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Nahtjak89 Francisco de Quevedo VITA DEL BRICCONE Saggista politico e morale, poeta di alte qualità liriche, scrittore satirico - degno di essere accostato a Rabelais, Voltaire, Swift - Quevedo fu il rappresentante più tipico dell'epoca storica in cui visse. Il suo pensiero, sensibile al clima di disfatta creatosi nella Spagna di quegli anni e alla crisi dell'umanesimo, è caratterizzato da un peculiare tentativo di conciliare essenza cristiana e tendenza stoica in un quadro di impietosa, amara e talvolta paradossale critica di costume. "Vita del briccone" esemplifica perfettamente la sua visione filosofica nella parabola esistenziale di Pablos, un emarginato desideroso di costruire la propria fortuna e condannato invece dalla società a cadere in un destino già scritto, fatto solo di inganni e misfatti.

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Page 1: Francisco de Quevedo Vita Del Briccone

Nahtjak89 Francisco de Quevedo

VITA DEL BRICCONE

Saggista politico e morale, poeta di alte qualità liriche, scrittore satirico - degno di essere accostato a Rabelais, Voltaire, Swift - Quevedo fu il rappresentante più tipico dell'epoca storica in cui visse. Il suo pensiero, sensibile al clima di disfatta creatosi nella Spagna di quegli anni e alla crisi dell'umanesimo, è caratterizzato da un peculiare tentativo di conciliare essenza cristiana e tendenza stoica in un quadro di impietosa, amara e talvolta paradossale critica di costume. "Vita del briccone" esemplifica perfettamente la sua visione filosofica nella parabola esistenziale di Pablos, un emarginato desideroso di costruire la propria fortuna e condannato invece dalla società a cadere in un destino già scritto, fatto solo di inganni e misfatti.

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DEDICA PRELIMINARE DEI MANOSCRITTI DI CORDOVA E SANTANDER Lettera di dedica Ben conoscendo il desiderio di Vossignoria di apprendere le varie vicende della mia vita, e per non permettere ad estranei di mentire (come avviene quando si trattano casi altrui), ho voluto inviarLe questa relazione, che Le sarà di non poco sollievo nei momenti tristi; e poiché credo che sarò tanto lungo nel raccontare quanto breve fu la mia fortuna, tronco subito gli indugi. AL LETTORE Desideroso ti immagino, o lettore, ovvero ascoltatore - ché i ciechi legger non possono -, di registrare quanto v'è d'ameno nella vita di don Pablos, principe della vita bricconesca. Troverai qui, in ogni genere della furfanteria - di cui credo che i più si dilettino -, sottigliezze, inganni, invenzioni e modi di fare nati dall'ozio per viver d'imbrogli, e non pochi frutti potrai trarne se farai attenzione ai castighi; qualora invece non lo facessi, giovati almeno delle prediche, benché io dubiti che vi sia chi compra un libro di burle per allontanarsi dalle tentazioni della sua corrotta natura. Sia comunque come tu vuoi: plaudi al libro, ché ben lo merita, e quando riderai dei suoi scherzi, loda l'ingegno di chi sa che è ben più divertente conoscere le vite dei picari, gagliardamente descritte, che non altre invenzioni di maggior ponderazione. Il suo autore già lo conosci, il prezzo del libro non lo ignori visto che lo tieni in casa; a meno che tu non lo stia sfogliando dal libraio, cosa per lui invero seccante, e che si dovrebbe proibire con molto rigore. Vi sono infatti scrocconi di libri come di pranzi; gente che tira fuori un racconto dopo aver letto a spizzichi e bocconi e aver ricucito i pezzi fra loro alla bell'e meglio; ed è un peccato che ciò avvenga, perché questi stessi poi ne sparlano senza spendere un soldo; poltroni bastardi e taccagni peggiori perfino del Cavalier della Tenaglia. Dio ti guardi dai brutti libri, dagli sbirri e dalle donne rosse, accattone e dalla faccia tonda.

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A DON FRANCISCO DE QUEVEDO il suo amico Luciano Don Francisco, con pari attenzione sia verità che burle trattate. Senza mai fallire consigliate, di don Pablos fate un mascalzone. Ma confesso che con la Tenaglia briccone d'espedienti sarà, ché poi, per la sua conservazione, portarla mica lo intralcerà. Anzi sarebbe strano briccone, eh, se non portasse la Tenaglia.

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LIBRO PRIMO CAPITOLO PRIMO In cui racconta chi è e da dove viene Io, signore, sono di Segovia. Mio padre si chiamava Clemente Pablo, ed era anch'egli segoviano; Dio l'abbia in gloria. Fu, come suol dirsi, di professione barbiere; anche se aveva idee così elevate che si risentiva quando lo chiamavano così, e diceva ch'era tonsore di guance e sarto di barbe. Era di ottimo ceppo, dicono, e, da quanto beveva, non c'è motivo di dubitarne. Era sposato con Aldonza de San Pedro, figlia di Diego de San Juan e nipote di Andrés de San Cristóbal. La sospettavano, in città, di non essere cristiana vecchia, anche se lei cercava di dimostrare, per mezzo dei nomi e soprannomi dei suoi defunti, che discendeva dalla litania dei santi. Aveva un gran bell'aspetto, e fu tanto celebrata che ai suoi tempi quasi tutti i cantastorie di Spagna facevano delle cose sopra di lei. Patì molte pene appena sposata, e anche dopo, poiché le malelingue dicevano in giro che mio padre metteva il due di bastoni per tirar fuori il due di denari. Fu dimostrato che mentre lui, prima di tagliare la barba con la lametta, lavava il viso dei clienti, un mio fratellino di sette anni ripuliva loro a man salva le tasche fino al midollo. Morì, quell'angioletto, per le frustate ricevute in carcere. Mio padre ne soffrì molto, poiché il piccolo era un vero rubacuori. Per questa e altre sciocchezze andò in prigione; anche se, a quanto m'hanno detto più tardi, ne uscì con tanto onore da essere accompagnato da duecento porpore, nessuna delle quali, ahimè, cardinalizia. Raccontano che le dame s'affacciavano alla finestra per vederlo passare, e in effetti mio padre faceva sempre la sua figura, sia a piedi sia a cavallo. Non lo dico certo per vantarmi, tutti sanno quanto sia modesto.

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Mia madre, quindi, non ebbe proprio disgrazie. Un bel giorno una vecchia che mi allevava me ne tessé le lodi, dicendo che era così bella da stregare chi aveva a che fare con lei. Solo, pare che si dicesse non so che a proposito di un caprone e del fatto di volare, e mancò poco che l'impiumassero per farglielo fare in pubblico. Aveva fama di restaurare le vergini e di resuscitare i capelli coprendo la canizie. Alcuni la chiamavano procacciatrice di piaceri; altri, guaritrice di amori disgraziati, e con una brutta parola ruffiana. O di scopa, come dicevano alcuni, o di briscola, come dicevano altri, dilapidava comunque il denaro di tutti. A vedere la risata che le si stampava sul volto quando udiva tutto questo, c'era da rendere grazie al Signore. Non mi dilungherò sulle penitenze che faceva. La sua stanza - in cui poteva entrare solo lei, e talvolta anch'io che, essendo piccolo, ne avevo il permesso - era tutta ingombra di teschi, di cui diceva che erano lì in ricordo della morte, mentre altri per diffamarla sostenevano che vi si trovavano per amore della vita. Le cinghie del letto erano corde d'impiccato, e a me diceva: «Che ne pensi? Le tengo come reliquie, poiché la maggior parte di questi poveracci si salva l'anima». Ci furono grosse dispute fra i miei genitori su quale dei due mestieri dovessi ereditare, ma io, che fin da piccolo ho sempre avuto arie da gran signore, non ho appreso né l'uno né l'altro. Mi diceva mio padre: «Figlio, essere ladro non è un'arte meccanica, ma semmai liberale». E dopo una pausa, con un sospiro, continuava, giungendo le mani: «Chi non ruba a questo mondo, non vive. Lo sai perché sbirri e giudici ci odiano tanto? Un giorno ci bandiscono, un altro ci frustano, e un altro ancora ci appendono, nemmeno fosse il giorno del nostro onomastico. Non riesco a dirlo senza lagrime» - e piangeva come un bambino, povero vecchio, ricordandosi di tutte le volte che gli avevano bastonato le costole -; «perché non sopportano che dove stanno loro vi siano altri ladri che loro stessi e i loro ministri. Fortuna che da tutto questo ci libera la nostra brava astuzia. Quand'ero ragazzo andavo sempre in giro per chiese, e non perché fossi proprio un buon cristiano. Molte volte mi avrebbero fatto piangere sull'asino, se avessi cantato sul cavalletto. Ma io non ho mai confessato, se non quando

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me lo comandava santa madre Chiesa. E così, grazie a questo e al mio mestiere, ho mantenuto tua madre nella maniera più onorevole che fosse possibile». «Voi avreste mantenuto me!», diceva lei allora con grande collera, poiché le seccava che non mi dedicassi alla stregoneria; «io Vi ho sostentato, semmai, Vi ho fatto uscire di carcere con mille stratagemmi, e Vi ci ho mantenuto con il mio denaro. Se non confessavate, lo dovete forse al Vostro coraggio o alle pozioni che Vi davo? Ringraziate i miei vasetti! E se non temessi che mi sentano fino in strada, racconterei di quando entrai per il camino e Vi feci uscire per i tetti». Avrebbe detto anche di più, tanto si era arrabbiata, se in seguito ai colpi che stava dando non le si fosse sfilato un rosario che portava, fatto di denti di morti. Misi pace, dicendo che ero risoluto ad apprendere la virtù e a farmi strada con buoni intendimenti. Che mi facessero dunque studiare, visto che senza leggere e scrivere non si poteva far nulla. Ammisero che avevo ragione, anche se borbottarono un po'. Mia madre si rimise a infilare denti e mio padre andò via, a radere a uno non so se la barba o la borsa. Io rimasi solo, ringraziando Iddio che m'aveva fatto avere dei genitori così in gamba e preoccupati per il mio bene.

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CAPITOLO SECONDO Di come andai a scuola e di quello che lì mi successe Il giorno dopo, già mi avevano comprato il libro e parlato con il maestro. Andai, signor mio, a scuola; il maestro mi accolse tutto contento, dicendo che avevo la faccia di uno sveglio e intelligente. Per non smentirlo, quindi, quella mattina recitai benissimo la lezione. Il maestro mi faceva sedere al suo fianco; il più delle volte conquistavo la bacchetta arrivando per primo e me ne andavo per ultimo per fare qualche commissione per la «signora», come chiamavamo la moglie del maestro. Per tali blandizie mi erano tutti obbligati. Mi favorivano troppo e così l'invidia degli altri ragazzi cresceva. Feci amicizia, fra tutti, con i figli dei cavalieri e delle persone importanti, e in particolare con uno dei figli di don Alonso Coronel de Zúñiga, con il quale dividevo la merenda. Andavo a giocare a casa sua, quand'era festa, e lo accompagnavo ogni giorno. Gli altri, o perché non parlavo con loro o perché pareva loro che fossi troppo presuntuoso, continuavano ad attribuirmi nomignoli relativi al mestiere di mio padre. Alcuni mi chiamavano don Rasoio, altri don Sanguisuga; uno diceva, per giustificare l'invidia, che mi detestava perché mia madre, di notte, gli aveva succhiato via due sorelline; un altro diceva di mio padre che era talmente gatto che lo avevano portato a casa sua affinché la liberasse dai topi. Alcuni, quando passavo, mi dicevano «pussa via», altri «micio»; c'era poi chi diceva: «Io a sua madre ho tirato due melanzane quando faceva il vescovo». Alla fin fine, però, benché mormorassero, grazie a Dio non mi mancarono mai di rispetto, e anche se ero seccato fingevo di non curarmi di loro. Sopportai tutto, finché un giorno un ragazzo osò dirmi a voce alta figlio di una puttana strega; e visto che me lo disse chiaro e tondo - ché se almeno l'avesse detto sottovoce non me ne sarei offeso -, afferrai una pietra e gli spaccai la testa. Corsi poi da mia madre perché mi nascondesse, le raccontai tutta la faccenda e lei mi disse: «Hai fatto benissimo: devi ben mostrare chi sei; solo, hai sbagliato nel non domandargli chi glielo ha detto». Udite queste parole, e avendo sempre avuto idee elevate, mi girai verso di lei e le dissi: «Ah, madre, mi dispiace solo che la mia sia stata più una messa che una lite».

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Mi domandò perché e le risposi che evidentemente avevo sentito il Vangelo. La pregai di dirmi chiaramente se potevo smentirlo davvero; e se mi aveva concepito con l'aiuto di molti o se ero figlio di mio padre. Rise e disse: «Caspita! Queste sono le cose che sei capace di dire? Non sei affatto stupido; anzi, hai dello spirito. Hai fatto molto bene a rompergli la testa, perché queste cose, seppur fossero vere, non si devono mai dire». Quando disse così, restai di stucco e decisi di rimediare in pochi giorni tutto quel che avrei potuto, e di andarmene poi di casa; tanto mi vergognavo. Feci finta di niente; venne mio padre, curò il ragazzo e lo tranquillizzò; io me ne tornai a scuola, dove il maestro mi accolse con ira, finché, sentendo il motivo della lite, non si calmò, considerando che avevo avuto ragione. Nel frattempo veniva sempre a trovarmi il figlio di don Alonso de Zúñiga, che si chiamava don Diego; mi voleva sinceramente bene, anche perché scambiavo i soldatini con lui quando i miei erano più belli, gli davo parte delle mie merende senza chiedergli parte delle sue, gli compravo le figurine, gli insegnavo a lottare, giocavo con lui al toro e lo intrattenevo costantemente. Così, il più delle volte, i genitori del giovane cavaliere, vedendo quanto lo rallegrava la mia compagnia, chiedevano ai miei che mi lasciassero pranzare e cenare con loro, e spesso perfino che mi lasciassero dormire lì. Accadde dunque, uno dei primi giorni di scuola subito dopo Natale, che Dieguito, vedendo venire per la strada un tale che si chiamava Poncio de Aguirre e che aveva fama di essere un ebreo convertito, mi disse: «Ehi, chiamalo Poncio Pilato e dattela a gambe». Io, per accontentare il mio amico, lo chiamai Poncio Pilato. Quello allora si indignò tanto che prese a rincorrermi con il coltello sguainato per uccidermi, tanto che fui costretto a rifugiarmi con urla e strepiti a casa del mio maestro. L'uomo entrò appresso a me, ma il maestro lo convinse a non uccidermi, garantendogli che mi avrebbe punito. E così, più tardi - a nulla servì che la signora intercedesse per me, visto quanto le ero utile -, mi ordinò di sbottonarmi i pantaloni e, frustandomi, diceva ad ogni colpo: «Direte più Poncio Pilato?». Io rispondevo: «Nossignore», e lo dissi per venti volte in risposta ad altrettante

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frustate. Imparai così bene a non dire Poncio Pilato, e me ne rimase una tale paura, che, quando il giorno appresso mi ordinò di dire, come al solito, le orazioni agli altri ragazzi, arrivati al Credo - noti Vossignoria che innocente malizia! -, invece di dire «patì sotto Poncio Pilato», mi ricordai che non dovevo più parlare di Pilati e dissi «patì sotto Poncio de Aguirre». Nel vedere la mia innocenza e la paura che avevo avuto, il maestro scoppiò in una gran risata; mi abbracciò e mi firmò una carta con cui mi abbonava le frustate per le prime due volte in cui le avessi meritate. Ne fui proprio contento. Arrivarono - non voglio annoiare - i giorni di Carnevale, e il maestro, che voleva far divertire i suoi ragazzi, ci fece giocare al «re dei galli». Tirammo a sorte fra dodici indicati da lui stesso, e toccò a me. Chiesi allora ai miei genitori di farmi avere gli abiti di gala. Venne il gran giorno e uscii sopra un cavallo tisico e mesto, che faceva riverenze a destra e a manca più per zoppaggine che per buona educazione. Le natiche erano da scimmia, quasi senza coda; il collo da cammello, ma più lungo; un occhio torto e cieco l'altro; quanto all'età, da chiudere non gli rimanevano che gli occhi; insomma, pareva più fumaiolo che cavallo, e se solo avesse avuto una falce sarebbe sembrato la morte dei ronzini. Già dall'aspetto dimostrava le privazioni subìte, e gli si scorgevano chiaramente addosso i segni di penitenze e digiuni; senza alcun dubbio, non aveva mai avuto notizia né di biada né di paglia. Ciò che più lo rendeva degno di risa erano le numerose chiazze sulla pelle; se solo avesse avuto una serratura, sarebbe sembrato un baule vivo. Mentre con grande maestà cavalcavo quella specie di budello ambulante, traballando da una parte all'altra come un fariseo in processione, e con gli altri ragazzi, tutti bardati, dietro di me, passammo per la piazza - il solo ricordo mi riempie di paura -, e nell'avvicinarci alle bancarelle di verdura (Dio ci scampi) il mio cavallo addentò un cavolo che nessuno vide né sentì quando se lo fece scivolare in pancia, dove pure, a forza di rotolare giù per il gargarozzo, dovette arrivare dopo un bel po' di tempo. La fruttivendola - sono tutte delle svergognate - cominciò a gridare; se ne aggiunsero altre, ad esse poi dei picari, e impugnando carote immense,

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navoni giganteschi, melanzane e altri legumi, cominciarono a perseguitare il povero re. Vedendo che si trattava di una battaglia navonale, e che quindi non era il caso di farla a cavallo, feci per smontare; ma il cavallo ricevette un tale colpo sul muso che, impennandosi, cadde con me in una latrina, con rispetto parlando. Mi ridussi come Vossignoria può immaginare. Nel frattempo i miei compagni si erano armati di pietre e, prese di mira le fruttivendole, ne avevano colpite due. Dopo esser caduto nella latrina, ero la persona più piena di bisogni della rissa. Vennero le guardie e cominciarono l'indagine; fermarono fruttivendole e ragazzi, guardando quali armi avessero e sequestrandogliele, poiché alcuni avevano estratto le daghe della maschera, e altri piccole spade. Arrivarono a me e vedendo che non avevo armi, perché me le avevano tolte e messe in una casa ad asciugare assieme a cappa e cappello, me le chiesero ugualmente; al che risposi, tutto sporco, che a parte quelle che erano d'offesa al naso, non ne avevo altre. E fra parentesi voglio confessare a Vossignoria che, quando cominciarono a tirarmi melanzane, navoni, eccetera, siccome portavo delle piume sul cappello, pensai che m'avessero scambiato per mia madre e che la bersagliassero come del resto avevano fatto altre volte; sicché, stolto e ragazzino com'ero, cominciai a dire: «Sorelle, malgrado le piume che porto, non sono Aldonza de San Pedro, mia madre», come se loro non se ne fossero accorte dall'abito e dal volto. L'ignoranza, tuttavia, è giustificata dalla paura, e dal fatto che accadde tutto così all'improvviso. Ma, tornando allo sbirro, mi voleva portare in carcere, e non mi ci portò solo perché non trovava un punto dove afferrarmi, tanto m'ero insudiciato. Alcuni se ne andarono da una parte, altri dall'altra, e io dalla piazza me ne tornai a casa, affliggendo tutti i nasi che incontravo. Entrai in casa, raccontai ai miei genitori quanto era accaduto, e loro si arrabbiarono talmente per il modo in cui mi ero ridotto che volevano picchiarmi. Io davo la colpa a quelle due leghe di ronzino sfiancato che m'avevano dato. Cercai di calmarli e, vedendo che non bastava, uscii per andare a trovare il mio amico don Diego. Lo trovai a casa sua con la testa rotta, e i suoi genitori erano decisi a non mandarlo più a scuola. Lì ebbi notizia di come il mio ronzino, vedendosi in difficoltà, aveva fatto lo sforzo di tirare un paio di calci, ma, magro com'era, si era slogato le anche ed era rimasto poi ad agonizzare nel fango.

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Vedendo dunque che la festa era stata rovinata, che avevo dato scandalo in tutto il paese, che i miei erano indignati, il mio amico s'era rotto la testa e il mio cavallo era morto, decisi di non tornare più né a scuola né a casa dei miei genitori, ma di rimanere al servizio di don Diego, o meglio in sua compagnia, e questo con grande contentezza dei suoi genitori, vista l'amicizia che dimostravo al ragazzo. Scrissi a casa che non avevo più bisogno di andare a scuola: anche se non sapevo scrivere bene, per la mia intenzione di diventare cavaliere era sufficiente che scrivessi male; così, naturalmente, rinunciavo alla scuola affinché non avessero spese, e alla loro casa per risparmiar loro un dispiacere. Feci sapere dove mi trovavo e come stavo, e che non li avrei rivisti finché non me ne avessero dato licenza.

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CAPITOLO TERZO Di come andai a pensione al servizio di don Diego Coronel Decise, quindi, don Alonso, di metter suo figlio a pensione, in parte per allontanarlo dall'indulgenza che gli dimostrava, in parte per risparmiarsi problemi. Seppe che c'era a Segovia un certo dottor Cabra, che di professione allevava i figli dei cavalieri, e gli mandò il proprio, e me affinché lo accompagnassi e servissi. La prima domenica dopo la Quaresima finimmo così in balìa di una fame nera, poiché nel descrivere una tale miseria non si corre mai il rischio di esagerare. Lui era un chierico fatto a cerbottana, munifico solo nella statura, con una testa piccola e i capelli color carota (non c'è bisogno di aggiungere altro per chi conosce il proverbio); gli occhi così vicini alla collottola da parer corbelli, e così affossati e scuri che sarebbero stati un luogo adatto alle botteghe dei mercanti; il naso, a metà fra mal di Roma e mal francese, poiché glielo avevano mangiato certe bolle da raffreddore, e non certo di vizio, ché questo gli sarebbe costato; la barba, scolorita per paura della vicina bocca, che, dalla gran fame, sembrava minacciare di mangiarsela. Dei denti, gliene mancavano non so quanti, e penso che glieli avevano esiliati per ozio e vagabondaggio. La gola era lunga come quella di uno struzzo, con il gargarozzo così sporgente che, spinto dalla necessità, sembrava volesse andare a cercarsi da mangiare; le braccia, rinsecchite; le mani, come due fasci di sarmenti. Dalla vita in giù, sembrava una forchetta o un compasso, con due gambe lunghe e smagrite. La sua andatura era molto flemmatica; se appena si scomponeva, le ossa gli tintinnavano come le battole di San Lazzaro. L'eloquio era tisico, la barba lunga; non se la tagliava mai per non spendere, e diceva che gli faceva così schifo vedere la mano del barbiere sul proprio viso, che piuttosto di permettere una tale cosa avrebbe preferito farsi uccidere; così, gli tagliava i capelli uno dei ragazzi. Nei giorni di sole portava un berretto rosicchiato, dai mille buchi, e guarnito di grasso; era fatto di un qualcosa che doveva essere stato stoffa, con le estremità ricoperte di forfora. La sottana, dicevano alcuni, era miracolosa, perché non si sapeva di quale

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colore fosse. Taluni, vedendola così spelacchiata, ritenevano fosse di pelle di rana; altri dicevano che era un'illusione: da vicino sembrava nera, e vista da lontano si avvicinava al blu. La portava senza cinta, e non v'erano né colletto né polsini. Con quei capelli lunghi e la sottana misera e corta sembrava il lacchè della morte. Ogni sua scarpa poteva far da tomba a un filisteo. Quanto alla sua stanza, non c'erano neppure i ragni. Faceva scongiuri contro i topi per paura che gli rosicchiassero alcune briciole che aveva conservato. Il letto stava per terra e lui dormiva sempre da una parte per non consumare le lenzuola. Insomma, era arcipovero e protomisero. In balìa di costui caddi, dunque, e in sua balìa rimasi con don Diego; la sera del nostro arrivo ci indicò la stanza e ci fece una breve predica, che per non sprecare nemmeno il tempo durò poco; ci disse insomma quel che dovevamo fare. Questo ci tenne occupati fino all'ora di cena. Poi andammo di là. Prima mangiavano i padroni, e noi domestici servivamo. Il refettorio era poco più di uno sgabuzzino, e vi si potevano sedere a uno stesso tavolo fino a cinque cavalieri. Per prima cosa guardai dove fossero i gatti e, poiché non ne vedevo, domandai come mai non ce ne fossero a un servitore più anziano, la cui magrezza faceva da emblema alla pensione. Questi cominciò a intenerirsi, e disse: «Che gatti? Chi mai vi ha detto che i gatti sono amici di digiuni e penitenze? Da quanto siete grasso, si vede proprio che siete appena arrivato». Sentite queste parole cominciai a tormentarmi; e ancor più mi spaventai quando mi resi conto che quanti vivevano già nella pensione da tempo erano ridotti a lesine, con dei volti tali che sembrava si facessero la barba con i cerotti. Il dottor Cabra si sedette e impartì la benedizione. Mangiarono un pasto eterno, senza inizio né fine. In alcune ciotoline di legno portarono del brodo così chiaro che nel sorbirlo Narciso avrebbe corso più pericoli che alla fonte. Notai l'ansia con cui le dita macilente si gettarono a nuoto inseguendo un cece orfano e solingo rimasto sul fondo. Diceva Cabra a ogni sorsata: «Certo che non c'è nulla di meglio del minestrone, dicano pure quel che vogliono. Tutto il resto è vizio e

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gola». Dette queste parole, vuotò d'un fiato la sua ciotola, ribadendo: «Tutto questo è salute, e fa bene allo spirito». Uno spiritaccio ti porti, stavo dicendo fra me e me, quando vidi, con un piatto di carne in mano, un servetto mezzo invasato e così magro che sembrava l'avesse staccata dal suo stesso corpo. Girava per la tavola un navone avventuriero, e il maestro disse, vedendolo: «C'è un navone? Per me non c'è pernice che possa uguagliarlo. Mangiate, sono proprio felice di vedervi mangiare». Distribuì a ciascuno un pezzetto di montone così piccolo, che fra quello che gli si attaccò alle unghie e quello che rimase loro fra i denti, penso che si consumò tutto, lasciando senza comunione le pance dei fedeli. Cabra li guardava e diceva: «Mangiate, che siete ragazzi e sono felice di vedere che avete appetito». Noti Vossignoria che condimento per chi aveva i crampi dalla fame! Finirono di mangiare e rimasero alcune briciole sul tavolo e, nel piatto, due pezzetti di pelle e qualche osso; disse allora il tutore: «Che questo rimanga per i servitori; anch'essi devono mangiare; non pretendiamo di avere tutto». Che Dio fulmini te e quel che hai mangiato, disgraziato - dicevo io -, dopo l'offesa patita dalla mia pancia! Lui impartì la benedizione e disse: «Via, lasciamo il posto ai servitori. Andate a fare esercizi sino alle due, non sia mai che quel che avete mangiato vi faccia male». A quel punto non potei più trattenermi e risi a bocca spalancata. S'indignò molto, mi disse che imparassi a essere modesto, e altre tre o quattro vecchie sentenze, poi se ne andò via. Noi ci sedemmo, e io, vedendo la mala parata e sentendo che la mia pancia invocava giustizia, essendo più sano e più forte degli altri mi gettai sul piatto, come del resto fecero tutti; io, però, di tre briciole me ne misi in bocca due, e in più uno dei pezzetti di pelle. Gli altri cominciarono a lamentarsi; sentendoli rumoreggiare Cabra entrò e disse: «Mangiate come fratelli, visto che Dio ve lo consente. Non litigate, ce n'è per tutti». Se ne tornò al sole e ci lasciò lì.

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Certifico a Vossignoria che vidi uno di loro, il più magro, un biscaglino di nome Jurre, così dimentico di come e da che parte si mangiava da sollevare due volte agli occhi una crosticina che gli era toccata, e alla terza ancora non riusciva a condurre le mani alla bocca. Io chiesi di bere - gli altri, essendo quasi a digiuno, non lo facevano - e mi dettero un bicchier d'acqua, ma non feci a tempo a portarlo alla bocca che, nemmeno fosse l'acqua santa, quello stesso servetto invasato me lo tolse di mano. Mi alzai con un grande sconforto, vedendo che mi trovavo in una casa dove si brindava alla pancia ed essa non poteva rispondere. Benché non avessi mangiato, mi venne voglia di liberarmi, voglio dire di fare i miei bisogni, e domandai a un anziano della latrina; ma questi mi disse: «Siccome non ce n'è bisogno, non ve ne sono. Per una volta che la farete, fintantoché sarete qui, qualunque posto andrà bene; io sono qui da due mesi e l'ho fatta una volta sola, il giorno che sono entrato, proprio come voi, liberandomi di quel che avevo mangiato a cena, a casa mia, la sera prima». Come potrò esprimere la mia tristezza e la mia pena? Fu tale che, considerando il poco che doveva entrare nel mio corpo, non osai, benché ne avessi voglia, sottrargli nulla. Conversammo fino a sera. Don Diego mi domandava cosa avrebbe dovuto fare per persuadere la pancia che aveva mangiato, poiché questa non voleva crederlo. In quella casa i deliqui erano frequenti come in altre le indigestioni. Venne l'ora di cena (la merenda era passata in bianco); mangiammo molto meno, e non più castrato, ma un po' del nome del maestro: capra arrosto. Veda Vossignoria se non è il diavolo a inventare certe cose. «Fa bene alla salute», diceva questi, «cenare poco, per tenere lo stomaco sgombro», e citava una sfilza di medici infernali. Tesseva le lodi della dieta, e diceva che l'uomo così si risparmiava gli incubi, ben sapendo che a casa sua l'unica cosa che potevano sognare era di mangiare. Cenarono e cenammo tutti, e alla fine non cenò nessuno. Ce ne andammo a letto, ma per tutta la notte né don Diego né io potemmo dormire; lui pensava di lagnarsi con suo padre e di chiedergli che lo tirasse fuori di lì, e io gli consigliavo di farlo, anche se alla fine gli dissi: «Ma signore, siete sicuro del fatto che siamo vivi? Poiché io penso che durante la rissa con le fruttivendole ci hanno uccisi, e ora siamo anime del purgatorio. È

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inutile sperare che Vostro padre possa tirarci fuori di qui, se nessuno sgrana un rosario in nostro suffragio o non ci libera dalle pene con qualche messa detta da un pulpito autorevole». Dopo che avemmo conversato, e dormito anche un poco, giunse l'ora di alzarsi. Suonarono le sei e Cabra ci chiamò per la lezione; andammo tutti a sentirla. La mia schiena e i miei fianchi già nuotavano nel giubbotto, e le gambe avrebbero dovuto essere rivestite da altre sette paia di calze.Esibivo denti gialli, ricoperti di tartaro, vestiti di disperazione. Mi ordinarono di spiegare agli altri il nominativo, ma avevo un tale appetito che mi sfamai con la metà delle parole, mangiandomele. Crederà a tutto questo chi sappia quello che mi raccontò il servitore di Cabra: era arrivato da poco, quando aveva visto portare in casa due enormi cavalli, che dopo due giorni ne erano usciti tanto leggeri da volare; aveva visto portare dei pesanti mastini e dopo tre ore dalla casa erano usciti dei levrieri da corsa; infine, una Quaresima, aveva incontrato molte persone che mettevano chi i piedi, chi le mani, chi tutto il corpo nell'androne della casa, e tutto ciò per parecchio tempo; molta gente veniva da fuori solo per questo; e quando un giorno aveva chiesto a uno cosa mai succedesse - poiché Cabra si era seccato di sentirselo domandare -, questi gli aveva risposto che alcuni avevano la rogna e altri i geloni, ma che portandoli in quella casa morivano di fame, e il dolore cessava così di mangiarseli vivi. Mi giurò che era la verità, e io, conoscendo la casa, ci credo. Lo dico solo affinché non sembri un'esagerazione quanto ho riferito finora. Tornando alla lezione, Cabra la fece e noi la imparammo a memoria, e continuò il modo di vivere che ho raccontato. Al pranzo aggiunse solo un po' di lardo nel minestrone, per via di un qualcosa che gli dissero fuori, un giorno, sui suoi antenati. E così, possedendo una cassetta di ferro, tutta bucherellata, che faceva da spolverino, la apriva, vi metteva dentro un pezzo di lardo fino a riempirla, la richiudeva e la appendeva con una cordicella al di sopra della pentola, in modo che dai forellini uscisse un po' di essenza e il lardo potesse essere riutilizzato in altra occasione. Gli sembrò poi tuttavia che, così facendo, si spendeva molto, e finì per far solo affacciare il lardo alla pentola.

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Con tutte queste cose ce la passammo com'è facile immaginare. Don Diego e io ci vedemmo così ridotti al lumicino che, non avendo trovato dopo un mese una soluzione al problema del cibo, cercammo il modo per non alzarci la mattina; e così, decidemmo di accusare un qualche dolore. Non osammo parlare di febbre, perché, non avendola, sarebbe stato facile scoprire la menzogna; mal di testa e mal di denti, poi, erano disturbi di poco conto. Dicemmo infine che ci faceva male la pancia e che eravamo indisposti per non essere andati di corpo da tre giorni, sicuri del fatto che, pur di non spendere due centesimi in un clistere, Cabra non ci avrebbe dato alcuna medicina. Ma il diavolo la pensò diversamente, poiché Cabra aveva una ricetta, ereditata dal padre, speziale, e saputo di che male soffrivamo, preparò subito un lassativo. Fece poi chiamare una vecchia di settant'anni, zia sua, che gli faceva da infermiera, e le disse di farcene un clistere ciascuno. Cominciarono con don Diego; lo sventurato si agitò, e la vecchia, invece di mandarglielo dentro, glielo sparò fra la camicia e le reni, fino al collo, sicché ciò che avrebbe dovuto essere fodera interna finì per servire da guarnizione esterna. Il ragazzo si mise a urlare. Venne Cabra, e, vedendolo, disse che mi facessero l'altro, e che dopo si occupassero nuovamente di don Diego. Io feci resistenza, ma non servì a nulla, poiché, trattenuto da Cabra e da altri, ne fui inondato, anche se lo spruzzai poi a mia volta in faccia alla vecchia. Cabra se la prese con me, e disse che m'avrebbe buttato fuori da casa sua, perché si vedeva chiaramente che era tutta una furfanteria. Io pregavo Iddio che si indignasse tanto da cacciarmi, ma la mia cattiva sorte non lo volle. Noi ci lamentavamo con don Alonso, e Cabra gli faceva credere che lo facevamo per non andare a lezione. Perciò le nostre preghiere non sortirono alcun effetto. Cabra prese in casa la vecchia come governante, perché cucinasse e servisse gli alunni, e mandò via il servitore, avendogli trovato, un venerdì mattina, alcune briciole di pane sul giubbetto. Quel che passammo con la vecchia Dio solo lo sa. Era così sorda da non sentire niente; capiva solo i gesti; era quasi cieca, e diceva così tante preghiere che un giorno le si sfilò il rosario sopra la pentola e ce la portò in tavola con il brodo più devoto che abbia mai mangiato. Alcuni dicevano: «Ceci neri. Di sicuro vengono dall'Etiopia». Altri dicevano: «Ceci

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a lutto. Chi sarà morto?». Il mio padrone fu il primo a mettersene in bocca uno, e masticandolo gli si spezzò un dente. Di venerdì la vecchia soleva servirci delle uova con tanta barba, a forza di peli e capelli bianchi suoi, che avrebbero potuto aspirare a fare il magistrato o l'avvocato. Usare la paletta al posto del mestolo e passarci una scodella di brodo piena di pietruzze era cosa normale. Quante volte ho trovato nella pentola scarafaggi, stecchi e stoppa di quella che lei filava; ci metteva tutta questa roba, affinché facesse atto di presenza nelle pance e le gonfiasse. Sopportammo tutti questi travagli fino alla Quaresima, all'inizio della quale un nostro compagno si ammalò. Cabra, per non spendere, esitò a chiamare il medico fino a quando il ragazzo chiedeva ormai solo di confessarsi. Chiamò allora un tirocinante, il quale gli sentì il polso e disse che la fame l'aveva preceduto nell'uccidere quell'uomo. Gli dettero i sacramenti, e il poveraccio, quando li vide - non parlava da un giorno -, disse: «Signore mio Gesù Cristo, c'è voluto di vedervi entrare in questa casa per convincermi che non è questo l'inferno». Tali parole mi si impressero nel cuore. Il povero ragazzo morì; noi lo seppellimmo assai poveramente giacché era straniero, e rimanemmo tutti impauriti. La terribile notizia si sparse in città e arrivò alle orecchie di don Alonso Coronel che, avendo un unico figlio, si rese conto alfine degli imbrogli di Cabra e cominciò a dare maggior credito alle parole di quelle due ombre, ché a tanto eravamo ormai ridotti. Quando venne a toglierci dalla pensione, pur avendoci davanti agli occhi domandava di noi; ci vide insomma in uno stato tale, che senza indugiare oltre e trattando a maleparole il dottor Vigilia, ci fece condurre a casa su due portantine. Ci accomiatammo dai nostri compagni, che ci seguivano con il desiderio e con gli occhi, dolendosi come colui che resta ad Algeri e vede riscattati dalla Trinità i suoi compagni.

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CAPITOLO QUARTO Della convalescenza e degli studi ad Alcalá de Henares Entrammo in casa di don Alonso, e ci poggiarono su due letti con ogni cura, affinché non ci si sgretolassero le ossa, rose com'erano dalla fame. Portarono degli esploratori per sorvolare le nostre facce e trovare gli occhi, e su di me, visto che le mie pene erano state maggiori e la fame smisurata - in fin dei conti mi trattavano da domestico -, per un bel po' non riuscirono a trovarli. Chiamarono dei medici, che ordinarono di pulirci la polvere dalla bocca con delle code di volpi, come si fa con i quadri, e lo eravamo davvero: quadri di dolore. Ci prescrissero poi cibi sostanziosi e brodo di pollo. Chi potrà mai raccontare quali luminarie di gioia accesero le nostre pance al primo latte di mandorle e al primo pollo? Tutto era una novità. I dottori ordinarono che per nove giorni nessuno parlasse ad alta voce nella nostra camera, perché negli stomaci ancora vuoti risuonava l'eco di qualunque parola. Grazie a queste e altre precauzioni cominciammo a rimetterci e a riprender fiato, ma non potevamo spalancare le mascelle, che erano magre e rattrappite; così, fu dato ordine che ogni giorno ce le rimettessero in forma col pestello del mortaio. Dopo quaranta giorni ci alzammo a muovere i primi passi, ma sembravamo ancora le ombre di altri uomini e, per quanto eravamo gialli e secchi, semenza di eremiti. Passavamo tutto il giorno a ringraziare Iddio per averci liberato dalla prigionia del terribile Cabra e pregavamo il Signore affinché nessun cristiano finisse nelle sue mani crudeli. Se per caso, mangiando, ci sovveniva delle tavolate del perfido tutore, la fame ci cresceva tanto che quel giorno le spese lievitavano. Raccontavamo a don Alonso di come, sedendosi a tavola, deprecava i peccati di gola, pur non avendoli conosciuti in vita sua. Lo facevamo ridere come un matto quando gli dicevamo che nel comandamento che recita «non uccidere» Cabra includeva pernici e capponi, galline e tutte quelle cose che non voleva darci, e, di conseguenza, la fame, perché sembrava che considerasse peccato ammazzarla, e perfino ferirla, tanto ci faceva sospirare il cibo.

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Trascorsero tre mesi; alla fine don Alonso disse che era sua intenzione mandare suo figlio ad Alcalá, affinché portasse a termine gli studi di grammatica. Mi domandò se volevo andare, e io, che non desideravo altro se non di allontanarmi da una terra dove si sentisse anche solo il nome di quel malvagio persecutore di stomaci, mi offersi di servire suo figlio con devozione. Così, gli diede un servitore come maggiordomo, che rigovernasse la casa e tenesse i conti del denaro da spendere; questo, ce lo rimetteva in cambiali per un tale che si chiamava Julián Merluza. Il bagaglio lo stipammo sul carro di un certo Diego Monje; si trattava di un lettino piccolo, di un altro a cinghie su ruote (per metterlo sotto il mio e quello del maggiordomo, che si chiamava Baranda), cinque materassi, otto lenzuola, otto cuscini, quattro tappeti, un baule di biancheria e tutte le altre chincaglierie tenute in casa. Noi salimmo su una carrozza, partimmo di sera, un'ora prima dell'imbrunire, e arrivammo a mezzanotte, o poco più tardi, alla sempre maledetta osteria di Viveros. L'oste era un moro convertito e ladro, né mai in vita mia ho visto cane e gatto convivere in pace come quel giorno. Ci fecero una gran festa, e poiché lui e i garzoni del carrettiere - che era arrivato prima con i bagagli, mentre noi avanzavamo più lentamente - erano in combutta, si issò sulla carrozza, mi dette la mano affinché potessi scendere dal predellino, e mi chiese se andavo a studiare. Io gli risposi di sì. Mi portò dentro, dove c'erano due ruffiani con alcune donnine, un prete che, in agguato, fingeva di pregare, un mercante vecchio e avaro che cercava di dimenticarsi di cenare, e due studenti sfacciati, di quelli dal mantellino, in cerca di stratagemmi per ingozzarsi. Il mio padrone, essendo l'ultimo arrivato all'osteria e il più giovane di tutti, disse: «Signor oste, mi dia quel che c'è per me e i miei servitori». «Siamo tutti servitori di Vossignoria», dissero all'unisono i due ruffiani, «e La serviremo. Forza, oste, guardi che questo signore Le mostrerà gratitudine per quel che farà. Vuoti dunque la dispensa». E, nel dire questo, uno di loro si avvicinò a don Diego, gli tolse il mantello e lo mise su di un banco dicendogli: «Si riposi Vossignoria». Io a quel punto ero tutto esaltato e mi sentivo il padrone dell'osteria. Disse una delle ninfe: «Che bel cavaliere!

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E va a studiare? Vossignoria è il suo servitore?». Io risposi, credendo che fosse proprio come dicevano, che eravamo appunto l'un cavaliere e l'altro servitore. Mi chiesero il suo nome e feci appena in tempo a dirlo che uno degli studenti gli si avvicinò in lacrime e dandogli un fortissimo abbraccio disse: «Oh, signor mio don Diego, chi me l'avrebbe detto, dieci anni or sono, che avrei rivisto Vossignoria in questo modo? Misero me, ridotto in uno stato tale che Vossignoria non mi riconoscerà!». Lui rimase a bocca aperta, e anch'io; ambedue avremmo infatti giurato di non averlo mai visto in vita nostra. L'altro compagno guardava in faccia don Diego, e disse all'amico: «Questo è il signore del cui padre m'avete detto tante belle cose? Che gran fortuna abbiamo avuto a conoscerlo, ora che è diventato grande. Dio lo protegga», e cominciò a farsi il segno della croce. Chi avrebbe mai creduto che non fossimo cresciuti insieme? Don Diego si mise a sua disposizione, ma, quando gli domandò il nome, venne fuori l'oste ad apparecchiare, il quale, fiutando l'inganno, disse: «Lasciate stare, adesso. Se ne parlerà dopo cena, altrimenti si fredda tutto». Venne un ruffiano e dispose gli sgabelli per tutti quanti e una sedia per don Diego, mentre l'altro portava un piatto. Gli studenti dissero: «Ceni Vossignoria, ché, mentre ci preparano quel che c'è, noi La serviremo». «Gesù», disse don Diego, «lorsignori siedano, se son serviti». A questo risposero i ruffiani, benché egli non avesse parlato a loro: «Più tardi, signor mio, ancora non è tutto pronto». Io, quando vidi gli uni invitati e gli altri che si autoinvitavano, mi impensierii e temetti quel che sarebbe poi successo. Perché gli studenti presero l'insalata, che era un piatto abbondante, e, guardando il mio padrone, dissero: «Non è il caso che dove si trova un cavaliere così illustre, queste dame rimangano senza mangiare; ordini Vossignoria di far preparare loro qualcosa». Lui, facendo il galante, le invitò. Sedettero, e fra loro e i due studenti in quattro bocconi non lasciarono che un torsolo, che si mangiò don Diego. E, dandoglielo, quel maledetto studente gli disse: «Vossignoria aveva un nonno, zio di mio padre, che sveniva non appena vedeva una lattuga; che uomo ammodo!». Dicendo questo, diede sepoltura a un panino, mentre l'altro ne faceva sparire un secondo. E le ninfe? Avevano già finito una pagnotta,

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ma quello che più mangiava era il prete, anche se solo con gli occhi. I ruffiani si sedettero con mezzo capretto arrosto, due fette di lardo e un paio di piccioni bolliti, e dissero: «E allora, padre, se ne rimane lì? Venga da noi e favorisca, ché il signor mio don Diego offre a tutti». Non avevano finito di dirlo, che quello s'era già seduto. Quando il mio padrone vide che l'avevano incastrato, cominciò a preoccuparsi. Si divisero tutto, e a don Diego diedero non so che ossa e alucce; il resto lo trangugiarono il prete e gli altri. Dicevano i ruffiani: «Non mangi troppo, signore, o Le farà male»; e ribadiva lo studente maledetto: «Inoltre, bisogna abituarsi a mangiar poco, se si vuole vivere ad Alcalá». Io e l'altro servitore pregavamo intanto Iddio che li ispirasse a lasciarci qualcosa. E quando ebbero mangiato tutto, e il prete si stava ripassando gli ossi degli altri, tornò uno dei ruffiani e disse: «Oh, peccatore che non son altro, non abbiamo lasciato nulla ai servitori. Vengano qui lorsignori. Signor oste, dia loro tutto quel che c'è, ecco qui un doblone». Subito saltò su lo scomunicato parente del mio padrone - voglio dire lo studente - e disse: «Vossignoria mi perdoni, ma deve sapere poco di cortesia. Non ha avuto forse la fortuna di conoscere il mio signor cugino? Lui darà ai suoi servitori, e darebbe perfino ai nostri se ne avessimo, come ha dato a noi». E rivolgendosi a don Diego, che era rimasto allibito, aggiunse: «Non si indigni Vossignoria, ma non La conoscevano». Quando vidi tutto quel simulare, gli mandai tante di quelle maledizioni che pensavo di non smettere più. Sparecchiarono, poi tutti dissero a don Diego di andare a coricarsi. Lui voleva pagare la cena, ma gli risposero di no, e che si sarebbe potuto fare il mattino seguente. Rimasero per un po' a conversare; lui chiese il nome dello studente, e questi gli disse che si chiamava Coronel (che il diavolo se lo porti, ovunque si trovi). Vide l'avaro che dormiva e disse: «Vossignoria vuole divertirsi? Allora facciamo uno scherzo a questo vecchiaccio, che per tutta la strada non ha mangiato che una pera, pur essendo ricchissimo». I ruffiani dissero: «Ha ragione il dottore; lo faccia, è giusto». Detto questo, si avvicinò al povero vecchio che dormiva e gli sottrasse da sotto i piedi una bisaccia;

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apertala, vi trovò una cassetta e, come se fosse scoppiata la guerra, fece un'adunata. Arrivarono tutti e, aprendo la cassetta, videro che era piena di zuccherini. Lui li estrasse tutti e al loro posto mise pietre, bastoncini e tutto quel che poté trovare; poi vi fece di corpo sopra e coprì tutto quel sudiciume con una dozzina di calcinacci. Chiuse la cassetta e disse: «Ma ancora non basta, il vecchio ha anche un otre». Ne spillò il vino e, fatto a pezzi un cuscino della nostra carrozza, dopo aver versato un poco di vino sul fondo dell'otre, lo riempì di lana e stoppa e lo richiuse. Fatto ciò, tutti andarono a coricarsi per un'ora o un'ora e mezzo, quel poco, insomma, che rimaneva da dormire; lo studente rimise tutto nella bisaccia e pose una gran pietra nel cappuccio del mantello, andandosene poi a dormire a sua volta. Venne l'ora di ripartire. Si svegliarono tutti, ma il vecchio continuava a dormire. Allora lo chiamarono, e, alzandosi, non riuscì a sollevare il cappuccio del mantello. Guardò cosa mai vi fosse, mentre l'oste per di più lo sgridava dicendo: «Perdio, non ha trovato nient'altro da portarsi via che questa pietra? Che gliene sembra a lorsignori? E se non l'avessi visto, eh? È una cosa che stimo più di cento ducati, perché combatte il mal di stomaco». Lui giurò e spergiurò, dicendo che non ce l'aveva certo messa lui quella pietra nel cappuccio. I ruffiani fecero il conto, e la cena ammontò a sessanta reali; nemmeno Juan de Leganés, tuttavia, avrebbe capito che conto facessero. Dicevano gli studenti: «Con questa spesa Vossignoria ci ha già ricompensato per i servigi che Le renderemo ad Alcalá». Mangiammo un boccone; il vecchio prese la sua bisaccia e, per non farci vedere cosa ne estraeva e non doverlo quindi spartire con nessuno, la aprì al buio sotto il mantello; afferrò un calcinaccio tutto impiastricciato, se lo gettò in bocca conficcandovi un molare e un mezzo dente che gli restavano, e poco mancò che li perdesse. Prese a sputare e a fare gesti di schifo e di dolore; corremmo tutti da lui, e per primo il prete, che gli chiese cosa avesse. Quello cominciò a offrire l'anima al diavolo e fece cadere la bisaccia. Lo studente allora gli si avvicinò e gli disse: «Vade retro, Satana, ecco la croce»; un altro aprì un breviario e gli fecero credere che era indemoniato, finché lui stesso lo ammise e chiese che gli facessero sciacquare

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la bocca con un po' di vino, visto che ne aveva un otre. Glielo permisero; lui lo tirò fuori, lo aprì, ma poi, versando qualche goccia in un bicchiere, a forza di lana e stoppa ne uscì un vino selvatico, così barbuto e velloso che non lo si poteva bere né colare. Allora il vecchio finì per perdere la pazienza, ma, vedendo le scomposte sghignazzate di tutti quanti, preferì tacere e salire in carrozza con i ruffiani e le donne. Gli studenti e il prete si issarono su un somaro, e noi salimmo in carrozza a nostra volta; ma non aveva neanche cominciato a muoversi, quando gli uni e gli altri cominciarono a darci la baia, dichiarando la burla. Diceva l'oste: «Signor novellino, qualche altro debutto di questo genere e vedrà come invecchierà presto». Il prete diceva: «Sono un sacerdote, nell'aldilà in cambio ne avrà di messe». Lo studente maledetto vociava: «Signor cugino, la prossima volta Vossignoria si gratti quando Le rode e non dopo». E l'altro diceva: «Rognoso d'un signor don Diego». Noi fingemmo di non farci caso; Dio solo sa quanto eravamo indignati. Fra una cosa e l'altra, giungemmo in città alle nove; scendemmo in un albergo e per tutta la giornata continuammo a fare il conto della cena precedente, senza mai riuscire a chiarire come si fosse arrivati a quella somma.

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CAPITOLO QUINTO Dell'entrata ad Alcalá, della matricola e delle burle che subii come novellino Prima del crepuscolo uscimmo dalla locanda per andare alla casa che avevamo preso in affitto, e che si trovava fuori dalla porta di Santiago, quartiere di studenti dove molti vivono insieme, anche se in questa casa eravamo non più di tre. Il padrone e locandiere era di quelli che credono in Dio per cortesia o ipocrisia; il popolo li chiama mori battezzati, e di questa gente c'è grande abbondanza, così come di quella che ha il naso tanto grande che le manca solo per sentire l'odore del lardo, e dico questo riconoscendo quanta nobiltà c'è fra la gente illustre, che è certo numerosa. Il locandiere mi ricevette dunque facendo una faccia come se fossi stato il Santissimo Sacramento. Non so se lo fece perché cominciassimo a portargli rispetto, o perché è questo il loro carattere; non è poi tanto strano che abbia una cattiva indole chi non segue la giusta legge. Deponemmo il nostro bagaglio, preparammo i letti e tutto il resto e per quella notte dormimmo. Spuntò il sole, ed eccoli qui tutti gli studenti della pensione in camicia da notte a chiedere la matricola al mio padrone. Lui, che non sapeva cosa fosse, mi chiese che cosa volevano, e intanto io, in vista di quel che poteva accadere, mi nascosi fra due materassi tenendo fuori solo mezza testa, tanto che sembravo una tartaruga. Gli chiesero due dozzine di reali; furono accontentati, e cominciarono subito a fare un baccano d'inferno, dicendo: «Viva il compagno, e sia ammesso alla nostra amicizia. Che possa godere dei privilegi degli anziani. Possa avere la rogna, girare tutto macchiato e patire la fame come tutti noi». E, detto questo - veda Vossignoria che privilegi -, volarono giù per le scale; noialtri ci vestimmo subito e ci incamminammo per andare a scuola. Al mio padrone fecero da padrini alcuni collegiali conoscenti di suo padre, e così entrò nella loro aula; ma io, che dovevo entrare in un'altra ed ero solo, cominciai a tremare. Entrai nel cortile, anzi, non ci avevo ancora messo

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piede quando mi vennero incontro e cominciarono a dire: «Novellino!». Io per far finta di niente proruppi in una risata, come se non ci avessi fatto caso; ma non bastò perché, avvicinatisi a me in otto o nove, cominciarono a deridermi. Io divenni rosso; non lo avessi mai fatto; immediatamente, uno che mi stava accanto si mise le mani davanti al naso e, allontanandosi, disse: «Questo Lazzaro sta per resuscitare, da quanto puzza». Tutti allora si allontanarono turandosi il naso. Io, che pensavo di scappare, misi le mani allo stesso modo e dissi: «Lorsignori hanno ragione, ha proprio un cattivo odore». Li feci ridere, ma intanto, a forza di allontanarsi, erano divenuti un centinaio. Cominciarono a raschiarsi la gola e a dare l'allarme, e fra i colpi di tosse e l'aprirsi e chiudersi delle bocche vidi che mi si preannunciavano degli sputacchi. A quel punto un mancego catarroso mi fece omaggio di uno sputo terribile dicendo: «Ecco quello che faccio!». Io allora, vedendomi perduto, dissi: «Giuro su Dio che ti...». Stavo per dire cosa gli avrei fatto, ma fu tale la batteria e la pioggia di sputi che s'abbatté su di me, che non potei finire la frase. Io avevo il volto coperto dal mantello, ed ero così bianco da essere un ottimo bersaglio; bisognava vederli come prendevano la mira. Ero già coperto di neve dalla testa ai piedi, quando un gaglioffo, vedendo che mi ero coperto e che il mio viso era pulito, corse verso di me dicendo con grande collera: «Basta, non lo uccidete», e io, da come mi trattavano, credevo che l'avrebbero fatto davvero. Mi scoprii il viso per vedere cosa succedeva, e proprio in quel momento quello che aveva gridato mi conficcò uno sputo negli occhi. Si consideri qui la mia angoscia. Quella gente infernale faceva un baccano tale da stordirmi, e io, stando a quanto avevano versato su di me i loro stomaci, pensai che per risparmiare medici e droghe aspettavano i novellini per purgarsi. Dopo volevano prendermi a scappellotti, però non v'era luogo dove potessero colpirmi senza imbrattarsi le mani con il sudiciume del mio mantello nero, ormai bianco in remissione dei miei peccati. Mi lasciarono andare, ma, coperto com'ero di saliva, ero ridotto come la sputacchiera di un vecchio. Me ne andai a casa, e quasi non riuscivo a trovarla; fortuna fu che era mattina e incontrai solo due o tre ragazzi, che dovevano essere bendisposti, perché non mi tirarono che qualche straccetto e poi mi lasciarono in pace.

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Entrai in casa e il moro battezzato, non appena mi vide, cominciò a ridere e a fingere di volermi sputare addosso. Io, che temevo lo facesse davvero, dissi: «Fermo, signor locandiere, non sono mica un Ecce Homo». Non l'avessi mai detto; mi arrivarono infatti sulle spalle due libbre di mazzate inferte con certi pesi che aveva. Con questa gratifica, mezzo distrutto, salii di sopra; e per cercare un punto da dove afferrare la sottana e il mantello per sfilarmeli impiegai parecchio tempo. Alla fine, me li tolsi e mi buttai sul letto, dopo averli appesi in terrazzo. Venne il mio padrone e, siccome mi trovò a letto e non sapeva della schifosa avventura, si arrabbiò e cominciò a strapparmi i capelli con tanto furore che poco mancò mi risvegliassi calvo. Mi alzai urlando e lamentandomi, e lui, ancor più in collera, disse: «È forse questo il modo di servirmi, Pablos? Questa è ben altra vita!». Quando gli sentii dire «altra vita», credetti di essere già morto e dissi: «Vossignoria mi dà proprio coraggio nei miei travagli. Veda in che condizioni sono quella sottana e quel mantello, che son serviti da fazzoletto ai nasi più possenti che abbia mai visto in processione; e poi veda le mie costole». Dicendo questo, ruppi in un pianto dirotto. Vedendomi piangere mi credette, e, dopo aver cercato la sottana e averla vista, mi compatì e disse: «Pablos, apri gli occhi e statti accorto. Abbi cura di te, ché qui non hai padre né madre». Gli raccontai tutto quello che m'era successo; lui ordinò che mi spogliassero e mi portassero nella mia stanza, dove dormivano altri quattro servitori degli ospiti della casa. Andai a letto e dormii; la sera, dopo aver cenato bene, avevo recuperato le mie forze come se nulla mi fosse mai accaduto. Ma quando uno comincia con le disgrazie, sembra che non finiscano mai, poiché vanno incatenate e l'una se ne porta dietro sempre un'altra. Vennero a dormire gli altri quattro servitori; mi salutarono tutti e mi chiesero se mi sentivo male e come mai mi trovavo a letto. Io raccontai loro la faccenda, e improvvisamente, come se in loro non vi fosse nessun pensiero maligno, cominciarono a farsi il segno della croce dicendo: «Questo non succederebbe nemmeno fra luterani. Può mai esistere tanta cattiveria?». Un altro diceva: «La colpa è del rettore che non vi pone rimedio. Sapresti riconoscerli?». Io risposi di no, e li ringraziai per la loro

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gentilezza. Poi finirono di spogliarsi, si coricarono, spensero la luce; a me sembrava di trovarmi con mio padre e con i miei fratelli e mi addormentai. Doveva essere mezzanotte, quando uno di loro mi svegliò urlando e dicendo: «Aiuto, mi ammazzano. Ladri!». Si sentivano dal suo letto, fra un grido e l'altro, dei colpi di frusta. Io alzai la testa e dissi: «Ma che succede?». L'avevo appena scoperta, quando con un gatto a nove code mi diedero una gran frustata sulla schiena. Cominciai a lamentarmi e volevo tirarmi su; anche l'altro si lamentava, ma colpivano solo me. Riuscii solo a dire: «Per la giustizia divina!», ma le frustate si abbattevano su di me con tale intensità da non lasciarmi altra scelta - visto che le coperte me le avevano tirate giù - che di nascondermi sotto il letto. Lo feci e subito i tre che dormivano cominciarono a gridare anch'essi. E siccome sentivo i colpi di frusta, credetti che qualcuno da fuori ci stesse percuotendo tutti. Nel frattempo, quel maledetto che stava vicino a me passò sul mio letto, vi fece di corpo e coprì il tutto. Non appena se ne fu tornato nel suo letto, le frustate cessarono e tutti e quattro si alzarono gridando: «È una gran mascalzonata, ma non finirà certo così». Io me ne stavo ancora sotto il letto, lamentandomi come un cane bastonato, così incurvato, anzi, da sembrare un levriero con i crampi. Gli altri finsero di chiudere la porta, e io allora uscii da dove stavo e risalii sul mio letto, domandando loro se si erano fatti male. Tutti si lamentavano da morire. Andai a letto, mi coprii e ripresi a dormire; e siccome nel sonno devo essermi rivoltato, quando mi svegliai mi ritrovai sporco fino ai capelli. Si alzarono tutti, e io non mi vestii con la scusa delle frustate. Nemmeno un diavolo avrebbe avuto il potere di smuovermi. Ero confuso, e mi chiedevo se la paura e il turbamento, senza che me ne accorgessi, avessero potuto farmi fare quella bassezza, o se magari ciò fosse avvenuto nel sonno. Alla fine, mi ritrovavo a un tempo innocente e colpevole, ma non sapevo come discolparmi. I compagni mi si avvicinarono, lamentandosi con grande

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dissimulazione, e mi chiesero come stavo; io dissi loro che stavo proprio male, perché m'avevano dato molte frustate. Domandai loro cosa potesse essere stato, ed essi risposero: «State tranquillo che non ci sfuggirà: ce lo dirà l'astrologo. Ma questo ora non importa, vediamo se siete ferito, visto che vi lamentavate tanto». E, nel dire questo, stavano per togliermi le lenzuola con l'intenzione di svergognarmi. Proprio in quel momento entrò il mio padrone dicendo: «È mai possibile, Pablos, che con te io non riesca a spuntarla? Sono le otto e sei ancora a letto? Alzati, perdinci!». Gli altri, per rassicurarmi, raccontarono a don Diego tutta la faccenda, e gli chiesero di lasciarmi dormire. Uno diceva: «Se poi Vossignoria non ci crede, ecco, alzati, amico», e mi tirava il lenzuolo. Io lo tenevo stretto fra i denti per non mostrare la cacca. E quando videro che in quel modo non ci riuscivano, uno disse: «Perdio, e che puzza!». Don Diego disse la stessa cosa, perché era vero, e poi, dopo di lui, tutti cominciarono a guardare se nella stanza c'erano dei pitali. Dicevano che non ci si resisteva. Uno disse: «È proprio l'ideale per chi deve studiare!». Controllarono i letti, li spostarono per guardar sotto, e dissero: «Senz'altro sotto quello di Pablos deve esserci qualcosa: spostiamolo in uno dei nostri, e guardiamoci sotto». Io, che ormai avevo perso la speranza, vedendo che stavano per agguantarmi finsi un attacco epilettico: mi aggrappai alle sbarre del letto, feci smorfie... Loro, che conoscevano il mistero, mi agguantarono ugualmente dicendo: «Che gran pena». Don Diego mi tirò il dito medio e alla fine, in cinque, riuscirono a sollevarmi. E quando alzarono le lenzuola, furono tali le risate di tutti, vedendo quei panini divenuti ormai pagnotte, che per poco non veniva giù tutta la stanza. «Poveretto», dicevano i gaglioffi (io fingevo di essere svenuto); «Vossignoria gli tiri il medio con forza». E il mio padrone, pensando di farmi del bene, tirò tanto da slogarmelo. Gli altri cercarono di torcermi le cosce, e dicevano: «Il poveretto si è sicuramente sporcato quando gli è venuto l'attacco». Chi può dire quel che succedeva dentro di me, fra la vergogna, il dito slogato e la paura della torsione! Alla fine, per timore che lo facessero davvero - già m'avevano

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messo le corde alle cosce -, finsi di rinvenire, e per quanto facessi in fretta, quei gaglioffi erano stati così maliziosi che mi avevano già lasciato il segno di due dita su ciascuna gamba. Mi lasciarono stare dicendo: «Gesù, e come siete magro!». Io piangevo dalla stizza e loro dicevano apposta: «È più importante la Vostra salute che il fatto che Vi siate sporcato. Fate silenzio». E così dicendo mi rimisero a letto, dopo avermi lavato, e se ne andarono. Quando fui solo, non feci altro che pensare che era stato quasi peggio quanto m'era successo ad Alcalá in un solo giorno, che tutto quel che avevo passato con Cabra. A mezzogiorno mi vestii, pulii la sottana come meglio potei, lavandola come una gualdrappa, e attesi il mio padrone che, al suo arrivo, mi domandò come stavo. Mangiarono tutti quelli di casa e anch'io, ma poco e di malavoglia. Dopo, quando ci riunimmo tutti a conversare in corridoio, gli altri servitori, dopo avermi dato la baia, dichiararono la burla. Tutti risero come pazzi, e fu come se il mio affronto ne fosse raddoppiato; io dissi allora fra me e me: «Questo è un avviso, Pablos, all'erta». Mi proposi di dare inizio a una nuova vita, e così, divenuti amici, da allora in avanti tutti noi di casa vivemmo come fratelli, e nelle scuole e nei cortili nessuno mi molestò più.

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CAPITOLO SESTO Della crudeltà della governante e delle birbonate che feci Fai quel che vedi fare, dice il proverbio, e dice bene. A furia di pensarci su, mi decisi a diventare gaglioffo in un mondo di gaglioffi, e anzi ancor più di loro, se mi fosse stato possibile. Non so se ci sono riuscito, ma voglio assicurare a Vossignoria che ci ho messo davvero tutta la buona volontà. Anzitutto, decretai la pena di morte per tutti i maialini che fossero entrati in casa e per i polli della governante che dal cortile fossero passati nella mia camera. Accadde un giorno che entrarono due maiali fra i più graziosi che avessi visto in vita mia. Io stavo giocando con gli altri servitori, sentii i loro grugniti e dissi a uno: «Vai a vedere chi è che grugnisce in casa nostra». Questi andò e disse che erano due porci marrani. A quelle parole mi arrabbiai al punto da uscire di lì urlando che era una gran mascalzonata e una sfacciataggine venire a grugnire in casa d'altri; frattanto, a porte chiuse trapassai il petto di entrambi con la spada, e poi li accoppammo. Affinché non si sentisse il rumore che facevamo, tutti insieme lanciavamo fortissime grida, come se cantassimo, e così ci spirarono fra le mani. Estraemmo le budella, raccogliemmo il sangue, e usando dei sacchi li abbrustolimmo in cortile alla bell'e meglio, dimodoché, quando vennero i padroni, seppur male era già tutto sistemato, eccezion fatta per le budella, con le quali non avevamo ancora finito di preparare gli insaccati. Eppure, non eravamo stati certo lenti, anzi; per non fermarci, vi avevamo lasciato dentro la metà di quel che contenevano. Don Diego e il maggiordomo vennero dunque a sapere della faccenda, e se la presero con me, tanto da obbligare gli altri ospiti - che non si tenevano più dalle risate - a difendermi. Don Diego mi chiedeva cos'avrei mai detto se m'avessero accusato e se le guardie fossero venute ad arrestarmi. Al che risposi che avrei fatto appello alla fame, che è il vero rifugio degli studenti; e che se non mi fosse valso a nulla, avrei detto che, siccome erano entrati in casa nostra come se fosse stata la loro, senza suonare il campanello, avevo

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creduto che fossero nostri. Tutti risero delle mie giustificazioni. Disse poi don Diego: «In fede mia, Pablos, vi siete proprio scafato». Era davvero rimarchevole vedere il mio padrone così tranquillo e religioso, e me così briccone, tanto che l'uno finiva sempre per sottolineare la virtù o il vizio dell'altro. La governante non stava più in sé dalla gioia, perché adesso eravamo in due a congiurare contro la dispensa. Io come dispensiere ero un Giuda, e da allora m'è nata una vera e propria attitudine a far la cresta. Nelle mani della governante la carne non rispettava mai l'ordine retorico, andava anzi sempre dal più verso il meno. Se solo poteva usare carne di capra o di pecora, non ci metteva certo del castrato; e se c'erano degli ossi, non vi sarebbe entrato nulla di magro: in tal modo, faceva dei minestroni tisici tanto erano macilenti, e dei brodi che, se fossero stati solidi, avrebbero assomigliato a una collana di cristalli. Per le feste, tanto per cambiare, e affinché la minestra apparisse più grassa, ci gettava dentro moccoli di candela. In mia presenza diceva: «Signor mio, certo che non c'è servizio pari a quello di Pablicos, benché sia così briccone; Vossignoria se lo tenga stretto, ché, fedele com'è, gli si può perdonare d'essere un po' mascalzoncello; si porta appresso il meglio sulla piazza». Io, di conseguenza, dicevo lo stesso di lei, e così riuscivamo a ingannare tutta la casa. Se si compravano all'ingrosso olio, carbone o lardo, noi ne nascondevamo la metà, e quando ci pareva giunto il momento dicevamo: «Moderino lorsignori le spese, oppure, andando avanti di questo passo, non basteranno le fortune del re. È già finito l'olio (o il carbone), e con quanta rapidità! Vossignoria ordini di comprarne ancora, e bisognerà proprio farne un uso più saggio. Dia i soldi a Pablicos». Me li davano e noi vendevamo loro la metà sottratta, poi, di quel che compravamo, sottraevamo di nuovo una metà; e così facevamo con qualunque cosa. Se talvolta compravo in piazza qualcosa a un dato prezzo fisso, ci mettevamo a litigare apposta. La governante diceva: «Non mi venire a dire, Pablicos, che questi sono due soldi d'insalata». Io fingevo di piangere, gridavo, andavo a lamentarmi col mio signore, e lo inducevo a mandare il maggiordomo a informarsi, in modo da mettere a tacere la governante che si impuntava apposta. Questi andava e

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veniva a sapere il prezzo, e in questo modo rassicuravamo tanto il padrone, quanto il maggiordomo, che ci erano grati, a me per i miei servizi e alla governante per l'impegno che riponeva nel curare i loro interessi. Lo diceva don Diego, assai soddisfatto di me: «Se solo Pablicos fosse virtuoso com'è fidato! Questa è lealtà, eh, che ne pensate?». In questo modo li tenevamo in pugno, succhiandoli come sanguisughe. Io scommetto che Vossignoria si spaventerebbe sapendo quale somma avevamo raggranellato in capo a un anno. Era proprio un bel gruzzolo, e poi non eravamo obbligati a restituirlo, giacché la governante si confessava e faceva la comunione ogni settimana, ma non vidi mai in lei, neppure lontanamente, l'idea di restituire qualcosa o di farsi un qualche scrupolo, benché fosse, come dirò, una santa. Portava sempre al collo un rosario, così grande che sarebbe stato più agevole portare sulle spalle una fascina di legna. Da esso pendevano numerosi mazzetti di immagini, croci e indulgenze. Diceva che ogni notte, su ciascuna di esse, recitava una preghiera per i suoi benefattori. Contava cento e più santi fra i suoi patroni, e in effetti le servivano tutti questi aiuti per sgravarsi dei peccati che commetteva. Andava a dormire in una stanza situata sopra quella del mio padrone, e recitava più preghiere di un cieco. Cominciava con il «Giusto giudice» e terminava con il «Conquibus» - così diceva - e il «Salve Regina». Diceva le orazioni in latino, apposta per fingersi innocente, e in modo tale che tutti ci sbellicavamo dalle risate. Aveva anche altre qualità: era conquistatrice di cuori e dispensatrice di piaceri, vale a dire ruffiana; però si giustificava con me dicendo che era una dote propria della sua casta, così com'era una dote del re di Francia guarire la scrofola. Penserà forse Vossignoria che convivessimo sempre in pace? Ma chi ignora mai che due amici, se ingordi, stando insieme non faranno altro che tentare di ingannarsi a vicenda? Accadde che la governante allevava galline nel cortile, e che io avevo voglia di mangiarmene una. Lei aveva dodici o tredici polli grandicelli, e un giorno, mentre dava loro da mangiare, cominciò a dire: «Pio, pio!», ripetendolo molte volte. Sentendo quel modo di chiamarli, io cominciai a gridare: «Perdio, governante, se aveste ucciso qualcuno o rubato al re, potrei anche tacere, ma quel che avete fatto è troppo, e non posso

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fare a meno di dirlo! Povero me, e povera voi!». Lei, vedendomi dare in smanie così seriamente, si turbò un po' e disse: «Insomma, Pablos, che ho fatto mai? Se mi stai prendendo in giro, smettila di affliggermi». «Altro che prendere in giro, perdinci. Non posso fare a meno di parlarne all'Inquisizione, altrimenti sarò scomunicato». «Inquisizione?», disse lei, e cominciò a tremare. «Perché, ho fatto forse qualcosa contro la fede?». «È questo il peggio», le dissi, «non scherzate con quelli dell'Inquisizione; dite che siete stata una stolta e che ritrattate tutto, ma non negate la bestemmia e l'empietà». Lei, timorosa, disse: «Va bene, Pablos, ma se ritratto, mi castigheranno?». Le risposi: «No, vi assolveranno senz'altro». «Allora ritratto», disse, «ma dimmi tu cosa, perché io non lo so, e stiano in grazia di Dio le anime dei miei defunti». «È mai possibile che non ve ne siate accorta? Non so come dirlo, l'empietà è tale da impaurirmi. Non ricordate che avete detto ai polli "pio, pio" e che Pio è il nome dei papi, vicari di Dio e capi della Chiesa! Altro che peccatuccio!». Lei rimase come morta, e disse: «Pablos, io l'ho detto, ma possa Iddio maledirmi se è stato per malizia; ritratto, certo: vedi se c'è un modo per evitare di accusarmi, perché morirei vedendomi davanti all'Inquisizione». «Se giurate su un altare consacrato che non vi fu malizia, io, così rassicurato, potrò evitare di accusarvi. Sarà però necessario che questi due polli, che hanno mangiato sentendosi chiamare con il santissimo nome dei pontefici, voi me li diate, affinché io possa portarli a un famigliare dell'Inquisizione che li bruci, essendo ormai dannati. E dopo tutto questo, dovrete giurarmi di non perseverare in alcun modo». Lei, contentissima, disse: «E allora prendili subito, Pablos, e domani giurerò». Io, per rassicurarla ulteriormente, le dissi ancora: «Il peggio è, Cipriana» - così si chiamava -, «che io corro un rischio, perché il famigliare mi chiederà se sono stato io, e intanto potrà torturarmi. Portateglieli voi, ché io, perdinci, ho paura». «Pablos», disse, quando sentì le mie parole, «per amor di Dio, abbi pietà di me e portaglieli tu; a te non potrà succedere nulla». Lasciai che mi implorasse, e infine - era quel che volevo - mi decisi, presi i polli, li nascosi nella mia stanza, feci finta di uscire e tornai dicendo:

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«È andata meglio di quanto pensassi. Il famigliare voleva venirmi dietro per vedere la donna, però ve l'ho ingannato e sistemato per benino». Mi diede mille abbracci e mi regalò un altro pollo; io lo portai là dove avevo lasciato i suoi compagni, li feci fare in casseruola da un rosticciere e me li mangiai assieme agli altri servitori. La governante e don Diego vennero poi a sapere dell'inganno, e tutta la casa si divertì molto; la governante si abbatté invece tanto, che per poco non ne moriva. Non fosse stato che le conveniva tacere, poco mancò che per la rabbia parlasse delle mie creste. Essendo in rotta con la governante, e non potendomene più burlare, cercai nuovi modi per divertirmi e arrivai a quello che gli studenti chiamano involare o arraffare. Mi successero cose simpaticissime. Camminando una sera alle nove - quando c'è poca gente in giro - per calle Mayor, vidi una confetteria, e al suo interno, sul bancone, un cesto di uva passa; presa la rincorsa, entrai, lo afferrai e scappai via. Il confettiere mi corse dietro, e con lui altri garzoni e vicini. Io, che ero carico, vedendo che malgrado il vantaggio mi avrebbero raggiunto, girato l'angolo mi sedetti sul cesto, avvolsi rapidamente una gamba con il mantello, e cominciai a dire, reggendomi la gamba con la mano e fingendomi povero: «Ahi! Dio lo perdoni, ché m'ha pestato il piede!». Mi sentirono, e quando stavano per arrivare cominciai a dire: «Per la Vergine santissima!», e le solite cose sull'ora funesta e l'aria malsana. Quelli arrivarono sfiatati, e mi chiesero: «È passato un tizio, fratello?». «Dritti di là, ché m'ha pestato proprio qui, lodato sia il Signore». Ripresero a correre e sparirono; rimasto solo, mi portai il cesto a casa, raccontai la burla e gli altri non vollero credere che le cose fossero andate in questo modo, anche se si divertirono molto. Li invitai quindi un'altra sera a vedermi rubare scatole di dolci. Vennero, e vedendo che le scatole stavano dentro il negozio, e che non potevo toccarle con mano, lo credettero impossibile, tanto più che il confettiere - per quanto era accaduto a quello dell'uva passa - stava in campana. Mi avvicinai, dunque, e mettendo mano alla spada, che era un bello stocco, già a dodici passi dal negozio, partii correndo e arrivato nel negozio

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dissi: «Muori!». E giù un fendente proprio davanti al confettiere. Questi si lasciò cadere in terra chiedendo di confessarsi, e io tirai un'altra stoccata a una scatola, la infilzai, tirandola poi via con la spada, e fuggii con essa a gambe levate. I compagni rimasero stupefatti nel vedere lo stratagemma e morirono dalle risate quando il confettiere disse loro che lo guardassero bene, che dovevo averlo ferito senz'altro, e che ero uno col quale aveva avuto un litigio. Ma poi, guardandosi intorno, e vedendo che le altre scatole, essendone stata tolta una, si erano tutte rovesciate, riconobbe la burla e si fece il segno della croce a non finire. Confesso che mai una cosa mi riuscì così bene. Dicevano i compagni che da solo potevo mantenere tutta la casa con quello che involavo, ovvero rubavo, in linguaggio comune. Io, siccome ero giovane, sentendo che lodavano l'ingegno con cui riuscivo in queste birbonate, ne traevo il coraggio per farne delle altre. Ogni giorno riportavo a casa la cintura piena di boccali delle monache, che chiedevo per bere e mi portavo via; è stato a causa mia che è nato l'uso di non dare niente se prima non si è lasciato un pegno. Promisi a don Diego e a tutti i compagni che una notte avrei addirittura tolto le spade alla ronda. Si decise quale notte doveva essere e andammo tutti insieme, io davanti agli altri; avvistando da lontano gli sbirri, mi avvicinai con un altro dei domestici della casa, tutto sconvolto, e dissi: «La giustizia?». Risposero: «Sì». «È il podestà?». Dissero di sì. Allora caddi in ginocchio ed esclamai: «Signore, nelle mani di Vossignoria sono la mia salvezza e la mia vendetta, nonché un grande beneficio per la collettività; Vossignoria mi consenta di parlarLe da solo a solo, se vuole riempire le Sue prigioni». Si appartò con me, e quando già gli sbirri stavano impugnando le spade e le guardie i bastoni, gli dissi: «Signore, sono venuto da Siviglia seguendo i sei uomini più facinorosi del mondo, tutti ladri e assassini; tra di essi ce n'è uno che ha ucciso mia madre e un fratellino mio per rapinarli, e di tutto ciò ho le prove; a quanto ho sentito dire, accompagnano una spia francese, e da quel che ho udito sospetto che sia...», e abbassando ancor di più la voce dissi: «Antonio Pérez». A questa parola, il podestà fece un salto e disse: «Dove stanno?». «Al

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bordello, signore; non indugi Vossignoria: le anime di mia madre e di mio fratello gliene renderanno grazie di là, con le loro preghiere, e il re quaggiù sulla terra». «Gesù», disse, «cosa aspettiamo? Via, seguitemi tutti. Datemi uno scudo». Io allora gli dissi, di nuovo a quattr'occhi: «Vossignoria in questo modo sarà perduto; conviene che tutti loro entrino senza spada, e uno per volta, poiché essi stanno nelle camere e hanno le rivoltelle; vedendoli entrare con le spade, e sapendo che solo la giustizia può portarne, spareranno. È meglio con le daghe e prendendoli alle spalle, visto che siamo in molti». Al podestà piacque lo stratagemma, desideroso com'era di effettuare la retata. Frattanto eravamo arrivati nelle vicinanze del bordello, e il podestà, messo sull'avviso, ordinò ai suoi di posare tutte le spade sull'erba, in un campo che stava quasi di fronte alla casa; ve le misero e andarono via. Io avevo avvisato l'altro di prenderle e portarle a casa non appena le avessero deposte, e quello così fece; quando poi stavano per entrare, io rimasi per ultimo; e quando alfine entrarono, mescolati ad altra gente, io scantonai e infilai una viuzza che porta alla Vittoria, più veloce di un levriero. Una volta che furono lì dentro, non vedendo nulla di strano, poiché non c'erano che studenti e picari - che è poi la stessa cosa -, cominciarono a cercarmi e, non trovandomi, sospettarono quel che era successo; quando poi andarono a cercare le loro spade, non ne trovarono più neanche mezza. Chi potrà raccontare quante indagini fece quella notte il podestà con il rettore? Fecero il giro di tutti i cortili, osservando le facce e controllando le armi. Arrivarono anche a casa da noi, e io, affinché non mi riconoscessero, stavo disteso nel letto, con un berretto e una candela in una mano e un Cristo nell'altra, mentre un compagno prete mi aiutava a morire e gli altri recitavano le litanie. Arrivò il rettore con gli sbirri e vedendo quello spettacolo uscirono, senza immaginare che lì fosse potuta succedere qualche altra cosa. Non guardarono nulla, anzi il rettore mi recitò un responsorio. Domandò se avevo già perso l'uso della parola e gli dissero di sì; dopo tutto ciò, disperarono di trovare una traccia; il rettore giurò di consegnare il reo se l'avesse trovato, e il podestà di impiccarlo anche se fosse stato figlio di un nobile. Io mi alzai dal letto, e ancora oggi, ad Alcalá, non s'è spenta l'eco di quella burla.

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Per non dilungarmi eviterò di raccontare come facevo piatto con la piazza della città; giacché fra i cassetti dei cimatori e degli argentieri e le bancarelle delle fruttivendole - non dimenticherò mai l'affronto di quando ero stato «re dei galli» - alimentavo il camino di casa per tutto l'anno. Per non parlare poi delle tangenti che riscuotevo su tutti i faveti, le vigne e gli orti dei dintorni. Grazie a queste e altre cose, cominciai a farmi una fama di briccone e di furbastro. I cavalieri mi favorivano, e a malapena mi permettevano di servire don Diego, al quale tuttavia, per il grande affetto che mi dimostrava, portai sempre il giusto rispetto.

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CAPITOLO SETTIMO Della partenza di don Diego, della notizia della morte di mio padre e mia madre, e delle decisioni che presi riguardo a me stesso In questo periodo don Diego ricevette una lettera da suo padre, e nel medesimo plico era contenuta un'altra missiva d'uno zio mio chiamato Alonso Ramplón, uomo di grande virtù e assai conosciuto a Segovia per esser legato a filo doppio alla giustizia, dato che tutte quelle che vi si erano eseguite, negli ultimi quarant'anni, erano passate per le sue mani. Boia era, a dire la verità, ma un'aquila nel suo mestiere; a vederlo faceva venir voglia di farsi impiccare. Questi, dunque, mi scrisse ad Alcalá, da Segovia, più o meno queste parole: «Pablos, figliolo» - per il grande amore che provava per me mi chiamava così -, «i grandi impegni del lavoro che Sua Maestà mi ha assegnato non mi hanno permesso di farlo prima; ché se c'è qualcosa di negativo nel servire il re, è la mole di lavoro, benché ci si riscatti con questo povero onore che ci dà l'esserne i servitori. Mi spiace di darVi brutte notizie. Vostro padre è morto otto giorni fa, con il più grande coraggio mai dimostrato da uomo al mondo; posso ben dirlo io che l'ho impiccato. È salito sull'asino senza nemmeno infilare il piede nella staffa; il saio gli stava così bene, che sembrava fosse stato fatto apposta per lui. Con quell'aspetto, nessuno che lo vedesse con i crocefissi davanti poteva dubitare che fosse un condannato. Camminava con gran disinvoltura, guardando in su verso le finestre e sorridendo a quelli che interrompevano le loro faccende per vederlo. Si è aggiustato due volte i baffi e ha fatto riposare i confessori, tessendo le lodi di quanto dicevano. È arrivato alla forca, ha messo un piede sulla scala, non è salito né di corsa né troppo lentamente e, vedendo uno scalino spezzato, si è voltato verso gli sbirri dicendo che lo facessero riparare per qualcun altro, perché non tutti avevano tanto fegato. Non Vi so esprimere che impressione ha fatto a tutti quanti.

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Si è seduto lassù, ha tirato indietro le pieghe del saio, ha preso la fune e se l'è messa intorno al collo. E vedendo che il teatino voleva tenergli una predica, gli si è rivolto dicendo: "Padre, la predica è come se l'avesse già fatta. Mi dica solo un po' di Credo e sbrighiamoci, ché non vorrei sembrare prolisso". Così è stato. Si è raccomandato che gli mettessi il cappuccio da un lato e che gli ripulissi la barba. È quel che ho fatto. È caduto senza ritrarre le gambe e senza fare un gesto; è rimasto là con una gravità tale, che di meglio non si poteva sperare. L'ho fatto a pezzi e gli ho dato sepoltura per le strade. Dio sa quanto mi duole vederlo là, in pasto ai corvi; ma credo che i pasticcieri di questa terra ci consoleranno, facendocelo trovare nelle loro paste sfoglie. Di Vostra madre, benché sia ancora viva, posso dirVi quasi la stessa cosa; è infatti prigioniera dell'Inquisizione a Toledo, perché in gran segreto disseppelliva i morti. Si dice che ogni notte baciasse un caprone sull'occhio che non ha pupilla. Le trovarono in casa più gambe, braccia e teste che in una cappella di ex voto. Il meno che faceva erano restauri e contraffazioni di vergini. Dicono che il giorno della Trinità reciterà in un auto con quattrocento condannati a morte. Mi dispiace che così ci disonori tutti, e principalmente me che in fin dei conti sono ministro del re: e queste parentele certo non mi giovano. Figliolo, qui m'è rimasta non so che fortuna segreta dei Vostri genitori, saranno in tutto un quattrocento ducati. Sono Vostro zio, e quel che possiedo sarà Vostro un giorno. Letta questa mia, potrete venire qui; con quel che sapete di latino e di retorica, sarete un boia davvero unico. Rispondetemi dunque e, nel frattempo, che Dio Vi protegga». Non posso negare che provai una fortissima vergogna, ma in parte me ne allietai; tanto possono i vizi dei padri, che consolano delle loro disgrazie, per grandi che siano, i figli.

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Corsi da don Diego, impegnato a leggere la lettera di suo padre che gli ordinava di andarsene via senza portarmi con sé, motivando questa decisione con le birbanterie di cui aveva sentito parlare. Mi disse che pensava di andare e di obbedire in tutto a suo padre, e che gli dispiaceva lasciarmi, come del resto dispiaceva a me lasciare lui. Disse anche che mi avrebbe sistemato da un altro cavaliere amico suo, affinché lo servissi. Io, ridendo, gli risposi: «Signore, sono già un'altra persona, e ho altre idee in testa; ora m'interessa fare la voce più grossa e avere ben altra autorità. Poiché, se finora avevo, come chiunque, il mio posto al sole della forca, ora lo occupa già mio padre». Gli raccontai come fosse morto onorevolmente, quanto il più serio degli uomini, come poi l'avessero fatto a pezzi, e come il mio signor zio, il boia, m'avesse scritto di questo e della prigioncella di mamma; a lui, che mi conosceva bene, potevo svelare tutto senza vergogna. Se ne dolse molto e mi chiese cosa pensavo di fare. Io gli riferii le mie decisioni; così, il giorno dopo lui se ne tornò a Segovia tristissimo, e io rimasi in casa, celando la mia sventura. Bruciai la lettera per evitare che in caso di perdita qualcuno la leggesse, e cominciai a preparare la mia partenza per Segovia, al fine di riscuotere i miei soldi e conoscere i miei parenti, per poi rifuggirli.

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LIBRO SECONDO CAPITOLO PRIMO Del viaggio da Alcalá a Segovia, e di quel che mi successe fino a Rejas, dove dormii quella notte Venne il giorno di abbandonare la vita migliore che abbia mai vissuto. Dio sa quanto m'è dispiaciuto lasciare tanti amici e appassionati, ché erano davvero innumerevoli. Per potermi mettere in cammino vendetti segretamente quel poco che avevo, e, con qualche imbroglio, realizzai all'incirca sessanta reali. Affittai una mula e lasciai la locanda, da cui ormai non m'era rimasta da prendere che la mia ombra. Chi potrà mai raccontare l'angoscia del calzolaio per i suoi crediti, le preoccupazioni della governante per il salario e le grida del padrone di casa per l'affitto? Uno diceva: «Lo sapevo che finiva così», e un altro: «Me l'avevano detto che era un imbroglione!». Alla fine, uscii dalla città così benvoluto, che con la mia assenza ne lasciai una metà in lacrime e l'altra metà a ridere di coloro che piangevano. Durante il viaggio stavo ripensando a tutte queste cose, quando, passato il Torote, incontrai un uomo sopra un mulo da soma; parlava fra sé e sé con tanta fretta e così soprappensiero da non vedermi, anche se gli ero proprio a fianco. Lo salutai e rispose al saluto. Gli chiesi dove andava e dopo i primi convenevoli cominciammo a discutere se i turchi sarebbero calati e quante forze avesse il re. Cominciò a dirmi in quale maniera si poteva conquistare la Terra Santa, e come si sarebbe presa Algeri; durante questo discorso capii che era un fanatico di politica e di governi. Continuammo quella conversazione da picari, e finimmo per parlare, tra una cosa e l'altra, delle Fiandre. Fu a questo punto che cominciò a sospirare e a dire: «Questi stati costano più a me che al re, perché sono ormai quattordici anni che giro con un progetto che, se non fosse impossibile come purtroppo è, avrebbe già risolto ogni problema».

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«Cosa può essere mai», gli dissi io, «che, essendo così conveniente, sia impossibile e non si possa attuare?». «Chi dice a Vossignoria», replicò allora, «che non si possa attuare? Certo che si può, il fatto che sia impossibile è tutt'altra cosa. E se non temessi di annoiarLa, racconterei a Vossignoria di cosa si tratta; ma più in là si saprà, poiché ora intendo pubblicarlo assieme ad altri lavoretti, tra cui uno dove do al re la possibilità di prendere Ostenda da due parti». Gli chiesi che me ne parlasse, e lui, estraendo dalle tasche un gran foglio di carta, mi mostrò subito il disegno del forte nemico e del nostro, e disse: «Come Vossignoria può ben vedere, la difficoltà di tutto quanto sta in questo braccio di mare; ebbene, io dò l'ordine di prosciugarlo tutto con delle spugne e di toglierlo di lì». Sentendo questa pazzia cominciai a sghignazzare, e lui allora, guardandomi in faccia, mi disse: «Tutti quelli ai quali l'ho detto hanno reagito allo stesso modo, si vede che riempie tutti di una gran contentezza». «Certo che sono contento», gli dissi, «di sentire una cosa così nuova e così fondata, ma Vossignoria badi bene che se prosciuga l'acqua che vi sarà allora, il mare ve ne getterà subito dell'altra». «Il mare non farà una cosa simile, ho già trovato una soluzione al problema», mi rispose, «e non c'è che da provare; a parte il fatto che ho già ideato un modo per abbassare il mare, in quel punto, di dodici braccia». Non osai rispondergli per paura che mi dicesse di conoscere anche un modo per farci cadere il cielo in testa. Uno così folle non l'ho mai visto in tutta la mia vita; mi disse che Juanelo non aveva fatto niente, che lui stava progettando di far risalire tutta l'acqua del Tago a Toledo in modo più facile. E quando gli chiesi come avrebbe fatto, mi rispose: per incanto! Mi dica Vossignoria se si è mai sentita al mondo una cosa del genere! Alla fine mi disse: «Non penso di metterlo in atto se prima il re non mi fa commendatore, comunque, e posso esserlo senz'altro, ho una patente di nobiltà più che onorevole». Discorrendo di queste stupidaggini, arrivammo a Torrejón, dove si fermò, perché andava a trovare una sua parente. Io passai oltre, morendo dalle risate nel ripensare ai progetti con cui passava il tempo, quando, ringraziando Iddio, vidi da lontano una mula sciolta con accanto un uomo a piedi, il quale, guardando un libro, tracciava delle linee che misurava con un compasso. Si fermava e saltellava da una

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parte all'altra; di tanto in tanto, metteva un dito sull'altro, riprendeva a saltare e faceva mille gesti. Confesso che per un bel po' - m'ero fermato a guardarlo da lontano - pensai che fosse un mago, e non mi decidevo a passare. Alla fine mi risolsi; quando mi avvicinai, se ne accorse, chiuse il libro e, infilato il piede nella staffa, scivolò e cadde. Lo aiutai a rialzarsi e mi disse: «Non ho preso bene il centro per tracciare la circonferenza al momento di salire». Io non compresi cosa aveva detto, temetti anzi che fosse quel che in effetti era, poiché mai era stato partorito uomo più dissennato. Mi domandò se andavo a Madrid seguendo una linea retta, o circonflessa. Io, benché non lo capissi, risposi che andavo per via circonflessa. Poi volle sapere di chi era la spada che portavo al fianco; gli dissi che era mia e lui, guardandola, asserì: «Le crociere dell'elsa dovrebbero essere più lunghe per parare i fendenti che si formano dal centro delle stoccate». Cominciò a ciarlare tanto, che fui costretto a chiedergli quale arte professasse. Disse che era un vero maestro di scherma e che come tale si sarebbe messo in luce ovunque. Io, mosso al riso, gli dissi: «Beh, a dire la verità, per quel che ho visto fare a Vossignoria poc'anzi su quel prato, e scorgendo tutti quei cerchi, ho pensato semmai che fosse un mago». «Il fatto è», mi disse, «che ho ideato una finta d'un quarto di cerchio del compasso maggiore, con cui tolgo la spada all'avversario per ucciderlo senza confessione, affinché non possa dire chi è stato, e la stavo appunto trasferendo in termini matematici». «È mai possibile», feci io, «che vi sia della matematica in tutto ciò?». «Non solo matematica», ribadì, «ma teologia, filosofia, musica e medicina». «Di quest'ultima non dubito affatto, visto che anche in quest'arte si tratta di uccidere...». «Non scherzate», ammonì, «ora vi insegno la mossa detta della spazzola contro la spada, tirando i maggiori fendenti che le spirali della spada comprendano in sé». «Non capisco nessuna cosa, piccola o grande che sia, di quanto mi state dicendo». «Ebbene, ve le dice questo libro», mi rispose; «si chiama Grandezze della spada, è ottimo e racconta cose incredibili. Ve ne persuaderete a Rejas, dove dormiremo stanotte, quando con due spiedi mi vedrete far meraviglie. E non dubitate del fatto che chiunque legga questo libro possa uccidere a suo piacimento». «Allora, o questo libro insegna agli uomini a essere come la peste, o l'ha scritto un qualche dottore». «Dottore? Proprio così», disse, «un gran saggio, e, starei per dire, anche

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qualcosa di più». Così conversando giungemmo a Rejas. Ci fermammo in una locanda e, smontando, mi disse a gran voce di formare con le gambe un angolo ottuso per poi ridurle a linee parallele e mettermi in posizione perpendicolare rispetto al suolo. L'oste, che prima mi vide ridere e poi scorse lui, mi domandò se quel cavaliere era indiano, visto che parlava in quel modo. A quel punto pensai di diventar matto per davvero. Poi lui si avvicinò all'oste e gli disse: «Signore, mi dia due spiedi per formare due o tre angoli, glieli restituirò in un baleno». «Gesù», fece l'oste, «me li dia Vossignoria questi angoli e mia moglie li arrostirà, anche se sono uccelli che non ho mai sentito nominare». «Macché! Non sono mica uccelli», esclamò allora quello, e rivolgendosi a me: «veda Vossignoria che significa l'ignoranza. Mi dia questi spiedi, insomma, li voglio solo per tirar di scherma, e forse quanto mi vedrà fare oggi Le frutterà più di tutti i guadagni fatti in vita Sua». Insomma, gli spiedi erano occupati, e dovemmo prendere due mestoli. Non s'è mai vista al mondo cosa più ridicola. Faceva un salto e diceva: «Con questo balzo ci arrivo meglio, e occupo il grado del profilo. Ora utilizzo la mossa orizzontale per smorzare il fendente che spiove dall'alto verso il basso. Questo doveva essere un colpo a coltellata e questo uno di taglio». Rimaneva però sempre a una lega di distanza da me e mi girava intorno con il mestolo; e siccome io me ne stavo lì fermo, sembrava che facesse le sue finte contro una pentola a bollore. Alla fine mi disse: «Questo è il bello, e non i vaneggiamenti briachi che insegnano quei furfanti dei maestri di scherma, che non sanno far altro che bere». Non aveva finito di dirlo, che da una delle sale interne uscì mostrando i canini un gran mulatto, con un cappello a parasole e un farsetto di pelle sotto una giacchetta sbottonata e piena di nastri, le gambe storte come un'aquila imperiale, la faccia ornata da un per signum crucis de inimicis suis, la barba a uncino con certi baffi come la crociera d'una spada e una daga con l'elsa piena di grate, peggio di un parlatorio di monache. Fissando il suolo, disse: «Io ho fatto l'esame, ho qui con me il diploma e, per il sole che riscalda le messi, farò a pezzi chiunque parli male di un buon figliolo che professa l'arte

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della scherma». Vedendo qual brutta piega stavano prendendo le cose, mi misi in mezzo e dissi che non parlava con lui e che quindi non c'era ragione di prendersela. «Metta mano alla spada, se la porta, e vediamo qual è la vera scherma; e tolga di mezzo quei mestoli». Quel poveraccio del mio compagno spalancò il libro e disse ad alta voce: «Lo dice questo libro, stampato con licenza reale, e io sostengo che è verità quel che afferma, con o senza mestolo, qui e altrove, e se no, misuriamolo». Tirò fuori il compasso e cominciò a dire: «Dunque, quest'angolo è ottuso». Al che il maestro di scherma estrasse la daga e disse: «Io non so chi sia quest'Angolo e chi questo Ottuso, né ho mai udito tali nomi in vita mia; ma, con questa in mano, li farò di certo a pezzi». Assalì il povero diavolo, che cominciò a fuggire, saltando di qua e di là per la casa e gridando: «Non può colpirmi, gli ho guadagnato i gradi del profilo». L'oste, altra gente che era lì e io stesso li riappacificammo, anche se dalle risate non riuscivo quasi più a muovermi. Misero il buonuomo nella sua stanza, e me con lui; cenammo, poi ce ne andammo tutti a letto. Alle due del mattino si alza in camicia da notte e comincia ad andarsene in giro per la stanza, al buio, dando salti e dicendo mille stupidaggini in gergo matematico. Mi svegliò e poi, non ancora soddisfatto, scese dall'oste per chiedergli una lanterna, dicendo che aveva trovato un oggetto fisso per la stoccata che va dal punto medio dell'arco del cerchio alla sua corda. L'oste lo mandò al diavolo per averlo svegliato e dovette esserne così infastidito che gli diede del pazzo. A quel punto lui tornò di sopra e mi disse che, se volevo alzarmi, avrei visto la famosa finta che aveva ideato contro il turco e le sue scimitarre. E aggiunse che poi voleva andare a insegnarla al re, essendo in favore dei cattolici. Frattanto fece giorno; ci vestimmo, pagammo per la notte e gli facemmo fare amicizia con il maestro, il quale si accomiatò dicendo che il libro che aveva portato il mio compagno era buono, ma che rendeva più pazzi che maestri di scherma, poiché i più non lo capivano.

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CAPITOLO SECONDO Di quel che mi accadde con un poeta prima di arrivare a Madrid Io m'incamminai per Madrid e lui si accomiatò, poiché doveva prendere un'altra strada. E quando già s'era allontanato, tornò verso di me correndo e chiamandomi ad alta voce; poi, sebbene fossimo in campagna dove nessuno poteva udirci, mi disse all'orecchio: «Per carità, che Vossignoria non dica nulla di tutti gli altissimi segreti che Le ho raccontato in materia di scherma. Se li tenga per sé, visto che è uomo di senno». Gli promisi di farlo; tornò a separarsi da me, e io mi misi a a ridere di un così buffo segreto. Dopodiché camminai per più di una lega senza incontrare nessuno. Riflettevo fra me e me sulle molte difficoltà che avrei incontrato nel professare onore e virtù, poiché sarebbe stato necessario in primo luogo nascondere quanto poca ne avessero avuta i miei genitori, e poi averne tanta da non farsi riconoscere per quella. Questi pensieri onorevoli mi parevano così giusti, che me ne rallegravo con me stesso. Mi dicevo da solo: «Sono più encomiabile io che non ho avuto nessuno da cui apprendere la virtù, o a cui assomigliare, di colui che la eredita dai suoi antenati». Ero assorto in questi pensieri quando incontrai, su una mula, un prete molto vecchio, che andava verso Madrid. Cominciammo a chiacchierare e mi chiese da dove venivo; da Alcalá, gli dissi. «Che Dio maledica», disse allora lui, «gentaccia come quella che vive in quel paese; fra loro non c'è neanche un uomo assennato». Gli chiesi come faceva a dire una cosa simile di una località dove vivevano tante persone dotte. E lui, molto irritato: «Dotti? E io dico a Vossignoria che sono talmente dotti da non avermi premiato nel loro concorso certe canzoni, benché siano ormai quattordici anni che a Majalahonda, dove sono sacrestano, compongo villanelle per il Corpus e per Natale; e affinché Vossignoria veda il loro torto, voglio che le legga, poiché sono certo che La allieteranno». E, detto fatto, sfoderò una sequela di strofe pestilenziali; dalla prima, che era questa, ci si può ben immaginare il resto:

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Non è mica una frottola, pastori, che il signor san Corpus Christi s'onori. Oggi è il giorno delle danze in cui l'Agnello immacolato tanto s'è umiliato da visitarci le panze e fra tante nostre speranze nell'uman gargarozzo si mette. Orsù, suoniamo le trombette, ché è ben prodigo di tesori. Non è mica una frottola, pastori, ecc. ecc. «Che altro potrebbe mai dire», mi disse, «lo stesso inventore delle "burlette"? Pensi quali misteri racchiude in sé quella parola, "pastori": m'è costata più di un mese di studio». Io non potei trattenere le risate, che mi sgorgavano gorgogliando dagli occhi e dal naso, e prorompendo in uno scroscio d'ilarità dissi: «Splendida davvero. Noto solamente che Vossignoria lo chiama il signor san Corpus Christi. E Corpus Christi non è un santo, ma il giorno dell'istituzione del sacramento». «Ma che bravo!», rispose, burlandosi di me; «ce lo metto io nel calendario, perché è stato canonizzato, e ci scommetterei la testa». Non potei impuntarmi, morto com'ero dalle risate nel vedere tanta somma ignoranza; gli dissi invece che le sue canzoni erano degne di qualunque premio, e che mai in vita mia avevo sentito qualcosa di così bello. «Davvero?», fece lui immediatamente. «Allora senta un pezzetto di un libriccino che ho dedicato alle undicimila vergini, componendo per ciascuna cinquanta ottave, una cosa proprio magnifica». Io, per sfuggire all'ascolto di tanti milioni di ottave, lo supplicai di non recitarmi nulla che fosse di argomento religioso. Allora cominciò a declamare una commedia che durava più giornate di un viaggio a Gerusalemme. Mi disse: «L'ho fatta in due giorni, ed eccone qui la brutta copia». Saranno state cinque risme di carta. Si intitolava L'arca di Noè. Si svolgeva tutta fra galli e topi, giumenti, lupi e cinghiali, come una favola di Esopo. Io ne lodai la trama e l'inventiva, e lui mi rispose: «È una cosa mia; non se n'è mai fatta un'altra simile al mondo, e la novità è tutto. Se riesco a farla rappresentare, sarà una cosa davvero

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insigne». «Come potrà mai essere rappresentata», gli dissi io, «se devono comparirvi gli animali, e gli animali non sanno parlare?». «È questa la difficoltà, infatti; se non fosse per questo, vi sarebbe forse cosa più elevata? Ma ho pensato di farla interpretare a pappagalli, tordi e gazze, che parlano, e di far comparire delle scimmie nell'intermezzo». «Certo, è cosa davvero elevata». «Ne ho fatte delle altre, ancor più elevate», disse ancora, «per una donna che amo. Veda questi novecentoun sonetti e dodici sirventesi» - sembrava che contasse dei soldi spicciolo dopo spicciolo -, «scritti per le gambe della mia dama». Io gli domandai se gliele aveva viste, e mi disse di no, per via degli ordini che aveva preso, ma che i concetti lì espressi valevano come profezia. Se devo confessare la verità, benché mi divertissi ad ascoltarli, ebbi paura di tutti questi brutti versi, e cominciai a dirottare la chiacchierata su altre cose. Gli dissi che avevo visto delle lepri, e lui subito: «Allora comincerò da un sonetto nel quale la comparo con quest'animale». E attaccava; io, per distrarlo, dicevo: «Non vede Vossignoria quella stella che si scorge di giorno?». E lui: «Finito questo, allora, Le dirò il sonetto trenta, dove la chiamo stella; pare proprio che Vossignoria conosca già tutti gli argomenti». Ero così afflitto vedendo che non potevo nominare nulla su cui lui non avesse scritto qualche sciocchezza che, quando mi accorsi che stavamo arrivando a Madrid, non ero più in me dalla gioia, e pensavo che, vergognandosi, avrebbe taciuto. Ma avvenne il contrario, poiché, per mostrare chi era, entrando per le strade di Madrid alzava la voce. Io lo supplicai di farne a meno, con la scusa che se i ragazzi sentivano odor di poeta, non ci sarebbe stato risparmiato neanche un torsolo; i poeti, infatti, erano stati appena dichiarati pazzi in una prammatica uscita da poco, scritta da uno che, appunto, poeta era stato ma s'era poi ravveduto. Mi chiese tutto angosciato di leggergliela, se l'avevo con me. Promisi di farlo una volta arrivati alla locanda. Andammo ad alloggiare in quella dove lui era solito sostare, e trovammo davanti alla porta più di una dozzina di ciechi. Alcuni lo riconobbero dall'odore, altri dalla voce. Fecero una gran baraonda in segno di benvenuto; lui li abbracciò tutti, poi alcuni di loro cominciarono a chiedergli una preghiera per il Giusto Giudice, che contenesse versi gravi e sonori, tali da prevedere anche una certa mimica; altri ne chiesero per le anime dei defunti, e a questo punto lui si mise a discutere, ricevendo da ciascuno otto

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reali in acconto. Poi li congedò e mi disse: «Più di trecento reali devono rendermi questi ciechi; e ora, con licenza di Vossignoria, mi riposerò un poco per mettere insieme qualcuna di queste orazioni, e poi, dopo aver mangiato, udremo la prammatica». Che miserevol vita! Ma nessuna lo è maggiormente di quella dei pazzi che se la guadagnano sfruttandone altri.

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CAPITOLO TERZO Di quel che feci a Madrid, e di quel che mi successe fino al mio arrivo a Cercedilla, dove dormii Si appartò per un poco a studiare eresie e sciocchezze per i ciechi. Frattanto, venne l'ora di pranzo; desinammo, poi mi chiese di leggergli la prammatica. Non avendo altro di meglio da fare, la tirai fuori e gliela lessi. La trascrivo qui di seguito, poiché mi parve acuta e adeguata a ciò che in essa si voleva condannare. Era del seguente tenore: PRAMMATICA DEL DISINGANNO CONTRO I POETI VACUI, SCIPITI E FUTILI Già a queste parole il sacrestano prese a ridere come un matto e disse: «Era proprio ora che lo si dicesse, perdio! E io che pensavo parlasse di me, mentre ce l'ha solo con i poeti scipiti». Mi divertì sentirglielo dire, neanche lui fosse sapido come un moscatello. Saltai il prologo e cominciai dal primo capitolo, che recitava: «Considerato che questa specie di scarafaggi che si chiamano poeti sono nostri prossimi, e cristiani benché pessimi; ma notando altresì che per tutto l'anno adorano sopracciglia, denti, nastri e scarpine, macchiandosi di altri peccati ancor più gravi, decretiamo che durante la Settimana Santa si raccolgano tutti i poeti pubblici e vagabondi, come le donne di malaffare, e li si tempesti di prediche tirando fuori i crocefissi per convertirli. Consigliamo a questo scopo di mandarli in apposite case di pentimento. Idem, osservando le grandi caldane che compaiono nelle strofe canicolari e mai tramontate dei poeti del sole, così simili a uva passa a forza di consumare soli e stelle, imponiamo loro perpetuo silenzio sulle cose del cielo, decretando che certi mesi siano vietati alle muse, come alla caccia e alla pesca, affinché non si esauriscano per la fretta con cui vengono usati. Idem, avendo considerato che questa setta infernale di uomini condannati all'invenzione perpetua di concetti, a distruggere vocaboli e

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capovolger frasi, ha contagiato con tale acciacco poetico anche le donne, dichiariamo che con questo malanno ci riteniamo risarciti di quello subìto ai tempi della mela. E siccome la nostra epoca è povera e bisognosa, ordiniamo di bruciare le strofe dei poeti, come vecchie frange, per estrarne l'oro, l'argento e le perle, visto che nella maggior parte dei versi creano donne di tutti i metalli, come statue di Nabucco». Il sacrestano non poté sopportare oltre e, alzandosi in piedi, esclamò: «Ma senza derubarci dei nostri beni! Vossignoria non prosegua, ché su questo voglio ricorrere al Papa, e spenderci magari tutto quello che ho. Staremmo freschi se io, che sono un ecclesiastico, dovessi patire questo affronto. Dimostrerò che le strofe del poeta chierico non sono soggette a questa prammatica e poi voglio andare a verificarlo dinanzi a una corte». In parte mi veniva voglia di ridere; ma per non dovermi trattenere, ché stava già facendosi tardi, gli dissi: «Signore, questa prammatica è stata fatta per scherzo, non ha effetti legali e non può costringere a nulla, essendo priva di autorità». «Peccatore che non sono altro», disse allora molto agitato. «Poteva avvertirmi Vossignoria, e mi sarei risparmiato la più grande offesa del mondo. Lo sa Vossignoria cosa significa ritrovarsi con ottocentomila strofe, e sentire una cosa simile? Vossignoria continui pure e Dio possa perdonarLe lo spavento che m'ha fatto prendere». Proseguii dicendo: «Idem, osservando che dopo aver smesso di fare i mori - pur conservandone qualche reliquia - si son messi a fare i pastori, ragion per cui si vedono greggi smagrite a forza di bere le loro lacrime, abbrustolite dalle loro anime accese, e così imbevute della loro musica da non pascolare più, ordiniamo che smettano quel mestiere, indicando romitaggi agli amici della solitudine. E gli altri, essendo questo peraltro un lavoro allegro e mordace, che si adattino a fare gli stallieri». «Solo un ruffiano, cornuto, culattone e giudeo», disse ad alta voce, «poteva scrivere una cosa simile. E se solo sapessi chi è stato, gli farei una

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satira con certe strofe da far rimangiare tutto a lui e a chiunque le vedesse. Pensate come sarebbe adatto un romitaggio a un uomo glabro come me! O per un inacidito sacrestano fare lo stalliere! Via, signor mio, son proprio ingiurie». «Già l'ho detto a Vossignoria», replicai, «che sono burle, e dunque le ascolti come tali». Continuai dicendo che «per impedire un eccesso di plagi, ordiniamo che non si esportino strofe dall'Aragona alla Castiglia, né dall'Italia alla Francia, sotto pena per il poeta che se ne renda colpevole di andare in giro ben vestito, e, in caso sia recidivo, di rimanere pulito per un'ora». Questo gli piacque, poiché portava una sottana canuta tanto era vecchia, e così inzaccherata che, per seppellirlo, non sarebbe servito altro se non di sfregargliela addosso. Con la cappa, invece, ci si potevano concimare due poderi. E così, per metà scherzando, gli dissi che ordinavano altresì di riunire ai disperati che si impiccano o si lanciano nel vuoto, e che, come tali, non possono essere seppelliti in luoghi consacrati, anche le donne che si innamorano dei poeti professionisti. Inoltre, osservando la gran messe di sirventesi, canzoni e sonetti che c'era stata in quegli anni fertili, ordinavano che gli scartafacci che per loro demerito scappassero dalle salsamenterie, fossero destinati senza appello ai cessi. E, per finire, arrivai all'ultimo capitolo, che diceva così: «Ma osservando con occhi pietosi che ci sono nella repubblica tre generi di persone così sommamente miserabili da non poter vivere senza tali poeti, e cioè commedianti, ciechi e sacrestani, ordiniamo che di quest'arte possano esservi taluni ufficiali pubblici, sempreché abbiano una speciale patente rilasciata dal cacicco dei poeti attivo nelle rispettive zone. A condizione, per i poeti di teatro, che non chiudano i loro intermezzi né con bastonate, né con diavoli, e le loro commedie con un matrimonio, e che non facciano le trame con bigliettini e nastri. Quanto a coloro che scrivono per i ciechi, che non ambientino i loro componimenti a Tetuán, essendo loro preclusi anche i seguenti vocaboli: cristiano, amata, caritatevole, punti d'onore; si ordina loro poi che per dire quest'opra non dican sottosopra. E quelli che scrivon per i

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sacrestani, che non facciano le villanelle né con Egidi né con Pasquali, che non inventino giochi di parole e non partoriscano quei concetti intercambiabili che, mutato il senso, ricompaiono a ogni piè sospinto. E infine, ordiniamo a tutti i poeti nel loro insieme di allontanarsi da Giove, Venere, Apollo e gli altri dei, sotto pena di averli come avvocati nell'ora della propria morte». A tutti coloro che la udirono, la prammatica piacque tanto, e tutti me ne chiesero una copia. Solo il sacrestanello cominciò a giurare per i vespri solenni, introibo e kyrie, che si trattava di una satira contro di lui, per quel che diceva dei ciechi, e che sapeva meglio di chiunque altro quel che avrebbe dovuto fare. Alla fine disse: «Io sono uno che è stato nella stessa locanda con Liñán, e che ha mangiato più di due volte con Espinel». E che a Madrid era stato così vicino a Lope de Vega come ora lo era a me, che aveva visto molte volte don Alonso de Ercilla, che teneva in casa un ritratto del divino Figueroa, e che aveva comprato i vecchi calzoni lasciati da Padilla quando s'era fatto frate, tanto è vero che ancor oggi li portava, per malandati che fossero. Ce li mostrò, e questo mosse tutti a un tale riso, che non volevano più uscire dalla locanda. Alla fin fine, erano già le due e, siccome bisognava andare avanti, lasciammo Madrid. Io mi accomiatai da lui, anche se mi dispiaceva, e cominciai a camminare verso il valico. Volle il buon Dio che, per evitare cattivi pensieri, incontrassi un soldato. Cominciammo a conversare, e mi chiese se venivo dalla capitale; gli dissi che c'ero stato, ma solo di passaggio. «È più che sufficiente», mi rispose, «è proprio una città per la gentaccia. Preferisco piuttosto, lo giuro su Cristo, starmene con la neve fino alla cintola, armato fino ai denti, a mangiar legno, che sopportare le angherie cui lì è fatta segno una persona perbene». Io gli risposi di tenere presente che nella capitale c'era un po' di tutto e che vi si stimavano molto le persone di rango. «Macché stimano», disse, assai irritato, «se ci sono stato sei mesi a chiedere una compagnia, dopo vent'anni di servizio, e dopo aver versato il sangue per il re, come dimostrano queste mie ferite!». E mi mostrò una coltellata da un palmo nell'inguine, che

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invece era un bubbone quant'è vero che splende il sole. Poi, sui calcagni, mi mostrò altri due segni, e disse che erano pallottole; ma io, da altri due che ho io stesso, dedussi che dovevano essere geloni. Si tolse il cappello e mi mostrò il volto: calzava il sedici; tanti erano i punti che aveva in faccia, per via di una coltellata che gli divideva il naso. C'erano altre tre cicatrici, e tutte queste linee gli trasformavano la faccia in una cartina geografica. «Queste m'han fatto», disse, «mentre difendevo Parigi al servizio di Dio e del re, a causa del quale mi vedo il volto così trinciato, e in cambio non ho avuto che belle parole, che oggi come oggi non fanno che nascondere le cattive azioni. Legga queste carte», mi disse ancora, «e per l'anima d'un congedato vedrà, per Cristo, che non c'è uomo, vivaddio, che si sia segnalato in guerra più di me». E diceva la verità, poiché con tutti i colpi che aveva ricevuto ne aveva di segni. Cominciò a tirar fuori degli astucci di latta e a mostrarmi delle carte, che dovevano essere di un altro a cui aveva rubato il nome. Io le lessi e gli feci degli elogi sperticati, dicendo che nemmeno il Cid o Bernardo avevano fatto quel che aveva fatto lui. A queste parole saltò su e disse: «Quel che ho fatto io? Perdio, ma nemmeno García de Paredes, Julián Romero e altre brave persone, per il diavolo. So bene che a quell'epoca non c'era l'artiglieria, perdio, altrimenti oggi come oggi Bernardo non sarebbe sopravvissuto un'ora. Vossignoria vada a domandare nelle Fiandre delle imprese dello Sbrecciato, e vedrà quel che ne dicono». «Si tratta forse di Vossignoria?», gli dissi; e lui rispose: «E chi, altrimenti? Non vede che breccia ho nei denti? Ma non ne parliamo, non sta bene che un uomo si lodi». Mentre conversavamo ci imbattemmo in un eremita issato su un mulo, dalla barba così lunga che vi impastava il fango, macilento e vestito di panno grigio. Salutammo con l'abituale Deo gratias, e lui cominciò a lodare le messi e, in esse, la misericordia del Signore. Il soldato saltò su e disse: «Ah, padre, erano più fitte le picche che ho visto su di me, e, per Cristo, nel sacco di Anversa ho fatto quel che ho potuto, sì, lo giuro su Dio». L'eremita lo rimproverò dicendogli di non bestemmiare tanto, e lui rispose: «Padre, si vede bene che non siete un soldato, visto che mi rimproverate di esercitare il

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mio mestiere». Mi venne proprio da ridere vedendo a cosa riduceva la vita militare, e ne conclusi che era un picaro sbruffone. Fra soldati, infatti - e se non vale per tutti, vale almeno fra i capi -, non c'è usanza più aborrita di questa. Giungemmo ai piedi del valico, con l'eremita che pregava con un rosario che pareva una catasta di legna, tanto che a ogni avemaria si sentiva un colpo di bocce, mentre il soldato confrontava le rupi con i castelli che aveva visto e individuava quale era il punto più forte e dove si sarebbe dovuta sistemare l'artiglieria. Io li guardavo, e temevo tanto il rosario dell'eremita, con quei suoi grani enormi, quanto le menzogne del soldato. «Oh, come farei saltare in aria con della polvere gran parte di questo valico», diceva; «oltre tutto farei un'opera buona per tutti i viandanti». Conversando di questo e d'altro arrivammo a Cercedilla. Entrammo nella locanda tutti e tre insieme, quando s'era già fatta notte; ordinammo che ci preparassero la cena - era venerdì - e nel frattempo l'eremita disse: «Intratteniamoci un po', ché l'ozio è il padre dei vizi: giochiamoci le avemarie». E fece cadere dalla manica un mazzo di carte. Vedendolo mi venne da ridere, poiché pensavo ai grani del rosario. Il soldato disse: «No, piuttosto giochiamoci fino a cento reali, che è quel che ho, in tutta amicizia». Per cupidigia dissi che ne avrei giocati altrettanti, e l'eremita, per non fare da terzo incomodo, accettò, dicendo che aveva lì l'olio delle lampade, del valore di un duecento reali. Confesso che pensai di potergli fare da civetta e di berglielo; possa il Turco avere il mio stesso successo! Si giocava a zecchinetta, e il bello fu che disse di non conoscerla, e ci chiese di insegnargliela. Il principiante ci lasciò vincere due mani, poi ci diede una tale ripassata da non lasciare sul tavolo neanche un soldo. Fu nostro erede prima ancora che morissimo; vedere quel ladrone che ritirava il denaro col dorso della mano mi dava proprio un senso di pena. Ne perdeva una semplice e gliene riuscivano dodici piene di malizia. A ogni giro il soldato lanciava dodici giuro e altrettanti perdinci, rinforzati da accidenti. Io mi mangiai le unghie, mentre il frate sguazzava con le sue nel mio denaro.

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Non c'era santo che non invocassi, ma le nostre carte erano come il Messia: le aspettavamo sempre e non venivano mai. Finì per spennarci; volevamo giocare ancora su pegno, ma lui, dopo avermi vinto seicento reali, che era quanto avevo, e al soldato quei cento, disse che si trattava solo di un intrattenimento, che noi eravamo il suo prossimo e che non c'era altro da aggiungere. «Non bestemmiate», disse; «a me è andata bene perché mi sono raccomandato a Dio». E siccome noi non sapevamo quanto fosse abile dalle dita al polso, gli credemmo; il soldato giurò di non bestemmiare più, e io feci lo stesso. «Perdinci!», diceva il povero alfiere (tale affermò allora di essere), «sono stato fra luterani e mori, ma mai ho patito un tale saccheggio». Di tutto questo il prete rideva. Tirò fuori di nuovo il rosario per recitare le preghiere. Io, che già non avevo più un soldo, gli chiesi che mi desse da mangiare, e che fino a Segovia pagasse la locanda per ambedue, visto che andavamo in puribus. Promise di farlo. Divorò poi sessanta uova: non avevo mai visto una cosa simile in vita mia; infine, disse che se ne andava a letto. Dormimmo tutti in una grande sala con altra gente che era là, poiché le stanze erano già occupate. Io mi coricai con una gran tristezza nell'animo; il soldato chiamò l'oste e gli affidò i suoi documenti nelle loro scatole di latta, e un involto di camicie ormai in pensione. Ci coricammo; il padre si segnò, e anche noi ci facemmo il segno della croce, ma affinché ci proteggesse da lui. Dormì; io rimasi sveglio, cercando di architettare uno stratagemma per togliergli il denaro. Il soldato parlava nel sonno dei suoi cento reali, come se non fossero stati già perduti senza rimedio. Venne l'ora di alzarci. Io chiesi in fretta un lume; me lo portarono e l'oste riconsegnò l'involto al soldato, dimenticando però le carte. Il povero alfiere con le sue grida fece venire giù la casa, esigendo che quello gli desse i suoi servizi. L'oste si confuse, e siccome tutti insistevamo che glieli desse, corse a prendere tre orinali dicendo: «Eccone qui uno per ciascuno. Vogliono forse altri servizi?». Pensava che avessimo un attacco di dissenteria. A quel punto il soldato, ancora in camicia da notte, si lanciò con la spada sguainata

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all'inseguimento dell'oste, giurando che l'avrebbe ammazzato perché s'era burlato di uno come lui, uno che era stato a Lepanto, alla battaglia di San Quintino e altre ancora, portandogli degli orinali al posto delle carte che gli aveva dato. Tutti accorremmo per fermarlo, e ciò nondimeno non vi riuscivamo. Diceva l'oste: «Signore, Vostra grazia ha chiesto i servizi; non sono mica obbligato a sapere che nel gergo dei soldati si chiamano così i certificati delle imprese di guerra». Li riappacificammo, e tornammo nella sala. L'eremita, diffidente, rimase a letto, dicendo che si sentiva male a causa dello spavento di poco prima. Pagò per noi, e lasciammo il paese dirigendoci verso il valico, irritati dal comportamento dell'eremita, e dal fatto di non avergli potuto togliere il denaro. Incontrammo poi un genovese, voglio dire uno di questi anticristi della moneta spagnola, che saliva in direzione del valico portandosi dietro un paggio e il suo parasole, e pareva assai danaroso. Attaccammo discorso con lui, ma si finiva sempre per parlare di soldi, poiché è gente nata per i quattrini. Cominciò a nominare Besanzone e a chiedersi se era bene o male dare denari a Besanzone, tanto che il soldato e io gli chiedemmo chi fosse mai quel cavaliere. Al che lui rispose ridendo: «È un villaggio in Italia, dove si riuniscono gli uomini d'affari» - che qui da noi chiamiamo falsari della penna - «per decidere i prezzi con i quali si governerà la moneta». Dal che deducemmo che a Besanzone si dà il ritmo ai musicisti dell'unghia. Ci intrattenne lungo la strada raccontando che era rovinato, essendo fallita una banca dove aveva messo più di sessantamila scudi. Tutto questo lo giurava sulla sua coscienza; anche se penso che la coscienza in un mercante sia come la verginità in una donna di strada, che la si venda cioè senza possederla. Nessuno, o quasi, ha coscienza, di tutti questi signori; non appena s'accorgono che rimorde per un nonnulla, se ne separano, come dal cordone ombelicale quando si viene al mondo. Mentre chiacchieravamo, scorgemmo le mura di Segovia, e gli occhi mi si accesero di gioia, malgrado il ricordo di Cabra che guastava la mia felicità. Arrivai in città e all'ingresso, per la strada, vidi mio padre che, fatto a pezzi e

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tramutato in borse, aspettava di andare a Giosafatte. Ciò mi intenerì, ed entrai un po' diverso da come ne ero uscito, con un accenno di barba, cioè, e ben vestito. Lasciai la compagnia; ma quando andai alla ricerca di qualcuno che - a parte il patibolo - conoscesse mio zio in città, non trovai nessuno che potesse aiutarmi. Mi avvicinai a molta gente chiedendo di Alonso Ramplón, ma nessuno me ne sapeva dire nulla, dicevano anzi di non conoscerlo. Fui davvero felice di trovare lì tante persone perbene; e fu proprio mentre pensavo a questo che sentii le urla del banditore della frusta e mio zio che la maneggiava. Avanzava una processione di uomini nudi, tutti scappucciati, seguiti da mio zio che, frustando a destra e a manca, suonava una pubblica passacaglia sulle costole di cinque liuti, che al posto delle corde avevan delle funi. Stavo osservando tutto questo accanto a uno al quale avevo detto, chiedendo di mio zio, di essere un gran cavaliere; a un certo punto il mio buon zio, passandomi accanto, mi guarda bene in viso e spalanca le braccia, chiamandomi nipote. Pensai di morire di vergogna e non mi congedai da quello con cui stavo. Andai con mio zio, che mi disse: «Vieni di qua, mentre sistemo questa gente; siamo già sulla via del ritorno, e oggi mangerai con me». Io, vedendo che a cavallo, e in quella compagnia, sarei sembrato poco meno che un frustato, dissi che l'avrei aspettato lì; e così me ne allontanai con tanta vergogna, che se non fosse dipeso da lui il fatto di riscuotere i miei denari non gli avrei più parlato in vita mia, né avrei più fatto la mia comparsa fra la gente. Finì di ripassar loro la schiena, tornò e mi portò a casa sua, dove scesi e mangiammo.

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CAPITOLO QUARTO Dell'alloggio in casa di mio zio, delle visite, della riscossione del mio denaro e del ritorno alla capitale L'alloggio del mio buon zio si trovava accanto al mattatoio, in casa di un acquaiolo. Vi entrammo, e lui mi disse: «Non è certo una reggia, ma Vi assicuro, caro nipote, che per sbrigare certe faccende fa proprio al caso mio». Salimmo su per una scala, ed ero ansioso di vedere cosa mi sarebbe successo una volta in cima, tanto assomigliava a quella che porta sulla forca. Entrammo in una camera molto bassa, tanto che vi camminavamo curvi come chi debba ricevere una benedizione. Appese la frusta a un chiodo, ficcato accanto ad altri dai quali pendevano cordicelle, lacci, coltelli, uncini e altri ferri del mestiere. Mi chiese perché non mi toglievo il mantello e non mi sedevo: io gli dissi che non lo facevo mai, per abitudine. Dio solo sa come mi sentivo nel vedere il disonore di mio zio; il quale intanto mi diceva che ero stato proprio fortunato a incontrarlo in così buona occasione: avrei infatti mangiato bene, dato che aveva invitato qualche amico. Comparve allora nel vano della porta uno di quelli che chiedono l'elemosina per le anime, con una tunica violacea lunga fino ai piedi; e facendo tintinnare la sua cassetta disse: «Tanto mi sono valse oggi le anime, come a te la frusta: incassa!». Si diedero reciprocamente dei buffetti; poi quel perverso questuante di anime si rimboccò il saio, rimase con le gambe storte in brache di tela, e cominciò a ballare e a domandare se era venuto Clemente. Mio zio disse di no, quando grazie a Dio, avvolto in stracci e calzando degli zoccoli, entrò uno zampognaro di ghiande, voglio dire un porcaro. Lo riconobbi, con rispetto parlando, dal corno che reggeva in mano; per essere alla moda, gli mancava solo di portarlo in testa. Ci salutò alla sua maniera, e dopo di lui entrò un mulatto mancino e guercio, con un cappello che aveva più falde di una montagna ed era più a cupola di un noce, una spada con più ferri dell'elsa del re e un giubbetto di pelle. La faccia era tutta un punto, a forza di sfregi gli era stata infatti tutta

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ricucita. Entrò e sedette, salutando quelli di casa; a mio zio disse: «In fede mia, Alonso, l'hanno pagata proprio il Romo e il Garroso». Quello delle anime, allora, saltò su a dire: «Quattro ducati gli ho dato, a Flechilla, il boia di Ocaña, affinché pungolasse l'asino e non usasse la sferza a tre cinghie, quando mi frustarono». «Vivaddio!», disse lo sbirro, «a Lobrezno, a Murcia, ho pagato più del necessario, giacché l'asino ha finito per scimmiottare il passo della tartaruga, e quel fellone me le ha assestate così bene che alla fine ero tutto una bolla». E il porcaro, gongolando, disse: «Vergini sono le mie spalle». «A ogni porco il suo San Martino», disse il mendicante di rimando. «Di questo posso gloriarmi», fece allora il mio buon zio, «fra coloro che maneggiano la frusta, sono di quelli che a chi si raccomanda fa un buon trattamento. Sessanta me ne hanno dati quelli di oggi, e hanno ricevuto delle frustate amichevoli, con la cinghia semplice». Quando vidi con quale gente onorata parlava mio zio, confesso d'essere arrossito, e in modo tale che non potei mascherare la vergogna. Lo sbirro me lo lesse in faccia e disse: «Non è quel padre che è stato suppliziato l'altro giorno, quello che s'è preso tutte quelle frustate sulla schiena?». Io risposi che non ero uomo da supplizio come loro. A quel punto mio zio si alzò e disse: «È mio nipote, maestro ad Alcalá, e persona di alta posizione». Mi chiesero perdono e mi usarono poi mille cortesie. Io ero impaziente di mangiare, riscuotere il mio denaro e fuggire da mio zio. Apparecchiarono la tavola, e con una cordicella, in un cappello (proprio come tirano su le elemosine i carcerati), issarono su la cena da un'osteria che dava sul retro del palazzo, in certi cocci di piatti e rimasugli di brocche e giare: nessuno potrà mai esprimere la sofferenza e la vergogna che provavo. Sedettero a mangiare, il mendicante a capo tavola, e gli altri qua e là, disordinatamente. Non voglio dire cosa mangiammo; solo che erano tutte cose che facevano venir sete. Lo sbirro se ne scolò tre di rosso; il porcaro fece un brindisi in mio onore: mi riempiva il bicchiere al volo, e fra mille ragionamenti, a forza di brindare, ragionava meno di tutti gli altri. Non c'era nemmeno il ricordo dell'acqua, e meno che mai se ne sentiva il desiderio.

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Apparvero in tavola cinque sformati da quattro reali. Prendendo un aspersorio, dopo aver tolto la sfoglia, dissero tutti un responsorio con un requiem aeternam per l'anima del defunto di cui erano quelle carni. Disse mio zio: «Di certo ricordate, nipote, quel che Vi scrissi di Vostro padre». Mi tornò in mente; loro mangiarono, mentre io mi accontentai della sfoglia, e me ne rimase l'abitudine; tanto che da allora, tutte le volte che mangio uno sformato, recito un'Ave Maria per colui che ormai sarà in gloria di Dio. Si scolarono due brocche; lo sbirro e quello delle anime bevvero tanto da ridursi in uno stato tale che, quando mostrarono un piatto di salsicce che sembravano dita di negro, uno di loro chiese perché portavano delle micce cotte. Mio zio, del resto, era ridotto anche lui così male che, allungando la mano e afferrandone una, con la voce un po' aspra e rauca, un occhio mezzo chiuso e l'altro che nuotava nel mosto, mi disse: «Nipote, giuro su questo pane che Dio creò a sua immagine e somiglianza, di non aver mai mangiato in vita mia una carne migliore». Io vidi lo sbirro che, allungando la mano, afferrava la saliera e diceva: «È caldo questo brodo», e poi il porcaro che, preso un intero pugno di sale, aggiungeva: «Questo ci vuole per stuzzicare la sete», e se lo infilava in bocca. Da una parte mi veniva da ridere, dall'altra mi indignavo. Portarono il brodo, e quello delle anime prese con entrambe le mani una scodella dicendo: «Dio benedisse la pulizia!». Sollevandola per bere, però, nel portarla alla bocca se la versò sulle guance, riducendosi da capo a piedi in uno stato vergognoso. Vedendosi così, si alzò in piedi, e, dato che la testa gli pesava, volle sostenersi sulla tavola (che era di quelle che traballano); la rovesciò e sporcò tutti quanti, lamentandosi poi del fatto che il porcaro l'aveva spinto. Il porcaro, vedendo che l'altro gli cadeva addosso, si alzò e, sollevando il suo strumento d'osso, gli diede una trombettata. Si azzuffarono, e mentre erano avvinghiati, siccome il mendicante aveva dato all'altro un morso su una guancia, e a causa inoltre dei vari capitomboli e della confusione, il porcaro vomitò sulla barba dell'avversario tutto quello che aveva mangiato. Mio zio, che era ancora il più lucido, chiedeva chi mai gli avesse portato tanti chierici dentro casa.

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Notando che già ci vedevano doppio, sedai la lite, separai i due e rialzai dal suolo lo sbirro, che dalla gran tristezza piangeva. Buttai sul letto mio zio, che fece una riverenza a un candeliere di legno che aveva lì, pensando che fosse uno degli invitati. Tolsi poi il corno al porcaro, che però, mentre tutti gli altri dormivano, non riuscii a far stare zitto; diceva che gli dessero il suo corno, perché mai nessuno aveva saputo suonarci sopra tante canzoni, e lui voleva esibirsi accompagnato dall'organo. Insomma, non mi allontanai da loro finché non vidi che dormivano. Uscii di casa e passai tutto il pomeriggio a rivedere la terra natìa; feci una capatina a casa di Cabra e venni a sapere che era già morto; non domandai neanche di cosa, sapendo che al mondo c'è chi soffre la fame. Tornai a casa che era già notte - erano passate quattro ore - e trovai uno di loro, sveglio, che andava carponi su e giù per la camera cercando la porta, e dicendo che avevano perso la casa. Lo rialzai, e lasciai dormire gli altri fino alle undici, quando si svegliarono. Stiracchiandosi, mio zio chiese che ora fosse. Rispose il porcaro, che non aveva ancora smaltito del tutto la sbornia, che era ancora ora di siesta e che faceva un caldo tremendo. Non appena ne fu in grado, il mendicante chiese che gli dessero la sua cassetta: «Troppo hanno oziato le mie anime per avere in carico il mio sostentamento», disse, e se ne andò, ma invece che verso la porta, verso la finestra; e, siccome vide le stelle, cominciò a chiamare gli altri a voce alta, dicendo che il cielo era stellato a mezzogiorno e che c'era una grande eclissi. Tutti si fecero il segno della croce e baciarono il suolo. Vedendo la bricconaggine del mendicante, mi scandalizzai molto, e mi riproposi di guardarmi da gente simile. A forza di vedere vigliaccherie e infamie, mi cresceva dentro sempre di più il desiderio di frequentare gente di rango e cavalieri. Li mandai via tutti, uno a uno, come meglio potei, misi a letto mio zio, che, se non era proprio ubriaco, poco ci mancava, e mi accomodai sui miei vestiti e su certa biancheria che era lì, appartenuta a gente che sarà ormai nella gloria di Dio. In questo modo passammo la notte; il mattino dopo, cercai di stabilire

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con mio zio l'ammontare della mia rendita e di riscuoterla. Si svegliò dicendo che si sentiva tutto pesto, e che non sapeva perché. La camera, in parte per il vino versato durante le bevute, in parte per l'acqua che avevano fatto pur non avendola neanche toccata, era ridotta come una tavernaccia. Mio zio si alzò, parlammo a lungo delle mie faccende, ed ebbi il mio daffare, ubriacone e rozzo com'era. Alla fine, lo costrinsi a darmi conto almeno di parte del mio denaro, se non di tutto, e così mi passò circa trecento ducati che il mio buon padre avevaguadagnato con le sue mani, e lasciato in custodia a una buona donna, alla cui ombra si rubava fino a dieci leghe di distanza. Per non tediare Vossignoria, dico dunque che riscossi e intascai il mio denaro, quello che mio zio non aveva già speso in beveraggi o altro, e fu già molto per un uomo di così scarso acume come lui, che pensava che mi sarei laureato e che poi, studiando, avrei potuto aspirare alla porpora; dato che questa dipendeva in fondo dalle sue mani, non gli pareva poi così difficile. Vedendo che avevo preso i soldi, mi disse: «Pablos, figliolo, ti macchierai di una grave colpa se non migliorerai e non sarai buono, visto che hai un modello da seguire. Denaro, ne hai; su di me potrai sempre contare, poiché tutto quel che ho e in cui posso servirti è appunto per te». Lo ringraziai dell'offerta. Spendemmo la giornata chiacchierando di questo e di quello e restituendo la visita ai personaggi già menzionati. Mio zio, il porcaro e il mendicante passarono il pomeriggio a giocare a dadi, prendendoli al volo a quello che li aveva gettati, mescolandoli nella mano e gettandoli nuovamente. Giocavano a dadi come a carte, senza mai smettere di bere, poiché c'era sempre una brocca di mezzo. Venne la notte e se ne andarono; mio zio e io ci coricammo ognuno nel suo letto, ché nel frattempo m'ero procurato un materasso. Fece giorno; prima che si destasse, io mi alzai, e senza che mi sentisse me ne andai in una locanda; chiusi la porta a chiave da fuori e gettai poi quest'ultima in una gattaiola. Dicevo che mi nascosi in una locanda ad aspettare un'occasione per andarmene alla capitale. Gli lasciai in camera una lettera chiusa, che

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conteneva le ragioni della mia fuga, e lo avvisai di non cercarmi, poiché non desideravo vederlo più, in eterno.

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CAPITOLO QUINTO Della mia fuga e di quanto mi successe nel corso di essa fino all'arrivo alla capitale Lasciava la locanda, quella mattina, un mulattiere con un carico per la capitale. Aveva un giumento che presi a nolo; andai ad attenderlo alle porte della città, lui uscì, io mi issai su e cominciai il mio viaggio. Fra me e me dicevo: «Là dovrai restartene, briccone, calunniatore, cavaliere della strozza!». Riflettevo che stavo andando alla capitale, dove nessuno mi conosceva - e questo mi consolava più d'ogni altra cosa -, e che avrei dovuto farvi valere la mia abilità. Mi riproposi, una volta arrivato, di appendere i miei abiti e di indossare vestiti corti alla moda. Ma torniamo a quanto faceva il sunnominato zio, che doveva certo essersi offeso per via della lettera, del seguente tenore: «Signor Alonso Ramplón, dopo che Dio m'ha fatto dei doni così notevoli come togliermi d'innanzi il mio buon padre e trattenere mia madre a Toledo, dove, quanto meno, so che farà fumo, non mi manca che di veder fare a Vossignoria ciò che Vossignoria è solito fare ad altri. Io voglio essere l'unico della mia stirpe, poiché esser due è impossibile, a meno ch'io non finisca nelle Sue mani e Vossignoria non mi faccia a pezzi, così come fa con altri. Non chieda di me e non mi nomini affatto, giacché preferisco rinnegare la nostra parentela. Serva il re e addio!». Non c'è certo bisogno di sottolineare le bestemmie e i vituperi che avrà lanciato al mio indirizzo. Torniamo al mio viaggio. Io me ne andavo dunque a cavallo su quel leardo della Mancia, con un forte desiderio di non incontrare nessuno, quando da lontano vidi approssimarsi in fretta un gentiluomo, con il mantello ben indossato, la spada al fianco, i pantaloni attillati, gli stivali, la gorgiera ben sistemata e il cappello gettato da un lato. Sospettai che fosse un cavaliere che precedeva la sua carrozza; e così, nel raggiungerlo, lo salutai.

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Mi guardò e disse: «Vossignoria, signor dottore, viaggerà su quel mulo con maggior comodità che non il sottoscritto con tutta questa pompa». Pensando lo dicesse per la carrozza e i servitori che dovevano seguirlo, risposi: «A dire il vero, signore, ritengo più gradevole camminare che andare in carrozza, perché sebbene Vossignoria si troverà comodissimo in quella che La segue, le scosse che esse danno mi molestano». «Quale carrozza che mi segue?», disse lui molto agitato. E nel girarsi, per lo scatto, gli caddero i pantaloni, essendoglisi rotta l'unica cintura che portava; sicché, dopo avermi visto morire dalle risate, me ne chiese una in prestito. Vedendo che della camicia non si scorgeva più che un lembo e che del viso teneva la metà nascosta, gli dissi: «Perdio, signore, se Vossignoria non attende i Suoi servitori, io non posso aiutarLa, perché anch'io ho una sola cintura». «Se Vossignoria si sta burlando di me», disse lui, con i calzoni in mano, «s'accomodi pure, perché io questa faccenda dei servitori non la capisco proprio». E mi diede tante di quelle spiegazioni, in materia di povertà, da confessarmi, nel giro di mezza lega di cammino, che se non gli facevo la grazia di farlo salire un attimo sul mulo, non gli sarebbe più stato possibile continuare; era stanco, infatti, di camminare con le brache in mano. Mosso a compassione, scesi; e siccome lui non poteva lasciare i pantaloni, dovetti farlo salire io. Mi spaventò quel che scopersi toccandolo, poiché nella parte posteriore, quella coperta dal mantello, aveva degli occhielli foderati di pura natica. Lui, dispiacendogli che l'avessi notato ed essendo discreto, mi prevenne dicendo: «Signor dottore, non è tutt'oro quel che riluce. A Vossignoria, che ha visto la gorgiera e la bella presenza, devo essere sembrato un conte di Irlos. Ve ne sono tante di foglie dello stesso genere al mondo, per coprire quel che Vossignoria ha toccato!». Io lo rassicurai, dicendogli che non mi fidavo mai delle apparenze. «Vossignoria non ha ancora visto niente», replicò, «e in me tanto c'è da vedere quanto io effettivamente sono, dato che non nascondo nulla. Vossignoria vede qui un vero gentiluomo, montanaro di origine, che se fosse sostentato dalla nobiltà così come la sostiene, non avrebbe nulla da chiedere. Eppure, signor dottore, senza pane né carne non si sostenta buon sangue, e per la misericordia di Dio tutti l'abbiamo rosso, né può essere gentiluomo

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colui che non possiede nulla. Delle patenti di nobiltà ho compreso il valore un giorno che, essendo a digiuno, in una bettola non vollero darmi neanche due bocconi. E sì che ce ne sono di lettere d'oro! Ma l'oro vale di più sulle pillole che nelle lettere, ed è assai più utile; eppure, ci sono pochissime lettere con l'oro. Io ho venduto perfino la mia tomba per non aver neanche un posto dove cadere morto, visto che il capitale di mio padre Toribio Rodríguez Vallejo Gómez de Ampuero si perse durante una malleveria. Da vendere m'è rimasto solo il don, e sono così sfortunato che non trovo nessuno a cui possa servire, poiché chi non l'ha davanti l'ha dietro, come i Remendón, Azadón, Pendón, Blandón, Bordón e altri di questo tipo». Confesso che, anche se si mescolavano alle risate, le disavventure del gentiluomo mi mossero a compassione. Gli chiesi come si chiamava, dove andava e perché. Mi disse che gli erano rimasti tutti i nomi di suo padre: don Toribio Rodríguez Vallejo Gómez de Ampuero y Jordán. Non ho mai sentito nome più scampanante, poiché finiva per dan e cominciava per don, come il suono di un batacchio. Poi mi disse che andava alla capitale, perché un primogenito misero come lui in un piccolo paese dopo due giorni puzzava, e non riusciva a mantenervisi; perciò se ne andava alla patria comune, dove c'è posto per tutti e tavole imbandite per stomaci avventurieri. «Né mai, quando vi entro, mi mancano cento reali in borsa, un letto, qualcosa da mangiare e qualche sollazzo di quelli proibiti, poiché l'abilità a carte è come una pietra filosofale che trasforma in oro tutto quel che tocca». A queste parole mi si aprirono nuovi orizzonti, e a mo' di intrattenimento durante il viaggio gli chiesi di raccontarmi come, con chi e in qual modo vivevano nella capitale coloro che, come lui, non avevano nulla. Mi sembrava infatti cosa ben ardua in tempi come questi, quando ognuno, invece di accontentarsi delle sue cose, pretende anche quelle altrui. «Molti ce ne sono, di questi; e molti anche dell'altro tipo. La lusinga è la chiave maestra che in questa città apre tutti i cuori. E affinché quanto dico non Le sia difficile da capire, ascolti quel che mi è accaduto e i miei stratagemmi, e si libererà da questo dubbio».

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CAPITOLO SESTO In cui prosegue il viaggio e, come promesso, il racconto della sua vita e dei suoi costumi «In primo luogo bisogna sapere che nella capitale ci sono sempre il più stolto e il più saggio, il più ricco e il più povero, e gli estremi di ogni cosa, poiché essa maschera i cattivi e nasconde i buoni; inoltre, vi è gente come me, del cui ceppo non si conoscon radici né chioma. Fra noi ci distinguiamo con nomi diversi: gli uni li chiamiamo cavalieri futili, gli altri vacui, falsi, scipiti, morti di fame e cani famelici. Il nostro santo patrono è lo stratagemma. Gli stomaci li riempiamo il più delle volte di niente, è un vero guaio dover dipendere per i pasti dall'altrui generosità. Siamo il terrore dei banchetti, i tarli delle bettole e i convitati per forza. Viviamo d'aria e siamo contenti. Siamo gente che mangia un porro e finge che sia un cappone. Se uno viene a visitarci a casa, troverà le nostre stanze piene di ossi di agnello e pollo, bucce di frutta, l'ingresso ingombro di piume e pelli di coniglio; tutto questo l'abbiamo raccolto di notte per potercene adornare di giorno. Entrando ce la prendiamo con il locandiere: "È mai possibile che io non riesca a far spazzare questa serva? Vossignoria mi perdoni, ma hanno mangiato qui alcuni amici, e questi benedetti domestici...", e così via. Chi non ci conosce crede che sia vero e che ci sia stato un banchetto. E che dirò del modo di mangiare in casa d'altri? Dopo aver parlato con uno sì e no mezza volta, già sappiamo dov'è la sua casa; allora andiamo a fargli visita, ma sempre all'ora di metter qualcosa sotto i denti, quando sappiamo bene che lo troveremo a tavola. Diciamo che ci ha condotto lì il grande affetto che nutriamo per lui, la sua acuta intelligenza, eccetera eccetera. Quando ci domandano se abbiamo mangiato e vediamo che non hanno ancora iniziato, diciamo di no; e se ci invitano non aspettiamo certo che ce lo ripetano, perché tali esitazioni ci hanno già procurato lunghe vigilie. Se invece hanno cominciato, diciamo di sì; e anche se l'amico è abilissimo a

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tagliare il pollo, il pane, la carne o qualunque altra cosa, per avere l'occasione di mandar giù un boccone diciamo: «Ora Vossignoria lasci stare; La voglio servire proprio come un maggiordomo; al signor Tal dei Tali (e nominiamo un signore morto, un duca o conte), Dio l'abbia in gloria, piaceva di più vedermi tagliare le pietanze che mangiare». Detto questo, prendiamo il coltello e tagliamo il tutto in bocconcini, e alla fine diciamo: «Ma che buon odore! Certo che sarebbe un'offesa alla cuoca non assaggiarlo. Quant'è brava!». Detto fatto, in assaggi se ne va mezza porzione: il navone perché è navone, il lardo perché è lardo, e tutto quanto per quel che è. Quando di pranzi simili dobbiamo fare a meno, abbiamo già la nostra minestra prenotata in un qualche convento; non la sorbiamo mai in pubblico, ma di nascosto, dando a credere ai frati che lo facciamo più per devozione che per necessità. È uno spettacolo vedere uno di noi in una casa da gioco: con quanta cura porge e smoccola le candele, porta gli orinali, mette le carte e loda ogni cosa di quello che vince, e tutto per un miserabile reale di mancia. Per quanto riguarda i vestiti, sappiamo a memoria dove si trovano tutti i rigattieri. E così come altrove c'è un'ora fissa per le preghiere, noi ne abbiamo una per i rammendi. Dovrebbe vedere, la mattina, quante cose risaniamo: dato che il sole è il nemico dichiarato, perché rivela i rammendi, i punti e gli stracci, la mattina ci mettiamo a gambe divaricate sotto i suoi raggi; così, nell'ombra, davanti a noi, vediamo quella dei cenci e delle sfilacciature del cavallo, e con un paio di forbici facciamo la barba ai calzoni. E dato che è sempre il cavallo a consumarsi tanto, Vossignoria dovrebbe vedere come tagliamo dalla stoffa di dietro per ripopolare la parte anteriore; per mancanza di stoffa portiamo il fondo dei calzoni così scarso che è ridotto ormai alla sola fodera. Ma lo sa solo la cappa, e ci guardiamo perciò dai giorni di vento, dal salire su per scale illuminate e dal montare a cavallo. Studiamo ogni posizione controluce, e quindi in pieno giorno camminiamo con le gambe molto unite e facciamo le riverenze con le sole caviglie, poiché, se appena aprissimo le ginocchia, si vedrebbero delle finestre.

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Non c'è una sola cosa su tutto il nostro corpo che non sia stata qualcos'altro e non abbia una sua storia. Vede bene Vossignoria, verbigrazia» - disse - «questa giubba; ebbene, inizialmente fu un paio di brache, nipoti di una cappa e bisnipoti di un pastrano (questo era all'origine), e ora attende di essere utilizzata come rammendo per calzini e altro. Le sopraccalze erano fazzoletti, essendo state però già tovaglie, e prima ancora camicie, a loro volta figlie di lenzuola; alla fine le usiamo come carta, sulla carta scriviamo, e poi ne facciamo polvere per resuscitare le scarpe, che ho visto rivivere grazie a simili medicazioni anche quando sembravano incurabili. Che dire inoltre del modo in cui, di notte, ci allontaniamo dalla luce affinché non si vedano i ferraioli calvi e i farsetti spelacchiati? Non vi sono rimasti più peli che su un ciottolo, giacché Dio ha voluto metterceli nella barba e toglierceli dalla cappa. Per non spendere in barbieri, facciamo sempre in modo di aspettare che qualcun altro dei nostri abbia anch'egli la barba lunga, e allora ce la tagliamo l'un l'altro, in conformità al precetto evangelico che recita: "Aiutatevi da buoni fratelli". Stiamo molto attenti a non andare gli uni in casa degli altri, se sappiamo di frequentare la stessa gente. Ne regna di gelosia fra gli stomaci! Siamo obbligati ad andare a cavallo una volta al mese, anche se su un ciuco, per le pubbliche vie; e obbligati ad andare in carrozza una volta all'anno, anche se a cassetta o di dietro. Ma, seppure ci capita di trovarci all'interno della carrozza, stiamo sempre a sporgerci fuori dallo sportello, facendo riverenze affinché tutti ci vedano, e parlando con gli amici e i conoscenti anche se voltano lo sguardo. Se dinanzi a qualche dama sentiamo un prurito, conosciamo un espediente per grattarci in pubblico senza esser visti: se ci prude una coscia, raccontiamo che abbiamo visto un soldato trafitto da parte a parte e mostriamo con la mano quella dove sentiamo il prurito, grattandocela invece di indicarla soltanto. Se siamo in chiesa, e ci prude il petto, ci battiamo come se si fosse al sanctus, anche se magari non è che l' introibo. Ci alziamo, e

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appoggiandoci a uno spigolo ci grattiamo, fingendo di sollevarci sulla punta dei piedi per poter vedere. Cosa posso dire delle menzogne? Nella nostra bocca non si troverà mai la verità. Nelle conversazioni inseriamo duchi e conti, gli uni come amici e gli altri come parenti, facendo in modo che tali signori siano o morti, o assai lontani. Ma va notato soprattutto che non ci innamoriamo mai se non di pane lucrando, poiché l'ordine vieta le donne svenevoli, per belle che siano; così, corteggiamo sempre un'ostessa per il pranzo, una locandiera per un letto, oppure una di quelle che sistemano le gorgiere che ogni uomo deve indossare. E benché, mangiando così poco e bevendo così male, non si possa fare il proprio dovere con tante, quando arriva il loro turno restano tutte soddisfatte. Chi vede questi miei stivali, come può mai pensare che cavalcano direttamente le gambe pelose, senza calzini né altro? E chi vede questa gorgiera, perché dovrebbe pensare che non posseggo una camicia? Tutto può mancare a un cavaliere, signor dottore, ma non una gorgiera ampia e inamidata. In primo luogo, perché così essa è un bell'ornamento per la persona; inoltre perché, dopo che sia stata rovesciata da ogni verso, è assai nutriente; succhiandone con abilità l'amido, infatti, si mette insieme la cena. E infine, signor dottore, un cavaliere come noi deve avere più svenimenti di una donna incinta al nono mese; solo così riesce a vivere nella capitale. Si vede ora prospero e ricco, ora all'ospedale. Però in fin dei conti si vive, e chi sa barcamenarsi è re, per poco che possegga». Mi divertì tanto lo strano modo di vivere del gentiluomo e tanto me ne dilettai che, distratto da questo e da altre cose, arrivai a piedi fino a Rozas, dove ci fermammo a dormire quella notte. Il gentiluomo cenò con me; non aveva un soldo e io mi sentivo debitore verso di lui per i suoi consigli, perché grazie a essi aprivo gli occhi su molte cose, propendendo ora per una vita d'imbrogli. Gli espressi le mie intenzioni prima che ci coricassimo; mi abbracciò mille volte, dicendo che aveva sempre sperato di poter

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impressionare con i suoi ragionamenti un uomo di tale intelligenza. Mi offrì il suo aiuto per introdurmi nella capitale fra gli altri confratelli dell'imbroglio e per trovarmi un alloggio in compagnia di tutti loro. Accettai, e non gli dissi di avere con me tutti quegli scudi, ma solo cento reali, che bastarono, per le opere buone che gli avevo fatto e gli stavo facendo, a farmelo amico. Dal locandiere gli comprai tre stringhe e ci si legò i pantaloni. Quella notte dormimmo; la mattina successiva ci svegliammo presto, ed entrammo così a Madrid.

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LIBRO TERZO CAPITOLO PRIMO Di quel che mi accadde nella capitale dal mio arrivo fino a quando fece giorno Entrammo nella capitale alle dieci del mattino. Smontammo di cavallo, di comune accordo, davanti alla casa degli amici di don Toribio. Andò alla porta, bussò, e gli aprì una vecchietta poveramente vestita e assai malandata. Lui domandò dei suoi amici, e lei rispose che erano andati a cercarsi da mangiare. Rimanemmo soli fino allo scoccare del mezzogiorno, e passai il tempo ascoltandolo con attenzione, mentre mi incoraggiava a professare una facile vita. A mezzogiorno e mezza entrò uno spirito coperto da capo a piedi da un vestito a lutto più consunto della sua vergogna. I due parlarono fra loro in gergo picaresco, e ne risultò alla fine che quello mi abbracciò e mi offrì i suoi servigi. Parlammo un po', poi lui estrasse un guanto con sedici reali, e una lettera con la quale, dicendo che si trattava della licenza per chiedere l'elemosina per un povero, se li era conquistati. Vuotò il guanto, ne estrasse un altro, e li ripiegò com'è usanza dei medici. Io gli chiesi perché non li indossava, e disse che erano entrambi della stessa mano, e che si trattava quindi solo di uno stratagemma per far vedere che possedeva dei guanti. Frattanto, notai che non si toglieva la cappa e, essendo novellino, ne chiesi il motivo. «Figliolo», mi rispose, «sulla schiena ho una gattaiola, accompagnata da un rammendo di lanetta e da una macchia d'olio; questo lembo di mantello la copre, e così almeno posso andare in giro». Si tolse la cappa, e m'accorsi che sotto la sottana c'era un gran gonfiore; pensai fossero calzoni, perché lo sembravano, quando lui, nel ritirarsi a spulciarsi, se li rimboccò, e vidi che erano invece due rotoli di cartone che teneva appesi alla cinta e infilati sulle cosce, tanto

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da parere appunto calzoni sotto il vestito a lutto. Non portava né camicie né brache, e aveva ben poco da spulciarsi, nudo com'era. Entrò nello spulciatoio, e affinché non entrasse nessun altro girò una tavoletta, come quelle che mettono sulla porta delle sacrestie, dove c'era scritto: «C'è uno che si spulcia». Ringraziai Iddio, vedendo quanto ha aiutato l'uomo dandogli almeno la destrezza, visto che gli ha tolto la ricchezza. «Io», disse il mio buon amico, «torno dalla strada con un mal di calzoni tale che mi costringe a rammendarli». Chiese se c'erano alcuni ritagli - giacché la vecchia raccoglieva stracci per strada due volte alla settimana, un po' come quelle che commerciano in carta per accomodare le cose incurabili dei cavalieri; l'altro disse di no, e che, per il mal di calzoni dovuto alla mancanza di stracci, don Lorenzo 'Iñiguez del Pedroso se ne stava a letto già da quindici giorni. Nel frattempo arrivò un tizio con degli stivali da viaggio, un vestito scuro e un cappello con le falde unite dai due lati. Venne a sapere dagli altri del mio arrivo, e mi parlò con molto affetto. Si tolse la cappa e portava - chi l'avrebbe mai immaginato - una giubba, di panno scuro davanti e dietro di tela bianca, con la sua pelle sudata come fodera. Non riuscii a trattenere il riso, e lui, mantenendo la calma, mi disse: «Ci farà l'abitudine e non riderà più. Scommetto che non sa perché porto questo cappello con la falda all'insù». Io dissi che lo faceva per galanteria e per farsi guardare. «Semmai affinché non mi vedano bene», disse; «sappia che lo faccio perché esso è privo di nastro, e così non se ne accorgono». E, nel dire questo, tirò fuori più di venti lettere e altrettanti reali, dicendo che quelle non le aveva potute consegnare. Su ognuna gravava la tassa di un reale, e le aveva scritte lui stesso; vi apponeva la firma di chi gli pareva, scriveva notizie inventate che inviava poi alle persone più onorevoli e le portava così abbigliato, riscuotendo l'affrancatura. Tutto questo lo faceva ogni mese, e mi affascinò vedere quel modo di vivere così singolare. Ne entrarono poi altri due, uno con un giubbetto di panno lungo fin sopra il ginocchio, e una cappa dello stesso tipo con il bavero rialzato affinché non si vedesse la tela, ormai sdrucita. I pantaloni erano di tela di seta, ma solo nei punti visibili: il resto era di panno rosso. Questi arrivò

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bisticciando con l'altro che portava il colletto perché non possedeva gorgiera, delle maniche a sbuffo perché non aveva una cappa, e una stampella con una gamba avvolta in stracci e lembi perché non aveva che un calzone. Diceva d'essere un soldato, e lo era stato davvero, ma pessimo e in luoghi tranquilli. Raccontava di sue singolari imprese, ed essendo soldato riusciva a entrare da qualsiasi parte. Diceva quello in giubba e quasi-calzoni: «Me ne dovete la metà, o per lo meno una buona parte, e se non me la date, per Dio...». «Non bestemmiate», disse l'altro, «una volta tornati a casa, non essendo zoppo, con questa stampella vi darò mille bastonate». Fra un «me le darete» e un «non me le darete» e le solite obiezioni, uno si scagliò sull'altro e nella zuffa che ne seguì bastarono i primi strattoni a farli rimanere con i brandelli dei vestiti in mano. Li riappacificammo e domandammo la causa della lite. Disse il soldato: «Volete scherzare con me? Non ne avrete neppure la metà! Lorsignori devono sapere che, mentre mi trovavo in piazza San Salvador, un bambino si è avvicinato a questo poveraccio, e gli ha chiesto se io ero l'alfiere Juan de Lorenzana. Avendogli scorto in mano non so bene cosa, lui ha risposto di sì. Me l'ha portato, e chiamandomi alfiere, mi ha detto: "Vossignoria, La desidera questo bambino". Io, avendo capito subito di cosa si trattava, dissi che ero proprio io. Ho preso in consegna il biglietto, accompagnato da dodici fazzoletti, e ho scritto una risposta per la madre, che li aveva inviati a qualcuno con quel nome. Adesso me ne chiede la metà. Io piuttosto che darglieli mi farei a pezzi. Tutti li deve consumare il mio naso». La sentenza gli diede ragione. Solo che gli si proibì di soffiarcisi il naso, e gli si ordinò di consegnarli alla vecchia per onorare la comunità facendone colletti e polsini che, messi in bella mostra, potessero simulare delle camicie; nell'ordine, infatti, era vietato soffiarsi il naso, se non nell'aria, e il più delle volte si deglutiva, cosa del resto sostanziosa e di gran risparmio. La questione finì lì. Calata la notte, ci coricammo su due soli letti; eravamo talmente vicini

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l'uno all'altro da sembrare attrezzi nel loro astuccio. La cena passò in bianco. I più non si spogliarono; sicché, coricandosi così come andavano in giro di giorno, osservarono il precetto di dormire nudi.

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CAPITOLO SECONDO In cui prosegue l'argomento trattato e si narrano altri strani avvenimenti Come Dio volle si fece giorno, e ci risistemammo tutti. Già mi sentivo a mio agio in loro compagnia, come se fossimo stati fratelli, poiché questa immediatezza e questa solidarietà uno le ritrova sempre nelle avversità. Uno di loro si metteva a dodici riprese una camicia suddivisa appunto in dodici stracci, dicendo una preghiera per ciascuno di essi, neanche fosse stata la vestizione di un sacerdote. Un altro si perdeva una gamba nei meandri dei pantaloni, e finiva per ritrovarla là dove meno gli conveniva che si vedesse. Un terzo, poi, esigeva che lo si aiutasse a mettersi la giubba, e dopo mezz'ora ancora non ci si era riusciti. Fatto questo (già non era poco), tutti impugnarono ago e filo per dare qualche punto a questo o quello strappo. C'era chi, per farsi un rammendo sotto il braccio, allungandolo disegnava una L. Uno, ginocchioni, rammendando un cinque, soccorreva le calze. Un altro, piegando le gambe e mettendo la testa fra di esse, si trasformava in un gomitolo. Nemmeno Bosch ha mai dipinto posizioni così strane come quelle che vidi io, mentre loro cucivano e la vecchia dava loro il materiale (stracci e rappezzi di differenti colori), che aveva portato il soldato. Finì l'ora della cura - così la chiamavano - e si guardarono l'un l'altro per scoprire quel che ancora non andava. Decisero di uscire, e io dissi che prima dovevano farsi venire qualche idea per il mio vestito, poiché volevo comprarne uno con i miei cento reali e togliermi la sottana. «Questo poi no», dissero loro, «il denaro vada alla cassa comune, e vestiamolo con quel che abbiamo di riserva. Poi assegnamogli la sua diocesi in città, dove solo lui lavori e si guadagni la vita». Mi sembrò giusto; depositai il denaro e, in un attimo, della sottanina mi fecero una giubba da lutto in panno; accorciarono il ferraiolo, e andò bene.

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Quel che avanzò del panno lo scambiarono con un vecchio cappello ritinto; come nappa gli aggiunsero dei fiocchi di cotone da calamaio, assai ben messi. Mi tolsero il colletto e i pantaloni, e al loro posto mi misero dei calzoni legati, con delle asole solo sul davanti, visto che di dietro e sui fianchi erano scamosciati. Le mezze calze di seta non erano neanche tali, perché non superavano l'altezza di quattro dita al di sotto del ginocchio; le quali quattro dita erano coperte comunque dagli stivali che portavo sulle calze colorate. La gorgiera era così rotta da rimanere completamente aperta; me la misero, dicendo: «La gorgiera è difettosa dietro e ai lati. Vossignoria, se qualcuno La guarda, deve girare la testa verso l'interlocutore, proprio come fa il girasole con il sole; se sono in due e La guardano di profilo, indietreggi lentamente; e per quelli di dietro, tenga sempre il cappello appoggiato sulla nuca, dimodoché la falda copra la gorgiera e scopra tutta la fronte; e se Le domandano perché va in giro così, risponda che può andare dovunque a viso scoperto». Mi dettero una scatola con del filo bianco e nero, seta, spago e aghi, ditale, panno, tela, raso e altri scampoli, e un coltello; mi misero uno sperone sulla cinta, esca e acciarino in una borsa di cuoio, e mi dissero: «Con questa scatola può girare tutto il mondo, senza più bisogno di amici o di parenti; là sono racchiuse infatti tutte le nostre medicine. La prenda e la conservi». Mi destinarono al quartiere di San Luis, affinché mi ci cercassi da vivere; così cominciai la mia giornata uscendo di casa con gli altri, anche se, essendo un novellino, per iniziarmi alle truffe mi diedero per padrino - proprio come accade a un sacerdote appena ordinato - colui che mi aveva portato e convertito. Uscimmo di casa lentamente, con il rosario in mano, diretti verso il quartiere a me destinato. Facevamo inchini a tutti; dinanzi agli uomini ci toglievamo il cappello, sperando di poter fare lo stesso con le loro cappe; alle donne facevamo una riverenza, poiché di esse, come delle paternità, godono assai. A uno il mio buon mentore diceva: «Domani mi portano il denaro»; a un altro: «Vossignoria aspetti ancora un giorno, la banca se la sta prendendo comoda». Chi gli chiedeva la cappa, chi sollecitava la cintura: dal che dedussi che era così amico dei suoi amici da non possedere più nulla di suo. Saltellavamo da un marciapiede all'altro per

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non passare davanti alle case dei creditori. Uno gli chiedeva la pigione, un altro la spada e un altro ancora lenzuola e camicie, dal che capii anche che era un cavaliere a nolo, proprio come i muli. A un certo punto, da lontano vide un uomo che, a quanto mi disse, per un debito gli avrebbe cavato gli occhi; lui, però, il denaro non l'aveva. Per non farsi riconoscere, si sciolse dietro le orecchie i capelli che portava raccolti, e rimase con la barba alla nazzarena, a metà fra Veronica e un cavalier barbone. Si applicò poi un cerotto su un occhio e cominciò a parlarmi in italiano. Tutto questo mentre l'altro avanzava, ché quello, occupato a chiacchierare con una vecchia, non l'aveva ancora visto. A dire il vero vidi poi quell'uomo girarci intorno, come un cane pronto all'attacco; si faceva più croci di una fattucchiera e se ne andò dicendo: «Gesù, pensavo proprio che fosse lui. Chi ha perduto i buoi...». Io morivo dalle risate vedendo la faccia del mio amico. Entrò in un portone a raccogliersi nuovamente la chioma e a staccarsi il cerotto, e disse: «Questi sono gli espedienti necessari per non pagare i debiti. Imparate, fratello, ché ne vedrete a migliaia di cose simili in questa città». Proseguimmo oltre e a un angolo di strada, essendo mattina, prendemmo due fettine di cotognata e dell'acquavite da una picarona che ci offrì tutto gratis, dopo aver dato il benvenuto al mio mentore. Poi lui mi disse: «Dopo questo, per oggi mangiare non sarà più un pensiero; questo, per lo meno, non Vi può mancare». Io mi preoccupai, pensando che il pranzo era ancora in forse, e per me replicò molto afflitto il mio stomaco. Lui mi rispose: «Hai ben poca fede nella religione e nell'ordine degli affamati. Il Signore non abbandona mai né corvi, né cornacchie, né scrivani, e dovrebbe forse abbandonare i morti di fame? Hai uno stomaco piccolo». «È vero», dissi, «però ho una gran paura di avere dentro ancora meno, cioè niente». Frattanto l'orologio suonò le dodici; e siccome ero nuovo a quella vita, al mio stomaco la cotognata non andò giù, e avevo fame proprio come se non l'avessi mangiata. Rinnovatosi con l'ora il ricordo del pasto, mi volsi verso l'amico e dissi: «Fratello, questo della fame è un terribile noviziato; uno è

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abituato a mangiare a quattro palmenti, e lo mettono a stecchetto. Se voi non sentite nulla, non è strano, poiché, essendo stato allevato nella fame fin da bambino, come quel re con il veleno, ormai ve ne nutrite. Non vi vedo fare particolari sforzi per mettere qualcosa sotto i denti, e quindi mi risolvo a fare quel che potrò». «Corpo di Dio», replicò, «e che Vi prende? È appena suonato mezzogiorno, e avete tanta fretta? Avete voglie assai puntuali e perentorie, e invece occorre sopportare con pazienza qualche paga arretrata. Nient'altro che mangiare tutto il giorno! E che altro fanno gli animali? Non sta scritto da nessuna parte che un cavaliere dei nostri abbia mai avuto la diarrea; anzi, con tutti i bisogni che abbiamo, spesso non ne facciamo neanche. Già Vi ho detto che Dio non abbandona mai nessuno. E se avete tanta fretta, io vado a farmi dare la zuppa a San Gerolamo, dove ci sono frati pienotti come capponi, e lì farò il pieno. Se Voi volete seguirmi, venite, e altrimenti ognuno affronti il suo destino». «Addio», dissi io, «i miei bisogni non sono così meschini da poter essere soddisfatti con gli avanzi altrui. Ciascuno per la sua strada». Il mio amico se ne andò tutto teso, guardandosi i piedi; estrasse alcune briciole di pane che serbava a questo scopo in una scatolina, e se le sparse per la barba e sul vestito, così che sembrasse che aveva già mangiato. Io già tossivo e mi stuzzicavo i denti, per nascondere la mia magrezza, pulendomi i baffi, con la faccia coperta dalla cappa che mi ricadeva sulla spalla sinistra, e giocando con i dieci grani del rosario. Tutti quelli che mi vedevano pensavano che avessi già mangiato, mentre semmai ero io ad esser stato mangiato, ma dai pidocchi. Me ne andavo pieno di fiducia nei miei scudarelli, anche se mi rimordeva la coscienza perché era contrario alle regole dell'ordine che chi vive con la pancia vuota mangi a proprie spese. Mi ero già deciso a rompere il digiuno, quando arrivai all'angolo di calle de San Luis, dove c'era un rosticciere. Mi si affacciò incontro un pasticcio da otto reali, e mentre l'odore del forno mi penetrava nel naso, vi fissai lo sguardo e cambiai immediatamente andatura, proprio come un bracco con un gran fiuto per la selvaggina. Guardai il pasticcio con tanta foga, che si seccò come colpito dal malocchio. Allora pensai a vari stratagemmi per rubarlo, anche se poi, in certi

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momenti, quasi mi risolvevo a pagarlo. Frattanto, si fece l'una. Ero così angosciato che decisi di metter piede in una delle bettole che si trovano da quelle parti. Ne stavo puntando una quando, come Dio volle, incontro un certo dottor Flechilla, un mio amico, che veniva giù per la strada al piccolo trotto, con più brufoli in faccia di un uomo sanguigno, e così inzaccherato di fango da sembrare un carretto con la sottana. Vedendomi, mi venne incontro, e fu già tanto che mi riconoscesse, visto come mi ero combinato. L'abbracciaI, lui mi chiese come stavo ed io gli risposi: «Ah, caro dottore, quante cose dovrei raccontarLe. Mi spiace solo di dover partire stasera e di non averne quindi il tempo». «Questo dispiace anche a me», replicò, «e se non fosse tardi, e non andassi di fretta perché devo mangiare, mi tratterrei di più, ma mi aspettano una mia sorella sposata e suo marito». «È qui la signora Ana? A costo di lasciar perdere tutto, andiamo, non posso certo mancare nei suoi confronti». Sgranai gli occhi sentendo che non aveva mangiato. Andai con lui, e cominciai a raccontargli che sapevo dov'era una donnetta che lui aveva molto amato ad Alcalá, e che avrei potuto introdurlo nella sua casa. Il mio invito gli andò dritto al cuore, e fu davvero un ottimo stratagemma parlargli di cose che gli facevano piacere. Così conversando arrivammo a casa sua. Entrammo, io offrii i miei servigi a sua sorella e al cognato, e costoro, pensando che se venivo a quell'ora dovevo essere stato invitato, cominciarono a dire che se avessero saputo di avere un tale ospite avrebbero preparato qualcosa. Io colsi l'occasione e mi invitai, dicendo che ero uno di casa e un vecchio amico, e che m'avrebbero offeso facendo tanti complimenti. Sedettero e sedetti anch'io; e affinché l'altro tollerasse maggiormente l'intrusione - in effetti non m'aveva invitato, né gli era mai passato per il capo di farlo -, di tanto in tanto gli raccontavo della ragazza, dicendo che m'aveva chiesto di lui, che ancora pensava a lui e altre menzogne dello stesso genere; in questo modo accettò di vedermi inghiottire, e la strage che feci dell'antipasto non l'avrebbe fatta una pallottola nella pelle di un giubbetto. Arrivò la minestra, e in due sorsate me la mangiai quasi tutta, senza malizia,

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ma con una fretta così ferina che sembrava che nemmeno fra i denti la tenessi al sicuro. Per Iddio che è nostro padre, la terra del cimitero dell'Antigua di Valladolid non ci mette meno tempo a mangiarsi un corpo - lo decompone infatti in ventiquattr'ore - di quanto ce ne abbia messo io a disfarmi di quel pasto; impiegai anzi meno di un espresso. Loro dovettero certo accorgersi delle selvagge sorsate di brodo e del mio modo di vuotare la ciotola, della persecuzione degli ossi e della distruzione della carne. A dire il vero, fra un lazzo e l'altro mi riempii di briciole pure le saccocce. Sparecchiarono la tavola; il dottore ed io ci appartammo per parlare della visita a casa della suddetta ragazza. Io gli feci sembrare tutto facile. E dato che parlavamo accanto a una finestra, finsi di sentire che mi chiamavano da sotto e dissi: «Chiamate me, signore? Vengo subito». Gli chiesi licenza, dicendo che poi sarei tornato. Ancora mi aspetta; sono sparito infatti come quello che dice: «mangiato il pane, disfatta la compagnia». Mi incontrò poi molte altre volte, e mi scusai sempre con lui raccontandogli mille bugie che non è il caso di ripetere qui. Me ne andai per le vie del Signore. Arrivai alla porta di Guadalajara e mi sedetti su una panchina di quelle che i mercanti tengono davanti all'ingresso dei loro negozi. Volle Dio che venissero al negozio due ragazze di quelle che chiedono soldi in prestito fidando nella bellezza del loro viso, con il volto coperto per metà, accompagnate dalla loro mezzana e da un paggetto. Domandarono se c'era qualche terzopelo di eccellente fattura. Per attaccare discorso cominciai allora a giocare con la parola, da terzo a pelato, da pelo ad appello e contropelo, e smontai il vocabolo in ogni modo possibile. Mi resi conto che la mia disinvoltura aveva fatto pensare loro di poter trovare qualcosa nel negozio, e io, come chi non ha nulla da perdere, offrii loro tutto ciò che volevano. Rifiutarono, dicendo che non accettavano nulla da uno sconosciuto. Io approfittai dell'occasione, dicendo che offrir loro qualcosa sarebbe stato osare troppo, ma che almeno mi facessero la grazia di accettare alcune stoffe che mi avevano portato da Milano, e che in serata un paggio - dissi loro che era il mio uno che stava lì davanti ad aspettare il suo padrone, impegnato in un altro negozio, e che perciò non portava il cappuccio - le avrebbe consegnate a casa loro. Affinché mi considerassero un uomo

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stimato e di qualità non facevo che togliermi il cappello dinanzi a tutti i giudici e cavalieri che passavano e, pur senza conoscerne neanche uno, ero gentile con loro come se mi fossero assai familiari. Da questo, e da cento scudi d'oro, presi da quelli che avevo da parte con il pretesto di fare elemosina a un povero, esse rimasero abbagliate. Sembrò loro che si fosse fatto tardi e che fosse ora d'andar via, e me ne chiesero licenza, raccomandandomi di mantenere il segreto sulla visita del paggio. Io chiesi loro per favore e quasi per grazia un rosario montato in oro che aveva la più graziosa delle due, come pegno per il fatto che le avrei riviste il giorno successivo. Esitarono prima di darmelo; offrii allora a mia volta in pegno i cento scudi, e mi dettero il loro indirizzo. Allo scopo di imbrogliarmi ancor meglio, mostrarono d'aver fiducia in me e mi chiesero dove abitavo, con la scusa che, essendo gente di alto rango, un paggio non poteva entrare a casa loro a qualunque ora. Io le accompagnai per Calle Mayor ed entrando in calle de las Carretas scelsi la casa che mi parve migliore e più grande. Alla porta c'era una carrozza senza cavalli. Dissi loro che quella era la mia casa, e che si trovava lì con padrone e carrozza per servirle. Mi chiamavo don 'Alvaro de Córdoba, aggiunsi, e varcai l'uscio davanti ai loro occhi. Ricordo poi che appena usciti dal negozio feci un cenno a uno dei paggi con grande autorità. Finsi di dirgli che restassero tutti lì ad aspettarmi - così raccontai loro di aver detto -, mentre in realtà gli domandai se era un domestico di mio zio il commendatore. Disse di no; e in questo modo, da buon cavaliere, mi servii dei domestici altrui. Calò la notte oscura, e ce ne andammo tutti a casa. Entrai e trovai il soldato degli stracci con una torcia di cera che gli avevano dato per accompagnare un morto, e che lui si era poi portata via. Questi si chiamava Magazo e veniva da Olías; era stato capitano in una commedia, e aveva lottato contro i Mori in un balletto. A quelli delle Fiandre diceva di esser stato in Cina; e a quelli della Cina, nelle Fiandre. Discuteva di come disporre un campo, anche se poi non sapeva farvi altro che spulciarsi. Nominava dei castelli che sì e no aveva visto raffigurati sulle monete. Celebrava molto la memoria di don Giovanni d'Austria, e gli sentii dire molte volte di Luis

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Quijada che era stato un amico onorato. Nominava turchi, galeoni e capitani, tutti quelli di cui aveva letto nelle strofe che si vedevano in giro. E dato che non sapeva niente di mare, perché di navale aveva tutt'al più il fatto di mangiar navoni, raccontando la battaglia che don Giovanni d'Austria aveva vinto a Lepanto, sosteneva che quel Lepanto era stato un moro assai coraggioso; non sapeva nemmeno, il poveretto, che si trattava del nome di un golfo. Passavamo con lui ore davvero divertenti. Entrò poi il mio compagno con il naso rotto e tutta la testa avvolta in stracci, ricoperto di sangue e assai sporco. Gliene domandammo la ragione, e disse che era stato a mangiare la minestra alla chiesa di San Gerolamo, e che aveva chiesto doppia porzione, dicendo che l'altra era per persone onorevoli ma povere. Allora per dargliela l'avevano tolta agli altri mendicanti, e questi, incolleriti, l'avevano seguito e avevano visto che, in un angolo dietro il portale, se le era sorbite tutte e due con avidità. Avevano cominciato ad accalorarsi sul fatto se fosse giusto o meno ingannare per mangiare e togliere agli altri in favore di se stessi, poi si era passati ai bastoni con relativi bernoccoli e lividi sulla sua povera testa. Lo assalirono con i boccali, e la ferita al naso gliela provocò uno facendogli annusare una ciotola di legno con una fretta maggiore di quella che sarebbe stata conveniente. Gli tolsero la spada; alle grida si affacciò anche il portinaio, ma non riuscì a metter pace. Alla fine, il poveraccio si vide in pericolo tale da esclamare: «Restituirò tutto quello che ho mangiato!». Ma ancora non bastava, perché ormai davano peso solo al fatto che lui chiedeva per altri, ma si vergognava di farlo per sé. «Ma guardatelo, ridotto come uno straccio, come una bambola di pezza, più triste di una rosticceria durante la Quaresima, con più buchi di un flauto, più rammendi di un cavallo pezzato, più macchie di un marmo venato, e più punti di un libro di musica», diceva uno studentone di quelli dal mantellino e dal berretto. «È roba che a prendere la minestra dal santo benedetto vengono certe persone che potrebbero esser vescovi o ricoprire qualunque altra carica, e lui, un tapino qualsiasi, si vergogna di mangiarla. E io che sono laureato in filosofia a Sigüenza, allora?». Il portinaio si mise di mezzo anche lui, quando un vecchietto che era lì disse che, sebbene venisse a prendere quella brodaglia, discendeva ed era parente in realtà del Gran Capitano.

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E qui smetto di raccontare, perché il mio compagno a quel punto era già fuggito via, sgranchendosi le ossa.

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CAPITOLO TERZO In cui continua lo stesso argomento, finché tutti finiscono in carcere Entrò Merlo Díaz con la cintura trasformata in una filza di pentoline d'argilla e di bicchieri, che con scarso timor di Dio aveva sottratto andando a chiedere da bere alle monache. Ma lo batté don Lorenzo del Pedroso, che entrò con un'ottima cappa, scambiata con la propria a un tavolo da biliardo; quella vecchia era infatti così spelacchiata che a chi l'aveva ora non avrebbe coperto neanche un pelo. Don Lorenzo era solito togliersi la cappa come se volesse giocare, e metterla insieme alle altre; poi, fingendo di non giocare più, andava a riprenderla, sceglieva quella che più gli piaceva e si dileguava. Lo faceva sia al gioco degli anelli, sia a quello delle bocce. Ma tutto questo si ridusse a una sciocchezza quando vedemmo entrare don Cosme, attorniato da ragazzi con la scrofola, il cancro e la lebbra, feriti e monchi; si era trasformato in un guaritore grazie a certi scongiuri e preghiere che aveva appreso da una vecchia. Guadagnava per tutti noi, poiché se quello che veniva a curarsi non aveva un rigonfiamento sotto la cappa, o non gli tintinnava il denaro in tasca, o non si sentiva il pigolio di qualche cappone, lui non lo assisteva. Aveva depredato mezzo regno. Faceva credere tutto quello che voleva; non s'era mai visto un tale maestro nella menzogna, a un punto tale che nemmeno per sbaglio diceva la verità. Parlava del Bambin Gesù, entrava nelle case con il Deo gratias, diceva il ritornello dello «Spirito Santo sia con voi...». Portava con sé tutto il corredo dell'ipocrita; aveva un rosario con dei grani enormi; come per distrazione lasciava che gli si scorgesse sotto la cappa un pezzo di disciplina spruzzata di sangue, che in realtà gli era uscito dal naso; faceva credere, grattandosi, che i pidocchi fossero cilici e che la fame da lupo derivasse da un digiuno volontario. Parlava delle tentazioni; nominando il demonio, diceva «Dio ce ne scampi e liberi»; entrando in chiesa baciava il suolo, si chiamava indegno e sulle donne non alzava mai gli occhi, semmai alzava loro le gonne. In questo modo attirava a sé la gente, che gli si raccomandava, anche se sarebbe stato meglio raccomandarsi al diavolo. Perché lui era giocatore e tutto il resto (bari li chiamavano e con una brutta parola malandrini). Nominava il nome di Dio

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alcune volte invano, e le altre a vuoto. Per quanto riguarda le donne, aveva sei figli, e due pinzochere le aveva appena ingravidate. Insomma, quei comandamenti divini cui non trasgrediva, li incrinava. Arrivò Polanco facendo grande strepito, e chiese il suo saio grigio, la croce grande, la lunga barba finta e le campanelle. Di notte andava in giro in questa maniera, dicendo: «Ricordatevi che dovete morire, e fate del bene alle anime...», ecc. Così raccoglieva molte elemosine ed entrava nelle case che vedeva aperte; se non c'erano testimoni e non lo disturbava nessuno, rubava quello che c'era; se lo sorprendevano, suonava la campanella e diceva con una voce di finta penitenza: «Ricordatevi, fratelli,...», ecc. Imparai da loro, nello spazio di un mese, tutti questi espedienti per rubare e quelle strane maniere. Torniamo ora a quando mostrai loro il rosario e raccontai loro la storia. Lodarono molto lo stratagemma, e la vecchia ricevette puntualmente il rosario per venderlo. Andò in giro per le case dicendo che apparteneva a una fanciulla povera che era costretta a disfarsene per poter mangiare. E già per ogni cosa aveva pronto un inganno e un espediente. Piangeva a ogni passo; stringeva le mani e sospirava con amarezza; chiamava tutti suoi figli. Sopra un'ottima camicia, un corpetto, una veste, una gonna e un mantello portava un sacco di tela rotto, di un amico eremita che viveva sulle montagne di Alcalá. Era lei a portare avanti la casa, a consigliare e occultare. Volle dunque il diavolo, che non se ne sta mai in ozio quando si tratta di cose che riguardano i suoi servi, che, mentre stava vendendo delle vesti e altre cosucce in una casa, un tale riconobbe come suo non so quale oggetto. Andò a chiamare uno sbirro, e fermarono la vecchia, che si chiamava madre Labruscas. Lei confessò tutto; raccontò come vivevamo tutti quanti, e che eravamo cavalieri di rapina. Lo sbirro la lasciò in carcere, venne a casa, vi trovò tutti i miei compagni e me con loro. Si era portato una mezza dozzina di «ganci» - boia appiedati -, e così tutto il collegio dei picari finì in carcere, dove la cavalleria si trovò in gran pericolo.

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CAPITOLO QUARTO In cui si descrive quanto accadde nel carcere, finché la vecchia non fu frustata, i compagni svergognati e il sottoscritto liberato su cauzione Quando entrammo, gettarono addosso a ciascuno di noi due paia di ceppi e ci sotterrarono in una cella. Vedendomi finire lì, trassi profitto dal denaro che avevo indosso e, estraendo un doblone, dissi al carceriere: «Vossignoria mi ascolti in segreto». E, affinché lo facesse, gli diedi degli scudi come biglietto da visita. Vedendoli, mi trasse da parte. «Supplico Vossignoria», gli dissi, «di provare compassione per un brav'uomo». Gli cercai le mani, e siccome le sue palme erano use a portare simili datteri, strinse i suddetti ventisei dicendo: «Verificherò la malattia e, se non è poi così grave, scenderete nella cella». Io capii al volo la finzione, e gli risposi umilmente. Mi lasciò fuori, mentre facevano scendere giù i miei amici. Tralascio di raccontare quante risate suscitavamo in prigione e per le strade; siccome ci conducevano legati e a forza di spintoni, gli uni senza cappa e gli altri che se la trascinavano appresso, alcuni sembravano proprio cavalli pezzati e altri un vino rosé. Alcuni erano così infrolliti che, dovendo far presa in un qualche punto sicuro, lo sbirro era costretto a prenderli per le nude carni, e ciononostante non sapeva dove afferrarli, tanto erano rosi dalla fame. Altri lasciavano in mano agli sbirri pezzi di giubbe e di calzoni; quando veniva sciolta la fune con cui erano legati, vi rimanevano attaccati gli stracci. Alla fine, calata ormai la notte, me ne andai a dormire nella sala comune. Mi assegnarono una branda. Alcuni dormivano tutti inguainati, senza togliersi nulla; altri si denudavano di colpo di tutto quello che avevano addosso; altri ancora giocavano. Alla fine, chiusa la porta, fu spenta la luce, e tutti dimenticammo i ceppi. Il pitale era a capo del mio letto e verso mezzanotte i prigionieri non facevano altro che liberarsi. Sentendo quel rumore, al principio pensai che fossero tuoni; iniziai dunque a farmi il segno della croce invocando l'aiuto di

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santa Barbara. Ma vedendo che mandavano un cattivo odore, m'accorsi che non erano tuoni di buona discendenza. Puzzavano tanto che ero costretto a tenere il naso sotto la coperta. Alcuni avevano la dissenteria, altri la diarrea. Alla fine fui costretto a dir loro che spostassero il recipiente da un'altra parte; e sul fatto di darsi o meno troppe arie finimmo per discutere. Giocai d'anticipo - è meglio eccellere nei pugni che nel governar la Castiglia - e a uno gli arrivò una mezza cinghiata in piena faccia. Nell'alzarsi di scatto rovesciò il pitale, e a quel rumore si ridestarono tutti. Ci prendevamo a cinghiate al buio, e la puzza era tanta che tutti dovettero alzarsi. Le grida aumentarono. Il direttore del carcere, sospettando che fosse in atto la fuga di qualche vassallo, venne di corsa, armato, con tutta la sua squadra; aprì la cella, fece luce e si informò su quanto era accaduto. Tutti accusavano me; io adducevo a mia discolpa il fatto che per tutta la notte non m'avevano lasciato chiudere occhio, a forza di aprire quello dei loro sederi. Il carceriere, pensando che per non sprofondare nella segreta gli avrei dato un altro doblone, colse l'occasione al volo e ordinò che mi ci calassero. Mi rassegnai, piuttosto che assottigliare ancor più il mio già misero gruzzolo. Fui portato di sotto e gli amici mi ricevettero facendo una grande baraonda. Quella notte dormii poco riparato; come Dio volle si fece giorno, e uscimmo dalla segreta. Ci guardammo in faccia, e per prima cosa ci fu notificato l'obbligo di pagare qualcosa per la pulizia - la prigione non era certo immacolata come la Vergine -, sotto pena, in caso contrario, di una bastonatura di prim'ordine. Io diedi sei reali; i miei compagni non avevano nulla con cui pagare, e così per loro la cosa fu rimandata alla sera. Nella segreta c'era un giovane guercio, alto, con i baffi, dal volto scuro e le spalle curve per le frustate ricevute. Aveva indosso più ferro di quanto ve ne fosse in tutta la Biscaglia, due paia di ceppi e una catena enorme. Lo chiamavano Jayàn. Diceva d'esser stato arrestato per questioni di vento, e così pensai a qualche mantice, zampogna o ventaglio, e gli domandai se di questo appunto si trattava. Mi rispose che erano cose di dietro. Credetti che fossero peccati di tempo addietro, e invece scoprii che si trattava di sodomia. Quando il direttore del carcere lo rimproverava per qualche sua impresa, lo chiamava dispensiere del

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boia e depositario generale di tutte le colpe. Altre volte lo minacciava dicendo a se stesso: «Vorresti forse sporcarti le mani, povero te, con uno che diventerà fumo? Ci penserà Dio a vendemmiare». Aveva confessato le sue colpe, ed era così maledetto che portavamo tutti un collare da mastino sul sedere, e nessuno di noi osava fare un peto per paura di ricordargli dove si trovava il fondoschiena. Questi fece amicizia con un altro che chiamavano Robledo, e come soprannome «el Trepado». Diceva di essere stato acciuffato per la sua liberalità, e in effetti alludeva a quella delle sue mani nell'arraffare tutto quel che incontravano. Era stato frustato più del cavallo del postiglione: non c'era boia che su di lui non si fosse fatto la mano. Il suo viso era segnato da tante coltellate che, a scoprirne i punti, non si sarebbe comunque rovinato. Le orecchie le aveva inutili, e il naso schiacciato, ma non così bene come la coltellata che glielo divideva in due. A questi poi si aggiungevano altri quattro uomini, rapacissimi, tutti in ceppi e condannati al fratello di Romolo. Loro dicevano che presto avrebbero potuto sostenere di aver servito il loro re per mare e per terra. Era incredibile l'allegria con cui aspettavano il compiersi del loro destino. Tutti questi, dispiaciuti dal fatto che i miei compagni non contribuivano, decisero di dar loro durante la notte, con un'apposita fune, una bella bastonatura. Calò la notte. Ci nascosero nell'angolo più lontano dell'edificio. Spensero la luce, e io mi misi sotto il tavolaccio. Due di loro cominciarono a fischiare, e un terzo a dare frustate. I bravi cavalieri, che videro la faccenda farsi critica, ritrassero in modo tale le loro carni a digiuno - mangiate anzi a pranzo, cena e colazione da rogna e pidocchi - da entrare tutti in una fenditura del tavolaccio. Stavano come lendini fra i capelli o come cimici in un letto. I colpi risuonavano sulle tavole, e loro stavano zitti. Quei vigliacchi, vedendo che non si lamentavano, smisero di frustarli e cominciarono a tirare mattoni, pietre e calcinacci che avevano raccolto. Fu proprio uno di questi a colpire don Toribio alla nuca e a creargli lì un bitorzolo grosso due dita.

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Cominciò a gridare che lo uccidevano, e quei vigliacchi, affinché le sue urla non si sentissero, presero a cantare tutti insieme, facendo rumore con le catene. Per nascondersi, Toribio si afferrava agli altri cercando di mettersi sotto. Allora si sentì come, per lo sforzo che stavano facendo, le loro ossa risuonavano, neanche fossero battole di San Lazzaro. La vita dei giubbetti ebbe fine; nemmeno uno straccio rimase intero. Pietre e calcinacci piovevano con tanta intensità che, in breve tempo, il suddetto don Toribio aveva più asole in testa di una giubba aperta. Non trovando scampo alla grandinata, e vedendosi morire come santo Stefano, ma senza santità, pregò che lo facessero uscire, e assicurò che dopo avrebbe pagato e lasciato anche i suoi vestiti in pegno. Glielo consentirono, e benché gli altri fossero nascosti dietro di lui, pesto e malconcio s'alzò e passò, come poté, al mio fianco. Gli altri, per quanto si risolvessero subito a promettere le stesse cose, avevano già il capo più coperto di tegole che di peli. Per pagare il tributo offrirono anch'essi i loro vestiti, calcolando che era meglio starsene a letto nudi che feriti. E così, per quella notte li lasciarono in pace; ma la mattina successiva li costrinsero a spogliarsi, e si scoprì che di tutti i loro vestiti messi insieme non si sarebbe potuto fare neanche uno stoppino per una lucerna. Rimasero così a letto, avvolti in una coperta che era di quelle ordinarie, nella quale cioè tutti si spulciano. Presto cominciarono a rendersi conto del riparo che forniva: vi era un pidocchio con una fame da lupo, e un altro, sul braccio di uno di loro, che sembrava digiuno da otto giorni. Ve ne erano alcuni colossali, e altri che si potevano gettare nell'orecchio di un toro. Quella mattina pensarono di dover fare loro da colazione; si tolsero quindi la coperta maledicendo la loro sorte e strappandosi la pelle a unghiate. Io uscii dalla segreta, dicendo loro che mi perdonassero se non ero di grande compagnia, ma preferivo appunto evitarlo. Tornai a ripassare le mani del carceriere con tre monete da otto; e dopo aver saputo qual era il cancelliere della causa, mandai uno sguattero a chiamarlo. Venne, lo feci

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accomodare in una stanza e dopo aver parlato della causa cominciai a dirgli che avevo un po' di soldi. Lo supplicai di tenermeli da parte, e, per quanto gli fosse possibile, di favorire la causa di un gentiluomo disgraziato che per sbaglio era incorso in un tale delitto. «Creda Vossignoria», disse dopo aver afferrato i soldi, «che da noi dipende tutto il gioco, e che se uno smette di essere una persona perbene, può fare un grave danno. Ho mandato più persone in galera senza motivo, di quante lettere vi sono in un processo. Si fidi di me, e vedrà che La metterò in salvo senz'altro». Detto questo, fece per andarsene, ma si voltò ancora sulla porta a chiedermi qualcosa per il buon Diego García, il carceriere, ché era d'uopo farlo tacere con una museruola d'argento, e mi accennò non so cosa a proposito del relatore, e di un aiuto per fargli mangiare tutta la requisitoria. Disse: «Un relatore, signor mio, aggrottando le sopracciglia, alzando la voce, battendo il piede per far divertire il giudice, facendo insomma una qualunque azione, può distruggere un cristiano». Risposi d'aver capito, e aggiunsi altri cinquanta reali. In cambio mi disse di raddrizzare il bavero della cappa, e mi consigliò un paio di medicine contro il catarro che m'era venuto per il freddo patito nella segreta. E alla fine aggiunse, vedendomi i ceppi: «Si risparmi tali pene; per otto reali il carceriere Le darà qualche sollievo. Questa è gente che non aiuta nessuno se non per interesse». L'avvertimento mi parve giusto. Alla fine, se ne andò. Io diedi al carceriere uno scudo, e lui mi tolse i ceppi. Mi lasciò poi entrare in casa sua. Aveva per moglie una balena, e due figlie del diavolo, brutte e stupide, che malgrado le loro facce facevano la vita. Avvenne che il carceriere (si chiamava Blandones de san Pablo, e la moglie donna Ana Moráez) venne a pranzo tutto arrabbiato e sbuffando, un giorno che ero lì. Quando vide che rifiutava il cibo, la moglie, sospettando che avesse qualche pena, gli si avvicinò e lo irritò tanto con le abituali molestie che alla fine questi sbottò: «Che altro sarà mai, se non che quel vigliacco ladrone di Almendros, il locatore, m'ha detto, mentre discutevamo dell'affitto, che non siete pulita?». «Tanto fango m'ha gettato addosso quel vigliacco?», disse lei. «Per l'anima di mio nonno, non siete un uomo, se non gli avete strappato la barba. Chiamo forse le sue domestiche per farmi pulire?». E, rivolgendosi a me, disse: «Dio sa che non potrà mai dirmi che sono un'ebrea come lui, ché, su quattro parti che ha, due sono di villano, e gli altri otto sedicesimi maravedís, cioè di ebreo. In fede mia, signor don Pablos,

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se l'avessi sentito gli avrei ricordato che sulle spalle porta l'aspo di sant'Andrea». Allora il carceriere, assai afflitto, rispose: «Ah, donna, sono stato zitto perché ha detto appunto che in quell'aspo Voi tenete ben due o tre matasse. Che non V'ha detto cose sporche per darVi della porca, ma perché non ne mangiate». «Allora, ha detto che sono un'ebrea? E me lo dite con questa pazienza, accidenti? È così che difendete l'onore di donna Ana Moráez, figlia di Esteban Rubio e di Juan de Madrid, come sanno Dio e tutti quanti?». «Come», dissi io, «figlia di Juan de Madrid?». «Di Juan de Madrid, quello di Auñón». «Perdinci», dissi ancora, «il vigliacco che ha detto una cosa simile è davvero un giudeo, finocchio e cornuto». E rivolgendomi ad esse: «Juan de Madrid, mio signore, benedetto sia in cielo, era cugino fraterno di mio padre, e tocca a me dimostrare chi e come fosse. E se esco dal carcere, glielo farò rimangiare cento volte a quel vigliacco. Al mio paese ho una patente di nobiltà stampata a lettere d'oro che riguarda entrambi». Furono felici di avere un nuovo parente, e presero coraggio sentendo del certificato. Io naturalmente non l'avevo, e non sapevo neppure chi fossero. Il marito cominciò a informarsi più dettagliatamente di quella parentela. Io, affinché non s'accorgesse delle mie menzogne, finsi di voler uscire tutto indignato, giurando e bestemmiando. Mi trattennero, dicendo che non se ne sarebbe più parlato. Io, di tanto in tanto, me ne uscivo come per caso dicendo: «Juan de Madrid. Mica sono uno scherzo i documenti che ho di lui». Altre volte dicevo: «Juan de Madrid, il primogenito. Il padre era sposato con Ana de Acevedo, la grassa». E tacevo per un po'. Alla fine, grazie a tutte queste cose, il carceriere mi dava da mangiare e dormire in casa sua, e il cancelliere, da lui sollecitato e subornato con il denaro, fece tutto così bene che la vecchia fu esposta su un palafreno grigio a briglia sciolta, preceduta da un banditore che ne annunciava le colpe. Il bando diceva: «Questa donna è condannata per furto». Il boia le batteva il tempo sulle costole, secondo quanto avevano ordinato i giudici togati. Poi seguivano tutti i miei compagni, sui giumenti dei portatori d'acqua, senza cappello e a viso scoperto. Li svergognavano in pubblico e ciascuno era così stracciato da mostrare appunto le proprie

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vergogne. Li esiliarono per sei anni. Io uscii su cauzione grazie al cancelliere. E il relatore non si distrasse, ma cambiò tono, parlò a voce bassa e rauca, omise qualche ragionamento e si mangiò frasi intere.

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CAPITOLO QUINTO Di come trovai un alloggio, e delle disgrazie che mi successero in esso Uscii dunque dal carcere. Mi ritrovai solo e senza gli amici, e benché mi fosse stato detto che andavano verso Siviglia a spese della carità, non volli seguirli. Decisi di andare in una locanda, dove incontrai una ragazza bionda, dalla carnagione chiara e l'occhio vispo, allegra, a volte impertinente, altre intrigante e provocante. Parlava un po' con il ceceo, aveva paura dei topi, si vantava delle sue mani e per mostrarle smoccolava sempre le candele, faceva le parti a tavola, in chiesa le teneva perennemente giunte e per strada indicava sempre la casa di questo e di quello; in salotto aveva continuamente uno spillone da infilare nella pettinatura; se si giocava a qualche gioco, bisognava fare sempre quello dei pizzicotti, perché vi si mostravano le mani. Sbadigliava addirittura a bella posta, senza averne voglia, solo per mostrare i denti e fare con le mani delle croci sulla bocca. Insomma, tutta la casa l'aveva già tanto maneggiata da far arrabbiare i suoi stessi genitori. Mi ospitarono assai bene a casa loro, poiché erano soliti affittarla, con buon mobilio, a tre inquilini: uno ero io, un altro un portoghese, e poi c'era un catalano. Mi accolsero con molta cordialità. A me la ragazza non sembrò affatto male per sollazzarmici un po', e gradivo anche la comodità di ritrovarmela dentro casa. Cominciai a metterle gli occhi addosso; raccontavo loro delle storie che avevo appreso per divertire; davo loro delle notizie, anche se non ve n'erano; le servivo in tutto quello che non costava nulla. Dissi che conoscevo degli incantesimi, che ero un negromante, che potevo simulare lo sprofondamento e l'incendio della casa, e altre cose che da brave credulone bevvero. Ottenni così un affetto grato ma privo d'amore, poiché, non essendo così ben vestito come sarebbe stato necessario - anche se il mio guardaroba era già migliorato grazie al carceriere, dal quale ero sempre in visita, nutrendo il sangue comune con la carne e il pane che gli divoravo -, non mi tenevano in quella considerazione

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che altrimenti mi sarebbe spettata. Per fingere d'essere un ricco che voleva evitare di comparire come tale, cominciai a mandare a casa mia degli amici, affinché mi cercassero quando non c'ero. Il primo entrò chiedendo del signor don Ramiro de Guzmán; questo era infatti il nome che avevo dato, poiché gli amici mi avevano detto che cambiar nome non costa nulla ed è anzi utile. Insomma, chiese di don Ramiro, «un uomo d'affari ricco, che proprio allora aveva avuto due privative dal re». Le ostesse non mi riconobbero in quelle parole, e risposero che lì non viveva altri che un certo don Ramiro de Guzmán, più stracciato che ricco, piccolo di statura, dal viso brutto, e povero. «È lui», replicò allora quello, «è proprio quello di cui sto parlando. Non vorrei avere altra rendita al cospetto di Dio di quella che ha lui in terra, dai duemila ducati in su». Raccontò loro mille altre frottole, ed esse rimasero a bocca aperta; poi lasciò loro una falsa lettera di cambio, per novemila scudi che doveva riscuotere da me, e disse loro di darmela per l'accettazione. Infine se ne andò. La ragazza e la madre credettero alla mia ricchezza, e mi scelsero come marito. Io tornai a casa fingendo di non saper nulla e, quando entrai, mi diedero la cedola dicendo: «Denaro e amori son difficili da nascondere, don Ramiro. Come mai Vossignoria non ci ha detto chi è, con tutto l'affetto di cui ci è debitore?». Io finsi di essere seccato perché mi avevano lasciato la cedola lì e mi ritirai nella mia stanza. Ora che credevano che possedessi del denaro, mi dicevano che tutto mi stava bene. Lodavano quanto dicevo, e per loro non c'era spirito che potesse stare alla pari del mio. Quando vidi tutto quel fervore, feci la mia dichiarazione alla ragazza, e lei mi ascoltò felicissima, lusingandomi in mille modi. Poi ci separammo; e una sera, per far credere ancor più nella mia ricchezza, mi chiusi nella mia stanza, che era divisa dalla sua da un tramezzo assai sottile, e, tirando fuori cinquanta scudi, li contai sul tavolo tante di quelle volte che mi sentirono arrivare a seimila. Il fatto che mi vedessero con tanto denaro in contanti fu tutto quello che potevo desiderare, poiché cominciarono ad attendermi assiduamente con mille lusinghe e servizi.

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Il portoghese si chiamava o senhor Vasco de Meneses, cavaliere del sillabario, voglio dire di Cristo. Portava una cappa funerea, stivali, una piccola gorgiera e dei grandi baffi. Ardeva per donna Berenguela de Robledo (così si chiamava la ragazza). Le faceva la corte sedendosi accanto a lei a chiacchierare e sospirando più di una beghina durante il sermone quaresimale. Cantava male, ed era costantemente punzecchiato dal catalano, il quale da parte sua era la creatura più triste e miserabile che Dio abbia mai creato. Mangiava come la terzana, di tre giorni in tre giorni, un pane così duro che l'avrebbe potuto mordere solo un maldicente. Si vantava d'essere un prode, e se non fosse stato che non faceva le uova, avrebbe potuto essere scambiato tranquillamente per una gallina, visto che chiocciava sempre. Quando i due videro che stavo facendo progressi, cominciarono a sparlare di me. Il portoghese diceva che ero un picaro pidocchioso e straccione; il catalano mi trattava da codardo e vigliacco. Io sapevo tutto, e a volte li udivo, ma non avevo il coraggio di rispondere. Alla fin fine, la ragazza mi parlava e accettava i miei bigliettini. Si cominciava con la solita formula: «Questo ardire, lo splendore di Vossignoria...», poi dicevo di ardere, di penare, mi offrivo come schiavo, firmavo con il cuore attraversato da una freccia... Alla fine, arrivammo a darci del tu, e io, per far credere maggiormente nelle mie qualità, uscii di casa e presi in affitto una mula; poi, imbacuccato e alterando la voce, tornai alla locanda e chiesi di me stesso, domandando se viveva lì sua signoria don Ramiro de Guzmán, signore di Valcerrado e Vellorete. «Qui vive», rispose la ragazza, «un cavaliere di questo nome, piccolo di statura». Dai segni di riconoscimento dissi che doveva essere proprio lui quello che cercavo, e la supplicai di dirgli che Diego de Solórzana, il suo maggiordomo e tesoriere, nel fare il giro per le riscossioni era venuto a baciargli le mani. Detto questo, me ne andai, e poco dopo tornai a casa. Mi accolsero con immensa gioia, chiedendomi perché avevo tenuto loro nascosto il fatto di essere il signore di Valcerrado e Vellorete. Mi fecero l'ambasciata, e la ragazza a questo punto perse la testa e, bramosa di un marito così ricco, accettò di vedermi all'una di notte nella sua stanza; sarei

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dovuto passare per un ballatoio che dava su un tetto, dove si trovava la finestra della sua stanza. Il diavolo, che mette ovunque lo zampino, fece sì che, calata la notte, io salissi sul ballatoio, tutto desideroso di approfittare dell'occasione, e che, nel passare da esso al tetto, i piedi mi scivolassero e dessi quindi sul tetto del vicino, un cancelliere, un colpo così formidabile da spaccare tutte le tegole, che mi rimasero poi stampate sulle costole. A quel frastuono si svegliò mezza casa, e pensando che si trattasse di ladri - per un cancelliere sono proprio una mania -, salirono tutti sul tetto. Vedendoli, volli nascondermi dietro un comignolo, ma questo non fece che aumentare i loro sospetti, e così il cancelliere, un suo fratello e i suoi due domestici mi bastonarono a sangue e mi legarono davanti alla mia dama, senza che potessi farci nulla. Lei rideva intanto come una matta; dato che le avevo detto che sapevo fare burle e incantesimi, pensò che fossi caduto per gioco e negromanzia, e continuava a gridarmi di salire, e che ormai poteva bastare. Fra questo, e le bastonate e i pugni che mi stavano dando, ululavo; e il bello è che lei pensava che fosse tutta una finzione, e non la smetteva di ridere. M'intentarono causa, e siccome mi sentirono suonare in tasca delle chiavi, il cancelliere disse e scrisse che erano grimaldelli, né, una volta che le ebbe viste, vi fu modo di farlo recedere. Gli dissi che ero don Ramiro de Guzmán, e scoppiò a ridere. Io, tristissimo, dopo essere stato bastonato davanti alla mia dama e arrestato senza ragione e con una pessima nomea, non sapevo che fare. Mi misi in ginocchio, ma né questo né altri espedienti potevano bastare al cancelliere. Tutto questo avveniva sul tetto, poiché questa gente eleva false accuse persino dalle tegole in su. Ordinarono di riportarmi giù, e mi fecero passare per una finestra che dava su una stanzetta adibita a cucina.

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CAPITOLO SESTO Prosegue il racconto, con vari altri avvenimenti Non chiusi occhio per tutta la notte, considerando la mia sventura, che non era stata tanto di cadere sul tetto, quanto di finire nelle mani del cancelliere. Quando ricordavo il fatto dei grimaldelli e i fogli che aveva compilato per la causa, capivo che non c'è cosa al mondo che cresca con tanta rapidità come una colpa in mano a un cancelliere. Passai la notte ad architettare piani; a volte facevo il proponimento di supplicarlo nel nome di Gesù Cristo, ma pensando a quanto proprio lui aveva passato con loro da vivo, non osavo. Mille volte tentai di slegarmi, ma mi sentiva e si alzava a controllarmi i nodi; era insomma più sveglio lui nell'ordire il suo inganno che io nei miei tentativi di liberarmi. Appena fece mattina lui si vestì, in un'ora in cui c'erano in piedi solo lui e i testimoni. Afferrò la cinghia e mi ripassò le costole, rimproverandomi, lui che lo conosceva bene, il brutto vizio di rubare. Proprio in questo frangente, mentre lui me le dava e io ero quasi deciso a passargli del denaro, che è il sangue con cui si lavorano simili diamanti, entrarono il portoghese e il catalano; erano stati incitati e costretti a tanto dalle preghiere della mia amata, che dopo avermi visto cadere e prendere a bastonate aveva intuito finalmente che non era un inganno ma una vera sventura. Il cancelliere, vedendo che mi parlavano, sguainò allora la penna e voleva coinvolgerli come complici nel processo. Il portoghese non lo sopportò e lo trattò a male parole, dicendo di essere un cavaliere fidalgo de casa du Rey, che io ero un home muito fidalgo, e che era una furfanteria tenermi legato. Cominciò a slegarmi e a questo punto il cancelliere gridò: «Resistenza!». Due servitori suoi, metà sbirri e metà facchini, si calpestarono le cappe e si stracciarono le gorgiere, come fanno solitamente per simulare i pugni che non hanno ricevuto, mettendosi a chiamare aiuto. I due, alla fine, mi slegarono, e quando il cancelliere vide che non c'era nessuno ad aiutarlo, disse: «Giuro su Dio che questo con me non si

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può fare, e che se lorsignori non fossero chi sono potrebbe costar loro molto caro. Accontentino almeno questi testimoni e vedano che li sto servendo senza alcun interesse». Capii l'antifona; tirai fuori otto reali e glieli diedi, e stavo anche per restituirgli le bastonate che m'aveva dato; ma per non confessare che ne avevo ricevute, lasciai perdere, e me ne andai via con loro, ringraziandoli per la liberazione e il riscatto. Entrai in casa con il volto segnato dalle percosse ricevute e la schiena un po' incurvata dalle bastonate. Il catalano rideva come un matto e diceva alla ragazza di sposarmi, per rovesciare il proverbio, affinché non fossi cioè cornuto e bastonato, ma prima bastonato e poi cornuto. Parlava di me come di uno che si era battuto, per via delle bastonate, e mi offendeva con tutti questi doppi sensi. Se andavo a trovarli, parlavano di bacchiature, o, altre volte, di legna e legname. Vedendomi svergognato e offeso, e notando che stavano per scoprire l'inganno relativo alle mie ricchezze, cominciai a cercare un espediente per andarmene dalla casa; e per non pagare né vitto né alloggio, che ammontavano a non pochi reali, portando però via il mio bagaglio, mi misi d'accordo con un certo dottor Brandalagas, originario di Hornillos, e due altri amici suoi, affinché una sera venissero ad arrestarmi. Arrivarono il giorno stabilito, e dissero all'ostessa che venivano da parte del Sant'Uffizio e che era opportuno mantenere il segreto. Cominciarono tutti a tremare, visto che con loro m'ero spacciato per un negromante. Quando mi andarono a prendere tacquero; ma quando videro prendere anche il bagaglio, ne chiesero il sequestro a indennizzo del mio debito; i tre risposero tuttavia che erano beni dell'Inquisizione e a quel punto nessuno fiatò più. Ci lasciarono andare, lamentandosi che avevano sempre temuto che finisse così. Raccontarono al catalano e al portoghese di quelli che m'erano venuti a cercare; e i due risposero che erano diavoli e che io dovevo averne uno tutto per me. E quando dissero loro dei soldi che avevo contato, replicarono che sembrava denaro, ma non lo era, e in nessun modo si riuscì a persuaderli del contrario.

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Io portai fuori gratis i miei vestiti e il vitto. Con quelli che mi avevano aiutato mi disposi a cambiar abito. Mi misi dei calzoni, un vestito alla moda, un'ampia gorgiera e presi un paggio a pezzi, ossia due paggetti, come si usava allora. I miei compagni mi incoraggiarono, illustrandomi i vantaggi che avrei avuto sposandomi con una certa ostentazione, fingendo cioè d'esser ricco; mi dissero anche che questo nella capitale succedeva molto spesso, e aggiunsero che m'avrebbero portato sulla buona strada, consigliandomi qualche espediente atto a raggiungere tale scopo. Io, astuto e desideroso di trovar moglie, mi decisi. Andai a non so quante aste e comperai il mio corredo. Venni a sapere dove si prendevano in affitto dei cavalli, e m'issai su uno di essi già il primo giorno, anche se non potei trovare un paggio. Uscii in calle Mayor e mi misi davanti a un negozio di finimenti per cavalli, come se volessi acquistarne uno. Arrivarono due cavalieri, ciascuno con il suo paggio. Mi domandarono se volevo acquistare dei finimenti d'argento che tenevo in mano; io presi la palla al balzo e con mille convenevoli li trattenni per un po'. Alla fine dissero che volevano andare al Prado a girovagare e io proposi loro, se non li disturbavo, di accompagnarli. Lasciai detto al mercante che, se fossero venuti lì i miei paggi e un lacchè, me li mandasse al Prado. Gli descrissi la livrea, mi misi in mezzo fra i due cavalieri e ci incamminammo. Io pensavo che a nessuno che ci avesse visto sarebbe stato possibile individuare di chi fossero i paggi, né quale fosse dei tre quello che non ne aveva. Cominciai a discorrere con molto impeto delle canne di Talavera, e di un mio cavallo color porcellana. Descrissi loro con entusiasmo un roano che aspettavo da Cordova. Quando incontravamo un paggio o un lacchè con un cavallo, li fermavo e chiedevo loro di chi fosse l'animale, parlavo dei segni caratteristici e m'informavo se per caso fosse in vendita. Gli facevo fare due giri per strada, gli trovavo un qualche difetto nel freno, anche se non ne aveva, e dicevo quello che bisognava fare per porvi rimedio. La mia fortuna volle che ebbi molte occasioni di far ciò. E poiché gli altri se ne stavano lì ammirati, e a mio avviso si domandavano: «Chi sarà mai questo scroccone pieno di sé?» - uno portava infatti sul petto un'insegna cavalleresca, e l'altro una collana di diamanti, che era a un tempo insegna e commenda -, dissi che ero in cerca di

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buoni cavalli per me stesso e per mio cugino, poiché dovevamo prender parte a delle feste. Arrivammo al Prado, e, entrando, tolsi il piede dalla staffa, sporsi il tallone all'infuori e cominciai a passeggiare. Portavo la cappa gettata al di sopra della spalla e il cappello in mano. Tutti mi guardavano. Qualcuno diceva: «Questo qui io l'ho già visto, ma a piedi». E un altro: «Ehi, se ne va bello bello a passeggio, il briccone». Io facevo finta di non sentire nulla, e continuavo la mia passeggiata. I due si approssimarono alla carrozza di certe dame, e mi proposero di corteggiarle un po'. Li lasciai dalla parte delle giovani e presi possesso del predellino di madre e zia. Le due vecchiette erano gioviali, una avrà avuto cinquant'anni e l'altra poco meno. Dissi loro mille tenerezze, e mi ascoltavano: non c'è infatti donna, per vecchia che sia, che abbia più anni che presunzione. Promisi loro dei regali e m'informai delle altre signore; risposero che erano ancora signorine, e questo del resto si capiva chiaramente dai loro discorsi. Io dissi quel che si è soliti dire in questi casi: che mi auguravo le vedessero sistemate come meritavano, e la parola sistemate piacque loro molto. Poi mi chiesero di cosa mi occupassi nella capitale. Ero fuggito da mio padre e da mia madre, dissi, che volevano farmi sposare contro la mia volontà una donna brutta, stupida e di pessima famiglia, ma in possesso di una cospicua dote. «E io, signora, preferisco una donna povera ma di buona famiglia piuttosto che un'ebrea facoltosa; per la bontà divina, il mio maggiorasco vale sui quattromila ducati di rendita, e se poi vinco una causa che è già a buon punto, non avrò bisogno proprio di nulla». La zia saltò su improvvisamente: «Ah, signore, come la capisco. Non si sposi se non a suo piacimento e con una donna di alto rango; Le assicuro che, pur non essendo molto ricca, non ho voluto maritare finora mia nipote, benché fosse stata chiesta in sposa da ottimi partiti, proprio perché non erano uomini di un certo livello. È povera, non ha che seimila ducati di dote, ma quanto a sangue non deve niente a nessuno». «Lo credo bene», dissi io. Frattanto, le due signorine avevano concluso la conversazione chiedendo ai miei amici di mangiare qualcosa insieme:

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Si guardarono l'un altro, e a tutti tremò la barba. Cogliendo l'occasione al volo, dissi che mi mancavano purtroppo i miei paggi, altrimenti avrei potuto mandarli a casa a prendere certe scatole di dolciumi che avevo. Loro mi ringraziarono, e io le supplicai allora di recarsi il giorno successivo alla Casa del Campo, dove avrei inviato degli antipasti. Accettarono subito; mi dissero quale era la loro casa e domandarono dove abitavo. Poi la carrozza si allontanò, e i miei compagni e io ci incamminammo verso casa. Loro, vedendomi così prodigo per quanto riguardava la merenda, strinsero amicizia con me e per farmi sentire obbligato mi invitarono caldamente a cenare con loro quella sera. Mi feci pregare un po', anzi pochissimo, e cenai con loro, mandando qualcuno a cercare i miei servitori e giurando che li avrei cacciati di casa. Quando suonarono le dieci, dissi che avevo un appuntamento galante e che quindi mi dessero licenza di andare. Così, li lasciai, dopo che ci fummo messi d'accordo per vederci il pomeriggio seguente alla Casa del Campo. Andai a riportare il cavallo dal noleggiatore, e poi di lì raggiunsi casa mia. Trovai i compagni che giocavano a primiera. Raccontai loro tutta la faccenda e riferii dell'accordo per l'indomani; decidemmo di inviare senz'altro la merenda, spendendo per essa duecento reali. Ce ne andammo a letto con quest'idea in mente. Confesso che non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte, a forza di pensare a quel che avrei dovuto fare con la dote. Ero in dubbio se farci una casa o darla a strozzo, non sapendo cosa fosse meglio e di maggior profitto.

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CAPITOLO SETTIMO In cui prosegue il racconto, con altri avvenimenti e disgrazie in cui incappai Fece giorno e noi ci svegliammo per trovare servitori, argenteria e merenda. A farla breve, poiché il denaro comanda tutto e non c'è nessuno che non gli porti rispetto, il dispensiere di un signore, dietro compenso, mi fornì l'argenteria e si occupò lui stesso di servire, assieme a tre domestici. Ci misi tutta la mattinata a organizzare quanto era necessario e nel pomeriggio avevo già preso in affitto il mio cavallino. M'incamminai, all'ora stabilita, per raggiungere la Casa del Campo. Avevo la cintura tutta piena di carte, somiglianti a memoriali, e sei bottoni del farsetto sbottonati, in modo che attraverso di esso si vedessero altre carte. Arrivai al luogo stabilito, e vi trovai già le suddette dame, nonché gli altri cavalieri e tutto il resto. Esse mi ricevettero con gran piacere, ed essi, in segno di familiarità, mi diedero del tu. Avevo detto di chiamarmi don Felipe Tristán, e per tutto il giorno non si sentì altro che don Felipe qua e don Felipe là. Cominciai a dire che ero stato tanto occupato in un affare di Sua Maestà e nella contabilità del mio maggiorasco, da temere di non poter rispettare l'impegno; perciò dovevano accontentarsi di una merenda improvvisata. Frattanto, era arrivato il dispensiere con i suoi cocci, l'argenteria e i servi; gli altri cavalieri e le dame non facevano altro che guardarmi in silenzio. Ordinai al dispensiere di andare ad apparecchiare al chiosco, mentre noi ci saremmo diretti agli stagni. Le vecchie mi vennero vicino lusingandomi, e fui contento di vedere le ragazze a volto scoperto; anzi, da quando sono venuto al mondo non ho mai visto una cosa così bella come quella cui miravo per il matrimonio: bianca, bionda, colorita, con la bocca piccola, i denti minuscoli e fitti, un bel naso, occhi spalancati e verdi, alta di statura, con belle mani e con il ceceo. Nemmeno l'altra era male, però era più disinvolta, e mi dava l'impressione di essere piuttosto facile a farsi sbaciucchiare. Andammo agli stagni, vedemmo ogni cosa e conversando m'accorsi che

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la mia futura sposa ai tempi di Erode avrebbe corso seri pericoli, tanto era innocente. Era anche ignorante; ma siccome a me le donne non servono né come consigliere né come buffone ma per portarmele a letto, e quindi se son sagge e brutte è come andare a letto con Aristotele, Seneca o con un libro, me le procuro piuttosto con buone doti per l'arte degli assalti. Non importa che sia stupida: se sa piacermi, sa anche troppo. Tutto questo mi confortò. Arrivammo nei pressi del bosco, e, passando sotto un pergolato, la guarnizione della gorgiera mi si impigliò in un albero e mi si strappò un poco. La ragazza accorse e mi ci mise uno spillone d'argento, poi la madre mi disse di mandare la gorgiera a casa loro il giorno successivo, affinché donna Ana - questo era il nome della ragazza - potesse ricucirla. Era tutto a posto; c'era molto da mangiare, caldo e freddo, frutta e dolci. Alla fine, proprio quando stavano sparecchiando la tavola, vidi avanzare nel parco un cavaliere con due servitori al seguito: e, quando meno me l'aspettavo, riconosco il buon don Diego Coronel. Mi si avvicinò e, vedendo com'ero vestito, non faceva che osservarmi. Si rivolse alle donne chiamandole cugine, e frattanto si voltava di continuo a sogguardarmi. Io stavo parlan¤do con il dispensiere, mentre gli altri due, che erano amici suoi, erano immersi con lui in una profonda conversazione. Domandò loro, a quanto seppi dopo, il mio nome, e loro dissero: «È don Felipe Tristán, un cavaliere assai ricco e onorato». Lo vidi farsi il segno della croce. Alla fine, davanti ad esse e a tutti quanti, mi venne vicino e disse: «Vossignoria mi perdoni, ma, quant'è vero Iddio, finché non ho saputo il Suo nome L'ho scambiata per tutt'altra persona; non ho mai visto nessuno somigliare tanto a un servitore che avevo a Segovia, un certo Pablillos, figlio di un barbiere della stessa città». Tutti risero tantissimo: io mi sforzai di non farmi smentire dal rossore, e gli dissi che desideravo conoscere quell'uomo, perché erano ormai in tanti a dirmi che gli assomigliavo. «Gesù», diceva don Diego, «altro che assomigliargli! La statura, il modo di parlare, di gestire... Non ho mai visto una cosa simile. Le assicuro, caro signore, che è una cosa incredibile e che non ho mai visto una tale somiglianza». Allora le vecchie, la

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zia e la madre, dissero che non era possibile che a un cavaliere così distinto assomigliasse un picaro umile come quello. E affinché non si sospettasse nulla sul loro conto, una di loro aggiunse: «Io conosco molto bene il signor don Felipe; è stato lui a ospitarci a Ocaña su desiderio di mio marito, suo grande amico». Io compresi al volo e dissi che era e sarebbe stata mia volontà di servirla, pur con le mie scarse possibilità, ovunque. Don Diego mi offrì i suoi servigi, e mi chiese scusa dell'offesa che mi aveva fatto scambiandomi per il figlio del barbiere. E aggiunse: «Vossignoria non ci crederà: sua madre era una strega, il padre un ladro, lo zio un boia, e lui stesso l'uomo più spregevole e meschino che ci sia al mondo». Cosa pensate che provassi sentendomi dire in faccia cose così offensive su me stesso? Anche se facevo finta di niente, stavo sui carboni ardenti. Si parlò di ritornare. Gli altri due e io ci accomiatammo, e don Diego entrò in carrozza con le signore. Chiese loro come mai c'era stata quella merenda e l'incontro con me, e la madre e la zia risposero che avevo un maggiorasco di parecchi ducati di rendita, e che volevo sposarmi con Annetta; s'informasse e avrebbe visto se non era una cosa, non solo opportuna, ma di grande onore per tutto il suo casato. Parlarono di questo lungo tutta la strada fino a casa loro, che si trovava a San Felipe, in calle del Arenál. Noialtri ce ne andammo a casa insieme, come la sera precedente. Mi chiesero di giocare a carte, desiderosi com'erano di spennarmi. Io fiutai la trappola e mi sedetti. Tirarono fuori le carte, ovviamente truccate. Persi una mano, finsi di volermi rovinare e alla fine vinsi all'incirca trecento reali. Poi mi congedai e me ne tornai a casa. Incontrai i miei compagni, il dottor Brandalagas e Pero López, i quali stavano studiando con i dadi dei trucchi nuovi di zecca. Vedendomi smisero, per la curiosità di sapere cosa m'era accaduto. Io me ne venivo infatti tutto turbato e imbronciato; dissi loro unicamente che me l'ero vista brutta. Raccontai poi che avevo incontrato don Diego, e in breve tutto quello che era successo. Mi consolarono, consigliandomi di far finta di niente e di non desistere in nessun modo dalle mie pretese.

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Venimmo allora a sapere che in casa di un nostro vicino speziale si stava giocando a zecchinetta. Conoscevo abbastanza quel gioco, perché avevo più «fiori» del mese di maggio e delle belle carte truccate. Decidemmo di andare a fargli un morto - così si dice infatti quando si sotterra una borsa - e mandai avanti gli amici; questi entrarono nell'appartamento e domandarono se gradivano di giocare con un frate benedettino appena venuto a curarsi in casa di certe sue cugine, che era malato e portava parecchi scudi e reali da otto. A tutti venne l'acquolina in bocca e gridarono: «Benvenuto sia il frate!». «Nell'ordine è considerato un uomo austero», replicò Pero López, «e siccome è uscito vuole divertirsi, ma lo fa più che altro per la conversazione». «Che venga in qualunque caso». «Però non deve entrare nessuno da fuori, sapete, per precauzione», disse Brandalagas. «Non c'è bisogno di aggiungere altro», rispose l'ospite. In questo modo furono rassicurati e credettero a quella menzogna. Vennero i miei accoliti, e io avevo già un cappuccio in testa e indossavo un abito da frate benedettino; in più, avevo un paio di occhiali e la barba, che, pur essendo corta, aveva la sua utilità. Entrai molto umilmente, mi sedetti, e il gioco ebbe inizio. Alzavano bene, ed erano tre contro uno, ma rimasero spennati, perché io, che ne sapevo più di loro, giocai d'astuzia e nel giro di tre ore mi portai via più di milletrecento reali. Diedi qualche mancia a questo e a quello, e, ripetendo «lodato sia nostro Signore», mi accomiatai, raccomandando loro di non scandalizzarsi per avermi visto giocare, poiché per me si trattava solo di un intrattenimento e nient'altro. Gli altri, che avevano perso tutto quel che avevano, lanciavano maledizioni per tutti i diavoli. Mi congedai, infine, e uscimmo. Arrivammo a casa all'una e mezza, e ce ne andammo a letto dopo aver ripartito fra noi la vincita. Questo mi consolò in parte di quanto era successo. Al mattino, mi alzai per cercarmi un cavallo, ma non ne trovai neanche uno da prendere in affitto, dal che dedussi che c'era parecchia altra gente nelle mie stesse condizioni. Dato che andare a piedi sarebbe parso sconveniente, allora più che mai, andai a San Felipe e incontrai il lacchè di un dottore in legge, che stava attento a un cavallo, mentre il suo padrone era sceso per sentir messa. Gli misi quattro reali in mano, affinché durante l'assenza del

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suo padrone mi lasciasse fare due volte su e giù a cavallo per calle del Arenál, la strada, cioè, dove abitava la mia dama. Quello accettò, io montai a cavallo e feci due volte su e giù senza vedere nulla; poi, però, la terza volta, si affacciò donna Ana. Quando la vidi, anche se non conoscevo le bizze del cavallo e non ero un buon cavaliere, volli mostrare la mia galanteria. Lo frustai, dunque, e tirai le briglie, ma il cavallo s'impennò e, tirando un paio di calci, prese a correre come un matto e mi fece volare, al di sopra delle sue orecchie, dentro una pozzanghera. Vedendomi in quello stato, circondato da ragazzini che erano accorsi subito, e davanti agli occhi della mia dama, cominciai a dire: «Oh, gran figlio di puttana, se almeno non fossi un valenzuela. Con queste imprudenze finirò per ammazzarmi. Mi avevano parlato delle sue bizze, e ho voluto ostinarmici lo stesso». Il lacchè aveva ripreso il cavallo, che si era fermato subito dopo. Io rimontai, ma nel frattempo, per via del rumore, si era affacciato anche don Diego Coronel, che viveva nella stessa casa delle sue cugine. Vederlo lì mi turbò. Domandò se m'ero fatto male, e dissi di no, anche se avevo una gamba in pessimo stato. Il lacchè mi metteva fretta, per paura che uscisse il suo padrone e lo vedesse, perché doveva andare a palazzo. Ma sono così disgraziato che, proprio mentre il lacchè mi sta dicendo di andarcene, arriva alle nostre spalle l'avvocatucolo, e, riconoscendo il suo ronzino, aggredisce il suo lacchè e comincia a prenderlo a pugni, dicendo ad alta voce che è una vera insolenza dare il suo cavallo a chicchessia. E il peggio fu che, rivolgendosi a me, m'ingiunse, molto seccato, di smontare immediatamente. Tutto questo accadde davanti agli occhi della mia dama e di don Diego: nemmeno un frustato ha mai patito una simile umiliazione. Ero davvero in preda allo sconforto nel veder accadere in un attimo due disgrazie di quella portata. Alla fine, dovetti smontare; l'avvocato prese il mio posto e se ne andò. Facendo finta di nulla, io rimasi a parlare con don Diego dalla strada e dissi: «In vita mia non sono mai montato su una bestia così. Ho il mio cavallo baio a San Felipe, che è sfrenato e trotta che è una bellezza. Stavo raccontando appunto di come lo faccio correre e fermarsi, quando mi dissero che ce n'era lì un altro con il quale non ci sarei riuscito, ed era

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appunto quello di questo dottore. Volli provarlo. Non potete credere quanto sia duro di fianchi, e con una sella così terribile è stato un miracolo che non mi sia ammazzato». «Lo è stato davvero», disse don Diego, «e comunque sembra che Vossignoria senta un dolore alla gamba». «Sì che mi duole», dissi io, «vorrei andare a prendere il mio cavallo e tornare a casa». La ragazza rimase soddisfatta di quanto avevo detto e dispiaciuta per la mia caduta, ma don Diego ebbe un brutto sospetto riguardo alla faccenda dell'avvocato, e fu questa la causa della mia disgrazia, a parte tutte quelle che poi mi accaddero. La maggiore di esse, che poi fece da fondamento a tutte le altre, fu che, una volta tornato a casa, andai ad aprire un baule nel quale tenevo una valigia con tutto il denaro che mi era rimasto dell'eredità e della vincita - meno cento reali che portavo addosso -, e m'accorsi che il buon dottor Brandalagas e Pero López se ne erano impossessati e non ricomparivano. Rimasi come morto, senza sapere cosa fare per trovare un rimedio. Dicevo fra me e me: «Maledetto sia chi confida in una rendita mal guadagnata, che se ne va così come viene. Povero me! Che farò mai?». Non sapevo se andare a cercarli o denunciarli alla giustizia. Quest'ultima soluzione non mi pareva conveniente, perché, se li avessero presi, avrebbero parlato della faccenda del travestimento da frate e di altre cose, e avrebbe significato finire sulla forca. Quanto a inseguirli, non sapevo da che parte andare. Alla fine, per non perdere anche il matrimonio, visto che consideravo la dote come un risarcimento, decisi di rimanere lì e di affrettarlo il più possibile. Mangiai, nel pomeriggio presi in affitto il mio cavallino e me ne andai verso la strada dove abitava donna Ana; dato che non avevo un lacchè, per non farlo notare aspettavo all'angolo, prima di entrare nella strada, che passasse qualcuno di somigliante a un lacchè per poi mettermi dietro di lui e fargli fare da lacchè senza che lo fosse. Poi, arrivati alla fine della strada, mi appostavo dietro l'altro angolo, finché non ne passava un altro; quindi mi mettevo dietro e facevo un nuovo giro. Io non so se fu la forza della verità, visto che ero davvero quel picaro che don Diego sospettava, o se invece fu il sospetto per il cavallo dell'avvocato, o qualche cosa d'altro, fatto sta che don Diego si mise a

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indagare sul mio conto, volendo sapere chi ero e di cosa vivevo, e per giunta mi spiava. Tanto fece, insomma, che venne a sapere la verità nel modo più straordinario; mentre io sollecitavo fieramente, per lettera, le pratiche del matrimonio, lui, assillato dalle donne, che volevano concludere, venne a cercarmi e incontrò il dottor Saetta, quello stesso che mi aveva invitato a pranzo quando stavo con i cavalieri. Questi, seccato per il fatto che non ero andato più a fargli visita, parlando con don Diego e sapendo che ne ero stato il servitore, gli disse che ci eravamo visti quella volta che avevamo pranzato insieme, e che appena due giorni prima m'aveva incontrato a cavallo e molto ben messo, e gli avevo raccontato che avrei fatto un bel matrimonio. Don Diego non ebbe bisogno d'altro e, tornando a casa, incontrò vicino alla Puerta del Sol quei due cavalieri amici miei, quelli dell'insegna e della collana; raccontò loro quel che stava succedendo e disse loro di prepararsi e, vedendomi in strada la sera, di rompermi la faccia; m'avrebbero riconosciuto dalla cappa che portava lui, poiché quella sera l'avrei avuta indosso io. Si misero d'accordo, e quando mi incontrarono all'imbocco della strada, furono così bravi nel simulare da farmi pensare che mai come quella volta fossero miei amici. Rimanemmo a conversare, parlando di quel che sarebbe stato bello fare quella sera fino all'Ave Maria. Poi i due si accomiatarono e si diressero in giù, mentre don Diego e io rimanemmo soli e ci incamminammo verso San Felipe. Quando arrivammo all'imbocco di calle de la Paz, don Diego disse: «Vi prego, don Felipe, scambiamoci le cappe, ché voglio passare di qui senza essere riconosciuto». «Senz'altro», dissi io. Presi innocentemente la sua, e gli diedi la mia. Gli offrii il mio aiuto per guardargli le spalle, ma lui, che aveva architettato il modo di rompere le mie, disse che preferiva rimanere solo, e che dunque andassi pure via. Mi ero appena separato da lui con indosso la sua cappa, quando il diavolo volle che due che lo aspettavano per prenderlo a piattonate a causa d'una donnina, desumendo dalla cappa che io fossi don Diego, saltarono fuori e diedero il via a una pioggia di bastonate. Io gridai, e dalla voce e dalla faccia si resero conto che non ero don Diego. Fuggirono, e io rimasi per strada pieno di lividi. Nascosi alla bell'e meglio tre o quattro bernoccoli che

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mi spuntarono, e mi fermai per un po': dalla paura che avevo provato non me la sentivo di riprendere il cammino. Alla fine, a mezzanotte, che era l'ora in cui solevo parlare con Ana, arrivai alla sua porta; ma uno dei due che mi aspettavano per ordine di don Diego mi sbarrò la strada aggredendomi con un randello, dandomi due bastonate sulle gambe e gettandomi in terra; arriva poi l'altro, e mi sferra una coltellata colpendomi da un orecchio all'altro; infine mi tolgono la cappa e mi lasciano lì per terra, dicendo: «Così pagano i picari ingannatori e malnati». Cominciai a gridare e a chiedere il confessore; e dato che non sapevo di chi si fosse trattato, anche se dalle parole sospettavo fosse l'oste da cui ero fuggito con lo stratagemma dell'Inquisizione, o il carceriere burlato, o i miei compagni fuggiti, ecc., dato insomma che una coltellata me l'aspettavo da tante parti che non sapevo a chi attribuirla, ma mai avrei sospettato di don Diego e dunque della verità, gridavo: «Al ladro! Mi hanno rubato la cappa!». A quelle grida accorse la giustizia. Mi sollevarono, e vedendo sul mio viso uno sfregio da un palmo, non trovando la cappa e non sapendo cosa fosse accaduto, mi portarono a farmi medicare. Mi accompagnarono a casa di un barbiere, che mi curò, poi mi chiesero dove vivevo e mi ci portarono. Mi misero a letto, e quella notte rimasi in stato confusionale vedendo la mia faccia divisa in due, e le gambe così storpiate dalle bastonate che non le sentivo né mi reggevo in piedi. Inoltre ero stato derubato in modo tale che non potevo né inseguire gli amici, né organizzare il matrimonio, e né restare nella capitale né andarmene via.

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CAPITOLO OTTAVO Della mia convalescenza e di altri eventi singolari Quand'ecco che la mattina mi sveglio e mi vedo davanti l'ostessa, un'anziana sui cinquantacinque, con il suo grosso rosario in mano e una faccia raggrinzita come un frutto secco o un guscio di noce. Godeva di buona fama nella zona, e anzi ci andava a letto, con essa e con chi la voleva; soddisfaceva ogni gusto e incoraggiava i piaceri. Si chiamava de la Guía; dava in affitto la sua casa e faceva da mezzana per affittarne altre. La locanda era piena di gente tutto l'anno. Bisognava vedere come insegnava alle ragazze a coprirsi, in primo luogo mostrando loro quel che del loro viso dovevano invece scoprire. A quella dai bei denti diceva di ridere sempre, anche durante una visita di condoglianze; a quella dalle belle mani mostrava come impiegarle; alla bionda, consigliava un certo dondolio dei capelli, facendo spuntare un ricciolo fra la mantiglia e il cappellino; a quella dai begli occhi, graziose e sognanti danze con le pupille, chiudendo le palpebre e poi risollevandole con lo sguardo perso nel vuoto. Per quanto riguardava poi i belletti, entravano delle cornacchie e lei correggeva loro le facce in modo tale che, una volta tornate a casa, non le riconoscevano neanche i loro mariti. Ma la cosa in cui più eccelleva era restaurare vergini e creare pulzelle. In appena otto giorni che rimasi in quella casa, le vidi fare tutto questo e, a coronamento d'ogni cosa, dirò che insegnava alle donne a spennare la gente e a sputar sentenze. Diceva loro come dovevano fare per ottenere quel che desideravano: le ragazze dovevano riuscirvi con la grazia, le giovani per debito, e le più anziane per obbligo e rispetto. Insegnava a chiedere denaro liquido, così come catenelle e anelli. Citava la Vidaña, sua concorrente ad Alcalá, e la Plañosa, a Burgos, donne capaci di ogni inganno. Ho detto questo affinché si provi per me una gran pietà vedendo in quali mani ero caduto, e affinché si ponderi meglio quanto mi disse. Lei cominciò con queste parole, dato che parlava sempre per proverbi: «Non mettere e levare, figliolo don Felipe, presto s'asciuga il mare; come la

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polvere, il fango, e come le nozze, la torta. Io non ti capisco, né conosco il tuo modo di vivere. Sei giovane; non mi stupisce che tu faccia qualche birbonata, senza accorgerti che, anche dormendo, ci avviciniamo alla fossa: posso ben dirtelo io, che sono ormai un mucchio di terra. Che importa se vengono a dire a me che hai sperperato una bella rendita senza sapere come, e che sei stato visto da queste parti ora studente, ora picaro, ora cavaliere, e tutto a causa delle cattive compagnie? Dimmi con chi vai, figliolo, e ti dirò chi sei; a ognuno il suo simile; sappi, figliolo, che nel passare dalla mano alla bocca si perde la zuppa. Va là, stupidello, che se erano le donne a preoccuparti, sai bene che io sono l'eterno daziere, in queste terre, di tale mercanzia, che mi sostento porgendola, e anzi insegno come deve porgersi, e fisso il prezzo e gli sconti. Non dovevi andartene con questo o quell'altro picaro, dietro questa sdolcinata o quell'altra astuta, che concede i suoi favori solo al merlo che si lascia spennare. E ti giuro che avresti risparmiato molti ducati se ti fossi raccomandato a me, poiché io non sono affatto attaccata ai soldi. E per i miei antenati e defunti, che possa fare la stessa buona fine, non ti chiederei neanche quanto mi devi di pigione, se non ne avessi necessità per qualche candeletta e delle erbe». Ella infatti trattava spezie senza essere una speziale, e se la ungevano si ungeva a sua volta e di notte si volatilizzava come il fumo. Quando vidi che aveva finito il suo discorso o sermone chiedendomi dei soldi - sebbene fosse questo il tema del discorso, ci arrivò alla fine, e non all'inizio come fanno tutti -, non mi stupii della visita, ché mai me ne aveva fatta una da quando ero pensionante, se non un giorno in cui venne a darmi spiegazioni, perché aveva sentito che m'era stato riferito di non so quali stregonerie; volevano anzi arrestarla, ma lei si nascose in strada, e poi venne a smentire dicendomi che la persona che cercavano era un'altra Guía. Non c'è certo da stupirsi se con queste guide deviamo tutti dal giusto cammino. Io le contai il denaro, e mentre glielo stavo dando, la sventura, che mai mi dimentica, e il diavolo, che di me si ricorda, vollero che venissero ad arrestarla per concubinaggio, sapendo per di più che l'amico doveva essere in casa. Irruppero nella mia stanza e, siccome mi videro a letto con lei accanto, ci assalirono entrambi, e mi diedero tre o quattro spintoni niente male,

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trascinandomi giù dal letto. Altri due intanto la tenevano stretta, trattandola da ruffiana e strega. Chi l'avrebbe mai pensato di una donna che faceva la vita di cui ho riferito poc'anzi! Alle grida del bargello e ai miei lamenti, l'amico, un fruttivendolo che in quel momento stava nascosto nella stanza interna, si diede alla fuga. Quando lo videro, e un altro ospite della casa confermò che ero solo un pensionante, corsero dietro al picaro, lo acciuffarono e mi lasciarono stare, benché ormai pesto e ammaccato; malgrado il dolore, tuttavia, ridevo per quello che quei picari dicevano alla Guía. Uno infatti la guardava ed esclamava: «Come Vi starà bene una mitria, madre, e come mi farà piacere vederVi dedicati tremila navoni». E l'altro: «Già hanno scelto le piume, i signori giudici, per farVi avere un bell'ornamento». Alla fine, portarono l'altro picarone, e li legarono entrambi. Mi chiesero scusa e mi lasciarono solo. Provai un certo sollievo nel vedere in che condizioni si trovassero le faccende della mia buona ostessa; così, non avevo altra preoccupazione che quella di alzarmi presto per portarle anch'io la mia arancia. Anche se, almeno a giudicare dal racconto di una servetta rimasta in casa, che mi disse non so cosa di voli e altre cose che non mi suonavano, del suo arresto c'era da diffidare. Rimasi in casa a curarmi per otto giorni, e anche dopo ero appena in grado di uscire; mi diedero dodici punti sul viso, e fui costretto a munirmi di stampelle. Mi ritrovai senza soldi, poiché i cento reali si erano presto consumati, fra le cure, il vitto e l'alloggio. Così, per non spendere più, non avendo oltretutto del denaro, decisi di uscire di casa sulle stampelle, e di vendere il mio vestito, la gorgiera e i giubboni, che erano di ottima qualità. Con quello che ne ricavai comprai un vecchio farsetto da cordovano e un glorioso giubbotto di stoppa, un tabarro da mendicante, lungo e pieno di toppe, le ghette e delle grosse scarpe, coprendomi la testa con il cappuccio del tabarro e mettendomi al collo un Cristo di bronzo e un rosario. Mi insegnò tono di voce e frasi dolenti un mendicante assai esperto

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nella sua arte; così, cominciai poi a esercitarla per le strade. I sessanta reali che mi erano avanzati me li cucii nel giubbotto e mi misi a fare il mendicante confidando nella mia oratoria. Per otto giorni andai in giro per le strade, ululando con voce dolente ed elevando al cielo preghiere del seguente tenore: «Dai, buon cristiano, servo del Signore, al povero storpio pieno di piaghe: più mi vedo, più mi compiango!». Questo lo dicevo nei giorni feriali, mentre in quelli festivi cominciavo con voce affatto diversa e declamavo: «Fedeli cristiani e devoti del Signore! Per amore d'una così alta signora come la Regina degli Angeli, Madre di Dio, date un'elemosina al povero paralitico, colpito dalla mano del Signore!». Mi fermavo un attimo - cosa di estrema importanza -, poi aggiungevo: «Un'aria malsana, in un'ora funesta, mi paralizzò le membra, mentre zappavo una vigna; e sì che ero sano e buono come lorsignori si vedono, che Dio li protegga e sempre sia lodato». Le monete da otto arrivavano saltellando, e guadagnavo molti soldi. Avrei guadagnato anche di più, se non mi si fosse messo di mezzo un ragazzaccio con una brutta faccia, le braccia monche e una gamba di meno, che in un carretto girava per le mie stesse strade, e raccoglieva più elemosina, anche se chiedeva con mala grazia. Diceva, con una voce rauca che si perdeva in uno squittìo: «Ricordatevi, servi di Giesù Cristo, di un povero storpiato dal Signore per i suoi peccati. Date al povero affinché Dio riceva». E aggiungeva: «Per il buon Giesù!», guadagnando che era una bellezza. Io me ne accorsi e non dissi più Gesù, ma aggiunsi anch'io la i, e muovevo maggiormente a compassione. Alla fine, cambiai anche le frasette e presi a guadagnare moltissimo. Tenevo le gambe, ben fasciate, infilate in una borsa di cuoio, e m'appoggiavo alle mie due stampelle. Dormivo sotto il portone di un cerusico, con un mendicante di quelli che stanno agli angoli delle strade, uno dei peggiori bricconi che Dio abbia mai creato. Era ricchissimo, e ci faceva da rettore; guadagnava più di chiunque altro. Aveva un'ernia enorme, e si legava l'avambraccio con una cordicella per simulare di avere la mano rattrappita e gonfia, e per di più febbricitante. Si metteva al suo posto disteso a bocca in su, e con l'ernia in bella vista, grande come una boccia, diceva: «Guardate la povertà e il dono che Dio ha fatto al cristiano». Se passava una donna, diceva: «Ah, bella signora, che Dio sia con la Vostra anima», e la

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maggior parte di esse, solo per farglielo dire, gli facevano l'elemosina e passavano di lì anche se per le loro commissioni non era di strada. Se vedeva un soldatino diceva: «Ah, signor capitano», e se era invece una persona qualunque: «Ah, signor cavaliere!». Se qualcuno passava in carrozza, lo chiamava subito «signoria», e se era un prete su un mulo, «signor arcidiacono». Insomma, era un terribile adulatore. Conosceva modi diversi per chiedere l'elemosina, a seconda del santo di cui quel dato giorno ricorreva la festa. Finii per divenirgli così amico, che mi svelò il segreto grazie al quale, in due giorni, divenimmo ricchi. Questo mendicante aveva infatti tre ragazzini, che raccoglievano l'elemosina per le strade e rubavano tutto quel che potevano, per poi renderne conto a lui che metteva i soldi da parte. Inoltre, era in combutta con due chierichetti che facevano dei salassi alla cassetta delle elemosine. Io m'avvalsi dello stesso metodo, e lui mi mandò la gentuccia che faceva al caso mio. In meno di un mese mi ritrovai così con più di duecento reali di risparmi. Alla fine, in modo che collaborassimo, mi rivelò il maggior segreto e l'espediente massimo che mai mendicante ideò, e li mettemmo in pratica insieme. Si trattava di rubare dei bambini, quattro o cinque al giorno, fra tutt'e due; quando sentivamo i banditori, uscivamo fuori a chiedere i loro connotati e poi dicevamo: «È proprio lui, signore, l'ho incontrato all'ora tale, e anzi se non fossi intervenuto l'avrebbe schiacciato un carro; sta a casa mia». Ci ricompensavano per il ritrovamento, e ci arricchivamo in un modo tale che mi ritrovai con cinquanta scudi e le gambe ormai guarite, benché ancora le tenessi fasciate. Mi proposi di lasciare la capitale e di incamminarmi per Toledo, dove non conoscevo nessuno e nessuno mi conosceva. Alla fine, mi decisi. Acquistai un vestito grigio, una gorgiera e una spada, m'accomiatai da Valcázar, il mendicante di cui ho parlato, e poi cercai nelle varie locande un mezzo su cui andare a Toledo.

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CAPITOLO NONO Nel quale divento attore, poeta e corteggiatore di monache In una locanda m'imbattei in una compagnia di comici che si recavano appunto a Toledo. Vi andavano su tre carri, e Dio volle che uno degli attori fosse stato mio compagno di studi ad Alcalá, pur avendo poi disertato la scuola ed essendosi dato al mestiere dell'attore. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto andare anch'io a Toledo e lasciare la capitale; quello m'aveva a malapena riconosciuto, per via della coltellata, e non la smetteva più di fare gli scongiuri per signum crucis. Alla fine, convinto dal mio danaro, diede prova d'amicizia e ottenne dagli altri un posto per me, in modo che potessi andare con loro. Viaggiavamo tutti mescolati, uomini e donne, e una di esse, la ballerina che faceva anche la regina e i ruoli seri nelle commedie, mi parve subito un tipetto fuor dell'ordinario. Per caso mi capitò a fianco il marito, e io, senza sapere con chi stavo parlando, preso dal desiderio di amarla e possederla, gli dissi: «Come potrò mai parlare con quella donna e spenderci una ventina di scudi? Mi pare proprio bella». «Non sta bene che lo dica io, che sono il marito», disse l'uomo, «né dovrei parlarne; però, spassionatamente - non avrei nessun interesse a dirlo -, con lei si può spendere qualunque somma, perché di carni così non se ne trovano sulla terra, né ci sono donne più giocherellone di lei». Detto questo, saltò giù dal carro e si trasferì su un altro, evidentemente per darmi il modo di parlarle. La risposta dell'uomo mi divertì, e mi resi conto che questi sono coloro dei quali qualche briccone, trasformando la sentenza in malizia, direbbe che rispettano il precetto di san Paolo, avendo sì una donna, ma come se non l'avessero. Così, approfittai dell'occasione e le parlai; mi chiese dove andavo, e le raccontai qualcosa della mia vita. Alla fine, dopo aver chiacchierato parecchio, ci mettemmo d'accordo per rivederci con più calma a Toledo. Strada facendo, comunque, ce la spassammo.

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Il caso volle che cominciassi a recitare un brano della commedia di sant'Alessio che ricordavo dalla mia infanzia: e recitai così bene da interessarli. Avendo saputo tramite il mio amico, che stava nella compagnia, delle mie disgrazie e dei miei problemi, mi dissero se volevo entrare nella loro compagnia di danza. Fecero un tale elogio della vita da guitti, che io, avendo necessità di un sostegno ed essendomi parsa bella la ragazza, mi misi d'accordo con il capocomico per due anni. Firmai un contratto e lui mi diede la mia parte nelle varie rappresentazioni. Nel frattempo eravamo giunti a Toledo. Mi diedero da studiare tre o quattro loas e ruoli da vecchio, cui la mia voce si addiceva. Io misi in tutto molta attenzione, e recitai sul posto la prima loa. Si trattava, come in tutte, di una nave che rientrava in porto distrutta e senza più provviste; dicevo la fatidica frase: «ecco il porto»; chiamavo la gente «senato», chiedevo scusa degli errori, intimavo silenzio e uscivo. Ci fu qualche bravo di convenienza, e sulla scena feci la mia figura. Rappresentammo una commedia di un nostro attore, e io mi meravigliai che fungessero anche da poeti, poiché credevo che i poeti fossero gente saggia e dotta, e non così sommamente ignorante. Ma le cose vanno ormai in questo modo, e non c'è capocomico che non scriva commedie, né attore che non faccia la sua farsa di mori e cristiani; mentre ricordo che prima, a parte le commedie di Lope de Vega, o di Ramón, non c'era nient'altro. Insomma, la commedia si fece il primo giorno, e nessuno ci capì nulla. Il secondo giorno, finì prima di cominciare; Dio volle che iniziasse con una guerra, e io uscissi armato e con uno scudo, altrimenti sarei finito, come gli altri, sommerso da cotogne fradicie, torsoli e scorze di cocomero. Non ho mai assistito a un tale uragano, ma la commedia lo meritava: metteva infatti in scena, senza nessun motivo, un re di Normandia in abito da eremita; poi faceva entrare due lacchè per muovere al riso; infine, al momento di sbrogliare la matassa, si limitava a far sposare tutti, ed era fatta. In fin dei conti, avemmo quel che meritavamo. Trattammo tutti molto male il compagno poeta; in particolare, gli dissi

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di veder bene a cosa eravamo scampati e di imparare la lezione. Giurò su Dio che nella commedia non c'era niente di suo, ma che prendendo un passo di qua e uno di là aveva messo insieme un mantello da povero, tutto rammendi; l'errore era consistito dunque nell'averli cuciti male. Mi confessò che i comici che scrivevano commedie erano pieni di debiti, poiché approfittavano di quanto avevano rappresentato, e con molta disinvoltura; del resto, l'interesse di guadagnare trecento o quattrocento reali li esponeva a quei rischi. Per di più, mentre giravano per quei luoghi, arrivava ora l'uno ora l'altro a legger loro delle commedie: «Le prendiamo per vederle, ce le portiamo via, e dopo aver aggiunto una sciocchezza e aver tolto qualcosa di buono, le facciamo passare per nostre». E mi spiegò che non c'era mai stato un commediante che sapesse scrivere una strofa in altro modo. L'espediente non mi parve affatto male, e confesso che lo feci mio, tanto più che ravvisai in me un talento naturale per la poesia; per di più, conoscevo alcuni poeti e avevo letto Garcilaso; così, decisi di darmi all'arte. E fra questo, l'attrice e il mio stesso recitare, trascorreva la mia vita; dopo un mese che stavamo a Toledo, facendo buone commedie ed emendando i passati errori, godevo già di una certa fama, ed erano arrivati a darmi il nome di Alonsete, avendo io detto di chiamarmi Alonso, e come soprannome quello del «Crudele», poiché lo era un personaggio che avevo recitato con grande plauso del volgare pubblico della piccionaia. Avevo già tre paia di vestiti, e c'erano capocomici che avrebbero voluto sottrarmi alla mia compagnia. Parlavo come se ne capissi qualcosa, facevo pettegolezzi sugli autori famosi, criticavo certi atteggiamenti di Pinedo, approvavo la naturale compostezza di Sánchez, definivo Morales niente male. Per la scenografia e per la scelta degli apparati di scena chiedevano il mio consiglio. Se qualcuno veniva a leggere le sue commedie, adesso ero io ad ascoltarlo. Alla fine, incoraggiato da tanto successo, mi sverginai poeticamente con una romanzetta, e feci un intermezzo che non parve poi così malvagio. Osai scrivere una commedia, e affinché non mancasse d'esser divina la dedicai a Nostra Signora del Rosario. Cominciava con delle ciaramelle, c'erano le anime del Purgatorio e i demoni, così come s'usava allora, con i loro «bu, bu» quando apparivano e «ri, ri» quando uscivano di scena; al pubblico piacque molto che nominassi Satana nelle strofe, e discutere poi sul

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fatto che fosse caduto dal cielo, eccetera. Alla fine, la mia commedia fu messa in scena e parve molto bella. Non mi bastavano le mani per lavorare, poiché venivano da me gli innamorati, alcuni per delle strofe sulle ciglia, altri sugli occhi, alcuni per un sonetto sulle mani, altri per una romanzetta sui capelli. Avevo un prezzo per ogni cosa, anche se, come in ogni attività commerciale che si rispetti, per far sì che venissero da me li tenevo bassi. Per non parlare delle villanelle! Pullulavano i sacrestani e le messaggere delle monache; i ciechi mi mantenevano con le loro orazioni - otto reali ciascuna -, e ricordo che feci allora quella grave e sonora del Giusto Giudice, che prevedeva anche una certa mimica. Scrissi per un cieco, che le pubblicò con il suo nome, quelle strofe famose che cominciano così: Madre dell'umano verbo figlia del Padre divino dammi la virginal grazia, eccetera Fui il primo a introdurre l'uso di chiudere le strofe come i sermoni, con un «qui in terra grazia e di là gloria», in questa strofa su un prigioniero a Tetuán: Chiediamo senza fallacia all'alto Re senza scoria, che vede tal pertinacia, che darci voglia la grazia, e poi di là la sua gloria. Amen. Con queste cose avevo il vento in poppa, ero ricco e prospero, al punto quasi di aspirare a fare il capocomico. Avevo una casa assai ben arredata, poiché, per avere tappezzeria a basso prezzo, avevo escogitato una diavoleria: avevo cioè comprato arredi di taverne e li avevo poi appesi. Mi erano costati venticinque o trenta reali, e c'erano da vedere più cose che in quelli del re; attraverso i miei, infatti, ci si vedeva, tanto erano rotti, mentre attraverso quegli altri non si vede nulla.

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Un giorno mi successe la cosa più divertente del mondo, e devo raccontarla assolutamente, benché non mi faccia proprio onore. Nei giorni in cui lavoravo alle commedie, mi ritiravo nella soffitta di casa mia, dove rimanevo e mangiavo; saliva una ragazza con le vivande e me le lasciava lì. Io avevo preso l'abitudine di scrivere recitando ad alta voce, come se lo facessi sul palcoscenico. Volle il diavolo che, nell'ora e nell'attimo preciso in cui la ragazza saliva le scale, che erano strette e scure, con in mano i piatti e una pentola, io mi trovassi in una scena di caccia, e nel comporre la commedia levassi forti grida; dicevo: Bada all'orso, bada all'orso, che mi sta sbranando vivo ed a te vuol dare un morso. La ragazza, che era galiziana, quando sentì dire «sbranando» e «morso», credette che fosse la verità e che la stessi avvisando. Scappa via e, tutta turbata, inciampa nella gonna, rotola giù per le scale, rovescia la pentola, rompe tutti i piatti, ed esce fuori, gridando che un orso stava uccidendo un uomo. Per quanto accorressi subito, si era già riunito tutto il vicinato e mi chiedeva dell'orso; e benché raccontassi che era stata tutta colpa dell'ignoranza della ragazza, poiché si trattava solo di un passo della commedia, non si decidevano a credermi; insomma, quel giorno non mangiai. I miei compagni ne furono informati e il racconto di quanto era avvenuto ebbe molto successo in città. E di queste cose me ne accaddero parecchie fintantoché insistetti a fare il poeta e non guarii da quel malanno. Avvenne, dunque, che il mio capocomico - finiscono tutti così -, essendosi saputo in giro che a Toledo le cose gli erano andate bene, fu arrestato per non so quali debiti e messo in prigione; di conseguenza, la compagnia si sciolse e ciascuno andò per la sua strada. Io, a dire la verità, e benché i compagni mi indicassero altre compagnie, non aspiravo a quel mestiere; vi ero stato costretto unicamente per necessità, ma considerando che ora ero divenuto benestante e danaroso, mi preoccupai solo di divertirmi.

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Mi accomiatai da tutti; se ne andarono, e io, che pensavo di liberarmi da quella vitaccia una volta che non avessi più fatto l'attore, divenni, se Vossignoria non se la prende a male, amante di grata, ovvero cuffia, e per parlare più chiaramente, pretendente al rango di Anticristo, che è come dire corteggiatore di monache. Ebbi occasione di diventarlo perché a una monaca, su cui richiesta avevo composto molte villanelle, ero piaciuto quando, in un auto del Corpus, avevo interpretato il ruolo di san Giovanni Evangelista, del cui ordine lei faceva parte. La donna mi usava mille attenzioni, e mi disse una volta che le dispiaceva solo che facessi il commediante (io avevo finto di essere il figlio di un grande cavaliere) e che provava compassione per me. Alla fine, mi decisi a scrivere quanto segue: LETTERA «Più per far piacere a Vossignoria che per seguire la mia inclinazione ho lasciato la compagnia; ché per me qualunque compagnia che non sia la Vostra significa solitudine. Ora sarò tanto più Vostro quanto più sarò mio. Fatemi sapere quando sarà l'ora del parlatorio, e saprò così quando potrò avere il piacere...», eccetera. La conversa portò il bigliettino; non ci si può immaginare quanto fu felice la buona monaca quando seppe della mia nuova condizione. Mi rispose in questo modo: RISPOSTA «Per il positivo evolversi della Vostra vita, più che esprimere congratulazioni vorrei riceverne, e mi dispiacerebbe se la mia volontà e il Vostro bene non fossero la stessa cosa. Possiamo dire che siete tornato in Voi; ora non dovete far altro che perseverare, almeno quanto persevero io. Dubito che oggi vi possa essere parlatorio, ma Vossignoria non manchi di venire ai vespri, ché potremo vederci, e poi alle grate: chissà che non riesca a sfuggire alla badessa. Addio.» Il biglietto mi soddisfece, e la monaca era davvero piena di buon senso

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e bella. Mangiai e mi misi il vestito con cui solevo fare la parte del corteggiatore nelle commedie. Andai diritto in chiesa, pregai e poi cominciai a scorrere con gli occhi tutte le croci e i buchi della grata, per vedere se appariva; finché - come Dio volle e per fortuna, anche se in realtà era il diavolo, e per sventura - sento il vecchio segnale: comincia cioè a tossire, e tossisco anch'io; e tutti a tossire come Barabba. Simulammo un catarro, e pareva che avessero gettato in chiesa del pepe. Alla fine, quando ero già stanco di tossire, mi si affaccia alla rete una vecchia che tossiva; vidi allora com'ero sventurato, perché la tosse è un segnale pericolosissimo in convento. Così come fa da segnale per le giovani, infatti, per le vecchie è un'abitudine: ci sono uomini che pensano si tratti del richiamo di un usignolo, e ne vien fuori invece il gracchiare di un corvo. Rimasi in chiesa per molto tempo, finché non cominciarono i vespri. Li ascoltai tutti, ed è per questo che gli innamorati delle monache sono chiamati «innamorati solenni», per quello cioè che hanno in comune con i vespri, e anche perché non vanno mai oltre la vigilia del piacere, visto che il loro giorno non arriva mai. Non si può credere quanti vespri doppi ho udito. A forza di sporgermi per vedere, rispetto a prima del corteggiamento il collo mi si era allungato di due palmi, ed ero divenuto un grande amico del sacrestano e del chierichetto, oltre a essere ben accolto dal vicario, un uomo di spirito. Mi muovevo così rigidamente, che sembrava mangiassi a pranzo degli spiedi e a cena giavellotti. Andai alle grate, e là, malgrado vi fosse un piazzale piuttosto grande, bisognava occupare il posto a mezzogiorno, come a una prima teatrale: la piazza pullulava infatti di devoti. Alla fine, mi misi dove mi fu possibile; era curioso vedere le varie posizioni degli innamorati. Alcuni, scrutando senza mai battere ciglio, con una mano sulla spada e il rosario nell'altra, stavano come delle figure di pietra su un sepolcro; altri, sollevate le mani e le braccia distese in modo serafico, sembravano ricevere le piaghe; poi ce n'erano alcuni con la bocca più aperta di quella di una pettegola, che senza dir nulla mostravano alla loro innamorata le viscere attraverso la gola; altri, appoggiati al muro, molestavano i mattoni e sembravano misurarsi con il cantone; c'era

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poi chi passeggiava come un mulo, nemmeno dovessero amarlo per l'andatura; e chi, con un biglietto in mano, come un cacciatore con la preda, pareva chiamare il falcone. I gelosi si riunivano altrove: di questi, alcuni formavano un capannello, ridendo e guardando le monache; altri leggevano delle strofe o le mostravano; poi c'era chi, per suscitare gelosia, passava sullo spiazzo a braccetto con una donna, e chi parlava con una finta domestica che gli portava un messaggio. Tutto questo succedeva nella parte di sotto, ossia la nostra, ma anche quella di sopra, dove stavano le monache, era degna d'esser vista; le grate s'erano ridotte a una torretta tutta piena di feritoie, e la parete era tutta sfilacciata, tanto da parere ora uno spolverino, ora una boccetta di profumo. Le feritoie erano popolate da visioni; qua si scorgeva un fritto misto, là una mano e più avanti un piede; da un'altra parte c'era carne sabbatica: teste e lingue, anche se mancavano cervelli; altrove poi c'erano in mostra delle chincaglierie: una esibiva il rosario, un'altra dondolava il fazzoletto; da un'altra parte era appeso un guanto, di là spuntava invece un nastro verde... Alcune parlavano a voce un po' alta, altre tossivano; e c'era chi faceva le segnalazioni dei cappellai, come se cavasse ragni dai buchi, bisbigliando «ps ps». D'estate è incredibile come non solo si riscaldino al sole, ma vi si abbrustoliscano; ed è un vero piacere vedere esse così crude ed essi così arrosto. D'inverno, per via dell'umidità, a qualcuno di noi capita di veder spuntare sul proprio corpo nasturzi e alberelli vari. Non c'è neve che ci sfugga, né pioggia che ci risparmi; e tutto questo, alla fin fine, solo per vedere una donna attraverso grate e vetrate, come una reliquia; è come innamorarsi di un tordo in gabbia, se parla, o, se tace, di un ritratto. I favori sono tutti palpamenti che non arrivano mai a segno, null'altro che un solletico con le dita. Affondano la testa nella grata e sussurrano un complimento attraverso le feritoie. Amano nascondendosi. Non le avete mai viste parlare sottovoce e come se pregassero: è terribile dover sopportare una vecchia che litiga, una portinaia che dà ordini e una monaca della ruota che mente. Il bello è che poi pretendono di essere gelose di quelle di fuori, dicendo che il vero amore è il loro, e trovano le ragioni più indiavolate per provarlo.

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Insomma, io chiamavo già «signora» la badessa, «padre» il vicario e «fratello» il sacrestano, tutte cose che, col passare del tempo, finisce per fare un disperato. Le monache della ruota cominciarono a infastidirmi mandandomi via, e le altre chiedendo di me. Mi resi conto di quanto mi costava l'inferno, che altri in questa vita ottengono così a buon mercato e senza tanti problemi. Vidi che mi stavo ampiamente dannando, e che stavo andando all'inferno per il solo senso del tatto. Quando conversavamo, affinché non mi sentissero gli altri che stavano davanti alle grate, solevo avvicinare tanto la testa, che per i giorni successivi avevo l'impronta del ferro stampata sulla fronte, e mi esprimevo come un sacerdote che dica parole di consacrazione. Non c'era nessuno che mi vedesse e non dicesse: «Sii maledetto, briccone delle monache», e altre cose ben peggiori. Tutto questo mi dava parecchi pensieri, ed ero quasi deciso a lasciare la monaca, anche se così avrei perso il mio sostentamento. Lo feci infine il giorno di san Giovanni Evangelista, quando mi resi conto di cosa siano le monache. Vossignoria non voglia saperne di più: basti dire che tutte le battistine divennero rauche apposta, e tirarono fuori certe voci con cui, invece di cantar messa, la gemettero; non si lavarono la faccia e si misero vestiti vecchi. E i devoti delle battistine, per screditare la festa, portarono in chiesa dei panchetti invece delle sedie, e parecchi picari del mercato. Quando vidi che le une in favore di un santo, e le altre dell'altro, finivano per trattarli entrambi in maniera indecente, sottrassi alla mia monaca, con la scusa di farne una riffa, cinquanta scudi di lavoretti di ricamo - calze di seta, borsette di ambra e dolci - e m'incamminai verso Siviglia, temendo che, se avessi aspettato di più, avrei visto nascere delle mandragole nei parlatori. Come ci sia rimasta male la monaca, più per quello che le avevo sottratto che per me, lo immagini il lettore.

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CAPITOLO DECIMO Di quello che mi accadde a Siviglia fino all'imbarco per le Indie Il viaggio da Toledo a Siviglia fu gradevole, poiché, avendo già dato inizio alla mia attività di baro, portavo dadi falsi con punti in più e in meno - con la mano destra ne coprivo uno e di quattro dadi che vi tenevo non ne partorivo che tre -, avevo una gran provvista di cartoni di ogni larghezza e lunghezza per fare dei segni sulle carte, e così non mi mancava certo il denaro. Tralascio di riferire dei molti altri fior d'inganni, poiché, se li narrassi tutti, mi prenderebbero più per un mazzolino che per un uomo; e anche perché sarebbe più opportuno offrire un esempio da imitare, piuttosto che riferire sui vizi dai quali gli uomini devono guardarsi. Ma forse svelando qualche arguzia e qualche modo di dire, coloro che ignorano saranno messi maggiormente in guardia, e quelli che avranno letto il mio libro saranno poi imbrogliati solo per propria colpa. Non ti fidare, amico, del fatto che stia a te dare le carte, perché te le cambieranno in men che non si dica. Evita che sulle carte vi siano segni, graffi o bruniture, cose attraverso le quali se ne riconosce il valore. E se per caso sei un picaro, lettore, ricordati che nelle cucine e nelle scuderie esse vengono bucate con un ago o piegate, affinché si riconoscano appunto dalla piegatura. Ma anche se tratti con gente perbene, guardati dalle carte, ché fin dal momento della loro stampa furono concepite nel peccato; inoltre, dato che la carta lascia trasparire l'inchiostro, vi si può vedere quello che uscirà. Non ti fidare delle carte pulite: per colui che le mostra e le dà anche la carta più insaponata è sporca. Bada che, a zecchinetta, colui che trucca le carte non pieghi le figure (eccezion fatta per i re) più delle altre carte, perché se ciò avviene puoi considerare defunto il tuo denaro. A primiera stai invece attento al fatto che le carte scartate da chi è di mano non vengano da sopra, e fa' in modo che non si chiedano l'un l'altro le carte con le dita che reggono il mazzo o con le prime lettere delle parole. Non voglio illuminarti su altre cose; queste bastino per farti capire che devi vivere con cautela, poiché è certo che sono infiniti gli inganni di cui non ti parlo. «Dare morte» significa togliere il denaro a qualcuno, ed è

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un'espressione azzeccata; «garbuglio» è uno stratagemma usato contro un amico, che infatti, da quanto è ingarbugliato, neanche se ne avvede; «doppi» sono coloro che portano degli ingenui per farli scuoiare da questi macellai di borse; «bianco» è chi è esente da malizia e buono come il pane, «nero» colui che lo fa andare in bianco. Con questo linguaggio e questi fior d'inganni arrivai dunque a Siviglia; grazie al denaro dei miei compagni di viaggio pagai l'affitto delle mule, il pranzo, nonché gli osti delle locande dove alloggiai. Smontai alla locanda del Moro, dove m'imbattei in un mio compagno di Alcalá che si chiamava Mata e che, siccome gli pareva un nome di poca risonanza, si faceva chiamare Matorral. Trattava vite umane, aveva cioè un'impresa di accoltellamenti, e le cose non gli andavano male. Della sua merce aveva sul volto un intero campionario, e basandosi su quelle che aveva ricevuto si accordava sull'ampiezza e la profondità di quelle che doveva dare. Diceva: «Non c'è miglior maestro di chi sia stato già accoltellato per benino», e aveva ragione, perché la sua faccia era come una giacchetta di pelle con gli spacchi e lui sembrava tutto di cuoio. Disse che dovevo andare a cena con lui e con altri suoi compagni, e che poi m'avrebbero riaccompagnato alla locanda. Ci andai; arrivammo alla sua locanda, e disse: «Via, toglieteVi la cappa, Vossia, e mostrateVi uomo, ché stasera vedrete tutti i bravi figliuoli di Iviglia. E affinché non Vi prendano per una checca, gualciteVi il colletto e incurvate le spalle; lasciate ricadere la cappa, ché noi camminiamo sempre trascinandola; con la bocca, fate una smorfia amara, e gesticolate da tutte le parti; inoltre delle g fate h, e delle h, g. Dite con me: gerida, mogino, jumo, pahería, mohar, habalí e harro de vino». Lo imparai a memoria. Mi prestò poi una daga che da quanto era larga somigliava piuttosto a una scimitarra, e da quanto era lunga non si chiamava spada solo per modestia, ma avrebbe ben potuto esserlo. «Bevete», mi disse, «questo mezzo boccale di vino, perché se non se ne sentiranno le zaffate non sembrerete un coraggioso». Frattanto, mentre ero un po' stordito da quello che m'aveva fatto bere, entrarono quattro di loro, con facce simili a scarpe da gottoso; l'andatura altalenante; la cappa che non li copriva, ma li fasciava ai fianchi; il cappello sollevato sulla fronte, con le falde anteriori rialzate, tanto da parere un diadema; intere ferramenta a guarnire daghe e spade; i puntali a contatto con il calcagno destro; gli occhi a terra, l'aspetto forte; baffi all'insù come corna e barbe alla turca come fossero cavalli.

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Mi fecero un cenno con la bocca, e poi al mio amico dissero con voce sdegnosa e mangiandosi qualche sillaba: «Ser' vostro». «Compa' vostro», rispose il mio precettore. Sedettero, e per chiedere chi fossi non dissero parola, bastò che uno di loro guardasse Mata e mi segnalasse aprendo la bocca e spingendo verso di me il labbro inferiore. Gli rispose il mio maestro di noviziato stringendosi la barba e guardando in giù. Allora tutti si alzarono e mi abbracciarono, e io abbracciai loro, e fu come se assaggiassi quattro vini diversi. Venne l'ora di cenare; ci servirono dei picari, che i bravacci chiamano «cannoni». Ci sedemmo a tavola, e apparvero subito i capperi; cominciarono, a mo' di benvenuto, a bere in mio onore, e io, prima di vederli bere per esso, neanche sapevo di possederne tanto. Poi vennero pesce e carne, tutti cibi fatti apposta per stuzzicare la sete. Per terra c'era una tinozza piena di vino, e lì si gettava bocconi chi voleva brindare; mi piacque quel modo di bere, e la seconda volta non ce n'era uno che non avesse fraternizzato con gli altri. Cominciarono a esprimere propositi bellicosi; le bestemmie fioccavano; fra un brindisi e l'altro ne morirono venti o trenta senza confessione; al governatore della città assestarono un migliaio di pugnalate. Si parlò della memoria di Domingo Tiznado y Gayón, si versò vino in quantità per l'anima di Escamilla, e quelli che la scuffia rendeva tristi piansero teneramente il povero Alonso 'Alvarez. Il mio compagno, frattanto, dovette perdere qualche rotella, e disse, un po' rauco, prendendo un pane con le due mani e guardando la luce: «Per questo, che è il volto di Dio, e per la luce che uscì dalla bocca dell'angelo, se lorsignori credono, questa notte andremo a darle allo sbirro che ha perseguitato il povero Tuerto». Fra di essi si levò un grido altissimo; poi, sguainando le spade, giurarono; mettendo le mani ciascuno sul bordo della tinozza, e gettandovisi sopra con il muso, esclamarono: «Così come beviamo questo vino, dobbiamo bere il sangue di qualun que spia». «Chi è questo Alonso 'Alvarez», chiesi, «di cui vi è tanto dispiaciuta la morte?». «Un bravo», mi disse uno di loro, «un grande lottatore, ragazzo dalle mani lunghe e buon compagno. Andiamo, ché il demonio ricomincia a tentarmi». Uscimmo dunque di casa a caccia di sbirri. Io, che ero in preda al vino e gli avevo consegnato la mia mente, non mi resi conto del rischio che correvo. Giungemmo alla calle de la Mar, dove ci venne incontro la ronda. Non avevano fatto in tempo a vederla che, sguainando le spade, la aggredirono. Io

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feci la stessa cosa, e al primo scontro liberammo due corpi di sbirri delle rispettive anime. Il capo degli sbirri fece intervenire allora la giustizia, e cominciò a gridare fuggendo per la strada. Non riuscimmo a inseguirlo, avevamo la pancia troppo piena. Alla fine ci rifugiammo nella cattedrale, dove fummo al riparo dal rigore della giustizia, e dove dormimmo quanto bastava per far evaporare il vino che ci ribolliva nel cervello. Passata la sbornia, mi spaventai vedendo che la giustizia aveva perso due sbirri, e che il capo di essi era fuggito davanti a un grappolo d'uva come noi. In chiesa ce la passammo niente male, poiché, sentendo odore di rifugiati, vennero delle ninfe e si spogliarono per rivestirci. La Grajal mi si affezionò e mi rivestì con i suoi colori. Questa vita mi piacque più di ogni altra; e così mi proposi di viverne con lei gli affanni fino alla morte. Studiai il linguaggio dei ruffiani e nel giro di pochi giorni ne divenni il capintesta. La giustizia non trascurava certo di cercarci; noi facevamo la ronda davanti alla porta, ma poi, da mezzanotte in avanti, giravamo travestiti. Vedendo che questa faccenda durava a lungo, e che la sfortuna continuava a perseguitarmi, dopo essermi consigliato con la Grajal decisi, non per resipiscenza - non sono così saggio -, ma per stanchezza, e da ostinato peccatore, di partire con lei per le Indie, per vedere se, una volta cambiato mondo e terre, avrei migliorato la mia sorte. Ma mi andò ancora peggio, come Vossignoria vedrà nella seconda parte, perché non migliora mai il proprio stato chi muta solamente il luogo, e non anche il modo di vivere e i costumi.