quali
ad esempio:
‐ pirogeni di derivazione microbica (proteine virali, proteine batteriche, LPS…), ormoni tiroidei, raggi
UV, alcuni farmaci
altri fattori sono capaci di interferire nel processo, diminuendo la temperatura:
‐ assideramento, mixedema, cause tossiche, cachessia, farmaci
Ipotermia:
abbassamento della temperatura fino anche a 3° sotto il limite fisiologico (anche se in casi estremi si può
anche arrivare a 6°). Può avere cause “pratiche” (stati avanzati di denutrizione), esogene (assideramento,
ustioni estese, tossiche) e centrali (paralisi dei centri regolatori in condizioni quali coma, tossine microbiche
e farmaci)
Ipertermia **:
aumento della temperatura corporea oltre i limiti fisiologici, provocato da cause esterne, sia fisiche
(surriscaldamento dovuto a colpo di sole o di calore), sia chimiche (inoculazione di sostanze piretogene), o
da intensa fatica muscolare. Il concetto di ipertermia èdistinto da quello di febbre, sia per i fattori
scatenanti (cause biologiche endogene) sia per la mancata fissazione di un nuovo set point ipotalamico,
presente invece nella febbre. Il colpo di calore risulta il più grave: esso si verifica in alcune condizioni,
endogene (lavoro muscolare eccessivo) o esogene (saune) che siano, in cui tutto il corpo va incontro ad un
aumento di temperatura, mentre la termodispersione non è possibile; in questa condizione vi è una
vasodilatazione abnorme che compromette l’emodinamica, causando shock. Per evitare ciò si verifica una
reazione di vasocostrizione muscolare e del distretto splancnico (fegato, rene, milza, intestino) volta a
evitare la condizione di shock agli organi più importanti (cervello e cuore). Conseguentemente a questa
reazione, gli organi “non essenziali” e in particolare i muscoli vanno incontro a danno ischemico e
rabdomiolisi, con distruzione della fibra e liberazione di mioglobina, la quale sopraggiunge al rene causando
ingente danno renale. Questa condizione può verificarsi anche 12 ore dopo che il soggetto è stato rimosso
dall’ambiente caldo e rappresenta uno dei pericoli più insidiosi di questa patologia. Il colpo di sole invece ha
differente decorso e minore gravità: la radiazione solare aumenta principalmente la vasodilatazione a
livello subaracnoideo, causando in primo luogo la formazione di edema, successivamente microemorragie.
Se il soggetto è rimosso in tempo, i danni risultano reversibili, ma se il soggetto permane in questa
condizione il danno peggiorerà di entità, passando dalla cefalea, al delirio, al coma e alla morte
Febbre, decorso e tipologie ***:
manifestazione morbosa caratterizzata da un’elevazione più o meno consistente della temperatura
corporea con aumento del battito cardiaco, modificazioni del metabolismo e alterazioni della composizione
ematica. La differenza con il colpo di calore (ipertermia) è che non vi è un innalzamento temporaneo
dovuto a fattori esterni, ma una ri‐regolazione dei centri ipotalamici termoregolatori, che stabiliscono un
set‐point più alto. Il decorso prevede 3 periodi: prodromica o di effervescenza (caratterizzato da contrazioni
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tonico‐cloniche muscolari, vasocostrizione, aumento metabolico e contrazione dei muscoli erettori del
pelo), stato o fastigio (caratterizzato da un nuovo equilibrio termico su un set‐point ipotalamico più alto),
defervescenza (caduta della temperatura corporea che può essere graduale [lisi] o repentina [crisi]; i
meccanismi sono gli stessi della normale dispersione termica). Le tipologie di febbre a seconda della
temperatura sono:
‐ febbricola ‐> tra i 37° e i 38°
‐ febbre lieve ‐> tra i 38° e i 38,5°
‐ febbre moderata ‐> tra i 38,5° e i 39°
‐ febbre elevata ‐> tra i 39° e i 39,5°
‐ iperpiressia ‐> dopo i 39,5° fino 42° (pericolo di morte molto prossimo. A 42,5° diversi enzimi si
denaturano e i neuroni vanno incontro a danno irrimediabile)
Le tipologie di febbre a seconda della curva termica sono:
‐ continua: variazioni di temperatura quotidiane non superiori ad 1°
‐ remittente: variazioni di temperatura quotidiane oltre 1° senza mai scendere al di sotto dei 37°
‐ intermittente: variazioni di temperatura quotidiane che vanno da un qualunque stato di febbre alla
totale assenza di questa. Quadri patognomonici sono la terzana (1 giorno di febbre, 1 di normalità,
un altro di febbre) e la quartana (1 giorno di febbre, 2 di normalità, un altro di febbre)
‐ ondulante: variazioni di temperatura graduali che si osservano in diversi giorni, andando dalla
presenza di febbre per qualche giorno, all’assenza per qualche altro e al ri‐presentarsi di altri giorni
di febbre successivamente
‐ ricorrente: variazioni di temperatura brusche per cui la temperatura resta elevata per giorni (4‐5)
per poi cadere bruscamente al di sotto dei 37° per altri giorni e ritornare a valori elevati per altri
giorni ancora
Ormoni ipofisari e patologie correlate ****:
Diabete insipido**:
malattia caratterizzata da poliuria e da diminuita capacità del rene di concentrare le urine
‐ clinica: i sintomi sono poliuria e polidipsia. Il quantitativo di urine emesse può arrivare anche a 10
litri se non trattato farmacologicamente
Si considerano 2 tipologie essenziali: il diabete insipido centrale (o neurogeno) e il diabete insipido
nefrogeno
‐ diabete insipido centrale: può esser dovuto: alla mancata produzione di ADH da parte dell’ipofisi
[sia a causa di deficit congeniti, sia a causa di tumori, sia a cause iatrogene], sia a causa di difetti
congeniti delle neurofisine (proteine che leganogli ormoni neuroipofisari, permettendone la
migrazione lungo gli assoni)
‐ diabete insipido nefrogeno: causato dalla mancata espressione di recettori per l’ADH (V2) o da una
mancata sintesi di acquaporina 2. Nel primo caso, mutazioni a carattere “perdita di funzione”
avvengono sul braccio lungo del cromosoma X e i recettori V2 non vengono sintetizzati. Nel
secondo caso, una mutazione autosomica recessiva per il locus che codifica per l’acquaporina 2,
locato sul braccio lungo del cromosoma 12, impedisce a questa di inserirsi sulla membrana apicale
del dotto collettore, consentendo il riassorbimento dell’acqua
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Le prove che si possono utilizzare sono:
‐ Prova di assetamento. In un soggetto sano comporta un aumento dell'osmolarità. Nel diabete
insipido questa resta <300mOsm/L, mentre l'osmolarità plasmatica è superiore a 295. Non bere per
lungo tempo può provocare una disidratazione ipertonica senza perdita di elettroliti
‐ Test alla desmopressina. Controindicata in caso di insufficienza coronarica per i suoi effetti
vasospastici. Dopo questa somministrazione l'osmolarità urinaria aumenta in caso di diabete
insipido centrale, ma non nel nefrogenico
‐ La determinazione dell'ADH. In caso di polidipsia psicogena sia l'ADH che l'osmolarità urinaria si
elevano. Occorre escludere un tumore ipofisario o ipotalamico mediante tomografia
computerizzata o imaging a risonanza magnetica.
Il trattamento prevede la desmopressina orale o intranasale in caso di diabete insipido centrale
Nanismo Ipofisario:
Ormoni tiroidei****: (iodio presente anche nelle salivari)
Assimilazione dello iodio, conversione ormonale, sequenza di controllo e funzione metabolica:
Assimilazione
lo iodio si trova prevalentemente nei cibi correlati con il mare come il pesce e alcuni tipi di alghe. Le
verdure possono contenere un discreto quantitativo di iodio soltanto se sono state coltivate in terreni ricchi
di questo minerale. Artificialmente viene inserito come supplemento nel sale da cucina, in modo da
prevenirne la carenza anche per persone che abitano nell’entroterra e difficilmente hanno a disposizione
prodotti marini. Viene assimilato solo come ioduro, quindi nel caso in cui fosse assimilato dello iodio
molecolare dovrebbe prima essere ridotto a ioduro e poi assimilato
Conversione ormonale
Il processo di biosintesi prevede:
‐ Captazione attiva di ioduro: la tiroide capta lo ioduro circolante tramite un processo attivo che
richiede energia (ATP dipendete), realizzato dalla proteina NIS (Sodium Iodide Symporter). La
proteina NIS trasporta all'interno della cellula ioni sodio (Na+) e iodio (I‐) in proporzione 2:1.
Questo trasporto di ioduro è inibito da ioni come il perclorato, il tiocianato. Una volta dentro la
cellula, lo ioduro si diffonde verso il lato apicale fino al lume del follicolo tiroideo, trasportato
attraverso la membrana apicale dalla proteina pendrina (PDS)
‐ Ossidazione dello ioduro nel lume follicolare: lo iodio viene trasformato da iodio atomico a ione
iodinio ad opera della tireoperossidasi (TPO) e funziona in sinergia con l’enzima DUOX che fornisce
l’acqua ossigenata necessaria per la iodurazione della Tireoglobulina sui suoi residui di tirosina
‐ Iodazione dei residui di tirosina della Tireoglobulina: avviene su uno o due posizioni “orto” dei 2
residui di tirosina disponibili alla reazione, inclusi nella Tireoglobulina. A seconda del fatto che sia
stato iodurato un residuo o due, si formano rispettivamente MIT (mono‐iodo‐tirosina) o DIT (di‐
iodo‐tirosina)
‐ Accoppiamento di due iodotirosine:a seconda del fatto che si accoppino una MIT e una DIT o due
DIT, possiamo avere la produzione rispettivamente di T3 (tri‐iodo‐tironina) o T4 (tetra‐iodo‐tironina
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o tiroxina). La produzione di questi enzimi è mediata dagli stessi enzimi che mediano le iodurazioni
dei residui di tirosina, ossia TPO e DUOX
‐ Liberazione degli ormoni:dal follicolo la Tireoglobulina contenente T3 o T4 viene riassimilata nel
tireocita tramite vescicole endocitotiche; gli ormoni vengono quindi liberati dalla matrice proteica
grazie all’intervento di enzimi lisosomiali che digeriscono la proteina (il tutto nel fagolisosoma)
senza toccare l’ormone
La forma ormonale più attiva è la T3 ma l’ormone prevalentemente prodotto è la T4. La T3 può essere
ottenuta tramite iodotironina deiodinasi (D1, D2, D3), che rimuovono uno iodio dall’anello esterno della T4,
trasformandola in T3. L’isoforma D3 svolge un ruolo particolare, in quanto forma una T3 deiodurata
sull’anello interno; questa sembra avere funzione regolatoria sulla secrezione di T3 normale. Il trasporto
sanguigno è principalmente ad opera della TBG (thyroxine binding globuline), il resto è pertinenza
dell’albumina
Sequenza di controllo
Il TRH (thyrotropin releasing hormone) ipotalamico controlla la secrezione di TSH (thyroid stimulating
hormone) ipofisario; il TRH è a sua volta regolato negativamente dall’aumento di T3 nel sangue. Il TSH è
costituito da 2 subunità: alfa [stimola l’adenilato‐ciclasi] e beta [responsabile del legame]; interagisce con il
suo recettore TSHR sulle cellule tiroidee eil TSHR è accoppiato a proteine G (Gs; Gq). Il TSH stimola anche
l’aumento di produzione di NIS. Gs stimola la via del cAMP, portando alla trascrizione di geni codificanti per
la TPO. Gq stimola la PLC a idrolizzare PIP2 formando IP3 e DAG, che stimolano a loro volta la PKC e la
liberazione di Ca++; tutte queste operazioni cooperano nella formazione di DUOX. Le attività di Gs e Gq
terminano con un aumento della produzione di T3 e T4. __ fattori di trascrizione specifici della tiroide:
NKX2‐1, FOXE1, PAX8 __
Funzione metabolica
‐ Meccanismi genomici: il T3 viene trasportatonelle cellule grazie alle proteine Oatp2, Oatp3, MCT8 e
MCT10. Il recettore dell’ormone tiroideo si trova già fissato sul DNA nucleare, costituito da TR e
RXR, e la sua attività è repressa da CoR, un Complesso di Repressione. Quando T3 entra nella
cellula, induce la formazione di CoA, un Complesso di Attivazione, che spiazza CoR e consente
l’attivazione della trascrizione. Le proteine di cui si induce la trascrizione sono prevalentemente
quelle implicate nel metabolismo energetico, nella detossificazione epatica, nel catabolismo
amminoacidico. Induce anche l’aumento della sintesi di proteine per le pompe sodio‐potassio,
aumentando il consumo di ATP e quindi la termogenesi. Può indurre la termogenesi anche
aumentando la sintesi di proteine disaccoppianti quali UCP‐1 mitocondriale. Induce anche la sintesi
di proteine cardiache, utili per aumentare la forza e la frequenza della contrazione come i recettori
beta‐adrenergici; stimola la sintesi delle catene pesanti della miosina, aumentando l’efficienza
contrattile
‐ Meccanismi non genomici: il T3 può legarsi ad una subunità della pompa Na/K ATPasi dipendente e
stimolarne l’attività dall’esterno della membrana
Ipotiroidismo e malattie da ipotiroidismo *****:
funzionamento inefficiente della tiroide, che non produce sufficienti quantità di ormoni tiroidei. Le cause
possono essere diverse, ma essenzialmente distinguiamo in:
‐ Cause primarie: agenesia o ipogenesia tiroidea, mutazioni inattivanti il recettore TSH
‐ Cause secondarie: mancato apporto nutrizionale di iodio, cause autoimmuni, cause iatrogene
(terapie con radiazioni)
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Gli effetti più visibili dell’ipotiroidismo clinicamente evidenti: l’imbibizione edematosa della cute [causata
dal ridotto catabolismo proteico che aumenta la pressione oncotica], sia in distretti “generici” che sulla
faccia (facies mixedematosa); la perdita di capelli; la pigmentazione giallastra della cute [causata dal beta‐
carotene che si accumula nel fegato e nella cute a causa della mancata conversione a vitamina A (incolore)];
bradicardia; ipotermia; il gozzo può essere presente. Le principali patologie legate alla condizione sono: la
tiroidite di Hashimoto
Tiroidite di Hashimoto *****:
malattia cronica della tiroide di natura infiammatoria, che ne diminuisce la funzionalità fino a provocare
ipotiroidismo.Tra le più comuni e frequenti patologie della tiroide, la tiroidite di Hashimoto ha origini
autoimmuni ed è dovuta all’aggressione cellule tiroidee principalmente a carico dei linfociti Thelper, che
legano il recettore Fas espresso dai tireociti, inducendo apoptosi di questi e dispersione della colloide
follicolare all’interno della matrice tiroidea. In questo modo si formano autoanticorpi circolanti, anti‐
tireoperossidasi (anti‐TPO) e anti‐tireoglobulina (anti‐TG) (i principali protagonisti sono i linfociti T, che
predominano sui B).In un primo momento, le manifestazioni sono molto lievi e comprendono sintomi
erroneamente attribuibili all'invecchiamento. Mano a mano che la malattia progredisce i sintomi si fanno
più severi. Dopo poco tempo, la tiroide va incontro a fenomeni fibrotici, diventando ipofunzionante; l’ipofisi
avverte la carenza ormonale e secerne più TSH per stimolare la tiroide. L’eccesso di TSH produce un effetto
“proliferativo” sulla tiroide, che aumenta di volume generando il gozzo
‐ epidemiologia: colpisce spesso tra i 45 ed i 65 anni
‐ clinica: la sindrome è caratterizzata da astenia, bradicardia, diminuita sudorazione, dolori
muscolari, pelle secca, sensazione di freddo; il gozzo può essere presente o meno
Ipertiroidismo e malattie da ipertiroidismo **:
funzionamento eccessivo della ghiandola tiroide, che rilascia troppo ormone. Le cause possono essere di
varia natura, ma distinguiamo:
‐ Cause primarie: inappropriata secrezione di TSH causata da anomalie genetiche
‐ Cause secondarie: tra cui autoimmuni, tumori producenti fattori TSH simili, cause farmacologiche
Gli effetti clinici più evidenti sono: aumento dell’attività metabolica; ipertermia; tachicardia; gozzo con
esoftalmo. Le principali patologie legate alla condizione sono: il morbo di Basedow‐Graves, l’adenoma di
Plummer
Graves‐Basedow **********:
malattia causata dalla formazione di anticorpi anti‐TSHR (recettore della tirotropina). Si suppone che possa
avere anche fattori genetici come HLA‐DR3 e HLA‐B8. Genericamente si considera la malattia come
secondaria ad un fattore scatenante, come fumo, radiazioni ionizzanti, farmaci ed altro. Questi fattori
scatenanti provocherebbero la rottura di alcune cellule della tiroide, esponendo al sistema immunitario
alcuni antigeni non usualmente visualizzabili e causando la risposta autoimmune (i principali protagonisti
sono i linfociti B, che predominano sui T). Questi anticorpi stimolano cronicamente la sintesi di ormoni e il
loro rilascio, con formazione di gozzo diffuso
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‐ epidemiologia: comprende circa il 70% di tutti gli ipertiroidismi, specie in età compresa tra 40 e 60
anni
‐ clinica: i sintomi più tipici sono il gozzo, l’esoftalmo (provocato dal fatto che gli antigeni tiroidei
raggiungono l’orbita tramite i linfatici cervicali e al livello dei muscoli orbitali determinano reazione
flogistica con formazione di edema, aumento delle dimensioni di questi muscoli e “protrusione” dei
bulbi oculari). L’ipertiroidismo induce altri sintomi correlabili alla necessità di scarico dell’energia
prodotta dall’accentuazione dei processi ossidativi: ipertermia, vasodilatazione, sudorazione,
tachicardia, tachipnea
Adenoma di Plummer:
la tiroide forma noduli adenomatosi che rilasciano autonomanente (senza stimolazione ormonale) ormoni
tiroidei in eccesso. La mutazione coinvolge il recettore TSHR che resta iperattivato dopo stimolazione,
causando l’aumento produttivo. L’adenoma può sia andare incontro a regressioni ed emorragie, sia essere
il punto d’insorgenza di tumori maligni
‐ clinica: i pazienti presentano un gozzo asimmetrico, tachicardia e aritmia; a volte sono presenti
anche i sintomi oculari
Ormoni calciotropici
Calcemia:la concentrazione di calcio sierico si aggira intorno ai 8,5‐10,5 mg/dl; è preposto al controllare
principalmente le vie di segnalazione cellulari, fungendo da secondo messaggero. Il turnover giornaliero di
Ca++ è circa di 250 mg
Paratormone ***:
secreto dalle paratiroidi Il paratormone (o ormone paratiroideo o PTH) è un polipeptide a catena singola. La
sua funzione è quella di aumentare i livelli di calcio ematico. Se ne descrivono:
Recettore per il calcio CaSR: è un recettore paratiroideo che consente di determinare il rilascio del
paratormone in condizioni di carenza di calcio. Quando il calcio è presente nell’ambiente extracellulare, si
lega ai CaSR e induce l’idrolisi di PIP2, formando IP3 e DAG; queste due molecole liberano molto calcio
intracellulare che inibisce il rilascio di PTH. Quando il calcio non si lega al CaSR, i siti recettoriali liberi
inducono l’inibizione della ritenzione del PTH, che viene liberato nel circolo ematico (per la calcitonina, il
recettore è lo stesso ma con azione opposta)
Recettore ormonale: si identificano 2 tipi di recettore. Il primo riconosce sia il paratormone che le
sequenze amino‐terminali della proteina correlata al paratormone (chiamata anche PTHrP – il principale
mediatore dell’ipercalcemia nelle neoplasie). Il secondo riconosce solo il paratormone. I recettori
determinano l’attivazione della via dell’adenilato ciclasi [stimolata da una proteina G, produce cAMP che
stimola l’attivazione di una fosfo‐chinasi‐A e altri effettori più a valle] e quella della PLC [stimolata da una
proteina G, produce IP3 e DAG partendo dal PIP2; queste molecole attivano la fosfo‐chinasi‐C e inducono il
rilascio di Ca++ intracellulare per la trasduzione del segnale]
Effetti metabolici:
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‐ stimolazione del riassorbimento osseo: avviene nel midollo osseo. Gli osteoblasti che posseggono il
recettore per il paratormone, inducono la secrezione di IL‐1 e IL‐6 e di due fattori, M‐CSF e RANK.
Questi fattori inducono la differenziazione dei precursori di macrofagi e neutrofili in osteoclasti
tramite interazione con recettori specifici CSF1R e RANKL. Gli osteoblasti non sono capaci di
rispondere direttamente al paratormone a causa di questa mancanza recettoriale
‐ stimolazione renale: aumenta il metabolismo del calcidiolo (anche noto come calcifediolo o 25‐
idrossicolecalciferolo) nella forma attiva calcitriolo (o vitamina D3); il riassorbimento del calcio e
l’escrezione di fosfato
‐ stimolazione intestinale: aumenta il riassorbimento del calcio
Fisiopatologia del surrene
Ormoni surrenali e patologie correlate *:
il surrene produce più di un ormone, a seconda di quale zona sia considerata. La corticale del surrene è
composta da 3 zone: glomerulare, fascicolata e reticolare. La midollare del surrene invece non presenta
diversità zonali
‐ Glomerulare: chiamata così perché le cellule si aggregano formando degli sferoidi (glomeruli). In
questa zona si producono i mineralcorticoidi, di cui l’aldosterone è il maggiore rappresentante. La
biosintesi parte dal colesterolo, che viene trasformato enzimaticamente in diverse tappe:
pregnenolone ‐> [tramite idrossilasi]progesterone ‐> [tramite idrossilasi]deossicorticosterone ‐
>[tramite idrossilasi] corticosterone ‐>[tramite idrossilasi] 18‐idrossi‐corticosterone ‐>[tramite
ossidasi] aldosterone. La secrezione dell’ormone tramite vescicole è stimolata dall’angiotensina 2,
dall’iperkalemia, dall’iponatremia, e dall’ACTH in misura molto modesta; il trasporto sanguigno
viene effettuato dalla CBG (corticosteroid Binding Globulin).I recettori sono intracellulari; quelli
specifici per i mineralcorticoidi sono i MR, ma i mineralcorticoidi sono capaci di legarsi anche ai
recettori dei glucocorticoidi GR, date le omologie strutturali (genericamente in condizioni
fisiologiche non c’è competizione tra gli ormoni).Gli effettisono principalmente a carico
dell’omeostasi elettrolitica ed aumentano l’attività di diverse strutture:
1) Canali ionici per il sodio: si trovano sul lato luminale della membrana plasmatica e importano
sodio dal lume tubulare alla cellula
2) Canali ionici per il potassio: si trovano sul lato luminale della membrana plasmatica ed sono
adibiti all’escrezione del potassio dalla cellula al lume tubulare
3) Contro‐trasportatori Na/H: si trovano sul lato luminale della membrana plasmatica e
importano sodio dal lume tubulare alla cellula mentre espellono H+ dalla cellula al lume
tubulare
4) Pompa Na/K ATP dipendente: si trova sul lato basale della membrana plasmatica e, utilizzando
ATP, importano potassio dal lume capillare alla cellula mentre espellono sodio dalla cellula al
lume capillare
L’iposecrezione di aldosterone causa iponatremia, ipovolemia, ipotensione, iperkalemia, acidosi
metabolica. L’ipersecrezione di aldosterone causa ipernatremia, ipervolemia, ipertensione,
ipokalemia, alcalosi metabolica
‐ Fascicolata: chiamata così perché le cellule si aggregano formando dei fasci paralleli. In questa zona
si producono i glucocorticoidi (il cortisolo è il principale rappresentante).La biosintesi: la
stimolazione primaria parte dalCRH ipotalamico, che induce la formazione di POMC (pro‐oppio‐
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melano‐cortina) da cui si forma l’ACTH; questo induce la trasformazione del pregnenolone ‐>17‐
alfa‐idrossi‐pregnenolone ‐>17‐alfa‐idrossi‐progesterone ‐>11‐deossi‐cortisolo ‐>cortisolo. Il rilascio
di cortisolo segue un ritmo pulsatile, risultando massimo intorno alle 8 di mattina e minima dalle 22
alle 4 di mattina. Il cortisolo è trasportato nel sangue dalla CBG (corticosteroid Binding Globulin). La
degradazione avviene in massima parte nel fegato e in minima parte nel surrene; un enzima (11‐
beta‐HSD‐2) trasforma il cortisolo in un chetone, il cortisone (largamente usato in medicina).Gli
effettisono:
1) Antiinfiammatori: derivano dalla capacità del cortisolo di legarsi a sequenze GRE sul DNA,
inducendo la formazione di AP‐1 e NF‐kB, codificanti per molecole antiinfiammatorie (e NF‐kB
inibisce direttamente la risposta infiammatoria
2) Iperglicemizzanti: inducendo la gluconeogenesi e risultando avere un’azione antiinsulinica
(aumentandone però i livelli ematici)
3) Aumento del metabolismo lipidico:stimolano la lipolisi e la lipogenesi solo a carico di
particolari distretti corporei (spalle, nuca, addome)
4) Aumento del catabolismo proteico
5) Inibizione della sintesi degli acidi nucleici
6) Immunosoppressivi
L’ipocortisolismo può essere sia primario da difetti congeniti come la sindrome surreno‐genitale; sia
secondario e portare all’Addison; sia terziario da resistenza ormonale per insufficienza recettoriale.
L’ipercortisolismo, se primario porta alla sindrome di Cushing; se secondario porta al morbo di
Cushing
‐ Reticolare: chiamata così perché le cellule si aggregano formando dei cordoni irregolari a “rete”. In
questa zona si producono gli ormoni sessuali (androgeni ed estradiolo). La biosintesi prevede che il
17‐alfa‐idrossi‐pregnenolone‐>DHEA(deidro‐epi‐androsterone) ‐>androstenedione ‐>[tramite una
riduzione] testosterone ‐>[tramite aromatasi]estradiolo. Dal DHEA si può formare anche DHEA‐S
mediante solforilazione.La secrezione di questi ormoni è regolata dall’ACTH e nel sangue girano
legati a proteine, quali la Te‐BG (testosterone‐estrogen Binding Protein); sono catabolizzati dal
fegato. Nei tessuti periferici, il testosterone è trasformato in di‐idro‐testosterone, che esplica effetti
quali, l’aumento della peluria corporea, l’aumento staturale, l’abbassamento del timbro vocale. Gli
effetti sono prevalentemente maschili, dato che se si manifestano nella donna in condizione
patologica, si può parlare di irsutismo
‐ Midollare: la zona più interna del surrene. In questa zona si producono le catecolamine (adrenalina
e noradrenalina.La biosintesi parte dall’amminoacido tirosina ‐> [tramite tirosina idrossilasi] DOPA ‐
> [tramite dopa‐decarbossilasi] dopamina ‐>[tramite una beta‐idrossilasi] noradrenalina; a questo
punto può essere sia secreta come noradrenalina (20% del prodotto surrenale) sia essere
convertita dalla PNMT (metiltransferasi) in adrenalina (80% del prodotto surrenale). La secrezione
avviene quando stimoli stressanti eccitano i nervi splancnici, liberando acetilcolina; questa va ad
indurre la depolarizzazione nervosa con conseguente fosforilazione dei microtubuli preposti al
contenimento dei granuli secretori, fusione delle vescicole con la membrana e rilascio delle
molecole contenute al loro interno.I recettori per le catecolamine sono di due tipologie principali:
alfa e beta (con diversi sottogruppi); la noradrenalina è più affine per i recettori alfa, mentre
l’adrenalina per i recettori beta. Quando una catecolamina si trova in sovrabbondanza o in
presenza di agonisti, il numero di recettori espressi si riduce (desensibilizzazione); quando una
catecolamina è mancante o vi è l’assenza di agonisti, il numero dei recettori aumenta
(ipersensibilizzazione). La maggior parte delle catecolamine viene recuperata (90%) subito dopo
l’escrezione e solo il 10% viene degradato. La degradazione avviene tramite 2 enzimi: MAO e
COMT. Classicamente la trasformazione viene iniziata da MAO, ma in alternativa può anche essere
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iniziata da COMT; indipendentemente da quale enzima agisca per primo, il prodotto finale (acido
vanilmandelico) viene escreto nelle urine. Gli effetti sono su:
1) Miocardio e sulla Muscolatura Liscia di diversi organi: aumentano la capacità contrattile ed
aumentano la pressione arteriosa
2) Muscolatura Tracheale: i recettori beta 2 qui inducono sulla muscolatura liscia il rilassamento
3) La secrezione d’Insulina: stimolata dai recettori alfa 2 e inibita dai beta 2
4) Rilascio di Glucagone: tramite i recettori beta
5) Rilascio di GH: tramite i recettori beta
6) Iperglicemia: stimolando glicogenolisi, gluconeogenesi e limitando il consumo glucidico tranne
che nel SNC
7) Lipolisi
8) Termogenesi: attivando la termogenina mitocondriale
9) Stimolazione della produzione di renina: tramite i recettori beta sulle cellule dell’apparato
iuxtaglomerulare
L’ipofunzione midollare sembra non causare problemi al corpo, essendo compensata dal sistema
nervoso neurovegetativo. L’iperfunzione midollare sembra non dare effetti patologici evidenti
Sindrome di Cushing *:
condizione clinica caratterizzata dall'eccesso di ormoni glucocorticoidi nel circolo ematico. La dizione
“sindrome di Cushing” si riferisce alla sindrome clinica, eziologicamente indipendente dalla stimolazione
adenoipofisaria. “Morbo di Cushing” invece indica un’ipersecrezione di ACTH dall’adenoipofisi (ormone che
agisce sulla zona fascicolata della corticale del surrene ove stimola la produzione degli ormoni
glucocorticoidi ‐ il cortisolo). Sulla base del processo patogenetico, distinguiamo forme primarie o
secondarie:
‐ Forme primarie: derivano da patologie insite nel corticosurrene (alterazioni genetiche in genere)
‐ Forme secondarie: derivano da patologie adenoipofisarie con ipersecrezione di ACTH (come ad
esempio gli adenomi o microadenomi secernenti), da patologie ipotalamiche con iperproduzione di
CRH, da tumori non adenoipofisari secernenti ACTH, da somministrazione terapeutica prolungata di
cortisonici
Generalmente, a meno che non si tratti di una causa primaria genetica, l’ipersecrezione di glucocorticoidi si
accompagna ad un’ipersecrezione di androgeni (ma non di mineralcorticoidi che sono invece sotto il
controllo dell’asse renina‐angiotensina) a causa della comune stimolazione della zona fascicolata e
reticolare da parte dell’ACTH
‐ clinica: i sintomi prevedono astenia e facile affaticabilità per aumento del catabolismo proteico,
aumento di peso con obesità specifica a livello di tronco e faccia ("faccia a luna piena") e
spalle/nuca("gobba di bufalo"), osteoporosi, ipertensione, dismenorrea ed irsutismo nella donna,
iperglicemia spesso culminante con diabete mellito tipo 2, problemi psicologici (depressione),
problemi cutanei con aree di atrofia e strie rosso‐violacee tipiche sui fianchi sull'addome (dette
striae rubrae)
La diagnosi si può sia effettuare controllando i vari livelli ormonali sia tramite esami ecografici e quelli
radiologici, TAC, PET, RMN. La terapia chirurgica solitamente prevede l'asportazione chirurgica di uno o di
entrambi i surreni (surrenectomia) se la causa fosse primaria o l'asportazione dei microadenomi dell'ipofisi
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Addison ****:
(chiamato anche morbo di Addison o insufficienza surrenalica cronica) è una forma di insufficienza
corticosurrenale cronica che genera una severa riduzione degli ormoni corticosurrenali. Può essere una
condizione primaria o secondaria:
‐ Primaria: da distruzione del parenchima surrenale per cause autoimmuni, da malattie infettive
(citomegalovirus), da surrenectomia bilaterale, da mancata sintesi genetica di recettori per l’ACTH
‐ Secondaria: da sospensione repentina di terapia con corticosteroidi, riduzione di produzione di
ACTH adenoipofisario, da tumori ipofisari inibenti la produzione di ACTH
Nell’Addison primario tutte le zone del surrene sono coinvolte (glomerulare, fascicolata e reticolare),
mentre in quello secondario viene risparmiata la glomerulare, sottoposta invece al controllo del sistema
renina‐angiotensina. Nel caso di aggressione autoimmune, possono essere in circolo ACA (Anti‐Cortex
Antibodies) diretti verso la 21 idrossilasi, enzima chiave della steroidogenesi
‐ clinica: i sintomi generici sono astenia, anoressia, ipoglicemia, ipersensibilità all’insulina,
ipotensione, acidosi, turbe gastriche, perdita di peli e melanodermia. Parlando specificatamente
delle carenze ormonali, abbiamo:
^ la carenza di aldosterone determina una ridotta capacità di trattenere sodio (quindi anche di
acqua) e di eliminare potassio a livello dei tubuli renali, perciò risultano basse concentrazioni
ematiche di Na e Cl e un'alta concentrazione sierica di K. L'incapacità di concentrare le urine
determina una grave disidratazione, ipertonicità plasmatica, acidosi, ipovolemia e astenia;
l’iperpotassiemia genera problemi cardiaci come asistolia, blocchi A‐V
^ deficit di cortisolo contribuisce all'ipotensione e provoca disturbi metabolici come ridotta
gluconeogenesi, diminuita mobilizzazione e utilizzazione dei grassi, ipoglicemia (che insieme
all'iponatriemia) è responsabile dell'intensa astenia e della perdita di peso che caratterizza i
pazienti addisoniani. La riduzione dei livelli ematici di cortisolo comporta ipersecrezione di ACTH
ipofisario e dei peptidi correlati come beta‐lipotropina, alfa e beta‐MSH, i quali hanno attività
melanocito‐stimolante e producono iperpigmentazione della cute e della mucosa caratteristica del
morbo di Addison. La conseguenza più grave della mancanza di cortisolo è comunque
rappresentata dall'incapacità dei pazienti addisoniani di rispondere adeguatamente ad ogni tipo di
stress fisiologico e patologico, questi soggetti risultano estremamente fragili di fronte ad eventi
morbosi, traumi, interventi chirurgici che sono agevolmente superati da soggetti normali
^ deficit di androgeni determina riduzione della libido e perdita di peli pubici e ascellari
Metabolismo dei lipidi
Trasporto dei grassi esogeni:
colesterolo e trigliceridi di origine alimentare vengono assorbiti dall’enterocita e associati a proteine, in
modo da formare particelle chiamate chilomicroni. Queste particelle, una volta associate con le
apolipoproteine B‐48 e A1, finiscono nel sangue, dove incontrano le HDL da cui ricevono le lipoproteine C2
ed E. A livello dell’endotelio avviene una reazione di idrolisi dei trigliceridi, resa possibile
dall’apolipoproteina C2 che funge da cofattore, da parte delle lipasi lipoproteiche; a questo livello vengono
perse dia la C2 che la A1, generando frammenti residui dei chilomicroni o “remnants”. Questi residui
posseggono però ancora sia la lipoproteina B‐48 che la lipoproteina E; quest’ultima consente la captazione
epatica dei remnants e la loro metabolizzazione
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Trasporto dei grassi endogeni:
nel fegato, remnants, trigliceridi e colesterolo vengono assemblati in lipoproteine e secreti sotto forma di
VLDL. Queste particelle, costituite da (apo)B100, assimilano dalle HDL le apo E e C2. Successivamente
vengono idrolizzati i trigliceridi al livello delle cellule endoteliali, grazie all’azione di C2. Viene quindi persa la
C2 e la densità delle VLDL aumenta, formando le IDL. Queste o vengono internalizzate nelle cellule epatiche
(tramite apo E) o subiscono un’ulteriore perdita di trigliceridi grazie alla lipasi, formando le LDL. Queste
grazie all’azione di apo B100 vengono captate dagli epatociti (o dai fibroblasti o dalle cellule muscolari o
dalle cellule endoteliali) e vengono assimilate, formando colesterolo libero che a sua volta va a regolare:
‐ l’attività della IMGCoA riduttasi, inibendola e reprimendo la sintesi di colesterolo endogeno
‐ l’attività della acil‐CoA‐colesterolo‐aciltrasferasi, attivandola in modo da promuovere la
riesterificazione del colesterolo libero
‐ le LDL, inibendo la sintesi del recettore per le LDL e bloccando la penetrazione epatica di ulteriore
colesterolo
Trasporto inverso del colesterolo dai tessuti periferici al fegato:
le LDL possono trasportare il colesterolo sia al fegato, che dal fegato ai tessuti; in questa seconda
condizione però, se il quantitativo di LDL è eccessivo, si rischia di creare danno all’organismo promuovendo
l’aterosclerosi. Intervengono le HDL che assimilano il colesterolo in eccesso al loro interno;
successivamente questo colesterolo viene esterificato dall’enzima plasmatico Lecitina:colesterolo‐
aciltrasferasi (o LCAT). Successivamente la particella assimila (apo) C dalle VLDL ed (apo) E, e viene
internalizzata negli epatociti mediante i recettori per le LDL (LDLR)
L’edema *******: accumulo di un eccesso di liquido nel compartimento extracellulare; il liquido è di
provenienza plasmatica e a seconda della sua composizione può essere definito infiammatorio (il liquido è
un essudato) e non infiammatorio (il liquido è un trasudato). L'edema può interessare una zona circoscritta,
come per esempio una gamba, oppure può essere generalizzato se si manifesta in tutto l'organismo
(anasarca).La generazione di fluido interstiziale è stabilita dall'equazione di Starling che descrive la
relazione tra la pressione oncotica e la pressione idrostatica, agenti con direzioni opposte lungo le pareti
semi‐permeabili dei capillari. Nell'organismo sano la pressione idrostatica, che tende a determinare la
fuoriuscita di liquidi dai capillari, è pressoché bilanciata dalla pressione colloido‐osmotica, che si esercita in
direzione opposta. Quella minima fuoriuscita di liquidi nello spazio interstiziale viene drenata dai vasi
linfatici, che la reimmettono nel circolo venoso attraverso il dotto toracico che sbocca nella giunzione tra la
vena succlavia e la vena giugulare interna. In linea di massima, quando la pressione idrostatica non è più
bilanciata dalla pressione colloido‐osmotica, si verifica un accumulo di liquidi che quando è presente in
modo ingente, determina l’edema. Le CAUSE DELL’EDEMA NON INFIAMMATORIO possono essere:
‐ ostacolato o impedito ritorno venoso: ciò impedisce o riduce il quantitativo di liquido interstiziale
che, assorbito dai linfatici, può essere rimesso in circolo, causandone accumulo ed edema. I motivi
possono essere fenomeni trombotici, compressione vasale, fibrosi con stenosi vasale,
ingessature/fasciature troppo strette o insufficienza valvolare (parlando di arti inferiori) [esempi:
edema cerebrale vasogenico, edema polmonare, glaucoma]
‐ da ostruzione linfatica: il meccanismo è lo stesso del precedente, solo che
l’ostruzione/impedimento viene prima. Lecause possono essere fibrotiche, microbiche,
neoplastiche, da compressione o iatrogene
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‐ cardiogeno: nel caso in cui il cuore avesse problemi di scompenso, la normale emodinamica
risulterebbe alterata. Se vi fosse una diminuzione di capacità contrattile, il quantitativo di sangue
eiettato diminuirebbe, causando ipertensione, aumento della pressione idrostatica ed edema
‐ nefrosico:può dipendere o da una disfunzione glomerulare che consente una perdita proteica e
quindi una diminuzione della pressione oncotica oppure da un aumento della secrezione di renina,
con aumento del riassorbimento del sodio e aumento della pressione idrostatica
‐ epatico: causato da cirrosi e/o ostruzione delle vene epatiche con ostacolo del circolo sanguigno
(ricorda l’edema da impedito ritorno venoso); altre cause sono la mancata sintesi di proteine
plasmatiche, con crollo della pressione colloidosmotica
‐ da denutrizione: causato da un mancato apporto proteico, con conseguente crollo della pressione
oncotica
‐ da gravidanza: genericamente fisiologico, dato da aumento della ritenzione idrica per garantire il
corretto sviluppo del fegato
‐ iatrogeno: da prolungata terapia con corticosteroidi, provoca ritenzione salina e aumento della
pressione idrostatica
Le CAUSE DELL’EDEMA INFIAMMATORIO sono prettamente quelle legate a condizioni flogistiche.
Diabete mellito
Struttura dell’insulina e funzione**:
ormone peptidico dalle proprietà anaboliche, prodotto dalle cellule beta delle isole di Langerhans
all'interno del pancreas. L’insulina non viene prodotta come tale, bensì in una forma chiamata pre‐
proinsulina, sintetizzata nel reticolo endoplasmatico rugoso delle cellule beta pancreatiche; la pre‐
proinsulina viene privata di un peptide di 23 amminoacidi (peptide leader) ad opera dell’enzima tripsino‐
simile e viene trasformata in proinsulina. Nell’apparato del Golgi la proinsulina si trasforma in insulina
definitiva tramite escissione di un peptide ad opera del proinsulin converting enzyme, il cosiddetto peptide
di coniugazione o peptide C. Dopo il taglio proteolitico le due subunità residue (A e B) rimangono unite per
interazione chimica di 4 cisteine (2 per legame)che si associano mediante due ponti solfuro. La catena A è
di 21 aminoacidi e catena B è di 30 aminoacidi. La sua funzione più nota è quella di regolatore dei livelli di
glucosio ematico riducendo la glicemia mediante l'attivazione di diversi processi metabolici e cellulari. Ha
inoltre un essenziale ruolo nella sintesi proteica assieme ad altri ormoni che sinergicamente partecipano a
tale processo, tra cui l'asse GH/IGF‐1, e il testosterone. L'insulina è il principale ormone responsabile del
fenomeno della lipogenesi, in quanto promuove lo stoccaggio di lipidi all'interno del tessuto adiposo
Peptide C (diabete) *:
il peptide C deriva dal taglio enzimatico dell’insulina ed è costituito da 31 amminoacidi. Espleta alcune
importanti funzioni biologiche, come l’aumento del rilascio di ossido nitrico, interviene nella riparazione
della tonaca muscolare delle arterie, aumenta l’attività delle pompe sodio‐potassio nelle cellule nervose e
migliora la funzionalità renale. Viene metabolizzato a livello renale e può essere dosato anche nelle urine
per verificare il quantitativo di insulina prodotta. Nei pazienti con diabete di tipo 1, i livelli di peptide C nel
sangue e nelle urine sono molto bassi (parallelamente a quelli di insulina); nei pazienti con diabete di tipo 2,
i livelli di peptide C sono spesso normali o superiori alla norma, a causa dell’iperproduzione insulinica come
tentativo compensatorio delle cellule beta pancreatiche di sopperire alla mancata responsività a questo
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ormone. Il test può essere utilizzato anche per controllare la produzione insulinica in un paziente diabetico,
in quanto l’insulina esogena non influisce con i livelli di Peptide C circolanti (e quindi di insulina endogena)
Azione dell’insulina *:
l'insulina si lega alla porzione extracellulare del recettore dell'insulina delle cellule di membrana. L'IR esiste
in due isoforme come risultato di splicing alternativo; il tipo A ed il tipo B. Le due isoforme hanno sottili
differenze nell’affinità di legame con l’insulina e con il fattore di crescita insulino‐simile (IGF). L'elevata
affinità di legame di IGF‐II di tipo A recettore dell'insulina è stata riportata anche in cellule tumorali umane.
Il recettore è costituito da due subunità, una alfa extracellulare ed una beta trans ed intracellulare; la
struttura è così riassumibile: sito di legame con l’insulina extracellulare, regione transmembrana e regione
citosolica costituita da due subunità con residui di tirosina. I recettori rimangono separati fino che il legame
con l’insulina non li fa dimerizzare, alterando la struttura molecolare che porta i due residui di tirosina a
fosforilarsi a vicenda, attivandosi. Diversi substrati vengono reclutati, tra cui le proteine substrato recettore
dell'insulina IRS (1‐4), Shc, Gab‐1, Cbl + APS; questi a loro volta reclutano alcuni fattori proteici contenenti il
dominio SH2. Queste proteine sono le chinasi della famiglia Src, le docking‐protein, le scaffold‐protein e le
proteine adattatrici. Quando questeproteine si fosforilano, da un lato (Shc e Gab‐1) attivano la cascata delle
map chinasi, dall’altro (Cbl + APS) inducono la via dei raft lipidici, da un altro ancora (IRS 1‐4) reclutano
PI3K. Quando Cbl + APS sono fosforilati,Cbl interagisce con la proteina Cbl‐associata (PAC), che può legarsi
alla proteina flotillina dei raft lipidici. Questa interazione consente il reclutamento del CrkII che si lega a PIL‐
GTP C3G, che può catalizzare lo scambio di GTP da PIL al TC10, attivandolo. Dopo l'attivazione, TC10
interagisce in sinergia con altre vie per stimolare il traffico di vescicole GLUT4, il loro aggancio e la loro
fusione con la membrana plasmatica.Quando IRS (1‐4) recluta PI3K in prossimità della membrana
plasmatica, questo catalizza la conversione di Pip2 in Pip3, che attiva a sua volta Pdk1. Pdk1 fosforila la
chinasi Akt che consente il trasferimento di Glut4 sulla membrana plasmatica, consentendo il trasporto del
glucosio nei tessuti insulino‐dipendenti
Funzioni fisiologiche principali dell’insulina:
‐ Aumento di assunzione cellulare di alcune sostanze, più prominente glucosio nel muscolo e del
tessuto adiposo
‐ Aumento della sintesi delle proteine tramite il controllo della captazione di aminoacidi
‐ Aumento della sintesi di glicogeno
‐ Diminuzione gluconeogenesi e glicogenolisi
‐ Aumento della sintesi dei lipidi, tramite conversione del glucosio che viene convertito in trigliceridi
‐ Diminuzione della lipolisi
‐ Diminuzione proteolisi
Diabete Mellito tipo 1**************:
malattia caratterizzata da una carenza grave o assoluta di insulina, risultato della distruzione delle cellule
beta pancreatiche che si verifica in individui geneticamente predisposti. Ne esistono 2 forme: quella
autoimmune e quella idiopatica a patogenesi ignota (molto rara). La rottura della tolleranza immunologica
può essere associata generalmente ad una interazione potenziata del complesso MHC1/antigene insulare,
che può essere dovuta a:
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‐ delezioni che codificano per CTLA‐4 (recettore inibitorio dei co‐recettori B7 1 e 2) che inibisce la
risposta immunitaria
‐ mutazioni di CD28 (recettore attivatore dei co‐recettori B7 1 e 2) che aumenta l’attività
immunitaria
‐ infezioni virali daCoxsackie o Citomegalovirus, che inneschino o fenomeni di “epitope spreading”
(visualizzazione, da parte del sistema immunitario, di antigeni prima nascosti all’interno delle
cellule) o il “mimetismo antigenico” (i virus mimano gli antigeni delle cellule beta pancreatiche,
determinando aggressione anche di queste cellule)
‐ alcune sostanze, come il latte vaccino assunto troppo precocemente (causa verificata dalla
presenza di anticorpi anti‐albumina bovina)
Alla lunga si genera una insulite pancreatica che ha come cause effettrici del processo l’autoaggressione dei
linfociti CD4+ e CD8+, degli anticorpi anti‐insulina o anti cellule beta. Esistono alcuni fattori genici che
possono risultare predisponenti: il possessodelle combinazioni di antigeni DR4‐DQ8 e DR3‐DQ2 si
manifestano nel 90% dei casi di diabete mellito di tipo 1 (gli HLA sono sul cromosoma 6); la mutazione di
CTLA‐4 sul cromosoma 2. Ovviamente il rischio aumenta sempre di più a seconda di quanti fattori di rischio
sono presenti nel codice dell’individuo
‐ epidemiologia: variabile a seconda della popolazione di riferimento, ma in Italia circa 1/10.000 nati
presentano la malattia (la Finlandia ha un’incidenza molto maggiore)
Diabete Mellito tipo 2 ********************:
il diabete di tipo 2 ha una eziologia multifattoriale, in quanto è causato dal concorso di più fattori, sia
genetici che ambientali. I fattori eziologici provocano la malattia attraverso il concorso di due meccanismi
principali: l'alterazione della secrezione di insulina e la ridotta sensibilità dei tessuti bersaglio alla sua azione
(insulino‐resistenza). Il diabete Tipo 2 è preceduto da una fase prediabetica, in cui la resistenza dei tessuti
periferici all'azione dell'insulina è compensata da un aumento della secrezione pancreatica di insulina.
Soltanto quando si aggravano sia i difetti di secrezione insulinica sia l'insulino‐resistenza, si renderebbe
manifesta prima l'iperglicemia post‐prandiale e poi l'iperglicemia a digiuno. Le cause:
‐ la down regulation dei recettori per l’insulina, conseguente a eccessiva presenza ed a livelli elevati
di quest’ultima nel sangue
‐ l'obesità riveste un ruolo di primo piano nello sviluppo della resistenza all'insulina. Il tessuto
adiposo è, infatti, in grado di produrre una serie di sostanze (leptina, TFN‐α, acidi grassi liberi,
adiponectina), che concorrono allo sviluppo della insulino‐resistenza stimolando l’infiammazione
che concorre alla produzione di anticorpi anti‐insulina. Altro ruolo del tessuto adiposo è quello di
produrre alti quantitativi di DAG che, stimolando le fosforilazioni sui residui di serina, mitiga in
negativo la fosforilazione dei residui di tirosina (recettore dell’insulina)
‐ difetti recettoriali, ossia mutazioni del recettore RS e Gab‐1 determinano l’incapacità di rispondere
all’insulina
‐ difetti del canale Glut4 determina insulino‐resistenza poiché il canale alterato non consente un
normale passaggio di glucosio
‐ difetti del canale Glut2 determina mancata secrezione insulinica poiché manca la stimolazione
primaria del glucosio sulla cellula beta pancreatica
Gli effetti dell’insulino‐resistenza sulla trasduzione del segnale:
‐ vi è uno sbilancio tra la cascata delle map chinasi e la via di trasduzione di PI3K. La via delle map
chinasi resta normale, provocando aumento della crescita vasale e del fattore PAI; invece la via del
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PI3K viene silenziata. Normalmente PI3K contrasterebbe l’aumento dei fattori di crescita vasale e di
PAI, ma nell’insulino‐resistenza resta bloccata. Questo porta ad un effetto aterogeno
Si parla comunque di resistenza "relativa" in quanto livelli sovrafisiologici di insulinemia provocano una
normalizzazione della glicemia. La conseguenza più importante è il mancato controllo della glicemia. Nella
patogenesi del progressivo deficit della secrezione insulinica hanno un ruolo determinante la necrosi e
l'apoptosi delle cellule beta, alle quali concorrono la dislipidemia (lipotossicità) e la iperglicemia cronica
(glucotossicità)
‐ epidemiologia: nei paesi industrializzati, il diabete mostra una prevalenza del 20% della
popolazione over 75 anni, ma esistono alcuni genomi particolari (come quelli degli indiani Pima)
che consentono una prevalenza del 50% circa della popolazione
Effetti clinici (diabete):
‐ poliuria: compensatoria, in quanto il paziente urina molta più acqua di una persona normale a
causa del superamento della soglia glucidica riassorbibile dal rene; il risultato è che per eliminare il
glucosio il rene ha bisogno di utilizzare più acqua per riuscire a tenerlo in soluzione ed eliminarlo
‐ polidipsia: secondaria alla poliuria, significa aumento della necessità di assunzione di acqua
‐ polifagia: paradossa
‐ chetoacidosi *: dovuta all’aumentato utilizzo di acidi grassi come fonte energetica (e quindi la
chetogenesi), con formazione di corpi chetonici quali beta‐idrossi‐butirrato, acetoacetato e acetone
Complicanze (diabete)**:
esistono 2 tipologie di complicanze: acute e croniche. Le complicanze acute sono il coma chetoacidosico, e
il coma iperosmolare. Le complicanze a lungo termine sono imputabili all’iperglicemia ed essenzialmente si
esplicano sotto 4 forme: formazione di AGE, attivazione della PKC, attivazione della via dei polioli e
attivazione della via delle esosamine
Complicanze Acute
‐ coma chetoacidosico: complicanza più frequente nel diabete di tipo 1. La ridotta o mancata
presenza dell’insulina, fa sì che il pancreas rilasci glucagone (per mancata inibizione della
secrezione di questo da parte dell’insulina). Il glucagone, oltre a peggiorare l’iperglicemia tramite
mobilizzazione dei depositi di glicogeno epatico e muscolari, promuove anche la lipolisi,
aumentando il numero degli acidi grassi in circolo. Questi vengono trasformati in corpi chetonici
(beta‐idrossi‐butirrato, acetoacetato, acetone) per sopperire alle richieste energetiche
dell’organismo (non più capace di assimilare lo zucchero causa mancata stimolazione dell’insulina).
L’abbassamento del pH conseguente all’accumulo di questi prodotti genera il coma
‐ coma iperosmolare: tipica complicanza dei soggetti anziani con diabete di tipo 2, in condizioni di
caldo più forti del normale (estate). L’iperglicemia di questi soggetti è estremamente aumentata,
da valori di 500 mg/dl anche a 1000 mg/dl. Inizialmente si assiste a poliuria che aggrava la
disidratazione; una volta avvenuta la disidratazione, il rene non riesce più a filtrare efficacemente il
glucosio, che si accumula nel sangue raggiungendo livelli elevati. Il glucosio richiama acqua dai
tessuti, comportando la disidratazione cellulare (nella fattispecie a carico dei neuroni), la
sonnolenza e infine il coma
Complicanze a Lungo Termine
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‐ formazione di AGE**: l’iperglicemia causa la glicazione di diverse molecolequali le proteine,che
formano AGE (Advanced Glycation Endproducts). Le proteine sanguigne si associano a formare
complessi, che possono dare vita a 2 diverse complicanze:microangiopatia, ossia l’inspessimento
dell’intima di microstrutture vascolari, spesso associato con la crescita di altri piccoli, fragili
vasi[Esempi di microangiopatia: retinopatia diabetica, neuropatia diabetica, nefropatia diabetica], e
macroangiopatia, che invece comporta l’accelerazione dei processi aterosclerotici a carico di vasi di
calibro maggiore [Esempi di macroangiopatia: cardiopatie ischemiche, ischemie vascolari,
arteriopatia periferica]. Altre glicazioni avvengono a carico dell’emoglobina e ciò rende possibile
utilizzare il quantitativo di emoglobina nel sangue come diagnostico della gravità del diabete dato
che non risente delle variazioni glicemiche (una volta glicata l’emoglobina, resta glicata), durando
per tutta la vita dell’eritrocita
‐ attivazione della PKC: gli elevati livelli di glucosio fanno sì che aumenti all’interno delle cellule la
formazione di DAG; questo stimola l’attività della protein‐chinasi‐C (PKC), responsabile di diverse
vie di segnalazione intracellulare. In particolar modo, viene stimolata la formazione di: molecole
pro‐angiogenetiche (VEGF), collagene di tipo 4, endotelina‐1 (antagonista di NO) e citochine
proinfiammatorie
‐ attivazione della via dei polioli: la saturazione dell’esochinasi causata dagli eccessivi livelli di
glucosio intracellulare, attiva l’aldoso reduttasi che trasforma il glucosio in sorbitolo con il
dispendio di NADPH. Ciò comporta: aumentato danno cellulare da stress ossidativo (causato dalla
mancanza di NADPH) e alterazioni osmotiche dovute all’accumulo di sorbitolo, che rimane
imprigionato nelle cellule, richiamando acqua e causandone il rigonfiamento. L’alterazione
osmotica causa la precipitazione di alcune proteine, evento evidente a livello del cristallino dove si
genera cataratta
‐ attivazione della via delle esosamine: sempre l’iperglicemia causa l’attivazione della via delle
esosamine, trasformando il glucosio in glucosio‐6‐P e successivamente in fruttosio‐6‐P; questo
viene utilizzato per glicosilare i gruppi carbossilici COO‐ delle proteine, causando la disfunzionalità
di alcuni fattori proteici, effettori dell’espressione genica
Diabete gestazionale *:
forma di diabete che la donna può acquisire in gravidanza. È relativamente frequente (dall’1 al 14% delle
gravidanze) e generalmente regredisce dopo il parto. Le cause possono essere molteplici, quali disturbi
pancreatici dati da accumuli di sostanze (quali ferro), disturbi pancreatici dati da infezioni con distruzione
diretta delle beta‐cellule (citomegalovirus), forme legate a farmaci o altre sostanze chimiche e forme legate
a variazioni gestionali del metabolismo endocrino. Le donne che contraggono diabete gestazionale hanno
più possibilità (70%) delle altre di contrarre il diabete nella vita, anche post‐regressione della forma
gestazionale
Diabete geni Mody **:
acronimo dall’inglese di Maturity Onset Diabetes of the Young e definisce una forma rara di diabete (1‐2%
dei diabetici), non autoimmune, caratterizzata da una iperglicemia familiare con un’eredità autosomica
dominante. È causata da una mutazione di un punto o di una sequenza di un singolo gene, importanti per lo
sviluppo o la funzionalità della ß‐cellula pancreatica, con conseguente alterazione della secrezione di
insulina. Ha un esordio precoce, in genere prima del 25° anno di età. Spesso, il riscontro di iperglicemia è
del tutto casuale durante un check‐up di routine o per un controllo in seguito a una forte familiarità per
diabete; la familiarità per sospettare di diabete MODY deve essere almeno di 3 generazioni. Può anche
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capitare che persone identificate inizialmente come diabetici di Tipo 2 siano in realtà soggetti con diabete
MODY. Sono state classificate 6 forme di diabete MODY, le due principali (75‐90% dei casi), sono il MODY 2
e il MODY 3. Tutte le forme sono causate da mutazioni di geni localizzati su differenti cromosomi che
vengono espressi tutti nelle cellule beta del pancreas. Questi geni tuttavia vengono espressi anche in altri
tessuti, come fegato e rene; infatti in alcune forme di diabete MODY si possono manifestare anche
alterazioni nella funzione epatica e renale. Le due forme più note:
‐ diabete MODY 2: associato a un difetto dell’enzima glucochinasi (catalizza il trasferimento di un
gruppo fosfato dall'ATP al glucosio, generando glucosio‐6‐fosfato. Questa reazione è la prima tappa
nel metabolismo della glicolisi). Chi è affetto da diabete MODY 2 non è in sovrappeso/obeso e ha
una leggera iperglicemia a digiuno (110‐140 mg/dl), che può essere presente sin dalla nascita, e
normale o ridotta tolleranza al glucosio al carico orale. I soggetti che soffrono di MODY 2 vengono
controllati con la dieta e l’attività fisica e solo raramente necessitano di ipoglicemizzanti orali o
insulina. Le complicanze sono molto rare
‐ diabete MODY 3: la forma più frequente tra i MODY (70%) è associato a un difetto della secrezione
di insulina, sia in risposta al glucosio che all’arginina, dovuta al deficit del fattore HNF‐1‐alfa
(mutazione del fattore nucleare epatocitico alfa 1). Esiste un’alterazione sia a livello delle cellule
pancreatiche beta, sia a livello di quelle alfa, responsabili della produzione del glucagone. La clinica
per diabete MODY 3 considera aspetti come poliuria e polidipsia (oltre l’ovvia iperglicemia).
Essendo più grave, questo diabete ha come complicanze la chetoacidosi, complicanze
microvascolari e necessitare di terapia insulinica. Questa forma viene scambiata per diabete tipo 1
Altre forme:
‐ HNF1‐alfa: diabete MODY 1, causato da mutazione del fattore nucleare epatocitico alfa 4
‐ IPF1: diabete MODY 4, causato da mutazione del fattore 1 promotore insulinico
‐ HNF1‐beta: diabete MODY 5, causato damutazione del fattore nucleare epatocitico beta, associato
a cisti renali
‐ NeuroD1: diabete MODY 6, causato da mutazione del fattore di trascrizione nucleare neuro D1
Aterosclerosi *********************:
letteralmente significa “indurimento dell’arteria” e consiste nella deposizione di grasso all’interno della
struttura arteriosa. Questo grasso genera reazioni patologiche che culminano nella rottura di questa placca
all’interno del sangue, con conseguente attivazione della cascata coagulativa e ostruzione dei vasi, infarto
miocardico, ictus, arteropatie periferiche e ischemia (renale ad esempio). Consta di diverse fasi:
‐ fase 1: le LDL circolanti (che all’interno del sangue sono normalmente protette dall’ossidazione)
penetrano all’interno del vaso dove si ossidano, divenendo OxLDL. Queste LDL ossidate vanno
incontro a diversi destini, a seconda di quanto il livello di ossidazione sia alto; se è un’ossidazione
che non compromette il riconoscimento da parte del recettore delle LDL, questa può essere ancora
processata; al contrario invece, se l’ossidazione è massiccia e compromette il riconoscimento
recettoriale, queste OxLDL verranno riconosciute soltanto dal recettore “scavenger”, presente sui
macrofagi e sulle cellule muscolari lisce. Le cellule endoteliali, sotto stimolo delle OxLDL producono
ICAM‐1 e VCAM‐1, che preludono al richiamo massivo di monociti circolanti e altri leucociti
‐ fase 2: le integrine espresse hanno richiamato un certo numero di monociti dal sangue, che
penetrati all’interno dell’endotelio sono diventati macrofagi. A questo punto, i macrofagi
fagocitano le OxLDL tramite il recettore “scavenger” e tramite il CD36. I macrofagi quindi
digeriscono le OxLDL, generando diversi prodotti secondari; tra questi prodotti è presente anche il
colesterolo che viene successivamente esterificato e accumulato all’interno dei macrofagi sotto
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forma di inclusi lipidici che danno alla cellula un aspetto schiumoso (cellule schiumose). Di norma i
macrofagi hanno dei mezzi per evitare l’accumulo di colesterolo (lo legano alle HDL circolanti e così
lo eliminano dal loro citoplasma), ma in queste condizioni i lipidi sono troppi e, a seconda del
quantitativo considerato, possono dar vita a quadri più o meno gravi. Le cellule muscolari migrate
nell’intima del sottoendotelio cominciano a fagocitare le OxLDL, diventando anch’esse cellule
schiumose; le stesse successivamente producono matrice e tessuto fibroso (fibronectina e
collagene) che si dispongono attorno all’accumulo di OxLDL, trasformando il tutto in una placca
vera e propria. Possiamo avere dei fenomeni di attivazione immunitaria mediata dai macrofagi che
dopo aver processato le OxLDL possono esporre parte delle loro componenti sulla membrana
plasmatica. Quando i linfociti TH1 accorrono sul luogo trovano i macrofagi e, grazie all’interazione
con questi tramite l’MHC2, vengono attivati, producendo IFN‐gamma che attiva ulteriormente i
macrofagi, contribuendo all’infiammazione. I TH1 inoltre possono anche attivare i linfociti B a
secernere anticorpi anti‐OxLDL (questi anticorpi possono essere usati come marcatori di
progressione della lesione, apparendo solo in fasi tarde)
‐ Fase 3: questa fase prevede la rottura della placca o per cause emodinamiche o per azione diretta
delle sostanze litiche macrofagiche. Qualunque sia il motivo, le OxLDL assieme a parte della capsula
fibrosa, frammenti di leucociti e altri elementi cellulari si trovano esposti direttamente al flusso
sanguigno. Essendo questo materiale altamente trombotico, le piastrine vengono attivate e si
aggregano sul materiale estruso, formando un trombo che può occludere in poco tempo il lume
vasale. A seconda dello spessore, la capsula può essere può essere più o meno predisposta alla
rottura; più spessa è, minore è la possibilità di rottura. Esiste anche la possibilità che l’ostruzione
proceda senza rotture e con una certa progressività, consentendo la formazione di circoli di
compenso collaterali
Fisiopatologia dell’emostasi
Emostasi *****:
l'emostasi normale è l'effetto di alcuni processi che svolgono due importanti funzioni: mantenere il sangue
in uno stato fluido nei vasi normali ed indurre un tappo emostatico in modo rapido e ben localizzato presso
la sede del danno al vaso. Questo tappo emostatico rappresenta una formazione transitoria, necessaria per
permettere ai meccanismi di riparazione delle ferite di riparare la lesione. Il modello prevede: il danno
endoteliale, l'emostasi primaria, l'emostasi secondaria, la retrazione del coagulo e la fibrinolisi. Il secondo
modello condensa i primi tre passaggi sotto la voce: formazione di fibrina (danno endoteliale, emostasi
primaria ed emostasi secondaria). Di seguito i passaggi sono scanditi in maniera tale da salvaguardare
entrambe le suddivisioni:
‐ Danno endoteliale: provoca il rilascio da parte delle cellule dello stesso tessuto di alcuni fattori
chiamati endoteline, potenti vasocostrittori che agiscono nelle arteriole a livello della lesione, in
modo tale da contrastare l'eventuale perdita di sangue. La vasocostrizione così ottenuta,
coadiuvata da un'ulteriore vasocostrizione di origine nervosa è però solo temporanea
‐ Emostasi primaria: le cellule endoteliali, a causa della lesione, secernono il fattore di von
Willebrand (vWF), una proteina che si dispone presso la lesione, permettendo l'adesione piastrinica
mediante l'interazione tra le piastrine e la matrice extracellulare esposta, che è trombogenica. Le
piastrine infatti vi si legano tramite la glicoproteina Ib (GpIb) e a sua volta il fattore di von
Willebrand si associa al collagene della matrice extracellulare. Entro qualche minuto le piastrine
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iniziano ad aderire al fattore di von Willebrand e cambiano forma, da discoidale a piatta,
aumentando la loro superficie grazie alla stimolazione da parte di ADP. Rilasciano inoltre i loro
granuli secretori contenenti prevalentemente ADP e trombossano A2. Queste sostanze fungono da
chemochine per altre piastrine che si accumulano presso la lesione apponendosi sulle altre già
presenti e formando il tappo emostatico
‐ Emostasi secondaria: fase che prevede la stabilizzazione dell’aggregato piastrinico. Questa
stabilizzazione viene ottenuta tramite apposizione di diversi filamenti di fibrina al di sopra del tappo
piastrinico. Affinché ciò avvenga, esistono 2 possibili vie: via estrinseca e via intrinseca, di cui quella
estrinseca è più rapida
‐ Retrazione del coagulo: caratterizzata dalla cessione di acqua da parte del polimero di fibrina con il
conseguente accorciamento dello stesso. Questa fase richiede un dispendio di energia sotto forma
di ATP che viene prodotta dalle piastrine stesse ed è denominata metamorfosi viscosa
‐ Fibrinolisi: operata dal sistema della plasmina, ovvero la forma attiva del plasminogeno. Questo
fattore anticoagulante viene attivato dalla trombina, la stessa che attiva proprio la fibrina. Il
significato di questo accoppiamento di reazioni ad effetto biologico opposto è quello di garantire ad
una rapida formazione di un trombo, un altrettanto rapida eliminazione. Sono fattori che aiutano la
formazione di plasmina il tPA e l'uPA, mentre è inibitore di questi ultimi (ed è quindi un inibitore
della plasmina) il Plasminogen activator inhibitor (PAI).Hanno un ruolo nella fibrinolisi anche
l'antitrombina III, l'ossido d'azoto (NO) e la trombomodulina
Patologie dell’emostasi *****:
PIASTRINOPATIE / PIASTRINOPENIE
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Bernard‐Soulier: (piastrinopatia)
malattia dovuta a una mutazione del DNA, riguardante principalmente tre geni: GP1BA, GP1BB e GP9,
codificanti per un complesso di membrana, Gp1B‐Gp5‐Gp9, recettore per il fattore di von Willebrand. La
mutazione causa un deficit quantitativo o qualitativo del complesso glicoproteico in questione. Ciò
determina un'alterazione funzionale piastrinica, con deficit di adesione‐aggregazione. Si trasmette con
modalità autosomica recessiva. I sono coinvolti il cromosoma 17 sul braccio corto, mentre i cromosomi 22 e
3 sul braccio lungo
‐ epidemiologia: molto rara in forma omozigote ‐ 1/1.000.000 nati, mentre si suppone che la forma
eterozigote abbia un'incidenza di 1/500 individui
‐ clinica: le emorragie, possono manifestarsi anche in seguito a piccoli traumi successivi. Il tempo di
emorragia è allungato
Tale sindrome può essere prevenuta evitando l'acido acetilsalicilico, antinfiammatori o comunque farmaci
che portano come effetto collaterale le emorragie. Si riserva la trasfusione di piastrine in caso d'intervento
chirurgico o di complicanza emorragica più importante
Wiskott‐Aldrich: (piastrinopenia da alterata maturazione)
malattia ereditaria dovuta a mutazioni del gene was che codifica per una proteina del citoscheletro nelle
cellule prodotte dal midollo emopoietico, detta WASP. La trasmissione è recessiva X‐linked. WASP è una
proteina che consente di legare CDC42, svolgendo un ruolo fondamentale nell'organizzazione dell'actina nel
citoscheletro (anche in ambito immunitario) e di legare domini SH3, svolgendo un ruolo fondamentale nella
trasduzione del segnale e maturazione. Diagnosticamente le piastrine sono piccole (micropiastrine)
‐ epidemiologia: la sua incidenza è 1/250.000 maschi nati vivi
‐ clinica: presenta eczema, piastrinopenia con ridotta risposta alla coagulazione ecompromissione
immunitaria con sensibilità spiccata alle infezioni (diagnosticamente presenta numero normale di
immunoglobuline che però rispondono male alla chemiotassi e presentano scarsa immunità cellulo‐
mediata). L’aspettativa di vita non è alta
Solo il trapianto di midollo osseo può portare a una risoluzione definitiva
Piastrinopenie da aumentata distruzione: possono essere provocate da farmaci, da fattori autoimmuni, da
cause tossiche, da infezioni
DEFICIENZE GENETICHE DELLA SINTESI DELLE PROTEINE COAGULATIVE: Emofilia A e B
Emofilia A:
patologia dovuta alla deficienza del fattore 8 della coagulazione; la mutazione può essere dovuta
principalmente o a delezione o ad una mutazione puntiforme che codifica per un codone di STOP precoce,
che porta a perdita della funzione della proteina (fattore 8). Gli amminoacidi più sostituiti sono l’Arg372 e
l’Arg1689. Il gene è contenuto sul braccio lungo del cromosoma X, in posizione telomerica; la malattiaha
carattere X‐linked recessiva
‐ epidemiologia: 1/10.000 nati
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Emofilia B:
causata dall'assenza o dalla scarsa attività del fattore 9 della coagulazione. La mutazione è situata sul
cromosoma X in una posizione più vicina al centromero (ma sempre telomerica) rispetto al gene che
codifica il fattore 8. La trasmissione è sempre a carattere X‐linked recessivo. Più del 95% delle mutazioni
riguardano singoli nucleotidi o piccole delezioni/sostituzioni distribuite lungo tutto il gene
‐ epidemiologia: meno riscontrata della forma A, colpisce 1/30.000 nati
Clinica dell’emofilie (A e B):genericamente, data la sua modalità di trasmissione, i pazienti sono quasi tutti
uomini; le rare donne emofiliache presentano la patologia a causa di un’errata Lyonizzazione. I deficit della
coagulazione che possono variare come grado di gravità. Quando l’attività di un fattore della coagulazione è
quasi inesistente (1%), può esitare in emorragie spontanee. Se vi è un’attività scarsa, lesioni minime
possono condurre a perdite ingenti di sangue; se l’attività è moderata, sono necessarie lesioni maggiori
(come l’estrazione di un dente) per generare un’emorragia reale. Diagnosticamente possono essere
reperite emorragie articolari, o perdite di sangue spontanee e ingenti dal naso o a seguito di un prelievo o
in urine/feci. Il trattamento si basa sulla terapia sostitutiva utilizzando derivati plasmatici o proteine
ricombinanti. Il trattamento può essere somministrato dopo un episodio emorragico o per prevenire il
sanguinamento (come trattamento profilattico). La complicazione più frequente è la produzione di
anticorpi inibitori contro il fattore della coagulazione somministrato. Da ricordare che la via estrinseca della
coagulazione in entrambe le forme di emofilia rimane invariata
Sindrome di Leiden:
Il fattore 5 di Leiden è una variante della proteina “fattore 5” umana, implicata nella cascata coagulativa. Il
gene che codifica per la proteina è F5 e l'alterazione consiste in una mutazione puntiforme “missenso” che
cambia un amminoacido da arginina a glutammina. Il fattore 5 normalmente svolgerebbe la sua azione
come cofattore del fattore 10 per attivare l'enzima protrombina (fattore 2) a trombina. Il suo effetto pro‐
coagulante è normalmente inibito dalla Proteina C attivata (PCa, un anticoagulante naturale) che limita
l'estensione del coagulo attraverso il taglio del fattore V attivato, rendendolo inattivo. Questo polimorfismo
comporta impedisce il taglio da parte della Proteina C attivata rendendo il fattore 5 mutato resistente
all'azione della proteina C attivata, predisponendo alla trombosi. Il fattore V di Leiden è una variante
genetica a carattere autosomico dominante, si esprime con dominanza incompleta e porta ad un fattore V
che non può essere facilmente degradato dalla proteina C attivata
‐ epidemiologia: si stima che circa il 3% della popolazione mondiale abbia il fattore V di Leiden
‐ clinica: l'eccesso di coagulazione provocato da questa alterazione è quasi totalmente ristretto alle
vene, dove si può manifestare con una trombosi venosa profonda. Il trombo venoso, se si
frammenta, può embolizzare: i frammenti del coagulo possono, cioè, viaggiare nel sangue fino alla
parte destra del cuore ed arrivare ai polmoni, dove possono incunearsi nei vasi polmonari e causare
un'embolia polmonare
La diagnosi prevede l’uso di test di screening con veleno di serpente o con il test dell'PTT. In entrambi
questi metodi, il tempo necessario per formare il coagulo è ridotto. Si può misurare un rapporto della
capacità della proteina C attivata di inattivare il fattore V col confronto di un test con l'aggiunta di proteina
C attivata e un altro senza. È disponibile anche un test genetico per rilevare questa variazione. La terapia
prevede l’eliminazione di eventuali fattori di rischio, quali l'uso di contraccettivi orali e fumo
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Trombosi ***:
patologia generata da un’attivazione intravasale inopportuna della cascata coagulativa. Il trombo formatosi
è una struttura semisolida costituito anatomicamente da 3 parti:
‐ una testa connessa direttamente con il motivo di formazione del trombo (genericamente adeso
all’endotelio). Risulta costituita da piastrine e fibrina [trombo bianco]
‐ un corpo che si estende in misura variabile nel lume ematico seguendo il vettore del flusso ematico.
Risulta variegato [trombo variegato], ma costituito prevalentemente da globuli rossi nelle vene e da
piastrine nelle arterie
‐ una coda che si estende a lungo nel lume vasale seguendo il vettore del flusso ematico. La
lunghezza della coda dipende da diversi fattori, come anche la sua composizione. Nelle arterie la
coda va più facilmente incontro a rottura a causa della velocità del flusso, mentre nelle vene può
arrivare a raggiungere dimensioni notevoli (anche dalla vena renale all’atrio destro) e risulta
costituita da fibrina e globuli rossi prevalentemente [trombo rosso]
Il trombo si sviluppa per diverse cause patologiche, seguendo le direttive della triade di Virchow: alterazioni
dell’endotelio vasale, alterazione dell’emostasi, alterazioni emodinamiche
‐ alterazioni dell’endotelio vasale: possono dipendere da vari fattori, quali: cause infettive (i batteri
gram‐negativi liberano una sostanza chiamata endotossina che è capace di danneggiare gli
endoteli, soprattutto quelli al livello della microcircolazione; su questi complessi
danno/endotossine si possono aggregare, piastrine, anticorpi, complemento e anche macrofagi,
contribuendo al danno che inizia l’evento trombotico), cause meccaniche (prevalentemente date
da interventi chirurgici con cateteri), cause tossiche (danno indotto da farmaci, Sali biliari, mezzi di
contrasto radiologico), cause immunologiche (danno indotto da anticorpi specifici,
immunocomplessi o linfociti citotossici ma non legato ad una causa infettiva)
‐ alterazione dell’emostasi: in ogni caso di alterazione dell’emostasi la probabilità di andare incontro
a fenomeni trombotici cresce. Possiamo schematizzare tre principali categorie: aumentata attività
dei fattori dell’emostasi, deficiente controllo dell’attivazione dell’emostasi, deficiente attività
fibrinolitica. Tra l’aumentata attività dei fattori dell’emostasile alterazioni più probabili sono a
carico delle piastrine (malattie mieloproliferative in primo luogo) o causate da condizioni che
stimolino una maggiore attivazione della cascata coagulativa (interventi chirurgici, necrosi, tumori)
[aumento della tromboplastina tissutale]. Undeficiente controllo dell’attivazione dell’emostasi si
verifica specialmente in condizioni di deficienza genetica di alcuni fattori quali l’antitrombina 3,
proteina C o altre serinoproteasi. Una deficiente attività fibrinolitica si manifesta in condizioni di
deficienza di plasmina, che può essere assoluta (deficienza di attivatori del plasminogeno) o
funzionale (abnorme attivazione degli inibitori della plasmina)
‐ alterazioni emodinamiche: normalmente il sangue fluisce all’interno del vaso su un modello
schematico che rimanda allo scorrimento di un fluido in un tubo cilindrico ideale, ossia presenta 2
diverse velocità, quella laminare e quella centrale; la velocità laminare è minore a causa dell’attrito
sul “tubo”, mentre la centrale risulta più alta. Facendo un parallelismo con il vaso sanguigno
troviamo che al centro del flusso si dispongono i globuli rossi (a causa della maggiore dimensione e
densità), mentre alla periferia troviamo le piastrine (che però non impattano con la parete vasale
grazie alle repulsioni elettrostatiche tra piastrine ed endotelio). Più la velocità del flusso è alta più
viene rispettata tale disposizione. In condizioni di alterazione del flusso (aneurismi, irregolarità
della parete, zone di flusso turbolento, di flusso troppo rallentato o di stasi) le piastrine possono
aggregarsi più facilmente, favorendo la crescita di trombi
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Il trombo presenta diverse fasi evolutive. La prima consiste nella formazione della testa del trombo su un
punto danneggiato dell’endotelio vasale (le cause sono trattate nella triade di Virchow); il danno espone
una superficie trombotica che libera ADP, espone componenti quali membrana basale e/o il collagene
sottostante e inibisce la sintesi della prostaciclina e dell’NO. In queste condizioni le piastrine si possono
aggregare e innescare risposte con liberazione di ADP, Ca++, serotonina, prostaglandine che favoriscono la
formazione del nucleo del trombo primitivo chiamato anche “trombo bianco”. Il trombo viene stabilizzato
dalla fibrina che si depone sopra (rimanendo trombo bianco), fino a che il reticolo di fibrina non
progredisce, formando il corpo e la coda. La fibrina intrappola i globuli rossi e quelli bianchi, andando a
costituire le “porzioni rosse” [trombo rosso], alternandole a porzioni dove piastrine e fibrina sono
predominanti, generando altre porzioni “bianche” [trombo bianco]. Data l’alternanza delle porzioni rosse‐
bianche, si parlerà di “trombo variegato”. In questa condizione, se si parla di trombosi venosa, le piastrine
ma sopratutto il fibrinogeno verranno utilizzati per formare il trombo, facendo precipitare i loro livelli di
sopravvivenza ematica (permangono nel flusso sanguigno per molto meno a causa della loro utilizzazione ‐‐
‐ nelle arterie si aggregano con molta più difficoltà). L’evento finale presenta 3 diverse possibilità: la lisi del
trombo [mediata da macrofagi e neutrofili attratti dagli stimoli chemiotattici liberati sia dalle piastrine
aggregate (fattore piastrinico 4) sia dai fibrinopeptidi lisati] con ricanalizzazione e ripristino del flusso,
l’occlusione definitiva [genericamente data dal distacco del trombo con successiva ostruzione improvvisa
del vaso e successive ischemie/infarti se si parla di un trombo arterioso; il trombo venoso è genericamente
meno grave grazie alle anastomosi che consentono comunque il deflusso sanguigno] o l’occlusione con
neoangiogenesi [il trombo può accrescersi lentamente dando il tempo a vasi collaterali di formarsi,
generando dei circoli di compenso che sopperiscano alla mancanza della prima arteria/vena, ormai occlusa]
Claudicatio Intermittens:
nella sindrome ischemica cronica dovuta alle arteriopatie periferiche, si riscontrano 4 fasi di sviluppo
patologico (classificazione di Fontaine) a carico delle arterie degli arti inferiori. La Claudicatio Intermittens è
il 2° stadio. Gli stadi sono:
‐ stadio 1: o subclinico, abbiamo sintomi vaghi, con senso di peso, freddo ed affaticamento delle
estremità
‐ stadio 2: o Claudicatio Intermittens, costringe il paziente che sta facendo un’attività muscolare
prolungata o faticosa a interrompere lo sforzo e riposare, a causa di dolori crampiformi
(genericamente al polpaccio)
‐ stadio 3: i dolori crampiformi sono presenti anche a riposo
‐ stadio 4: dolori continui e necrosi tissutale delle porzioni più distali dell’arto inferiore
Fisiopatologia del fegato e delle vie biliari
Ittero ***************:
la parola ittero indica la presenza di bilirubina in eccesso nel sangue. Quando questa arriva alla
concentrazione di 1,5 – 2,5 mg/100 ml di sangue, provoca una colorazione giallastra delle sclere [condizione
nota come subittero]; se la concentrazione è maggiore, ossia 3 ‐ 4 mg/100 ml di sangue, provoca una
colorazione giallastra anche della cute e delle mucose [ittero vero e proprio]. |||EME degradazione: In caso
di emolisi, l'emoglobina liberamente rilasciata nel sangue viene dapprima captata dall'aptoglobina (Hp),
formando il complesso Hb/Hp, che viene endocitato dalle cellule del sistema reticoloendoteliale e la
componente proteica viene degradata ad amminoacidi e il gruppo prostetico viene liberato (EME); l'eme
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libero viene degradato dall'enzima eme ossigenasi, che porta alla formazione di bilirubina. L'emoglobina
dei globuli rossiviene invece degradata nella milza; dall'apertura dell'anello porfirinico si origina prima
biliverdina e ossido di carbonio, con rilascio dell'atomo di ferro centrale; la biliverdina, poi, viene convertita
a bilirubina dall'enzima biliverdina reduttasi||| Si può parlare di ittero pre‐epatico, ittero epatico e ittero
post‐epatico:
‐ Ittero pre‐epatico: dovuto alla distruzione di un ingente numero di globuli rossi (ad esempio nelle
anemie emolitiche). Si assiste ad un aumento di bilirubina libera nel sangue (in contemporanea
presenza di livelli aumentati di bilirubina coniugata “fisiologica”, derivata dalla necessità di un
aumentato smaltimento dei prodotti catabolici derivanti dai globuli rossi lisati). In quest’ittero sia le
feci che le urine appaiono ipercromiche
‐ Ittero epatico: possono essere causati da 3 difetti, ossia mancata captazione epatica della
bilirubina, mancata coniugazione di essa, mancata escrezione della bilirubina coniugata. Se la causa
è la mancata captazione epatica della bilirubina, questa si ritroverà nel sangue in forma libera. Se la
causa è lamancata coniugazione della bilirubina(con l’acido glucuronico), questa si ritroverà nel
sangue in forma libera (a seconda dell’estensione del difetto coniugativo, è possibile anche avere
una parziale coniugazione). Se la causa è la mancata escrezione della bilirubina coniugata, questa si
ritroverà nel sangue in forma coniugata, generando urine ipercromiche. In tutte e tre le forme le
feci sono ipocromiche
‐ Ittero post‐epatico: dovuto ad un ostacolo nel deflusso della bile dalle vie biliari al duodeno.
Genericamente l’ostruzione avviene a livello coledocico e può essere causata da un calcolo, da una
compressione del dotto da parte di una neoplasia pancreatica. L’accumulo di bile induce un
riassorbimento di parte di questa, facendo aumentare nel sangue la bilirubina coniugata. Le urine
saranno ipercromiche “color marsala” e le feci ipocromiche
Esistono anche altre forme di ittero, definite “itteri ereditari”. Tra questi si ricordano:
‐ Sindrome di Gilbert *: vi è una ridotta attività della glicuronosiltransferasi (UGT) [mappato sul
braccio lungo del cromosoma 2], l’enzima che capta la bilirubina, in particolare della isoforma
UGT1A1. L'entità di tale deficit determina la diversa espressione clinica e gravità della malattia. Si
suppone la modalità di trasmissione autosomica recessiva. L’iperbilirubinemia che segue è data da
aumento di bilirubina libera. La captazione è fondamentale per la coniugazione della bilirubina, che
diviene così idrosolubile rendendo possibile l'escrezione biliare. I livelli di bilirubina, generalmente
di poco sopra la norma, possono aumentare momentaneamente in condizioni quali: stress,
infezioni, aumento dell'attività fisica
‐ Sindrome di Crigler‐Najjar ****: vi è una quasi assente o assente attività della
glicuronosiltransferasi (UGT)[mappato sul braccio lungo del cromosoma 2]. L’isoforma enzimatica
coinvolta è sempre UGT1A1, ma in questo caso il deficit è così marcato da costituire una seria
minaccia per la vita dell’individuo. La modalità di trasmissione è autosomica recessiva. Il trapianto
di fegato risulta d’obbligo per la forma 1 (la più grave), mentre la forma 2 grazie alla minima attività
dell’UGT risulta ancora compatibile con la vita e viene trattata con barbiturici, che stimolando
l’ipertrofia del reticolo endoplasmatico dell’eritrocita, sopperiscono alla malattia
Ipertensione portale:
condizione in cui si verifica un aumento di resistenza del flusso ematico all’interno della vena porta, con
conseguente aumento pressorio. |||Anatomia: la vena porta si genera dalla confluenza delle due vene
mesenteriche e della vena splenica. Penetrata nel fegato e dopo essersi divisa in lobi, si continua nei lobuli.
Qui si divide negli spazi portali (in genere 5 o 6) che circondano un sistema labirintico di spazi irregolari in
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cui è contenuta la rete vascolare (sinusoidi epatici). Al centro di questa struttura si trova una vena efferente
chiamata vena centrolobulare, da cuisi raccolgono in maniera mano mano confluente le due vene epatiche,
che emergono dal fegato per andare a confluire nella cava inferiore||| Le cause responsabili di
ipertensione portale possono essere:
‐ Pre‐epatiche: trombosi, stenosi o compressione della vena splenica o della vena porta prima del
suo ingresso nel fegato
‐ Intra‐epatiche: patologie degenerativo‐infiammatorie o tumorali del fegato
‐ Extra‐epatiche: insufficienza cardiaca (destra), stenosi od ostruzione delle vene epatiche (sindrome
di Budd‐Chiari)
In seguito a ipertensione si sviluppano alcuni circoli di compenso, in modo da consentire al sangue di
circolare ugualmente e di raggiungere il cuore. I principali circoli sono: 1) al livello delle vene esofagee
inferiori, tra la vena porta e l’azygos (tributaria della cava superiore); 2) al livello del plesso emorroidario,
tra le mesenteriche inferiori, le pudende interne e le iliache (tributarie della cava inferiore); 3) al livello
delle vene periombelicali (tributarie della porta), delle epigastriche e delle mammarie (tributarie della cava
superiore). Nel 3° caso, si sviluppa un reticolo sulla superficie dell’addome definito “caput medusae”,
patognomonico dell’ipertensione
Ascite***:
si intende la raccolta di liquido nella cavità peritoneale. Genericamente il liquido ha le caratteristiche di un
trasudato, ma può anche avere le caratteristiche di un essudato in seguito a complicanze infettive. Le cause
possono essere extra‐epatiche ed epatiche
‐ Extra‐epatiche: le più frequenti riguardano l’anasarca * (edema massivo e diffuso, sottocutaneo,
non avente origine infiammatoria) avente origine da scompenso cardiocircolatorio o sindrome
nefrosica, e la denutrizione (kawashiorkor)
‐ Epatiche: le più frequenti riguardano la cirrosi epatica, l’ipertensione portale (specie l’occlusione
delle vene sovraepatiche ‐ sindrome di Budd‐Chiari)
(considerando l’ipotesi del trasudato) il liquido fuoriesce dalle vene a causa o dell’eccessivo gradiente
pressorio idrostatico o a causa di una pressione colloidosmotica estremamente diminuita. Quando il liquido
penetra nella cavità peritoneale viene “escluso” dalla circolazione generale, provocando una diminuzione di
pressione che viene percepita dal rene in ambito di “diminuita perfusione renale”. Il rene reagisce
liberando renina e secernendo aldosterone; quando i livelli pressori diventano nuovamente alti, dato che la
causa principale non è stata risolta, il liquido passerà nuovamente nella cavità peritoneale, addizionandosi
al liquido che c’era precedentemente e aggravando l’ascite
Sistema renina‐angiotensina:
Il sistema renina‐angiotensina (SRA) è un meccanismo ormonale che regola la pressione sanguigna, il
volume plasmatico circolante (volemia) e il tono della muscolatura arteriosa attraverso diversi
meccanismi.La renina è prodotta dalle cellule iuxtaglomerulari del rene in seguito a determinati stimoli,
come riduzione del volume sanguigno circolante (ipovolemia), riduzione della pressione arteriosa
(ipotensione), stimoli da parte del sistema nervoso ortosimpatico e anche di natura patologica. La renina
converte un peptide inattivo, l'angiotensinogeno (di secrezione epatica), in angiotensina 1; quest'ultimo
peptide viene convertito a sua volta in angiotensina 2 dall'enzima di conversione dell'angiotensina 1 o ACE
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(angiotensin‐converting enzyme), presente principalmente a livello dei capillari polmonari. L'angiotensina 2
possiede diversi effetti sull'organismo:
‐ È un potente vasocostrittore
‐ A livello renale costringe tutte le arteriole del glomerulo. La costrizione delle arteriole afferenti
determina un incremento della resistenza arteriolare, con conseguente aumento della pressione
sistemica e diminuzione del flusso sanguigno (nel glomerulo)
‐ Nella corteccia della ghiandola surrenale, causa il rilascio di aldosterone. Questo ormone agisce sui
tubuli renali a livello del tubulo contorto distale e del dotto collettore, favorendo il riassorbimento
di sodio; nel contempo, per un fenomeno di scambio, idrogenioni (H+) vengono secreti nel tubulo.
L'aldosterone agisce a livello del Sistema nervoso centrale, contribuendo ad aumentare il senso di
appetito per il salato ed il senso della sete
‐ Facilita il rilascio dell'ormone antidiuretico, la vasopressina, per opera dell'ipotalamo. L'ormone
antidiuretico agisce sul tubulo collettore inducendolo a riassorbire acqua tramite l’esportazione
sulla membrana delle acquaporine 2
Tutti questi effetti hanno l'azione comune di aumentare la quantità di liquido nel sangue aumentandone la
sua pressione
Steatosi, steatoepatite e cirrosi (danno da alcool nel dettaglio) ****:
la steatosi è un processo patologico nel quale si ha accumulo di lipidi (trigliceridi in linea di massima)
nell’organismo. Il posto di più comune reperimento delle steatosi è il fegato. Possiamo distinguere 2
tipologie: microvescicolare (goccioline di grasso all’interno dell’epatocita accerchiano il nucleo – a prognosi
infausta, prelude la morte per insufficienza epatica da mancata beta‐ossidazione in condizioni di ipossia) e
macrovescicolare (un’unica goccia lipidica gigante costringe il nucleo in periferia – reversibile se cessano le
condizioni che l’hanno provocata). EFFETTI Se l’accumulo di trigliceridi si prolunga per troppo tempo, si
passa da una steatosi ad una steatoepatite, a causa degli stimoli pro‐infiammatori prolungati; da questa
condizione protratta poi si può avere degenerazione completa del parenchima epatico, con evoluzione
cirrotica. Esistono diversi tipi di steatosi:
‐ Steatosi ereditarie: ne sono esempi il Morbo di Wolfman e l’abetalipoproteinemia. Nel primo caso
si ha una carenza della lipasi epatica, con impossibilità di metabolizzazione dei grassi pervenuti al
fegato. Nel secondo caso, la deficienza ereditaria di β‐lipoproteina nelle cellule della mucosa
intestinale, comporta l’impossibilità per i trigliceridi di formare i chilomicroni. Le cellule si
infarciscono di grassi e diventano steatosiche. Quando desquamano, determinano steatorrea
‐ Steatosi da inibitori della sintesi proteica: sostanze come l’actinomicina D e cicloesimide inducono
steatosi per blocco della sintesi proteica, dato che determinano l’impossibilità epatica di produrre
la parte proteica delle lipoproteine, essenziali per l’eliminazione degli accumuli di trigliceridi dal
fegato
‐ Steatosi da veleni ambientali: sostanze come il tetracloruro di carbonio (CCl4) possono penetrare
nel sangue per via inalatoria. Sopraggiunto nel fegato CCl4 viene dissociato nel reticolo
endoplasmatico in Cl‐ e CCl3; quest’ultimo è un radicale fortemente reattivo che determina
lipoperossidazione nelle cellule. Le membrane cellulari vengono alterate e vanno soggette a
rottura. L’effetto realmente steatogeno è dato dall’alterazione di diverse proteine enzimatiche, che
reagendo con CCl3 non sono più capaci di espletare la loro funzione, come ad esempio il
metabolismo ossidativo dei grassi, determinando accumulo di trigliceridi intracellulare e steatosi.
L’insorgenza del danno è molto rapida (circa 1 ora dalla somministrazione)
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‐ Steatosi da etanolo: si presenta in forma acuta (uomo 3‐5 gg dopo massiccia assunzione di alcol) e
cronica (con evidente danno citoscheletrico all’epatocita e formazione dei corpi di Mallory ‐>
accumulo di filamenti intermedi disorganizzati). I danni maggiori sono a carico di 2 sostanze che si
formano post ingestione alcolica (tramite la via dell’alcool deidrogenasi): la formazione di
Acetaldeide e l’aumento di NADH. L’acetaldeide (che può formarsi anche attraverso la via MEOS)
sbilancia il metabolismo cellulare, facilitando la formazione di glicerolo‐3‐fosfato (dal di‐idrossi‐
acetone‐fosfato); questo viene convertito in acetil‐CoA, favorendo la sintesi endogena degli acidi
grassi. I mitocondri non possono sopperire all’aumento di grassi dato che sono occupati a ri‐
ossidare il NADH in eccesso. Se l’acetaldeide si accumula in maniera massiccia, può anche inibire le
reazioni di ossidazione, aggravando ulteriormente la steatosi. Altre azioni dell’acetaldeide
includono l’inibizione della sintesi proteica e arresto di sintesi e secrezione di lipoproteine. Dato
che l’etanolo riesce a saziare l’alcolista, è possibile che questo non assuma più cibo, generando una
carenza proteica
Altre Steatosi:
‐ NAFLD (malattia del fegato grasso non di derivazione alcolica): dovuta a cause non alcoliche, come
il diabete mellito di tipo 2, può generare una NASH (steatoepatite non alcolica)
‐ Steatosi extra‐epatiche: tipicamente a carico di cuore e rene, dovute a ipossia. L’ipossia, unita a
difetti ossidativi genera una mancata ossidazione degli acidi grassi e un conseguente accumulo di
questi all’interno delle cellule considerate. Altre cause possono essere: la carenza di colina o
avvelenamenti (con lesioni che possono procedere fino alla necrosi)
Cirrosi epatica**************:
La cirrosi epatica rappresenta il quadro terminale della compromissione anatomo‐funzionale del fegato e
riconosce fra le sue cause principali l'abuso di alcol, le epatiti croniche virali o di altra natura. La
caratteristica più evidente della cirrosi è il sovvertimento della struttura del fegato con fibrosi e
rigenerazione sotto forma di noduli. La cirrosi epatica è il risultato di un processo di continuo danno e
riparazione del parenchima epatico che conduce a un malfunzionamento del fegato sia dal punto di vista
metabolico sia dal punto di vista sintetico. I lobuli vanno incontro a trasformazione radicale, e si può
osservare la contemporanea presenza di focolai necrotici misti a focolai rigenerativi, formazione di
anastomosi artero‐venose, obliterazione vasale e neoangiogenesi. Il fegato all’analisi clinica si presenta
ingrandito e bozzato e può esserci la contemporanea presenza di altri segni, quali ascite e circoli di
compenso. La cirrosi insorge come ultima di 3 fasi:
‐ Infiammazione prolungata: in tutto e per tutto simile all’infiammazione cronica. Presenta diverse
cause, tra le quali si ricordano l’infiammazione da consumo alcolico prolungato, le epatiti
cronicizzanti, le risposte autoimmuni e le intossicazioni. Se il danno causa un’infiammazione solo
“acuta”, spesso si assiste a rigenerazione e restitutio ad integrum del tessuto epatico
‐ Fibrosi epatica: nel caso in cui l’infiammazione risulti cronicizzante, abbiamo la comparsa di fibrosi
epatica. I fattori infiammatori secreti in questa tipologia di infiammazione, quali TNF‐alfa, IL‐1, TGF‐
beta e PDGF attivano le cellule stellate di Ito a differenziarsi in miofibroblasti. Queste cellule
vengono ulteriormente stimolate, dal prolungarsi della condizione infiammatoria, a secernere
componenti proteici della matrice extracellulare, determinando fibrosi
‐ Cirrosi…
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Coma epatico:
Fisiopatologia da estrogeni:
Cretinismo:
Malattie autoimmuni:
Malattie da immunodeficienze:
Artrite reumatoide:
ULTIME AGGIUNTE
Retinite Pigmentosa ****:
generata da almeno 50 fattori genetici diversi. La forma più comune (RP11) è quella a penetranza
incompleta generata da una mutazione del gene PRPF31
‐ epidemiologia: 1/4000 nati
‐ clinica: esordio con cecità notturna e progressiva degenerazione della retina periferica
Eterogeneità genetica: lo stesso fenotipo è causato da mutazioni genetiche diverse (es la osteogenesi
imperfetta può essere mimata da alcune patologie del collagene)
Poliplasmia: i mitocondri all’interno di una stessa cellula possono avere anche codice genetico differente
Eteroplasmia/Omoplasmia: una mutazione all’interno di un mitocondrio può colpire tutte le copie di DNA
mitocondriale (omoplasmia) oppure essere presente solo in una certa percentuale, lasciando le altre
inalterate (eteroplasmia)
Atrofia ottica di Leber:
Tipologie cromosomiche:
‐ metacentrico‐> centromero nel tratto centrale del cromosoma; le braccia corte e lunghe hanno la
stessa lunghezza
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‐ submetacentrico ‐> centromero non nella porzione centrale del cromosoma; braccia corte e lunghe
hanno lunghezze diverse
‐ acrocentrico ‐> centromero in posizione quasi terminale; le braccia corte sono “virtuali”
Sindrome di Down:
‐ 90‐95% non disgiunzione meiotica
‐ 1‐4% traslocazioni sbilanciate (cromosoma 21 inserito nel 14)
‐ 1‐3% mosaico
Individuo XX maschio:
dato dalla traslocazione di parte del cromosoma Y contenente la regione SRY (sex determinating region) sul
cromosoma X
Fenilchetonuria:
malattia genetica determinata dalla mancanza dell’enzima fenilalanina idrossilasi. La fenilalanina si
trasforma quindi in acido fenil‐piruvico per transaminazione
‐ epidemiologia: 1/20.000 nati
‐ clinica: causa ritardo mentale
la particolarità è che può essere riconosciuta da un test biochimico che controlla i livelli di fenilalanina nel
sangue del bambino; il test biochimico viene successivamente correlato con il difetto genetico
MicroRNA(approfondimento)***:
sono piccole molecole endogene di RNA non codificante a singolo filamento riscontrate nelcomplesso di
trascrizione genica degli organismi a DNA. Si tratta di polimeri di RNA codificati dal DNA nucleare
eucariotico lunghi circa 21‐25 nucleotidi e principalmente attivi nella regolazione dell'espressione genica a
livello trascrizionale e post‐trascrizionale. La loro sintesi avviene tramite 3 tappe: Pri‐miRNA (microRNA
primario) ‐> Pre‐miRNA (microRNA precursore) ‐> miRNA (microRNA maturo). Possono essere sia
intragenici che intergenici. I possibili ruoli biologici sono:
‐ l’up‐regulation di geni specifici per il tessuto muscolare
‐ l’up‐regulation di geni specifici per il tessuto nervoso
‐ regolazione del differenziamento dei cardiomiociti modulando l’attività genica
‐ regolazione dello sviluppo osseo modulando l’attività genica
‐ regolazione della secrezione insulinica modulando l’attività genica
‐ silenziamento genico tramite sovrapposizione con sequenze complementari presenti su molecole di
RNA messaggero (mRNA) bersaglio; tale legame comporta una repressione della traduzione o la
degradazione della molecola bersaglio
‐ repressione e/o marker di alcuni tipi di tumore
Meccanismo mTOR:
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PI3K induce la fosforilazione di PIP2 in PIP3. PIP3 consente il reclutamento di AKT e PDK1; PDK1 fosforila
AKT, attivandolo e consentendogli, in presenza di RHEB, di attivare mTOR [AKT inibisce anche le TSC ½, in
modo da impedire a queste di inibire RHEB]. mTOR entra a far parte di 2 complessi proteici: mTORC1 e
mTORC2. mTORC1 stimola la sintesi proteica (Ciclina D, MYC, HIF‐1); mTORC2 contribuisce ad aumentare la
fosforilazione di AKT
LEZIONI DI PILUSO (estratto delle slide) G.G.
Cromosoma marker:
sono costituiti da frammenti cromosomici. ln circa il 70% sono formati dai bracci corti e dalle regioni
pericentromeriche dei cromosomi acrocentrici (in particolare il cromosoma 15). Rari i cromosomi markers
derivati da autosomi non acrocentici (spesso piccoli cromosomi ad anello). L’identificazione dell’origine del
cromosoma marker è in genere il risultato dell’uso combinato del cariotipo (bandeggio G) di FISH e
arrayCGH. Le principali condizioni cliniche associate a cromosomi marker sono:
‐ Sindrome di Pallister‐Killiam: tetrasomia 12p da i(12p). I pazienti con la PKS hanno un mosaicismo
per un isocromosoma 12p soprannumerario, risultante in quattro copie del braccio corto del
cromosoma 12. Il mosaicismo è limitato ad alcune cellule e tessuti: fibroblasti della cute, cellule del
midollo osseo, raramente nei linfociti. Le caratteristiche cliniche (dimorfismi del volto e
malformazioni) peggiorano con l'età. l Alcuni pazienti con bassi livelli di mosaicismo presentano un
quadro clinico meno grave. Epidemiologia: 1/25.000. Clinica: ritardo mentale profondo, crisi
epilettiche, ipotonia, alterazioni della pigmentazione della pelle, capelli e sopracciglia radi,
lineamenti "grossolani", con fronte alta e ampia, orecchie malformate, macrostomia, un naso largo,
ed ipertelorismo
‐ Tetrasomia 18p: l'anomalia cromosomica consiste in un extra isocromosoma 18p, che deriva dalla
duplicazione del braccio corto i(18p). Epidemiologia 1:180.000. Clinica sono: deficit cognitivo (da
modesto a grave), ritardo di crescita prenatale e postnatale, ipotonia neonatale con successiva
spasticità degli arti, bassa statura, disturbi convulsivi, microcefalia, malformazioni renali
‐ Cat‐eye syndrome: il cariotipo mostra un piccolo cromosoma soprannumerario derivato dalla
porzione prossimale del cromosoma 22. Epidemiologia 1/74.000. Clinica sono: atresia anale e
coloboma dell'iride. Clinica variabile sono: cardiopatie congenite, palatoschisi, anomalie urinarie,
scheletriche, ritardo mentale di media gravità
Williams‐Beuren:
è causata da una microdelezione di 1.5‐1.8 Mb sul cromosoma 7q, che coinvolge 26‐28 geni [ELN (gene
dell’elastina), LIMK1 e CLIP2, GTF2I]. Epidemiologia: circa 1/20.000 nati. Clinica: facies caratteristica (faccia
da Elfo), occhi blu, naso con punta bulbosa, bocca larga, guance piene, micrognazia, anomalie
cardiovascolari, stenosi sopravalvolare dell’aorta, stenosi periferica delle arterie polmonari, ipertensione,
anomalie endocrine, ipercalcemia, ridotta tolleranza al glucosio, anomalie neurocognitive, ritardo mentale
I.Q. tra 41 e 80, scarsa capacità di concentrazione, esagerata loquacità, personalità amichevole e affettuosa
ipersensibilità ai suoni
Smith‐Magenis:
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è causata da microdelezione a 17p o mutazioni nel gene RAI1. Epidemiologia 1:20.000. Clinica: ritardo
mentale lieve‐moderato (I.Q. 20‐78), anomalie cranio‐facciali e scheletriche, ritardo nello sviluppo del
linguaggio, disturbi del sonno (inversione nel ritmo circadiano della melatonina), riduzione/perdita
dell’udito e infezioni croniche dell'orecchio, comportamenti disadattivi, frequenti scoppi di collera,
aggressività, disobbedienza, scarsa attenzione, comportamenti autolesionistici (sbattere la testa, strappare
la pelle, mordersi il polso), onicotillomania (strapparsi le unghie delle mani e dei piedi)
Koolen‐de Vries syndrome:
è causata da microdelezione a 17q o mutazioni nel gene KANSL1 che regola l’espressione genica
modificando cromatina. Vi è la presenza di un’inversione asintomatica, in uno dei genitori, della regione
coinvolta dalla microdelezione. Epidemiologia: 1:16.000. Clinica: disabilità Intellettiva ipotonia, carattere
allegro e socievole, facies caratteristica (volto allungato, sopracciglia rade rime palpebrali oblique verso
l’alto, cardiopatie congenite, anomalie urogenitali, anomalie del sistema nervoso centrale
Sindrome del Cri du Chat:
data da una delezione parziale del cromosoma 5p, de novo nella maggioranza dei casi. Prevalentemente
dovuta a segregazione sbilanciata di un riarrangiamento cromosomico presente in uno dei due genitori.
Epidemiologia 1/50.000 nati vivi. Clinica: i neonati hanno un pianto acuto e flebile (simile al pianto di un
gatto), ritardo di crescita e nello sviluppo psicomotorio, microcefalia, faccia tondeggiante, radice del naso
allargata, strabismo divergente, micrognazia, grave deficit del linguaggio e deficit intellettivo medio‐grave.
Sindrome da 18q:
è una delle più frequenti delezioni autosomiche dell’uomo. È causata da delezioni del braccio lungo del
cromosoma 18 (quasi sempre de novo). Rara la formazione di cromosomi ad anello. Clinica: ipotonia
congenita, spiccato dismorfismo facciale, microcefalia, mani lunghe con dita affusolate, dita dei piedi con
impianto irregolare, malformazioni oculari, cerebrali, genito‐urinarie, ritardo mentale variabile, spesso
molto grave
Sindrome di Wolf‐Hirshhorn:
è causata da una delezione parziale del cromosoma 4p che può avere estensione variabile. La maggioranza
delle delezioni insorge de novo. Più raramente è il risultato della segregazione sbilanciata di una
traslocazione familiare; rara la descrizione di cromosomi ad anello. Epidemiologia: 1/50.000 nati. Clinica:
ritardo di crescita intrauterino (IUGR) e scarso accrescimento dopo la nascita, ritardo mentale, microcefalia
con dolicocefalia a frequente asimmetria cranica, facies tipica ad "elmo da guerriero greco" (radice del naso
larga che continua sulla fronte) molto più evidente prima della pubertà
MLPA (Multiplex Ligation‐dependent Probe Amplification):
riconoscimento di variazioni del numero di copie in più di 40 distinte sequenze genomiche mediante
un’unica reazione di PCR. Campi applicativi: delezioni/duplicazioni o variazioni del numero di copie
(aneuploidie), determinare lo stato di metilazione di promotori o regioni imprinted, riconoscimento di
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specifiche mutazioni puntiformi o SNPs (single nucleotide polymorphism). Richiede minime quantità di DNA
genomico (circa 20 ng). Come funziona l’MLPA:
‐ La sonda MLPA viene aggiunta a DNA genomico denaturato
‐ Le due parti di ogni sonda si ibridano al bersaglio su sequenze adiacenti
‐ Le sonde sono connesse da una ligasi termostabile
‐ Una coppia di primer universale viene utilizzato per amplificare tutte le sonde legate
Il prodotto di PCR di ogni sonda ha una lunghezza unica e una volta posto sotto elettroforesi capillare:
‐ Ogni picco è il prodotto di amplificazione di una sonda specifica
‐ I campioni vengono confrontati ad un campione di controllo
‐ Una differenza relativa altezza del picco campione contro un picco standard, indica una variazione
del numero di copie della Sonda sequenza bersaglio
Polymerase chain reaction (PCR):
la PCR ricostruisce in vitro uno specifico passaggio della duplicazione cellulare: la sintesi di un segmento di
DNA "completo" (a doppia elica) a partire da un filamento a singola elica. Il filamento mancante viene
ricostruito a partire da una serie di nucleotidi che vengono disposti nella corretta sequenza,
complementare a quella del DNA interessato. È possibile ricostruire le condizioni “naturali” che portano alla
formazione dei nuovi segmenti di DNA, ponendo in soluzione:
‐ una quantità, anche minima, del segmento di DNA che si desidera riprodurre;
‐ una quantità opportuna di nucleotidi liberi per costituire i nuovi filamenti;
‐ opportuni "inneschi", detti primer, costituiti da brevi sequenze di RNA (oligonucleotidi)
complementari alle estremità 5'‐>3' dei due filamenti del segmento da riprodurre;
‐ una DNA polimerasi termo‐resistente (non proveniente dallo stesso organismo di cui si deve
replicare il DNA ma da un batterio termofilo);
‐ un Buffer che serve a mantenere il pH stabile (tampone) e necessario per costituire l'ambiente
adatto alla reazione;
‐ altri elementi di supporto (ad es. ioni magnesio) indispensabili per il corretto funzionamento della
DNA polimerasi;
Per avviare la reazione della polimerasi (fase di prolungamento del filamento a partire dal primer 5') è
prima necessario provvedere alla separazione dei filamenti del DNA (fase di denaturazione), quindi alla
creazione del legame tra i primer e le regioni loro complementari dei filamenti di DNA denaturati (fase di
annealing). Questo processo risulta però incompatibile con la DNA polimerasi umana, che viene distrutta
alle temperature necessarie alla denaturazione (96‐99 °C). Per ovviare a questo inconveniente si fa ricorso
alle polimerasi appartenenti a organismi termofili che non sono inattivate dalle alte temperature, ad
esempio la Taq polimerasi proveniente dal batterio termofilo Thermus aquaticus. Ciò consente di realizzare
più cicli di PCR in sequenza, in ciascuno dei quali viene duplicato anche il DNA sintetizzato nelle fasi
precedenti, ottenendo una reazione a catena che consente una moltiplicazione estremamente rapida del
materiale genetico di interesse.
POTRESTE TROVARE QUALCHE INFORMAZIONE CONTRASTANTE SULLA GENETICA DALLE “ULTIME
AGGIUNTE” IN POI, DOVUTA AL FATTO CHE DALLE “ULTIME AGGIUNTE” HO ESTRATTO IL MATERIALE
DIRETTAMENTE DAGLI APPUNTI DEI PROFESSORI CHE MI SONO TROVATO A DISPOSIZIONE (E NON SEMPRE
LE INFORMAZIONI CONCORDAVANO CON IL LIBRO/INTERNET). DECIDETE VOI QUALI FARE. HO ANCHE
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INSERITO QUALCHE PICCOLO DETTAGLIO IN PIU’ SU FOGLI CARTACEI CHE HO STAMPATO (QUINDI NON C’E’
SCRITTO), MA SONO PICCOLI APPROFONDIMENTI NON CRUCIALIAI FINI DELL’ESAME
DESIDERO RINGRAZIARE S.A. CHE MI HA SOSTENUTO E INCORAGGIATO DURANTE LA STESURA DI QUESTI
SCRITTI… PROBABILMENTE SENZA IL SUO SOSTEGNO NON AVREI SCRITTO NIENTE, QUINDI… GRAZIE �