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103 La riflessione sul tema degli open data archeologici è molto avanzata soprat- tutto nei Paesi anglosassoni – basti citare gli archivi Archaeological Data Service dell’Università di York e gli statunitensi tDAR o OpenContext (Kansa 2012; Kansa et al. 2011) – e in alcuni europei, come ben evidenziato dalla lista dei repositories raccomandati dal Journal of Open Archaeologi- cal Data, all’interno della quale è inserito anche il repository italiano MOD (Mappa Open Data ), sebbene nel nostro Paese la riflessione sia ancora allo stadio preliminare. Aprire i dati archeologici italiani: una questione culturale In Italia, negli ultimi tempi, parlare di open data è diventato usuale ma i dati archeologici non circolano liberamente e un’Archeologia 2.0 italiana appa- re ancora una realtà piuttosto lontana. Quando parliamo di dati ci riferia- mo sia ai raw data, ovvero a tutti i dati archeografici che sono alla base delle interpretazioni storico-archeologiche e che vengono prodotti nel corso di un’indagine, vale a dire a quella documentazione che, in molti casi, è tutto ciò che resta di un patrimonio che la stessa pratica archeologica concorre parzialmente a distruggere (Gattiglia 2009), sia ai dati frutto di elaborazio- ni prodotte nel corso di una ricerca. In linea generale, l’attività archeologi- ca si distingue quasi sempre per essere un’attività di ricerca, in quanto pro- duce dati unici e spesso (come nel caso dello scavo) non replicabili se non attraverso la continua possibilità di attingere ai dati grezzi, tramite i quali la comunità scientifica può ripercorre le tappe del processo interpretativo e for- mulare nuove ipotesi e ricostruzioni storiche. Se, infatti, le inferenze inter- pretative sono variabili spesso connesse al know how del singolo ricercato- re, i dati sono invece punti certi, spesso inediti e/o scarsamente riutilizzati in altre ricerche. Credere che i dati abbiano valore solo nel momento in cui vengono inter- pretati dall’autore dell’indagine è riduttivo, poiché non tiene conto della pos- Verso un’archeologia 2.0 Francesca Anichini e Gabriele Gattiglia 09.indd 103 05/05/14 10.57

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La riflessione sul tema degli open data archeologici è molto avanzata soprat-tutto nei Paesi anglosassoni – basti citare gli archivi Archaeological Data Service dell’Università di York e gli statunitensi tDAR o OpenContext (Kansa 2012; Kansa et al. 2011) – e in alcuni europei, come ben evidenziato dalla lista dei repositories raccomandati dal Journal of Open Archaeologi-cal Data, all’interno della quale è inserito anche il repository italiano MOD (Mappa Open Data), sebbene nel nostro Paese la riflessione sia ancora allo stadio preliminare.

Aprire i dati archeologici italiani: una questione culturaleIn Italia, negli ultimi tempi, parlare di open data è diventato usuale ma i dati archeologici non circolano liberamente e un’Archeologia 2.0 italiana appa-re ancora una realtà piuttosto lontana. Quando parliamo di dati ci riferia-mo sia ai raw data, ovvero a tutti i dati archeografici che sono alla base delle interpretazioni storico-archeologiche e che vengono prodotti nel corso di un’indagine, vale a dire a quella documentazione che, in molti casi, è tutto ciò che resta di un patrimonio che la stessa pratica archeologica concorre parzialmente a distruggere (Gattiglia 2009), sia ai dati frutto di elaborazio-ni prodotte nel corso di una ricerca. In linea generale, l’attività archeologi-ca si distingue quasi sempre per essere un’attività di ricerca, in quanto pro-duce dati unici e spesso (come nel caso dello scavo) non replicabili se non attraverso la continua possibilità di attingere ai dati grezzi, tramite i quali la comunità scientifica può ripercorre le tappe del processo interpretativo e for-mulare nuove ipotesi e ricostruzioni storiche. Se, infatti, le inferenze inter-pretative sono variabili spesso connesse al know how del singolo ricercato-re, i dati sono invece punti certi, spesso inediti e/o scarsamente riutilizzati in altre ricerche.

Credere che i dati abbiano valore solo nel momento in cui vengono inter-pretati dall’autore dell’indagine è riduttivo, poiché non tiene conto della pos-

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sibilità di attuare un ciclo ecologico che permetta di riutilizzarli per nuove ricerche (analisi distributive, spaziali ecc.) oppure per creare applicazioni diverse (percorsi turistici tematici, didattica per le scuole ecc.), senza toglie-re valore al lavoro originario, anzi accrescendone il potenziale informativo: si pensi a lavori di sintesi geografica o storica, a ricerche sulla diffusione di determinate classi di manufatti, tecniche e materiali edilizi oppure di ele-menti iconografici e architettonici; si pensi alla possibilità di formulare ipo-tesi di carattere locale lavorando però su basi statistiche attendibili perché prodotte utilizzando basi di dati molto ampie.

Se avere a disposizione una grande quantità di dati viene considerato utile, la decisione di condividerli in maniera aperta è essenzialmente una questio-ne culturale prima che tecnologica. La mancanza di una corretta conoscenza dell’argomento sembra uno degli elementi che concorrono a creare diffiden-za, generando l’errata idea che il dato aperto sia un dato indifeso, alla mercé di qualunque tipo di manipolazione, tanto che circa un quarto degli arche-ologi1 pensa che gli open data non siano tutelati da licenze d’uso. È quindi elevato il timore di essere privati del risultato del proprio lavoro, che si tra-duce nel non rendere noti i dati, se non in forma molto generica e somma-ria, fino al momento della pubblicazione integrale dei risultati della ricer-ca. Di conseguenza per fare open data in Archeologia deve andare avanti, di pari passo, il riconoscimento della paternità intellettuale e dei connessi diritti d’autore di chi ha prodotto i dati, una paternità2 che non vuol dire pro-prietà3 ma corretta attribuzione come avviene per le pubblicazioni a stampa. Gli archeologi, dunque, chiedono un diritto di prelazione sulla pubblicazione integrale dei dati (compreso tra 3 e 5 anni), senza però precludere la possibi-lità di pubblicazione e riuso dei dati grezzi in forma parziale prima dello sca-dere di tale diritto ma hanno una scarsa abitudine a condividere e a utilizzare dati in formato aperto, per una sostanziale mancanza di fiducia sull’affidabi-lità dei dati disponibili in rete4.

1 Tutti i dati presentati fanno riferimento al sondaggio promosso dal Progetto MAPPA su open data e Archeologia (Anichini 2013). Il file .csv, contenente tutte le risposte, è pubblica-to sul sito del progetto MAPPA alla pagina “Pubblicazioni” (http://mappaproject.arch.unipi.it/?page_id=136).2 Recentemente e provocatoriamente definita “maternità” intellettuale (Anichini, Gattiglia 2012: 53).3 Concetto, questo, da superare giacché il dato archeologico non appartiene all’archeologo che lo produce ma alla collettività, diversamente dall’interpretazione che ovviamente appar-tiene a chi ne è l’autore.4 Dati sondaggio MAPPA (cfr. infra).

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Cosa sono gli open data archeologici?Da un punto di vista generale il dato aperto deve essere:– completo ovvero esportabile e utilizzabile online e offline con le specifi-

che adottate;– primario ovvero grezzo, in modo da essere integrabile e aggregabile con

altre risorse digitali;– tempestivo e accessibile: vi si deve accedere in maniera rapida e imme-

diata, senza pagamenti o registrazioni, direttamente via Web;– machine-readable ovvero processabile in automatico da computer;– ricercabile e interamente riutilizzabile e integrabile per creare nuove

risorse, applicazioni, programmi e servizi, anche per scopi commerciali.

Inoltre deve essere rilasciato con licenze che rispecchino le caratteristiche descritte e che al massimo chiedano il riconoscimento della paternità del dato a titolo non oneroso. Infine tutte queste caratteristiche devono essere permanenti (Anichini, Gattiglia 2012: 51).

Dal punto di vista archeologico i dati grezzi sono tutti quelli non riela-borati in fase di post-processamento, compresa la documentazione fotogra-fica. I dati archeologici non sono quindi un set minimo di informazioni5 ma, come ritiene l’80%6 degli archeologi, l’intera documentazione archeografi-ca: elenchi Unità Stratigrafiche (US), schede US, elenchi reperti, schede di quantificazione reperti, tabelle di periodizzazione, diagrammi stratigrafici, elenchi Attività, elenchi Unità Stratigrafiche Murarie (USM), schede USM, schede di archiviazione veloce (SAV), planimetrie, sezioni, rappresentazioni grafiche e fotografie, immagini, registrazioni audio e/o video, dati e/o infor-mazioni organizzati in banca di dati, dati geografici, schede di ricognizio-ne ecc., associati alla letteratura grigia (relazioni preliminari, report, diari di scavo, lettere e comunicazioni e altri testi contrari).

Falsi problemi, veri problemiIl mondo archeologico ravvisa una serie di rischi insiti nell’apertura dei dati: alcuni veri, alcuni presunti. Oltre alla già citata possibilità di scorrettezze tra

5 La comunità archeologica sembra molto esigente e in controtendenza rispetto ai progetti di apertura dati del MiBACT, ritenuti insufficienti per il progredire della disciplina archeologi-ca (Anichini 2013).6 I contrari (20%) non concordano con l’equiparazione del dato archeografico con quello archeologico.

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ricercatori e/o professionisti, si teme che i dati aperti comportino dei rischi per la tutela del patrimonio e diffondano informazioni inattendibili (figura 1) (Anichini 2013).

Fig. 1 - Diverse tipologie dei rischi che si corrono ad aprire i dati secondo il 39% del campione che ha risposto che esistono dei rischi (Anichini 2013)

Per quanto gli archeologi si dicano preoccupati per la salvaguardia dei pro-pri dati e ben il 75% ritenga necessario riconoscere la paternità intellettuale a chi li ha prodotti equiparandoli a una pubblicazione scientificamente ricono-sciuta, essi hanno scarsa conoscenza su come proteggere il proprio lavoro a parte tenerlo a lungo in un cassetto. La maggior parte non conosce l’esistenza e le differenze tra le varie licenze Creative Commons, non ha un’idea chiara di cosa sia un codice DOI (Digital Object Identifier) e di come identifichi in modo univoco e perenne l’autore (o gli autori) del lavoro pubblicato. È quin-di necessario informare gli archeologi su come la rete non sia un luogo privo di tutele, sui diritti che le licenze, una volta applicate, garantiscono agli auto-ri che pubblicano dati aperti sul Web, su come una comunità consapevole diventi essa stessa garante dell’uso dei dati accreditando chi da quell’uso rie-sce a trarre risultati innovativi che arricchiscono la disciplina e screditando chi vuole approfittarne scorrettamente: esattamente come avviene per le pub-blicazioni a stampa.

Alle obiezioni sui rischi per la tutela dei beni archeologici, derivanti dal renderne pubblica la localizzazione, si può rispondere richiamando proprio una delle componenti intrinseche alla filosofia open: l’esteso controllo socia-le che si viene a creare ogni volta che si porta a conoscenza della collettività un dato importante per tutti e che tutti possono concorrere a tutelare, rimar-

Rischio di divulgare informazioni inattendibili

Rischi di scorrettezze tra ricercatori e/o professionisti

Rischi per il riconoscimento della paternità intellettuale dei dati

Rischi per la tutela del patrimonio mobile

Rischi per la tutela del patrimonio sepolto

20%

23%

16%

13%

26%

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cando inoltre il fatto che un secolo di segretezza nella tutela dei beni archeo-logici non ha certo evitato gli scavi clandestini e il commercio criminale dei reperti archeologici.

Sul rischio di inattendibilità dei dati prodotti, sembra che la comuni-tà archeologica diffidi della propria capacità di valutare l’affidabilità di una fonte con la quale non ha ancora dimestichezza. In realtà qualunque dato può essere più o meno affidabile, indipendentemente dalle modalità e dalla rapi-dità di pubblicazione. Solitamente un dato archeologico pubblicato a stam-pa assume un certo grado di affidabilità a seconda della credibilità del suo autore e dell’eventuale processo di peer review a cui è stato sottoposto; con gli open data, invece, la credibilità è determinata dalla possibilità di verifi-carne l’origine, ripercorrendo a ritroso il processo interpretativo. La valida-zione passa, dunque, alla responsabilità di ogni singolo ricercatore rafforzan-do la ricerca e la revisione tra pari in un’ottica aperta e condivisa (open peer review). Questo origina una certa preoccupazione tra gli archeologi, anco-ra poco avvezzi a una discussione aperta sui propri dati (e quindi sul proprio lavoro in termini di metodologia e risultati), e genera una certa ansia da pre-stazione per pubblicare dataset inappuntabili senza tener conto che, come è stato detto, “un dataset perfetto è un dataset sospetto”7.

Sulla difficoltà di apertura dei dati, assieme agli aspetti culturali, esisto-no inoltre delle questioni più profonde e tecniche (comunque superabili) che possono essere suddivise negli aspetti legali, in quelli di formato e nella pre-servazione del dato digitale.

Da un punto di vista legale, le consuetudini applicate risultano discordan-ti dalle norme sul diritto d’autore e sulla privacy, dal codice della proprietà industriale e dal codice dei beni culturali e visioni contrastanti, che probabil-mente scaturiscono dall’assenza di standard, inseriscono nei dati grezzi ele-menti diversi da quella che può essere genericamente considerata la docu-mentazione in campo archeologico. Pertanto, alla luce delle norme sul diritto d’autore (Ciurcuna 2013), per aventi diritto alla paternità intellettuale si devo-no intendere gli estensori della documentazione, indipendentemente da chi ha avuto la direzione scientifica dell’intervento e da chi lo ha finanziato, i quali, in quanto autori, dispongono del diritto d’autore sugli elaborati fatto salvo il caso in cui abbiano ceduto tale diritto. La responsabilità scientifi-ca dell’archeologo che redige la relazione di fine scavo, infatti, è sottolinea-

7 Carlo Citter nel corso di Opening the Past 2013.

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ta nelle “Valutazioni di Interesse Archeologico preventivo” ed esplicitata in generale nel DPR 207/2010 che sancisce il processo creativo proprio dell’in-terpretazione archeologica (Anichini et al. 2013, 145). Si pongono, comun-que, questioni diverse per tipologie di prodotti diversi: per la compilazione delle schede di US, per esempio, rimane dubbio se sussista in ogni caso un diritto d’autore come pure per gli schizzi e le piante di US che si configurano più come schemi e spesso sono successivamente rielaborate da altri sogget-ti come planimetrie composite o vettorializzate. Un capitolo a parte è rappre-sentato dalla pubblicazione delle fotografie e riproduzione di beni culturali. Per quanto l’archeologo possa essere l’autore materiale della riproduzione, ai sensi degli artt. 106 e sgg. del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, egli è tenuto a chiedere al MiBACT – più precisamente alla Soprintendenza competente – l’autorizzazione alla pubblicazione della foto, poiché essa ritrae un bene cul-turale (Ciurcuna 2013).

Per addentrarci nelle questioni tecnologiche partiamo dall’importanza dei formati. Un dato, per essere veramente open, dovrebbe essere disseminato attraverso un formato aperto che consenta all’utente di non utilizzare softwa-re proprietari. Questo è sicuramente un passo difficile. Non essendosi mai posti il problema di condividere i dati, gli archeologi non si sono mai posti il problema di come crearli. Quindi, a parte pochi standard di catalogazione, non esistono neanche standard di formati. In pratica, emerge come l’assen-za di chiare indicazioni ministeriali in merito a standard condivisi di reda-zione della documentazione di un intervento produca elaborati difformi per tipologia e per formati digitali. Per questo motivo oggi troviamo dati pro-dotti in formati diversi e moltissimi dati prodotti in formati testuali, quindi non machine readeble se non tramite trasformazioni o data mining. È que-sta una lunga strada che solo partendo dal basso, cioè dall’apertura dei dati, può giungere a soluzioni condivise passando anche per soluzioni pragmati-che come l’utilizzo di formati di larga diffusione anche se proprietari.

Per garantire un corretto utilizzo, una maggiore funzionalità e una migliore preservazione, i dati devono essere legati a metadati. Diventa quindi essenziale che a ogni intervento/indagine archeologica siano associate tutte le informazioni inerenti l’intervento stesso, la produzione archeografica, la struttura e il formato dei dati digitali secondo uno schema che descriva la storia dell’indagine – argomento quanto mai importante perché permette di decrittare il background metodologico e di conoscenze all’interno del quale si è svolta l’indagine – le fonti utilizzate per la creazione dei dati, il metodo e la struttura dei dati e le relazioni con i dati fisici (Anichini et al. 2013: 143).

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È infine necessario essere consapevoli che condividere dati via Web è attualmente molto economico, mentre creare contenuti di alta qualità e atti-vare strategie di preservazione atte a mantenerli sempre fruibili (ipotetica-mente per un tempo infinito) è un lavoro costoso in termini di progettazione e adeguamento tecnologico delle infrastrutture e dei formati che si sposi con le evoluzioni di sistemi e supporti (Berman 2008).

Pubblicare dati si può! Oggi il MOD8 (MAPPA Archaeological Open Data Archive) si pone come la prima (e unica) esperienza concreta di repository open data per l’Arche-ologia italiana (Anichini et al. 2013), basata su struttura informatica palese-mente ispirata a quella dell’Archaeological Data Service. Il primo obietti-vo del MOD è stato l’avvio di una riflessione – non più procrastinabile – che sensibilizzasse la comunità archeologica ai temi dell’open data (e dell’open access) per farne comprendere le opportunità scientifiche e professionali. Per raggiungere tale obiettivo, è stato scelto deliberatamente di non percorrere la strada del dato aperto perfetto bensì di pubblicare i dati così come erano stati prodotti, indipendentemente dal loro tipo o formato, lasciando ai singo-li autori la libertà di scegliere cosa pubblicare e in che modo, difendendo la paternità intellettuale con l’apposizione di un DOI e la possibilità di scegliere tra due differenti tipologie di licenze Creative Commons (CC-BY e CC-BY SA). In pratica a ogni archeologo è lasciata pertanto la facoltà di decidere come partecipare al processo di trasformazione verso l’Archeologia 2.0. La preferenza è per i dati archeografici, ma ciò non esclude che all’interno degli archivi possano essere presenti anche lavori di sintesi o apparati archeografi-ci che non sono stati pubblicati in un’edizione a stampa (si veda per esempio lo scavo di Castel di Pietra9, già edito ma integrato con la piattaforma GIS e il database delle schede US). L’evoluzione del MOD avverrà con l’implemen-tazione di un sistema di accounting, in cui gli utenti potranno accedere alla piattaforma attraverso parametri riservati ed eseguire direttamente l’upload degli archivi. Questo sviluppo conferirà all’applicazione un approccio mag-giormente partecipativo e, in previsione, condurrà a un’importante accelera-

8 A giugno 2012 il MOD conteneva 13 archivi, un anno dopo 112. Ad agosto 2013 il MOD è entrato nella lista dei repositories raccomadati dal Journal of Open Archaeological Data (http://openarchaeologydata.metajnl.com/about/editorialPolicies#custom-0).9 http://mappaproject.arch.unipi.it/mod/Archive.php?pk=51add5e241d547.66578463.

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zione nella quantità degli archivi archeologici presenti e nell’interesse gene-rale verso il MOD (Anichini et al. 2013).

Ma questi dati open a cosa servono?Gli archeologi non sembrano avere ancora una reale consapevolezza delle potenzialità dei dati aperti. Chi già riutilizza i dati sembra farlo per lo più in modo tradizionale, più nell’accezione open access che open data, con la stessa modalità con la quale si utilizza una qualsiasi altra fonte bibliografica e non sfruttando la riprocessabilità dei dati, che infatti sono utilizzati prin-cipalmente per confronti e per analisi storiche o territoriali. Vengono usate in prevalenza relazioni, posizionamenti topografici, quantificazioni di reper-ti mobili, schedature e documentazione fotografica di reperti mobili. Al netto di una certa mancanza di comprensione del fenomeno, il 57% degli archeo-logi sembrerebbe avere un atteggiamento positivo verso gli open data e con-sidera la creazione di un archivio di dati archeologici aperti vantaggiosa per l’intera comunità archeologica (91%) (figura 2) per facilitare e ampliare la tutela (74%), per agevolare il lavoro dei ricercatori (83%), degli archeologi professionisti (78%), dei funzionari MiBACT (64%), per incentivare una pro-duzione di dati qualitativamente più elevata (61%).

Fig. 2 - Grafico dei risultati del sondaggio effettuato dal Progetto MAPPA sugli open data in Archeolo-gia relativi alla domanda: “Ritieni che per la comunità archeologica italiana e per la cittadinanza tutta sia vantaggioso avere un archivio open di dati archeologici italiani”? (Anichini 2013)

non risponde 5%

NO 4%

Sì 91%

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Gli open data, quindi, servono, ma sono ancora un mondo tutto da scopri-re. Perché ciò avvenga, è necessario che gli archeologi vedano nella condivi-sione aperta delle informazioni il vero volano della conoscenza e dello svi-luppo della ricerca, della tutela, di un nuovo e più ampio concetto di cultura del patrimonio archeologico e di un ritorno possibile in termini economici. La condivisione aperta può portare all’innalzamento degli standard qualita-tivi della produzione archeologica e, grazie alla verifica diretta, la comunità archeologica contribuirà a definire progressivamente i livelli minimi di stan-dard determinando allo stesso tempo la credibilità o meno dei dati.

Avere dati a disposizione migliorerà il lavoro degli archeologi professio-nisti consentendo loro di reperire con facilità i dati necessari all’archeolo-gia preventiva (VIArch). I dati aperti diventeranno uno strumento di tutela – attraverso nuove strategie che facciano sentire il cittadino partecipe della protezione del suo patrimonio storico/archeologico – e non il suo contrario perché l’ampia condivisione, in una comunità proiettata verso l’idea di patri-monio storico archeologico come bene comune, diventa progressivamente garanzia di controllo, di qualità, di conservazione.

Gli open data archeologici possono gettare basi concrete per aprire, anche in Archeologia, la strada del crowdsourcing, sia come modello di busi-ness, laddove può essere adottato come modalità di gestione di servizi, sia (e soprattutto) come nuova mentalità di lavoro nell’attività della pubblica ammi-nistrazione, con particolare riguardo agli ambiti legati alla ricerca.

La condivisione dei dati è una delle poche strade oggi percorribili per far progredire le conoscenze, senza dover sostenere costi proibitivi, ottimizzando – in un’ottica di Archeologia sostenibile – l’utilizzo di quella mole di dati che quotidianamente vengono prodotti e rimangono sottoimpiegati, anche grazie lo sviluppo in direzione dei Linked Open Data verso cui le ultime posizioni assunte dal MiBACT10 fanno sperare si stia andando. Questo circuito virtuo-so permetterà di disporre di una grande massa di dati, proiettando l’Archeo-logia nel campo dei Big Data che si configurano come evoluzione della prati-ca di analisi archeologica, aprendo prospettive inimmaginabili quali l’analisi immediata delle distribuzioni dei reperti e dei flussi commerciali del passato.

Infine gli open data archeologici sono un investimento ad alta redditività: come ha dimostrato una ricerca inglese (Beagrie, Houghton 2013), negli ulti-mi 30 anni ogni sterlina investita in open data ne ha restituite 8,3!

10 Si veda Cultura Italia (http://www.culturaitalia.it/) o la stessa pagina Open Data del Mini-stero (http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/MenuPrincipale/Traspa-renza/Open-Data/index.html).

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È quindi essenziale affrettarsi su questa strada evitando di auto-rallentar-ci nell’attesa di trovare, formalmente, la soluzione perfetta quando sappiamo che la tecnologia e il Web hanno tempi di reazione, aggiornamento, inseri-mento di nuove modalità estremamente veloci.

Bibliografia

Anichini F., “Mappa survey: gli open data nell’Archeologia italiana”, in Anichi-ni F., Dubbini N., Fabiani F., Gattiglia G., Gualandi M.L., MAPPA. Metodolo-gie applicate alla predittività del potenziale archeologico, vol. II: 121-132, doi: 10.4458/0917-08, 2013.

Anichini F., Ciurcina M., Noti V., “Il MOD: l’archivio Open Data dell’Archeolo-gia italiana”, in Anichini F., Dubbini N., Fabiani F., Gattiglia G., Gualandi M.L., MAPPA. Metodologie Applicate alla Predittività del Potenziale Archeologico, vol. II: 133-160, doi: 10.4458/0917-09, 2013.

Anichini F., Gattiglia G., “#MappaOpenData. From Web to society. Archaeologi-cal open data testing”, in Gualandi M.L., MapPapers 2, 2012: 53, doi: 10.4456/MAPPA.2012.05, 2012.

Beagrie N., Houghton J., “The Value And Impact Of The Archaeology Data Ser-vice. A Study And Methods For Enhancing Sustainability”. Final Report, Sep-tember 2013, http://repository.jisc.ac.uk/5509/1/ADSReport_final.pdf.

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Sitografia

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Francesca Anichini vive a Viareggio, è mamma della piccola Agata e da anni lavora come archeologa libera professionista. Si occupa delle problematiche relative all’Archeologia preventiva, alla definizione del potenziale archeologico e alla raccolta e divulgazione del dato archeografico grazie alla vasta esperienza accumulata come progettista e nella direzione di numerose campagne di scavo. Nel 2005 ha sviluppato il primo GIS archeologico urbano su Pisa e dallo stes-so anno è socia dello Studio Associato InArcheo. Dal 2011 fa parte del grup-po di ricerca del Progetto MAPPA (Metodologie Applicate alla Predittività del Potenziale Archeologico) presso l’Università di Pisa. Proprio in seno al Proget-to MAPPA, oltre a ricoprire il ruolo di project manager, ha sviluppato il MOD (MAPPA archaeological Open Data archive) primo archivio aperto italiano di dati archeologici e organizzato i convegni Opening the Past 2012 e 2013 con il ruolo di general chair. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni di carattere sia scien-tifico che divulgativo. Nel tempo libero cuce foulard, dipinge miniature astratte e prepara dolci… tutti molto open.

Gabriele Gattiglia, Ph.D., archeologo, assegnista di ricerca, lavora presso il Laboratorio MAPPA dell’Università di Pisa, collabora con il progetto Open Pom-pei e recentemente ha ottenuto l’idoneità per l’abilitazione scientifica nazionale. Ha seguito un percorso formativo legato alle tematiche della metodologia arche-ologica, dell’Archeologia medievale e postmedievale. Divide il suo lavoro tra atti-vità professionale e ricerca. Negli ultimi anni ha concentrato i suoi interessi sugli open data, con la creazione e lo sviluppo del repository MAPPA Open Data (l’ar-chivio Open Data dell’Archeologia italiana), sui modelli predittivi in Archeologia e sullo studio della Versilia e di Pisa medievale, pubblicando articoli e monografie sull’argomento e assumendo la direzione scientifica dello scavo del castello di Montecastrese. Ha partecipato a numerosi convegni internazionali tra cui CAA, EAA e Digital Heritage. È fermamente convinto che in questa fase storica i pro-fessionisti siano l’avanguardia dell’Archeologia italiana (è membro del comita-to tecnico-scientifico dell’Associazione Nazionale Archeologici) e che i Big Data rappresentino la prossima sfida dell’Archeologia. Vive a Viareggio, ma è fiero della sua genovesità. Divide il suo tempo tra la famiglia, i libri e le sue passio-ni musicali (musica classica, heavy metal e progressive). More info: https://pisa.academia.edu/GabrieleGattiglia

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