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Economia Marxista fondamenti e attualità in collaborazione con www.memori.it www.piazzadelgrano.org

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Mensile d'informazione politica e cultura dell'Associazione comunista "Luciana Fittaioli" con sede a Foligno (PG)

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Economia Marxistafondamenti e attualità

in collaborazione con www.memori.it

www.piazzadelgrano.org

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IntroduzioneNel mese di dicembre 2011 abbiamo distribuito una pubblica-zione intitolata “Etica Comunista”, nella quale abbiamo raccol-to brevi scritti di alcuni dei maggiori esponenti del movimentocomunista mondiale nei diversi settori della amministrazione,della cultura, della scienza e delle arti, attività tutte riconduci-bili alla azione politica intesa come partecipazione alla costru-zione e alla gestione della società degli uomini. Con quellapubblicazione abbiamo inteso offrire un saggio dell’ideologiacomunista applicata all’azione politica concreta nei diversicontesti storici e geografici. L’introduzione della pubblicazio-ne si apriva con la citazione di Marx che definisce il comuni-smo come “movimento reale che abolisce lo stato di cose pre-sente”. Il comunismo, il marxismo-leninismo, precisavamo,non è un’ideologia astratta, ma un pensiero scientifico chepoggia le sue basi sulla conoscenza dello “stato di (delle) cosepresente”, del quale analizza i meccanismi per mutarli e mu-tare tale “stato”. I meccanismi che generano lo “stato di cose”non sono ideologici ma economici. E’ l’economia, o meglio lanatura dei rapporti di dominio economico, che crea la realtàmateriale che esprime poi le sue idee di società. Per trapassareda una società ingiusta, basata sulla forza delle diseguaglianzeindotta dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, a una societàgiusta degli eguali, occorre modificare i rapporti di dominioeconomico, occorre cioè incidere sull’economia. Con questapubblicazione facciamo un “passo indietro” logico, andiamoai fondamenti del pensiero scientifico marxista, all’analisi delcapitalismo che rappresenta ancora oggi, seppure sempre piùmalconcio e agonizzante, lo “stato di cose presente” da abolire.Questa pubblicazione potrà risultare meno accattivante e dipiù difficile lettura per l’apparente necessità di disporre distrumenti di conoscenza tecnici, non è così. L’economia è la“cosa” (la scienza) più semplice e intuitiva del mondo, perchéla pratichiamo tutti nella vita di ogni giorno e tra la “grande”(macro) economia mondiale e la “piccola” (micro) economia fa-miliare corrono solo differenze di dimensioni, le regole sonole stesse, semplici e intuitive. Così introduce Marx il saggio che

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segue: “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e po-polare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concettipiù elementari dell’economia politica. Vogliamo farci compren-dere dagli operai.”. FidateVi delle assicurazioni di Marx e af-frontate con tranquillità la lettura del suo pensiero. Dobbiamofare una precisazione: il saggio non è completo perché Marxne sospese all’epoca la pubblicazione per motivi contingenti;tuttavia l’incompiutezza del saggio nulla toglie alla sua finalitàdi introduzione ai principi dell’analisi economica marxista.Ancora un’avvertenza, non si pensi che lo scritto di Marx sia“datato”, cioè ancorato a un contesto storico oramai superato,il capitalismo ad oltre 100 anni da quello scritto è sempre lostesso; provate a sostituire Inghilterra con USA e vi accorgere-te che Marx avrebbe potuto scriverlo solo ieri. Per dare tuttaviamaggiore attualità all’analisi marxiana abbiamo aggiunto duesaggi scritti nei nostri giorni. Il primo è un estratto (preso libe-ramente da internet, augurandoci che l’autrice non se ne abbiaa male) di un libro dell’economista Loretta Napoleoni intornoalla politica economica cinese. Il modello di governo dell’eco-nomia e dello stato sociale della Cina comunista, afferma l’au-trice, è testimonianza delle ragioni del pensiero scientificomarxista (e aggiungiamo leninista e maoista). L’occidente è inpieno declino, la Cina è in crescita esponenziale; il crollo delMuro di Berlino ha travolto la falsa rappresentazione della de-mocrazia del capitalismo occidentale e liberato l’affermazionedel nuovo sistema economico socialista. Marx ha vinto. LorettaNapoleoni spiega come e perché. Il secondo saggio è statoscritto da Francesca Re David della segreteria della FIOM e ciporta all’attualità italiana dell’insanabile e crescente conflittotra profitto padronale e valore del lavoro, inserito nel contestodella globalizzazione economica occidentale. Concludiamo lapubblicazione con un glossario minimo di alcuni termini uti-lizzati dalla oggi dominante economia monetaria (valutaria) ela descrizioni delle tre principali istituzioni monetarie nazio-nali e internazionali.

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Ora, dopo che i nostri lettori hanno visto svilupparsi la lotta diclasse, nel 1848, in forme politiche colossali, è tempo di pene-trare più a fondo i rapporti economici, sui quali si fondanotanto l’esistenza della borghesia e il suo dominio di classe,quanto la schiavitù degli operai.In tre grandi capitoli esporremo: 1) il rapporto fra il lavoro sa-lariato e il capitale, la schiavitù dell’operaio, il dominio del ca-pitalista; 2) la decadenza inevitabile delle classi medie borghesie del ceto contadino nel sistema attuale; 3) l’asservimento com-merciale e lo sfruttamento delle classi borghesi delle diverse na-zioni europee da parte del despota del mercato mondiale, l’In-ghilterra.Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare,senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti piùelementari dell’economia politica. Vogliamo farci comprende-re dagli operai. Tanto più che la più curiosa ignoranza e con-fusione di concetti riguardo ai rapporti economici più sempliciregnano in Germania, a partire dai difensori patentati dellecondizioni esistenti fino ai socialisti miracolisti e ai genî poli-tici incompresi, di cui la spezzettata Germania è più ricca chedi padri della patria.

IPassiamo dunque alla prima questione: Che cosa è il salario?Come viene esso determinato?Se domandiamo agli operai: “Qual’è l’importo del vostro sala-rio?”, essi risponderanno, l’uno: “Io ricevo un franco al giornodal mio borghese”, l’altro: “Io ricevo due franchi”, ecc. Secondole varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indi-cheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo pa-drone per un determinato tempo di lavoro o per fare un deter-minato lavoro, ad esempio per tessere un braccio di lino, o percomporre un foglio di stampa. Malgrado la diversità delle lororisposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la som-ma di denaro che il borghese paga per un determinato tempodi lavoro o per una determinata prestazione di lavoro. Il bor-ghese compera, dunque, il loro lavoro con del denaro. Per de-naro essi gli vendono il loro lavoro. Con la stessa somma di de-

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naro con la quale il borghese ha comperato il loro lavoro, peresempio con due franchi, avrebbe potuto comperare due lib-bre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi altramerce. I due franchi con i quali egli ha comperato le due libbredi zucchero sono il prezzo delle due libbre di zucchero. I duefranchi con i quali egli ha comperato dodici ore di lavoro, sonoil prezzo del lavoro di dodici ore. Il lavoro, dunque, è una mer-ce, né più né meno che lo zucchero. La prima si misura conl’orologio, la seconda con la bilancia. Gli operai scambiano laloro merce, il lavoro, con la merce del capitalista, il denaro, equesto scambio si effettua secondo un rapporto determinato.Tanto denaro per tanto lavoro. Per tessere dodici ore, due fran-chi. E i due franchi, non rappresentano essi forse tutte le altremerci che posso comperare per due franchi? Di fatto, quindi,l’operaio ha scambiato la sua merce, il lavoro, contro altre mer-ci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dando-gli due franchi il capitalista gli ha dato, in cambio della suagiornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna,di luce, ecc. I due franchi esprimono dunque il rapporto in cuiil lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio del suolavoro. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro,si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che unnome speciale dato al prezzo del lavoro; non è che un nomespeciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è conte-nuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo. Prendiamoun operaio qualsiasi, per esempio un tessitore. Il borghese glifornisce il telaio e il filo. Il tessitore si pone al lavoro e il filo sifa tela. Il borghese s’impadronisce della tela e la vende, ponia-mo, a venti franchi. È il salario del tessitore una parte della te-la, dei venti franchi, del prodotto del proprio lavoro? Niente af-fatto. Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto tempo primache la tela sia venduta, forse molto tempo prima che essa siatessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non con ildenaro che egli ricaverà dalla tela, ma con denaro d’anticipo.Come il telaio e il filo non sono prodotti del tessitore, al qualevengono forniti dal borghese, così non lo sono le merci che egliriceve in cambio della sua merce, il lavoro. È possibile che il

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borghese non trovi nessun compratore per la sua tela. È pos-sibile che dalla vendita di essa egli non ricavi neppure il sala-rio. È possibile che egli la venda in modo molto vantaggioso inconfronto col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare deltessitore. Il capitalista compera con una parte del suo patrimo-nio preesistente, del suo capitale, il lavoro del tessitore, allostesso modo che con un’altra parte del suo patrimonio hacomperato la materia prima, il filo, e lo strumento di lavoro, iltelaio. Dopo aver fatto queste compere — e in queste compereè compreso il lavoro29 necessario per la produzione della tela— egli produce soltanto con materie prime e strumenti di la-voro che gli appartengono. Tra questi ultimi è naturalmentecompreso anche il nostro bravo tessitore, che partecipa al pro-dotto o al prezzo di esso non più di quello che vi partecipi iltelaio!Il salario non è, dunque, una partecipazione dell’operaio allamerce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, giàpreesistente, con la quale il capitalista si compera una determi-nata quantità di lavoro produttivo.Il lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salaria-to, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere. Il lavoro, è pe-rò l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione del-la sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vi-tale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua at-tività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vi-vere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come par-te della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita.Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò an-che il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua atti-vità. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse,non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo cheegli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, eoro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantitàdi mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in unamoneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici oretesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre,le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, tra-

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panare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodiciore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contra-rio. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questaattività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significatodelle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, tra-panare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permettedi andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco daseta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco,sarebbe un perfetto salariato. Il lavoro non è sempre stata unamerce. Il lavoro non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavo-ro libero. Lo schiavo non vendeva il suo lavoro al padrone dischiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera.Lo schiavo, insieme con il suo lavoro, è venduto una volta persempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dallemani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è unamerce, ma il lavoro non è merce sua. Il servo della gleba vendesoltanto una parte del suo lavoro. Non è lui che riceve un sala-rio dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario dellaterra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartie-ne alla terra e porta frutti al signore della terra. L’operaio libe-ro invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al migliore offeren-te, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoroe dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio non ap-partiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 oredella sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera.L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dàin affitto, e il capitalista lo licenzia quando crede, non appenanon ricava più da lui nessun utile o non ricava più l’utile che siprefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita del la-voro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioèla classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esi-stenza. Egli non appartiene a questo o a quel borghese, ma allaborghesia, alla classe borghese; ed è affar suo disporre di sestesso, cioè trovarsi in questa classe borghese un compratore.Prima di esaminare ora più da vicino il rapporto fra capitale elavoro salariato, esporremo brevemente i fattori più generali

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che intervengono nella determinazione del salario. Come ab-biamo visto, il salario è il prezzo di una merce determinata, dellavoro. Il salario è dunque determinato dalle stesse leggi chedeterminano il prezzo di qualsiasi altra merce.Si chiede dunque: come viene determinato il prezzo di unamerce?

IIDa che cosa è determinato il prezzo di una merce?Dalla concorrenza fra compratori e venditori, dal rapporto trala domanda e la disponibilità, tra l’offerta e la richiesta. La con-correnza, da cui viene determinato il prezzo di una merce, hatre aspetti. La stessa merce è offerta da diversi venditori. Coluiche vende merci della stessa qualità più a buon mercato è si-curo di eliminare gli altri venditori e di assicurarsi lo smerciomaggiore. I venditori si disputano dunque reciprocamente lepossibilità di vendita, il mercato. Ognuno di essi vuol vendere,vendere il più possibile, e possibilmente vendere solo, esclu-dendo tutti gli altri venditori. L’uno, quindi, vende più a buonmercato dell’altro. Esiste perciò una concorrenza tra i vendito-ri, che ribassa i prezzi delle merci che essi offrono. Esiste peròanche una concorrenza tra i compratori, che a sua volta fa sa-lire il prezzo delle merci offerte. Esiste, infine, anche una con-correnza tra i compratori e i venditori; gli uni vogliono compe-rare il più che sia possibile a buon mercato, gli altri voglionovendere il più caro possibile. Il risultato di questa concorrenzatra compratori e venditori dipenderà dal modo come si com-portano gli altri due aspetti della concorrenza che abbiamo in-dicato, cioè dal fatto che la concorrenza sia più forte nel cam-po dei compratori o in quello dei venditori. L’industria mettein campo l’un contro l’altro due eserciti, ognuno dei quali so-stiene una lotta nelle proprie file, fra le proprie truppe. L’eser-cito nei cui ranghi hanno luogo gli scontri più lievi, riporta vit-toria sull’avversario. Supponiamo che si trovino sul mercato100 balle di cotone, e in pari tempo dei compratori per 1.000balle. In questo caso la domanda è dunque dieci volte maggio-re della disponibilità. La concorrenza fra i compratori saràdunque molto forte; ognuno di essi vorrà accaparrarsi almeno

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una e possibilmente tutte le 100 balle. Questo esempio non èun’ipotesi arbitraria. Nella storia del commercio abbiamo co-nosciuto periodi di cattivi raccolti di cotone, nei quali alcunicapitalisti, associati fra loro, tentarono di accaparrarsi non 100balle, ma tutta la disponibilità di cotone del mondo. Nel casocitato, dunque, un compratore cercherà di eliminare l’altro of-frendo per le balle di cotone un prezzo relativamente superio-re. I venditori di cotone, i quali vedono che le truppe nemichesi battono accanitamente fra loro, e sono completamente sicu-ri di vendere tutte le loro 100 balle, si guarderanno bene dalprendersi per i capelli per abbassare i prezzi del cotone in unmomento in cui i loro avversari vanno a gara per spingerli inalto. Nell’esercito dei venditori si stabilisce quindi improvvisa-mente la pace. Essi stanno come un sol uomo di fronte ai com-pratori, incrociano filosoficamente le braccia, e le loro richiestenon avrebbero alcun limite se le offerte dei compratori, anchedei più insistenti, non avessero i loro limiti ben determinati.Dunque, se la disponibilità di una merce è inferiore alla do-manda, la concorrenza fra i venditori è minima o nulla. Nellastessa proporzione in cui questa concorrenza diminuisce, au-menta quella fra i compratori. Risultato: aumento più o menonotevole dei prezzi della merce. È noto che il caso contrario,che porta a risultati contrari, si verifica più spesso. Disponibi-lità di merci notevolmente superiore alla domanda: concorren-za disperata fra i venditori; mancanza di compratori: liquida-zione delle merci a prezzi irrisori. Ma che cosa significa au-mento, diminuzione dei prezzi, prezzo alto e prezzo basso?Un granello di sabbia è alto se lo si guarda al microscopio, euna torre è bassa in confronto con una montagna. E se il prez-zo è determinato dal rapporto tra la domanda e la disponibi-lità, da che cosa è determinato a sua volta quest’ultimo rap-porto? Rivolgiamoci a un qualsiasi borghese. Egli non esiteràun momento, e, come un secondo Alessandro il Grande, taglie-rà questo nodo metafisico con l’aiuto della tavola pitagorica.Se la produzione della merce che io vendo mi è costata 100franchi, ci dirà, e dalla vendita di essa ricavo 110 franchi, entrolo spazio di un anno, s’intende, questo è un guadagno civile,

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onesto, legittimo. Ma se ricevo in cambio 120, 130 franchi, ilguadagno è forte; se poi ne ricavo 200 franchi, il guadagno sa-rebbe straordinario, enorme. Che cosa serve dunque al bor-ghese come misura del guadagno? I costi di produzione dellasua merce. Se in cambio di questa merce egli riceve una som-ma di altre merci la cui produzione è costata di meno, ha per-duto. Se in cambio della sua merce egli riceve una somma dialtre merci la cui produzione è costata di più, ha guadagnato.La diminuzione o l’aumento del guadagno egli li misura daigradi che il valore di scambio della sua merce si trova sopra osotto lo zero, cioè sopra o sotto i costi di produzione. Abbiamovisto come il rapporto mutevole tra la domanda e la disponi-bilità provoca ora un ribasso, ora un rialzo dei prezzi, oraprezzi alti, ora prezzi bassi. Se il prezzo di una merce aumentanotevolmente in seguito alla scarsità della disponibilità o adun aumento sproporzionato della domanda, necessariamenteribassa, in proporzione, il prezzo di qualsiasi altra merce; poi-ché in ultima analisi il prezzo di una merce esprime soltantoin denaro il rapporto in cui altre merci vengono date in cambiodi essa. Se per esempio il prezzo di un braccio di tessuto di se-ta aumenta da cinque a sei franchi, il prezzo dell’argento, inrapporto al tessuto di seta, cade, e cadono pure, nei confrontidel tessuto di seta, i prezzi di tutte le altre merci che sono ri-maste ferme al loro prezzo primitivo. Per ricevere la stessaquantità di tessuto di seta bisogna dare in cambio una mag-giore quantità di queste merci. Quali conseguenze avrà l’au-mento del prezzo di una merce? Una massa di capitali si get-terà nel ramo di industria fiorente, e questa immigrazione dicapitali nel campo dell’industria favorita durerà fino a tantoche essa tornerà ai guadagni abituali, o, piuttosto, fino a tantoche il prezzo dei suoi prodotti cadrà, in seguito a sovrappro-duzione, al di sotto dei costi di produzione. Viceversa, se ilprezzo di una merce cade al di sotto dei suoi costi di produ-zione, i capitali si ritrarranno dalla produzione di questa mer-ce. Eccettuato il caso in cui un ramo di industria non è piùadatto al suo tempo, e quindi deve decadere, la produzione ditale merce, cioè la disponibilità di essa, diminuirà, in seguito a

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questa fuga dei capitali, fino a tanto che essa corrisponda alladomanda, fino a tanto, cioè, che il suo prezzo si porti nuova-mente al livello dei suoi costi di produzione, o meglio, fino atanto che la disponibilità sarà caduta al di sotto della doman-da, cioè fino a tanto che il suo prezzo abbia nuovamente supe-rato i suoi costi di produzione, poiché il prezzo corrente dimercato di una merce sta sempre al di sopra o al di sotto deisuoi costi di produzione. Così vediamo come i capitali emigra-no e immigrano costantemente dal campo di un’industria aquello di un’altra. Il prezzo alto provoca una immigrazione ec-cessiva e il prezzo basso una eccessiva emigrazione. Ponendo-ci da un altro punto di vista potremmo mostrare che non sol-tanto la disponibilità, ma anche la domanda è determinata daicosti di produzione; ma questa dimostrazione ci condurrebbetroppo lontano dal nostro argomento. Abbiamo visto testè chele oscillazioni della domanda e della disponibilità riconduconosempre il prezzo di una merce ai costi di produzione. In realtàil prezzo di una merce è sempre al di sopra o al di sotto dei co-sti di produzione; ma il rialzo e il ribasso si integrano a vicen-da, di modo che, entro un determinato limite di tempo, e tenu-to conto degli alti e bassi dell’industria, le merci vengonoscambiate l’una con l’altra a seconda dei loro costi di produ-zione; il loro prezzo, dunque, viene determinato dai loro costidi produzione. Questa determinazione del prezzo sulla basedei costi di produzione non deve essere intesa nel senso in cuila intendono gli economisti. Gli economisti dicono che il prez-zo medio delle merci è uguale ai costi di produzione; che taleè la legge. Il movimento anarchico, per cui il rialzo viene com-pensato dal ribasso e il ribasso dal rialzo, lo considerano comeun fatto occasionale. Con lo stesso diritto, come hanno fattoaltri economisti, si potrebbero considerare le oscillazioni comelegge e la determinazione sulla base dei costi di produzionecome fatto occasionale. Ma solo queste oscillazioni che, consi-derate più da vicino, portano con sé le più terribili devastazio-ni e scuotono la società borghese dalle fondamenta come ter-remoti, solo queste oscillazioni determinano nel loro corso ilprezzo secondo i costi di produzione. Il movimento comples-

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sivo di questo disordine è il suo ordine. Nel corso di questaanarchia industriale, in questo movimento ciclico la concor-renza compensa, per così dire, una stravaganza con l’altra. Noidunque vediamo che il prezzo di una merce è determinato daisuoi costi di produzione, in modo che i periodi in cui il prezzodella merce supera i costi di produzione sono compensati daiperiodi in cui esso scende sotto i costi di produzione e vicever-sa. Naturalmente, ciò non vale per un singolo prodotto indu-striale determinato, ma soltanto per l’intero ramo dell’indu-stria, allo stesso modo che non vale per il singolo industriale,ma soltanto per la classe degli industriali nel suo complesso.La determinazione del prezzo secondo i costi di produzione èuguale alla determinazione del prezzo sulla base della duratadel lavoro che si richiede per la produzione di una merce, poi-ché i costi di produzione consistono: 1) in materie prime estrumenti di lavoro, cioè in prodotti industriali la cui produ-zione è costata una certa quantità di giornate di lavoro, e cherappresentano perciò una certa quantità di giornate di lavoro,e che rappresentano perciò una certa quantità di tempo di la-voro e 2) in lavoro immediato, la cui misura è appunto il tem-po. Le stesse leggi generali che regolano in generale il prezzodelle merci, regolano naturalmente anche il salario, il prezzodel lavoro. Il salario ora aumenterà, ora diminuirà, a secondadel rapporto tra domanda e disponibilità, a seconda del modocome si configura la concorrenza fra i compratori di lavoro, icapitalisti, e i venditori di lavoro, gli operai. Alle oscillazionidei prezzi delle merci in generale corrispondono le oscillazio-ni del salario. Nei limiti di queste oscillazioni, però, il prezzo dellavoro sarà determinato dai costi di produzione, dal tempo dilavoro che si richiede per produrre questa merce, il lavoro.Ma quali sono i costi di produzione del lavoro?Sono i costi necessari per conservare l’operaio come operaio eper formarlo come operaio.Quanto meno tempo si richiede per apprendere un lavoro, tan-to minori sono i costi di produzione dell’operaio, tanto piùbasso è il prezzo del suo lavoro, il suo salario. Nei rami indu-striali dove non si richiede nessun apprendistato e basta la

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semplice esistenza fisica dell’operaio, i costi di produzione ri-chiesti per la sua formazione si riducono quasi esclusivamentealle merci necessarie per mantenerlo in vita. Il prezzo del suolavoro sarà dunque determinato dal prezzo dei mezzi di sussi-stenza necessari. Ma bisogna fare ancora una considerazione.Il fabbricante, che calcola i costi di produzione e, a seconda diessi, il prezzo dei prodotti, tiene conto del logorio degli stru-menti di lavoro. Se una macchina gli costa, per esempio, 1.000franchi e si logora in dieci anni, egli conteggia 100 franchi al-l’anno nel prezzo della merce, per potere, dopo dieci anni, so-stituire la macchina vecchia con una nuova. Allo stesso modo,nei costi di produzione del semplice lavoro46 devono essereconteggiati i costi di riproduzione, per cui la razza degli operaiviene posta in condizione di moltiplicarsi e di sostituire glioperai logorati dal lavoro con nuovi operai. Il logorio dell’ope-raio viene dunque conteggiato allo stesso modo del logoriodella macchina. I costi di produzione del semplice lavoro am-montano quindi ai costi di esistenza e di riproduzione dell’ope-raio. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione co-stituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salariominimo. Questo salario minimo, come, in generale, la determi-nazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione,vale non per il singolo individuo, ma per la specie. Singoli ope-rai, milioni di operai non ricevono abbastanza per vivere e ri-prodursi; ma il salario dell’intera classe operaia, entro i limitidelle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo. Ora che ci sia-mo intesi sulle leggi più generali che regolano il salario, comeregolano il prezzo di ogni altra merce, possiamo passare al-l’esame del nostro argomento più in particolare.

IIIIl capitale consta di materie prime, di strumenti di lavoro e dimezzi di sussistenza d’ogni genere, che vengono impiegati perla produzione di nuove materie prime, di nuovi strumenti dilavoro, di nuovi mezzi di sussistenza. Tutte queste sue particostitutive sono creazioni del lavoro, prodotti del lavoro, lavo-ro accumulato.Il capitale è lavoro accumulato che serve come mezzo per una

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nuova produzione.Così dicono gli economisti. Che cos’è uno schiavo negro? Unuomo di razza nera. Una spiegazione vale l’altra. Un negro èun negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa unoschiavo. Una macchina filatrice di cotone è una macchina perfilare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diven-ta capitale. Sottratta a queste condizioni essa non è capitale,allo stesso modo che l’oro in sé e per sé non è denaro e lo zuc-chero non è il prezzo dello zucchero. Nella produzione gli uo-mini non hanno rapporto soltanto con la natura. Essi produ-cono soltanto in quanto collaborano in un determinato modoe scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre,essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rappor-ti, e il loro rapporto con la natura, la produzione, ha luogo sol-tanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali. Questi rap-porti sociali che legano i produttori gli uni agli altri, le condi-zioni nelle quali essi scambiano le loro attività e partecipanoall’atto complessivo della produzione, sono naturalmente di-versi a seconda del carattere dei mezzi di produzione. Conl’invenzione di un nuovo strumento di guerra, dell’arma dafuoco, tutta l’organizzazione interna dell’esercito necessaria-mente si modificò, si modificarono i rapporti sulla base deiquali i singoli costituiscono un esercito e possono operare co-me esercito, e si modificò pure il rapporto dei diversi esercititra di loro. I rapporti sociali entro i quali gli individui produco-no, i rapporti sociali di produzione, si modificano, dunque, sitrasformano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mez-zi materiali di produzione, delle forze produttive. I rapporti diproduzione costituiscono nel loro assieme ciò che riceve il nomedi rapporti sociali, di società, e precisamente una società a ungrado di sviluppo storico determinato, una società con un ca-rattere particolare che la distingue. La società antica, la societàfeudale, la società borghese sono simili complessi di rapportidi produzione, e ognuno di questi complessi caratterizza, nel-lo stesso tempo, un particolare stadio di sviluppo nella storiadell’umanità. Anche il capitale è un rapporto sociale di produ-zione. Esso è un rapporto borghese di produzione, un rapporto

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di produzione della società borghese. I mezzi di sussistenza, glistrumenti di lavoro, le materie prime di cui il capitale è costi-tuito, non furono essi prodotti e accumulati in determinatecondizioni sociali, in determinati rapporti sociali? Non vengo-no essi impiegati per una nuova produzione in determinatecondizioni sociali, in determinati rapporti sociali? E non è pro-prio questo carattere sociale determinato che fa diventare ca-pitale i prodotti che servono per una nuova produzione? Il ca-pitale non consta soltanto di mezzi di sussistenza, di strumen-ti di lavoro e di materie prime, non consta soltanto di prodottimateriali; esso consta pure di valori di scambio. Tutti i prodot-ti di cui esso consta sono merci. Il capitale non è dunque sol-tanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma dimerci, di valori di scambio, di grandezze sociali. Il capitale ri-mane lo stesso se mettiamo cotone al posto di lana, riso al po-sto di frumento, piroscafi al posto di ferrovie, alla sola condi-zione che il cotone, il riso, i piroscafi — il corpo del capitale —abbiano lo stesso valore di scambio, lo stesso prezzo della la-na, del frumento, delle ferrovie, in cui esso prima era incorpo-rato. Il corpo del capitale può trasformarsi continuamente sen-za che il capitale subisca il minimo cambiamento. Ma se ognicapitale è una somma di merci, cioè di valori di scambio, nonogni somma di merci, di valori di scambio, è capitale. Ognisomma di valori di scambio è un valore di scambio. Ogni sin-golo valore di scambio è una somma di valori di scambio. Peresempio, una casa che vale 1.000 franchi, è un valore di scam-bio di 1.000 franchi. Un pezzo di carta che vale un centesimoè una somma di valori di scambio di 100/100 di centesimo.Prodotti che si possono scambiare con altri prodotti, sonomerci. Il rapporto determinato, secondo il quale esse possonovenir scambiate, costituisce il loro valore di scambio, o, espres-so in denaro, il loro prezzo. La quantità di questi prodotti nonpuò cambiare nulla della loro destinazione di essere merce, odi costituire un valore di scambio, o di avere un prezzo deter-minato. Un albero, sia esso grande o piccolo, resta sempre unalbero. Se scambiamo il ferro in once, o se lo scambiamo inquintali contro altri prodotti, cambia forse il suo carattere di

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essere una merce, un valore di scambio? A seconda della suaquantità, esso è una merce di maggiore o di minor valore, diprezzo più alto o più basso. Come dunque una somma di mer-ci, di valori di scambio, diventa capitale? Per il fatto che essa,come forza sociale indipendente, cioè come forza di una partedella società, si conserva e si accresce attraverso lo scambiocon il lavoro vivente, immediata. L’esistenza di una classe chenon possiede null’altro che la capacità di lavorare, è una pre-messa necessaria del capitale. Soltanto il dominio del lavoroaccumulato, passato, materializzato, sul lavoro immediato, vi-vente, fa del lavoro accumulato capitale. Il capitale non consi-ste nel fatto che il lavoro accumulato serve al lavoro viventecome mezzo per una nuova produzione. Esso consiste nel fat-to che il lavoro vivente serve al lavoro accumulato come mez-zo per conservare e per accrescere il suo valore di scambio.Che cosa avviene nello scambio fra capitale e lavoro salariato?L’operaio riceve in cambio del suo lavoro dei mezzi di sussi-stenza, ma il capitalista, in cambio dei suoi mezzi di sussisten-za, riceve del lavoro, l’attività produttiva dell’operaio, la forzacreatrice con la quale l’operaio non soltanto ricostituisce ciòche consuma, ma conferisce al lavoro accumulato un valoremaggiore di quanto aveva prima. L’operaio riceve dal capitali-sta una parte dei mezzi di sussistenza esistenti. A che gli ser-vono questi mezzi di sussistenza? Al consumo immediato. Manon appena io consumo mezzi di sussistenza essi sono perme irrimediabilmente perduti, nel caso in cui io non utilizzi iltempo durante il quale essi mi tengono in vita per produrrenuovi mezzi di sussistenza, per creare, cioè, con il mio lavoro,durante il consumo, nuovi valori al posto dei valori perduti nelconsumo stesso. Ma è appunto questa nobile forza riprodut-tiva che l’operaio cede al capitale in cambio dei mezzi di sus-sistenza ricevuti. Per se stesso quindi egli l’ha perduta. Pren-diamo un esempio: un fittavolo dà al suo giornaliero cinquegroschen d’argento al giorno. Per questi cinque groschen d’ar-gento il salariato lavora sul campo del fittavolo per tutta lagiornata, assicurandogli in tal modo un’entrata di dieci gro-schen d’argento. Il fittavolo non riceve soltanto, ricostituiti, i

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valori ch’egli ha dato al salariato, ma li raddoppia. Quindi, egliha impiegato, consumato in modo profittevole, produttivo, icinque groschen d’argento ch’egli ha dato al salariato. Per cin-que groschen d’argento egli ha comprato il lavoro e la forzadel salariato i quali rendono prodotti del suolo per un valoredoppio, e di cinque groschen d’argento ne fanno dieci. Il sala-riato, invece, al posto della sua forza produttiva, i cui effettiegli ha ceduto al fittavolo, riceve cinque groschen d’argentoche egli scambia contro mezzi di sussistenza, che consumapiù o meno rapidamente. I cinque groschen d’argento sonostati dunque consumati in due modi: in modo riproduttivo peril capitale, poiché essi sono stati scambiati con una forza-lavo-ro che ha prodotto dieci groschen d’argento; in modo impro-duttivo per l’operaio, poiché essi sono stati scambiati conmezzi di sussistenza, che sono scomparsi per sempre e il cuivalore egli potrà riavere soltanto ripetendo il medesimo scam-bio con il fittavolo.Il capitale presuppone dunque il lavoro salariato, il lavoro sala-riato presuppone il capitale. Essi si condizionano a vicenda; essisi generano a vicenda.Un operaio in un cotonificio produce egli soltanto tessuti dicotone? No, egli produce capitale. Egli produce valori che ser-viranno nuovamente a comandare il suo lavoro, per creare amezzo di essi nuovi valori. Il capitale può accrescersi soltantose si scambia con il lavoro29, soltanto se produce lavoro sala-riato. Il lavoro salariato si può scambiare con capitale soltantoa condizione di accrescere il capitale, di rafforzare il potere dicui è schiavo. Aumento del capitale è quindi aumento del pro-letariato, cioè della classe lavoratrice. L’interesse del capitali-sta e dell’operaio è quindi lo stesso, sostengono i borghesi e iloro economisti. E infatti! L’operaio va in malora se il capitalenon lo occupa. Il capitale va in malora se non sfrutta il lavoro,e per sfruttarlo deve comperarlo. Quanto più rapidamente siaccresce il capitale destinato alla produzione, il capitale pro-duttivo, tanto più fiorente è l’industria; quanto più la borghe-sia si arricchisce, quanto più gli affari vanno bene, tanto più ilcapitalista ha bisogno di operai, tanto più caro si vende l’ope-

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raio. La condizione indispensabile per una situazione soppor-tabile dell’operaio è dunque l’accrescimento più rapido possi-bile del capitale produttivo. Ma che cosa vuol dire accresci-mento del capitale produttivo? Accrescimento del potere dellavoro accumulato sul lavoro vivente. Accrescimento del do-minio della borghesia sulla classe operaia. Quando il lavoro sa-lariato produce la ricchezza estranea che lo domina, il potereche gli è nemico, il capitale, i mezzi di occupazione, cioè i mez-zi di sussistenza, rifluiscono nuovamente verso di lui, a con-dizione ch’esso si trasformi di nuovo in una parte del capitale,in una leva che imprima di nuovo al capitale un accelerato mo-vimento di sviluppo.Dire che gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro sonogli stessi, significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato so-no due termini di uno stesso rapporto. L’uno condiziona l’altro,allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e ildissipatore. Sino a tanto che l’operaio salariato è operaio sala-riato, la sua sorte dipende dal capitale. Questa è la tanto rino-mata comunità di interessi fra operaio e capitalista.

IVSe cresce il capitale, cresce la massa del lavoro salariato, cre-sce il numero dei salariati; in una parola, il dominio del ca-pitale si estende sopra una massa più grande di individui. Esupponiamo pure il caso più favorevole: se cresce il capitaleproduttivo, cresce la domanda di lavoro, e sale perciò il prezzodel lavoro, il salario. Una casa, per quanto sia piccola, fino atanto che le case che la circondano sono ugualmente piccole,soddisfa a tutto ciò che socialmente si esige da una casa. Mase, a fianco della piccola casa, si erge un palazzo, la casetta siridurrà a una capanna. La casetta dimostra ora che il suo pro-prietario non può far valere nessuna pretesa, o solamente pre-tese minime; e per quanto ci si spinga in alto nel corso della ci-viltà, se il palazzo che le sta vicino si eleva in ugual misura eanche più, l’abitante della casa relativamente piccola si troveràsempre più a disagio, sempre più scontento, sempre più op-presso fra le sue quattro mura. Un aumento sensibile del sala-rio presuppone un rapido aumento del capitale produttivo. Il

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rapido aumento del capitale produttivo provoca un aumentougualmente rapido della ricchezza, del lusso, dei bisogni so-ciali e dei godimenti sociali. Benché dunque i godimenti del-l’operaio siano aumentati, la soddisfazione sociale che essiprocurano è diminuita in confronto con gli accresciuti godi-menti del capitalista, che sono inaccessibili all’operaio, in con-fronto con il grado di sviluppo della società in generale. I no-stri bisogni e i nostri godimenti sorgono dalla società; noi limisuriamo quindi sulla base della società, e non li misuriamosulla base dei mezzi materiali per la loro soddisfazione. Poichésono di natura sociale, essi sono di natura relativa. Il salarionon è in generale determinato soltanto dalla massa di merciche posso ottenere in cambio di esso. Esso contiene parecchirapporti. Ciò che gli operai, anzitutto, ricevono in cambio delloro lavoro, è una determinata somma di denaro. È il salariodeterminato soltanto da questo prezzo in denaro? Nel secoloXVI, in seguito alla scoperta dell’America, l’oro e l’argento cir-colanti in Europa aumentarono. Il valore dell’oro e dell’argentocadde quindi, in rapporto alle altre merci. Gli operai continua-rono a ricevere per il loro lavoro la stessa quantità di argentomonetato. Il prezzo in denaro del loro lavoro rimase lo stesso,eppure il loro salario era diminuito, poiché, nello scambio, conla stessa quantità di argento essi ricevevano una quantità mi-nore di altre merci. Questa fu una delle circostanze che favo-rirono l’accrescimento del capitale, lo sviluppo della borghesianel secolo XVI. Prendiamo un altro caso. Nell’inverno del 1847,in seguito a un cattivo raccolto, i generi alimentari di prima ne-cessità, frumento, carne, burro, formaggi, ecc., aumentarononotevolmente di prezzo. Supposto che gli operai avessero con-tinuato a ricevere per il loro lavoro la stessa somma di denaro,il loro salario non sarebbe forse diminuito? Senza dubbio. Perlo stesso denaro essi ricevevano in cambio meno pane, menocarne, ecc. Il loro salario era diminuito, non perché fosse dimi-nuito il valore dell’argento, ma perché era aumentato il valoredei mezzi di sussistenza. Supponiamo infine che il prezzo indenaro del lavoro non muti, mentre tutti i prodotti agricoli eindustriali, in seguito all’introduzione di nuove macchine, ad

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annate più favorevoli, ecc., siano diminuiti di prezzo. Con lostesso denaro gli operai possono ora comperare più merci diogni sorta. Il loro salario è dunque aumentato, appunto perchéil suo valore in denaro non è cambiato. Il prezzo in denaro dellavoro, il salario nominale, non coincide quindi con il salarioreale, cioè con la quantità di merci che vengono realmente datein cambio del salario. Quando parliamo, dunque, di aumentoo diminuzione del salario, non dobbiamo tener presente sol-tanto il prezzo del lavoro in denaro, il salario nominale. Ma néil salario nominale, cioè la somma di denaro per la quale l’ope-raio si vende al capitalista, né il salario reale, cioè la quantitàdi merci ch’egli può comperare con questo denaro, esaurisco-no i rapporti contenuti nel salario. Innanzi tutto il salario è de-terminato anche dal suo rapporto col guadagno, col profittodel capitalista. Questo è il salario proporzionale, relativo. Il sa-lario reale esprime il prezzo del lavoro in rapporto col prezzodelle altre merci, il salario relativo, invece, il prezzo del lavoroimmediato, in rapporto col prezzo del lavoro accumulato, ilvalore relativo di lavoro salariato e capitale, il valore reciprocodi capitalisti e operai. Il salario reale può restare immutato, an-zi può anche aumentare, e ciononostante il salario relativo puòdiminuire. Supponiamo, per esempio, che il prezzo di tutti imezzi di sussistenza sia caduto di due terzi, mentre il salariogiornaliero non è caduto che di un terzo, poniamo da tre a duefranchi. Quantunque l’operaio con questi due franchi dispon-ga di una maggiore quantità di merci, che non prima con tre,il suo salario però è diminuito in rapporto al guadagno del ca-pitalista. Il profitto del capitalista (del fabbricante, per esem-pio) è aumentato di un franco, il che vuol dire che per una mi-nore quantità di valori di scambio ch’egli paga all’operaio,l’operaio deve produrre una quantità di valori di scambio mag-giore di prima. La parte che va al capitale, in rapporto alla par-te che va al lavoro, è cresciuta. La distribuzione della ricchezzasociale fra capitale e lavoro è diventata ancora più disuguale.Il capitalista, con lo stesso capitale, comanda una maggiorequantità di lavoro. Il potere della classe capitalista sulla classeoperaia è aumentato; la posizione sociale del lavoratore è peg-

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giorata, è stata sospinta un gradino più in basso al di sotto diquella del capitalista.Qual è dunque la legge generale che determina l’aumento e ladiminuzione del salario e del profitto nel loro rapporto recipro-co? Essi stanno in rapporto inverso. Il valore di scambio del ca-pitale, il profitto, aumenta nella stessa proporzione in cui dimi-nuisce il valore di scambio del lavoro, il salario giornaliero, e vi-ceversa. Il profitto sale nella misura in cui il salario diminuisce,e diminuisce nella misura in cui il salario sale.Ci si obietterà, forse, che il capitalista può guadagnare per unoscambio vantaggioso dei suoi prodotti con altri capitalisti, perun aumento della domanda della sua merce, sia in seguito al-l’apertura di nuovi mercati, sia in seguito a un aumento mo-mentaneo dei bisogni dei vecchi mercati, ecc.; che il profittodel capitalista, quindi, può aumentare a scapito di terzi capi-talisti, indipendentemente dall’aumento o dalla diminuzionedel salario, del valore di scambio del lavoro; oppure, che il pro-fitto del capitalista può aumentare anche in seguito a un per-fezionamento degli strumenti di lavoro, a un nuovo impiegodi forze naturali, ecc. Innanzi tutto, si ammetterà che il risul-tato resta lo stesso, benché raggiunto per via opposta. Il pro-fitto, infatti, non è aumentato perché il salario è diminuito, mail salario è diminuito perché il profitto è aumentato. Il capita-lista, con la stessa somma di lavoro, ha comperato una mag-giore somma di valori di scambio, senza per questo aver paga-to di più il lavoro; cioè il lavoro viene pagato di meno in rap-porto al beneficio netto che esso procura al capitalista. Ricor-diamo inoltre che, nonostante le oscillazioni dei prezzi dellemerci, il prezzo medio di ogni merce, il rapporto secondo ilquale essa si scambia con altre merci, è determinato dai suoicosti di produzione. Perciò nel seno della classe capitalista iguadagni straordinari si compensano necessariamente. Il per-fezionamento delle macchine, il nuovo impiego di forze natu-rali al servizio della produzione rendono possibile creare in undato tempo di lavoro, con la stessa somma di lavoro e di capi-tale, una maggiore quantità di prodotti, ma non una maggiorequantità di valori di scambio. Se con l’impiego della filatrice

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posso produrre in un’ora il doppio di filato di quanto non neproducessi prima, per esempio cento libbre invece di cinquan-ta, in cambio di queste cento libbre non riceverò più merci diquante ne ricevevo prima per cinquanta, perché i costi di pro-duzione sono caduti della metà, oppure perché con gli stessicosti posso produrre il doppio. Infine, qualunque sia la produ-zione nella quale la classe capitalista, la borghesia, sia essa diun solo paese o dell’intero mercato mondiale, si ripartisce ilbeneficio netto della produzione, la somma totale di questobeneficio netto non è altro, in ogni circostanza, che la sommadi cui il lavoro accumulato è stato accresciuto, grosso modo,dal lavoro vivo. Questa somma totale aumenta dunque nellaproporzione in cui il lavoro accresce il capitale, cioè nella pro-porzione in cui il profitto aumenta rispetto al salario. Noi ve-diamo dunque che, anche se rimaniamo nel quadro dei rappor-ti fra capitale e lavoro salariato, gli interessi del capitale e gli in-teressi del lavoro salariato sono diametralmente opposti. Un ra-pido aumento del capitale significa un rapido aumento delprofitto. Il profitto può aumentare rapidamente soltanto quan-do il valore di scambio del lavoro, quando il salario relativo di-minuisce con la stessa rapidità. Il salario relativo può diminui-re anche se il salario reale sale assieme salario nominale cioèassieme al valore monetario del lavoro, a condizione che essonon salga nella stessa proporzione che il profitto. Se, peresempio, in epoche di buoni affari il salario aumenta del 5 percento mentre il profitto aumenta del 30 per cento, il salarioproporzionale, relativo, non è aumentato, ma diminuito. Sedunque con il rapido aumento del capitale aumentano le en-trate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondiscel’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta ilpotere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal ca-pitale.Dire che l’operaio ha interesse al rapido aumento del capitalesignifica soltanto che, quanto più rapidamente l’operaio accre-sce la ricchezza altrui, tanto più grasse sono le briciole che glisono riservate, tanto più numerosi sono gli operai che possonoessere impiegati e messi al mondo, tanto più può essere aumen-

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tata la massa degli schiavi alle dipendenze del capitale.Abbiamo dunque visto: Anche la situazione più favorevole perla classe operaia, un aumento quanto più possibile rapido delcapitale, per quanto possa migliorare la vita materiale dell’ope-raio non elimina il contrasto fra i suoi interessi e gli interessidel capitalista. Profitto e salario stanno, dopo come prima, inproporzione inversa. Se il capitale aumenta rapidamente, perquanto il salario possa aumentare, il profitto del capitale au-menta in modo sproporzionatamente più rapido. La situazio-ne materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della suasituazione sociale. Infine: Dire che la condizione più favorevo-le per il lavoro salariato è un aumento il più rapido possibiledel capitale produttivo, significa soltanto che, quanto più ra-pidamente la classe operaia accresce e ingrossa la forza che leè nemica, la ricchezza che le è estranea e la domina, tanto piùfavorevoli sono le condizioni in cui le è permesso di lavorarea un nuovo accrescimento della ricchezza borghese, a un au-mento del potere del capitale, contenta di forgiare essa stessale catene dorate con le quali la borghesia la trascina dietro disé.

VL’accrescimento del capitale produttivo e l’aumento del sa-lario sono però davvero così inseparabilmente uniti come pre-tendono gli economisti borghesi? Non dobbiamo creder lorosulla parola. Non dobbiamo nemmeno creder loro che, quantopiù florido è il capitale, tanto meglio viene ingrassato il suoschiavo. La borghesia è troppo intelligente, essa sa fare i contitroppo bene, per condividere i pregiudizi dei signori feudali, iquali si vantavano dello sfarzo della loro servitù. Le condizionidi esistenza della borghesia la costringono a calcolare. Dobbia-mo quindi esaminare più da vicino la questione seguente: Qua-le influenza esercita sul salario l’accrescimento del capitaleproduttivo? Se il capitale produttivo della società borghese siaccresce nel suo insieme, ha luogo una accumulazione di lavo-ro più vasta. I capitalisti crescono di numero, i loro capitali cre-scono di dimensione. L’aumento del numero dei capitali au-menta la concorrenza fra i capitalisti. La crescente dimensione

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dei capitali fornisce i mezzi per portare sul campo di battagliadell’industria eserciti sempre più potenti di operai, con stru-menti di guerra sempre più giganteschi. Un capitalista puòcacciare l’altro dal campo e conquistare il suo capitale sola-mente vendendo più a buon mercato. Per poter vendere più abuon mercato senza rovinarsi, deve produrre più a buon mer-cato, cioè aumentare quanto più è possibile la forza produttivadel lavoro. La forza produttiva del lavoro viene però aumenta-ta, innanzi tutto, con una maggiore divisione del lavoro, conun’introduzione generale e un perfezionamento costante delmacchinario. Quanto più grande è l’esercito degli operai fra iquali il lavoro viene diviso, quanto più gigantesca è la scala incui vengono introdotte le macchine, tanto più diminuisconoproporzionalmente i costi di produzione, tanto più fruttuosodiventa il lavoro. Sorge quindi una gara generale fra i capitalistiper accrescere la divisione del lavoro e il macchinario e persfruttarli sulla scala più grande che sia possibile. Se ora un ca-pitalista, con una più grande divisione del lavoro, con l’impie-go e col perfezionamento di nuove macchine, con uno sfrutta-mento più vantaggioso e più grandioso delle forze naturali, hatrovato il modo di produrre con la stessa quantità di lavoro odi lavoro accumulato una maggiore quantità di prodotti, dimerci, che i suoi concorrenti; se, per esempio, nello stessotempo di lavoro in cui i suoi concorrenti tessono un mezzobraccio di tela, egli può produrne un braccio, come si compor-terà? Egli potrebbe continuare a vendere mezzo braccio di telaal precedente prezzo di mercato; ma questo non sarebbe unmezzo per eliminare i suoi avversari e aumentare il propriosmercio. Ma nella stessa misura in cui si è estesa la sua produ-zione, si è esteso il suo bisogno di smercio. I mezzi di produ-zione più potenti e più costosi ch’egli ha messo in azione glidanno la capacità di vendere le sue merci più a buon mercato,ma lo costringono in pari tempo a vendere più merci, a con-quistare un mercato incomparabilmente più vasto per le suemerci. Il nostro capitalista venderà dunque il mezzo braccio ditela più a buon mercato dei suoi concorrenti. Ma il capitalistanon venderà l’intero braccio di tela allo stesso prezzo a cui i

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suoi concorrenti vendono il mezzo braccio, quantunque laproduzione di un intero braccio a lui non costi più di quantocosti agli altri la produzione di mezzo braccio. Se facesse così,non realizzerebbe dei guadagni straordinari, non farebbe cheriavere in cambio i costi di produzione. La sua eventuale mag-giore entrata dipenderebbe in tal caso soltanto dal fatto cheegli ha messo in movimento un capitale più grande, e non dalfatto di aver valorizzato il suo capitale in misura maggiore de-gli altri. Inoltre, se fissa il prezzo della sua merce soltanto diqualche unità percentuale più in basso dei suoi concorrenti,egli raggiunge lo scopo che vuol raggiungere. Egli li elimina,egli strappa loro almeno una parte del loro smercio, vendendoa un prezzo inferiore. E infine, ricordiamo che il prezzo cor-rente sta sempre al di sopra o al di sotto dei costi di produzio-ne, a seconda che la vendita di una merce cade nella stagionefavorevole o sfavorevole all’industria. A seconda che il prezzodi mercato della tela sta al di sopra o al di sotto dei costi diproduzione che prima le erano abituali, varia la percentualecon cui il capitalista, che ha impiegato mezzi di produzionenuovi e più fruttuosi, vende al di sopra dei suoi costi di produ-zione reali. Ma il privilegio del nostro capitalista non è di lungadurata; altri capitalisti concorrenti introducono le stesse mac-chine, la stessa divisione del lavoro, lo fanno su una stessa sca-la o su una scala più grande, e così questa introduzione diven-ta generale, fino a che il prezzo della tela cade non soltanto aldi sotto dei suoi vecchi costi di produzione, ma al di sotto deinuovi. I capitalisti si trovano dunque, reciprocamente, nellastessa situazione in cui si trovavano prima dell’introduzionedei nuovi mezzi di produzione; e se essi possono, con questimezzi, portare al mercato agli stessi prezzi una quantità dop-pia di prodotti, sono però costretti ora a vendere questo dop-pio prodotto al di sotto del vecchio prezzo. Sulla base di questinuovi costi di produzione ricomincia lo stesso giuoco. Maggio-re divisione del lavoro, più macchinario, una scala più grandesu cui vengono sfruttati la divisione del lavoro e il macchina-rio. E la concorrenza produce nuovamente la stessa reazionea questo risultato. Vediamo dunque che così il modo di produ-

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zione, i mezzi di produzione, sono costantemente sconvolti,rivoluzionati, che la divisione del lavoro porta con sé necessa-riamente una maggiore divisione del lavoro; l’impiego di mac-chine, un maggior impiego di macchine; il lavoro su vasta sca-la, un lavoro su scala ancora più vasta. È questa la legge che dicontinuo getta la produzione borghese fuori del suo vecchiobinario e costringe il capitale a intensificare sempre più le for-ze produttive del lavoro, perché esso le ha intensificate unaprima volta; la legge che non gli concede nessuna tregua e glimormora senza interruzione: Avanti! Avanti! Questa legge nonè altro che la legge la quale, entro i limiti delle oscillazioni deicicli commerciali, riconduce necessariamente il prezzo di unamerce ai suoi costi di produzione. Per quanto potenti siano imezzi di produzione che un capitalista mette in campo, laconcorrenza generalizzerà questi mezzi di produzione, e, apartire dal momento che essa li ha generalizzati, l’unico van-taggio della maggiore produttività del suo capitale è che egliora dovrà fornire al mercato per lo stesso prezzo, dieci, venti,cento volte più merci di prima. Ma poiché egli dovrà forse ven-dere mille volte di più per compensare con una maggiore mas-sa di prodotti venduti il prezzo di vendita più basso; poichéuna vendita molto più larga è ora necessaria non soltanto perguadagnare, ma per reintegrare i costi di produzione, lo stru-mento di produzione stesso diventa, come abbiamo visto,sempre più caro, poiché questa vendita così larga è divenutauna questione di vita o di morte non solo per lui, ma anche peri suoi rivali; per questo la vecchia lotta ricomincia tanto piùaspra, quanto più fruttuosi sono i mezzi di produzione giàscoperti. La divisione del lavoro e l’impiego del macchinarioproseguiranno dunque a svilupparsi sempre più, in misurasempre più grande. Qualunque sia la potenza dei mezzi diproduzione impiegati, la concorrenza cerca di rapire al capita-le i frutti dorati di questa potenza, riconducendo il prezzo del-la merce ai costi di produzione; facendo sì che, nella misura incui si può produrre di più a buon mercato, cioè nella misura incui si può produrre di più con la stessa somma di lavoro, laproduzione più a buon mercato, la fornitura di masse sempre

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maggiori di prodotti per lo stesso prezzo diventi una leggeinesorabile. In tal modo con i suoi sforzi il capitalista nonavrebbe guadagnato nient’altro che l’obbligo di produrre dipiù nello stesso tempo di lavoro, in una parola, nient’altro checondizioni più difficili di valorizzazione del suo capitale. Men-tre la concorrenza lo perseguita senza tregua con la sua leggedei costi di produzione e ogni arma che egli forgia contro isuoi rivali si ritorce contro lui stesso, il capitalista cerca conti-nuamente di superare la concorrenza sostituendo senza tre-gua al vecchio macchinario e alla vecchia divisione del lavoromacchinari nuovi e nuove divisioni del lavoro, più costose, mache producono più a buon mercato, e ciò senza attendere chela concorrenza abbia rese vecchie anche le nuove. Se ci rappre-sentiamo questa agitazione febbrile contemporaneamente sututto il mercato mondiale, comprenderemo come l’aumento,l’accumulazione e la concentrazione del capitale hanno comeconseguenza una divisione del lavoro ininterrotta, che travol-ge se stessa e viene introdotta su una scala sempre più gigan-tesca, un ininterrotto impiego di nuovo macchinario e il perfe-zionamento del vecchio.Ma come agiscono queste circostanze, le quali sono inseparabilidall’aumento del capitale produttivo, sulla determinazione delsalario?La maggiore divisione del lavoro rende capace un operaio difare il lavoro di cinque, di dieci, di venti; essa aumenta quindidi cinque, di dieci, di venti volte la concorrenza fra gli operai.Gli operai si fanno concorrenza non soltanto vedendosi più abuon mercato l’uno dell’altro; essi si fanno concorrenza nellamisura in cui uno fa il lavoro di cinque, di dieci, di venti, e ladivisione del lavoro, introdotta dal capitale e sempre accre-sciuta, costringe gli operai a farsi questo genere di concorren-za. Inoltre, nella stessa misura in cui la divisione del lavoro au-menta, il lavoro si semplifica. L’abilità particolare dell’operaioperde il suo valore. Egli viene trasformato in una forza produt-tiva semplice, monotona, che non deve più far ricorso a nes-suno sforzo fisico e mentale. Il suo lavoro diventa lavoro ac-cessibile a tutti. Perciò da ogni parte si precipitano su di lui dei

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concorrenti; e ricordiamo inoltre che quanto più il lavoro èsemplice, quanto più facilmente lo si impara, quanto minoricosti di produzione occorrono per rendersene padroni, tantopiù in basso cade il salario, perché, come il prezzo di qualsiasialtra merce, esso è determinato dai costi di produzione. Nellamisura, dunque, in cui il lavoro diventa tedioso e privo di sod-disfazioni, nella stessa misura aumenta la concorrenza e dimi-nuisce il salario. L’operaio cerca di conservare la massa del suosalario lavorando di più, sia lavorando più ore, sia producendodi più nella stessa ora. Spinto dal bisogno, egli rende ancorapiù gravi gli effetti malefici della divisione del lavoro. Il risul-tato è il seguente: più egli lavora, meno salario riceve, e ciò perla semplice ragione che nella stessa misura in cui egli fa con-correnza ai suoi compagni di lavoro, egli si fa di questi com-pagni di lavoro altrettanti concorrenti, che si offrono alle stes-se cattive condizioni alle quali egli si offre, perché, in ultimaanalisi, egli fa concorrenza a se stesso, a se stesso in quantomembro della classe operaia. Le macchine portano agli stessirisultati su una scala molto più vasta, perché sostituisconooperai qualificati con operai non qualificati, uomini con donne,adulti con ragazzi, perché le macchine là dove vengono intro-dotte per la prima volta gettano sul lastrico masse enormi dioperai manuali, e dove vengono migliorate e perfezionate, so-stituite ad altre più redditizie, provocano il licenziamento de-gli operai a gruppi più piccoli. Abbiamo già tracciato a granditratti il quadro della guerra industriale fra capitalisti; questaguerra ha come carattere specifico che le battaglie in essa ven-gono vinte meno con l’arruolamento di nuove armate di operaiche con il loro licenziamento. I comandanti, i capitalisti, fannoa gara a chi può licenziare il maggior numero di soldati dell’in-dustria. È vero che gli economisti ci raccontano che gli operairesi superflui dalle macchine trovano lavoro in nuove branchedell’industria. Essi non osano sostenere direttamente che glistessi operai che vengono licenziati trovino un rifugio in nuovirami di lavoro. I fatti gridano troppo forte contro questa men-zogna. Essi si limitano ad affermare che per altre parti costi-tutive della classe operaia, per esempio per quella parte della

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giovane generazione operaia che era già pronta a entrare nelramo dell’industria rovinato, si apriranno nuovi campi di im-piego. Ciò costituisce, evidentemente, una grande soddisfazio-ne per gli operai colpiti. Ai signori capitalisti non mancheran-no carne e sangue freschi da sfruttare; si lascerà che i mortiseppelliscano i loro morti. È questo un conforto che i borghesiconcedono più a se stessi che agli operai. Se tutta la classe deisalariati fosse distrutta dalle macchine, che cosa terribile peril capitale, il quale senza lavoro salariato cessa di essere capi-tale! Ma supponiamo pure che gli operai, che le macchine han-no eliminato dal lavoro direttamente, e tutta quella parte dellanuova generazione, la quale già era in attesa di essere assuntain quel ramo, trovino una nuova occupazione. Credete voi chetale occupazione sarà retribuita come quella che è andata per-duta? Ciò sarebbe in contraddizione con tutte le leggi dell’eco-nomia. Abbiamo visto come l’industria moderna tenda semprea sostituire a un’occupazione complessa, superiore, una occu-pazione più semplice, di ordine inferiore. Come potrebbe dun-que una massa di operai, che le macchine hanno espulso dauna branca dell’industria, trovare rifugio in un’altra, a menoche non sia pagata peggio, con un salario inferiore? Sono staticitati come eccezione gli operai che lavorano alla fabbricazio-ne delle macchine stesse. Non appena nell’industria si richie-dono e consumano più macchine, le macchine devono neces-sariamente aumentare, quindi anche la fabbricazione di mac-chine, quindi anche l’occupazione degli operai che lavorano al-la fabbricazione di macchine; e gli operai occupati in questabranca d’industria sarebbero operai qualificati, anzi operaispecializzati. A partire dal 1840 questa affermazione, già pri-ma vera soltanto per metà, ha perduto ogni parvenza di verità,in quanto per la fabbricazione delle macchine si impiegano inmodo sempre più generale le macchine, né più né meno cheper la fabbricazione del filo di cotone, e gli operai occupati nel-le fabbriche di macchine tengono soltanto più il posto di mac-chine estremamente imperfette di fronte a macchine estrema-mente perfezionate. Ma al posto dell’uomo che la macchina haeliminato, la fabbrica occupa forse ora tre ragazzi e una don-

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na. Il salario dell’uomo non avrebbe dovuto bastare per trebambini e una donna? Il salario minimo non avrebbe dovutobastare per conservare e accrescere la razza? Che cosa provadunque questa affermazione così cara ai borghesi? Essa nonprova altro, se non che ora vengono consumate quattro voltepiù vite operaie di prima, per guadagnare il sostentamento diuna sola famiglia operaia.Riassumendo: quanto più il capitale produttivo cresce, tanto piùsi estendono la divisione del lavoro e l’impiego della macchine.Quanto più la divisione del lavoro e l’impiego della macchine siestendono, tanto più si estende la concorrenza fra gli operai,tanto più si contrae il loro salario.Per di più, la classe operaia si recluta anche fra gli strati più altidella società; in essa va a finire una massa di piccoli industrialie di gente che viveva di una piccola rendita, che non ha nulladi più urgente da fare che il levare le braccia accanto alle brac-cia degli operai. Così la foresta delle braccia tese in alto e im-ploranti lavoro si fa sempre più folta, e le braccia stesse si fan-no sempre più scarne.Il fatto che il piccolo industriale non può sopravvivere a questaguerra, in cui una delle prime condizioni è di produrre su unascala sempre più vasta, cioè di essere appunto un grande enon un piccolo industriale, si comprende da sé. Il fatto che l’in-teresse del capitale diminuisce nella stessa misura in cui lamassa e il numero dei capitali aumentano, nella misura in cuiil capitale cresce, e che perciò colui che vive di una piccola ren-dita non può più vivere della sua rendita e deve buttarsi nel-l’industria, contribuendo con ciò a ingrossare le file dei piccoliindustriali, e quindi dei candidati al proletariato, tutto questonon ha bisogno di essere maggiormente chiarito. Infine, nellamisura in cui i capitalisti sono costretti, dal movimento che ab-biamo descritto, a sfruttare su una scala più grande i mezzi diproduzione giganteschi già esistenti, e a mettere in moto perquesto scopo tutte le leve del credito, nella stessa misura au-mentano i terremoti, in cui il mondo del commercio si mantie-ne soltanto sacrificando agli dèi inferi una parte della ricchez-za, dei prodotti e persino delle forze produttive: in una parola,

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nella stessa misura aumentano le crisi. Esse diventano più fre-quenti e più forti per il solo fatto che, nella misura in cui lamassa della produzione, cioè il bisogno di estesi mercati, di-venta più grande, il mercato mondiale sempre più si contrae,i nuovi mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, poichéogni crisi precedente ha già conquistato al commercio mon-diale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dalcommercio soltanto in modo superficiale. Ma il capitale nonvive soltanto del lavoro. Signore ad un tempo barbaro e gran-dioso, esso trascina con sé nell’abisso i cadaveri dei suoi schia-vi, intere ecatombe di operai che periscono nelle crisi. Noi ve-diamo dunque che, se il capitale cresce rapidamente, cresce inmodo incomparabilmente più rapido la concorrenza fra glioperai, cioè sempre più diminuiscono proporzionalmente i mez-zi di occupazione, i mezzi di sussistenza per la classe operaia ead onta di ciò il rapido aumento del capitale è la condizione piùfavorevole per il lavoro salariato.

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IntroduzioneA vent'anni dalla fine della Guerra fredda, le democrazie occi-dentali faticano ad arginare la prima vera crisi economica dellaglobalizzazione. La Cina comunista, al contrario, non solo necontiene l'impatto, ma sfrutta la contrazione della domandaestera per avviare riforme sociali ed economiche rivoluziona-rie. Tra queste: maggiori garanzie per i lavoratori e un nuovosistema monetario internazionale, possibilmente ancorato allamoneta nazionale. Il nord della bussola della stabilità econo-mica si sta inesorabilmente spostando in Cina grazie a una se-rie di cataclismi economici che ridisegnano l'assetto macroe-conomico del pianeta. L'ultimo, la crisi del credito e la reces-sione, ha catapultato Pechino tra le nazioni più potenti al mon-do. Nessuno oggi può negare che il New Deal cinese sia statol'ancora di salvezza della recessione e abbia evitato che questadegenerasse in una nuova Grande depressione. E molti sonoconvinti che i cambiamenti in atto finiranno per spodestare ilprimato economico statunitense. Le metamorfosi cinesi nonsono però circoscritte all'economia [...] Dalla difesa dei dirittiumani al potenziamento dell'energia rinnovabile, fino al ri-spetto delle regole del World Trade Organization e all'esperi-mento della democrazia partecipativa, questa nazione è impe-gnata nella creazione di un nuovo modello di società. E sebbe-ne per ora la democrazia di stampo occidentale non rientri trai traguardi che si prefigge, è pur vero che da almeno un decen-nio ha preso definitivamente le distanze dal totalitarismopost-bellico e guarda solo al futuro. Possiamo parlare di capi-comunismo? Potrebbe essere proprio questo il modello delVentunesimo secolo. Chi visita città come Shanghai o Pechinoha infatti un'anteprima delle metropoli del domani. Il loro di-namismo è una droga che intossica tutti, specialmente gli stra-nieri. Migliaia di giovani occidentali scelgono di vivere a Shan-ghai perché intuiscono che questa è la piattaforma di lanciodel nuovo mondo, e non solo per via dell'Expo del 2010. Chivive in Cina da tempo ne è cosciente, sa di far parte del labo-ratorio del futuro, una fucina socio-economica, ma anche po-litica, dove si lavora giorno e notte per dar forma alla moder-

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nità. Un'immagine totalmente diversa emanano le metropolioccidentali. Qui ancora non si riesce a uscire dal pantano delpost-moderno. Un senso di decadenza impregna le istituzionisocio-economiche e la macchina politica è arrugginita dal tem-po e dalle intemperie finanziarie. Siamo vecchi, si legge neglisguardi dei pendolari che ogni mattina salgono sui mezzi ditrasporto sempre più pieni e sempre meno efficienti. Siamovecchi, ci dicono i nostri giovani destinati al precariato o alladisoccupazione. Siamo vecchi e la ricchezza futura dell'Europapotrebbe ridursi al patrimonio storico e culturale del continen-te, trasformato nel più grande museo del mondo. Anche l'eco-nomia è vecchia, e persino la nostra democrazia risente del-l'età avanzata. I giovani occidentali che trovano occupazionepercepiscono salari troppo bassi rispetto al costo della vita; lediscriminazioni nei confronti degli immigrati, che svolgono ilavori più umili, sono all'ordine del giorno; ce la prendiamocon loro per gli errori commessi dalla nostra classe politica,un'élite che non rispecchia più la volontà della popolazione elavora esclusivamente per rimanere al potere. E la stampasembra impossibilitata a esercitare quella libertà che è costatatante lotte e tante vite umane. Osservando con attenzione, èevidente che la genesi della senilità dell'Occidente è la stessadel rinascimento socioeconomico cinese: la caduta del Muro diBerlino. Ma allora chi ha vinto la Guerra fredda? La vittoria di Pirro dell'OccidenteTorniamo indietro a quel fatidico anno 1989, segnato da dueeventi in apparenza diametralmente opposti: la repressione dipiazza Tiananmen e la caduta del Muro di Berlino. Entrambidanno il «la» al processo di globalizzazione e influenzano lefuture politiche economiche del pianeta. La sinistra occiden-tale va in frantumi e il neoliberismo si impone come unico mo-dello trionfante. Nell'euforia della vittoria pochi intuiscono chela globalizzazione rappresenta per l'Occidente la fine del pri-mato economico. A vent'anni di distanza è facile considerarlauna vittoria di Pirro, poiché le riforme e i riassestamenti epo-cali prodotti da questi due eventi ridisegnano la mappa geo-politica del pianeta a favore della Cina comunista. Ma vent'an-

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ni fa l'interpretazione ufficiale e le aspettative erano ben diver-se. Ancora oggi l'Occidente vede nella risposta armata di Pe-chino in piazza Tiananmen la repressione violenta della demo-crazia di stampo occidentale e nell'abbattimento del Muro diBerlino il segno del suo trionfo sul mondo comunista. E ritieneconclusa la Guerra fredda con una vittoria netta del sistemademocratico, considera fortunati i sovietici che l'hanno ab-bracciato, e sventurati i cinesi rimasti comunisti. In un certosenso, la Cina finisce così per rimpiazzare nell'immaginariocollettivo occidentale il nemico sovietico: un regime dittatoria-le dove non si rispettano i diritti umani, un Paese ipocrita chefalsa i dati economici e sfrutta biecamente i lavoratori, una na-zione ben lontana dal poter aspirare al ruolo di prima superpotenza del mondo globalizzato. Il tutto, naturalmente, a cau-sa dell'assenza di democrazia, senza la quale non c'è né benes-sere né progresso. Peccato che questo ragionamento poggi sualcune inesattezze, o vere e proprie leggende. In termini diobiettivi economici raggiunti negli ultimi vent'anni, la Cina hagestito il processo di globalizzazione meglio delle democrazieoccidentali. Da quel lontano 1989 le condizioni di vita mediedei cinesi sono migliorate radicalmente, mentre nell'Est euro-peo e nei territori della vecchia Unione Sovietica, dove la de-mocrazia di stampo occidentale ha attecchito, povertà e anal-fabetismo sono tornati alla ribalta. Per non parlare poi dell'Iraqe dell'Afghanistan dove l'esportazione della democrazia conle armi è sfociata nella guerra civile. Chi in quel lontano 1989sarebbe uscito «sconfitto» dalla Guerra fredda oggi si candidaalla guida dell'economia globalizzata. Un paradosso? No. Piut-tosto, un errore di lettura che nasce dalla miopia politica e dal-l'arroganza di un Occidente abituato da sempre a vedere inogni manifestazione di dissenso proveniente dal mondo co-munista, un sistema percepito come antitetico a sé, il deside-rio di replicare il proprio modello di società. Un errore che,vent'anni dopo, bisogna correggere. I significati indiscreti della democraziaA Tiananmen come a Berlino, al grido di «democrazia» la gentenon domandava un regime identico al nostro. Piuttosto chie-

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deva il nostro stesso benessere. Nel 1989 cinesi e abitanti del-l'Est europeo sapevano ben poco della democrazia occidenta-le, di cui possedevano solo una visione romanzata, sicuramen-te falsata dalla propaganda occidentale e da quella comunista.Ciò che desideravano era un netto miglioramento delle condi-zioni economiche che, vista la ricchezza dell'Occidente demo-cratico, confondevano con un cambio di paradigma politico.L'idea che bastasse abbracciare la democrazia per diventarericchi era molto diffusa. «La gente non sogna le elezioni poli-tiche ma la libertà economica» ripeteva spesso nel 1981 il go-vernatore della banca nazionale d'Ungheria quando lavoravoper lui. «Sulla bilancia dei desideri comunisti, la proprietà pri-vata pesa più del diritto di voto.» E in nome di queste conqui-ste il popolo era disposto a tutto. Nei Paesi socialisti non man-cavano tanto le urne quanto la molla del profitto, quella stessache Marx definisce il fulcro dell'intero sistema capitalista e checome tutti sanno funziona bene nei regimi democratici. Manessuno Stato comunista ha capito la forza e l'importanza diquesti bisogni, tranne la Cina. Il Muro di Berlino non è crollatoperché la forma di governo prediletta dall'Occidente ha vintola Guerra fredda, ma perché il cosiddetto socialismo reale nonha compreso la teoria marxista, questa una delle verità scon-certanti emerse negli ultimi vent'anni. L'errore dei sovietici èstato rimuovere il profitto dall'equazione economica, pensan-do che bastasse quell'amputazione per dar vita alla dittaturadel proletariato — l'unica parte dell'analisi marxista che nonpoggia sull'osservazione dei fatti ma su una serie d'ipotesi. Sitratta di un errore d'interpretazione paradossale perché la mi-gliore analisi del profitto capitalista è proprio quella marxista.Chiunque lo abbia studiato a fondo sa bene che Marx non sisarebbe mai sognato di asportare il fulcro del sistema produt-tivo, al contrario il suo obiettivo era far sì che la classe operaiase ne impossessasse e ne godesse in proporzione al propriocontributo, in funzione del plusvalore. La teoria marxista èfondamentalmente una dottrina economica, non una forma digoverno. [...] privato del senso delle proporzioni dall'antagoni-smo della Guerra fredda, il marxismo in Urss è diventato qual-

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cos'altro: un regime totalitario. E questo a sua volta, con unmovimento circolare, è assurto a sinonimo di comunismo. Ilsuo fallimento ha poi ridotto quella fetta di mondo dove eraapplicato a un deserto economico rimuovendo, assieme al pro-fitto, la motivazione alla crescita. Anche se a vent'anni di di-stanza continuiamo a festeggiare la vittoria dell'Ovest liberosull'Est totalitario, la verità è che l'avventura economica sovie-tica si è frantumata da sola. Come vedremo, la retorica ideolo-gica di Reagan e della signora Thatcher, come pure i cardinidel neoliberismo e l'impalcatura democratica che l'Occidenteci ha costruito intorno, non c'entrano proprio nulla con la ca-duta del Muro di Berlino. È stata la propaganda occidentale acostruire quella che ancora oggi è l'opinione prevalente: l'equa-zione che lega la disintegrazione dell'Urss al trionfo della de-mocrazia. Ancora oggi, questa certezza è fonte inestinguibiledi sicurezza politica per tutti noi, ci porta a credere che la «no-stra democrazia» sia superiore al marxismo inteso come sino-nimo del totalitarismo sovietico, ma anche e soprattutto almodello del comunismo cinese. Mentre la Cina è proprio la ri-prova che non è Marx lo sconfitto dalla storia. A differenza deirussi, i cinesi sono riusciti a creare una forma di dittatura delproletariato che funziona, che si evolve. E che garantisce pro-gresso e benessere meglio di altri sistemi, come confermanodati economici sconcertanti quali l'aumento del reddito realemedio pro capite cinese e la crescita del Pil al 9 per cento nel2009, mentre quella delle democrazie occidentali era ancorasotto zero. A questi dati di fatto viene spesso opposta un'obie-zione ideologica: la Cina è una dittatura corrotta in cui non sirispettano i diritti umani. Una critica vecchia, che si riferisce auna nazione diversa da quella attuale e quindi solo in partefondata. Anche sul piano dei diritti umani la Cina ha fatto pas-si da gigante, muovendosi lungo una traiettoria di rispetto del-l'individuo. Siamo ancora lontani dal traguardo, ma nessunopuò negare che i cinesi siano in pista. L'Occidente invece sem-bra muoversi in direzione opposta su un percorso fatto d'ipo-crisia. Siamo gli incorruttibili paladini della giustizia interna-zionale, anche se esportiamo le nostre idee politiche con i B52

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e quotidianamente facciamo affari con il crimine organizzato.Come definire l'intervento armato in Iraq sulla base d'informa-zioni false che ha portato a centinaia di migliaia di morti? Ol'uso della tortura, le extraordinary renditions sancite dall'am-ministrazione Bush e praticate anche dagli inglesi, la prigionedi Guantánamo? Si tratta di istituzioni in netto contrasto conla Dichiarazione dei diritti umani e la Convenzione di Ginevra.Tristemente gli esempi di come anche l'Occidente infranga idiritti umani sono tanti e all'ordine del giorno. E lo stesso valeper la corruzione e la frode che dilagano ovunque, da Madoffa Wall Street, alla Cia in Afghanistan che paga il fratello di Kar-zai per tenere rapporti con i signori della guerra, a Blackstone,la società di mercenari statunitense implicata in una vicendadi corruzione in Iraq. Come vecchi che si aggrappano ai ricordimentre la capacità di gestire il presente si sfilaccia, stiamo an-dando indietro, perdendo per strada valori che ci siamo con-quistati attraverso secoli di lotte sociali. La Cina invece vaavanti e migliora giorno dopo giorno. Ma secondo i nostri pa-rametri non è democratica. Ecco il nocciolo del problema. Eb-bene, questa valutazione della «mancanza di libertà» politicadella popolazione è frutto ancora una volta di un equivococoncettuale. Per i cinesi che nel 1989 occupavano piazza Tia-nanmen, davanti alla gigantografia di Mao, democrazia era si-nonimo di uguaglianza economica, e cioè pari opportunità dicrescita, qualcosa che negli ultimi vent'anni una grossa fettadella popolazione cinese ha ottenuto. A differenza dei compa-gni sovietici, per loro «democrazia» non era una parola nuova,né un concetto politico «d'importazione» come le elezioni.Mao l'aveva pronunciata centinaia di migliaia di volte nei suoidiscorsi, quando spiegava che il governo esiste per promuove-re l'interesse del popolo, contrapponendosi volutamente aquello degli «altri» che invece il popolo l'opprimono — peresempio gli stranieri, presenti in Cina in qualità di colonizza-tori fino alla rivoluzione del 1949. Ora, l'idea che lo Stato «ser-va il popolo» è ancora oggi profondamente radicata nella so-cietà cinese. Possiamo dire lo stesso delle nostre democrazie,scosse quasi quotidianamente da scandali politici? C'è poi un

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altro elemento chiave: l'origine della democrazia per i cinesi èrivoluzionaria, non elettiva. Zhou Youguang, che a 103 anni havissuto una grossa fetta dell'epopea cinese, ricorda che ZhouEnlai sosteneva che il Partito comunista cinese era un partitodemocratico. Nel loro immaginario collettivo non c'è nulla dipiù democratico di una rivoluzione che spodesti chi mal go-verna. E i parametri su cui giudicano la negligenza dei gover-nanti sono quasi tutti economici. Oggi come vent'anni fa, la de-mocrazia rientra nella sfera del Partito, non esiste al di fuoridi esso e sicuramente non in contrapposizione. Nel libro Outof Mao's Shadow, che rivisita i fatti di Tiananmen nel 1989,uno dei partecipanti alle proteste, l'avvocato Pu Ziquiang, cosìdescrive le motivazioni degli studenti: «Volevamo aiutare il go-verno e il Partito a correggere gli errori commessi». Non rove-sciarlo o sostituirlo con un altro sistema politico. Studenti eoperai cinesi in quella piazza chiedevano un'apertura dell'in-tero sistema che offrisse un miglioramento delle condizioni divita. «Democrazia» era solo il nome di questa liberalizzazione,uno strumento per garantire opportunità che spettavano di di-ritto al popolo cinese. Possibile che il significato del crollo delMuro e dei fatti di Tiananmen si sia totalmente perso nella tra-duzione politica da Oriente a Occidente? Niente di più facile.Sovietici e cinesi infatti sapevano poco o nulla della nostra for-ma di governo, ma allo stesso modo noi eravamo del tutto al-l'oscuro del significato che le attribuivano loro. Per noi la de-mocrazia è un animale politico che si nutre di alternanza go-vernativa, e se dovessimo scegliere un termine che la definisca,opteremmo per «suffragio universale». Ebbene, i cinesi sele-zionerebbero «capitalismo». Qui occorre fare un passo indie-tro per ricordare che nella cultura politica occidentale econo-mia e benessere non c'entrano nulla con il sistema di governo.Nata in una società dove l'economia era gestita dagli schiavi,la democrazia ateniese apparteneva agli uomini liberi, che lacostruirono intorno alla libera discussione dei valori politici efilosofici, lontano mille miglia dalle esigenze del commercio edell'agricoltura. E quando queste diventavano impellenti alpunto da giustificare l'aggressione bellica, si ricorreva all'ideo-

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logia - si veda per esempio la colonizzazione della Magna Gre-cia fatta passare come il gesto generoso di Atene che esportanel mondo il suo modello di libertà e giustizia. Una mossa re-torica che utilizziamo ancora oggi. Democrazia e benesseresono così scollegati nel nostro mondo che in un sistema scos-so da crisi rovinose nessuno si sogna non solo di rovesciare laclasse politica, ma persino di ammettere che fa parte del pro-blema. Tutti sanno che le condizioni di vita in Occidente negliultimi vent'anni sono peggiorate, ma invece di rivolgersi ai go-vernanti con richieste di politiche concrete chiediamo loro cheeccellano nell'arte del convincere. Non solo in Europa, ma an-che negli Stati Uniti d'America, patria della democrazia, doveè il libero commercio che ha portato la ricchezza, non il Con-gresso. I Padri fondatori stessi erano profondamente liberisti,parlavano di libertà di mercato e di non ingerenza da partedello Stato. Non a caso in Europa il legame tra benessere e po-litica si fissa indelebilmente nell'immaginario collettivo nel se-condo dopoguerra, quando il continente si ristruttura secondoil modello democratico in concomitanza con il Piano Marshall,che crea il miracolo economico. Ancora una volta sono il liberocommercio e la ristrutturazione a dare vita al benessere, ma lelogiche della Guerra fredda ci portano a credere che sia la de-mocrazia la fonte della crescita economica. È facile perderenella traduzione politica il significato della democrazia ai duepoli opposti del mondo: a Ovest è automaticamente sinonimodi buon governo, anche quando le cose stanno diversamente,mentre a Est il buon governo è quello che crea benessere, sot-toposto di continuo alla prova dei fatti. Coppie felici e infeliciNel villaggio globale la coppia democrazia-benessere è dunqueinfelice. Ecco il più grande limite della forma di governo cheChurchill definiva «la peggiore, a parte tutte le altre sperimen-tate nella storia». E questa massima, che poteva essere veranell'Europa preda di regimi dittatoriali, dilaniata dalla Secondaguerra mondiale e poi dalla Guerra fredda, oggi suona fuoriluogo proprio a causa dell'economia globalizzata e dell'ascesadella Cina. In un sistema in cui l'élite finanziaria decide i desti-

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ni del mondo e si spartisce gran parte della ricchezza prodot-ta, mentre la politica arranca dietro di essa, che senso ha la pa-rola democrazia? La svolta conservatrice dell'Europa, la corru-zione che dilaga e gli scandali che coinvolgono i nostri politicisono dovuti esattamente a questo: all'anacronismo della ver-sione odierna della nostra forma di governo. Negli ultimi ven-t'anni non ha saputo evolversi, ha mantenuto quella distanzadi sicurezza dall'economia, tanto cara agli ateniesi e che Plato-ne critica duramente nella Repubblica. Dalla caduta del Murodi Berlino l'ha fatto utilizzando la teoria neoliberista secondola quale il mercato regola l'economia meglio dei governi. E nondobbiamo meravigliarci se la globalizzazione si è rivelata vin-cente per la Cina, un Paese dove lo Stato ancora oggi guida lemetamorfosi economiche, e perdente per noi occidentali dovela gestione dell'economia è stata invece delegata al mercato,spesso corruttore. L'ultima crisi del capitalismo globale sem-bra dirci che, almeno in questa fase di evoluzione, c'è bisognodi uno Stato ben presente, e l'esperienza cinese dimostra chel'economia funziona meglio se la guida rimane nelle mani dichi rappresenta il più possibile gli interessi del popolo e nondelle élite. La parola «comunista» non è sinonimo di politburoma della presenza dello Stato nell'economia quale garante de-gli interessi della popolazione. Quella che per noi è un'assur-dità, ovvero il binomio capitalismo-comunismo, o capi-comu-nismo, per i cinesi è un dato di fatto. Ed è una coppia felice, be-nedetta da Karl Marx. I leader cinesi hanno letto Il Capitale ecapito che si tratta semplicemente dell'analisi sullo sviluppodel capitalismo. Marx non ha mai scritto di distruggere il siste-ma di produzione per rimpiazzarlo con un altro, non predica-va di bruciare le fabbriche e tornare a un'economia agraria,non ha parlato di protezionismo né della fine del commerciointernazionale, piuttosto ha spiegato la necessità storica di so-stituirne la guida con la dittatura del proletariato per poi arri-vare al capolinea di questa evoluzione: la società senza classi.E questa è la direzione in cui si muovono i cinesi. Nel 1989Deng Xiaoping intuisce le vere motivazioni dietro i fatti di Tia-nanmen, sa bene che la popolazione confonde il capitalismo

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con la democrazia. La sua risposta è quindi l'apertura econo-mica: rende accessibile il profitto al popolo e ne incoraggia laproduzione. «Arricchitevi» è il mantra che riecheggia nella Ci-na ancora scossa dal sangue della repressione. Come vedremo,ai contadini che a stento sopravvivono nelle campagne vengo-no concesse la proprietà dei prodotti e la mobilità; a chi vivenelle campagne si dà la possibilità di diventare lavoratori mi-granti e guadagnare in pochi anni quanto necessario per tor-nare a casa e avviare una propria attività commerciale. Si trattadi dinamiche politiche e sociali rivoluzionarie, avviate già allafine degli anni Settanta, un paio d'anni dopo la morte di Mao,per le quali il 1989 ha rappresentato una battuta d'arresto chesi protrae fino al 1992, quando l'esperimento riparte con suc-cesso e maggior impeto. La storia ci dice che il capitalismo sievolve naturalmente verso la globalizzazione, perché il moto-re della crescita è il progressivo sfruttamento di nuove risorse.Anche la democrazia tende a globalizzarsi. Ma le numerose ca-tastrofi economiche degli ultimi secoli sono lì a ricordarci cheil binomio capitalismo-democrazia non funziona in questa fa-se di espansione, mentre il capi-comunismo potrebbe esseremeglio equipaggiato per sfruttare sia le fasi ascendenti chequelle discendenti dell'economia globalizzata. Dietro la crisidel credito e la recessione c'è dunque una profonda rivoluzio-ne che sta facendo crollare gran parte dei postulati del passa-to, incluso il primato sociale, economico e politico delle demo-crazie occidentali: un rivolgimento epocale che ridefinisce an-che e soprattutto il concetto di modernità.Allora: ha vinto Marx?Quel che è certo è che per comprendere i cambiamenti in attoc'è bisogno di una rilettura della teoria marxista a Pechino. Lavia cinese si rivela infatti una lente potentissima per analizzarela società e il capitalismo occidentale, che potrebbe aiutarci acorreggere gli errori commessi a casa nostra negli ultimi ven-t'anni.

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L’odierna crisi finanziaria ha evidenziato i caratteri del «mo-dello americano»: lo Stato interviene per salvare il capitale,mentre è indifferente ai destini dell’occupazione. L’obietti-vo strategico di Confindustria: liquidare i contratti nazionalie il potere negoziale delle Rsu nei luoghi di lavoro. Bisognarestituire al lavoro il riconoscimento del suo valore e rilan-ciare democrazia, partecipazione politica, rappresentanzasociale. Il terremoto finanziario esploso negli Stati Uniti conripercussioni che dilagano in tutto il mondo chiarisce chioggi comanda sul pianeta determinando modelli sociali,modelli di sviluppo, condizioni materiali degli uomini e del-le donne, conflitti e guerre: domina il capitale finanziario cuiè sottoposta questa globalizzazione fondata sul libero mer-cato delle produzioni e delle merci, sul profitto rapido espregiudicato, sulla continua distruzione come strumentoessenziale di riproduzione della ricchezza monetaria. Il se-gno più concreto di questa globalizzazione è per tutti e intutto il mondo l’incertezza e la precarietà del destino per-sonale e collettivo, che mette in discussione la vita, la so-pravvivenza, i diritti conquistati, le relazioni, i punti di rife-rimento. L’intervento forte e differenziato dello Stato nor-damericano e dei banchieri sul tracollo di imperi finanziarismentisce alla radice il dogma dell’autoregolamentazionedel mercato e parla chiaramente di una selezione precisa dipriorità rispetto a quello che si può o non si può fare e aquali sono gli effetti da scongiurare, che non riguardanocerto i licenziamenti o l’impoverimento di massa. Mettendoinsieme in un’unica classifica il bilancio delle più grandimultinazionali (fra le quali hanno un posto di enorme rile-vanza le imprese di distribuzione e commercializzazione, iservizi privatizzati) e il prodotto interno lordo degli Stati, sivede con chiarezza che la potenza economica privata ha as-sunto una rilevanza assoluta nella distribuzione e nel con-trollo della ricchezza prodotta. E in un’epoca in cui vieneconsiderata indiscutibile la centralità del profitto come vin-colo assoluto che determina le condizioni e il giudizio diforza o debolezza delle nazioni, questo fatto assume un va-

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lore politico fondamentale.Modello americanoBanche, assicurazioni, mutui e prestiti, sono gli strumentiattraverso i quali si veicola la partecipazione del capitale fi-nanziario alla produzione industriale, al mercato mondiale,ai servizi, alle prestazioni dello Stato sociale ormai in granparte privatizzate. Le multinazionali, la quotazione in borsadelle imprese, i fondi di investimento, il risparmio e l’inde-bitamento dei singoli e della collettività ne costituiscono lamassa critica, con una distribuzione dei rischi, dei profitti,e dell’importanza attribuita nella quale è appunto evidentechi comanda. A partire dagli Stati Unti il tracollo delle ban-che e degli istituti finanziari ha bruciato centinaia di miglia-ia di posti di lavoro in quel settore, ha distrutto investimentidi fondi pensionistici e di risparmio, ha messo in crisi leborse di tutto il mondo. Gli effetti sulle imprese in piena fa-se recessiva saranno inevitabili, in termini di investimenti adi riduzione di potere d’acquisto. E il famoso modello ame-ricano, che dopo il crollo dell’Unione Sovietica è diventatounico modello di riferimento, reagisce e sceglie: lo Stato in-terviene con decisione per salvare il capitale, così come simostra indifferente a salvare occupazione quando le impre-se decidono di chiudere o spostare produzioni, ai destinidelle persone che nel mercato globale se la devono cavare.Lo Stato sta da una parte, non svolge alcun ruolo di media-zione fra interessi diversi, come sono quelli rappresentatidal capitale e dal lavoro dipendente, perché riconosce al ca-pitale un primato assoluto. Gli uomini e le donne sono inprimo luogo risparmiatori e consumatori, e in quanto talipresi in considerazione; poi sono anche lavoratori, ma perquesto devono stare alle leggi della concorrenza e sperareo contribuire al buon andamento delle loro imprese; infinesono assistiti e quindi marginali. Lo Stato deve assicurarealle proprie imprese sorrette dalla finanza nuovi mercati,materie prime, basso costo, il minimo di conflitto socialepossibile, spazio vitale alla crescita. E si scatenano guerre esi alimentano odii identitari nei confronti di chi può essere

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ostacolo, che diventano cemento per una sorta di solidarie-tà nazionalistica verso i diversi, utile a oscurare la crescitadell’ingiustizia sociale. Il razzismo sempre più dirompenteè in larga parte scritto e alimentato dentro questo quadrodi riferimento.Centralità del profittoMa gli avvenimenti che stanno attraversando il mondo ci di-cono anche molto altro: dal Centro e Sud America, dallaRussia, dai nuovi colossi economici asiatici, in modo diversosale la ribellione al dominio nordamericano. Dominio asso-lutamente solido, ma non più incontrastato come si preve-deva dopo il crollo del muro di Berlino. Questo in una fasein cui la recessione non colpisce tutti gli Stati allo stessomodo, anzi. Nazioni delle altre Americhe, Cina, India, ingrande crescita, coniugano insieme vecchie e nuove poten-zialità, ricche di materie prime e grandi spazi, con industriee tecnologie in pieno sviluppo; sono paesi emergenti e or-mai emersi dove però permangono tutte le enormi divarica-zioni fra ricchi e poveri, fra grandi masse in lotta per la so-pravvivenza e sviluppo galoppante. Le loro multinazionalie il potere finanziario entrano nelle dinamiche borsistiche ele condizionano, si consolidano fra le grandi potenze indu-striali e tecnologiche mondiali, avendo a disposizione enor-mi possibilità anche nei mercati interni. Vogliono e possonocontare, possono avere strategie convergenti; non si pongo-no l’obiettivo di uscire fuori dall’accumulazione capitalisti-ca illimitata, della quale vogliono invece essere sog- gettiforti. La guerra aperta fra occidente e mondo arabo, princi-pale detentore del petrolio che ancora resta e indisponibilealla colonizzazione culturale e di mercato americana, non èpiù sufficiente per garantire la stabilità del dominio. Il con-flitto Russia-Georgia fa invocare una nuova guerra fredda, ementre nell’indifferenza generale muoiono migliaia di per-sone, facendo leva sull’identità nazionale che da tante partiè stata utilizzata in questi ultimi anni, i russi bloccano alle-anze con gli Stati Uniti alle porte di casa. E l’Europa, strettafra dipendenze energetiche verso la Russia, comportamenti

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opportunistici che ora si svelano portatori di contraddizionicome nel caso della dichiarata indipendenza del Kosovo, su-bordinazione al modello anglosassone, non ha ruolo. L’Eu-ropa insegue gli Stati Uniti nel modello sociale, abbando-nando la sua specificità e arretrando rispetto al suo percor-so, ne dipende in gran parte da un punto di vista economicoe industriale, ricopia e degrada rispetto a una funzione po-litica internazionale, a una capacità di dare il segno nell’eradell’interdipendenza e dei mercati globali, non investe sullapossibilità di costruire un mondo sostenibile per l’umanità.L’Europa che invece potrebbe svolgere un ruolo, per collo-cazione geografica, per storia, per condizioni; e lo dimostrail fatto che il suo cammino verso l’americanizzazione non èlineare: la difesa e l’allargamento dei diritti civili in Spagna,la sinistra che si riorganizza in Germania, la resistenza dif-fusa all’abbattimento dello Stato sociale, l’avversione allaguerra, la crescita delle rivendicazioni di diritti sul lavoroall’est, ne sono esempi importanti. Il modello risultato vin-cente dall’ultimo scorcio del Novecento si fonda sulla cen-tralità del profitto, sulla concorrenza nel mercato, proprionel momento in cui tutto è piegato al mercato, e perciò pre-tende che le scelte dei governi siano tutte inscritte dentroquesto paradigma. La politica cede il passo alla finanza, ipartiti diventano leggeri e non più legati a una base socialedi riferimento perché il riferimento è unico, con qualche va-riante o sensibilità in più o in meno, con rapporti di forzanel mercato globale più o meno adeguati: dare libertà al ca-pitale e mettere le persone nelle condizioni di consumare.Quelle che non sono in grado di farlo, la parte di umanitàche non può neppure indebitarsi, i poveri sul serio, non con-tano niente. La politica intesa come rappresentanza e me-diazione di interessi fra Stati, fra classi sociali, fra soggetti,fra visioni e modelli diversi, ha abdicato in grande misura lasua funzione e si è messa da una parte: quella del modellovincente. Il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori si ètrovato ad affrontare questa trasformazione così violenta inuna condizione di grande debolezza. Nel momento in cui le

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imprese si globalizzavano ha perso una dimensione inter-nazionale e non si è posto allo stesso livello del conflitto chesi apriva; quando le merci materiali e immateriali sono au-mentate immensamente per le tecnologie e l’allargamentodei mercati e con la produzione sono aumentate le personeche lavorano nel mondo, chi produce gli oggetti che attra-verso la loro commercializzazione e il loro uso sono il vei-colo su cui viaggia l’economia finanziaria, è stato oscurato,chiamato residuale e appartenente al passato, spezzato nel-la sua unità dalla concorrenza fra lavoratrici e lavoratoriche accompagna la concorrenza fra imprese. Il movimentooperaio a livello internazionale ha perso il senso di una con-divisione di obiettivi, non ha saputo rintracciare gli ele-men-ti unificanti la condizione di-spersa nei diversi Stati e si è di-feso pezzetto per pezzetto come ha potuto, in assenza diuna forza in grado di travalicare le frontiere e di sentirel’appartenenza con chi è altrove, il comune destino di cre-scita o declino dei diritti. E la concorrenza si è fatta semprepiù vicina: fra lavoratrici e lavoratori di imprese dello stessosettore, di stabilimenti dello stesso gruppo in più paesi onello stesso paese di cui la sopravvivenza si mette all’astadella maggiore produttività, con lavoratori di paesi con me-no diritti e meno salario, con dipendenti delle imprese ter-ziarizzate, fra tutte e tutti attraverso l’instabilità dei rappor-ti di lavoro sottoposti al ricatto delle imprese. Tutti precari,perché l’azienda può chiudere, si può spostare, il tuo con-tratto può non essere confermato. Il lavoro se ridotto a purofattore di costo diventa uno strumento di produzione fra glialtri nelle mani delle imprese, e la contrattazione di diritti esalario viene sostituita con l’adesione agli interessi azienda-li, considerati il bene comune. La sparizione del lavoro, laperdita di memoria delle lotte e delle conquiste collettive,sono essenziali per la svalutazione economica e sociale dellavoro; l’obiettivo è la sconfitta di una forza collettiva in gra-do di strappare spazi di libertà e di potere dentro i luoghidi lavoro per influire sulla propria condizione, a partire dal-la fabbrica o dall’ufficio. Questo insieme all’invasione dei

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tempi della produzione in tutti i momenti della propria vitaattraverso l’instabilità degli orari, e al vuoto della disoccu-pazione come minaccia permanente, necessita di annullarela contrattazione come espressione di un punto di vista col-lettivo, autonomo e solidale del lavoro dipendente. La crisidi rappresentanza che il sindacato sta attraversando certa-mente in tutta Europa, dipende dalla difficoltà di rispondereefficacemente a un attacco così duro e determinato, e la cuiarroganza è anche risultato dell’assenza di politica, delladelega politica all’economia.Le pretese di ConfindustriaIn Italia oggi, con la mancanza in Parlamento di un partitoche riconosca nel lavoro dipendente la propria principalebase sociale, è diventata fortissima la spinta a chiudere conla storia di un sindacato generale e di rappresentanza, por-tatore di un modello sociale fondato su altre priorità. La to-tale identità di interessi del governo e delle imprese conti-nuamente dimostrata dall’intreccio fra interventi legislativie volontà confindustriale vuole chiudere con la resistenzache la Cgil ha prodotto in questi anni rispetto alla totale su-bordinazione del lavoro dipendente alle imprese; vuole an-nullare con interventi autoritari l’opposizione alla liquida-zione dei contratti nazionali e al potere negoziale delle Rsunei luoghi di lavoro che la Fiom ha condotto in questi anni,a partire dall’accordo separato sul Ccnl del 2001. Con un at-to, si vorrebbero cancellare conquiste duramente ottenute,conflitto sociale e mediazioni raggiunte, minando il dirittodell’espressione democratica del dissenso. Si riscriverebbe-ro cosi i rapporti di forza trasformando il sindacato in col-laboratore dell’azienda e erogatore di servizi, diventati uncosto per lo Stato sociale. Lo scontro che Confindustria e go-verno propongono, è conclusivo: il sistema Italia ruota in-torno alla capacità di generare profitto, tutto il resto va pie-gato, riordinato dentro lo schema, e tagliato. Tagli alla scuo-la, perché l’istruzione pubblica è un costo, come il lavoro èun costo, lo stato sociale è un costo. Ognuno è solo e nonesiste un punto di vista alternativo. Per rompere i legami di

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solidarietà vanno messi tutti contro tutti; dipendenti privaticontro i pubblici, pensionati contro i giovani, precari controi precari, e tutti insieme contro gli stranieri, contro chi minala sicurezza e la proprietà privata, cioè sempre gli immigra-ti, chi mette in discussione la morale comune e la famiglia(assolutamente necessaria come sostegno privato in una so-cietà che torna indietro). L’ipotesi di accordo sulla strutturacontrattuale presentata dalla Confindustria a Cgil, Cisl e Uilnon ha ambiguità: sanzioni contro gli scioperi; deroghe ter-ritoriali al contratto nazionale; enti bilaterali sostitutividell’azione negoziale; programmazione per accordo della ri-duzione del salario; interdizione alla contrattazione artico-lata su tutti gli aspetti della condizione di lavoro, sugli orari,sulla riduzione della precarietà; totale variabilità del salarioalla redditività di impresa; controllo da parte delle Confede-razioni che nessuno osi non rispettare i patti. Il contrattonon esiste più. Per reagire a questo modello globale, non sipuò aspettare che imploda, perché è più facile prevedereche si riorganizzi non mutando le priorità. È necessario in-vece cambiare radicalmente le compatibilità su cui misurareil successo o l’insuccesso, la ricchezza o l’impoverimento. Ènecessario sostituire la centralità del profitto con la centra-lità dell’essere umano, lo sviluppo illimitato con il risana-mento e la cura della natura, il consumo crescente con la re-stituzione nel pianeta del diritto alla vita per tutti. È neces-sario ricostruire legami di rispetto e solidarietà, rifletteresul significato dei diritti universali nelle tante differenzemesse a contatto dalla globalizzazione. Bisogna difendereed estendere la forza di un punto di vista autonomo e diparte, lavorare perché su questo si consolidino obiettivi epratiche comuni oltre i confini nazionali; bisogna agire lo-calmente, sul territorio per combattere egoismi e discrimi-nazioni, per affermare l’uguaglianza nel rispetto di tutte ledifferenze; bisogna credere che sia possibile la giustizia so-ciale, che la libertà passa attraverso il potere di contribuireindividualmente e collettivamente a determinare le cose sulproprio luogo di lavoro, di vita, nel mondo. E siccome attra-

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verso il lavoro si trasforma la realtà, le relazioni, la natura,e si crea ricchezza, bisogna restituire al lavoro il riconosci-mento del suo valore. Democrazia, partecipazione politica,rappresentanza sociale sono quello che serve per combat-tere la frantumazione e la solitudine che la centralità imma-teriale del profitto ha provocato sulla condizione materialedegli uomini e delle donne.

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Lo SpreadNella nostra lingua si chiama “scarto” o “margine”. Ma ladiffusione generale del termine inglese non lascia più alcu-no spazio al vocabolo italiano. Ovunque si parla di spread(pronunciato "sprèd") e il suo significato non è da poco! Sitratta del ricarico che ogni banca decide di aggiungere altasso di base quale proprio ricavo. Il principio è classica-mente commerciale. Il commerciante (la banca) compra ilprodotto (il denaro) a un prezzo (tasso di scambio interban-cario) e lo rivende alla sua clientela ricaricato di un marginedi guadagno (spread). Negli scambi tra banche il denaro hauna sua quotazione, che in Europa viene definita Euribor.Quello è il tasso, rilevato giornalmente, a cui la banca puòcomprare o vendere valuta. La collocazione del denaro me-diante un finanziamento al cliente dovrà perciò avvenire adun tasso un po' più alto. Ciò consentirà di compensare lespese di gestione della struttura creditizia, il suo marginedi guadagno e, infine, i rischi dell'operazione. Quest’ultimoaspetto conduce a esaminare il “credit spread” che indivi-dua il differenziale tra il tasso di rendimento di un'obbliga-zione caratterizzata da rischio di default (in lingua italiana:insolvenza), e quello di un titolo a bassissimo rischio presoa riferimento. Ad esempio, se un BTP italiano con una certascadenza ha un rendimento del 7% e il corrispettivo BundTedesco con la stessa scadenza ha un rendimento del 3%, al-lora lo spread sarà di 7 - 3 = 4 punti percentuali ovvero di400 punti base. Il rendimento atteso o richiesto (e alla fineofferto) può infatti salire o scendere in funzione del gradodi fiducia degli investitori/creditori, a sua volta misurabileattraverso eventuali squilibri tra domanda e offerta di titoli:se l'offerta è superiore alla domanda, il rendimento attesoaumenta per tentare di riequilibrare la domanda e viceversa.Come conseguenza, lo spread diventa dunque indiretta-mente e allo stesso tempo: a) una misura del rischio finan-ziario associato all'investimento nei titoli, cioè nel recuperodel credito da parte del creditore, essendo rischio e rendi-mento strettamente legati da relazione di proporzionalità:

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quanto maggiore è lo spread, tanto maggiore è il rischioconnesso all'acquisto di titoli; b) al rovescio, una misura del-l'affidabilità (rating) dell'emittente/debitore (ad esempio loStato) di restituire il credito: maggiore è lo spread, minore ètale affidabilità; c) in ultimo, una misura della capacità del-l'emittente di promuovere a buon fine le proprie attività fi-nanziarie (nel caso dello Stato, di rifinanziare il proprio de-bito pubblico) tramite emissione di nuovi titoli: maggiore èlo spread, minore è questa capacità in virtù dei tassi di inte-resse più elevati dovuti fino a un limite massimo di sosteni-bilità. Nel caso dei titoli di Stato, spread elevatissimi posso-no condurre nel medio-lungo termine alla dichiarazione diinsolvenza (default) dello Stato, oppure a misure drastichedi riduzione della spesa pubblica e/o aumento della tassa-zione sui contribuenti, con effetti, tuttavia, devastanti inquanto una politica del genere provoca necessariamenteuna diminuzione del reddito (dunque della domanda) e de-gli investimenti e quindi, in ultimo, produce ripercussioninegative anche sulla crescita economica.

I fondi sovraniSono dei fondi di investimento controllati da uno Stato ca-paci di agire su scala mondiale. In pratica si tratta di gestoridi risorse dello Stato che investono sul mercato per ottenereprofitti o vantaggi strategici. Oggi ci sono più di 20 fondi so-vrani globali che hanno assunto un ruolo di primo pianonella finanza mondiale. Spesso i fondi sovrani derivano in-direttamente le proprie risorse dai proventi derivanti dallematerie prime del Paese che li controlla (è il caso della mag-gior parte dei fondi sovrani sauditi, di Abi Dhabi, del Kuwaite in genere del Medioriente) o dai ricavi ottenuti dalle espor-tazioni (è il caso dei fondi cinesi e del Sud Est asiatico inparticolare). In genere un fondo sovrano può ottenere leproprie risorse anche da surplus della bilancia dei paga-menti del Paese che lo controlla, da operazioni in valutastraniera, dai proventi di operazioni di privatizzazione, dasurplus fiscali. Queste risorse vengono investite in azioni,

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obbligazioni, in immobili o in altri strumenti finanziari. Apartire dalla fine degli anni ’90 il numero e l’importanza deifondi sovrani sono cresciuti esponenzialmente. La crisi deimutui subprime ha portato inoltre molti di questi bracci fi-nanziari dei mercati emergenti a guadagnare posizioni stra-tegiche in industrie e istituzioni di primo piano dei mercatimaturi come l’Europa e gli Stati Uniti. Tra la fine del 2007 el’inizio del 2008 i fondi sovrani hanno investito circa 45 mi-liardi di dollari nelle banche e nelle industrie americane edeuropee. Nel 2009 il fondo Qatar Investment Authority hainvestito 9,9 miliardi nel 10% di Porsche e altri 4,6 miliardiin un altro 10% di Volkswagen diventando in pratica unazionista di peso in uno dei maggiori gruppi automobilisticidel mondo. L’importanza finanziaria dei fondi sovrani si èperò vista anche nell’acquisizione, per esempio, di una quo-ta da 4,1 miliardi di dollari in Citigroup da parte del fondosovrano del Kuwait KIA e di un’altra quota da 7,5 miliardi didollari da parte dell’Abu Dhabi Investment Authority. Ope-razioni importanti hanno coinvolto Bank of America, MerrillLynch e la britannica Barclays. La finanza globale, almenodall’inizio del 2010, è fortemente condizionata dal compor-tamento di questi fondi in grado, oramai, di determinare lepolitiche economiche mondiali.

La Federal Reserve USA (Fed)Diversamente da quanto si potrebbe pensare la Federal Re-serve (Fed) non è la Banca Centrale degli Stati Uniti d’Ame-rica, ma un sistema associativo delle principali banche pri-vate americane. E’ nata nel 1913 per volere del Congressodegli Stati Uniti al fine di rendere più stabile e sicuro il siste-ma finanziario e monetario della nazione, ma non dipendedal governo centrale, bensì è una specie di “autogoverno”del sistema finanziario privato. Benché il Presidente degliUSA nomini formalmente i sette membri che compongonoil Consiglio di Amministrazione, questi ultimi, una volta de-signati, non possono più essere revocati sino alla scadenzadel mandato e non rispondono più né al Presidente, né al

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Congresso (il Parlamento USA); di fatto non rispondono anessuno, limitandosi a redigere e pubblicare annualmenteuna relazione sul loro operato non soggetta, tuttavia, ad al-cuna approvazione o contestazione. In sostanza il governodella finanza e della moneta USA è autonomo da qualsiasipotere di controllo democratico, eppure è in grado di deter-minare la politica economica degli USA e, attraverso questi,sostanzialmente dell’intero mondo occidentale. La Fedstampa le banconote in totale autonomia, avendo come for-male riferimento un rapporto di valore banconote/oro coni depositi auriferi del Ministero del Tesoro (Fort Knox). E’più che ragionevole pensare che se non è il governo USA acondizionare la Fed, sicuramente è quest’ultima a condizio-nare il primo, emettendo o non emettendo dollari, variandoil saggio di interesse, ecc., così da determinare tanto la po-litica interna che quella estera del “padrone del mondo”.Due “leggende” circolano attorno alla storia della Fed. Laprima è legata al presidente Kennedy che, appartenendo auna diversa potentissima lobby industriale, cercò di limitareil potere della lobby finanziaria della Fed disponendol’emissione di dollari direttamente da parte del governo(stessa tipologia solo con i numeri di serie in rosso inveceche in verde). Si dice che le banconote emesse da Kennedynon siano mai entrate in circolazione e che, forse proprioper questo scontro con la lobby finanziaria, il presidentevenne assassinato. La seconda “leggenda” muove dal fattooggettivo che la Fed stampa dollari senza avere alcuna riser-va aurea e afferma che, in realtà, nel mitico deposito di FortKnox non tutto l’oro è oro: in buona parte i vecchi lingottidi oro pieno sarebbero stati sostituiti da lingotti di tungste-no placcato in oro (il tungsteno ha la particolarità di averelo stesso peso specifico dell’oro e quindi la frode sarebbe ri-conoscibile solo sezionando i lingotti fasulli). In conclusio-ne il potere di regolamento della moneta in USA è totalmen-te in mano a lobby finanziarie private fuori da qualsiasi con-trollo politico (più o meno) democratico. Da noi non è poimolto diverso (vedi Banca d’Italia BCE).

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La Banca d’ItaliaE’ stata fondata nel 1893, quando la capitale d’Italia era an-cora a Firenze, con la fusione obbligatoria delle maggioribanche dell’epoca. Successivamente, nel 1936, venne rico-nosciuta come Istituzione di diritto pubblico con il compitodi vigilanza sulle altre banche private, oltre il potere distampare la moneta. Nonostante innumerevoli tentativi disottoporla al controllo pubblico, la Banca d’Italia ha conti-nuato ad agire sempre al di fuori del controllo dello Stato,comportandosi come istituzione autonoma amministratada un consiglio composto dai rappresentanti delle maggioribanche italiane. Unico componente nominato dal Ministerodel Tesoro è il Governatore al quale, nel tempo, il Parlamen-to ha cercato di attribuire poteri esclusivi in materia di de-finizione del tasso di sconto, senza tuttavia riuscirci. Altrotentativo abortito ha riguardato il riassetto dell’azionariato,peraltro rimasto segreto sino al 2005, con l’obiettivo di tra-sferirlo tutto in mano dello Stato o comunque di Enti Pub-blici. La legge delega del 2005 che disponeva l’emanazionedi un regolamento in tal senso non è stata mai esercitata equindi è decaduta. Nel 2006 il governo Prodi, Presidente del-la Repubblica Napolitano, Ministro dell’Economia PadoaSchioppa, ha modificato l’art. 3 dello Statuto della Bancad’Italia che assicurava la maggioranza del capitale socialeallo Stato e, dunque, dal 2007 la Banca d’Italia è una istitu-zione interamente privata, sottratta al controllo democrati-co. L’attuale composizione delle proprietà azionarie vedeIntesa S. Paolo al 30,3% e Unicredit al 22,1%, complessiva-mente oltre il 50%. Nella storia ben due Governatori di Ban-ca d’Italia sono poi diventati Ministri del Tesoro o Presiden-te del Consiglio dei Ministri (Ciampi il secondo e prima Car-li, tra l’altro, anche presidente di Confindustria). Attualmen-te l’ex Amministratore Delegato della socia di maggioranzarelativa, Banca Intesa, è Ministro del “governo tecnico” (Pas-sera. N.B. il Presidente della Repubblica che lo ha designatoè sempre Napolitano).

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La Banca Centrale Europea (BCE)E’ la Banca centrale incaricata dell'attuazione della politicamonetaria per i diciassette paesi dell'Unione europea chehanno aderito all'euro. E’ stata istituita in base al Trattatosull'Unione europea il 1º giugno 1998. Scopo principale del-la Banca centrale europea è quello di tenere sotto controllol'andamento dei prezzi mantenendo il potere d'acquistonell'area dell'euro. La BCE esercita, infatti, il controllo del-l'inflazione nell' "area dell'euro" badando a contenere, me-diante il controllo della base monetaria o fissando i tassi diinteresse a breve, il tasso di inflazione di medio periodo aun livello inferiore al 2%. L'organizzazione della BCE preve-de un Comitato esecutivo, a cui capo siede il Presidente del-la BCE (il Governatore), il Consiglio dei governatori (dettoanche Consiglio direttivo) costituito dai membri del Comi-tato esecutivo e dai rappresentanti delle altre banche appar-tenenti all'eurosistema. Il Comitato esecutivo comprende ilpresidente e il vicepresidente della BCE e quattro altri mem-bri, scelti tra personalità aventi autorità ed esperienza pro-fessionale in materia monetaria o bancaria, nominati di co-mune accordo dai governi degli Stati membri. Analogamen-te alla Fed USA, anche la BCE è caratterizzata dalla assolutaindipendenza rispetto agli organi democratici comunitari enazionali. La BCE è, infatti, nata come una banca centrale,pensata per operare in maniera indipendente dalla politica.Sebbene i suoi poteri e obiettivi derivino da decisioni politi-che dell'Unione europea e dei paesi membri della stessa, ledecisioni su come tali poteri debbano essere esercitati e sulcome raggiungere gli obiettivi prefissati sono state diretta-mente delegate alla BCE stessa. La BCE, inoltre, non pubblica(né sollecita) alcun commento alle proprie decisioni, né so-no resi pubblici i dettagli relativi alle riunioni degli organidecisionali della banca. In sostanza i cittadini dell'Unioneeuropea possono influenzare le decisioni della BCE solo inmaniera del tutto indiretta, tramite il processo elettorale inciascuno degli Stati membri. Il potere di governare l’infla-zione attraverso lo strumento della determinazione dei tas-

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si di interesse finisce poi necessariamente per porsi in con-flitto e ostacolare politiche espansive, nazionali o comuni-tarie, che puntino al controllo degli altri fattori assai più im-portanti quali la crescita economica e il tasso di disoccupa-zione.

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Supplemento del periodico Piazza del GranoAutorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009

via della Piazza del Grano n. 11 - Folignoe-mail [email protected] presso GPT Srl - Città di Castello

marzo 2012

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Siate tutti degli amministratori. I capitalistisi troveranno accanto a voi, accanto a voi sitroveranno anche i capitalisti stranieri, con-cessionari e appaltatori, essi vi deruberan-no di grosse percentuali di profitto, si arric-chiranno accanto a voi. Si arricchiscano pu-re; ma voi imparerete da loro ad ammini-strare e soltanto allora potrete edificareuna repubblica comunista. O noi diamo unabase economica a tutte le conquiste politi-che del potere sovietico, oppure sarà la finedi tutte queste conquiste.

Lenin