verso una psichiatria cognitiva. / toward a cognitive psychiatry

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159 SISTEMI INTELLIGENTI / a. XVI, n. 2, agosto 2004 MASSIMO MARRAFFA CRISTINA MEINI VERSO UNA PSICHIATRIA COGNITIVA Gli ultimi anni hanno visto l’intensificarsi dell’interazione tra scien- za cognitiva e psichiatria. Molti psichiatri, psicologi, neuroscienziati e filosofi della mente hanno collaborato al fine di affrontare i problemi che sorgono dallo studio dei disturbi psichici. In questo quadro si sono create le condizioni di un approccio cognitivo in psichiatria, di una psichiatria cognitiva finalmente in grado di uscire dalle secche ideolo- giche della tradizionale contrapposizione tra concezioni biologiche e psicologiche dell’indagine psichiatrica. Infatti, una volta assunta la scienza cognitiva come quadro di riferimento entro cui situare la modellistica clinica, non si può non riconoscere da un lato la specificità del livello esplicativo della psicologia dell’elaborazione di informazioni, dall’altro lato la necessità di vincolare i modelli cognitivi con i risultati delle neuroscienze. In quest’ottica, la linea di demarcazione tra psichiatria e neuropsicologia cognitiva potrebbe essere messa in discussione. È importante sottolineare il carattere bidirezionale di questa auspicata sintesi tra psichiatria e scienza cognitiva. Da un lato le teorie della natura, del funzionamento e dell’architettura della mente elaborate da- gli scienziati cognitivi dovrebbero costituire il quadro concettuale entro cui costruire i modelli dei disturbi psichici. Dall’altro lato gli studi psicopatologici dovrebbero costituire sia un vincolo di validità ecologi- ca sulla teorizzazione e sperimentazione in scienza cognitiva, sia un banco di prova cruciale per la modellistica cognitiva. Alla definizione e alle prospettive di sviluppo di questo progetto è dedicato il presente fascicolo di «Sistemi Intelligenti». Da parte nostra, cercheremo di fornire un esemplare (in senso kuhniano) di sintesi tra scienza cognitiva e psichiatria. Nella prima parte sosterremo che l’ipo- tesi del carattere modulare dell’architettura della mente costituisce un quadro di riferimento fondamentale per la psichiatria, essendo possibile costruire su di essa una tassonomia dei disturbi psichici alternativa a quella del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (American Psychiatric Association 2000). Più in particolare, vedremo che l’ado- zione di diverse concezioni della modularità si riflette sull’ampiezza e sull’aspetto delle distinzioni nella tassonomia stessa. Forti di questo

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159SISTEMI INTELLIGENTI / a. XVI, n. 2, agosto 2004

MASSIMO MARRAFFA CRISTINA MEINI

VERSO UNA PSICHIATRIA COGNITIVA

Gli ultimi anni hanno visto l’intensificarsi dell’interazione tra scien-za cognitiva e psichiatria. Molti psichiatri, psicologi, neuroscienziati efilosofi della mente hanno collaborato al fine di affrontare i problemiche sorgono dallo studio dei disturbi psichici. In questo quadro si sonocreate le condizioni di un approccio cognitivo in psichiatria, di unapsichiatria cognitiva finalmente in grado di uscire dalle secche ideolo-giche della tradizionale contrapposizione tra concezioni biologiche epsicologiche dell’indagine psichiatrica. Infatti, una volta assunta la scienzacognitiva come quadro di riferimento entro cui situare la modellisticaclinica, non si può non riconoscere da un lato la specificità del livelloesplicativo della psicologia dell’elaborazione di informazioni, dall’altrolato la necessità di vincolare i modelli cognitivi con i risultati delleneuroscienze. In quest’ottica, la linea di demarcazione tra psichiatria eneuropsicologia cognitiva potrebbe essere messa in discussione.

È importante sottolineare il carattere bidirezionale di questa auspicatasintesi tra psichiatria e scienza cognitiva. Da un lato le teorie dellanatura, del funzionamento e dell’architettura della mente elaborate da-gli scienziati cognitivi dovrebbero costituire il quadro concettuale entrocui costruire i modelli dei disturbi psichici. Dall’altro lato gli studipsicopatologici dovrebbero costituire sia un vincolo di validità ecologi-ca sulla teorizzazione e sperimentazione in scienza cognitiva, sia unbanco di prova cruciale per la modellistica cognitiva.

Alla definizione e alle prospettive di sviluppo di questo progetto èdedicato il presente fascicolo di «Sistemi Intelligenti». Da parte nostra,cercheremo di fornire un esemplare (in senso kuhniano) di sintesi trascienza cognitiva e psichiatria. Nella prima parte sosterremo che l’ipo-tesi del carattere modulare dell’architettura della mente costituisce unquadro di riferimento fondamentale per la psichiatria, essendo possibilecostruire su di essa una tassonomia dei disturbi psichici alternativa aquella del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (AmericanPsychiatric Association 2000). Più in particolare, vedremo che l’ado-zione di diverse concezioni della modularità si riflette sull’ampiezza esull’aspetto delle distinzioni nella tassonomia stessa. Forti di questo

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quadro di riferimento, passeremo a esaminare un (probabilmente «il»)caso esemplare di interazione «coevolutiva» fra scienza cognitiva epsichiatria: la costruzione di modelli dell’autismo e della schizofreniain seno alla Theory of Mind. Vedremo allora come situare nell’ambitodella riforma modularista della tassonomia psichiatrica l’interpretazio-ne di disturbi quali autismo e schizofrenia come deficit metarappre-sentazionali. E vedremo anche come questa interpretazione ha datoorigine a un nuovo approccio cognitivo a tali disturbi e, viceversa, lostudio di questi disturbi psichici ha contribuito allo sviluppo di unacomprensione a grana più fine del concetto di metarappresentazione.

1. LA PSICOLOGIA INGENUA

La psicologia ingenua, o psicologia del senso comune, è la capacità,universalmente diffusa in tutti gli esseri umani, di interpretare il com-portamento proprio e altrui in termini di stati mentali. Attribuire a Mariail desiderio di un bicchiere di Brunello di Montalcino, così come preve-derne il comportamento successivo o spiegare perché non è entrata in unfast food, sono tutti esempi di interpretazioni psicologiche ingenue.Accade anche di interpretare se stessi, per esempio quando riteniamo diavere rifiutato l’invito a uscire con gli amici perché sappiamo che lorovogliono pranzare al fast food.

Nell’ambito della scienza cognitiva il vecchio tema filosofico dellapsicologia del senso comune si è energicamente imposto nel 1978,quando i primatologi Premack e Woodruff si chiesero se analoghecapacità fossero in possesso di altri primati, in particolare degli scim-panzé. Negli anni successivi, numerosi psicologi misero a punto diversemetodologie sperimentali per evidenziarne le tappe dello sviluppoontogenetico nei piccoli esseri umani. Emerse così che verso i quattroanni i bambini incominciano a capire che gli stati mentali sono stati cherappresentano il mondo in un modo che può essere fedele ma che,talvolta, si rivela errato. A quattro anni, infatti, essi superano i test dellecredenze false, il più noto dei quali è il Test di Maxi (Wimmer e Perner1983). Il bambino e il pupazzo Maxi si trovano di fronte a due scatoleil cui contenuto non è percepibile. Lo sperimentatore inserisce unatavoletta di cioccolato nella prima scatola. Maxi se ne va, e in suaassenza lo sperimentatore sposta il cioccolato nella seconda scatola.Viene quindi chiesto al bambino dove Maxi, al suo ritorno, cercherà ilcioccolato. Fino all’età di circa quattro anni i bambini non consideranoche, in ragione delle condizioni sperimentali, la credenza di Maxi èerrata, affermando che il pupazzo cercherà il cioccolato nella secondascatola. Solo dopo tale età critica capiscono che il cioccolato saràcercato nella prima scatola.

Nel riferirsi alla psicologia ingenua, molti scienziati cognitivi parla-

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no spesso di capacità metarappresentazionale, per evidenti ragioni. Èuna delle idee centrali della scienza cognitiva (almeno nella sua formaclassica) che gli stati mentali sono stati rappresentazionali. Così, vedereun cane significa intrattenere una rappresentazione mentale avente unacerta forma e un contenuto (il cane), e credere che l’Asia sia lontanasignifica intrattenere una rappresentazione mentale con forma e conte-nuto diversi. Ora, se intrattenere uno stato mentale nei confronti delmondo significa rappresentarsi mentalmente un aspetto del mondo, nelmomento in cui esercito la mia capacità psicologica ingenua e attribui-sco uno stato mentale a qualcuno, mi trovo in uno stato mentale disecondo ordine. Nel pensare che Maria desideri un bicchiere di Brunellodi Montalcino costruisco una matarappresentazione, ovvero una rap-presentazione mentale di secondo ordine che ha come contenuto larappresentazione mentale di primo ordine che Maria intrattiene neldesiderare il vino.

Dal momento che i sistemi cognitivi sono in grado di costruire edelaborare rappresentazioni mentali e quelli capaci di comunicare sonoanche in grado di produrre e interpretare rappresentazioni pubbliche, sipossono distinguere almeno quattro categorie di metarappresentazioni:rappresentazioni mentali di rappresentazioni mentali (ad es. il pensiero«S crede che la birra sia nel frigo»); rappresentazioni mentali di rappre-sentazioni pubbliche (ad es. il pensiero «S ha detto che la birra è nelfrigo»); rappresentazioni pubbliche di rappresentazioni mentali (ad es.il proferimento «S crede che la birra sia nel frigo»); rappresentazionipubbliche di rappresentazioni pubbliche (ad es. il proferimento «S hadetto che la birra è nel frigo»). Pertanto la capacità di costruire edelaborare rappresentazioni mentali di rappresentazioni mentali – deno-miniamola capacità di mentalizzare – è solo una sottocapacità della piùampia capacità metarappresentazionale, che è la capacità di costruire edelaborare rappresentazioni di rappresentazioni, mentali o pubbliche chesiano (Sperber 2000).

La capacità di mentalizzare è oggetto di vari settori della scienzacognitiva, in particolar modo in Metacognition e in Theory of Mind. Ladistinzione tra i due ambiti è contingente: la Metacognizione studiametarappresentazioni legate a processi cognitivi di base (ad es. la me-moria) in una fase avanzata dello sviluppo del bambino (di solito in etàscolare); la Teoria della Mente si occupa di metarappresentazioni nelsenso più fondamentale di atteggiamenti proposizionali. Tuttavia sidovrebbe parlare di un’unica scienza della metarappresentazione men-tale, di cui Metacognizione e Teoria della Mente sono sottosettori. LaTeoria della Mente studia alcune sottofunzioni della capacitàmetarappresentazionale come, ad esempio, la capacità di identificaregli stati mentali e quella di ragionare su di essi; la Metacognizione nestudia altre come la regolazione e il monitoraggio (cfr. Semerari, inquesto numero).

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1.1. La teoria della simulazione

La spiegazione cognitivamente più economica della natura dellacapacità di mentalizzare è offerta dalla teoria della simulazione.

Secondo le teorie della simulazione, la psicologia ingenua è espres-sione della capacità di simulare i comportamenti propri e altrui insituazioni controfattuali. Nell’interpretare il comportamento di Martache fugge di fronte a un serpente immaginiamo di trovarci nella suasituazione e capiamo perché scappa. Analogamente, per capire il com-portamento di Romeo immaginiamo di trovarci nella sua situazione e divedere Giulietta apparentemente morta. In tutto ciò, si tratta di prendereuna decisione sul comportamento da attuare. Sebbene con importantieccezioni, le teorie della simulazione sono naturalmente portate adattribuire una priorità al ragionamento psicologico ingenuo alla primapersona. Per interpretare gli altri, infatti, ne simuliamo il comportamen-to e vediamo cosa succede dentro di noi, per trasferire il risultato allapersona la cui condotta stiamo cercando di capire.

Come efficacemente sottolineato da Stich e Nichols (1995), secon-do la prospettiva simulazionistica nell’esercitare la psicologia ingenuautilizziamo in modalità off line il sistema di pianificazione delle azioni(o sistema esecutivo), localizzato nei lobi frontali del cervello umano.Nella sua forma più diretta di funzionamento, che qui chiameremo online, questo meccanismo cognitivo ci permette di determinare la se-quenza di azioni volte a realizzare efficacemente un comportamentocomplesso e non completamente automatizzato. Come programmare lasequenza di azioni al mattino, se ci si accorge che nella dispensa non c’èpiù caffè? In casi come questi, una serie di comportamenti automatici varivista alla luce di una nuova realtà. Nell’interpretazione di un compor-tamento in termini psicologici, tuttavia, tale sistema utilizza input eproduce output particolari. Infatti, in tali contesti l’input tipicamentenon è la situazione percettiva reale, ma quella immaginata: non è fre-quente trovarsi esattamente nel punto di vista di chi stiamo interpretan-do, e in tali casi dobbiamo immaginare ciò che egli sta vedendo opercependo in altra modalità. Per quanto concerne l’output del sistemadi pianificazione, nell’ambito dell’esercizio della psicologia ingenuanon si tratta di realizzare concretamente un comportamento, quantopiuttosto di predirlo o spiegarlo. Sono dunque due i momenti in cui ilsistema di simulazione lavora off line. Essendo utile, come vedremo inseguito, operare una distinzione, chiamiamoli off line in input e off linein output.

Appare chiaro in che senso la teoria della simulazione costituisca laspiegazione più economica della psicologia ingenua. Essa fonda infattitale capacità su un meccanismo cognitivo per così dire «gratuito»,richiesto, e verosimilmente evolutosi, per svolgere qualcosa di piùbasilare come la pianificazione di un comportamento. L’unica innova-

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zione introdotta riguarda l’uso off line del sistema, mentre non è richie-sta una conoscenza specifica relativa al dominio psicologico.

1.2. La teoria della teoria modularistica

Secondo altri autori l’elemento cruciale per la capacità di mentalizzarenon sarebbe la simulazione del comportamento, bensì il possesso di unateoria innata della mente. Alan Leslie (1987; 1994; 2000), ad esempio,ipotizza l’esistenza di un meccanismo metarappresentazionale (recente-mente definito come un modulo, cfr. Scholl e Leslie 1999), ToMM(Theory of Mind Mechanism), responsabile della costruzione di M-rappresentazioni, metarappresentazioni inconsce che sarebbero a fon-damento della costruzione di una teoria tacita della mente1. Non sor-prende dunque che si parli, per denotare questo approccio allo studiodella natura della psicologia ingenua, di teoria della teoria.

Leslie ha peraltro avuto modo di elaborare la sua ipotesi, presentan-do un’architettura mentale composta da vari moduli, ToBy, ToMM1 eToMM2, quest’ultimo coincidente con ToMM. Mentre ToBy (da Theoryof Body mechanism, «meccanismo della teoria dei corpi fisici») ha ilcompito di stabilire se il movimento di un oggetto è causato da forzeinterne o esterne, ToMM1 e ToMM2 si occupano delle proprietà inten-zionali degli agenti.

A un’architettura mentale che renda conto dei principali aspettidella mentalizzazione, fin dalle sue origini ontogenetiche e filogenetichemira anche Simon Baron-Cohen, che colloca ToMM in un più ampiomindreading system (fig. 1).

In questo sistema il processo che culmina con l’attribuzione di statimentali viene scomposto in quattro meccanismi relativamente autono-mi. A partire da stimoli a forma d’occhio, EDD (Eye Direction Detector)costruisce rappresentazioni diadiche del tipo (X VEDE Y), mentre stimoliautopropulsi aventi una certa direzione stimolano ID (IntentionalityDetector) a costruire altre rappresentazioni diadiche del tipo «X VUOLE

Y». ID e EDD sono i primi meccanismi del sistema di mindreading agiungere a maturazione nell’essere umano, che verosimilmente li con-divide con altri animali. Le rappresentazioni prodotte da questi dueprimi meccanismi costituiscono un doppio input parallelo per SAM(Shared Attention Mechanism), che rappresenta situazioni di attenzionecondivisa. Introducendo un terzo elemento nella relazione, SAM co-struisce infatti rappresentazioni del tipo «X PERCEPISCE che Y PERCEPISCE

Z». Infine, l’output di SAM costituisce l’input di ToMM, il meccanismo

1 In modo non dissimile dalla teoria tacita del linguaggio postulata da Chomsky(1980).

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delle teoria della mente di Leslie. Il mindreading system situa ToMM,l’ultimo elemento del sistema a giungere a maturazione, all’interno diuna rete di meccanismi modulari in cui l’output di un modulo funge dainput (o parte dell’input) per uno o più moduli che si trovano «più avalle» (fig. 1).

2. TOMM E L’IPOTESI DELLA MODULARITÀ MASSIVA

Abbiamo visto che per Leslie ToMM è un modulo. Ciò – è crucialerilevarlo – segna un allontanamento dalla nozione di modularità resacelebre da Fodor (1983). Questo autore attribuisce un carattere modula-re2 esclusivamente ai sistemi di input (percezione visiva ed elaborazio-ne del linguaggio) e di output (il controllo motorio). Tuttavia il mecca-nismo cognitivo alla base della capacità di costruire M-rappresentazionielabora input concettuali e non percettivi. Infatti ToMM non si applica

FIG. 1. Il mindreading system.

IDEDD

SAM

ToMM

Stimoli diaspetto oculare

Metarappresentazioni

Stimoli in movimento in unacerta direzione e/o autopropulsi

2 Le due principali proprietà dei moduli fodoriani sono l’incapsulamento informativoe la relativa inaccessibilità alla coscienza delle rappresentazioni intermedie. Le altrecaratteristiche sono: la specificità di dominio, il carattere obbligatorio dell’analisi, larapidità di esecuzione, la superficialità delle rappresentazioni in uscita, l’architetturaneurale fissa, l’esistenza di malfunzionamenti tipici e specifici per quel modulo e laprevedibilità dello sviluppo ontogenetico (Fodor 1983, cap. 3).

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ai movimenti corporei in quanto tali, bensì ad azioni, che sono movi-menti volti a fini specifici. Inoltre il modulo può essere attivato oltreche dalla percezione esterna e dai meccanismi propriocettivi, anche dainput linguistici (e dunque paradigmaticamente concettuali), come av-viene quando qualcuno ci descrive le azioni di un’altra persona, oleggiamo un romanzo e cerchiamo di comprendere le azioni e i moventidei personaggi. Pertanto qualificare come «modulare» il meccanismodella psicologia ingenua richiede una revisione dell’ipotesi di Fodortale da consentire la modularizzazione anche di alcuni sistemi centrali.Questa estensione della modularità oltre la periferia della cognizione ènota come ipotesi della modularità massiva ed è stata tentata oltre chenello studio della psicologia ingenua, nella psicologia del ragionamento(Cosmides e Tooby 1992; Gigerenzer 1994; 1996) e nell’indagine sullafolk biology (Atran 2000).

L’ipotesi della modularità massiva è anche uno degli assi portantidel programma di ricerca della psicologia evoluzionistica. Secondo glipsicologi evoluzionisti, infatti, la mente è composta da un gran numerodi moduli intesi come meccanismi computazionali specifici a un domi-nio. Spesso questi moduli hanno accesso a una base di conoscenze«dedicata» (proprietary), ossia inaccessibile agli altri moduli e ai mec-canismi non-modulari. La proprietà fodoriana dell’incapsulamento vie-ne preservata ma in una versione più debole, che prevede gradi diincapsulamento (Meini 2001, 96-97)3. Infine, questi moduli sono adat-tamenti, essendo stati plasmati dalla selezione naturale al fine di risol-vere problemi posti ai nostri antenati cacciatori e raccoglitori dall’am-biente ancestrale. Da questo punto di vista qualificare questi modulicome darwiniani è quanto mai appropriato (Samuels 2000, 20).

Proprio in ragione del suo alto valore adattativo ToMM è spessocitato – insieme al modulo per la scoperta degli imbroglioni sociali diCosmides (1989) – come un prototipo di modulo darwiniano, contenen-te una base innata di conoscenze specifiche al dominio psicologico, nondisponibile ad altri sistemi cognitivi.

Nell’architettura mentale complessiva ipotizzata dai difensori del-l’ipotesi della modularità massiva sistemi quali ToMM, i vari compo-nenti del mindreading system, il modulo rilevatore di imbroglioni sicollocano all’interno di una più vasta rete costituita dall’interconnessione

3 Ad esempio, ToMM sembra possedere la proprietà dell’incapsulamento. Leforti illusioni prodotte al cinema suggeriscono un elevato grado di isolamento deimeccanismi deputati alla comprensione teleonomica e intenzionale. I soggetti delcelebre esperimento di Heider e Simmel (1944), pur sapendo che quelle che hannodavanti agli occhi sono figure geometriche, non possono fare a meno di mentalizzare.È del resto esperienza comune che «quando si osserva un buon attore recitare, èimpossibile evitare di interpretare le sue azioni come manifestazioni di inganno,gelosia, ira, ecc., pur sapendo perfettamente che l’attore non si trova in nessuno diquesti stati» (Botterill e Carruthers 1999, 68).

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FIG. 2. (a) Uno schizzo del tipo di architettura cognitiva di cui potrebbe far parteToMM. (b) Un ingrandimento di una parte del sistema.

Fonte: Murphy e Stich (2000).

Orientamentotramite stima dellapropria posizione

(a)

(b)

Direzionedello sguardo

Riconoscimentodei volti

ToMM

Altruismoreciproco

Scoperta degli imbroglioni

Magazzinodi informazioninon dedicato

Meccanismocomputazionale

generaleper dominio

Cognizionecentrale

Input

Output

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di meccanismi modulari e non modulari. Ne emerge un’architetturamodulare moderatamente massiva in cui i meccanismi modulari coesi-stono con meccanismi generali per dominio, con basi di dati non dedi-cate e strutture cognitive di tipo ancora diverso (fig. 2).

Un meccanismo generale per dominio di cui ToMM necessita è ilcosiddetto elaboratore di selezione. Secondo Leslie e Thaiss (1992),infatti, ToMM attribuisce automaticamente credenze dotate di un con-tenuto vero. Tale strategia, pur essendo ragionevole in quanto le creden-ze tendono a essere vere, ha un costo: nelle situazioni in cui la credenzaè falsa, è necessario inibire la risposta automatica di ToMM. Questo èil compito dell’elaboratore di selezione. Nel test di Maxi, affinchéToMM sia in grado di inferire il contenuto della credenza erronea delpupazzo circa la collocazione della biglia, l’elaboratore di selezioneinibisce la risposta iniziale basata sulla collocazione effettiva dellabiglia. Questa inibizione consente al bambino di sganciare l’attenzioneda una situazione reale e di riagganciarla alla situazione in quantorappresentata da Maxi4.

3. LA MODULARITÀ MASSIVA E LA TASSONOMIA DEI FENOMENI PSICOPATOLOGICI

Le considerazioni appena svolte hanno un particolare interesse inquanto consentono di muovere i primi passi verso una tassonomia deifenomeni psicopatologici fondata non già su criteri puramentefenomenologici (come avviene nel Diagnostic and Statistical Manualof Mental Disorders), ma su un’ipotesi di architettura cognitiva.

Nel DSM, così come negli altri principali manuali diagnostici, lesindromi sono tipicamente formulate nel linguaggio vago e imprecisodella «fenomenologia clinica», caratterizzata dalla presenza di concettipsicologici e clinici del senso comune. Come notano Poland et al.(1994, 214), il manuale DSM si basa sul presupposto – assai pocofondato sotto il profilo scientifico – che esistano sindromi unitariecaratterizzate proprio nel linguaggio del senso comune, le quali«evidenziano caratteristiche dinamiche quali un decorso, un esito e unarisposta al trattamento tipici, e che sono collegate a condizioni patolo-giche soggiacenti e fattori eziologici dello sviluppo (per esempio, fatto-

4 L’ipotesi dell’elaboratore di selezione consente di spiegare perché il bambinoche non ha ancora compiuto quattro anni fallisce il compito della credenza falsa ma èin grado di fornire una raffinata prestazione mentalistica nel gioco di finzione.L’incapacità di superare il test della credenza falsa è imputabile al fatto che ToMM nonpuò ancora contare su un elaboratore di selezione maturo. Nel caso del gioco difinzione, invece, ToMM non necessita dell’intervento dell’elaboratore dal momentoche la modificazione della realtà («questa banana è un telefono») è decisa dal bambinostesso o da qualcuno che giocando con lui la evidenzia con il suo comportamento.

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ri genetici e ambientali)» (Murphy e Stich 2000). In questo senso, ilDSM non rappresenta affatto un approccio ateorico; d’altro canto, sitratta di una teoria scientificamente infondata, in quanto non tiene contodelle conoscenze sul funzionamento della mente normale rese disponi-bili proprio dalle ricerche nell’ambito della scienza cognitiva.

Torniamo allora alle due reti in figura 2, composte tanto da mecca-nismi modulari che da alcuni sistemi general-purpose: questo tipo diarchitettura permette di tracciare interessanti distinzioni tra i problemiche possono condurre ai sintomi di un disturbo psichiatrico: innanzitutto,tra i problemi che sono interni all’agente e quelli che risiedono nell’am-biente dell’agente (Murphy e Stich 2000).

Limitiamoci – per ragioni di spazio – alla classe dei problemi interniall’agente5. Questa include tutti quei casi in cui un modulo funzionamale, producendo un output che dà luogo – direttamente o indirettamen-te – ai sintomi su cui si basano le diagnosi di disturbo mentale. Ciò puòverificarsi per due motivi. Il problema può essere interno ai moduli. Ilmodulo genera un output problematico a causa del malfunzionamentodel suo meccanismo computazionale specifico; oppure a causa del fattoche il suo magazzino di informazioni dedicato non è quello che dovreb-be essere; o per entrambe le ragioni.

5 I problemi che risiedono nell’ambiente dell’agente si verificano quando unmodulo funziona correttamente ma l’ambiente attuale non è più quello ancestrale in cuila funzione del modulo era ottimizzata.

FIG. 3. Due casi di disturbi derivanti da problemi a monte del sistema cognitivo: (a)due moduli generano entrambi output problematici, ma soltanto il primo funzionamale; (b) due moduli generano entrambi output problematici perché entrambifunzionano male.

Fonte: Murphy e Stich (2000).

(a) (b)

INPUT INPUT

MODULOMALFUNZIONANTE

MODULOMALFUNZIONANTE

OUTPUTPROBLEMATICO

OUTPUTPROBLEMATICO

CLUSTER DISINTOMI

(1)

CLUSTER DISINTOMI

(2)

CLUSTER DISINTOMI

(3)

CLUSTER DISINTOMI

(1)

CLUSTER DISINTOMI

(2)

CLUSTER DISINTOMI

(3)

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Un altro tipo di problema che potrebbe insorgere in una mentedotata di un’architettura massivamente modulare è esterno ai moduli. Sipotrebbe, ad esempio, verificare un inconveniente a monte del flussodelle informazioni; il modulo riceverebbe allora un input problematico,generando di conseguenza un output problematico (fig. 3).

3.1. Problemi interni ai moduli

La patologia autistica è il caso più studiato di un problema internoa un modulo. Nel celebre esperimento di Baron-Cohen, Leslie e Frith(1986) bambini autistici, bambini con sindrome di Down e bambini consviluppo tipico sono stati sottoposti al test della credenza falsa6. Ladomanda critica, quella che richiedeva di ragionare sulla rappresenta-zione mentale erronea, venne superata dalla maggioranza dei bambininormali e dei bambini con sindrome di Down, ma solo dal 20% deibambini autistici. I bambini autistici mostrarono perciò prestazioni digran lunga inferiori ai bambini dei gruppi di controllo, nonostante leloro prestazioni nei test di intelligenza fossero migliori di quelle deibambini Down.

Frith (1993) ha ipotizzato che la compromissione di ToMM sarebbeall’origine anche di alcuni disturbi dello spettro schizofrenico. Il pro-blema qui è spiegare perché schizofrenia e autismo, pur risultandoentrambe dal malfunzionamento di ToMM, siano condizioni affattodistinte – soprattutto spiegare perché i bambini autistici non manifesti-no i sintomi positivi della schizofrenia come le allucinazioni e i deliri dicontrollo. La spiegazione di Frith è che questi sintomi sono causati dallaperdita di una capacità metarappresentazionale che ha però avuto unosviluppo normale, laddove nell’autismo tale capacità è assente, o quan-to meno compromessa in modo permanente da un grave ritardo evolutivo.Di conseguenza il paziente schizofrenico, con alle spalle una lungastoria di letture della mente coronate da successo, tenterà di interpretaregli stati mentali altrui, un tentativo che condurrà, in vari modi, aisintomi positivi della schizofrenia. Supponiamo, ad esempio, che unpaziente schizofrenico (S) formuli un pensiero sul pensiero che p di unaltro individuo (I): ad esempio, inferisce che I pensa che S sia noioso. Esupponiamo che, a causa di un deficit a carico di ToMM, l’operatoreintenzionale «pensa che» si distacchi dal contenuto proposizionale «S ènoioso». S esperirà allora questo contenuto come un pensiero indipen-dente che penetra nella sua coscienza – un’esperienza di passività notacome inserimento del pensiero.

6 Il test è stato presentato in una versione adattata, nella quale ad assistere allascenetta sono due bambole, Sally e Ann. Sally resta, mentre Ann se ne va al momentodello spostamento dell’oggetto dalla prima alla seconda scatola.

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3.1.1. La critica simulazionistica dell’approccio metarappresentazionaleall’autismo e alla schizofrenia

L’approccio metarappresentazionale all’autismo e alla schizofreniaè stato criticato da alcuni studiosi che adottano, in una delle sue versio-ni, la teoria della simulazione. Coerentemente con la loro concezionedell’origine e della natura della psicologia ingenua, secondo i teoricidella simulazione l’autismo deriva da un deficit di simulazione. Piùspecificamente, alcuni autori vi scorgono un deficit di pianificazionedelle azioni, vale a dire un problema del sistema esecutivo anche nel suofunzionamento ordinario, on line (vedi supra). Considerate le pessimeprestazioni degli autistici nel Wisconsin Card Sorting Test e nella Torredi Hanoi, l’autismo è assimilato alle sindromi frontali (Ozonoff,Pennington e Rogers 1991). Questa ipotesi si scontra peraltro con lanecessità di rendere conto di una forte dissociazione tra le pessimeprestazioni degli autistici nei test delle credenze false e le loro buoneprestazioni in test che, avendo la stessa struttura di questi ultimi, richie-dono però di ragionare considerando rappresentazioni non più privatecome le credenze, ma pubbliche come fotografie e mappe. Questi risul-tati mal si conciliano con un’ipotesi che vede nell’autismo una genericadifficoltà di pianificazione.

Pur considerando numerosi dati relativi allo sviluppo della psicolo-gia ingenua nel bambino e ai suoi deficit nell’autismo, è alla schizofre-nia negli adulti che Langdon e Coltheart (2001) fanno esplicito riferi-mento nella loro ipotesi di un cattivo funzionamento del componente offline del sistema di presa delle decisioni.

Una spiegazione simulazionistica del fenomeno dell’inserimento dipensiero, dichiaratamente alternativa a quella di Frith, è fornita daCurrie (2000). Il processo di simulazione comporta l’introduzione dicredenze e desideri immaginari nella propria economia mentale. Ciòrichiede un dispositivo di controllo atto a discriminare i processi auten-tici da quelli simulati – ad esempio, è possibile immaginare che qualcu-no ci sta parlando senza per questo pensare che l’esperienza in tal modoindotta derivi dal fatto che un altro ci sta realmente parlando. Supponia-mo allora che, a causa di un difetto del meccanismo di monitoraggio, unsoggetto sia incline a scambiare credenze e desideri immaginari percredenze e desideri reali: il risultato sarebbe l’esperienza dell’inseri-mento del pensiero.

3.1.2. L’asimmetria tra la prima e la terza persona

Un quadro di riferimento più articolato e preciso per la costruzionedi una teoria cognitiva dell’autismo e della schizofrenia è stato recen-

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temente delineato da Nichols e Stich (2003)7. Innanzitutto i due studiosidistinguono tra l’attribuzione di uno stato mentale e le inferenze che sutali stati si possono compiere. Ad esempio, osservando il comportamen-to di una persona P nel contesto di una determinata situazione, possoriconoscerne gli stati mentali: ad esempio, Mario desidera una birra ecrede che il posto più vicino per procurarsela sia il bar dietro l’angolo.Questi stati mentali possono poi essere utilizzati per fare delle inferenze:se Mario desidera una birra ed è convinto di potersela procurare recan-dosi nel bar dietro l’angolo, allora Mario si recherà in tale bar.

Sia il riconoscimento di uno stato mentale sia le inferenze che su diesso vengono compiute possono essere riferiti alla prima o alla terzapersona. Posso riconoscere di avere uno stato mentale e quindi utilizza-re questa consapevolezza nel mio ragionamento; oppure, come nel-l’esempio appena fatto, posso attribuire a qualcun altro uno stato men-tale e avvalermene per svolgere su di esso un ragionamento. Abbiamopertanto quattro casi possibili: riconoscimento alla prima e alla terzapersona, ragionamento alla prima persona e alla terza persona.

Secondo Nichols e Stich la mente dispone di un meccanismo dimonitoraggio (d’ora in poi MM) deputato all’identificazione dei propristati mentali e del tutto indipendente dai meccanismi impiegati peridentificare gli stati mentali altrui. MM assume come input uno statomentale e genera in uscita la credenza che si è in questo stato mentale.Dunque, ad esempio, se S crede che p e si attiva MM, il meccanismocopia la rappresentazione p contenuta nella «scatola» delle credenze diS, «incassa» questa copia in uno schema rappresentazionale della forma«io credo che___», e inserisce questa nuova rappresentazione nellascatola delle credenze di S. Si tratta, come si vede, di un meccanismocomputazionale molto semplice.

MM è dunque un meccanismo introspettivo indipendente, deputatoal riconoscimento dei propri stati intenzionali. Invece l’eteroattribuzionedi stati mentali e il ragionamento sia alla prima che alla terza persona sibaserebbero sui meccanismi della teoria della mente.

MM si conforma abbastanza strettamente alla nozione di modulo: èspecifico a un dominio, la sua ontogenesi è precoce e prevedibile, i suoimalfunzionamenti sono tipici e specifici e – come vedremo fra breve –sembra essere selettivamente risparmiato nei soggetti autistici. Le ela-borazioni di MM sono rapide ma estremamente elementari: non fannoaltro che inserire una rappresentazione mentale in uno schema diautoattribuzione. Sotto questo aspetto il funzionamento di MM assomi-glia molto all’operare «ottuso» dei moduli percettivi incapsulati.

Ora, ipotizzano Nichols e Stich, è possibile che ToMM, il meccani-smo soggiacente le capacità di i) identificare gli stati mentali altrui, ii)

7 Discusso in questo numero anche da Bara e Colle, p. ?????, e Semerari, p.?????.

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ragionare sugli stati mentali altrui e iii) ragionare sui propri stati men-tali, funzioni male anche se MM, deputato alla iv) identificazione deipropri stati mentali, continua a funzionare normalmente. Potrebbe darsianche lo schema opposto: in tal caso il deficit sarebbe a carico di iv),lasciando intatte i)-iii). Di conseguenza un modo di confermare l’ipote-si del modulo di monitoraggio sarebbe quello di trovare una doppiadissociazione: casi in cui una popolazione di soggetti ha un MM intattoma un ToMM deficitario e casi in cui una popolazione di soggetti ha unToMM intatto ma un MM deficitario. Un’indicazione in tal senso sem-bra provenire dal confronto tra soggetti autistici e schizofrenici:nell’autismo ToMM sarebbe gravemente compromesso ma MM funzio-nerebbe normalmente; in pazienti che manifestano i sintomi positividella schizofrenia, ad essere compromesso sarebbe invece MM, mentreToMM funzionerebbe normalmente. Consideriamo innanzitutto alcunidati che sembrano indicare un risparmio selettivo di MM nei soggettiautistici.

Dal momento che la tesi della simmetria afferma che ToMM rendepossibile la comprensione sia degli stati mentali propri che di quellialtrui, essa predice che i soggetti autistici manifesteranno un deficit dicomprensione tanto alla prima che alla terza persona. A sostegno diquesta tesi Carruthers (1996) e Frith e Happé (1999) citano un recentestudio sui resoconti introspettivi di adulti affetti da sindrome di Asperger9

(Hurlburt, Happé e Frith 1994). Lo studio è basato su una tecnica dicampionamento dell’esperienza (Hurlburt 1990). I soggetti sperimenta-li erano muniti di un dispositivo che, a intervalli di tempo prefissati,emetteva un segnale; in quell’istante i soggetti dovevano cercare di«congelare» la loro esperienza mentale e annotarla in un quaderno.

Hurlburt, Happé e Frith hanno utilizzato questa tecnica con treAsperger, constatando una notevole differenza fra i resoconti di questisoggetti e quelli dei soggetti normali. Due Asperger riportarono soltan-to immagini visive, mentre i resoconti dei soggetti normali sono dinorma caratterizzati da verbalizzazione interna, «pensiero nonsimbolizzato» (pensiero non associato all’esperienza di parole, immagi-ni o altri simboli dotati di significato) e stati emozionali. Il terzo sogget-to non riportò alcuna esperienza interna. Carruthers (1996, 261) neconclude che «i soggetti autistici hanno gravi difficoltà ad accedere ailoro processi di pensiero e alle loro emozioni». Frith e Happé (1999, 14)sostengono che questi dati «confermano [l’]ipotesi che l’autoconsa-pevolezza si basa, al pari della consapevolezza delle menti altrui, sullateoria della mente».

È legittimo dubitare della correttezza di questa interpretazione. Ciòche questi dati indicano è che la vita mentale di un Asperger è note-

8 La sindrome di Asperger è una forma di autismo caratterizzato da una nettadissociazione tra le difficoltà di mentalizzazione e un buon quoziente intellettivo.

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volmente differente da quella di un soggetto normale. Predominano leimmagini, il discorso interno è meno saliente e poco tempo è dedicatoa interrogarsi sulla vita mentale altrui. Tuttavia questi dati indicanoanche che gli Asperger hanno accesso alla propria vita mentale. Sonoconsapevoli delle proprie credenze, desideri, pensieri ed emozioni oc-correnti; sono anche in grado di riportare e ricordare questi stati menta-li. Per esempio, uno dei soggetti (Robert) riportò che:

[...] stava «pensando a» quello che doveva fare quel giorno. Questo «pensarea» era associato a una serie di immagini dei compiti che si era prefissato. Almomento dell’emissione del segnale, Robert stava cercando di capire cometrovare la strada per la Cognitive Development Unit, dove aveva appuntamentocon noi. Questo «cercare di capire» era un’immagine di se stesso che camminavalungo la strada vicino alla stazione di Euston (Frith e Happé 1999, 388).

E perfino Peter, il soggetto che incontrava più difficoltà con ilmetodo di campionamento delle esperienze, era in grado di parlare dellasua esperienza attuale:

[...] sebbene Peter fosse incapace di parlarci della sua esperienza internapassata usando il metodo del [campionamento delle esperienze], era possibilediscutere con lui dell’esperienza interna che aveva luogo nel corso del colloquio(ibidem, 14).

Simili prestazioni sono spiegabili ipotizzando che nei soggetti autisticial malfunzionamento del meccanismo della teoria della mente non siaccompagni una compromissione del meccanismo di monitoraggio.

Vi sono dunque dati che inducono a ipotizzare che nell’autismoToMM sia gravemente deficitario, mentre MM funziona normalmente oquasi normalmente. Ora, sembrerebbe che in alcuni pazienti che mani-festano alcuni sintomi di primo rango della schizofrenia sia MM afunzionare male, mentre ToMM funzionerebbe normalmente. Vari stu-di confermano questa ipotesi.

Hurlburt ha impiegato il metodo di campionamento dell’esperienzain uno studio condotto su quattro soggetti schizofrenici. Due di questisoggetti riportarono esperienze e pensieri che erano strani o «abborrac-ciati» (goofed up). Uno dei pazienti, che era stato sintomatico per tuttoil periodo del campionamento (e tra i cui sintomi vi erano quelli diprimo rango) fu incapace di svolgere il compito. Un altro paziente fu ingrado di svolgere il compito ma solo fino al momento in cui divennesintomatico. Hurlburt (1990, 239) sostiene che questi due soggetti,mentre erano in fase sintomatica, non avevano accesso alla loro espe-rienza interna:

Ciò che ci eravamo aspettati di scoprire nel caso di Joe era che le sueesperienze interne fossero inconsuete, magari caratterizzate da immagini«abborracciate» come quelle che aveva descritto Jennifer, o da varie voci che

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parlavano nello stesso tempo così da non essere intelligibili, o da qualche altrotipo di esperienza interna anormale che avrebbe spiegato [...] i suoi deliri.Tuttavia non si è trovato nulla di tutto questo: Joe, invece, non era capace didescrivere alcun aspetto della propria esperienza (1990, 207-208).

Si noti il contrasto tra questa affermazione e quella di Hurlburt,Happé e Frith relativa agli Asperger. Hurlburt (1990) si aspettava chegli schizofrenici sintomatici fossero in grado di riportare le loro espe-rienze interne, mentre Hurlburt, Happé e Frith (1994) si aspettavanoche gli Asperger fossero incapaci di farlo. I risultati degli esperimentitestimoniano l’esatto opposto. Gli Asperger, ma non gli schizofrenicisintomatici, sono stati in grado di riportare le loro esperienze mentali.Inoltre Frith e Corcoran (1996, 527), pur sostenendo una teoria dellaschizofrenia come conseguenza di una compromissione di ToMM,ammettono che: «è sorprendente che pazienti manifestanti caratteristi-che di passività (deliri di controllo, inserzione di pensieri ecc.) sianostati in grado di rispondere assai bene a domande di teoria della mente».Questo risultato non è però sorprendente per la teoria del modulo dimonitoraggio dal momento che quest’ultima sostiene l’indipendenza ditale meccanismo dal meccanismo deputato all’identificazione delleintenzioni altrui.

3.2. Problemi esterni ai moduli

Un esempio di un problema causato da un malfunzionamento amonte del sistema cognitivo è offerto dal già citato mindreading systemdi Baron-Cohen (1995) Le rappresentazioni costruite da ID, EDD eSAM costituiscono l’input per il quarto che è ToMM. Ora, se né ID néEDD funzionano male, o se a presentare problemi è anche il solo SAM,ToMM, pur perfettamente integro, non potrà produrre un output ade-guato. In tal modo un problema a carico di una componente a monte delsistema di lettura della mente provoca il malfunzionamento del modulodella teoria della mente. È quanto sembra accadere anche in almenoalcuni casi di autismo. Baron-Cohen, ad esempio, sottolinea come ildeficit di mentalizzazione caratteristico di questa patologia potrebbe inrealtà avere origine da difficoltà di comprensione dei meccanismi attentivi.Molto spesso, infatti, le persone autistiche manifestano difficoltà nelriconoscere situazioni di condivisione dell’attenzione. In questo qua-dro, l’output inadeguato di SAM costituirebbe un input scorretto perToMM, che di per sé non presenterebbe tuttavia alcun problema difunzionamento9.

9 In realtà, l’ipotesi di Baron-Cohen lascia aperta una duplice possibilità. In unprimo caso, il deficit di SAM non avrebbe conseguenze sullo sviluppo di ToMM, a cuisemplicemente mancherebbe l’occasione di attivarsi con un input adeguato. Nel secondo

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Un altro esempio di un problema esterno a un modulo è una recenteteoria del delirio di Capgras o «illusione del sosia» (discussa in questovolume da Pacherie e Bayne). Il soggetto affetto da questo deliriomonotematico10 è convinto che una persona bene conosciuta non siaquella vera e familiare, bensì un duplicato che l’ha sostituita. Stone eYoung (1997) ipotizzano che parte della spiegazione di questo deliriorisieda nel fatto che il sistema di riconoscimento delle facce (un esem-pio paradigmatico di meccanismo modulare periferico) ha la struttura diun cancello logico and, vale a dire necessita di due tipi di input. Il primoè l’input, assente nei prosopopagnosici, che rende possibile una sorta ditemplate matching; il secondo è un input che conferisce alla faccia chesi sta osservando il suo significato emotivo. Il riconoscimento ha luogosolo se entrambi i tipi di input vengono inviati al gate di riconoscimentodelle facce. E alcune prove empiriche sembrano indicare che nei pa-zienti Capgras è il sistema alla base della risposta emotiva a esserecompromesso. Misurando le risposte di conduttanza cutanea in pazientiCapgras a cui venivano mostrati volti familiari e non familiari, si èriscontrato che l’incremento di risposta ai volti familiari che si riscontranei soggetti normali, era assente o quanto meno fortemente ridotto.

È tuttavia plausibile ipotizzare che nei pazienti Capgras a funziona-re male sia non solo il sistema di riconoscimento delle facce, ma anchei sistemi più centrali che da esso ricevono l’input. Ossia, oltre all’agnosia,il sistema di credenze dei Capgras è forse troppo incline ad accoglierecredenze osservative a spese delle conoscenze di sfondo. Oppure, men-tre i soggetti normali dispongono di un meccanismo che fissa un limitesuperiore all’eccentricità delle credenze ammissibili, nei Capgras que-sta soglia è assente, o quanto meno troppo tollerante11. Nel caso diambedue le due ipotesi, ci troviamo di fronte a un particolare tipo didisturbo esterno al modulo. Il modulo di riconoscimento delle faccefunziona normalmente; tuttavia, esso riceve soltanto uno dei due inputdi cui necessita e trasmette il suo output problematico a un sistemacentrale che non funziona in conformità alle norme epistemiche chegovernano i processi di fissazione della credenza.

Procedendo secondo questa logica architettonica, Murphy e Stichhanno approntato una tassonomia delle principali categorie di problemiche possono insorgere in un’architettura massivamente modulare (fig. 4).

caso, il deficit di SAM di fatto comprometterebbe anche la capacità di funzionamentodi ToMM. Non ricevendo stimoli adeguati, quest’ultimo meccanismo non avrebbeinfatti occasione di essere attivato, non diversamente da un muscolo che, purpotenzialmente perfetto, non venga mai usato.

10 Ossia: deliri limitati a temi estremamente specifici.11 Pacherie e Bayne chiamano questo tipo di spiegazione dei deliri monotematici,

versione bifattoriale dell’approccio empirista, secondo la quale «i deliri monotematicisono costituiti da un’esperienza insolita unitamente a un bias sul ragionamento o aqualche altro tipo di deficit» (p. ?????).

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4. LA RAZIONALITÀ COME PRINCIPIO DELLA TASSONOMIA DEI DISTURBI PSI-CHIATRICI

Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come uno dei passaggi deci-sivi per l’interazione tra scienza cognitiva e psicopatologia sia l’ipotesidella modularità massiva: è questo che consente di considerare in termi-ni unitari fenomeni neuropsicologici e fenomeni psichiatrici. Comeabbiamo notato, tale ipotesi non è universalmente accettata dagli scien-ziati cognitivi, che in molti casi guardano con sospetto all’approccioevoluzionistico a essa indissolubilmente legato. In particolare, l’ado-zione di una concezione fodoriana di modularità, più vincolante malimitata ai sistemi di input, muterebbe notevolmente la tassonomia deidisturbi mentali. In questo ambito è di particolare interesse la posizioneadottata da Bermúdez (2001), che, partendo da una nozione fodoriana dimodularità, individua nel principio di razionalità il cardine su cui fon-dare la tassonomia dei disturbi psichiatrici.

Secondo Bermúdez, i disturbi neuropsicologici sono i soli a riguar-dare sistemi modulari. A questo livello limitato, quindi, le distinzioni diMurphy e Stich tra problemi – per esempio – interni o esterni ai modulicontinuano verosimilmente a valere e a fondare una categorizzazionetassonomica. I disturbi psichiatrici, tuttavia, non derivano dallacompromissione di sistemi modulari. Tali condizioni patologiche ri-guardano infatti prevalentemente il pensiero, ambito che si colloca al difuori di un’architettura modulare di stampo fodoriano. Ne conseguel’impossibilità di fondare la tassonomia delle patologie psichiatriche

FIG. 4. Tassonomia delle principali categorie di problemi che possono insorgere inun’architettura massivamente modulare.

Fonte: Murphy e Stich (2000).

Problemi che si possonoverificare in un’architettura

massivamente modulare

All’interno dell’agente Mismatch ambiente/selezione

Moduloin avaria

Input problematico(garbage-in, garbage-out)

Malfunzionamentodi un modulo a monte

Informazione erronea inun magazzino non dedicato

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sulla nozione di modularità. In altri termini, viene meno la possibilità diconsiderare i disordini psichiatrici come una conseguenza del cattivofunzionamento di uno o più moduli.

Se la nozione di modularità non può più fondare una tassonomiaunificata dei disturbi mentali, essendo la sua portata limitata all’ambitoneuropsicologico, è possibile trovare un principio alternativo su cuicostruire una categorizzazione teoricamente fondata, o siamo invececostretti a tornare ai principi puramente fenomenologici del DSM?

Secondo Bermúdez la malattia psichiatrica consegue da un deficit dirazionalità. Ora, non vi è dubbio che decenni di ricerche sperimentaliabbiano fatto definitivamente svanire l’illusione di razionalità ancheper quanto riguarda le persone senza disturbi mentali. Non a caso siparla di razionalità limitata. Il ragionamento umano è spesso incoeren-te, focalizzato sull’informazione a nostra disposizione e scarsamentepropenso a cercare quei controesempi che soli permetterebbero di otte-nere conclusioni logicamente corrette (cfr. Legrenzi 1998). Tali episodidi «ordinaria irrazionalità» si limiterebbero tuttavia prevalentementealla deviazione dalla norma di una delle forme possibili di razionalità:la razionalità procedurale. Un altro aspetto non meno importante, larazionalità epistemica, sarebbe generalmente preservata, mentre si rive-lerebbe centrale nella spiegazione dei disturbi psichiatrici.

Un sistema possiede razionalità procedurale se ragiona in accordocon i principi della deduzione logica. Non essere in grado di risolvereun sillogismo condizionale, così come saltare frettolosamente alle con-clusioni senza percorrere completamente la catena inferenziale, sonochiari indici di irrazionalità procedurale, che, secondo quanto anticipa-to, a certi livelli non risparmia nessuno. La floridissima letteraturapsicologica sui nostri limiti nella risoluzione di varie versioni del test diWason, nonché sulle buone prestazioni nello stesso compito quandosvolto in determinati contesti, sono un esempio paradigmatico dei limitidella razionalità procedurale di tutti.

Come anticipato, tuttavia, una persona normale possiede un buonlivello di razionalità epistemica. Un sistema possiede razionalitàepistemica se, una volta compiuto un processo inferenziale, è in gradodi confrontare adeguatamente la conclusione del ragionamento con larete epistemica complessiva di sfondo. La razionalità epistemica per-mette di «soppesare» tra loro le vecchie e la nuova credenza, ed even-tualmente, qualora si verifichi un problema di coerenza dei dati, inducea rigettare lo stato epistemico nuovo mantenendo la rete epistemica disfondo o, al contrario, ad accettare la nuova credenza inquadrandola inuna rete epistemica riveduta.

La tesi di Bermúdez secondo cui la patologia psichiatrica è preva-lentemente legata a un deficit della razionalità epistemica non escludel’eventualità che la stessa la razionalità procedurale, già normalmentelimitata, sia ulteriormente indebolita in alcuni casi patologici. Potrebbe

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essere questo il caso, per esempio, del delirio paranoide. Tuttavia è allivello epistemico che la deviazione dalla norma si fa particolarmentesensibile. A ciò l’autore riconduce non solo i sintomi positivi dellaschizofrenia, ma anche disturbi ordinariamente considerati di carattereneuropsicologico come l’anosognosia.

Consideriamo ancora il delirio di Capgras, analizzando le seguentiaffermazioni di un paziente convinto che la sua casa e la sua famigliasiano state duplicate:

Esaminatore: Questo fatto [due famiglie] non è insolito?Paziente: È incredibile.Esaminatore: Come lo spieghi?Paziente: Io stesso cerco di capirlo, ed è praticamente impossibile.Esaminatore: Come reagiresti se ti dicessi che non ci credo?Paziente: È perfettamente comprensibile. In effetti, quando racconto la

storia ho la sensazione di inventarla. Non è proprio giusta. Qualcosa non va.Esaminatore: Se qualcuno ti raccontasse la storia, cosa penseresti?Paziente: La giudicherei estremamente difficile da credere. Dovrei

giustificarmi io stesso (da Alexander, Stuss e Benson 1979, 335)12.

Il paziente è perfettamente in grado di trarre le conseguenze del suoragionamento. In altre parole, la sua razionalità procedurale non fa unapiega. Nonostante ciò, siamo in presenza di un chiaro deficit di raziona-lità epistemica. La credenza che deriva dal suo ragionamento, infatti, èsolo formalmente confrontata con le conoscenze di sfondo. Se riuscisseveramente a integrare gli stati epistemici vecchi e nuovi, il pazientesarebbe costretto a abbandonare la credenza relativa alla sostituzionedella famiglia e della casa. Ma non lo fa: ci sono tutti i mattoni pereffettuare il confronto, ma questo non ha realmente luogo. E non si puòsupporre che i pazienti con delirio di Capgras facciano solo finta diavere credenze deliranti, e che quindi la mancata revisione epistemicasia giustificata dal diverso livello di appartenenza delle credenze. Senzaarrivare ai casi estremi, come il paziente che tagliò la testa al presuntoduplicato artificiale del padre cercandovi le pile (Blount 1986), nume-rose sono le testimonianze dell’adozione di comportamenti coerenti conla credenza delirante.

Un secondo caso eclatante di irrazionalità epistemica riguarda ildelirio di Cotard, nel quale il paziente crede di essere morto. Conside-riamo la seguente citazione da Young e Leafhead (1996, 158):

Durante il periodo in cui affermava di essere morta, le chiedemmo sepoteva avvertire il cuore battere, se poteva percepire il caldo e il freddo esentire che la vescica era piena. JK disse che dal momento che aveva talisensazioni pur essendo morta, era chiaro che non costituivano prove del fattoche fosse viva.

12 Questo scambio è analizzato anche da Pacherie e Bayne, in questo numero.

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Anche in questo caso la lucidità procedurale è notevole, mentrecolpisce l’incapacità di soppesare e integrare le credenze. Ancora unavolta, il grave deficit epistemico non si accompagna a una deviazionedalla norma della (limitata) razionalità procedurale.

Nel concludere la sua analisi, Bermúdez rileva come il deficit dellarazionalità caratteristico della patologia psichiatrica possa ricomporsi aun diverso livello, vale a dire nel rispetto di una diversa norma. È cioèpossibile che anche un comportamento gravemente irrazionale da unpunto di vista epistemico possieda razionalità inclusiva, sia cioè atto amantenere una buona stabilità della persona. Un rito ossessivo-compulsivo, per esempio, può essere un comportamento inclusivamenterazionale nella misura in cui rappresenta la risposta più sensata allasituazione in cui il paziente sente di trovarsi. Lavarsi le mani in continua-zione è certamente irrazionale, essendosi ogni lavaggio precedente dimo-strato inefficace. Se però si considera che un ulteriore lavaggio sarà ilsolo mezzo per mantenere una relativa, seppur breve, stabilità in unapersonalità nevrotica, il comportamento recupera razionalità a un altrolivello. In senso inclusivo, è forse il comportamento più razionale che c’è.

La nozione di razionalità inclusiva sarebbe quindi una sorta dicorrispettivo notevolmente indebolito della razionalità limitata: se larazionalità caratteristica di una persona che non soffra di disturbi men-tali non è olimpica ma limitata, un disturbo mentale comporta un ulte-riore indebolimento della norma, e la razionalità viene recuperata a unlivello ancora più debole, quello inclusivo. Pur fragile, la razionalitàinclusiva sembrerebbe peraltro rivelarsi assai preziosa. Per quanto ri-guarda la razionalità limitata, psicologi non solo di orientamento evolu-zionistico (Legrenzi 1998; Johnson-Laird 1983) ne hanno evidenziatol’importanza, poiché solo trascurando qualche tappa del ragionamentopossiamo assicurare al nostro pensiero quella velocità di decisione che,in determinate condizioni, è fondamentale per la sopravvivenza. Qual-cosa di analogo accade per la razionalità inclusiva dei pazienti psichia-trici, la cui condizione epistemica, seppur deviante da norme più rigide,permette di non minare ulteriormente il loro già fragile equilibrio.

Vogliamo terminare la presentazione di questa prospettiva teoricasottolineandone un’importante conseguenza, vale a dire la radicale re-visione dei confini tra neuropsicologia cognitiva e psichiatria, operazio-ne dalla quale la prima risulta drasticamente ridotta.

Nell’adottare una nozione fodoriana di modularità, che limita talearchitettura ai sistemi di input, Bermúdez sostiene come sia proprioquesto livello che attiene alla neuropsicologia. In altri termini, la neuro-psicologia ha essenzialmente a che fare con deficit dei sistemi percettivie dei meccanismi deputati all’analisi sintattica del linguaggio. Tutto ciòche riguarda il pensiero esula dall’ambito neuropsicologico per entrarein quello psichiatrico: patologie tradizionalmente di pertinenza dellaneuropsicologia diventano di pertinenza esclusiva della psichiatria.

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Tuttavia non è in quest’ambito ristretto che la neuropsicologiacognitiva ha lavorato fin dalla sua nascita. Limitandoci a considerareuno dei maggiori esponenti di questa disciplina, Shallice (1988), ricor-diamo come egli si sia tradizionalmente occupato di coscienza, vale adire qualcosa che sicuramente trascende i sistemi di input per collocarsia un livello concettuale. Questo è accaduto perché, a dispetto di quantosostiene Bermúdez, non è con la nozione fodoriana di modulo che laneuropsicologia cognitiva ha avuto a che fare. Nel presentare i sistemimodulari, Bermúdez fa riferimento ad alcune delle principali proprietàindicate a suo tempo da Fodor. Innanzi tutto, l’incapsulamento informa-tivo, vale a dire l’impermeabilità a ogni informazione extra-modulare,proveniente per esempio dalla memoria o dalle inferenze consce. Inol-tre, la specificità di dominio, l’obbligatorietà del trattamento dei dati iningresso e la superficialità degli output (Fodor 1983).

Ora, queste proprietà, e in particolare l’incapsulamento informativo,non sono affatto centrali per i neuropsicologi, che si rivolgono primaria-mente a una caratteristica non rammentata da Bermúdez, la specificitàdei deficit. Su questa proprietà, per esempio, si fonda tutto l’interessantedibattito sull’importanza delle dissociazioni singole e doppie. Ma se ciòche è essenziale affinché un sistema sia modulare è l’essere soggetto adeficit specifici, allora la nozione difesa dalla neuropsicologia si avvici-na sotto certi aspetti alla modularità massiva. Deficit specifici, infatti,riguardano assai spesso anche la sfera concettuale.

Adottando una nozione di modularità più ampia di quella fodoriana,la neuropsicologia si presta dunque a un’unificazione delle sue sindromicon quelle tradizionalmente attinenti al dominio psichiatrico. Nella pra-tica della neuropsicologia cognitiva, infatti, i confini tra le due discipli-ne tendono a sfumare. Non è un caso che una prospettiva teorica forte-mente modularistica come quella di Murphy e Stich avesse in qualchemodo sfumato i confini delle due discipline. Un problema come ildelirio di Capgras, ad esempio, è in primo luogo un problema modulare,mentre non è chiaro se sia neuropsicologico, psichiatrico o di pertinenzadi entrambi (Mahler 1999; Stone e Young 1997; Campbell 2001).

5. CONCLUSIONI

Una delle principali conclusioni che emerge dal quadro delineatonelle pagine precedenti è la forza della ripercussione sulla tassonomiadei disturbi mentali dell’adozione di una determinata teoria circa lecaratteristiche architettoniche della mente. Da un lato abbiamo la mentemassivamente modulare di Murphy e Stich, a grandi linee condivisa,seppur in base a ragioni di tipo diverso, dai neuropsicologi cognitivi.Questa architettura porta a una classificazione dei disturbi psichicicaratterizzata anche, come abbiamo visto, da determinate relazioni tra

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neuropsicologia e psichiatria. La mente solo parzialmente modulare diBermúdez porta a fondare la classificazione su altre basi, e comportaaltresì una ridefinizione degli ambiti delle due discipline sopracitate. Sel’ipotesi di Bermúdez tende a mantenere una distinzione tra le due sferedi appartenenza, l’ipotesi della modularità massiva mette in discussionel’esistenza di confini reali tra le due discipline, che verrebbero a confluirenella nuova psichiatria cognitiva.

Il quadro teorico che emerge dall’analisi qui sviluppata permetteinoltre di apprezzare quanto l’impatto degli strumenti metodologici of-ferti dalla scienza cognitiva sulla pratica clinica sia potente e immediato.Dell’influenza inversa sono invece testimoni gli articoli scritti per que-sto numero speciale di «Sistemi Intelligenti». In particolare, la praticaclinica, attraverso le sue descrizioni delle sedute, ha fornito una riccabase di dati da cui è emersa una capacità metacognitiva assai più sfaccettatadi quanto gli scienziati cognitivi tendessero a supporre. Ne è un esempiola Scala di valutazione della metacognizione (S.Va.M.) del Terzo Centrodi Psicoterapia Cognitiva di Roma (cfr. Semerari, in questo numero).Nel valutare il livello di metacognizione sono considerate tre dimensio-ni: autoriflessività, comprensione della mente altrui/decentramento emastery, ognuna delle quali è suddivisa in più fattori. Così, la dimensio-ne «comprensione della mente altrui/decentramento» racchiude in sétutto il dibattito sulla presunta priorità della prima persona che divide leteorie della teoria e le teorie della simulazione. Parimenti, la distinzioneemersa dall’osservazione clinica tra i vari fattori fornisce la traccia percostruire ipotesi teoriche più a grana fine di quanto psicologi teorici efilosofi della mente non abbiano fatto finora. Per esempio, sono risultatifattori dissociabili il decentramento (coscienza del fatto di non esserenecessariamente al centro dei pensieri altrui) e la differenziazione (capa-cità di distinguere tra le varie operazioni cognitive, tanto per quantoriguarda se stessi quanto per ciò che concerne gli altri).

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Cristina Meini, Università del Piemonte Orientale, Via Manzoni 8, 13100 Vercelli.E-Mail: [email protected]

185SISTEMI INTELLIGENTI / a. XVI, n. 2, agosto 2004

BRUNO G. BARA LIVIA COLLE

LA NATURALIZZAZIONE DELLA SCIENZA COGNITIVA:IL CASO ESEMPLARE DELLA METACOGNIZIONE

La seduzione che lo studio delle patologie ha esercitato sulla ricercasperimentale ha radici lontane. A causa della complessità insita nellafenomenologia clinica però, buona parte della ricerca scientifica delsecolo scorso ha costruito modelli della mente in modo ideale, astratto,separato dalle persone in carne ed ossa e dai disturbi a cui possonoandare incontro. Negli anni ’90 lo sviluppo delle neuroscienze e ilrinnovato interesse della «scienza cognitiva» (CogSci) per le tematichedella soggettività, quali la coscienza, le emozioni e i processi mentaliimplicati nelle abilità sociali, hanno generato un nuovo interesse reci-proco e una nuova collaborazione tra la ricerca di base e le teoriepsicopatologiche. Ciò è avvenuto in particolare grazie a tre fattorideterminanti.

In primo luogo, l’interesse che la CogSci ha mostrato verso modellidi mente ecologici, che descrivono l’uomo all’interno di un mondo direlazioni e di scambi che contribuiscono a modellare i processi cognitivie le risposte comportamentali. Attualmente sia in scienza cognitiva sianei modelli psicopatologici è possibile osservare una tensione verso unprogramma di naturalizzazione della mente, verso cioè la definizione dimodelli di funzionamento mentale ecologici (immersi nel mondo dellerelazioni reali) ed incarnati (realizzabili da un cervello sito in un corpo).

Un secondo aspetto che ha permesso tale riavvicinamento è lacondivisione di un lessico tratto in gran parte dalla psicologia cognitiva.L’utilizzo di un linguaggio comune non solo ha permesso ai clinici diintegrare i risultati della CogSci nel proprio dominio di esperienza, maha reso più facili gli scambi tra diverse scuole di pensiero in areaclinica. Sempre di più si osserva l’attenzione di studiosi non solocognitivisti, ma anche comportamentisti, psicodinamici o sistemici peri risultati ottenuti dalla ricerca di base, nel tentativo di integrare questirisultati in modelli psicopatologici e in protocolli di trattamentopsicoterapico. Le teorie e i dati sperimentali forniti dalla CogSci, invirtù dell’egemonia scientifica conquistata, costituiscono perciò unabase comune di lavoro per differenti epistemologie psicoterapiche, faci-litando il dialogo tra modelli di psicopatologia e di psicoterapia svilup-patisi su basi concettuali molto diverse.

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L’ultimo aspetto che ha favorito l’interscambio tra ricerca di base ericerca clinica è lo sviluppo di nuovi metodi di ricerca empirica inpsicologia clinica e in psicoterapia. Negli ultimi decenni l’esigenza dirigore scientifico, che ha sempre caratterizzato la CogSci, si è afferma-ta anche nell’ambito della psicologia clinica. L’obiettivo di una teoriapsicopatologica è quello di indagare le funzioni cognitive e i meccani-smi cerebrali disfunzionali delle diverse patologie, e di sottolineare irapporti tra funzionamento patologico e funzionamento normale. Perfare ciò la psicopatologia, così come la scienza cognitiva, ha la neces-sità di adottare una metodologia che permetta la verifica empirica delleipotesi e la generazione di protocolli sperimentali controllati. Anchenell’ambito delle teorie cliniche il metodo scientifico permette di man-tenere i criteri di validità procedurale indispensabili per lo studio difenomeni soggettivi e privati, non riducibili all’oggettività osservabile,quali le emozioni, le conoscenze implicite e così via. Tale esigenza dicontrollo empirico si è estesa ai modelli d’intervento in psicoterapia.Diversi sono i tentativi che la ricerca sta producendo rispetto all’analisidei processi implicati nella pratica clinica e rispetto agli esiti del tratta-mento. Accenneremo più avanti ad alcuni contributi di ricerca sulprocesso, mentre rimandiamo a Lyddon e Jones (2002) per la foltaletteratura clinica evidence based riguardo agli esiti delle terapie.

Dalla convergenza di interessi e di metodologie si sono così venutea creare le condizioni per scambi e condivisioni vantaggiose tra ricercadi base e ricerca clinica. Lo scambio è da intendersi in senso bidirezionale,dal momento che dall’interazione entrambe sembrano ricavare vantaggiimportanti per la generazione di modelli esplicativi più attendibili ecompleti. Cominceremo con l’illustrare in modo generale comel’interscambio possa contribuire alla crescita dell’una e dell’altra disci-plina. Per quanto riguarda la direzione dello scambio dalla CogSciverso la psicopatologia, rimandiamo anche al precedente lavoro di Bara(2001). Ci focalizzeremo qui soprattutto su come la ricerca di basepossa crescere dallo scambio con la psicologia clinica. Lo scambio dallaclinica alla CogSci ci sembra infatti meno ovvio, non privo di difficoltàma proprio per questo di irrinunciabile importanza.

1. MEDICINA SENZA MALATTIA

Il più evidente contributo che la CogSci ha fornito alla ricerca inclinica è quello di generare definizioni ed ipotesi riguardo ad elementidi base del mentale che descrivono le architetture cognitive e il lorofunzionamento, sia in termini di contenuto (rappresentazioni mentali,emozioni semplici e complesse, credenze), sia in termini di processo(memoria episodica, memoria semantica, attenzione selettiva, bias edeuristiche del ragionamento, processi di autoregolazione). Già Bara

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(2001) ha mostrato come i contributi concettuali formulati dalla psico-logia cognitiva (Johnson-Laird 1983), dalla biologia (Maturana e Varela1980) e dalla linguistica (Grice 1975) abbiano generato un modello diuomo che ha avuto, con il tempo, un rilevante impatto sulle teoriecliniche di stampo cognitivista. Più di recente questo fenomeno si èintensificato grazie al rinnovato interesse che la CogSci ha mostratoriguardo a fenomeni complessi quali la coscienza, l’emozione o larelazione tra stati fisiologici e processi di pensiero. Data la rilevanza ditali fenomeni in campo clinico, lo sviluppo di queste aree di ricerca hafatto sì che i costrutti teorici e i risultati empirici proposti dalla CogScisiano sempre più utilizzati dalla clinica a fondamento di modelli dispiegazione e di trattamento dei disturbi. Per un approfondimento ri-spetto ai contenuti della CogSci utilizzati dalle teorie cliniche rimandia-mo a Semerari (2000).

Oltre all’eredità concettuale e ai relativi risultati sperimentali che laCogSci ha trasmesso alla psicologia clinica, esiste anche una terzadimensione dell’intervento psicologico, difficile da concettualizzarenella tradizione psicopatologica occidentale, eppure presente nel filonedella CogSci influenzato dalla filosofia orientale, di cui Francisco Varelaè stato un significativo punto di riferimento (Varela, Thompson e Rosch1991). Questa terza dimensione si occupa della possibilità di spostarsidal funzionamento normale della mente ad un funzionamento ottimale,spesso collegato in modo più o meno esplicito all’utilizzazione di tecni-che di meditazione. Il collegamento fra mente e la sua incarnazionecorporea, unito a una serena convinzione che il cambiamento sia possi-bile a prescindere dalla storia di vita, permette un allargamento diobiettivi estraneo alla cultura clinica ispirata a Freud e Bowlby, i grandienfatizzatori dell’importanza assoluta dei primi anni di vita per losviluppo dell’individuo.

L’obiettivo di questa terza prospettiva di sviluppo della clinica èquello di prevenire il disagio e di cercare di stare meglio quando già sista bene. La strada è quella di un costante esercizio individuale, allaricerca di un assetto mentale più funzionale e piacevole. La trasparentemetafora è quella di allenare la mente come si allena il corpo, attraversoesercizi caratteristici di buona salute non riservati solo a chi sta male. Inuna prospettiva di medicina senza malattia, di ricerca del benessere inassenza di sofferenza, è la scienza cognitiva, per una volta, ad anticipareuna strada che potrebbe essere molto interessante da percorrere per iclinici.

Segal, Williams e Teasdale (2002) hanno applicato le tecniche dimindfulness al trattamento cognitivo della depressione, ottenendo bril-lanti risultati rispetto alla prevenzione delle ricadute ed è facile preve-dere un allargamento di uso di tali tecniche ad altre patologie.

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2. DALLA CLINICA ALLA RICERCA DI BASE

Se la CogSci si dà l’obiettivo di comprendere il funzionamento dimente e cervello in condizioni naturali, è obbligata a confrontarsi con icasi di mal funzionamento. Tale confronto è ancora più ineludibile perle teorie che postulano un continuum fra funzionamento normale epatologico nei suoi diversi livelli di gravità.

La fenomenologia che caratterizza i diversi disturbi psicopatologicioffre un banco di prova irrinunciabile, pur se difficile e di irriducibilecomplessità. Un modello ben costruito del funzionamento mentale sanodovrebbe poter spiegare la varietà di forme in cui i deficit cognitivi edemotivi si manifestano nei disturbi psicopatologici. Prevedere le possi-bili compromissioni di una o più funzioni mentali, e la loro reciprocarelazione, può essere considerata come una modalità di validazione diuna teoria alla stregua dei modelli simulativi. Come nell’approcciosimulativo un programma ben costruito deve prevedere la gamma dierrori tipici del funzionamento umano, così una teoria che guarda allapsicopatologia deve prevedere possibili deficit presenti nei diversi di-sturbi noti. Per esempio, nel lavoro sul ragionamento deduttivo di Bara,Bucciarelli e Lombardo (2001) il principale punto di forza è che ilprogramma di simulazione riesce a riprodurre non solo la prestazione«perfetta», senza errori (cosa piuttosto semplice per un programma diintelligenza artificiale), ma anche gli errori caratteristici di diversi tipidi ragionatore. Il programma simula la prestazione di bambini, di ado-lescenti e di adulti (con diverse capacità di memoria), e per ciascunacategoria di «soggetti artificiali» è in grado di predire anche le rispostesbagliate, che risultano sorprendentemente equivalenti a quelle dei sog-getti umani.

Una prima area in cui si comincia a comparare il funzionamentonormale a quello patologico è quella della neuropsicologia. Grazie allosviluppo delle tecniche di neuroimaging, oggi è possibile mettere aconfronto i correlati neurali di soggetti sani e patologici durante l’atti-vazione di una specifica funzione mentale. Il confronto delle attivazionicerebrali si sta stabilendo come un’importante prova empirica di costruttiteorici (per esempio, la Teoria della Mente) che vogliano spiegarepatologie gravi quali l’autismo, la schizofrenia e così via.

L’attenzione per l’area clinica ha poi un secondo effetto importanteper lo sviluppo delle CogSci, quello di fornire un contesto ecologicoalle teorie di base. La tradizione della CogSci di cui Newell e Simonsono i massimi esponenti, è poco sensibile al contesto in cui i processimentali si verificano, preferendo delineare teorie generali valide indiversi domini. Quasi tutte le più importanti teorie non prestano partico-lare attenzione ai concreti ambiti di applicazione dei diversi processi,privilegiando la generalità rispetto all’aderenza al contesto in cui ifenomeni mentali prendono forma (primo fra tutti il corpo). Viceversa,

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il materiale clinico fornisce informazioni iperdettagliate su una varietàdi strutture mentali (sia cognitive che affettive) e di processi, permet-tendo di articolarne il funzionamento rispetto a contesti specifici. Risul-ta evidente dall’osservazione della psicopatologia che il funzionamentomentale si modifica a seconda del contenuto (ad esempio, tipi di pensie-ro e di emozioni), del contesto sociale (lavorativo, personale) e dellerelazioni (famigliare, psicoterapeutica). Gli studi sul processo in psico-terapia mostrano bene come le diverse disfunzioni non siano un feno-meno tutto o nulla, bensì si diversifichino in momenti diversi dellarelazione psicoterapeutica (Semerari 1999; Liotti 2001). Una maggiorattenzione al funzionamento contesto-specifico dei pazienti permette diancorare le funzioni cognitive all’ambiente in cui si esplicano e alla vitadi tutti i giorni. Il contributo che la clinica può portare ad una teoriadelle architetture cognitive e dei processi mentali consiste perciò nellapossibilità di restituire loro una complessità contestualizzata di cui imodelli teorici spesso sono privi.

Un’ulteriore influenza della clinica sulla CogSci consiste nello spin-gerla verso temi di alta rilevanza sociale. È con un certo sollievo che cisi sposta dalle pur benemerite applicazioni ergonomiche a quelle di benaltro impatto sociale, legate alla cura e alla sofferenza psichica. Se sonoimportanti i disagi delle macchine, nettamente più appassionanti sono idisagi degli uomini.

Per illustrare le potenzialità che una tale interazione può fornire insenso bidirezionale, dalla ricerca di base alla clinica e dalla clinica allaricerca di base, prenderemo ora in esame un’area di ricerca specifica incui questa interazione si è rivelata particolarmente fruttuosa: lametacognizione.

3. IL CASO DELLA METACOGNIZIONE

La storia e lo sviluppo del concetto di metacognizione rappresenta-no un esempio significativo di sinergia tra ricerca di base e ricerca inpsicopatologia. Lo scambio reciproco tra queste discipline ha permessodi rispondere ad alcuni quesiti teorici propri della ricerca di base e, allostesso tempo, di fornire utili suggerimenti per il trattamento dellapsicopatologia.

La struttura concettuale e i paradigmi sperimentali della metacogni-zione si sono delineati nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva,che ha sottolineato come la metacognizione sia fondamentale per losviluppo cognitivo, sociale e affettivo del bambino. Il terminemetacognizione è da attribuirsi a Flavell, uno psicologo dell’età evolutiva,che la definisce come la capacità di generare «pensiero sul pensiero».La definizione di Flavell (1979) nasce dall’osservazione che la mente

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degli esseri umani è in grado di pensare se stessa, possiede cioè lacapacità di costruire ed elaborare rappresentazioni mentali che abbianocome oggetto stati mentali. Nell’accezione di Flavell, per abilitàmetacognitive si intendono non soltanto le conoscenze che riguardanogli stati mentali (quindi le conoscenze emotive, interpersonali edepistemiche che caratterizzano i nostri stati mentali), bensì anche iprocessi di valutazione, controllo e regolazione che sulla base di taliconoscenze permettono di organizzare le risposte comportamentali. Peresempio, dalle conoscenze che possediamo sui nostri processi di memo-ria, possiamo stabilire quando è possibile smettere di memorizzarequalche cosa, dal momento che la traccia mnestica è ormai sufficiente-mente stabilizzata.

Sotto il nome di metacognizione si sono poi generate aree di ricercaspecifiche che indagano alcuni aspetti di tale funzione mentale come laTeoria della Mente e i suoi deficit, le conoscenze mnestiche e i sistemidi controllo dell’attenzione, i meccanismi d’apprendimento e la memo-ria. In ambito clinico lo sforzo è invece stato quello di considerare taleabilità in senso più globale e diversificato.

Nei prossimi paragrafi illustreremo come la ricerca sperimentaleabbia fornito validi strumenti concettuali in questo campo, utili ancheper la comprensione della psicopatologia e come, di ritorno, la clinicaabbia restituito alla ricerca di base una maggiore unitarietà e comples-sità per lo studio di tale funzione mentale. Descriveremo alcuni aspettiin cui la congiunzione di ricerca di base e ricerca clinica ha generatointeressanti riflessioni riguardo alla natura e allo sviluppo delle funzio-ni metacognitive. In particolare ci soffermeremo sulla discussione ri-guardo l’architettura cognitiva della metacognizione e riguardo allequalità relazionali indispensabili per il suo sviluppo.

Affronteremo infine un aspetto ancora poco indagato, che ci sugge-riscono gli studi sulla patologia, riguardo alla possibile dissociazionetra le abilità metacognitive alla I e alla III persona. A questo propositosottolineeremo come tale dissociazione, osservata nelle patologie, siarilevante nella generazione di ipotesi teoriche.

3.1. La natura della Teoria della Mente

Nella psicologia dello sviluppo il paradigma della Teoria della Mente(ToM) si è storicamente occupato di metacognizione. Con ToM ci siriferisce, secondo Premack e Woodruff (1978), alla capacità degli esseriumani di attribuire a sé e agli altri stati mentali, e di utilizzare talelettura mentalistica al fine di prevedere e spiegare il comportamento. LaTeoria della Mente si è perciò occupata dell’abilità di costruire rappre-sentazioni mentali che abbiano come contenuto stati mentali. In partico-lare, le ricerche in ToM si sono occupate di studiare la natura di tale

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funzione cognitiva, gli aspetti innati che la costituiscono e le modalitàattraverso cui si sviluppa nell’infanzia.

Riguardo alla natura della ToM le ipotesi più importanti sono lateoria della simulazione, la theory-theory e la teoria modulare. Ognunadi queste propone uno specifico modello su come tale capacità funzionie si sviluppi, e su quale architettura cognitiva presupponga. L’ipotesidella teoria della simulazione è che la capacità di attribuire stati mentaliagli altri si fondi sull’interpretazione dei nostri stessi stati mentali. Percomprendere il comportamento altrui eseguiamo perciò un’operazionedi identificazione, allo scopo di sentire/inferire cosa faremmo o senti-remmo noi in determinate circostanze, e sulla base di questa operazionesiamo in grado di inferire gli stati interni di un’altra persona (Goldman1993; Harris 1991). Secondo alcuni autori questo processo d’identifica-zione non farebbe però parte di un’elaborazione cosciente bensì di unaroutine che opera al di fuori della coscienza (Gordon 1986).

La theory-theory presuppone invece che gli individui costruiscanocon il passare del tempo una vera e propria «teoria» sulla mente e chetale teoria sia il risultato delle operazioni svolte da un meccanismoinferenziale che permette di formulare ipotesi sulla mente dell’altro.Secondo questa interpretazione i bambini si comportano nei confrontidel mondo come piccoli scienziati, generando cioè delle teorie sulfunzionamento del mondo e sulle relazioni causali tra gli eventi e gliagenti coinvolti (Gopnik e Meltzoff 1994). In questo senso l’esperienzacon l’altro rimane un aspetto fondamentale attraverso il quale i bambinimettono in atto capacità generali di costruzione e di revisione teoricarispetto al mondo, anche relazionale, di cui fanno parte.

In ultimo, secondo i teorici della modularità, la capacità di leggereil comportamento in termini mentalistici dipende da un meccanismocognitivo specializzato, costituito da una serie di moduli che si attivanodurante i primi anni di sviluppo, in fasi diverse. Questo meccanismomodulare ed innato ha la specifica funzione di permettere la formulazio-ne di rappresentazioni proposizionali riguardo agli stati mentali. Ilmeccanismo maturo per questo tipo di operazione viene chiamato ToMM(con due emme, Theory of Mind Mechanism) (Leslie 1994; Baron-Cohen 1995). I bambini maturano complessivamente la capacità diformulare meta-rappresentazioni sugli stati mentali (nella forma «Giannicrede/pensa/ecc. che p») intorno ai 4 anni d’età, come è stato dimostratonei classici compiti di Teoria della Mente detti delle false credenze(Wimmer e Perner 1983).

Molti dei risultati empirici prodotti dalla psicologia e dallaneurofisiologia danno ragione ad una o all’altra teoria. A questo propo-sito l’applicazione del concetto di Teoria della Mente allo studio deidisturbi psicopatologici ha fornito contributi importanti per l’avanza-mento nella riflessione teorica sulla natura di tale abilità. Un primodisturbo che è stato oggetto di studio nei lavori di ToM è quello

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dell’autismo. Ormai consolidate ricerche hanno sottolineato un deficitselettivo in ToM in soggetti affetti da autismo (Baron-Cohen, Leslie etal. 1985). Le persone con autismo sembrano avere difficoltà in compitidi ToM anche nei casi in cui le altre funzioni cognitive (capacitàmnestiche, intelligenza, ecc.) risultino nella norma; è questo per esem-pio il caso della sindrome di Asperger, disturbo simile all’autismo ma diminore entità.

Il caso dell’autismo ha rappresentato per molto tempo la dimostra-zione empirica di come la capacità di mentalizzare potesse considerarsiindipendente da altre competenze cognitive di base (i soggetti consindrome di Down infatti, a parità di QI, superano compiti di falsecredenze che gli autistici, per la maggior parte, non superano). Perquesto motivo i risultati dei bambini autistici sono stati usati a validazionedell’ipotesi di un meccanismo modulare ed innato che permette digenerare inferenze sugli stati mentali e che, in quanto modulare, puòessere selettivamente danneggiato, come nel caso dell’autismo.

Un’analisi attenta dei risultati ottenuti da soggetti che rientranonello spettro autistico, con livelli di gravità diverse (dal ritardo mentalefino agli idiot savant), rivela d’altro canto come la competenza in ToMnon sia un fenomeno tutto o nulla, bensì risulti scomponibile in diversesottofunzioni. Nei soggetti autistici ad «alto funzionamento» è ancorapossibile rintracciare un accesso agli stati mentali, sebbene questo siapiù limitato o non generalizzabile in tutte le situazioni di vita (Ozonoffet al. 1991; Bucciarelli, Colle e Bara 2001). L’osservazione delle patologiesembra rivelare la necessità di ragionare sulle diverse dimensioni ofunzioni in cui la capacità di ToM si compone, dimensioni che possonorisultare disfunzionali in maniera differente a seconda della severità deldisturbo.

Tale necessità è ancora più evidente quando si guarda ad altri distur-bi in cui sono riscontrabili deficit di mentalizzazione, spesso molto piùlievi e circoscritti rispetto all’autismo. Nel caso della schizofrenia èstata proposta, per esempio, una relazione tra quadri sintomatologicispecifici e deficit metacognitivi. In questo caso il deficit di ToM sembraessere sintomo specifico, è presente cioè in caso di sintomatologianegativa (ritiro sociale, alessitimia) ma non nel caso di sintomi positivi,quali deliri e allucinazioni (Frith 1992; Corcoran e Mercer et al. 1995).In aggiunta, i diversi studi sembrano concordare sul fatto che la gravitàdei comportamenti sintomatici di questi pazienti sia altamente correlataalle prestazioni più o meno deficitarie in compiti di ToM.

La definizione da parte della ricerca in psicopatologia di strumentipiù fini e più sensibili alla variazione delle capacità di mentalizzazione,ha inoltre evidenziato difficoltà specifiche di metacognizione nei di-sturbi di personalità (Fonagy et al. 1995; Dimaggio e Semerari 2003).Dal momento che in tali casi i deficit emergono in modo più sfumato espesso in relazione al contesto interpersonale, sono risultati più idonei

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strumenti di misurazione clinici (le interviste strutturate o l’analisi dellesedute psicoterapeutiche), per poter ottenere dei profili di malfunzio-namento tipici di questi disturbi.

In questo senso si rivela prezioso il modello proposto da Semerari ecollaboratori (Semerari 1999; Dimaggio e Semerari 2003) che scompo-ne le competenze metacognitive in diverse sottofunzioni che insieme,ma in modo indipendente, concorrono a rendere possibile un’interpreta-zione del mondo in termini mentalistici. Questo modello ha permessoagli autori di osservare alterazioni specifiche delle diverse sottofunzioninei quadri clinici caratteristici dei diversi disturbi di personalità (Semerari,in questo numero speciale).

I dati sulla psicopatologia, dall’autismo fino ai disturbi di persona-lità, sembrano perciò sostenere l’ipotesi della natura composita dellecapacità metacognitive e sottolineano la necessità di non guardare a talefunzione come a un fenomeno tutto o nulla quanto piuttosto ad unacapacità scomponibile in sottofunzioni. La natura composita dellametacognizione, come emerge dalla clinica, rappresenta perciò un irri-nunciabile punto fermo, non trascurabile dai teorici della CogSci.

3.2. La matrice interpersonale della metacognizione

Nell’ambito della discussione teorica sullo sviluppo delle capacitàmetacognitive, diversi lavori hanno sottolineato la necessità di guardaread un aspetto essenziale della mente umana: il suo carattere sociale.L’ambiente relazionale consente di comprendere come le funzioni men-tali individuali si organizzino durante lo sviluppo; questa attenzioneagli aspetti relazionali è a maggior ragione necessaria nel caso in cui lafunzione riguardi proprio la capacità di interpretare in termini mentalisticinoi stessi e gli altri. Rispetto alla metacognizione è stato dimostrato, peresempio, che il numero di fratelli e il gioco cooperativo tra fratellicorrela significativamente con l’acquisizione da parte dei bambini ditermini mentalistici (quali credo, penso, immagino e così via) e con lacapacità di comprendere le emozioni (Ruffman, Perner e Parkin 1999).Inoltre, lo stile genitoriale e il riferimento agli stati mentali da parte deigenitori sono strettamente correlati alla capacità di risolvere compiti diToM da parte dei bambini (Dunn 1991). Quando queste relazioni socialisono carenti o disfunzionali si osserva, viceversa, una maggiore diffi-coltà, da parte dei bambini, ad acquisire le conoscenze metacognitive ead usarle nei contesti appropriati. I comportamenti di trascuratezza daparte dei genitori così come la limitata esposizione alle relazioni sociali(come nei bambini sordi) possono essere alla base di deficit più o menoseveri delle capacità metacognitive.

Le teorie cliniche sull’eziopatologia forniscono interessanti modelliesplicativi di come le prime relazioni sociali possano influenzare lo

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sviluppo di competenze metacognitive e di quali elementi relazionaliabbiano più peso per tale sviluppo. La teoria dell’attaccamento di Bowlby(1988) che riguarda la qualità delle relazioni primarie, suggerisce comea determinate modalità di attaccamento possano corrispondere caratte-ristiche modalità di rappresentazione di sé e di sé rispetto all’altro.Attraverso la relazione con le figure di attaccamento il bambino puòprendere contatto con i propri stati mentali, regolarli nell’interazionecon l’altro e formulare inferenze sugli stati mentali altrui.

Alcuni lavori hanno perciò messo in relazione la qualità della rela-zione d’attaccamento e le capacità di mentalizzazione. L’ipotesi sem-plicistica di questi lavori è che la metacognizione sia «una conquistaintrapsichica ed interpersonale che emerge completamente solo nelcontesto di un attaccamento sicuro» (Fonagy et al. 1995). Alcuni datisperimentali mostrano una correlazione tra la sicurezza dell’attacca-mento a 4 anni e le capacità mentalistiche dei bambini. Inoltre la sicu-rezza misurata a 12 mesi sembra essere un buon predittore delle abilitàin compiti di ToM all’età di 4 anni (Fonagy et al. 1997; Meins 1997). Inun nostro recente lavoro abbiamo scomposto la relazione tra attacca-mento e metacognizione mostrando come stili di attaccamento diversisiano caratterizzati da risorse metacognitive diverse. I bambini conattaccamento disorganizzato, per esempio, hanno mostrato in alcunicompiti di ToM prestazioni simili ai bambini con attaccamento sicuro.La nostra spiegazione di tali sorprendenti risultati è che la qualità dellerelazioni significative possa potenziare o inibire lo sviluppo di alcunecapacità metacognitive a seconda della funzionalità che tali capacitàhanno in quello specifico contesto relazionale (Colle, Del Giudice eBara, in corso di stampa).

Sulla base della correlazione tra attaccamento e metacognizionenell’infanzia, sono state avanzate poi alcune ipotesi sulla relazione traattaccamento, metacognizione e psicopatologia. Partendo dall’osserva-zione che i pazienti con disturbo borderline hanno limitate capacità diautoriflessione, Fonagy e Target (1995) ipotizzano che tali deficitmetacognitivi siano il risultato di relazioni disfunzionali durante l’in-fanzia tra questi pazienti e le figure di attaccamento. In linea con taleapproccio, Liotti (2001) propone un modello evolutivo dei disturbidissociativi secondo il quale tali disturbi sono riconducibili ad esperien-ze d’invalidazione emotiva e relazionale a cui tali pazienti sono statisottoposti nelle relazioni di attaccamento. Sebbene la relazione traattaccamento e psicopatologia non sia da intendersi in senso deter-ministico, la teoria dell’attaccamento sembra spiegare come le relazionisignificative offrano un contesto interattivo fondamentale per uno svi-luppo ottimale della metacognizione.

I modelli clinici non si sono limitati a sottolineare la naturainterpersonale della metacognizione durante lo sviluppo, ma hannoanche mostrato come tale abilità sia fondamentale nel percorso

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psicoterapeutico. L’analisi delle sedute psicoterapeutiche evidenzia comei pazienti manifestino in seduta oscillazioni caratteristiche a secondadell’andamento relazionale. Le prestazioni metacognitive dei pazientirisultano perciò sensibili alla qualità della relazione con il terapeuta nelqui ed ora della seduta (Liotti 2001; Semerari 1999).

Più in generale possiamo considerare l’utilizzo di conoscenzemetacognitive da parte del paziente e del terapeuta come un elementofondamentale per qualsiasi tipo di psicoterapia. Affinché la terapia sidimostri efficace è necessario che il terapeuta abbia un buon monitoraggiosia dei propri stati mentali, sia di quelli del paziente, sia delle dinamichespecifiche emerse dalla loro relazione (Safran e Muran 2000). Allostesso modo la consapevolezza (o l’emergere di consapevolezza) daparte del paziente riguardo ai propri stati mentali e alle modificazioniche su questi si possono operare, risulta un elemento fondamentale perla buona riuscita della terapia. La consapevolezza metacognitiva è rico-nosciuta infatti come uno strumento ed uno scopo fondamentale delprocesso terapeutico, e molti interventi di cura lavorano proprio su unaumento di tale capacità attraverso la relazione terapeutica.

Queste osservazioni dei clinici sono di estrema rilevanza anche perla CogSci, in primo luogo per la generazione di ipotesi rispetto allosviluppo (funzionale e disfunzionale) delle capacità metacognitive. Inol-tre, permettono di ancorare le competenze metacognitive ai contestispecifici in cui si sviluppano. Tale ancoraggio garantisce un’analisinaturalizzata della metacognizione e permette di porre quesiti altrimen-ti impensabili per le CogSci, quali il domandarsi se lo sviluppo e laregolazione di funzioni cognitive di alto livello dipenda dal tipo diinterazione emotiva che il bambino ha agito sulla prima infanzia.

3.3. I e III persona

Dedichiamo l’ultima parte dell’articolo ad analizzare un tema dicrescente importanza generale, tanto poco trattato sperimentalmentequanto fondamentale nella pratica clinica.

La ricerca in Teoria della Mente si è prevalentemente concentratasulle capacità di leggere gli stati mentali altrui rispetto alle capacitàautoriflessive (la metacognizione in I persona). La maggioranza deglistudi sulle capacità di mentalizzazione ha ipotizzato un meccanismounico valido sia per accedere ai propri contenuti mentali sia per generareinferenze sui contenuti mentali altrui. L’ipotesi di un meccanismo unicoè sostenuta in primo luogo dall’approccio modulare. In questo caso lediverse metarappresentazioni che riguardano il soggetto («io penso chep») o il partner («Gianni pensa che p») sono generate da uno stessomodulo cognitivo innato che permette di formulare metarappresentazionispecifiche per gli stati mentali. Allo stesso modo la theory-theory sostie-

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ne l’esistenza di un comune meccanismo inferenziale in grado di elabo-rare metarappresentazioni in I e III persona. Secondo questa prospettivai propri stati mentali non sono percepiti direttamente, attraverso ela-borazioni propriocettive, ma vengono inferiti, dedotti ed attribuiti esat-tamente come quelli degli altri. Questo meccanismo cognitivo generalesubisce radicali cambiamenti durante lo sviluppo e raggiunge una pienamaturità solo intorno ai 4 anni d’età (Gopnik 1993).

La teoria della simulazione sottolinea invece il primato della Ipersona, sempre e comunque chiamata in causa durante l’osservazionedell’altro. I lavori sui mirror neurons hanno portato ad ipotizzare un«sistema multiplo di condivisione» (Gallese 2001) che riunifica a livel-lo di attivazione neuronale il Sé con l’Altro. Il sistema mirror permet-terebbe di mappare sullo stesso substrato nervoso azioni, emozioni esensazioni esperite personalmente o osservate negli altri. Non è previstaalcuna possibile dissociazione tra la I e la III persona e solo l’elabora-zione in I persona permette, in seguito, di ragionare in III persona(attraverso la possibilità di «mettersi nei panni di»). È stato dimostrato,ad esempio, come i bambini facciano gli stessi errori, dei compiticlassici di false credenze alla III persona, qualora venga loro chiesto diragionare rispetto alle loro stesse false credenze, possedute in qualchemomento precedente. Le fasi di sviluppo nella comprensione di test diTeoria della Mente sembrano perciò procedere in modo parallelo tra laI e la III persona (Gopnick 1993).

Nonostante l’approccio dominante sostenga l’esistenza di un mec-canismo comune che permette la formazione di metarappresentazioni(io penso che; egli crede che) valide per la I e la III persona, si èultimamente sviluppata una discussione sulla possibilità che le capacitàmetacognitive in I e III persona si sviluppino in modo parallelo madifferenziato l’una dall’altra (Meini 2001). Nichols e Stich (2002) pro-pongono l’esistenza di uno specifico meccanismo modulare (meccani-smo di monitoraggio) che permette l’elaborazione degli stati mentaliesperiti in I persona, che si svilupperebbe in modo indipendente daToMM, che rimane, nel loro modello, il modulo preposto all’attribuzio-ne di stati mentali alla III persona.

In linea con la posizione critica di Nichols e Stich rispetto all’esi-stenza di un meccanismo unico, riteniamo che le abilità metacognitivein I e III persona siano dissociabili, in quanto realizzate da distinteprocedure di elaborazione. Possiamo pensare infatti che mentre perl’autoriflessività sia necessario passare dall’esperienza corporea attra-verso cui lo stato mentale è veicolato e dalla memorizzazione di taleesperienza, nell’interpretazione dell’altro sia necessario un processoinferenziale di attribuzione di stati mentali a partire dall’osservazionedel comportamento. In questo senso è vincolante pensare a modalitàd’elaborazione almeno parzialmente autonome.

Anche in questo caso osservare come la metacognizione in I e III

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persona si articoli nei diversi disturbi psicopatologici può contribuirealla discussione teorica. Un primo studio sulle capacità autoriflessivedei soggetti autistici è stato condotto da Hurlburt (1994). È stato chiestoa tre soggetti adulti con sindrome di Asperger di compilare un diario dibordo, per diversi giorni, ogni qualvolta sentissero il suono di un beep.Tutti e tre riportarono prevalentemente le loro esperienze private intermini di immagini mentali, mentre gli adulti normali riportavanospesso non solo immagini mentali ma anche verbalizzazioni e ragiona-menti interni (Hurlburt 1990). Nonostante questi risultati evidenzinouna diversità di contenuti mentali riportati dai soggetti autistici rispettoai soggetti normali, è importante sottolineare come questi si sianodimostrati capaci di accedere alle loro esperienze interne. Gli autisticisembrano così conservare alcune capacità autoriflessive, nonostante leloro ben note difficoltà a fare inferenze rispetto gli stati mentali altrui.

Simili conclusioni si possono trarre dalla lettura di autobiografie dipersone a cui era stata attribuita una diagnosi di autismo durante l’etàdello sviluppo, per esempio nell’affascinante biografia di Temple Grandin(1995). Le osservazioni cliniche sembrano suggerire una buona capaci-tà dei soggetti autistici di accedere ai propri stati interni, nel qui ed ora,nel momento in cui vengono esperiti dal soggetto, ma allo stesso tempoevidenziano una difficoltà a conservare queste informazioni di carattereautobiografico in uno spazio di memoria emotiva a lungo termine.

Altri dati clinici sono inoltre consistenti con l’ipotesi di unadissociazione tra capacità metacognitive in I e III persona e sembranosostenere la proposta di Nichols e Stich riguardo all’esistenza di duemeccanismi autonomi e selettivamente danneggiabili. Uno studio cheha analizzato la relazione tra capacità di interpretare gli stati mentalialtrui e la consapevolezza dei propri stati mentali in pazienti schizofre-nici ha evidenziato alcuni casi di doppia dissociazione tra queste dueabilità. Alcuni soggetti hanno mostrato infatti buone capacità nei com-piti di falsa credenza e una scarsa consapevolezza riguardo le loro stesseintenzioni, viceversa altri pazienti hanno mostrato il trend opposto(buona autoconsapevolezza e scarsa ToM). Gli autori hanno tentato dicollegare queste dissociazioni alla sintomatologia specifica dei diversipazienti (Corcoran et al. 1995; Frith e Corcoran 1996).

Infine, anche nell’ambito dei disturbi di personalità, è stata ipotizzatauna diversificazione nelle capacità di mentalizzazione in I o III persona.Fonagy suggerisce che i pazienti con disturbo borderline, sebbene mo-strino delle difficoltà nella lettura dei propri stati interni, si possanodimostrare dei buoni lettori della mente altrui (Fonagy e Target 1995).

A convalidare i suggerimenti raccolti dagli studi clinici, vale la penacitare alcuni iniziali risultati di neuropsicologia che mostrano alcunedifferenze nell’attivazione cerebrale qualora i test di ToM richiedano diragionare sui propri stati mentali o su quelli di altri (Vogeley e Fink2003).

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Questi risultati iniziali sulla psicopatologia sono in linea con l’ipo-tesi che le capacità metacognitive in I e in III persona coinvolganoprocessi cognitivi diversi, attivino aree cerebrali diverse, possano esse-re selettivamente danneggiate, e siano dunque fra loro dissociabili.

4. CONCLUSIONI

La clinica, ben rappresentata dalla fenomenologia diversificata dipazienti e psicoterapeuti, è immersa nel mondo quotidiano. Questo suoessere nel folto degli alberi la porta molto spesso ad una difficileconsapevolezza di quale sia la geografia del bosco. Nonostante la suaintrinseca complessità essa rappresenta un’occasione per la CogSci diancorarsi a una dimensione ecologica finora sfuggita ai teorici dellamente e del cervello. La nostra proposta è infatti che l’attenzione allafenomenologia clinica costituisca un elemento fondamentale per la rea-lizzazione di un programma di naturalizzazione dello studio del menta-le. Lo studio della patologia si rivela estremamente proficuo nell’indi-care gli elementi (cerebrali, cognitivi ed interpersonali) indispensabiliper un corretto funzionamento mentale. Fino a oggi, nell’interazione frascienza e clinica, ci sembra che siano stati i clinici a sentire di più lanecessità di utilizzare i risultati della scienza cognitiva per la formula-zione dei loro modelli. Viceversa, gli scienziati si sono dimostrati restiiad affrontare la complessità insita nel materiale clinico, forse perchétroppo preoccupati a generare modelli astratti del nostro modo di fun-zionare.

Attraverso questo lavoro abbiamo voluto mostrare come la meta-cognizione sia un eccellente esempio di scambio tra clinica e ricerca dibase e come tale scambio sia vantaggioso da entrambe le parti. Lacomplessità insita nel materiale clinico offre, in questo campo, allaCogSci l’occasione per una migliore sistematizzazione teorica riguardoalla definizione (metacognizione, ToM, mentalizzazione), alla natura(funzione unica o sottofunzioni) e allo sviluppo (innato, modulare orelazionale) di una fondamentale capacità mentale. Allo stesso modo laclinica ha ricevuto dalla ricerca sperimentale una chiave di lettura moltoimportante per la definizione di modelli di malfunzionamento di diversidisturbi dello sviluppo (autismo) e dell’età adulta (schizofrenia, distur-bi di personalità). I deficit metacognitivi si sono rivelati importanti siacome elementi diagnostici che come indici di vulnerabilità allapsicopatologia, e hanno consentito lo sviluppo di protocolli d’interven-to psicoterapeutici volti proprio ad accrescere la capacità metacognitiva.

La presentazione del nostro caso esemplare vuole perciò essere unadimostrazione di come la CogSci non debba rinunciare all’indagine inambiti mal definiti, quali la fenomenologia clinica. Si tratta, invece, diripensare le metodologie standard della CogSci, sulla base di evidenze

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cliniche, magari formalmente non impeccabili, ma ugualmente convin-centi. Il premio per tale sforzo consiste nello sviluppare teorie che sianoin grado di rispondere ad un programma di naturalizzazione delle scien-ze umane, dove l’uomo è studiato nel suo contesto naturale d’interazione,senza riduzionismi rispetto a tutte le sfaccettature che l’esperienzasoggettiva presenta.

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Ringraziamo Cristina Meini, Maurizio Tirassa e Antonio Semerari per i commenticritici fatti alle versioni precedenti di questo lavoro.

Ricordiamo con gratitudine il contributo dato dalla Fondazione Molo al programmadi ricerca sulla metacognizione e l’attaccamento e il progetto finanziato del Ministerodell’Università e della Ricerca (FIRB, «Assessment dei disturbi della comunicazione inun’ottica riabilitativa», code n. RBAU01JEYW_001) che ha reso possibile la realizzazionedi alcuni lavori sperimentali citati nell’articolo e su cui si fonda la nostra riflessioneteorica.

Bruno G. Bara e Livia Colle, Centro di Scienza Cognitiva, Università e Politecnicodi Torino, Via Po 14, 10123 Torino. E-mail: [email protected] / [email protected]

202

203SISTEMI INTELLIGENTI / a. XVI, n. 2, agosto 2004

ANTONIO SEMERARI

DALLA CLINICA ALLA TEORIA.LE INDICAZIONI DELLA RICERCA SUI DISTURBI DIPERSONALITÀ RIGUARDO L’ARCHITETTURA E LE

FUNZIONI DELLA METARAPPRESENTAZIONE

1. INTRODUZIONE

Gli studi sulla capacità di sviluppare rappresentazioni di rappresen-tazioni mentali (d’ora in poi «capacità di metarappresentazione») sonostrettamente intrecciati alla ricerca clinica sulla psicopatologia grave:autismo (Baron-Cohen, Leslie e Frith 1985) e schizofrenia (Frith 1992).Sono queste patologie che, mostrando l’esistenza e gli effetti di gravideficit di tali abilità, hanno fatto risaltare, per contrasto, l’esistenza e ilvalore adattivo dell’attitudine umana a interpretare e prevedere glieventi attribuendo a sé e agli altri intenzioni, credenze, desideri, emo-zioni. Il successo di queste ricerche ha stimolato l’interesse dei cliniciper settori delle scienze cognitive come la Teoria della Mente (Baron-Cohen 1995; Leslie 2000) o la metacognizione (Flavell 1979; Nelson etal. 1999) che hanno come oggetto la capacità di comprendere e regolarestati mentali. Vista l’importanza di tale funzione per l’adattamento,alcuni autori hanno ritenuto che un suo disturbo, sia pure in forme menogravi di quelle presenti nell’autismo e nella schizofrenia, potesse con-tribuire a spiegare il permanere della sofferenza psichica, le difficoltà divita e i casi di mancata risposta alla cura in patologie meno gravi comei disturbi di personalità (Dimaggio e Semerari 2003; Fonagy 1991;Fonagy e Target 2001; Semerari 1999) e i disturbi d’ansia (Wells 2000).Il risultato è stato lo sviluppo di nuove ricerche e osservazioni cliniche,nonché una rilettura di osservazioni cliniche precedenti alla luce di ideee concetti nuovi. Ritengo che questo corpus di conoscenze possa, ormai,restituire il favore alla scienza cognitiva dando indicazioni e suggeren-do ipotesi rispetto al funzionamento normale della metarappresentazione.In questo articolo mi concentrerò sulle indicazioni che provengonodallo studio dei disturbi di metarappresentazione nei disturbi di perso-nalità (DDPP) rispetto a due questioni: l’architettura funzionale dellametarappresentazione e il ruolo delle sue diverse componenti nell’adat-tamento alla vita quotidiana.

204

2. L’ARCHITETTURA DELLA METARAPPRESENTAZIONE COME EMERGE DALLO

STUDIO DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ

2.1. Il livello funzionale

Gli studi sui DDPP indicano che la generale capacità di metarap-presentazione emerge dalle attività di sottofunzioni distinte e con unsignificativo grado di indipendenza reciproca. Prima di argomentare afavore di questa tesi è, però, necessario chiarire il livello funzionale incui le sottofunzioni di cui parleremo in seguito si collocano.

I maggiori studiosi dell’ontogenesi della Teoria della Mente (ToM)hanno ipotizzato l’esistenza di meccanismi modulari soggiacenti lacapacità di comprendere gli stati mentali. Leslie (2000) ha ipotizzato unMeccanismo della Teoria della Mente (ToMM) composto di duesottosistemi: il primo specializzato nella lettura finalistica dell’azione,il secondo, contenente nozioni mentalistiche come credenza o deside-rio, specializzato nell’interpretazione delle intenzioni. Baron-Cohen(1995) ha proposto quattro meccanismi che compongono il processo dilettura della mente, dove ToMM costituirebbe il modulo terminale a cuii primi tre (il rivelatore della direzione dello sguardo, il rivelatore diintenzionalità e il meccanismo di attenzione condivisa) fornirebberol’input. Recentemente Nichols e Stich (2002) hanno proposto un ulte-riore meccanismo modulare, il «meccanismo di monitoraggio» (MM),specializzato nell’attribuzione degli stati mentali alla I persona1. Questimeccanismi modulari semplici costituiscono la base senza la qualediventa impossibile lo sviluppo di una normale capacità di mentaliz-zazione; tuttavia essi non esauriscono tale capacità. Nelle prestazioni diun adulto normale il loro output viene reclutato da un insieme di proces-si cognitivi di ordine superiore che definiscono diverse capacità distintee interconnesse (Leslie 2000; Scholl e Leslie 1999). Tali capacità sonosoggette ad apprendimento e risentono fortemente di influenze culturali

1 La tesi di Nichols e Stich ha dato luogo ad una discussione tra i sostenitori di unmeccanismo autonomo per la lettura dei propri stati mentali e i sostenitori della theory-theory dell’autoconsapevolezza, secondo cui i medesimi meccanismi inferenzialivarrebbero tanto per la I quanto per la III persona. Gli stessi dati sperimentali inproposito hanno dato luogo a interpretazioni controverse (per una discussione, cfr.Falcone, Marraffa e Carcione 2003). Personalmente propendo per l’esistenza di entrambii meccanismi. I processi di autoattribuzione poggiano su input di tipo propriocettivo-somatosensoriale, assenti nel caso dell’attribuzione alla III persona (Damasio 1994;1999). È plausibile che i due meccanismi derivino filogeneticamente da linee evolutiveindipendenti, l’una deputata alla regolazione dell’omeostasi dell’organismo, l’altra alcontrollo dell’ambiente esterno. Ciò non toglie che, una volta che i due meccanismisiano stati reclutati all’interno di operazioni di ordine superiore diventi possibile, adesempio, attribuire ad altri esperienze propriocettive analoghe alle proprie o riconoscerein se stessi esperienze descritte da altri, in modo che si potenzino reciprocamente neldeterminare le capacità di metarappresentazione di una persona adulta.

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e interpersonali (Falcone, Marraffa e Carcione 2003). Le sottofunzionidi cui parleremo nel corso dell’articolo si collocano a questo livello.Mentre l’autismo e la schizofrenia possono mostrarci gli effetti di dannialle strutture modulari di base, i DDPP possono mostrarci gli effetti deidanni alle funzioni metarappresentative di ordine superiore. Non essen-do causati da difetti nelle strutture neurali soggiacenti, tali danni nonassumono la forma di un’assenza, ma di una relativa debolezza dellefunzioni. Inoltre, essendo queste soggette ad influenze ambientali erelazionali, la gravità del disturbo varia nel tempo e può migliorare aseguito di un trattamento psicoterapeutico (Semerari 1999). Tuttavia, inmolti casi, la debolezza funzionale può essere così pervasiva e compro-mettere tanto gravemente la capacità di vivere della persona da costitui-re clinicamente un vero e proprio deficit.

2.2. Le sottofunzioni e i loro disturbi

L’esistenza di una particolare sottofunzione metarappresentativa è,nel nostro caso, dedotta dall’osservazione clinica della sua assenza o diun suo disturbo. In questo paragrafo descriverò la fenomenologia clini-ca di alcuni disturbi di metarappresentazione e, sulla base della descri-zione del disturbo, proporrò una definizione della sottofunzione norma-le. Nei paragrafi successivi darò conto della letteratura clinica e diricerca che descrive tali disturbi. Non vi è ragione di ritenerla unadescrizione esaustiva. La ricerca clinica in questo settore è, al momen-to, in fase nascente, pertanto si può presumere che altre descrizioniverranno ad aggiungersi. Quelli che seguono vanno, perciò, consideratisoltanto i disturbi, per ora, più studiati.

Disturbi di monitoraggio

Alcuni tra i pazienti con DDPP presentano difficoltà a identificarele componenti emotive e ideative dei loro stati mentali e a mettere inrelazione le idee con le emozioni nonché idee o emozioni con eventiambientali e interpersonali. Tipicamente le loro narrazioni descrivonofatti e comportamenti con scarsi o vaghi riferimenti a stati o processimentali. Ad esempio:

Succede anche un altro fatto. Io l’anno scorso ho frequentato per un annol’esame di..., quando ero in aspettativa, da metà febbraio fino a fine maggio. Ioentravo in aula e sempre andavo allo stesso posto. Io per quattro mesi sempreallo stesso. Se qualcuno mi propone una cosa diversa... Mi hanno propostoquelli che stavano più al centro... io dovevo andare vicino a loro. Allora che hofatto? «Io sto qua, rimango qui vicino all’uscita e non vengo lì».

206

Quali pensieri o emozioni erano sottesi alla scelta di sedersi sempreallo stesso posto? Le narrazioni spontanee dei pazienti con disturbi dimonitoraggio non offrono questo tipo di risposte. Anche sollecitati,durante un colloquio psicoterapeutico, a riferire su ciò che pensano eprovano in un particolare momento non rispondono o forniscono rispo-ste incerte, vaghe, laconiche. Ad esempio:

P: Mia sorella insisteva perché andassi con lei ad una festa... Alla fine hodetto di sì. Poi, all’ultimo momento non ci sono andata.

T: Cosa pensava in quel momento?P: Niente, forse non avevo voglia di andare.T: Ricorda che emozione aveva?P: Non lo so... L’altra volta avevamo... aveva... detto che avrei dovuto...

sì... uscire... Quando dovevo prepararmi per uscire ho telefonato a mia sorellae le ho detto che avevo mal di testa.

La mente dei soggetti con disturbo di monitoraggio risulta, così,opaca a loro stessi e agli interlocutori, mancano le informazioni relativeai pensieri e alle emozioni che sottendono il comportamento.

All’inverso, la funzione di monitoraggio è quella con cui identifi-chiamo i pensieri e le emozioni che costituiscono un particolare statomentale e con cui percepiamo l’effetto dei pensieri sulle emozioni,l’effetto dello stato emotivo sul corso delle idee, nonché l’effetto deglieventi su entrambi.

Disturbi d’integrazione

Alcuni tra i pazienti con DDPP incontrano peculiari difficoltà afornire descrizioni coerenti di stati mentali, sia propri sia altrui. Contra-riamente ai pazienti con disturbo di monitoraggio, possono essere ingrado di riferire i contenuti di pensiero e le emozioni che costituisconoi singoli stati mentali. Quello che manca è un punto di vista integrativoche conferisca a tali contenuti un ordine e una gerarchia di rilevanza. Ildisturbo può evidenziarsi sia rispetto ai contenuti di singoli stati menta-li, sia rispetto alle relazioni tra stati mentali diversi. Nel primo casoparleremo di uno stato non integrato, nel secondo di stati non integratitra loro. Quando riguarda un singolo stato mentale, il disturbo di inte-grazione si manifesta con l’affollarsi confuso di temi di pensiero edemozioni disparate senza che emerga un qualche principio d’ordine oun criterio soggettivo di importanza. Ad esempio:

Eleonora mi ha chiesto d’accompagnarla. Siamo andati con la macchina.Adesso mi rendo conto che non sto prendendo né autobus, né metropolitana.Neanche insieme alle persone. Ho pensato che non ce l’ho fatta a fare questacosa e non ce la farò a fare niente. E ho provato fastidio verso mio padre. Non

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sopporto niente di quello che fa, di quello che dice. Mi sento che non riesco aseguire un filo logico parlando... non so. Mi sono sentita molto in colpa.Adesso mi è venuta in mente mia madre, il fatto che non riesco ad accontentarla.

Che c’entra il non prendere l’autobus col fastidio verso il padre equesto con la colpa e tutto questo col non riuscire ad accontentare lamadre? I temi possono essere tutti importanti, ma manca una contestualegerarchia di rilevanza. È da notare come, invece, il monitoraggio siabuono. La paziente accede ai propri pensieri e alle proprie emozioni e liriferisce. Il problema non è l’accesso ma l’ordine. In questi casi non siricava un’impressione di opacità ma di confusione. Tipica è la sensazio-ne di difficoltà nella scelta dell’argomento da trattare e su cui focalizza-re l’intervento. Cos’è importante in questo caso? Il non riuscire a pren-dere l’autobus? Il non riuscire a far nulla? Il rapporto col padre? Il sensodi colpa? Il rapporto con la madre? In altri casi l’incoerenza e lamancanza di integrazione si manifestano non attraverso la disparità ditemi, ma con la simultaneità di rappresentazioni diverse e contradditto-rie degli stati mentali propri ed altrui. Ad esempio:

P: Non riuscivo a prendere sonno, pensavo a farmi forza e al fatto che nonci riesco. Volevo solo abbandonarmi nelle braccia di qualcuno che fossedisposto ad accogliermi. Volevo svegliare i miei genitori e stare un po’ conloro, oppure andare in salone. Mi avrebbero sentita e mi avrebbero chiamata...Pensavo anche che si sarebbero arrabbiati perché li avevo svegliati, mi avrebberocriticata e non sapevo come avrei reagito.

T: Pensava che l’avrebbero criticata?P: Sì, pensavo che mi avrebbero detto «anche la notte devi scocciare» e mi

dà fastidio, mi viene un senso di rabbia perché è ingiusto. Vorrei che le coseandassero in un modo invece mi sentivo in colpa perché li faccio soffrire.

Anche in questo caso le capacità di monitoraggio sono buone e ciconsentono di farci un’idea molto chiara dei pensieri e delle emozionidella paziente. Contrariamente all’esempio precedente emerge un temadi fondo: il rapporto con i genitori. Tuttavia, in un brevissimo lasso ditempo, la mente dei protagonisti del rapporto viene rappresentata inmodi diversi e difficilmente integrabili. I genitori sono contemporanea-mente figure protettive ed accoglienti, critici sprezzanti e vittime delcomportamento della paziente che, al contempo, si descrive come bam-bina protetta, vittima di ingiustizie e colpevole della sofferenza deigenitori. Il risultato è che, come in tutti i deficit d’integrazione, lapaziente non riesce a dare una direzione al comportamento e restaparalizzata nelle sue iniziative.

Quando la non integrazione riguarda le relazioni tra diversi statimentali i pazienti non sono in grado di descrivere e comprendere letransizioni tra di essi e, come descritto da Kernberg (1975), possonooscillare tra descrizioni opposte di sé e dell’altro e della relazione senza

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mai stabilizzare un punto di vista integrativo. Ad esempio, nel corso diuna stessa seduta, una paziente descrive così la sua relazione col part-ner:

Poi c’è stato subito un feeling fortissimo tra noi, era come se già ci fossimoconosciuti, era come stare con un’altra me quando ero insieme a lui. Lui è statala prima persona ad accettarmi com’ero e quindi mi ha dato sicurezza. È statoun periodo bellissimo. Poi abbiamo continuato a stare insieme e tutto il resto...Comunque è sempre stata per me una storia tipo film... bella... I week-endinsieme, i regali inaspettati...

Poco dopo:

Penso che è un bastardo! Anzi magari ha anche da ridire, dopo che i mieilo hanno trattato come un figlio. E poi ho la sensazione che mi sfrutti perqualsiasi cosa; aveva bisogno di andare dal notaio e che ho trovato io, alloraera carino e disponibile, una volta arrivati lì mi ha trattata malissimo. Cioèogni tanto ho questa sensazione di essere sfruttata.

Il risultato dei disturbi di integrazione è l’impossibilità di dare unadirezione coerente al comportamento. All’inverso, l’integrazione puòessere definita come la capacità di riflettere sugli stati mentali e sui lorocontenuti per ridurre incoerenze e contraddizioni e stabilire priorità erilevanze in modo da determinare la direzione del comportamento.

Disturbo di decentramento/differenziazione

La letteratura psichiatrica, occupandosi del pensiero di tipo paranoi-co, ha descritto un peculiare disturbo dell’abilità di comprensione dellamente altrui. I soggetti che ne soffrono possono conservare la capacitàdi intuire i contenuti emotivi dell’altro. Ad esempio, possono essere ingrado di capire, in base ai segnali espressivi, se l’altro è allegro o tristeo preoccupato. È nel momento di spiegarsi le ragioni di questi statiemotivi che le loro interpretazioni diventano rigide, stereotipate e, spes-so, inverosimili. Agli altri viene attribuito un unico scopo: raggirare,umiliare o, comunque, danneggiare il soggetto. Allo stesso tempo nonsono mai attribuiti loro scopi, desideri o criteri di valore indipendentidalla relazione che hanno col soggetto. Questi pazienti vivono, perciò,in un mondo egocentrico in cui si sentono costantemente al centro diattenzioni e scopi malevoli, incapaci di comprendere che gli altri posso-no avere diverse prospettive da cui guardare il mondo. In altre parole,questi pazienti appaiono non in grado di decentrare da se stessi percomprendere gli stati mentali altrui. Ad esempio:

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Entro nei ristoranti e non posso far a meno di notare lo sguardo dellepersone presenti, me lo sento appiccicato addosso, ne sento il peso, mi guardanoe mi osservano, che cosa vogliono non si sa, faccio di tutto, dottore mi creda,per evitare la provocazione, ma appena alzo lo sguardo li trovo lì a ridere, sela divertono alle mie spalle.

All’inverso, il decentramento consiste nella capacità di attribuireagli altri una prospettiva di valori, interessi e scopi diversa dalla propriae indipendente dalla relazione col soggetto.

Colpisce, nell’esempio precedente, oltre al disturbo di decentramento,il grado di certezza soggettiva con cui viene percepita l’attenzionemalevola degli altri. Il disturbo di decentramento si accompagna spessoad un indebolirsi della consapevolezza della natura puramente rappre-sentazionale del pensiero. Ciò che viene pensato riguardo le intenzionidegli altri non è, per questi pazienti, una rappresentazione ipotetica,un’opinione soggettiva e opinabile, ma un dato di fatto, una descrizionedelle cose così come sono. Un aspetto rilevante della capacità dimetarappresentazione di un adulto normale è quello di saper differen-ziare tra classi diverse di rappresentazioni in base al vincolo di referen-za che si attribuisce loro rispetto alla realtà. Diventa così possibiledistinguere tra fantasie, timori, ipotesi, previsioni, osservazioni, ecc.Tale capacità conferisce una distanza critica rispetto alle proprie visionidel mondo che possono essere così trattate come rappresentazioni ipo-tetiche, piuttosto che come specchio del reale. Tale capacità risultagravemente compromessa nei soggetti con disturbo di differenziazione,i quali, anche quando non raggiungono un vero e proprio stato delirante,trattano le loro rappresentazioni egocentriche della mente altrui comeun dato di fatto ben poco discutibile.

Dati clinici che indicano l’esistenza di sottofunzioni distinte

L’ipotesi che la normale funzione di metarappresentazione emergadall’interazione di sottofunzioni distinte e semindipendenti trova con-ferma dalla clinica sui DDPP. Se le sottofunzioni fossero distinte e conun certo grado di indipendenza funzionale reciproca dovrebbero esiste-re situazioni cliniche in cui esse risultino singolarmente e selettivamentedisturbate. In questo caso dovrebbero darsi tre condizioni. In primoluogo, dovrebbero esistere osservazioni cliniche che descrivono distur-bi in specifiche sottofunzioni. In caso di indipendenza funzionale, talidescrizioni riguarderebbero solo il disturbo di una precisa sottofunzionee non un generale disturbo della metarappresentazione. In secondoluogo, la ricerca clinica dovrebbe poter individuare profili di malfun-zionamento metarappresentativo diversi in pazienti diversi. In altreparole, i pazienti con disturbi di metarappresentazione sarebbero

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distinguibili tra loro in base a quale tipo di funzione risulti specifica-mente disturbata. Infine, la ricerca dovrebbe individuare casi didisaccoppiamento, ovvero pazienti in cui risulti evidente il disturbo diuna o alcune funzioni e, insieme, il buon funzionamento di altre. La miatesi è che i dati clinici che possediamo sui DDPP realizzano queste trecondizioni.

Osservazioni di disturbi di specifiche sottofunzioni

La letteratura offre numerose descrizioni di disturbi di personalitàcaratterizzati da difetti, più o meno gravi di monitoraggio. I classiciprofili del narcisismo patologico descrivono questi pazienti come pronia stati di vuoto e incapaci d’accesso a scopi e desideri (Kohut 1971;1977). In particolare, i soggetti con disturbo narcisista di personalitàsarebbero incapaci di riconoscere i loro bisogni affettivi e di cura(Jellama 2000), avrebbero difficoltà a riconoscere le emozioni (Krystal1998), a sperimentare sentimenti di tristezza e di gioia (Cooper 1998) ea connettere i propri stati mentali con gli eventi di vita (Dimaggio et al.2002).

Disturbi di monitoraggio sono stati descritti anche nel disturboevitante di personalità (Millon 1991; Procacci e Popolo 2003). Beck eFreeman (1991) descrivono le difficoltà di questi pazienti a riportare iloro pensieri automatici, difficoltà che gli autori attribuiscono ad unastrategia attiva di evitamento cognitivo. Anche secondo Lorenzini eSassaroli (1995), gli evitanti gestirebbero invalidazioni e conflitti ridu-cendo attivamente l’elaborazione dell’informazione concernente il sé.Secondo Procacci, Dimaggio e Semerari (1999) il mancato riconosci-mento degli elementi emotivi e ideativi, tanto dei propri quanto deglialtrui stati mentali, impedirebbe a questi soggetti di cogliere ciò checondividono con altri esseri umani, condannandoli ad un sentimentocronico di non-appartenenza e non-condivisione.

Il disturbo della capacità a costruire metarappresentazioni integratedegli stati e dei contenuti mentali è stato al centro del dibattito suldisturbo borderline di personalità. Per Kernberg (1975) la caratteristicapatognomonica dell’organizzazione borderline sarebbe l’oscillazionetra rappresentazioni estreme e opposte di sé e dell’altro senza cheemerga un punto di vista integrativo. Secondo Ryle (1997), i pazientiborderline sarebbero danneggiati nelle funzioni metacognitive che per-mettono di essere consapevoli della transizione tra uno stato mentale el’altro. A causa di ciò transiterebbero rapidamente tra stati mentalispesso contraddittori e, comunque, non integrati. Liotti (1999) descrivequesti pazienti come soggetti ad avere simultaneamente rappresentazio-ni multiple e contraddittorie di sé e dell’altro. Secondo Dimaggio eSemerari (2001; 2004) in alcuni soggetti il disturbo d’integrazione

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danneggerebbe l’organizzazione narrativa del pensiero dando luogo astati mentali caotici, caratterizzati dall’affollarsi di pensieri ed emozio-ni diverse senza che il paziente sia in grado di percepirvi un ordine o unagerarchia. Disturbi delle capacità integrative sono, inoltre, stati descrittinel disturbo istrionico di personalità (Horowitz 1991) e nel disturbodipendente di personalità (Carcione e Conti 2003).

La difficoltà dei soggetti paranoici nel comprendere gli stati mentalidegli altri è stata descritta durante tutta la storia della psichiatria. Direcente Nicolò (1999; Nicolò e Nobile 2003) ha passato in rassegna laletteratura sull’argomento alla luce del concetto di disturbo di decen-tramento. L’autore ha suggerito, tra l’altro, una possibile spiegazionedel frequente rapporto che si riscontra clinicamente tra difetto didecentramento e disturbi deliranti del pensiero. La capacità di decentrare,ovvero di cogliere la prospettiva degli altri, costituirebbe un fattoreprotettivo rispetto allo svilupparsi di tematiche bizzarre e un fattorefavorente un atteggiamento critico verso il contenuto delle proprierappresentazioni. Il confronto con le diverse visioni del mondo attribui-te agli altri manterrebbe viva la consapevolezza della natura di purarappresentazione ipotetica del proprio pensiero. Venendo meno questofattore protettivo, i soggetti tenderebbero a perdere anche la capacità didifferenziare tra rappresentazione e realtà.

Dati di ricerca in psicoterapia relativi ai disturbi di specifichesottofunzioni

Mentre l’osservazione clinica ha fornito numerose descrizioni didiversi tipi di disturbi di metarappresentazione, la ricerca empirica, inquesto settore, si trova ancora ai primi passi. Una delle ragioni, a mioparere, è che gli strumenti utilizzati da clinici e psicoterapeuti perstudiare le capacità di mentalizzazione dei loro pazienti sono costruiti,di solito, considerando a priori la funzione come un tutto unitario. Nesono esempio la Scala della funzione riflessiva (Fonagy et al. 1996) e laScala dell’assimilazione dell’esperienza (Stiles et al. 1992). Questescale indicano, perciò, se un paziente o un gruppo di pazienti presentaun basso o alto livello di mentalizzazione, ma non colgono differenzequalitative tra pazienti diversi. Esse non dicono, in sostanza, se unaeventuale bassa mentalizzazione è dovuta, ad esempio, ad un difetto dimonitoraggio o a un disturbo d’integrazione o ad entrambi. Uno stru-mento costruito ad hoc per cogliere le differenze qualitative è la Scalaper la valutazione della metacognizione (SVaM) (Carcione et al. 1997;Semerari et al. 2001). Essa è stata ideata per analizzare separatamentel’andamento delle diverse sottofunzioni sui trascritti delle sedute dipsicoterapia. Un manuale di applicazione fornisce le indicazioni pervalutare se, in ogni singolo intervento del paziente, si evidenzia un

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fallimento, un successo o una non evidenza dell’uso di ciascuna singolafunzione. Il suo scopo è l’analisi delle variazioni funzionali nel corsodel processo psicoterapeutico. I vantaggi di analizzare le sedute dipsicoterapia sono molteplici. Da esse si può ottenere uno studio prolun-gato della metarappresentazione in un contesto dove le diverse funzionisono continuamente sollecitate dalle domande del terapeuta. Tali do-mande stimolano, nel corso del trattamento, all’esercizio di tutte le areefunzionali. Ad esempio, alcune («Cosa pensava»; «Cosa provava»)stimolano il monitoraggio degli elementi che compongono gli statiinterni; altre sollecitano spiegazioni mentalistiche del comportamento;altre invitano a riflettere sulle transizioni tra uno stato mentale e l’altro.In questo modo è relativamente facile individuare quando il paziente hasuccesso o quando fallisce nell’uso di una determinata sottofunzione.Su un numero abbastanza elevato di sedute diventa allora possibileindividuare le aree deficitarie in un singolo paziente. Si tratta, quindi, diun metodo concepito per l’analisi accurata di casi singoli (per ognipaziente vengono valutate, in media, 40 sedute), il cui limite, per questastessa ragione, è di essere poco adatto a ricerche che richiedono casistichenumerose. Tuttavia un’analisi affidabile di casi singoli può permettercidi testare l’ipotesi della differenziazione funzionale. Ricordiamo chetale ipotesi è da considerarsi corroborata se si dimostra l’esistenza diprofili diversi di disturbi della metarappresentazione e se si dimostra insingoli pazienti la presenza di disaccoppiamenti funzionali. La primacondizione si realizza se, confrontando i profili di due pazienti, è pos-sibile evidenziare che uno presenta disturbi in alcune funzioni e l’altroin funzioni diverse. La seconda si realizza se uno stesso paziente pre-senta alcune funzioni disturbate ed altre no. I risultati delle ricerchecondotte con la SVaM vanno, prevalentemente, in entrambe questedirezioni. Ad esempio, sono stati confrontati gli andamenti delle fun-zioni durante il primo anno di psicoterapia di un paziente con disturboborderline e di un paziente con disturbo narcisista (Semerari et al.2003a). Per tutto il periodo considerato il paziente borderline evidenziavanumerosi tentativi fallimentari di integrazione ma quasi nessun falli-mento di monitoraggio. Il paziente narcisista, invece, presentava un altonumero di fallimenti nel monitoraggio e pochi tentativi d’integrazionei cui fallimenti si concentravano nella parte iniziale della terapia. Pro-cacci et al. (2002) hanno confrontato il profilo metarappresentativo diun paziente con disturbo evitante di personalità con quello di un pazien-te con sola diagnosi di fobia sociale sull’Asse I. Il paziente evitantepresentava un evidente disturbo di monitoraggio, per tutto il periodoconsiderato. Tale disturbo risultava del tutto assente nel paziente consola diagnosi di fobia sociale. Alcuni dati recenti suggeriscono l’esi-stenza di profili diversi anche all’interno di una stessa categoria diagno-stica. Confrontando i profili di 4 pazienti con disturbo borderline,Semerari, Carcione et al. (2003) hanno trovato che 3 pazienti

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evidenziavano disturbi d’integrazione ma non di monitoraggio, mentreil quarto presentava disturbi su entrambe le sottofunzioni. Altri studi sucaso singolo confermano l’esistenza di disaccoppiamenti funzionali inaltre categorie di pazienti. Nicolò et al. (2002) hanno analizzato ilprofilo di un paziente con disturbo paranoide che presentava disturbidel decentramento e della differenziazione ma non disturbi nelmonitoraggio e nell’integrazione. Un grave disturbo di monitoraggiocon lieve difetto d’integrazione è stato descritto da Procacci et al.(2000) nell’analisi di un caso di disturbo evitante.

Un ulteriore elemento a favore dell’opportunità di distinguere tracompetenze funzionali diverse è legato al loro andamento nel tempo. Sele funzioni sono diverse dovremmo aspettarci che lo sia anche il loroandamento nel tempo e la loro risposta al trattamento psicoterapeutico,dato che è probabile che le differenti competenze metarappresentativesiano influenzate da fattori diversi e in diversa misura. Tutte le ricerchefin qui riportate indicano una tendenza ad andamenti diversi nel corsodella terapia. L’integrazione sembra essere soggetta ad oscillazionidrammatiche ed intense, con alternanza di periodi di grave disturbo eperiodi di relativo buon funzionamento. Il monitoraggio, all’inverso,mostra profili di miglioramento più lineari, con un lento e progressivoincremento delle capacità funzionali. Questi dati potrebbero indicareche l’integrazione sia un tipo di capacità che risente notevolmente delleinfluenze ambientali e relazionali mentre il monitoraggio dipenderebbemaggiormente dall’atteggiamento interiore del soggetto, il cui cambia-mento richiederebbe un costante e progressivo esercizio.

Pur essendo indicativi di un alto grado di indipendenza funzionale,i dati suggeriscono anche che tale indipendenza non è assoluta. Lo statoattuale della ricerca consente di ragionare unicamente sui rapporti tramonitoraggio e integrazione. Che si tratti di funzioni distinte è resoevidente da diversi esempi di disaccoppiamento in cui si evidenzianodisturbi d’integrazione senza alcun disturbo di monitoraggio. La do-manda, semmai, riguarda la misura in cui sono reciprocamente indipen-denti. Per avanzare risposte occorre analizzare più da vicino gli anda-menti nel tempo delle due funzioni nei diversi soggetti. I pazienti consolo difetto d’integrazione presentano un’elevata attività metarappre-sentativa. Essi compiono numerosi tentativi di monitoraggio, in generecoronati da successo, e numerosi tentativi di integrazione, di solitofallimentari. In parole povere, essi pensano costantemente al loro pen-siero, riconoscono idee e sentimenti, ma si confondono. I pazienti condisturbo di monitoraggio, invece, presentano una bassa attività meta-rappresentativa spontanea su tutte le aree funzionali. Essi pensano pocoal loro pensiero. I fallimenti di monitoraggio diventano evidenziabili,sui trascritti delle sedute, principalmente quando tale attività vienesollecitata dalle domande del terapeuta. L’integrazione risulta, nellamaggioranza degli interventi, non valutabile per l’assenza di tentativi. I

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pochi tentativi, nelle fasi iniziali della terapia, risultano, in maggioran-za, fallimentari. I successi nell’area dell’integrazione aumentano pro-gressivamente con l’aumentare dei successi nel monitoraggio. Al con-trario dei soggetti con solo disturbo d’integrazione, che vanno incontroad incrementi repentini e intensi dei successi nella funzione seguiti dapeggioramenti altrettanto drammatici, nei soggetti dove è presente di-sturbo di monitoraggio l’integrazione sembra seguire l’andamento linearedi quest’ultimo. In questi soggetti è possibile evidenziare relazionistatisticamente significative tra successi di monitoraggio e successid’integrazione nonché tra fallimenti di monitoraggio e fallimenti d’in-tegrazione. Nell’insieme i dati suggeriscono che, in alcuni soggetti, lafunzione d’integrazione sarebbe primariamente disturbata senza che ciòsi rifletta sul monitoraggio, in altri, il disturbo primario risulterebbe nelmonitoraggio. In questi casi l’integrazione sarebbe di per sé integra, manon potrebbe funzionare per mancanza di informazioni dalle attività dimonitoraggio. Se questi dati fossero confermati implicherebbero alcuneconseguenze per l’architettura della funzione di metarappresentazionedi ordine superiore. Essa sarebbe costituita da sottofunzioni distinte esemindipendenti, ma con delle asimmetrie nel grado di indipendenzareciproca. Il fatto che difetti d’integrazione possano non influire sulmonitoraggio ma non viceversa suggerisce un possibile ordinamentogerarchico in cui l’integrazione si colloca in posizione superiore e operasulla base delle informazioni che riceve dal monitoraggio.

Un’ulteriore questione riguarda la possibilità di individuare, conquesto metodo, eventuali disaccoppiamenti tra la I e la III persona. Seesistono, cioè, in uno stesso soggetto, differenze evidenziabili tra lacapacità di lettura della propria mente rispetto alla capacità di letturadella mente altrui. Da questo punto di vista, tanto le osservazioni clini-che, quanto le ricerche suggeriscono che il disturbo d’integrazione simanifesta su entrambi i versanti. Questi pazienti descrivono la propriamente e quella degli altri nello stesso modo caotico, frammentato econtraddittorio. Più incerta è l’interpretazione dei dati relativi almonitoraggio. Questi pazienti operano poco come psicologi ingenui, diconseguenza, almeno nelle fasi iniziali della terapia si evidenzianopochi tentativi di comprensione della mente altrui. In questa fase ledomande del terapeuta, nel contesto naturalistico della psicoterapia, siconcentrano sul monitoraggio dei propri stati, permettendo di mettere inluce il disturbo. Nelle fasi finali delle terapie di successo si assiste ad unmiglioramento nella capacità di lettura tanto della propria mente quantodi quella degli altri. Questo dato potrebbe significare sia un’identità difunzioni sia il fatto che due competenze diverse si rinforzano reciproca-mente. Nel secondo caso il paziente trasferirebbe alla comprensionedegli altri abilità acquisite nella conoscenza della propria. Un casoparticolare di disaccoppiamento funzionale tra I e III persona è dato,invece, dai disturbi di decentramento. Questi pazienti non presentano

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particolari difficoltà nel descrivere i propri stati mentali, quando non linascondono volontariamente a causa della loro sospettosità. Tuttavia simostrano incapaci di cogliere la molteplicità e la varietà di intenzioni escopi altrui. È da rilevare che, in questo caso, il disturbo si manifesta inmodo specifico rispetto all’attribuzione di intenzioni e scopi. Altricontenuti mentali, come ad esempio emozioni specifiche, possono esse-re attribuite agli altri in modo plausibile. È possibile che i metodi e glistrumenti attuali di ricerca non siano adatti a cogliere differenze più finitra I e III persona. Allo stato, i dati suggeriscono, comunque, che talidifferenze possono essere evidenziate in misura diversa a seconda dellaspecifica sottofunzione.

3. IL RUOLO ADATTIVO DELLE SOTTOFUNZIONI DELLA METARAPPRESENTAZIONE

L’affermazione che la metarappresentazione sia una funzione fon-damentale per vivere in un ambiente umano è, senza dubbio, vera magenerica. I pazienti con disturbi di metarappresentazione presentanotutti difficoltà di adattamento, ma il tipo di difficoltà cambia col cam-biare della funzione disturbata. Un ulteriore vantaggio della distinzionein sottofunzioni sta nel fatto che può aprirci la strada all’esplorazionedei diversi ruoli che ciascuna svolge nell’adattamento. La clinica puòfornire informazioni riguardo a questo problema da due fonti di dati. Laprima è costituita dalle difficoltà di adattamento note in quei disturbi dicui si conosce il profilo di malfunzionamento metarappresentativo. Se,ad esempio, sappiamo che nel disturbo borderline vi è una difficoltànello stabilizzare le relazioni e, allo stesso tempo, una difficoltà diintegrazione, potremmo interrogarci sulle relazioni che intercorrono trai due elementi. La seconda fonte sono i resoconti degli psicoterapeutisui loro stati mentali quando interagiscono con pazienti aventi un di-sturbo in una specifica sottofunzione. Safran (Safran e Segal 1990;Safran e Muran 2000) ha introdotto il concetto di ciclo interpersonaleproblematico per indicare il processo per cui una determinata attitudinepsicopatologica tende ad indurre negli altri reazioni che rinforzano lapsicopatologia. Dato che l’adattamento è fatto di interazioni che in-fluenzano e sono influenzate dal comportamento del soggetto, per com-prendere appieno un meccanismo disadattivo occorre conoscere l’effet-to che le manifestazioni del disturbo inducono negli altri e i circoliviziosi che così si generano. Da questo punto di vista la letteraturapsicoterapeutica ci offre informazioni preziose, attraverso i resocontidelle reazioni controtransferali e degli stati mentali indotti nei terapeutidall’interazione con determinati pazienti.

Considerando che la ricerca empirica sui profili metarappresentativiprototipici di ogni disturbo è appena agli inizi (cfr. Dimaggio e Semerari2003), ci soffermeremo solo su quelli più studiati e su cui vi è il

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massimo di convergenza tra risultati di ricerca e osservazioni cliniche.Si tratta dei disturbi evitante e narcisista di personalità, dove è presenteun difetto di monitoraggio, e del disturbo borderline, dove è presente undifetto d’integrazione.

3.1. Il ruolo del monitoraggio nell’adattamento

Abbiamo visto come disturbi nella capacità di riconoscere gli ele-menti che costituiscono gli stati mentali siano stati descritti nei disturbievitante e narcisista. Leggendo i criteri diagnostici del DSM IV (APA

1994) per i due disturbi si è colpiti dal loro carattere speculare. Nell’evi-tante è presente il timore pervasivo di giudizio e di rifiuto, nel narcisistal’aspettativa irragionevole di riconoscimenti e trattamenti speciali. Perl’evitante il manuale descrive il senso cronico di inadeguatezza, per ilnarcisista il senso di grandiosità di sé. Nell’evitante dominano l’imba-razzo e la vergogna, nel narcisista l’alterigia sprezzante, l’invidia e laconvinzione di essere invidiato. Pur nella loro opposizione i due distur-bi condividono una difficoltà di base nello stabilire relazioni inter-personali. Entrambi i tipi di pazienti si sentono diversi ed estraneirispetto alla quasi totalità delle persone e avvertono di non appartenereai gruppi sociali in cui si trovano ad operare. Gli evitanti l’attribuisconoalla loro inadeguatezza, i narcisisti alla loro superiorità, ma il sentimen-to cronico di diversità e non appartenenza è comune. Le relazioni intimein entrambi i disturbi sono rare o assenti, conflittuali o attivamenteevitate.

Le difficoltà di relazione descritte si riflettono anche nei rapportiche si instaurano nel corso di un trattamento psicoterapeutico. I cicliinterpersonali problematici che si creano nelle terapie di questi pazientisono stati descritti di recente da Procacci et al. (2003) per il disturboevitante e da Dimaggio et al. (2003) per il disturbo narcisista. Nellarelazione coi pazienti evitanti i terapeuti entrano frequentemente in statidi noia, disinteresse, apatia. Anche dopo molte sedute mantengono lasensazione di una conversazione stentata con uno sconosciuto. Tendonoa distrarsi, a sottrarsi al lavoro terapeutico vagando con la mente altrovee aspettando che il tempo trascorra. L’aspetto ciclico del processorisiede nel fatto che pazienti con un sentimento cronico di distanzainterpersonale inducano nei terapeuti stati mentali che, se non padro-neggiati, tendono ad aumentare la distanza interpersonale stessa. Nellaterapia dei narcisisti i cicli interpersonali presentano molte analogie. Ladifferenza è che il distacco si innesta su un fondo di irritazione. Ilterapeuta si trova ad ascoltare un paziente che espone teorie generali sulmondo e si sofferma su tutte le inadeguatezze altrui e i successi propri.Si chiede irritato cosa sia venuto a fare in terapia quel paziente e tendea disinteressarsi alle sue problematiche. Per evitare di irritarsi aperta-

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mente finisce col distrarsi dai contenuti del colloquio e con lo scivolarein uno stato di distacco mentale del tutto simile a quello descritto conl’evitante.

Riassumendo, evitanti e narcisisti presentano caratteristiche oppo-ste lungo diverse dimensioni ma condividono due aspetti fondamentali:la difficoltà nel formare relazioni intime e di appartenenza e il disturbodi monitoraggio metarappresentativo. È plausibile che tra i due aspettiesista una stretta relazione. L’esperienza di sintonia interpersonale conun altro nasce dalla percezione di condividere importanti contenutimentali come valori, desideri, preferenze, ricordi significativi, ecc.Analogamente il sentimento soggettivo di appartenenza ad un grupporichiede la percezione di atteggiamenti mentali condivisi in tutti i mem-bri del gruppo. Per percepire condivisione e appartenenza occorre,quindi, disporre di una metarappresentazione dei contenuti mentali pro-pri ed altrui per cogliervi gli elementi in comune. Per questa ragione undifetto di monitoraggio può esitare in un cronico sentimento di estraneitàe non appartenenza che induce i cicli interpersonali che lo mantengono.Il monitoraggio, all’inverso, sembra svolgere un ruolo adattivo fonda-mentale rendendo possibile la formazione di legami d’intimità e d’ap-partenenza.

3.2. Il ruolo dell’integrazione nell’adattamento

Le difficoltà d’integrazione dei soggetti borderline costituisconouno dei disturbi di metarappresentazione più osservato dai clinici.

Il DSM IV definisce il disturbo borderline come: «una modalitàpervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine disé e dell’umore e una marcata impulsività». L’instabilità costituiscedunque il tratto patognomonico del disturbo borderline. Da parte loro,gli psicoterapeuti che si sono interessati al disturbo concordano nelritenere che questa instabilità caotica si manifesti potentemente nellarelazione terapeutica (Clarkin, Yeomans e Kernberg 1999; Fiore eSemerari 2003; Linehan 1993; Liotti 1999; Ryle 1997). Contrariamentea quanto avviene con i pazienti che presentano disturbo di monitoraggio,nel terapeuta sono descritte tendenze all’ipercoinvolgimento, non aldistacco, che si manifesta attraverso stati mentali incoerenti e contrad-dittori. Ad esempio, egli può sentirsi, contemporaneamente, colpevoledi gravi negligenze e adirato verso un paziente che gli muove accuseingiuste senza riconoscere l’impegno e il sacrificio che i suoi sforziterapeutici comportano. Questi stati contraddittori, se non regolati daopportune operazioni di disciplina interiore, possono dar luogo a com-portamenti destinati ad aumentare la caoticità relazionale del paziente.

Il nesso fra disturbo di integrazione e caotica instabilità della con-dotta è, in buona misura, intuitivo. Una condizione limite di mancanza

218

di integrazione corrisponde all’esser prigionieri del flusso di rappresen-tazioni ed emozioni del momento senza un ordine di rilevanza. Privodella capacità di riflettere sulle differenze e le gerarchie tra stati mentalidiversi, il soggetto diverrebbe una collezione di stati giustapposti uno afianco dell’altro. Ciascuno di essi, nel momento in cui è attivo, verrebbevissuto come una totale e assoluta verità, salvo essere dimenticato nelmomento di transizione allo stato successivo. I clinici descrivono que-st’assenza di un punto di vista integrativo e ordinatore come debolezzadell’Io e dell’identità.

L’integrazione costituisce, all’inverso, la funzione attraverso cui èpossibile dare coerenza e continuità al comportamento. È da rilevare,però, che la capacità di integrazione non significa l’assenza di incoeren-za e contraddizioni tra stati mentali ma, al contrario, le presuppone.Proprio perché gli esseri umani sono intrinsecamente contraddittori edispongono di una capacità rappresentativa ed emotiva complessa, c’èbisogno di punti di vista metarappresentativi che stabiliscano le prioritàe i criteri soggettivi di rilevanza su cui operare le scelte, senza le qualiil comportamento rimarrebbe inconcludente. In questo senso lo scopoadattivo dell’integrazione non è tanto la coerenza della mente in sé,quanto la coerenza del comportamento.

Inoltre, l’integrazione è la funzione metarappresentativa che piùrisente delle funzioni cognitive. Ad esempio, non è possibile integrarese non vi è memoria e capacità di revocazione di stati mentali diversi daquelli del momento presente. Via via che ci si discosta dai meccanismimodulari di base verso le funzioni di metarappresentazione di ordinesuperiore il confine tra queste e il resto delle funzioni mentali tende asfumare. C’è il rischio di smarrire la specificità del settore? Su questopunto, il clinico ha pochi suggerimenti da offrire allo scienziato cognitivodi base e, a malincuore, si trova costretto a rinviargli il problema.

4. CONCLUSIONI

La clinica dei disturbi di personalità DDPP ci indica l’esistenza disottofunzioni di metarappresentazione distinte ciascuna con ruoli speci-fici nell’adattamento. L’interesse di questi studi risiede nel considerarele funzioni all’interno dei contesti reali di adattamento all’ambientesociale. Proprio per il carattere promettente di questa prospettiva vale lapena di considerare i limiti attuali della ricerca clinica in questo campoonde trarne motivo di miglioramento e di correzione. Il maggior limite,a mio avviso, è di natura teorica e riflette una notevole confusione nelladefinizione del campo. Molti studi e ricerche cliniche affrontano aspettispecifici del problema senza la consapevolezza di collocarsi in un piùgenerale ambito che concerne lo studio delle capacità di mentalizzazione.Che rapporto c’è, ad esempio, tra le ricerche sull’alessitimia e le appli-

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cazioni cliniche dei costrutti relativi alla metacognizione? Il fatto che sifatichi a rispondere a questo tipo di domande dimostra, a mio parere,l’incertezza degli autori nell’individuare il contesto problematico delloro lavoro e, di conseguenza, di dialogare con aree di ricerca affini. Nederiva una confusione di linguaggi e una sovrapposizione di concetti dacui non è facile districarsi e che richiederà un notevole lavoro di inter-pretazione e sistematizzazione teorica. Speculare a questo problema, èla tendenza ad occuparsi delle capacità di metarappresentazioni comeun tutto unitario senza specificare di quale aspetto si stia parlando. Leprove contrarie all’ipotesi olistica sono state discusse in tutto l’articoloe, pertanto, non vi torneremo sopra. Tuttavia occorre sottolineare chenon si tratta di una disputa puramente modellistica ma di una questioneche ha conseguenze pratiche sulla ricerca, sulla clinica e sulla terapia.Dal punto di vista della ricerca essa si riflette, ad esempio, nella scarsitàdi strumenti adatti ad indagare sulle singole sottofunzioni e sui diversiprofili dei disturbi. In questo modo la stessa discussione clinica rischiadi divenire confusa. Diventa arduo discutere, ad esempio, delle causedel disturbo di mentalizzazione nei soggetti borderline senza aver chia-rito in cosa questo disturbo consista. Altrettanto evidenti sono i proble-mi rispetto alla terapia. Se, come è probabile, le diverse funzioni sonoinfluenzate, positivamente o negativamente, da fattori diversi o in misu-ra diversa dagli stessi fattori, è evidente che qualsiasi intervento deveessere basato su una definizione precisa del profilo di malfunzionamento.Se la clinica può fornire indicazioni interessanti alla scienza cognitivaquesta può, a sua volta, continuare ad essere d’aiuto nel fornire metodie concetti per la risoluzione di questi problemi.

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Antonio Semerari, III Centro di Psicoterapia Cognitiva, Via Ravenna 9/c, 00161Roma

223SISTEMI INTELLIGENTI / a. XVI, n. 2, agosto 2004

ELISABETH PACHERIE TIM BAYNE

L’APPROCCIO EMPIRISTA AL DELIRIO:UN CHIARIMENTO E UNA DIFESA

1. L’APPROCCIO EMPIRISTA AL DELIRIO

Sembra che alcune persone, per altri versi razionali, credano coseassai strane. Talvolta sono convinte che qualcuno (di solito un parentestretto o un membro della famiglia, spesso il coniuge) sia stato sostituitoda un impostore. Talvolta credono di essere morte. Questi due deliri –il delirio di Capgras e il delirio di Cotard, rispettivamente – sono esempidi deliri monotematici, limitati cioè a temi estremamente specifici. Altrideliri monotematici sono la convinzione di essere continuamente segui-ti da un gruppo di individui che non puoi riconoscere perché camuffati(il delirio di Fregoli) o la convinzione che la persona che si osserva allospecchio è in realtà qualcun altro (falso riconoscimento di se stessi allospecchio).

Dal punto di vista della filosofia della psicologia i deliri sollevanomolte questioni interessanti. Ad esempio, il problema di stabilire il tipodi stati mentali a cui i deliri appartengono. Una concezione – sostenutada Jaspers (1963) e più recentemente da Berrios (1991) – afferma che,malgrado l’apparenza del contrario, i deliri non sono stati dotati dicontenuto. Talvolta questa concezione del delirio è chiamata teoriaespressivista (Gerrans 2001) o non-assertoria (Young 1999). Una se-conda teoria, recentemente sviluppata da Currie insieme ad altri studio-si (Currie 2000; Currie e Jureidini 2001; Currie e Ravenscroft 2002),asserisce che i deliri sono allucinazioni cognitive: sono stati dell’imma-ginazione che i deliranti scambiano per credenze. Non è chiaro se questistudiosi intendano estendere la loro teoria ai deliri monotematici, macertamente non vi è alcuna difficoltà a farlo1.

Malgrado l’importanza delle teorie dei deliri appena citate, in que-sto saggio non le prenderemo in considerazione, concentrandoci invece

Il materiale contenuto in questo saggio si basa in larga misura su Bayne ePacherie (2004a; 2004b).

1 Si veda Bayne e Pacherie (in corso di stampa) per una discussione critica dellateoria dei deliri proposta da Currie.

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su una controversia che ha avuto come protagoniste due teorie doxastichedei deliri monotematici. La prima afferma che i deliri monotematicisono credenze che vanno concepite come risposte in larga misura razio-nali a esperienze estremamente insolite. Seguendo Campbell (2001),denominiamo questa teoria l’approccio empirista ai deliri monotematici.

Alcune versioni dell’approccio empirista sostengono che l’unicodeficit imputabile al paziente è un’esperienza insolita e che la credenzadelirante è una risposta del tutto razionale a tale esperienza (Maher1999). Più comuni nella recente letteratura sono versioni bifattorialidell’approccio empirista, secondo le quali i deliri monotematici sonocostituiti da un’esperienza insolita unitamente a un bias sul ragiona-mento o a qualche altro tipo di deficit (Davies e Coltheart 2000; Davieset al. 2001; Ellis e Young 1990; Young 2000; Stone e Young 1997).Entrambe le versioni dell’empirismo sono concordi nel considerare ilpaziente delirante in larga misura razionale.

A nostro giudizio le teorie empiriste dei deliri monotematici sotto-scrivono le seguenti tre tesi:

(1) Tesi dell’eziologia dal basso: la causa prossimale della credenzadelirante è un’esperienza estremamente insolita.

(2) Tesi della razionalità: la credenza delirante è una risposta in largamisura razionale all’esperienza insolita del paziente.

(3) Tesi della conservazione del significato: i termini utilizzati dal soggettodelirante per esprimere la credenza delirante conservano il loro significatousuale.

Queste tre componenti possono essere collegate in vari modi, mauna storia plausibile è la seguente (la racconteremo con riferimento aldelirio di Capgras, ma se ne potrebbero immaginare di analoghe relati-vamente ad altri deliri monotematici). Il punto di partenza è il modelloa due componenti del riconoscimento delle facce di Ellis e Young,originariamente elaborato per spiegare la prosopoagnosia (Ellis e Young1990). Secondo questo modello il riconoscimento delle facce coinvolgedue vie di elaborazione di informazioni: i) una via visuo-semantica checostruisce un’immagine visiva che codifica informazioni semanticherelative alle caratteristiche facciali; e ii) una via visuo-emozionale cheproduce una specifica risposta emozionale al cospetto di volti familiari(il sentimento di familiarità). Nella prosopoagnosia la via visuo-semanticaè danneggiata, il che spiega l’incapacità da parte del paziente di ricono-scere le facce; la via visuo-emozionale rimane invece intatta, il chespiega perché i propoagnosici conservano la capacità implicita (covert)di riconoscere volti familiari2. Ellis e Young hanno ipotizzato che la

2 Si noti che la prosopoagnosia non è esattamente l’immagine allo specchio dellasindrome di Capgras giacché i prosopoagnosici hanno perduto il sentimento cosciente(manifesto) di familiarità nei riguardi di facce familiari.

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sindrome di Capgras possa essere l’immagine speculare dellaprosopoagnosia, con la via emozionale danneggiata ma la via visuo-semantica intatta. La credenza che un parente stretto è stato rimpiazzatoda un impostore costituirebbe una risposta del paziente all’esperienzainconsueta del volto del coniuge: il paziente riconosce che la moglie hale sembianze della moglie, ma la normale sensazione di familiarità èassente (vi è anzi una sensazione di non familiarità)3. Pertanto la tesi (1)ha una certa fondatezza.

In secondo luogo, si potrebbe pensare che (1) conferisca sostegno a(2). Vi sono due modi in cui è possibile sviluppare il collegamento tra(1) e (2) (cfr. Davies et al. 2001). Da un lato l’esperienza del pazientepotrebbe avere un contenuto che giustifica direttamente la credenzadelirante. Secondo questo modello il contenuto della percezione visivadella moglie da parte del paziente Capgras è, grosso modo, «la donnache sto guardando non è mia moglie». Il passaggio da questa esperienzaalla credenza delirante del paziente è affine al passaggio dall’esperienzavisiva che, poniamo, di fronte a voi c’è un cane, alla credenza che difronte a voi c’è un cane: potrebbe non esserci una perfetta corrispon-denza tra il contenuto dello stato percettivo e quello dello stato doxastico– forse il primo ha un contenuto non concettuale e il secondo uncontenuto concettuale – ma vi sarà comunque una relazione abbastanzastretta tra i due. Denominiamo questa concezione «modello dell’adesio-ne» (endorsement model) in considerazione del fatto che l’adozionedella credenza delirante richiede l’adesione doxastica al contenuto dellapercezione delirante.

Dall’altro lato il contenuto dell’esperienza del paziente Capgraspotrebbe essere meno ricco e non vertere affatto sul coniuge; forse talecontenuto è solo una strana sensazione che in modo contingente vienecorrelata con l’osservazione della moglie. Secondo questo modello ilpaziente adotta la credenza delirante nel tentativo di spiegare perchévive questa esperienza insolita ogni volta che guarda sua moglie. A uncerto livello egli pensa fra sé e sé: «la ragione per cui vivo questa stranaesperienza ogni volta che guardo questa persona è perché è un imposto-re». Secondo questa versione esplicativista del modello a due compo-nenti, è meno imperativo ritenere che l’esperienza percettiva del pa-ziente codifichi il contenuto del delirio di Capgras.

3 Si noti che in base a questa spiegazione ci si potrebbe aspettare che pazienti chemanifestano il delirio di Capgras soffrano anche del delirio dei doppi soggettivi (lacredenza che esistano duplicati di se stessi), o quanto meno di falso riconoscimento dise stessi allo specchio (scambiare la propria immagine allo specchio per un’altrapersona), dal momento che il paziente Capgras presumibilmente non avrebbe l’esperienzanormale della familiarità osservando il proprio volto allo specchio. In effetti, il deliriodi Capgras e il delirio dei doppi soggettivi sono frequentemente associati (Weinstein1996). Ad esempio, uno dei pazienti originariamente indagati da Jean Marie JosephCapgras, sperimentò anche il delirio dei doppi soggettivi.

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È importante rilevare che la distinzione tra il modello dell’adesionee quello esplicativista è indipendente dalla distinzione tra versioni mono-e bi-fattoriali dell’empirismo (cfr. Davies et al. 2001). Le versionimonofattoriali dell’empirismo sostengono che le uniche compromissionisofferte dai pazienti deliranti sono di ordine percettivo: i loro processidi fissazione delle credenze – vale a dire i processi che assumono iningresso stati percettivi per generare in uscita stati doxastici – operanonormalmente. Le teorie bifattoriali sostengono invece che i pazientideliranti hanno processi di fissazione di credenze anormali. È un errorepensare che i modelli dell’adesione siano – o debbano essere sviluppatiin termini di – teorie monofattoriali. È infatti possibile sviluppare unmodello dell’adesione anche in termini bifattoriali. Gli individui nor-mali sono in grado di inibire la prepotente tendenza a credere ciò chepercepiscono (si pensi, ad esempio, all’illusione di Müller-Lyer.) Forsealcuni pazienti deliranti hanno deficit a carico dell’inibizione di questarisposta prepotente. E i modelli esplicativisti sono compatibili tanto conle spiegazioni monofattoriali che con quelle bifattoriali. L’esplicativistafarà ricorso a un’anomalia del processo di fissazione delle credenzesolo nel caso in cui ritenga che un individuo normale non si formerebbe(e non manterrebbe) il tipo di spiegazione delle esperienze insolite chei pazienti deliranti si formano (e mantengono).

Infine si può ritenere che (2) fornisca sostegno a (3). Nella misura incui la credenza delirante è sostenuta dalle esperienze della persona – odirettamente (come vuole il modello dell’adesione) o per mezzo diun’inferenza abduttiva (come vuole il modello esplicativista) – è possi-bile conservare un’interpretazione letterale delle sue parole. In effetti,Stone e Young (1997, 357) ritengono che questo sia un vantaggioimportante della teoria empirista: «è stato l’onere della nostra spiega-zione del delirio di Capgras concepirlo come un’interpretazione com-prensibile (ossia sensata) di un deficit percettivo». I sostenitori delleversioni bifattoriali dell’empirismo concordano che i pazienti delirantinon sono completamente razionali – essi riconoscono che tali pazientinon sempre sono sensibili alle tensioni sussistenti fra la credenza deli-rante e le loro altre credenze nei modi in cui dovrebbe esserlo unapersona razionale; tuttavia negano che questi allontanamenti dalle nor-me della razionalità siano talmente gravi da minare la tesi della conser-vazione del significato.

2. LA CRITICA DI CAMPBELL ALLE TEORIE EMPIRISTE DEI DELIRI MONOTEMATICI

Malgrado la crescente popolarità, le teorie empiriste sono statecriticate da vari autori. Un tipo di critica consiste nel far osservare chel’approccio non è generalizzabile oltre una gamma ristretta di delirimonotematici. Ad esempio, è estremamente improbabile che si possa

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sviluppare un’analisi empirista della credenza delirante che il proprioorecchio sinistro è un secondo, fertile utero (Klee 2004).

A questa obiezione l’ovvia risposta empirista consiste nel restringe-re la gamma dei deliri a cui si applica la spiegazione. Non vi è ragionedi attendersi che vi sarà un’unica spiegazione per tutti i deliri. In effetti,non vi è ragione di pensare che il concetto di delirio sia ben definito. Èben noto che vi sono molti problemi nelle definizioni ufficiali di delirio,come quelle contenute nel DSM-IV. Invece di supporre che una spiega-zione di alcuni deliri debba essere generalizzabile a tutti i deliri, sembrapiù ragionevole tentare di spiegare deliri specifici, come il delirio diCapgras (senza dubbio anche questo approccio è problematico dal mo-mento che non è sempre chiaro quali sono le condizioni dell’attribuzio-ne del delirio di Capgras. Ad esempio, una persona potrebbe credere cheil coniuge è stato sostituito da un impostore senza per questo soffrire deldelirio di Capgras).

Un’obiezione più incisiva alle spiegazioni empiriste è stata recente-mente formulata da John Campbell (2001), il quale sostiene che l’ap-proccio empirista non può fornire una spiegazione soddisfacente nem-meno del delirio di Capgras.

Secondo la nostra interpretazione della sua posizione, Campbellrifiuta (1), (2) e (3). A suo giudizio i deliri monotematici non sonorisposte in larga misura razionali a esperienze insolite e i termini in cuiil paziente esprime la propria credenza non conservano il loro significa-to usuale.

Iniziamo dalle critiche di Campbell a (1), la tesi dell’eziologia dalbasso. L’autore afferma che la semplice mancanza di emozioni quandosi percepisce una donna non equivale di per sé al possesso della perce-zione di un contenuto particolare, tanto meno il contenuto «che la donna[percepita] non è quella donna [ricordata]» (p. 96). Secondo Campbellè assai dubbio che un’esperienza possa avere un simile contenuto senzaun caricamento dall’alto (top-down loading), dove per «caricamentodall’alto» l’autore sembra intendere il processo attraverso cui lo statopercettivo eredita il contenuto dalla credenza. Tuttavia, se è necessarioricorrere al caricamento dall’alto, per l’empirista i giochi sembranochiusi: infatti, se l’esperienza anormale eredita il contenuto da unacredenza delirante, l’empirista non può ricorrere al contenuto degli statipercettivi del paziente per spiegare perché quest’ultimo si forma lacredenza delirante.

Consideriamo innanzitutto la tesi secondo cui la mera mancanza diemozioni nella percezione della moglie da parte del paziente non equi-vale di per sé al possesso della percezione di un contenuto particolare.Noi riteniamo che questa tesi sia corretta: non si deve confondere lamancanza di esperienza con l’esperienza di una mancanza. Tuttaviapensiamo altresì che la mancanza di emozioni possa generare assaifacilmente l’esperienza di una mancanza di emozioni. Qui può essere

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utile istituire un’analogia con l’esperienza di pazienti che soffrono diacromatopsia cerebrale, la perdita della visione dei colori in seguito allalesione della corteccia extrastriata. L’acromatopsia cerebrale è interes-sante sotto almeno tre aspetti. Primo: le persone che sviluppanoacromatopsia cerebrale riferiscono di vedere un mondo monocromatico,costituito esclusivamente da sfumature di grigio. Sarebbe sbagliato (oquanto meno fuorviante) affermare che la loro esperienza visiva diffe-risce dall’esperienza visiva dei soggetti con visione dei colori normalesolo in quanto manca dell’esperienza del colore. L’esperienza visiva diquesti pazienti ha invece il contenuto che le sfumature di colore sonostate sostituite da sfumature di grigio. Secondo: questi soggetti sonoperfettamente consapevoli del fatto che la loro esperienza visiva delmondo è diversa da quella che era prima dell’insorgenza della lorocondizione. Terzo: dal momento che questi soggetti molto spesso sonoanche incapaci di immaginare o ricordare i colori (Farah 1988), laconsapevolezza del loro deficit non è basata su un confronto tra l’espe-rienza attuale e le esperienze dei colori rievocate consciamente; sembrainvece fondata sulla metamemoria4. Analogamente, proponiamo, i pa-zienti Capgras non mancano semplicemente di esperire l’emozione difamiliarità quando vedono la persona a cui sono legati affettivamente;piuttosto, il normale sentimento di familiarità è stato sostituito da unasensazione fastidiosa di non familiarità ed estraniazione.

Tuttavia vi è una differenza importante tra il delirio di Capgras el’acromatopsia: mentre il paziente affetto da acromatopsia è consapevo-le dei particolari attributi percettivi che ha perduto, il paziente Capgrasè incapace di dire precisamente cosa è mutato nella sua esperienza.Malgrado ciò, i pazienti Capgras sembrano rendersi conto che qualcosaè cambiato nella natura delle loro esperienze, dal momento che spessofanno riferimento al contenuto di tali esperienze per giustificare le lorocredenze deliranti. Un paziente Capgras osservò: «vi è qualcuno simileal doppio di mio figlio che non è mio figlio. Posso riconoscere miofiglio perché mio figlio è differente, ma devi essere rapido a notarlo»(Young et al. 1993, 696; vedi anche Merrin e Silberfarb 1976). Lostesso è vero per i pazienti affetti dalla sindrome di Cotard: «ciò che ipazienti [Cotard] spesso forniscono come prova della loro inesistenza omorte è che non hanno sentimenti appropriati» (Young e Leafhead1996, 149).

Campbell potrebbe concedere questo punto e tuttavia sostenere cheun’esperienza non potrebbe avere il contenuto «ora ho una strana sensa-zione di non familiarità» senza avere il contenuto «questa donna [perce-pita] non è quella donna [ricordata]». Potrebbe inoltre affermare che

4 Un tipico caso di metamemoria è sapere che si conosce il nome di una certapersona e sapere che il suo nome non è, poniamo, Jones, ma allo stesso tempo nonessere in grado di recuperarlo.

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un’esperienza visiva non può avere quel contenuto senza caricamentodall’alto. A questo punto Campbell potrebbe rinviarci al paziente che,osservando una fila di lapidi vuote, delirava che il mondo stesse perfinire. Come egli stesso evidenzia, è difficile comprendere come unapersona potrebbe avere un’esperienza dotata del contenuto che il mon-do sta per finire senza caricamento dall’alto (p. 96). In modo simile, sipotrebbe sostenere che non si può avere un’esperienza dotata del conte-nuto che una persona percepita non è una persona ricordata senza che visia caricamento dall’alto, giacché i concetti implicati in questa espe-rienza non sono sensoriali.

Qui vi sono due questioni da affrontare. La prima è la questione sela teoria bifattoriale debba accogliere la caratterizzazione del contenutodello stato percettivo del paziente delirante proposta da Campbell. Laseconda questione è se questo studioso abbia ragione nel ritenere cheuno stato percettivo non possa acquisire quel contenuto senza caricamentodall’alto. Affronteremo queste questioni una alla volta.

Un sostenitore di quella che abbiamo chiamato la versioneesplicativista del modello bifattoriale non deve necessariamente acco-gliere la tesi secondo cui la percezione del paziente ha il contenuto«questa donna [percepita] non è quella donna [ricordata]». Questi mo-delli ritengono che il contenuto della percezione del paziente sia moltopiù povero, qualcosa come «questa persona appare un po’ strana».Secondo questa concezione, il teorico bifattoriale non deve spiegarecome l’esperienza visiva del paziente possa avere un contenuto nonsensoriale, perché a suo giudizio non ce l’ha. Questo non significasostenere che l’opzione esplicativista non abbia problemi – si potrebbesenz’altro discutere la (presunta) razionalità dell’inferenza abduttivadel paziente – e tuttavia non deve fronteggiare questo particolare pro-blema (l’esplicativista ha il difficile compito di spiegare perché il pa-ziente compie proprio quella particolare inferenza abduttiva, ma hameno difficoltà a fornire una spiegazione del contenuto dello statopercettivo del paziente. Il sostenitore della teoria dell’adesione ha ilproblema esattamente opposto: spiegare come l’esperienza percettivadel paziente possa acquisire il contenuto del delirio di Capgras).

Il fatto che l’esplicativista possa bloccare la prima obiezione diCampbell non ci conforta più di tanto data la scarsa attrattiva cheesercita su di noi la versione esplicativista della teoria bifattoriale.Preferiamo invece l’approccio bifattoriale nella versione in termini diadesione, secondo cui la percezione visiva del paziente ha il contenuto«questa donna [percepita] non è la persona a cui penso come miamoglie», o qualcosa di molto simile a questo. Di conseguenza, è neces-sario spiegare come uno stato percettivo può avere questo contenutosenza ereditarlo dalla credenza che la persona che si sta osservando nonè la persona che si ricorda come la propria moglie.

Il problema centrale qui è come il paziente Capgras pensa al coniu-

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ge. Una possibilità è che pensi a sua moglie come «chiunque produce inme quella risposta emotiva». Campbell rifiuta questa proposta dal mo-mento che «non è di fatto il modo in cui noi comunemente pensiamo allenostre consorti. In realtà, tendiamo a pensarle in base ai ricordi cheabbiamo di loro» (p. 92). E ciò a cui lo studioso sta pensando sonoricordi episodici, articolabili proposizionalmente, di episodi passati diuna vita in comune.

A nostro parere, qui Campbell può star dando troppa enfasi all’im-portanza dei ricordi episodici articolabili proposizionalmente esottostimando il ruolo della memoria emotiva. I deliri dei pazientiCapgras riguardano soprattutto parenti stretti, persone amate. È senz’altropossibile che trascorriamo più tempo nel corso della nostra vita insiemea colleghi piuttosto che con la nostra famiglia e che condividiamo conloro tanti ricordi episodici quanti ne condividiamo con i nostri parenti.In tal senso, i colleghi possono essere tanto familiari quanto i parenti.Eppure, per quanto ci possano piacere i nostri colleghi, normalmente ilegami affettivi con i parenti stretti sono molto più forti. Può essere veroche in genere il modo in cui pensiamo alle altre persone non è basatosulla risposta emotiva che producono in noi, ma le emozioni sembranosvolgere un ruolo cruciale nel modo in cui pensiamo ai nostri familiari.Normalmente si pensa al coniuge come alla persona che si ama (o siodia nelle relazioni infelici). Quando pensate alla vostra consorte allaluce dei ricordi che avete di lei, i ricordi episodici che vengono allamente tendono a essere ricordi di episodi emotivamente significativi,vale a dire sia episodi in cui la risposta emozionale alla vostra consorte– o di quest’ultima nei vostri confronti – ha svolto un ruolo importante,sia episodi in cui la condivisione di risposte emotive nei riguardi di unterzo oggetto ha consolidato il legame. I ricordi episodici possonoessere importanti per il modo in cui si pensa alla propria consorte nontanto di per sé ma nella misura in cui fungono da guide (cues) per larievocazione di ricordi emotivi. Il sospetto di Campbell che l’esperien-za dei pazienti Capgras possa non avere il contenuto «questa donna[percepita] non è quella donna [ricordata]» può essere immotivato se,come suggeriamo, i ricordi dei parenti sono di regola profondamentecarichi di emozioni.

Forse la preoccupazione di Campbell è che il riferimento a individuiparticolari non può entrare a far parte del contenuto percettivo. Anchequesta preoccupazione – che potrebbe non essere quella di Campbell –sembra essere infondata. Immaginiamo di conoscere due gemelli iden-tici: Jules e Jim. Potete distinguere Jules e Jim semplicemente guardan-doli, ma non avete alcuna idea di come riuscite a farlo. L’algoritmoutilizzato dal sistema di elaborazione delle facce per discriminare Julesda Jim non è disponibile all’introspezione. Tuttavia è chiaro che riuscitea discriminarli. Guardando Jules dite a voi stessi «è Jules», e questogiudizio è giustificato dal fatto che fa parte del contenuto dello stato

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percettivo che l’oggetto della percezione attuale è Jules (e non soltantoqualcuno che è qualitativamente indiscernibile da Jules).

Ci rivolgiamo ora alla seconda e alla terza obiezione che Campbellrivolge all’approccio empirista. Lo studioso sostiene che la spiegazioneempirista non coglie la forza della relazione tra razionalità e significato.Sulla scorta di Quine, Campbell sostiene che esiste un nesso costitutivotra la conoscenza del significato di un termine o concetto e l’uso deltermine o concetto nel ragionamento. Più precisamente, la sua tesi è chel’uso che si fa di un termine o concetto nel ragionamento deve, in modosistematico, dipendere causalmente dal significato che gli associamo.Dato questo nesso costitutivo, se l’uso che si fa di un termine nelragionamento è sufficientemente diverso dall’uso canonico di questotermine, diviene opinabile che se ne colga davvero il significato.

Secondo Campbell, anche se il paziente ha un’esperienza dotata delcontenuto «questa donna [percepita] non è quella donna [ricordata]»,formarsi la credenza che questa donna percepita non è quella donnaricordata non è razionale. Quando il paziente passa dall’esperienza allacredenza, dovrebbe prendere in considerazione anche le sue altre cre-denze (ed esperienze); in breve, dovrebbe verificare il giudizio:

Come si dovrebbe procedere per verificare tale giudizio? Si dovrebbecontrollare che la donna che attualmente si percepisce sia davvero la donnariguardo alla quale si hanno attualmente tutti questi ricordi. E il modo canonicodi far ciò sarebbe quello di discutere quegli eventi passati. Non è necessarioche i ricordi coincidano su ogni punto, e neppure che siano ricordi corretti; èperò necessario che i ricordi derivino riconoscibilmente dagli stessi episodi.Dal momento che il paziente non impiega questo metodo per controllare chi èla persona che si trova di fronte a lui, sembra essere diventato incapace dicomprendere il significato della parola (Campbell 2001, 91).

Poiché il paziente delirante sembra essere diventato incapace dicomprendere il significato delle parole che utilizza, non abbiamo unmodo preciso di caratterizzare il contenuto del suo delirio. Egli afferma:«mia moglie è stata sostituita da un impostore», ma non possiamoattribuirgli la credenza corrispondente.

3. REAGIRE ALLA SFIDA DI CAMPBELL

Campbell ha rivolto una sfida importante alle spiegazioni empiriste,e c’è molto da dire. In questa parte conclusiva delineeremo a grandilinee alcune risorse che l’empirista ha a disposizione per rispondere aquesta sfida.

Primo: se, come proponiamo, i ricordi dei familiari sono di regolaprofondamente carichi di emozioni, un modo canonico di verificare sela persona che attualmente percepite non è vostra moglie è quello di

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controllare se il sentimento di non familiarità persiste nel tempo eaccompagna tutti gli episodi in cui vedete quella persona. In tal modo,il carattere ricorrente dell’esperienza di non familiarità – che supponia-mo caratterizzi la sindrome di Capgras – può essere considerato unaprova del fatto che il giudizio è corretto.

Secondo: Campbell confonde – o almeno non distingue chiaramente– due ragioni per cui i pazienti Capgras potrebbero non riuscire autilizzare i metodi canonici di verifica dei giudizi. Una possibilità è cheessi siano privi della competenza inferenziale necessaria: non hannoalcuna idea di quali sono le procedure di verifica canoniche. Questasembra essere la posizione di Campbell. Una seconda possibilità è che,sebbene i pazienti abbiano la competenza richiesta, non sono peròdisposti a impiegarla. Ciò può avvenire per almeno due ragioni. Laprima riguarda quello che si ritiene sia il contesto: le procedure diverifica canoniche sono tali solo rispetto a contesti normali o canonici,dove è probabile che le procedure abbiano successo. È possibile nonessere propensi a utilizzare procedure canoniche qualora si ritenga cheil contesto non sia canonico. I pazienti Capgras tendono a essere sospet-tosi e spesso hanno tendenze paranoiche o persecutorie. Questo puòspiegare non solo perché essi assegnano un’alta probabilità inizialeall’ipotesi che il coniuge sia stato sostituito da un impostore, ma ancheperché non usano procedure di verifica canoniche per controllarla. Se siè fortemente inclini a credere che la persona a cui si sta parlando sia unimpostore, si può ritenere che abbia poco senso parlarle, dal momentoche è improbabile che sia cooperativa ed è, anzi, probabilmente intentaa ingannarvi. Inoltre, se pensate che l’impostore sia un perfetto doppiodi vostra moglie, potreste pensare che sia inutile controllare i suoiricordi, giacché un perfetto doppio di vostra moglie condividerà con leiogni ricordo. In breve, non è affatto chiaro che il paziente Capgrasconsidererebbe appropriate al contesto le procedure di verifica cheCampbell esige.

La seconda ragione per cui i pazienti Capgras potrebbero non esseredisposti a utilizzare simili procedure di verifica riguarda la motivazio-ne. Dal punto di vista di una teoria empirista, un deficit motivazionalenon sarebbe sorprendente dal momento che la radice della compromissionedei pazienti ha carattere emozionale. Il loro problema sarebbe allora unproblema di motivazione inferenziale piuttosto che di competenzainferenziale.

Terzo: le procedure di verifica canoniche di cui parla Campbellhanno a che fare con il ragionamento teorico, ma quest’ultimo è solouna possibile manifestazione della comprensione del significato deitermini. Impegnarsi nel ragionamento pratico sembra altrettanto impor-tante. E sebbene i pazienti affetti da deliri monotematici manifestinouna mancanza spesso sorprendente di attività generata dal delirio, nonsarebbe corretto dire che i pazienti Capgras non si impegnano in alcun

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comportamento di questo tipo. Questi pazienti agiscono in base alle lorocredenze, talvolta violentemente (de Pauw e Szulecka 1988). Una re-cente disamina di 260 casi di Capgras ha rilevato condotte violente nel18% dei casi (Förstl et al. 1991). Uno di questi pazienti accusò il suopatrigno di essere un robot e lo decapitò per cercare le batterie dentro latesta (Blount 1986). Altri pazienti Capgras sporsero denuncia alla poli-zia per il rapimento del coniuge. Come osserva Young (1999), questa èun’ottima indicazione del fatto che le loro affermazioni vanno prese allalettera. E nella loro analisi degli originari rapporti clinici di Cotard,Young e Leafhead (1996) osservano che tutti i suoi pazienti manifesta-vano qualche forma di delirio collegato al comportamento (ad esempio,si rifiutavano di mangiare, muoversi o defecare in base al fatto cheerano morti).

Infine, almeno alcuni pazienti Capgras sembrano essere consapevo-li di quanto possono apparire implausibili le loro affermazioni agliocchi altrui. Consideriamo questo ben noto scambio:

Esaminatore: Questo fatto [due famiglie] non è insolito?Paziente: È incredibile.Esaminatore: Come lo spieghi?Paziente: Io stesso cerco di capirlo, ed è praticamente impossibile.Esaminatore: Come reagiresti se ti dicessi che non ci credo?Paziente: È perfettamente comprensibile. In effetti, quando racconto la

storia ho la sensazione di inventarla. Non è proprio giusta. Qualcosa non va.Esaminatore: Se qualcuno ti raccontasse la storia, cosa penseresti?Paziente: La giudicherei estremamente difficile da credere. Dovrei

giustificarmi io stesso (da Alexander, Stuss e Benson 1979, 335).

È difficile comprendere come il paziente Capgras potrebbe afferrareil fatto che altri trovano difficile credere alla sua storia qualora fossedivenuto incapace di comprendere il significato dei termini che utilizza.

Sebbene riconosciamo che i pazienti deliranti non sono pienamenterazionali – e che questi fallimenti della razionalità costituiscono unasfida per le spiegazioni empiriste – rimaniamo non convinti che questifallimenti siano abbastanza drastici da giustificare la tesi secondo cuiquesti pazienti sono divenuti incapaci di comprendere il significato deitermini con cui esprimono il loro delirio.

Campbell afferma che: «la questione davvero fondamentale circa ilsoggetto delirante è il modo in cui l’uso che fa dei termini con cuiesprime il delirio si collega alla sua conoscenza dei significati deitermini» (2001, 95). D’accordo, ma è necessario rispondere alla seguen-te domanda: il paziente è divenuto completamente incapace di compren-dere i significati dei termini implicati («moglie», «questa donna», ecc.),o è diventato incapace di comprenderli solo nel contesto dell’espressio-ne del suo delirio? Non siamo certi di quale sia la posizione di Campbellal riguardo, ma riteniamo che egli adotti la seconda alternativa. Il

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paziente Capgras sembra sapere che cosa significano le parole «mo-glie», «donna» e così via. Sarebbe felice di identificare sua moglie inquanto sua moglie quando parla con lei al telefono, e in tali contesti ilsuo uso dei termini pertinenti sarebbe perfettamente canonico. Ma per-ché il paziente dovrebbe divenire incapace di comprendere i significatidelle parole solo nel contesto dei proferimenti deliranti? È davveroplausibile che la comprensione del significato di un termine sia sensibi-le al contesto in questo modo? È difficile da credere; in effetti, èdifficile credere che Campbell lo creda.

Che cosa credono i pazienti Capgras se non che il coniuge sia statosostituito da un impostore? Che cosa intende il paziente quando afferma«questa donna non è mia moglie» se non che la donna che sta guardandonon è la stessa persona alla quale la memoria gli rivela di essere legato?Non è affatto chiaro che sia disponibile un’interpretazione migliore delproferimento del paziente. Si noti la contrapposizione tra questo caso eil caso che Campbell usa per motivare la tesi che vi è un nesso costitutivotra razionalità e significato. Lo studioso presenta un caso in cui unturista confuso vi dice: «la Statua della Libertà ha un’ubicazione piut-tosto affollata al centro di Trafalgar Square a Londra, ma tutti dovreb-bero ammirare i leoni alla base; una simile statua può essere soloinglese». Campbell afferma correttamente che ogni cosa va al suo postoquando ci si rende conto che la persona intende riferirsi alla Colonna diNelson con l’espressione «la Statua della Libertà». Tuttavia la forzaretorica di questo esempio non si applica al paziente Capgras. Perquanto ci pare di capire, non vi è alcun’altra traduzione di ciò che ilpaziente Capgras dice in base alla quale ogni cosa potrebbe andare alsuo posto. Descrivere la credenza del paziente Capgras come ciò cheWittgenstein ha denominato proposizione perno5, non accresce la com-prensione di ciò che egli crede o del perché lo crede.

Una volta Wittgenstein ha detto che se i leoni potessero parlare, noinon li comprenderemmo. La concezione di Campbell sembra essere chesebbene i pazienti deliranti siano in grado di parlare, noi non li possia-mo comprendere. Ciò che è curioso è che essi sembrano comprenderci.

(Traduzione di Massimo Marraffa)

5 Campbell propone che «mia moglie è stata sostituita da un impostore» abbia,per il paziente Capgras, lo stesso tipo di status che, secondo Wittgenstein, proposizionicome «il mondo esiste da molto tempo» e «vi sono sedie e tavoli in questa stanza»hanno per la maggior parte di noi. Quale sia esattamente questo status è abbastanzaoscuro, ma sembra implicare l’idea di immunità dall’esame empirico ordinario.

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237SISTEMI INTELLIGENTI / a. XVI, n. 2, agosto 2004

FRANCESCO MANCINI AMELIA GANGEMI

IL RAGIONAMENTO EMOZIONALE COME FATTOREDI MANTENIMENTO DELLA PATOLOGIA

1. INTRODUZIONE

Scopo del presente articolo è affrontare un problema fondamentaleper qualunque teoria clinica, ma che a tutt’oggi ha ricevuto soltantosoluzioni parziali ed insoddisfacenti. Parliamo del problema del para-dosso nevrotico o resistenza al cambiamento, il quale può essere inbreve così espresso: «come è possibile che un individuo persista in unacondotta per lui infelicitante e nociva? Cosa determina questa persistenzadisadattiva e irragionevole? Cosa resiste al cambiamento?» (Castelfranchi1999).

Il problema della resistenza al cambiamento è sollevato da quegliatteggiamenti che non cambiano nonostante le informazioni di cui di-spone il soggetto, i suoi strumenti cognitivi e i suoi scopi rendanopossibile ed opportuno un cambiamento (Mancini 1998; Mancini eGangemi 2002a).

In psicopatologia troviamo un’ampia casistica di resistenze al cam-biamento che appaiono palesemente paradossali (Eysenck 1979; Liottie Guidano 1984; Salkovskis 1996a; Seligman 1988). Larga parte degliatteggiamenti che implicano la sofferenza, infatti, non sono necessari,al contrario, il loro cambiamento è opportuno ed anche possibile, spessoappare addirittura a portata di mano, ed in molti casi il paziente stessone riconosce tanto l’opportunità quanto la possibilità. Nonostante que-ste caratteristiche, tuttavia, il cambiamento non si realizza e la personacontinua a soffrire, magari per anni, a volte con peggioramenti via viapiù gravi, costruendo, spesso, attorno all’atteggiamento patologico unvero e proprio percorso esistenziale carico di frustrazioni e sofferenza(Gardner, Mancini e Semerari 1988; Guidano 1987; 1991; Pretzer eBeck 1996; Reda 1986; Semerari 1999; 2000).

I pazienti fobici, ad esempio, continuano a reagire con paura e adevitare situazioni nonostante le abbiano affrontate e superate centinaiadi volte senza patire danni. I pazienti depressi dopo anni da una perditao da un fallimento ancora ne soffrono e non riescono a volgere i lorointeressi su nessun’altra attività che potrebbe risultare per loro gratifi-

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cante. I pazienti con disturbo evitante di personalità continuano adimpoverire la propria vita per non affrontare il rischio di fallimenti,rifiuti e frustrazioni nonostante tale rischio sia inesistente o minimo, ecomunque certamente accettabile.

Per spiegare la paradossalità degli atteggiamenti psicopatologiciutilizzeremo gli strumenti concettuali messi a nostra disposizione dalcognitivismo, il cui assunto basico è che i pensieri, i comportamenti, leemozioni, in una parola gli atteggiamenti, sono regolati dalla mentedella persona, in altre parole dal suo sistema di significati. Riprendendouna definizione proposta da Miceli e Castelfranchi (1998) ed ampia-mente accettata, per mente si intende:

l’attività – e/o l’apparato (sottosistema) ad essa preposto – di regolazionefinalistica del comportamento di un sistema, sulla base di rappresentazioni. Ècioè un apparato che costruisce, elabora, mantiene rappresentazioni al fine diregolare sulla loro base in modo orientato ad uno scopo il comportamento di unsistema agente (un sistema che modifica il suo ambiente). Le categorie basilari,costitutive, dell’attività mentale sono, in questa prospettiva, le conoscenze(assunzioni, credenze) e gli scopi. I loro proto-tipi (in senso logico astratto edevolutivo) sono le due strutture informazionali di ogni feedback cibernetico(set point e stato percepito). Il primo rappresenta il proto-tipo funzionale degliscopi, il secondo rappresenta il proto-tipo funzionale delle conoscenze (Micelie Castelfranchi 1998).

Il cognitivismo clinico (Beck 1976; Ellis 1962; Guidano 1987)assume che gli atteggiamenti psicopatologici abbiano lo stesso statusdegli atteggiamenti normali e che, fra di essi, non esista alcuna soluzio-ne di continuità. Emozioni, comportamenti e pensieri clinicamente rile-vanti, sono, quindi, regolati dal sistema di scopi e conoscenze dellapersona, al pari di qualunque altro atteggiamento.

Poiché il mantenimento e la dismissione di uno scopo, come anchela sua attivazione e disattivazione, dipendono dalle credenze del sogget-to, allora la spiegazione della persistenza di atteggiamenti paradossali èriducibile alla spiegazione della persistenza di una o più credenze chesarebbe opportuno e possibile cambiare. In questa prospettiva, le cre-denze che sostengono gli atteggiamenti paradossali hanno due caratte-ristiche. In primo luogo, sono debolmente giustificate, ed è debolmentegiustificata una credenza che «continua ad essere intrattenuta sistema-ticamente (e dunque non per fattori casuali) nonostante siano a disposi-zione del soggetto le informazioni e siano entro le sue competenzecognitive le regole, che giustificherebbero una credenza diversa» (Ma-gri 1991).

In secondo luogo, si tratta di credenze dolorose e dannose, vale adire che il soggetto non estrae alcun vantaggio dal mantenerle anzi nesoffre e ne risulta danneggiato, almeno più di quanto lo sarebbe seassumesse una credenza diversa.

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2. PERCHÉ PREOCCUPARSI DI QUESTO PROBLEMA?

La spiegazione dei paradossi è fondamentale per ogni teoria dellasofferenza patologica ed in special modo per il cognitivismo clinico. Ilproblema, tuttavia, ha una rilevanza che va ben oltre gli interessi dellapsicopatologia ed è cruciale per qualunque teoria della mente umana.Esso costituisce, infatti, una sfida ad assunti considerati basici e fonda-mentali. In particolare, è minacciato l’assunto per il quale la menteumana è uno strumento che si è selezionato nel corso dell’evoluzioneperché capace di migliorare l’adattamento alla realtà dell’individuo el’inclusive fitness, e ciò grazie alla capacità di tener conto degli erroripratici, almeno di quelli più pericolosi e ripetitivi.

Come può accadere che uno strumento evoluto per una funzione, lacorrezione degli errori pratici, svolga di fatto una disfunzione, vale adire persista in errori seriamente dannosi o, addirittura, li aggraviulteriormente o li determini?

3. LE SPIEGAZIONI FUNZIONALISTE: I MECCANISMI A CIRCOLO VIZIOSO

Nel cognitivismo clinico la spiegazione più accreditata è attualmen-te una spiegazione funzionalista, e si basa sull’osservazione che, avolte, certi stati mentali determinano degli effetti non voluti capaci diconfermare e rafforzare le credenze a sostegno di quello stesso statointenzionale. Numerosi modelli funzionalisti spiegano infatti il mante-nimento della sofferenza e dei comportamenti patologici ricorrendo ameccanismi a circolo vizioso. Lo schema generale di questi modelli è ilseguente:

1. il comportamento è «governato da scopi» e basato su ragioni;cioè è un’azione intenzionale. L’agente basa i suoi scopi, le sue prefe-renze e le sue decisioni sulle sue credenze (questa è la nostra nozione diagente cognitivo);

2. alcuni effetti di queste azioni sono ignoti o almeno non motivantil’agente;

3. vi è una causa circolare (feedback loop) da questi effetti nonintenzionali ad incrementare, rafforzare le credenze e gli scopi chehanno generato quell’azione;

4. questo rinforzo aumenta la probabilità che in circostanze analo-ghe (che attivano le stesse credenze e gli stessi scopi) l’agente producalo stesso comportamento, riproducendo quindi quegli stessi effetti;

5. a questo punto, detti effetti non sono più semplicemente acciden-tali o irrilevanti; pur rimanendo non intesi essi sono prodotti teleonomi-camente (Conte e Castelfranchi 1996): quel comportamento esiste (an-che) in forza dei suoi effetti non-intenzionali; esso è stato selezionato daquegli effetti ed è ad essi funzionale (Castelfranchi 1999).

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Un esempio molto semplice di meccanismo funzionale è il seguen-te: un maestro giudica particolarmente irrequieto ed irrispettoso unalunno, di conseguenza ed in modo intenzionale, assume un atteggia-mento duro e repressivo nei suoi confronti, così, senza che l’insegnantese ne renda conto e tanto meno lo desideri, l’alunno si inasprisce e tendead assumere più facilmente atteggiamenti capaci di confermare e raffor-zare il suo giudizio negativo (Jussim 1986).

I meccanismi responsabili di tali effetti funzionali non intesi, posso-no essere suddivisi in tre gruppi.

Il primo fa riferimento al comportamento, e più in generale all’atti-vità del soggetto, ed ai suoi effetti sulla realtà. All’attivazione di unostato intenzionale segue un comportamento, uno stato emotivo o, piùgenericamente, un atteggiamento. L’atteggiamento può produrre deirisultati che sono congrui con le credenze che sostengono lo statointenzionale e/o prevenire la comparsa di dati incongrui, rendendodisponibili informazioni che possono risultare confirmatorie o indi-sponibili informazioni potenzialmente disconfermanti.

Un esempio di tali effetti paradossali è offerto dai cosiddetti safetyseeking behaviour (Salkovskis 1989; 1996b). Nel caso di fobie sociali,spesso, l’intenzione di prevenire un giudizio negativo si traduce in uncomportamento che produce proprio ciò che dovrebbe prevenire:

La tendenza propria dei soggetti con fobie sociali di controllare conti-nuamente cosa dicono, e come si comportano, li fa apparire spesso distanti epreoccupati. Gli altri soggetti, per tale ragione, possono interpretare questoatteggiamento quale segno del fatto che non piacciono ai fobici e comeconseguenza risponderanno ai fobici in modo poco affettuoso e amichevole(Clark 1999).

In questo primo gruppo di meccanismi, quindi, una conseguenzadello stato iniziale, ad esempio un comportamento, modifica la realtà ol’attitudine degli altri o il proprio stesso atteggiamento, in modo dacreare dati potenzialmente capaci di confermare, rafforzare ed aggrava-re le credenze che sostengono lo stato intenzionale.

Il secondo gruppo di meccanismi dipende sempre dagli stati inten-zionali ed agisce senza modificare la realtà ma orientando le funzionicognitive di base, quali l’attenzione selettiva, il recupero mestico e ilprocesso di controllo delle ipotesi. Tali funzioni sono guidate dalleintenzioni del soggetto e tendono attivamente a selezionare e utilizzaredati congrui in modo da confermare le credenze che sostengono lo statointenzionale di partenza.

Per quanto riguarda, in particolare, l’attenzione selettiva, numerosiautori sostengono che sia l’attenzione selettiva verso i segnali di minac-cia, che la «disattenzione» selettiva verso gli stessi giocano un ruolocruciale nel mantenimento dei disturbi d’ansia (Beck, Emery e Greenberg

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1985; Chen, Ehlers, Clark e Mansell 1999; Clark 1999; Eysenck 1992;Williams, Watts, McHead e Matthews 1988; 1997). Nel primo caso,l’attenzione selettiva rende più disponibili dati che possono essere ela-borati in modo da confermare o aggravare la valutazione di pericolo.Nel secondo caso, la disattenzione selettiva esclude dati che potrebberoessere interpretati come capaci di disconfermare o ridurre la valutazio-ne di pericolo.

Per ciò che concerne le funzioni mnestiche, ed in particolare ilrecupero mestico, secondo Clark e collaboratori (Clark 1999), sonoalmeno due i tipi di processi di memoria che contribuiscono attivamen-te al mantenimento dei disturbi d’ansia. Il primo riguarda la tendenzadei soggetti ansiosi a recuperare selettivamente i dati che possonoconfermare le loro paure peggiori. Il secondo si realizza attraversoun’apparente dissociazione tra memoria esplicita ed implicita o, piùprecisamente, tra funzioni di richiamo e priming. Tale fenomeno appa-re ancora più marcato nel disturbo post-traumatico da stress (Clark1999), dove probabilmente entra in gioco escludendo i dati relativi altrauma dall’elaborazione che normalmente porta all’accettazione deltrauma stesso.

Per quanto attiene, infine, al processo di controllo delle ipotesi, daun’ampia letteratura emerge che questo ultimo può essere influenzatodagli stati mentali del soggetto (de Jong et al. 1997; 1998; Evans e Over1996; Kirby 1994; Mancini e Gangemi 2002b; 2002c; 2002d; 2004;Manktelow e Over 1991; Smeets et al. 2000). Ad esempio, de Jong ecolleghi (1997; 1998) e Smeets e colleghi (2000) hanno dimostrato cheil processo di controllo di ipotesi di sicurezza e di pericolo è ampiamen-te guidato dagli stati intenzionali attivi nella mente del soggetto. Inparticolare, gli autori hanno raccolto evidenze empiriche a favore del-l’ipotesi secondo cui gli esseri umani, in uno stato mentale di minaccia,se posti di fronte a ipotesi di sicurezza (ad es.: Se la scimmia urla, alloratutto bene), tendono a falsificare le stesse ricercandone i contro-esempi:in caso di ipotesi di sicurezza, è più prudente per il soggetto, ai fini dellasopravvivenza, ricercare informazioni disconfermanti (Esistono casi incui la scimmia urla, e in cui questo può non significare sicurezza?). Dicontro, se si trovano a controllare ipotesi di pericolo (ad es.: Se l’allar-me suona, allora c’è un incendio), allora i soggetti tendono a conferma-re le stesse: ignorare anche solo una volta un potenziale pericolo puòessere addirittura fatale per la sopravvivenza!

In linea con tale filone di ricerca, recenti studi hanno dimostrato chel’induzione di un forte senso di responsabilità e di un forte timore dicolpa per irresponsabilità influenza, in soggetti non clinici, le modalitàdi controllo di ipotesi di sicurezza e di pericolo, entrambe cruciali siaper il responsabile che per il timoroso di colpa (Mancini e Gangemi2002b; 2002c; 2002d; 2004; Gangemi et al. 2003). In particolare, talistudi hanno dimostrato che in condizioni di assunzione di responsabilità

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e di forte timore di colpa i soggetti controllano le ipotesi di sicurezza edi pericolo in un modo peculiare, definito prudenziale.

Nel modo prudenziale il soggetto:– focalizza l’ipotesi peggiore;– tende a ricercare esempi dell’ipotesi peggiore;– tende a considerare insufficienti le eventuali prove favorevoli

(contro-esempi dell’ipotesi peggiore) e dunque tende ad insistere nelprocesso di controllo.

In altre parole, il modo prudenziale implica che le ipotesi peggiorisiano confermate più facilmente e che il soggetto insista nel processo dicontrollo, più di quanto accade se il modo è non prudenziale.

Il terzo gruppo di meccanismi dipende invece dalle emozioni, ed inparticolare dalla mediazione indiretta esercitata dalle stesse sulle fun-zioni cognitive di base.

Noi ci soffermeremo proprio su questi ultimi meccanismi che coin-volgono le emozioni, nel tentativo di approfondire la natura del feedbackche dalla esperienza emotiva porta al rafforzamento degli scopi e so-prattutto delle credenze che sostengono l’esperienza emotiva stessa.

Per esaminare questi meccanismi, ricorreremo alla definizione diemozione proposta da Miceli e Castelfranchi (2002). Secondo gli auto-ri, le emozioni possono considerarsi come costituite dall’integrazionedi componenti somatiche e mentali, cognitive e motivazionali.

Ogni emozione è in particolare costituita dallo «stato mentale», ecioè da una struttura integrata di credenze e scopi, legata alla suanatura funzionale, determinante per la sua natura intenzionale e per lasua categorizzazione ed esplicativa della sua attivazione e motivazione.Le emozioni possiedono un’intenzione, cioè vertono su qualcosa, hannoun oggetto (ciò per cui ci si emoziona) e spesso un destinatario, cioèsono rivolte verso qualcuno. Ad esempio, si invidia qualcuno per qual-cosa; si è arrabbiati con qualcuno per qualcosa; ci si vergogna o ci sisente in colpa con qualcuno per qualcosa.

Secondo Miceli e Castelfranchi, fra i costituenti fondamentali delleemozioni vi sono le credenze e gli scopi. Le credenze rivestono tre ruolifondamentali nelle emozioni:

1. Attivazione. Molte emozioni non sono attivate da stimoli esternima da rappresentazioni, anche generate endogenamente, ad esempioper via inferenziale. Queste rappresentazioni possono essere sia di tipopercettivo-motorie (ad esempio, immagini), sia di tipo proposizionale(ad esempio, «potrei essere scoperto»). Queste credenze attivano e inparte spiegano l’emozione, nel senso che sono coerentemente connessecon la condotta dell’individuo. Riprendendo un esempio riportato daglistessi autori, nel senso di colpa il soggetto intrattiene una complessastruttura di credenze tra loro connesse: la credenza che è successoqualcosa; che ciò costituisce un danno per qualcuno; che il danno nonè «meritato» da chi lo ha subìto; che una propria azione o negligenza ha

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causato il danno; che era possibile evitarlo. È una configurazione dicredenze di questo tipo che provoca il senso di colpa e ne è parteintegrante. Esse rimangono infatti parte dello «stato mentale» cheaccompagna il senso di colpa, entrano nella valutazione, nell’attribu-zione causale e nella categorizzazione, e sono connesse agli scopiattivati.

2. Attribuzione causale. Le credenze attivanti provocano una rea-zione somatica, un arousal più o meno specifico di ogni emozione.Questa reazione è una componente essenziale di come «ci si sente»,dell’aspetto soggettivo dell’emozione. Ma esso non si accompagnasemplicemente alle idee o immagini che lo attivano. In un agente cognitivoviene stabilito un nesso molto più esplicito: la mente interpreta questistimoli e li attribuisce appunto allo stato emotivo. Essa assume chequelle alterazioni, quelle sensazioni sono dovute a una data emozione ealle credenze e immagini attivanti che le sono proprie. Compie cioèun’attribuzione causale dell’arousal e delle sensazioni all’emozione (ein particolare agli stimoli e rappresentazioni attivanti). In questo conte-sto, con «credenze attribuzionali» ci riferiamo quindi all’attribuzionedella reazione somatica ad un particolare stato emotivo (non a credenzeattivanti di tipo causale, come ad esempio, nel senso di colpa, le creden-ze relative all’attribuzione di responsabilità).

3. Categorizzazione. Non meno importanti, e tipiche delle emozio-ni negli agenti cognitivi, sono le credenze di categorizzazione: il sog-getto interpreta, riconosce ed etichetta il proprio stato d’animo comeuna certa emozione (tra quelle che la sua lingua e il suo vocabolariopersonale gli consentono di articolare). Egli si dirà: «sono furioso conMario»; «sono triste»; «amo Lucia»; «che vergogna!». Queste credenzedi categorizzazione (che sono in un certo senso di meta-livello) sonostrettamente connesse alle altre.

In questa prospettiva, ciò che ci preme affrontare in questa sede èproprio il problema dell’influenza delle emozioni sulle credenze: unfatto, ma come si realizza?

Dalla psicologia cognitiva sappiamo che le disposizioni affettivo-emozionali influenzano i processi cognitivi in diversi modi, tutti, co-munque, capaci di rafforzare le assunzioni che sostengono lo statointenzionale alla base di quello specifico assetto affettivo. SecondoCaprara e Cervone (2000) i modi conosciuti sono 5. In tutte le persone,lo stato affettivo:

– aumenta la disponibilità di immagini, pensieri e ricordi congruicon lo stato d’animo pregresso (priming effect), anche se lo stato d’ani-mo dipende da eventi appartenenti ad un dominio completamente diver-so. Ad esempio, l’induzione di umore negativo attraverso l’ascolto diuna musica triste, implica che si presentino facilmente pensieri edimmagini cupi;

– influenza le strategie cognitive di elaborazione delle informazio-

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ni. Ad esempio, se ci si sente minacciati, allora le informazioni vengonoelaborate in maniera più sistematica;

– motiva le persone a regolare la propria esperienza consapevolevale a dire a cambiare i contenuti mentali;

– centra l’attenzione su se stessi;ma soprattutto:

– funziona come fonte di informazione, che diventa particolarmen-te autorevole nelle persone che provano cronicamente quello statoaffettivo.

Proprio in merito a quest’ultimo punto, ex consequentia reasoning,emotional reasoning, affect-as-information (Arntz, Rauner e van denHout 1995; Clore 1992; Engelhard et al. 2001; 2002; 2003; Gasper eClore 1998; Schwarz e Clore 1998; 1996; Scott e Cervone 2002) sonotutti termini utilizzati per descrivere uno stesso meccanismo psicologi-co, secondo cui gli esseri umani tendono a utilizzare il proprio statoaffettivo, più che le evidenze oggettive, quale informazione saliente peresprimere valutazioni e giudizi sul mondo.

Questo meccanismo differisce dal ben più noto priming effect, poi-ché in quest’ultimo caso l’influenza delle emozioni sui processi cognitiviè indiretta: l’emozione attiva solo la rete di conoscenze ad essa diretta-mente connesse, ma sono queste conoscenze che influenzano la moda-lità di processamento di contenuti cognitivi non correlati con l’emozio-ne di partenza.

Nel caso dell’affect-as-information, invece, l’influenza delle emo-zioni sulle valutazioni espresse dai soggetti sarebbe più diretta: nel-l’esprimere, ad esempio, giudizi, i soggetti possono semplicementechiedersi come si sentono rispetto all’evento da valutare (how they feelabout the evaluated event, activity or topic) (Schwarz e Clore 1983;1988). Gli stati affettivo-emozionali funzionano dunque come informa-zione che orienta direttamente le valutazioni espresse su eventi e argo-menti non relati in alcun modo con l’emozione esperita.

Di grande interesse sono gli esperimenti condotti in tale ambito dadiversi gruppi di studio (Arntz, Rauner e van den Hout 1995; Clore1992; Engelhard et al. 2001; 2002; 2003; Gasper e Clore 1998; Schwarze Clore 1988; 1996; Scott e Cervone 2002), con differenti gruppi disoggetti (clinici, normali, adulti, bambini). Tutte queste ricerche hannoevidenziato come le disposizioni affettivo-emozionali influenzino ef-fettivamente, sebbene indirettamente, alcuni processi cognitivi di base,alimentando in tal modo circoli viziosi responsabili del rafforzamentodelle credenze alla base dello stesso stato affettivo. Esaminiamoinnanzitutto gli studi condotti con soggetti normali adulti, nei quali lostato affettivo negativo è stato indotto sperimentalmente.

Scott e Cervone (2002), seguendo tale procedura, hanno verificatoche l’induzione di uno stato emozionale negativo innalza nei soggettigli standard di valutazione delle proprie performances.

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In una serie di esperimenti gli autori hanno osservato che il gruppodi soggetti (gruppo sperimentale) cui era stato indotto uno stato affetti-vo negativo attraverso l’ascolto di un brano audioregistrato contenentela descrizione di uno scenario negativo (ascolto della descrizione dellamorte per cancro del migliore amico), rispondeva, esprimendo giudizipiù negativi a domande relative al livello di soddisfazione rispetto alleproprie performances accademiche, rispetto al gruppo di controllo (sce-nario neutro: ascolto della descrizione della propria stanza). Inoltre, ilgruppo sperimentale chiamato ad indicare i livelli minimi di prestazioneconsiderabili come accettabili, manifestava una tendenza significativa-mente maggiore a innalzare gli standard minimi, rispetto al gruppo dicontrollo. In linea con le ipotesi espresse dagli autori, dunque, il gruppoche esperiva uno stato emozionale negativo, tendeva ad utilizzare que-st’ultimo quale informazione per esprimere valutazioni più dure sulleproprie prestazioni e per innalzare gli standard minimi di prestazione.Al fine di dimostrare inoltre che l’innalzamento degli standard di per-formance fossero esclusivamente attribuibili al meccanismo affect-as-information e non piuttosto al priming effect, gli autori hanno aggiuntouna terza condizione sperimentale che esponeva i soggetti alle stesseinformazioni contenute nella condizione «induzione stato emozionalenegativo», senza però l’induzione dell’emozione stessa. Ai soggettiveniva infatti detto che avrebbero ascoltato una storia audioregistrata eche durante l’ascolto avrebbero dovuto compiere un compito di ricono-scimento semantico. In tal modo i partecipanti erano chiamati a proces-sare lo scenario ad un livello di analisi dell’informazione di tipo semantico,più che autoreferenziale. Si è visto che in questo caso, i soggetti tende-vano a giudicare le proprie performances e ad adottare degli standardminimi di performance analoghi a quelli utilizzati dal gruppo di con-trollo.

Questi risultati hanno, secondo gli autori, alcune interessanti impli-cazioni cliniche, relative in particolare alla spiegazione dei meccanismidi genesi e mantenimento del disturbo depressivo. Scott e Cervoneipotizzano che lo stato d’animo negativo attivi un ragionamento emo-zionale e dunque un circolo vizioso che garantirebbe il mantenimentodel disturbo: se sono depresso, allora innalzo gli standard di valutazionedelle mie azioni. Se non riuscirò a rispettare tali standard (cosa peraltromolto probabile), allora il mio umore negativo verrà ulteriormentealimentato con la conseguenza di un nuovo innalzamento dei mieistandard di performance, e così via.

Ancora, Gasper e Clore (1998) hanno evidenziato che lo stato affet-tivo negativo influenza nei soggetti normali la percezione del pericolo,ed in particolare la stima della probabilità di accadimento di eventinegativi. In una serie di esperimenti gli autori hanno indotto sperimen-talmente ad un primo gruppo di soggetti (gruppo sperimentale-ansia)uno stato affettivo negativo chiedendo loro di descrivere, con dovizia di

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particolari, un evento negativo della loro vita in cui si erano sentitiparticolarmente ansiosi. Ad un secondo gruppo di soggetti (gruppo dicontrollo-benessere) veniva invece richiesto di descrivere un eventodella loro vita in cui si erano sentiti particolarmente bene. Dopo la fasedi induzione, ai soggetti di entrambi i gruppi (ansia e benessere) venivarichiesto di completare un questionario contenente domande sulla stimadi probabilità di accadimento di 10 eventi negativi (5 personali + 5impersonali), utilizzando una scala Likert da 0 a 10 punti. Ai soggettiveniva inoltre richiesto di compilare un questionario sull’ansia di statoe sull’ansia di tratto. Anche in questo caso, i risultati ottenuti hannoevidenziato che i soggetti appartenenti al gruppo sperimentale-ansia,cui era stato indotto uno stato d’animo affettivo negativo, stimavanocome più probabile l’accadimento di eventi negativi, sia personali cheimpersonali, rispetto al gruppo di controllo, cui era stato indotto unostato di benessere. Gasper e Clore (1998) hanno verificato inoltre unacorrelazione piuttosto elevata tra ansia di tratto e ragionamento emozio-nale, dimostrando il ruolo dello stato affettivo di tratto, esperitocronicamente, nell’uso dell’emozione di stato, esperita invece transito-riamente, quando vengono espressi giudizi sulla presenza di un peri-colo.

Ancora, Graham e collaboratori (Graham et al. 2003; Startup eDavey 2001) hanno dimostrato che gli esseri umani utilizzano l’umorequale informazione per decidere se continuare o meno un’attività, attra-verso un meccanismo definito dagli stessi mood-as-input hypothesis. Indue recentissimi esperimenti, gli autori hanno osservato che in compitidi controllo simil-ossessivo (checking task), ed in particolare in compitidi generazione di item (ad esempio, elencare tutti i controlli che ènecessario effettuare in casa prima di partire per le vacanze, per preve-nire eventuali catastrofi) e di richiamo di item (ad esempio, rammenta-re, a partire da una lista già predisposta dagli sperimentatori, tutti icontrolli che è necessario effettuare in casa prima di partire per levacanze), i partecipanti cui era stato indotto un umore negativo attraver-so l’ascolto di un brano musicale, generavano e ricordavano un maggiornumero di item e perseveravano di più nel compito (più tempo perconcluderlo), rispetto ai soggetti cui invece era stato indotto un umorepositivo. Gli autori hanno inoltre riscontrato l’esistenza di una relazionesignificativa tra l’umore esperito e il tipo di regola che i soggetti utiliz-zavano per considerare il compito concluso e dunque lo scopo raggiun-to: «feel like continuing» vs. «as many as can» stop rule. A tale propo-sito, secondo Graham e colleghi, in generale, è possibile affermare chese ai soggetti viene richiesto di adottare la regola feel like continuing,l’umore negativo, «interrogato», informerà loro che la prestazione è giàsoddisfacente e dunque il compito è concluso molto prima, rispetto aquando viene loro richiesto di adottare la regola as many as can: inquesto caso l’umore negativo dirà loro che la prestazione non è ancora

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soddisfacente e quindi, ad esempio, il numero di item generati è esiguoe per questo di continuare il compito.

In merito alle possibili implicazioni cliniche, tali risultati spieghe-rebbero, secondo gli autori, la perseveranza dei rituali di controllomessi in atto dai pazienti ossessivi. Questi pazienti sembrano infatti:

a) riportare un umore particolarmente negativo durante i controlli(Frost et al. 1986; Salkowskis 1985);

b) adottare in maniera del tutto spontanea la «as many as can...»stop rule quale regola di interruzione (Richards 1997);

c) questa regola sarebbe direttamente attivata dalle credenze allabase dello stato mentale tipico dell’ossessivo e caratterizzato da unesagerato timore di colpa e da un’eccessiva responsabilità (Mancini2001; Rachman 2002; Salkovskis e Forrester 2002).

Il meccanismo mood-as-input insieme dunque al timore di colpa perirresponsabilità attiverebbe un circolo vizioso nel quale l’emozionenegativa verrebbe utilizzata quale criterio per giudicare insoddisfacentela prestazione e questo giudizio a sua volta rinforzerebbe l’emozionenegativa iniziale.

La propensione al ragionamento mood-as-input e all’assunzione diresponsabilità e timore di colpa rappresenta in questo senso un fattore divulnerabilità per lo sviluppo di disturbi di tipo ossessivo.

Infine, Mancini, Gangemi e van den Hout (2003) hanno dimostratoin alcuni esperimenti recenti che nei soggetti normali, ma che tendonoa sentirsi cronicamente in colpa (colpa di tratto elevata), l’induzione diun senso di colpa attraverso il ricordo di colpe passate implica che isoggetti di fronte ad un compito di cui si assumono la responsabilità:

– attribuiscono ad un possibile esito negativo una probabilità eduna gravità maggiori di quanto accade se lo stato emotivo di base èpositivo;

– innalzano gli standard di valutazione che i soggetti adottano pervalutare le proprie performances;

– preferiscono scelte certe.Il contrario accade se si induce uno stato di fierezza morale per se

stessi.Secondo gli autori, questi dati hanno delle interessanti ricadute

cliniche soprattutto per quanto riguarda il disturbo ossessivo-compulsivo.I pazienti ossessivi, sentendosi cronicamente in colpa, trattano il

fatto di sentirsi in colpa quale informazione per inferire che si verifiche-rà l’evento temuto, che questo sarà gravissimo e che la propria perfor-mance preventiva è inadeguata rispetto agli standard morali e che quin-di saranno quasi certamente colpevoli di un danno grave a se stessi o adaltri. In modo analogo agli stati emotivi, sembra che anche il compor-tamento possa essere la premessa di un’inferenza confirmatoria propriodegli stati mentali che hanno motivato quel comportamento. Lopatcka eRachman (1995) hanno dimostrato che nei pazienti ossessivi, il fatto

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stesso di agire in modo da prevenire il danno temuto, incrementa quantoi soggetti si sentono responsabili di prevenire l’evento stesso.

Entrambi questi meccanismi faciliterebbero, nei pazienti ossessivi,il ragionamento che porta alla resistenza al cambiamento delle credenzeossessive.

Ma, come già anticipato, lo stato affettivo funziona come fonte diinformazione particolarmente autorevole soprattutto nelle persone chetendono a sperimentarlo in maniera intensa e sistematica.

In merito a questo punto, emblematiche appaiono le ricerche con-dotte in questi ultimi anni da Arntz e collaboratori (Engelhard et al.2001; 2002; 2003) con soggetti affetti da disturbi d’ansia (fobie, sindro-me postraumatica da stress). In questi studi, gli autori hanno dimostratoche i soggetti tendono a inferire la presenza di un pericolo, a partire dalproprio stato affettivo-emozionale negativo, ovvero dall’ansia: «If Ifeel anxious, then there must be a danger» (Arntz et al. 1995). Al finedi indagare il ragionamento emozionale, gli autori hanno presentato adue gruppi di soggetti, gruppo soggetti affetti da disturbi d’ansia vs.gruppo di controllo, alcuni scenari distinti fra loro per la presenza/assenza di pericolo oggettivo e per la presenza/assenza di una rispostad’ansia del protagonista. Ai soggetti di entrambi i gruppi veniva quindirichiesto di valutare la pericolosità di ciascuno scenario.

Tale esperimento ha consentito agli autori di confermare l’ipotesisecondo cui i soggetti affetti da disturbi d’ansia tendono a inferire lapresenza di un pericolo non solo in base alla presenza/assenza di unaminaccia oggettiva, ma anche dalla presenza/assenza di una rispostaemotiva d’ansia. In altre parole, gli individui tendono a inferire lapresenza di una minaccia, a partire dal proprio stato affettivo-emozio-nale negativo, ovvero dall’ansia: «If I feel anxious, then there must bea danger» (Arntz et al. 1995).

La fallacia legata a quello che gli autori chiamano ex-consequentiareasoning, o ragionamento emozionale (Emotional Reasoning, ER),sembra giocare un ruolo di rilievo nello sviluppo e mantenimento deidisturbi d’ansia. L’ER sembra infatti attivare un circolo vizioso in cui lostato emozionale soggettivo (ad esempio, paura, ansia, ecc.) viene uti-lizzato per validare erroneamente pensieri e credenze relativi alla pre-senza di pericoli o impedimenti, i quali a loro volta amplificano l’emo-zione di partenza, e così via. La propensione al ragionamento emozio-nale, rappresenta in questo senso, un fattore di rischio per lo sviluppo didisturbi d’ansia.

Questo tipo di ragionamento emozionale è stato anche descritto daBeck ed Emery (1985) secondo i quali, i pazienti utilizzano il lorostesso stato d’animo per validare le loro valutazioni dando luogo ad uncircolo vizioso, per il quale la credenza di un pericolo induce ansia el’ansia conferma la credenza di pericolo ed è presa come giustificazione

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per l’attribuzione di maggiori probabilità dell’evento temuto. In unesperimento veniva chiesto a tutti i soggetti di immaginare di rimanerebloccati in un ascensore affollato. Alcuni soggetti venivano istruiti adimmaginare di rispondere con ansia all’esperienza. Ad altri venivasuggerita una reazione più tranquilla. A tutti veniva chiesto di valutarela gravità del pericolo. Il pericolo percepito era maggiore nei soggetticui era stato chiesto di immaginarsi ansiosi, questo effetto era piùevidente nei soggetti patologici.

Infine, una serie di studi recenti tende ad indagare l’esistenza diquesto ragionamento emozionale anche nei bambini.

Ad esempio Muris, Merckelbach e Van Spauwen (2003) hannostudiato il ragionamento emozionale in un gruppo di 101 ragazzi/e dellescuole elementari. Ai bambini venivano descritte quattro situazionidistinte fra loro per la presenza/assenza di una minaccia oggettiva e diuna risposta d’ansia del protagonista e si chiedeva loro di stimare lapericolosità di ogni scenetta.

Gli autori hanno notato che la stima del pericolo è influenzata nonsolo dalla presenza/assenza di una minaccia oggettiva, ma anche dallapresenza/assenza della risposta emotiva. Infatti, in un significativo nu-mero di casi, i soggetti hanno stimato come pericolose situazioni ogget-tivamente innocue, ma in cui il protagonista della vignetta reagisce conansia. Tali risultati confermerebbero l’idea che per i bambini, e in modoparticolare per i bambini ansiosi, il ragionamento emozionale giochi unruolo cruciale nella stima del pericolo. Come Gasper e Clore (1998),anche Muris et al. (2003) hanno riscontrato inoltre un ragionamentoemozionale più marcato nei soggetti, in questo caso nei bambini, cheavevano ottenuto alti punteggi al questionario per la valutazione del-l’ansia di tratto. Tali risultati confermerebbero l’idea che per i bambini,e in modo particolare per i bambini ansiosi, il ragionamento emozionalegiochi un ruolo cruciale nella stima del pericolo.

I dati di Muris et al. differiscono da quelli ottenuti da Arntz ecolleghi con soggetti adulti in quanto il ragionamento emozionale èpresente, nel caso degli adulti, solo nei soggetti affetti da disturbid’ansia, mentre è presente anche nei bambini normali.

A conclusione di questa rassegna di studi sul ragionamento emozio-nale, ci sembra utile sollevare una questione di fondamentale importan-za per la comprensione delle differenze individuali e soprattutto deimeccanismi di mantenimento della patologia, oggetto primario di que-sta trattazione. Perché solo in alcuni individui, e quindi non in tutti, lostato affettivo diventa fonte autorevole di informazione sulla realtà, alpunto da alimentare circoli viziosi che rinforzano le credenze alla basedello stato affettivo stesso e dunque la patologia?

Ci sembra che la risposta arrivi proprio da alcuni degli studi da noiriportati (Gasper e Core 1998; Graham et al. 2003; Mancini, Gangemi

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e van den Hout 2004; Scott e Cervone 2002), i quali hanno espressa-mente indagato il ruolo dell’emozione esperita cronicamente (ad esem-pio, l’ansia di tratto o la colpa di tratto) nell’uso dell’emozione di stato,esperita invece transitoriamente, per la formulazione di giudizi e valu-tazioni. Questi esperimenti hanno chiaramente dimostrato che:

a) l’emozione di stato e l’emozione di tratto rappresentano duedistinte fonti di informazioni;

b) l’emozione di stato e l’emozione di tratto interagiscono;c) l’emozione esperita cronicamente appare più autorevole nell’orien-

tare le valutazioni e i giudizi.In merito a quest’ultimo punto, la letteratura da noi riportata è

decisamente ricollegabile a quanto già affermato da Damasio nel suolibro Descartes’ Error (1994): l’emozione esperita cronicamente(dispositional affect) amplifica l’effetto informazionale dell’emozioneesperita transitoriamente. Come dimostrato da alcuni esperimenti citati(Gasper e Core 1998; Graham et al. 2003; Mancini, Gangemi e van denHout 2004; Scott e Cervone 2002), l’emozione di stato assume maggio-re rilevanza se sostenuta da informazioni pregresse fornite dall’emozio-ne di tratto. Di contro, l’emozione di stato può non assumere alcunarilevanza, se le informazioni da essa prodotte risultano incoerenti conquelle generate dall’emozione di tratto.

L’emozione di tratto può dunque considerarsi alla base delle diffe-renze individuali nell’utilizzo dell’emozione di stato quale fonte diinformazione: i soggetti con alta emozione di tratto tendono ad averemaggiore fiducia nelle informazioni fornite dal loro stato emozionaletemporaneo.

Questo spiegherebbe il motivo per cui i pazienti ansiosi o ossessivi,tendono a dare grande importanza all’informazione prodotta dal propriostato affettivo transitorio e ad alimentare per questo le credenze, adesempio di pericolo, alla base dello stato emozionale stesso.

In questa prospettiva, e in maniera più specifica, Graham e collabo-ratori (2003) e Mancini e colleghi (2004) suggeriscono, a proposito deldisturbo ossessivo, che le credenze e dunque le informazioni prodottedallo stato mentale caratterizzato da un esagerato timore di colpa e daun elevato senso di responsabilità, considerato alla base di tale patolo-gia (Mancini 2001; Rachman 2002; Salkovskis e Forrester 2002), con-ferirebbero autorevolezza alle informazioni fornite dall’emozione distato, le quali a loro volta andrebbero a rinforzare le credenze alla basedello stato mentale di partenza.

Ci sembra infine opportuno sottolineare, anche se brevemente, cometutti questi studi dimostrino in modo molto concreto la possibilità dicross-fertilization tra psicologia cognitiva di base e psicologia clinica.Essi contribuiscono infatti a risolvere problemi di fondamentale impor-tanza sia per la clinica che per la psicologia generale, come il paradossonevrotico e i modi dell’influenza delle emozioni sulle cognizioni. Rap-

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presentano, dunque, un buon esempio di integrazione tra i due ambiti,suggerita dall’ovvia importanza di studiare i processi psicopatologicialla luce delle conoscenze della psicologia del normale.

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255SISTEMI INTELLIGENTI / a. XVI, n. 2, agosto 2004

GIOVANNI LIOTTI

CONOSCENZA E REGOLAZIONE DELLE EMOZIONI

I rapporti funzionali che intercorrono fra processi emozionali eprocessi di costruzione, elaborazione e organizzazione della conoscen-za – oggetto centrale di attenzione per ogni tentativo di fecondazionereciproca fra psicopatologia e scienza cognitiva – sono spesso studiatisulla base dell’assunto che le emozioni hanno dei fondamentali costi-tuenti di natura cognitiva (Miceli e Castelfranchi 2002). Sulla base di untale assunto, lo studio dei rapporti fra cognizione ed emozione conducea definire il ruolo che i processi cognitivi hanno nella vita emozionaleattraverso l’identificazione di credenze di attivazione, credenze di attri-buzione di causalità e credenze di categorizzazione delle emozioni(Miceli e Castelfranchi 2002). Tali credenze, sviluppandosi (come co-stituenti cognitivi delle emozioni) in maniera differente da persona apersona, spiegano le differenze nella vita emozionale, dalla gammadelle emozioni normali a quella delle esperienze emotive abnormi tipi-che della psicopatologia.

L’assunto che le emozioni abbiano sempre costituenti cognitivi ènon-problematico solo qualora il termine «cognitivo» si riferisca aprocessi di tipo percettivo-valutativo, da considerarsi ben distinti daiprocessi che implicano la formazione e l’uso di concetti. Nella termino-logia proposta da Edelman (1989), l’affermazione che le emozioniabbiano sempre costituenti cognitivi è da considerarsi non problematicasolo se si specifica che il termine «cognitivo», nella costituzione delleemozioni, si riferisce al processo di categorizzazione percettiva dellarealtà, e non al processo di categorizzazione concettuale. Nell’ambitodella psicopatologia e della psicoterapia – è qui opportuno sottolineare– termini come «credenze» e «cognitivo» si applicano usualmente astrutture e processi mentali che possono essere espressi attraverso illinguaggio, e che sono in effetti identificati prevalentemente attraversoil comportamento verbale dei pazienti: strutture e processi, dunque, cheappaiono frutto della categorizzazione concettuale e non di quellapercettiva.

Il principale obiettivo di questo articolo è di evidenziare in qualsenso l’assunto che le emozioni abbiano sempre costituenti cognitivi,

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coniugato alla mancata specificazione che tali costituenti sono di tipopercettivo e non concettuale, sia problematico e possa condurre a unainsoddisfacente formulazione cognitivista dei problemi della psicopa-tologia. Per cogliere la suddetta problematicità, è necessario premettereche esistono due teorie generali dei rapporti cognizione-emozione, se-condo le quali non è indispensabile specificare la differenza fra costi-tuenti cognitivo-percettivi e cognitivo-concettuali delle emozioni, oaddirittura non è corretto affermare che solo quelli percettivi sonocostituenti necessari di tutte le emozioni. Se si scelgono queste dueteorie come fondamento per i rapporti fra cognizione ed emozione,l’assunto che tutte le emozioni abbiano dei costituenti cognitivi, pur inassenza di accurati distinguo fra costituenti percettivo-cognitivi ecognitivo-concettuali, non appare problematico. Esiste tuttavia una ter-za teoria, il cui sostegno empirico ed epistemologico è almeno pari, senon superiore, a quello delle prime due, che asserisce decisamentel’esistenza di alcune emozioni (emozioni di base) – per di più quellemaggiormente rilevanti in psicopatologia – nella cui costituzione pri-maria non entrano affatto processi cognitivo-concettuali. Secondo que-sta teoria, non si può cogliere appieno il valore evoluzionistico e lafunzione delle emozioni di base se non considerando l’assenza in essedi costituenti cognitivo-concettuali. Inizieremo dunque le nostre rifles-sioni con una sommaria descrizione delle tre principali teorie sui rap-porti cognizione-emozione, che seguendo Panksepp (1998) possiamochiamare psicobiologica, socio-costruttivista e componenziale.

La scelta, come base per lo studio dei rapporti fra cognizione edemozione, di una o dell’altra delle tre teorie ha conseguenze importantiper la comprensione dei processi mentali che sottendono la psicopatologia.Il tema del deficit nella capacità di regolare o modulare singole classi diemozioni, considerato in funzione della conoscenza che la personasviluppa circa i propri processi emozionali, illustra efficacemente que-ste conseguenze.

1. LA TEORIA PSICOBIOLOGICA DEI RAPPORTI COGNIZIONE-EMOZIONE

Assumere una prospettiva psicobiologica (detta anche categoriale:Panksepp 1998, 43) nello studio delle emozioni e dei loro rapporti conla cognizione significa assumere che almeno alcuni processi emozionaliderivino da sistemi intrinseci al cervello e vadano considerati comecaratteristiche e distinte realtà biologiche a base innata, frutto dellastoria evolutiva di tutte le specie di mammiferi. Paura, collera, tristezza,gioia, stupore, disgusto (ma anche, secondo alcuni, vergogna, tenerezzaprotettiva, desiderio erotico, gelosia, curiosità esploratoria e forse altreancora: vedi Liotti 2001 o Panksepp 1998) sarebbero categorie biolo-gicamente fondate, precedenti sia filogeneticamente che ontogene-

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ticamente l’esercizio delle capacità umane di conoscenza esplicita e dicategorizzazione concettuale. Ognuna di queste categorie emozionali èindagabile, nella sua struttura e nelle sue caratteristiche funzionali, congli strumenti delle neuroscienze oltre che con quelli dell’etologia com-parata e dell’analisi delle esperienze soggettive umane (Panksepp 1998).

In questa prospettiva, le sopraelencate emozioni di base, essendomediate direttamente da specifici circuiti cerebrali a base innata, inne-scati ciascuno da un’appropriata realtà ambientale, sono, per tutto l’ar-co della vita, influenzate debolmente, nella loro sintesi o costruzione,dai processi cognitivi espliciti che si riflettono nella costruzione dicredenze. Pure debole è l’influenza dello stato di attivazione neuro-vegetativa generale (preesistente all’innesco da parte dell’ambiente)sulla specifica emozione. Al contrario, una volta innescata, ciascunaemozione di base esercita una potente influenza tanto sui pattern diattivazione neuro-vegetativa quanto sui processi cognitivi.

Il modello psicobiologico delle emozioni di base assegna dunque aiprocessi cognitivi non un ruolo di innesco e di organizzazione del-l’esperienza emozionale fondamentale, ma solo di regolazione di essa«a posteriori». In psicopatologia, le emozioni eccessive per intensità edurata che caratterizzano vari disturbi (ad esempio, paura eccessiva neidisturbi d’ansia, tristezza eccessiva nei disturbi depressivi, collera ec-cessiva in alcuni disturbi di personalità) deriverebbero da difetti nellacapacità di regolazione cognitiva delle corrispondenti esperienze emo-zionali, comunque innescate da stimoli appropriati ad esse. Sia le espe-rienze emozionali normali che quelle abnormi avrebbero dunque lastessa radice, lo stesso meccanismo di innesco. A determinare un’evo-luzione normale o patologica dell’esperienza emotiva e della sua espres-sione sarebbe una diversa intelligenza dell’emozione, cioè una maggio-re o minore capacità di comprenderne adeguatamente, a posteriori,causa, valore e funzione.

2. LA TEORIA SOCIO-COSTRUTTIVISTA DEI RAPPORTI COGNIZIONE-EMOZIONE

Erede della concezione secondo la quale gli istinti giocano un ruolopressoché ininfluente nella vita mentale umana, la prospettiva socio-costruttivista considera di fondamentale importanza, nella genesi diqualunque emozione, il modo con il quale sensazioni corporee elemen-tari e più o meno complessi pattern di esperienza psichica vengonoetichettati cognitivamente. Attraverso processi di valutazione cognitiva,influenzati potentemente dal gruppo sociale e dalla cultura, ogni espe-rienza emozionale verrebbe costruita. In altre parole, i processi diattivazione neurovegetativa elementari (arousal) – che non meritano ilnome di emozioni in quanto sono riconducibili a esperienze globali dieccitamento variabile solo per intensità – verrebbero valutati cognitiva-

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mente in modi diversi (anche in funzione della motivazione al momentodominante), e tali che dalla specifica valutazione (appraisal) emerge laspecifica emozione. Su tali processi di appraisal, il ruolo delle variabilicognitive familiari, sociali e culturali sarebbe assolutamente determi-nante (Harré 1986), e non debole come ritenuto, almeno per le emozionidi base, dalla prospettiva psicobiologica. Anzi, per il modello socio-costruttivista ogni tentativo di identificare alcune emozioni di base,indipendenti dai processi cognitivi esprimibili nel linguaggio, è malin-teso e fuorviante.

Mentre il modello psicobiologico è sostenuto dai risultati delleneuroscienze contemporanee (oltre che dall’osservazione etologica com-parata e, sul piano epistemologico, dall’evoluzionismo), il modellosocio-costruttivista si appoggia a studi sperimentali attenti essenzial-mente all’uso individualmente e culturalmente variabile del linguaggionella descrizione dell’esperienza emotiva. Dal punto di vista della co-struzione di una psicopatologia cognitivista, la prospettiva socio-costruttivista induce evidentemente ad attribuire un ruolo diretto e po-tente ai processi cognitivi nella genesi stessa delle emozioni che carat-terizzano la psicopatologia, e non solo nella loro regolazione o modula-zione a posteriori.

3. LA TEORIA COMPONENZIALE DEI RAPPORTI COGNIZIONE-EMOZIONE

In uno sforzo di conciliare i meriti e i dati sperimentali a sostegnodei due modelli precedenti, la teoria componenziale sostiene che com-ponenti o sub-unità biologicamente date di comportamento emozionalesono aggregate e sviluppate da processi di apprendimento sociale e diappraisal cognitivo fino a costituire sistemi emozionali compiuti (emo-zioni propriamente dette: Ortony e Turner 1990). In altre parole, leemozioni sarebbero costruite prevalentemente durante le fasi inizialidello sviluppo psico-sociale (Sroufe 1995), grazie a influenze inter-personali che attribuiscono significato e valore (in modo potenzialmen-te variabile da individuo a individuo) a unità neuro-vegetative piùelementari, innate e selezionate dall’evoluzione, che accompagnanocerti schemi di comportamento (pure basati su disposizioni innate,come quella all’attaccamento). Un esempio, fra i tanti possibili, è losviluppo dell’emozione di gioia a partire dallo schema comportamentalee neuro-vegetativo del sorriso, secondo l’analisi teorica di Sroufe (1995).Lo schema comportamentale del sorriso è innato e frutto dell’evoluzio-ne, ma il suo sviluppo fino alla costruzione dell’esperienza soggettiva edell’espressione compiuta della gioia dipenderebbe dall’accoppiamen-to progressivo di esso a uno schema cognitivo interpersonale acquisitosulla base dell’esperienza.

Nonostante l’indubbio valore euristico dello sforzo di conciliare le

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divergenti posizioni psicobiologica e costruttivista, la prospettivacomponenziale non sfugge del tutto al problema posto dai risultaticombinati delle neuroscienze e dell’evoluzionismo: la dimostrazionecioè che esiste omologia, e non analogia, nelle diverse specie di mam-miferi, dei circuiti cerebrali da una parte, e dei sistemi comportamentaliespressivi dall’altra, che caratterizzano le emozioni di base. Come harilevato Panksepp (1990; 1998), la prospettiva componenziale non hafino ad oggi sviluppato alcun programma di ricerca coerente, alternati-vo a quello basato sull’idea di un’omologia evoluzionista, per lo studiodei sistemi cerebrali che sostengono l’espressione e l’esperienza delleemozioni negli animali e nell’uomo. La ricaduta del problemadell’omologia dei sistemi cerebrali emozionali sull’indagine delleintersezioni fra scienza cognitiva e psicopatologia è evidente: se esisto-no emozioni di base selezionate dall’evoluzione prima della cognizioneumana e cablate per via innata nel cervello umano, i processi cognitiviespliciti sono influenzati da esse prima di influenzarle, e l’influenza deiprocessi cognitivi espliciti sulle emozioni di base è comunque da inten-dersi nella dimensione della regolazione, più che in quella della genesi,delle emozioni caratterizzanti la psicopatologia.

4. CONOSCENZA E REGOLAZIONE DELLE EMOZIONI

In quale modo, se si accetta (col sostegno dei dati delle neuroscienzee dell’etologia) la prospettiva psicobiologica sull’esistenza di emozionidi base, i processi cognitivi espliciti intervengono successivamentenella modulazione e regolazione di esse? Se, come afferma Edelman(1989), il mondo esterno è «un luogo senza etichette», ed è compitointrinseco dell’attività cerebrale umana categorizzarlo prima percettiva-mente e poi concettualmente, l’esperienza emozionale primaria è inve-ce, secondo la prospettiva psicobiologica, fin dall’inizio costituita dacategorie percettive innate. Alle categorie percettive riguardanti le emo-zioni di base, che sono evoluzionisticamente date (percezione prototipicadella paura, della collera, della gioia, della tristezza, ecc.), vengono inseguito giustapposte, più o meno adeguatamente, categorie cognitiveesplicite come le credenze di categorizzazione e di attribuzione causaledescritte da Miceli e Castelfranchi (2002). Può allora accadere che unao più delle categorie cognitive esplicite con le quali attribuiamo signi-ficato e valore a quello che emotivamente proviamo, divergano dalvalore evoluzionisticamente determinato dell’emozione. Come illustra-to dal personaggio dickensiano di Casa desolata, che attribuiva al ventodell’est, e non alle interazioni interpersonali in corso, ogni percezionedi collera o di tristezza nascente in se stesso, diverrà difficile inserirealcune classi di esperienza emozionale nelle strutture della conoscenzasemantica o autobiografica. Si può immaginare, in altre parole, la pos-

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sibilità di una dissociazione fra percezione primaria dell’emozione esua categorizzazione cognitiva esplicita, una dissociazione che presu-mibilmente ostacola lo sviluppo adeguato dei sistemi di regolazione omodulazione di quella emozione. Non adeguatamente compresa nel suovalore e nel suo significato, l’emozione di base (che, in quanto parte delcorredo genetico e adattativo della specie, è impossibile non provare)viene sottratta ai processi intrapsichici e interpersonali, mediati dallinguaggio, con i quali diveniamo via via capaci di calmare una pena,placare una collera, amplificare una gioia o rassicurarci da una paura.Quella emozione sarà allora, ripetutamente e durevolmente, esperita edespressa in maniera abnorme. Di qui il suo potenziale patogeno.

Un programma di ricerca che abbia come oggetto i vari modi con iquali un’emozione di base può essere misconosciuta nei processi cognitiviespliciti, deve prendere le mosse dalla definizione precisa del valoreevoluzionistico di ciascuna emozione di base. Il valore innato dellapaura nella protezione dai pericoli ambientali; quello della collera nelrichiedere energicamente che un bene minacciato sia prontamente ripri-stinato; quello della tristezza nel frenare un comportamento appetitivodivenuto inutile per la perdita del suddetto bene; quello della gioia nelsegnalare il conseguimento di ciò che era stato appetito: per limitarsiagli esempi più semplici, tutti questi valori devono essere riconosciuticome precedenti ogni forma di cognizione esplicita. Attraverso la defi-nizione di tali valori, divengono riconoscibili la funzione specifica diogni emozione e la sua efficacia nella regolazione del comportamento.Di conseguenza, si potranno identificare tanto la forma generale deiprocessi cognitivi espliciti (potenzialmente patogeni) che misconosconovalore, funzione ed efficacia di un’emozione, quanto le modalità con lequali tali processi possono essere acquisiti.

Le interazioni psicologicamente traumatiche del bambino con chi loaccudisce, che tanta parte notoriamente hanno nella genesi di vari di-sturbi psicopatologici, costituiscono un esempio fra i tanti di come sipossa pervenire a un misconoscimento del senso e del valore di una opiù classi della propria esperienza emozionale di base. Di fronte a unadulto maltrattante, le espressioni spontanee (non mediate cioè da pro-cessi cognitivi espliciti) di paura, di collera e di tristezza del bambinonon sortiranno alcun effetto nel porre termine al maltrattamento: lestrutture cognitive esplicite del bambino rappresenteranno allora quelleproprie emozioni come prive di efficacia sull’altro. La loro funzione diprotezione e di richiesta non verrà adeguatamente riconosciuta nellaconoscenza semantica del bambino che pure le prova. L’eventuale indi-cazione, da parte dell’adulto maltrattante, che le emozioni espresse dalbambino sono segni del suo cattivo carattere e che esse stesse lo rendo-no meritevole di quanto accade, contribuirà ulteriormente a indurre nelbambino la costruzione di una conoscenza assai distorta del significatoe del valore della propria (e dell’altrui) esperienza emotiva (invalidazione

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delle emozioni: cfr. Linehan 1993). Dotato di tale inappropriata cono-scenza del valore della paura, della collera e della tristezza nella vitamentale ed interpersonale, il bambino tenderà ad esprimere quelle emo-zioni in eccesso o in difetto: ad esempio, potrà non riconoscere pronta-mente quando divengono efficaci nel regolare il comportamento di altri(diversi dall’adulto maltrattante) verso di lui, e continuare ad esprimer-le nella convinzione della loro bassa efficacia. Gli altri con cui entra inrelazione avranno probabilmente difficoltà a comprendere il retroscenacognitivo di tale espressione eccessiva di emozioni spiacevoli, e ripete-ranno inconsapevolmente l’accusa di «cattivo carattere», in un circolovizioso interpersonale (Safran e Segal 1990) che conferma l’invalidazionedell’esperienza emotiva nella conoscenza semantica ed autobiografica.

5. INTERSOGGETTIVITÀ NELLA CONOSCENZA E NELLA REGOLAZIONE DELLE

EMOZIONI

Una prima importante implicazione del suddetto modello teorico –che attribuisce un ruolo cruciale, nella regolazione della vita emoziona-le, ai processi con cui le percezioni delle emozioni di base vengonocategorizzate nella conoscenza esplicita – riguarda l’intersoggettività.Sono indubbiamente gli altri significativi (Bowlby 1979; Bretherton eFritz 1986), prima con i loro atteggiamenti di risposta e poi con icommenti verbali, a dirigere in direzioni favorevoli o sfavorevoli ilriconoscimento del valore e del senso di ciascuna emozione percepita insé ed espressa verso l’altro (ri-conoscimento, perché l’emozione stessa,in quanto categoria innata con valore evoluzionistico di sopravvivenzaed adattamento all’ambiente, costituisce di per sé una forma di cono-scenza pre-verbale del senso e del valore di determinate contingenze diinterazione organismo-ambiente). La co-costruzione di significatinell’intersoggettività è, in un certo senso, al servizio della co-regolazionedelle emozioni.

Per lo studio delle intersezioni fra scienza cognitiva e psicopatologia,ciò equivale ad affermare la necessità che la rappresentazione cognitivadelle interazioni umane, in tutta la densità degli scambi emozionali daesse implicati, sia posta al centro dell’interesse. Come si sviluppi unaconoscenza esplicita del significato delle interazioni, a partire dallaconoscenza implicita di esse che fin dai primi giorni di vita il bambinoaccumula nel rapporto con chi lo accudisce, diventa un tema di crucialeinteresse. La possibilità concreta di perseguire un tale programma diricerca è illustrata dallo studio dei modelli operativi interni dell’attacca-mento e del loro sviluppo nell’arco di vita fino all’influenza che essiesercitano sui processi cognitivi dell’adulto e sulla genesi di alcunidisturbi psicopatologici (Bowlby 1982; Bretherton e Mulholland 1999;Liotti 2001; Main 1995). Il modello operativo interno dell’attaccamento

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sicuro, ad esempio, può essere concettualizzato come un insieme dicredenze, mutuate dall’atteggiamento positivo e «validante» del caregiververso le emozioni espresse dal bambino, che riflettono e ri-conoscono ilsenso ed il valore delle emozioni di base (sperimentate prima dellaformazione di tali credenze). All’opposto, i modelli operativi internicorrispondenti ai diversi tipi di attaccamento insicuro riflettono vari tipidi invalidazione delle emozioni di base.

Può essere utile ricordare, a questo riguardo, che lo studio dellacostruzione di diversi tipi di strutture semantiche in funzione di diversitipi di relazioni di attaccamento è correlabile allo studio dello sviluppodelle capacità metacognitive. Lo studio delle capacità metacognitive, edei loro deficit in psicopatologia, è di fondamentale importanza perl’indagine cognitivista sui meccanismi della regolazione delle emozioni(Liotti 2001; Semerari 1999), ma su questo tema è qui impossibilesoffermarsi.

6. PENSIERO METAFORICO E CONOSCENZA DELLE EMOZIONI

Il ruolo innegabile ed evidente delle influenze interpersonali nellosviluppo della conoscenza del senso e del valore delle proprie emozioni(Bowlby 1979; Bretherton e Fritz 1986) si associa, e non la annulla, allatendenza intrinseca del cervello-mente a categorizzare l’esperienza nel-le strutture della conoscenza semantica (Edelman 1989): questa tenden-za intrinseca opera anche indipendentemente da quegli scambi verbalicon altri che contribuiscono alle credenze esplicite di categorizzazionedelle emozioni. La ri-categorizzazione cognitiva esplicita delle catego-rie percettive implicite corrispondenti alle emozioni, in altre parole,tende a prodursi anche in assenza di interlocutori influenti che suggeri-scano (più o meno adeguatamente), con i loro commenti verbali, comedefinire l’esperienza emotiva. Le forme di attività cognitiva di tipometaforico (Casonato 2003) giocano probabilmente un ruolo essenzialein questa ri-categorizzazione cognitiva dell’esperienza emozionale.

Lakoff e Johnson (1982), nella loro ormai classica analisi dellecomuni metafore che sono alla base del pensiero quotidiano, hannomostrato come quelle fra esse che ci permettono di tradurre in parole latacita esperienza delle emozioni hanno a che fare, in ogni cultura ed inogni linguaggio, con le sensazioni corporee tipiche di ogni categoriaemozionale. «Oggi sono su», ad esempio, è una metafora universale,che ha come soggetto (topic) il mio umore e come veicolo di significato(vehicle) «su». Lo sfondo conoscitivo (ground) che permette di com-prendere la metafora riguarda la memoria propriocettiva del sentimentoe dell’umore positivi che accompagnano la testa alta e il tronco diritto– sentimento ed umore opposti all’emozione di tristezza che si esprimeuniversalmente attraverso il capo chino ed il corpo accasciato («Ieri ero

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molto giù»). La semplice analisi etimologica delle parole con cui defi-niamo molte emozioni rivela le tracce del pensiero di tipo metaforico,centrato sull’esperienza corporea tipica di quell’emozione, che è statoall’origine di tali termini.

A partire dalle riflessioni della linguistica cognitiva sul ruolo delpensiero metaforico nella conoscenza delle emozioni, è possibile ipo-tizzare che alcuni sintomi psicopatologici abbiano il valore di metafore«congelate» (Modell 1997) o «incompiute» (Liotti 2001): metafore cioèattraverso le quali il cervello/mente tenta senza successo di ricategorizzarecognitivamente la percezione di importanti emozioni di base, la cuiconoscenza semantica corretta è ostacolata da avverse situazioniinterpersonali (del tipo suggerito in un paragrafo precedente attraversol’esempio delle interazioni traumatiche). Ad esempio, un sintomoagorafobico potrebbe essere il frutto di un processo di pensiero metafo-rico, attraverso il quale il cervello/mente del paziente tenta di sviluppa-re la conoscenza semantica di normali emozioni di paura della solitudi-ne. La conoscenza corretta del senso e del valore evoluzionistico di taleemozione sarebbe ostacolata dall’esperienza e dalla memoria di interazionisignificative, all’interno delle quali sia stata deficitaria la riflessione sulsignificato ed il valore della paura di separazione (la base innata dellapaura di separazione è fortemente suggerita dall’ampia mole di dati asostegno delle radici evoluzionistiche dell’attaccamento: cfr. Bowlby1982; Panksepp 1998; Polan e Hofer 1999). La comprensione compiutae dinamica, da parte del paziente, della metafora generata dal suo stessocervello – metafora che per così dire lo invita a considerare con maggio-re attenzione e flessibilità le proprie emozioni di fronte alla separazio-ne, alla ricerca di un significato più adeguato di quello che ora è capacedi attribuirvi – può essere ostacolata dai deficit metacognitivi che, aloro volta, sono correlati ad esperienze infelici di attaccamento (Liotti2001).

Non è opportuno, per limiti di spazio, tentare di presentare qui, al dilà di una estremamente sommaria esemplificazione come la precedente,le osservazioni cliniche e le riflessioni teoriche che sarebbero necessa-rie per dare corpo e sostanza all’ipotesi delle metafore congelate oincompiute. Piuttosto, vale la pena di soffermarsi ancora sull’accentoche è stato posto, nell’affermazione appena fatta, sull’idea che esistauna conoscenza semantica corretta delle emozioni di base, e che unaconoscenza non corretta di esse dipenda da un deficit di riflessionecondivisa sul suo significato e sul suo valore. Si tratta forse dell’ideache meglio caratterizza l’intera prospettiva psicobiologica sui rapporticognizione-emozione, e le sue applicazioni allo studio della psicopato-logia. Ribadiamolo: solo assumendo che esista un preciso valore evolu-zionistico di alcune emozioni di base – emozioni la cui percezione nelloschema corporeo (Damasio 1999) è universale, invariante e a prioririspetto allo sviluppo della conoscenza semantica – diviene concepibile

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la possibilità di attribuire un significato corretto o scorretto alle emozio-ni percepite. La prospettiva socio-costruttivista, infatti, nega sostanzial-mente tale possibilità, riconoscendo uguale valore di verità a tutte leforme di conoscenza semantica delle proprie emozioni. Non l’attribu-zione di un significato erroneo alla propria e all’altrui esperienza emo-tiva, ma la minaccia alla coerenza interna del sistema conoscitivocostituisce il criterio fondamentale prescelto dalla prospettiva socio-costruttivista per comprendere il fondamento dei disturbi psicopatologici(si veda, ad esempio, Guidano 1991).

7. DISSOCIAZIONE FRA CONOSCENZA ED EMOZIONI NELLA PSICOPATOLOGIA

CLASSICA, NELLA SCIENZA COGNITIVA CLASSICA E NELLA SCIENZA COGNITIVA

NON CLASSICA

Le riflessioni sul tema della conoscenza e regolazione delle emozio-ni conducono, è di un certo interesse notare, alla rivisitazione di unateoria esplicativa classica della psicopatologia dinamica: la teoria diPierre Janet della disaggregazione, o dissociazione, fra contenuti dellacoscienza (per una sintesi, si veda Ellenberger 1970). Il dispiegarsinella coscienza di un flusso di informazioni esplicite che riguardanoun’emozione (tornando all’esempio del paziente agorafobico: «quelloche provo quando sono solo nella strada è la paura di avere un infarto eche nessuno possa o voglia soccorrermi») può disconnettersi dal suovalore e dal suo senso evoluzionistico, che resta allora ai margini del-l’elaborazione cosciente (l’emozione, nell’esempio, era comparsa difronte a desideri di separazione da un legame insoddisfacente ma co-munque percepito, nell’architettura di base delle emozioni, come pro-tettivo). Proprio perché esistono ostacoli, nella conoscenza esplicita, alriconoscimento del valore e del senso «innati» dell’emozione (la pauradi separazione, nell’esempio), questa va incontro a sviluppi psicopato-logici. Da un lato, essa resta in qualche modo «disaggregata» dal flussocosciente di narrazione dell’esperienza. Dall’altro, non può essere rego-lata o modulata attraverso il dialogo interiore, e di conseguenza acqui-sisce, anche per le spiegazioni esplicite erronee del suo significato («uninfarto imminente»), proporzioni ed intensità abnormi. Per così dire,perdurando le cause di innesco di un’emozione di base (la tendenza asepararsi da una persona che è divenuta figura di attaccamento, nel-l’esempio dato), l’emozione corrispondente continua a prodursi nelmondo della conoscenza implicita a base innata, ma la causa del suoprodursi non è riconosciuta nel mondo della conoscenza esplicita. Lecredenze erronee sulla causa e sul senso dell’emozione possono poiinnescare altre emozioni patologiche (la paura di avere un infarto, nelnostro esempio), che talora mantengono il disturbo psicopatologico (lapaura abnorme, cioè un disturbo d’ansia, nel nostro esempio) anche

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quando le condizioni di innesco dell’emozione di base (la paura diseparazione) sono mutate (ad esempio, il legame di attaccamento si èinterrotto da tempo, e se ne sono formati altri dai quali il paziente nondesidera separarsi).

Una tale rivisitazione delle tesi di Janet, basata su una prospettivaevoluzionista ed effettuata attraverso una loro riformulazione nei termi-ni generali della psicologia cognitivista contemporanea (conoscenzaesplicita ed implicita), sembra potersi adattare anche a proposte sullapsicopatologia recentemente emerse nell’ambito più specifico della scien-za cognitiva classica, come quelle derivanti dalle teorie modulari del-l’architettura cognitiva (Marraffa 2002). In altre parole, è possibileconcepire l’esistenza di moduli innati, deputati ciascuno alla sintesi dispecifiche classi di emozioni in risposta a specifiche contingenze diinterazione individuo-ambiente. Ed è possibile ipotizzare che i processisovramodulari (ipotizzati dalle versioni deboli della modularità massiva),deputati allo sviluppo di attribuzioni di nome, causa, valore e significa-to all’esperienza, siano ostacolati nel loro operare su una o più di taliclassi di emozioni.

Le nostre riflessioni sul potenziale patogeno del misconoscimentodel valore e del senso, evoluzionisticamente determinati, delle proprieemozioni di base, si prestano anche a formulazioni consonanti conalcune recenti versioni «non classiche» (Marraffa 2001) delle scienzecognitive, come è suggerito dai ripetuti riferimenti all’opera di Edelman(1989) in quanto precede. Dunque, il tema psicopatologico del mismatcho disaccordo fra 1) senso evoluzionistico di un’emozione e 2) significa-to ad essa attribuito nei sistemi individuali di credenze, si presta adessere sviluppato all’interno di cornici concettuali diverse, ma tuttecontenute nell’ambito del cognitivismo. Questo tema, di conseguenza,corrisponde bene ai meriti che Mancini (2002) attribuisce ad ogni inda-gine che utilizzi la scienza cognitiva come fondamento per lo studiodella psicopatologia, meriti che consistono nel rivedere la fondatezza el’utilità di alcuni luoghi comuni della psicopatologia «…e anzitutto ladistinzione fra mente calda e mente fredda, fra ragione e passione, fraemotivo e cognitivo» (Mancini 2002, 12). Tale revisione, come Manci-ni osserva, conduce alla rinuncia ad ipotizzare un’opposizione natural-mente precostituita fra ragione e passione, fra cognizione ed emozione(Mancini 2002, 13). In effetti, nel modello di conoscenza e regolazionedelle emozioni di base che qui abbiamo presentato, non esiste una taleprecostituita opposizione, un tale radicale conflitto, ma solo un possibi-le disaccordo successivo nel corso dello sviluppo, conseguente ad un’ina-deguata costruzione della conoscenza esplicita delle emozioni.

La rinuncia all’idea classica di un radicale e costitutivo conflitto fracognizione ed emozione è, naturalmente, un frutto immediato anchedelle prospettive cognitiviste che, per studiare il rapporto fra cognizio-ne ed emozione, si fondano (esplicitamente o tacitamente) sulle teorie

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socio-costruttivista o componenziale. Tuttavia, esistono notevoli diffe-renze fra il modello cognitivo-evoluzionista (qui illustrato usando comeesempio il suo modo di affrontare il tema della regolazione delle emo-zioni) e i modelli di psicopatologia cognitivista, basati sulle teoriesocio-costruttivista e componenziale, che (a differenza della teoriapsicobiologica) risolvono i rapporti fra cognizione ed emozione inse-rendo i processi cognitivi, senza ulteriori specificazioni, fra i costituentistessi di tutte le emozioni. La breve discussione di una fra tali differenzeconcluderà il presente contributo.

8. È L’UOMO UN AGENTE COGNITIVO?

Se le emozioni riconoscono alcuni processi cognitivi fra i lorocostituenti fondamentali, e li riconoscono come costituenti di almenopari dignità nella sintesi dell’esperienza emozionale rispetto agli inne-schi delle emozioni da parte di alcune contingenze ambientali ointerpersonali e all’attivazione degli scopi, allora è decisamente ade-guata la descrizione dell’uomo come un agente cognitivo. Un agentecognitivo è tale in quanto «basa i suoi scopi, le sue preferenze e le suedecisioni sulle sue credenze» (Mancini e Gangemi 2002, 208). Se inve-ce almeno alcuni scopi e preferenze, per di più assai importanti per lasopravvivenza e l’adattamento all’ambiente evoluzionistico, sono am-piamente indipendenti dalle credenze (intese come strutture della cono-scenza esplicita), nel senso che possono attivarsi indipendentemente daesse, allora l’uomo non è adeguatamente, cioè sufficientemente, de-scritto dalla nozione di «agente cognitivo». La prospettiva psicobiologicasostiene appunto che le emozioni di base rivelano scopi e preferenzeselezionati dall’evoluzione, e che restano ampiamente indipendenti daogni credenza esplicita per tutto l’arco della vita. Per fare un soloesempio: nonostante la grande variabilità delle credenze umane circa lamorte (dalla successiva sopravvivenza in un’altra dimensione di realtàall’annichilimento, dal ritenerla frutto di destino al ritenerla causatadalle azioni del defunto o dei suoi predecessori fino ad Adamo, dalconsiderarla liberatoria rispetto alle sofferenze umane al considerarla ilmale fondamentale), le reazioni al lutto per la morte di una figura diattaccamento sembrano avere come nucleo fondamentale una sequenzaemotiva rintracciabile sempre. Rintracciabile, cioè, al di là delle purnotevoli differenze individuali legate alle diverse credenze sulla morte,e al di là persino della qualità, positiva o negativa, della relazione conquella particolare figura di attaccamento (Bowlby 1980).

Se l’uomo, come suggeriscono le prospettive socio-costruttivista ecomponenziale, è adeguatamente descritto dalla nozione di agentecognitivo, allora una serie di importanti problemi della psicopatologia(primo fra tutti, quello del cosiddetto paradosso nevrotico: Mancini e

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Gangemi 2002) devono essere affrontati sulla base di spiegazioni cheinvochino: 1) l’importanza sovraordinata del mantenimento della coe-renza del sistema conoscitivo (nonostante l’invalidazione di singolecredenze prodotta dalla sofferenza stessa, queste credenze sono mante-nute in quanto funzionali ad assicurare coerenza al complesso sistemaconoscitivo nel suo insieme); 2) un vantaggio emotivo secondario trattodalle credenze coinvolte nel mantenimento paradossale della sofferen-za; 3) la conferma delle credenze che sostengono la patologia attraversoparticolari e complessi effetti non coscienti degli stati intenzionali dicui quelle credenze fanno parte (Mancini e Gangemi 2002). La conse-guenza pratica, nella conduzione della psicoterapia, del considerarel’uomo un agente cognitivo sarà allora di mirare a restituire al paziente:1) una comprensione della propria coerenza sistemica, oppure di aiutar-lo a 2) identificare il vantaggio secondario e a rinunciarvi, o ancora a 3)identificare gli errori – per esempio, di omissione della ricerca attiva dicredenze alternative – che sono alla base della conferma delle credenzepatogene.

Se invece l’uomo, come suggerisce la prospettiva psicobiologica edevoluzionista, non è adeguatamente e sufficientemente descritto dallanozione di agente cognitivo, problemi come quello del paradosso ne-vrotico (del mantenimento cioè delle credenze correlate alla sofferenzaemotiva nonostante l’evidenza della loro natura controproducente) pos-sono essere affrontati, almeno in alcune circostanze, anche consideran-do le conseguenze di un disaccordo (una sorta di dissociazione funzio-nale) fra emozioni e cognizioni. E si può studiare come tale disaccordopossa prendere forma, come si è visto, senza cadere nella fallacia diconsiderare emozione e cognizione radicalmente opposte o in ontologicoreciproco conflitto. Per risolvere il disaccordo fra emozioni di base econoscenza esplicita del loro senso e valore, l’operazione terapeuticafondamentale (certamente compatibile con l’attribuzione di importanzacentrale ai processi cognitivi) mirerà a porre in allineamento e sintoniaquel che il paziente crede e quel che sente, correggendo quanto di quelche crede gli impedisca di cogliere il senso ed il valore delle sue proprieemozioni percepite. Se si considera in quest’ottica il processo terapeutico,anche gli interventi basati sull’empatia piuttosto che sulla critica espli-cita di strutture cognitive rientrano tra i possibili interventi di correzio-ne della conoscenza: nella misura in cui l’atteggiamento empatico delterapeuta verso alcune emozioni del paziente conduce quest’ultimo arivedere le convinzioni negative attraverso le quali prima giudicava taliemozioni, l’effetto dell’empatia può rientrare fra gli oggetti di studiodella psicopatologia e della psicoterapia cognitivista.

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271SISTEMI INTELLIGENTI / a. XVI, n. 2, agosto 2004

ALFREDO CIVITA

PSICOANALISI E PSICOTERAPIA COGNITIVA

1. PREMESSE TEORICHE

Lo scopo di questo scritto è descrivere una differenza fondamentaletra psicoanalisi e psicoterapia cognitiva. La differenza concerne l’atteg-giamento del paziente sia nei confronti del sapere del terapeuta sia neiconfronti del sapere in generale. Illustrerò la differenza attraverso unaserie di esempi clinici. Prima di presentare il materiale clinico, introdur-rò alcune considerazioni teoriche.

Nella comunità psicoanalitica la sensazione che la psicoanalisi siain crisi è da qualche tempo molto forte. Un segno della crisi è ilproliferare di teorie psicoanalitiche contrastanti che generano un plura-lismo caotico che disorienta.

La crisi della psicoanalisi ha molte cause. Una è sicuramente ilsenso di inferiorità e di accerchiamento rispetto al poderoso sviluppodelle scienze cognitive: della neurobiologia e della psicofarmacologiada un lato, e della psicologia cognitiva, compreso il cognitivismo clini-co, dall’altro.

A proposito della crisi della psicoanalisi ricordo l’importante arti-colo di Kandel (1999), in cui questo grande scienziato sostiene che persopravvivere, la psicoanalisi deve fondare le sue teorie sulle acquisizionidelle neuroscienze; era questa del resto anche l’ambizione del giovaneFreud. Kandel assegna alla psicoanalisi un compito sacrosanto ma cheallo stato delle conoscenze, sia in neurobiologia sia in psicoanalisi,appare per ora improponibile (Civita 2002).

Nella psicoanalisi attuale questa condizione di crisi ha dato originea tre reazioni di natura diversa che hanno però in comune il bisogno, senon di rifondare, almeno di svecchiare la teoria e la pratica psicoanalitica,attraverso l’incontro con discipline e metodologie che sono quasi sem-pre rimaste estranee alla psicoanalisi classica. Dopo decenni di splendi-do isolamento, la psicoanalisi si apre così al mondo esterno. Per ragionidi spazio presenterò le tre reazioni in maniera fortemente sintetica;ognuna di esse meriterebbe in realtà un intero libro.

La prima reazione è consistita in un imponente sviluppo di ricerche

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volte a mettere a punto rigorosi metodi empirici per studiare il processoe i risultati delle terapie di tipo analitico. L’indagine viene condotta perlo più su sedute audioregistrate. Queste ricerche hanno già portato arisultati di rilievo. Vi sono però due limiti. Il primo è materiale eriguarda in particolare il nostro paese. Questo tipo di studi richiede daparte dei gruppi di ricerca un tale dispendio di tempo, di pazienza, dienergie e di denaro da diventare di fatto irrealizzabile nei nostri Istitutiuniversitari di psichiatria che dispongono di esigui fondi di ricerca esono peraltro ben poco generosi per questo tipo di iniziative.

Inoltre queste ricerche si svolgono all’interno del paradigmapsicoanalitico, i risultati sono pertanto limitati agli psicoanalisti, ealmeno per ora appare improbabile uno scambio di conoscenze con altriparadigmi psicopatologici e psicoterapeutici. Occorre anche ricordareche le ricerche empiriche sono osteggiate da molti psicoanalisti chevedono in esse uno snaturamento dello spirito della psicoanalisi1. Restail fatto che questo nuovo orizzonte dell’indagine psicoanalitica costitui-sce ormai una realtà consolidata, alla quale bisogna solo dare il tempodi maturare ulteriormente.

La seconda reazione alla crisi consiste nel tentativo di incorporarenel patrimonio teorico della psicoanalisi sia conoscenze di psicologiaevolutiva provenienti dall’infant research, sia conoscenze scaturite inambito cognitivista.

Lo psicoanalista inglese P. Fonagy (Fonagy e Target 2001) è sicura-mente l’autore più impegnato in questo senso. Egli ha introdotto nelcorpo teorico e clinico della psicoanalisi la Teoria dell’attaccamento ela Teoria della Mente. Tra i molti autori che hanno intrapreso iniziativeanaloghe a quelle di Fonagy ricordiamo Bucci (1997) e Wakefield(1990). L’obiettivo di entrambi è di modernizzare la psicoanalisi pro-muovendo un dialogo con le scienze cognitive.

Non è questa la sede per avanzare obiezioni nei confronti di taliiniziative, la cui rilevanza non deve comunque essere sottovalutata. Milimiterò a un semplice cenno critico. Fonagy e gli altri autori nominatisembrano non tener conto delle differenti epistemologie che caratteriz-zano la produzione delle conoscenze nelle diverse discipline che essimettono a confronto in vista di un’integrazione: psicoanalisi, teoriadell’attaccamento, psicologia evolutiva, psicologia cognitiva. La diffe-renza epistemologica non ha un significato puramente accademico ospeculativo; da essa discendono importanti differenze in ordine alleteorie cliniche e alla tecnica del trattamento (Civita 2003).

La terza reazione è la più importante sul piano pratico. Negli ultimi

1 Forse il più autorevole psicoanalista che ha aspramente criticato la ricercaempirica è A. Green. In proposito si veda, in Maggioni (2002), il resoconto dell’accesadiscussione tra Green e D. Stern che si tenne nel 1997 all’University College diLondra.

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due decenni nel mondo psicoanalitico si sono affermati una varietà dimodelli teorico-clinici (costruttivista, interpersonale, intersoggettivo ecosì via) che hanno in comune questa convinzione: il setting psicoanaliticoclassico, quello teorizzato da Freud quasi un secolo or sono, non è piùadatto ai nostri tempi.

Il ritratto dello psicoanalista dipinto da Freud nei suoi scritti sullatecnica era più o meno questo: un terapeuta imperturbabile, silenzioso,che parla solo per far cadere dall’alto le sue ficcanti interpretazioni ditransfert, un terapeuta che non esce mai allo scoperto, che non interagiscecol paziente, non dà consigli o ammonimenti, non risponde alle doman-de e così via2.

Gli orientamenti psicoanalitici che ho prima nominato sovvertonoquesta immagine così pesantemente asimmetrica del lavoro dell’anali-sta. La centralità terapeutica dell’interpretazione di transfert è ridimen-sionata; l’interazione col paziente diviene un momento fondamentale,così come la relazione reale, distinta da quella transferale; all’analista èora consentito di esporsi, di rispondere alle domande, perfino, in alcunicasi, a quelle strettamente personali. Molti psicoanalisti, infine, non siperitano di impiegare tecniche cognitive o pedagogiche. Per esempio, inalcune circostanze l’analista può chiedere al paziente di tenere un diariodove appuntare pensieri, emozioni, sogni. Infine, anche il setting mate-riale è molto mutato: si conducono terapie analitiche a una sedutasettimanale, si consente al paziente di telefonare nel corso della settima-na o nelle vacanze, durante le quali qualcuno arriva fino al punto dispedire una cartolina al paziente.

Soprattutto se teniamo presente questa terza reazione, dobbiamoconcludere che la psicoanalisi attuale si trova in uno stato di notevolevitalità intellettuale ma anche di confusione. Io credo che questa confu-sione si diradi un poco introducendo la differenza tra psicoanalisi ecognitivismo clinico che rappresenta l’oggetto del presente scritto.

2. ARGOMENTI ED ESEMPI CLINICI

La tesi clinica da cui parto – una tesi che ha un fondamento teoricoche esporrò in conclusione – è questa: al di là delle affinità che leavvicinano e che sono proprie in realtà di quasi tutte le psicoterapie, laterapia analitica e quella cognitiva sono sostanzialmente diverse in unpunto fondamentale. Credo inoltre che questa diversità abbia la seguen-te importante implicazione: per alcuni pazienti è adatta una terapiacognitiva, per altri è adatta una terapia analitica.

2 In realtà i suoi casi clinici, insieme ai resoconti dei pazienti (Albano 1987), cimostrano che Freud, nel lavoro clinico, era ben lontano dall’immagine di psicoanalistache andava teorizzando.

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Cercherò ora di illustrare il punto della differenza descrivendo inmaniera forse un po’ troppo impressionistica due tipologie di pazienti.

Per introdurre la prima tipologia prendo le mosse da un’anticaosservazione di Freud: «Al di sotto di un certo livello di intelligenza, ilmetodo non è assolutamente applicabile, e qualsiasi elemento di debilitàmentale lo rende estremamente difficile» (Freud 1895, 403).

Forse oggi non è politicamente corretto affermarlo, e certo moltipsicoanalisti non sono d’accordo con me, ma io credo che l’osservazio-ne di Freud sia tuttora condivisibile.

Ritengo, in altri termini, che per avviare un processo psicoanaliticovero e proprio – non una grottesca simulazione – il paziente debbaessere culturalmente e anche intellettualmente attrezzato. Altrimentinon sviluppa alcun interesse verso ciò che gli si chiede di fare e quindinon lo capisce.

Dicendo questo mi riferisco non solo alla psicoanalisi ortodossa (atre o quattro sedute settimanali), ma anche alle psicoterapie a indirizzoanalitico con una o due sedute alla settimana.

A non funzionare con pazienti che non possiedono questi requisiti èil setting analitico, e in particolare l’atteggiamento mentale che il settinganalitico implica.

Mi spiego cercando di toccare subito l’aspetto cruciale della que-stione. L’atteggiamento mentale del terapeuta analitico consiste essen-zialmente in questo: nei confronti dei bisogni del paziente, del benesse-re che egli si augura di raggiungere, di che cosa per lui significhi staremeglio e di cosa fare a tale scopo, nei confronti di tutto ciò il terapeutaanalitico si dispone, all’inizio della terapia e spesso per un lungo tempo,in uno stato mentale caratterizzato da due elementi decisivi.

Primo: la consapevolezza di non sapere quasi nulla in proposito(come far star bene il paziente e che cosa significhi per lui star bene),unita alla capacità di tollerare questa condizione spesso penosa di dub-bio e ignoranza3.

Secondo: la speranza che, mediante un lavoro analitico corretto, dalnon sapere e dalla confusione degli inizi affiori lentamente nel corso delprocesso terapeutico la verità e con essa il cambiamento.

Molti pazienti, nel cosiddetto transfert, attribuiscono al terapeutaquello che Lacan (1964) chiamava un supposto sapere: ritengono chel’analista disponga di tutte le conoscenze che sono loro necessarie.Lacan stesso sosteneva che l’analisi inizia davvero solo quando cadequesta attribuzione di sapere, di onniscienza.

Per esempio: un paziente mi chiede un consiglio: se fa bene arompere una relazione sentimentale che lo fa soffrire. Mi chiede qual èla scelta migliore per lui. Ma io come faccio a saperlo? Magari ho in

3 È ciò che Bion (1970) chiama capacità negativa.

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mente un’ipotesi, ma quanto conta? La svolta, nel processo analitico, sirealizza quando il paziente arriva a rendersi conto che il suo terapeutanon è un semidio, ma una persona in carne e ossa che ha i limiti di ogniessere umano, e il cui compito è di mettere a disposizione le suecompetenze per aiutarlo a trovare dentro se stesso le risposte che cerca.

Detto altrimenti, l’analisi decolla quando il paziente si assume laresponsabilità di partecipare in prima persona alla terapia. È un fattoevidente che molti pazienti non sono in grado di capire cosa significhiassumersi tale responsabilità, oppure, come vedremo, non hanno labenché minima intenzione di farlo.

Queste persone, se soffrono di disturbi psichici, hanno bisognoproprio di ciò che Lacan considera l’ostacolo principale alla psicoana-lisi: il supposto sapere del terapeuta. Hanno bisogno di affidarsi, diessere guidate e curate da una persona alla quale attribuiscono il posses-so del sapere.

Per chiarire questo punto espongo brevemente un esempio clinico4.Il paziente era un giovane e simpatico muratore che soffriva di intensiattacchi di panico. Lo seguivo, parecchi anni or sono, in un serviziopsichiatrico. Poiché a questo ero addestrato, il mio atteggiamento era ditipo analitico: ignoravo da dove derivassero gli attacchi di panico; dallecose che mi raccontava della sua difficile esistenza, congetturavo chedietro il panico si nascondesse una sofferenza ben più profonda. Conmolta ingenuità e con ben pochi risultati, cercavo di esplorare con luiquesto sfondo oscuro.

Dopo alcune settimane, un giorno accadde questo: il paziente sipresenta in seduta con aria contenta e quasi di sfida. Mi dice che è statodal suo medico di base, il quale gli ha diagnosticato un’asma, interpre-tando inoltre i suoi attacchi di panico come una conseguenza delle crisirespiratorie. Gli ha prescritto uno spray antiasmatico. Con l’assunzionedello spray, gli attacchi di panico scompaiono.

Durante quella seduta il paziente mi comunica che ha intenzione diinterrompere la terapia – del resto perché mai avrebbe dovuto prose-guirla, visto che ora stava bene?

Non avevo il minimo dubbio che, dal punto di vista fisiologico, gliattacchi di panico fossero largamente indipendenti dalla sua lieve asma;sospettavo se mai che le difficoltà respiratorie fossero una conseguenzadel disagio psichico ed esistenziale.

Come comportarmi? Avrei forse dovuto dissuaderlo dall’interrom-pere la psicoterapia? Avrei dovuto comunicargli i miei pessimisticidubbi? Resto convinto che se l’avessi fatto, avrei compiuto un erroremadornale, sia dal punto di vista terapeutico sia da quello etico.

4 Tutti gli esempi clinici che presenterò sono inventati. Ognuno, tuttavia, nasceda un’esperienza reale.

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Quel simpatico ragazzo aveva ricevuto dal suo medico tutto ciò dicui, in quel momento della sua vita, aveva bisogno per superare le suedifficoltà: al posto di una misteriosa diagnosi psichiatrica, una mitediagnosi organica. Al posto della strana richiesta di parlare, di ragiona-re, di raccontare, di ricordare, uno spray liberatorio, facilissimo dausare e perfino di gradevole foggia. In quell’ultima seduta poggiò lospray sul tavolo che ci divideva, come a dire: «Ecco quello che miserve!». Non ho più avuto notizie di quel ragazzo, ma non escludo – elo spero vivamente – che i suoi attacchi di panico siano davvero scom-parsi per sempre.

Dunque, prima tipologia: il paziente che ha bisogno, per stare me-glio, di qualcuno che gli dica chiaramente come stanno le cose e comedeve comportarsi.

Nel testo che prima citavo, Freud introduceva un altro requisito deltrattamento analitico: «Il procedimento è faticoso e sottrae molto tempoal medico, presuppone in lui un grande interesse per i fatti psicologici»(Freud 1895, 403).

Aggiungerei che non solo il medico ma anche il paziente deve avereun grande interesse per i fatti psicologici. Questo punto ci introduce auna variante molto interessante della prima tipologia: è formata dapazienti colti, intelligenti, spesso laureati, che tuttavia non hanno nessu-na voglia di cambiare se stessi; non vogliono mettersi in discussione,come si suol dire. La loro personalità va bene così, quello che chiedonoè solo di soffrire di meno e di adattarsi meglio al mondo esterno. Ancheper questi pazienti la psicoanalisi pura è controindicata.

Espongo in breve un altro caso clinico: è una donna nubile di 30anni che è in terapia con me, una seduta alla settimana e in vis à vis, dasette anni. La chiamerò Marcella. La sua diagnosi è inequivocabile:disturbo paranoide di personalità. Il disturbo non è particolarmentegrave, la paziente non ha mai delirato (almeno in senso stretto), non hamai avuto condotte violente contro se stessa o contro altri. L’atteggia-mento paranoide è però pervasivo, sistematico, incrollabile e ha pesan-temente influenzato molti aspetti della sua vita: i rapporti con la fami-glia, il lavoro, le relazioni sentimentali e sessuali, le amicizie.

La sua è stata una vita piena di frustrazione e d’infelicità. Ben prestoho capito che con questa paziente l’atteggiamento analitico – neutralità,silenzio, rare interpretazioni e così via – era assolutamente contropro-ducente.

Ricordo che nelle prime sedute, quando ancora cercavo di pormi inuna posizione analitica, la risposta di Marcella ai miei interventi era unpianto a un tempo disperato e rabbioso. Siccome ritengo sconsideratal’idea che i pazienti debbano necessariamente attraversare una fase didolore mentale, cambiai immediatamente il mio atteggiamento, assumen-do una disposizione empatica di ascolto, di accoglimento e anche di guida.Per esempio, le dicevo e tuttora le dico: «Fossi al suo posto, farei così...».

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Marcella è intelligente, colta (si è da poco laureata in Legge), manon aveva e non ha alcuna intenzione di intaccare la sua forma di vita,il suo progetto di mondo, come direbbe Binswanger. Verso i fatti psico-logici, di cui parlava Freud, Marcella non ha alcun vero interesse.Ebbene, se lei non vuole interessarsi del suo mondo psichico, perchédovrei farlo io? Ancor più chiaramente: se lei non vuole cambiare la suapersonalità, con quale diritto dovrei io cercare di cambiarla?

Mi sono chiesto talvolta come mai questa paziente prosegua laterapia, la quale da un punto di vista strettamente clinico ha conseguitoben pochi risultati. Il disturbo paranoide persiste, tutt’al più i sentimentidi rabbia, di odio e di umiliazione le risultano più comprensibili equindi più modulabili. La struttura paranoide è però sempre la stessa.

Riconosco due ragioni per cui Marcella continua volentieri la tera-pia. La prima è tristemente umana: Marcella è sola, non ha un fidanzato,ha poche e superficiali amicizie. Io sono per lei una compagnia, lesedute sono sempre animate e ci coinvolgono, qualche volta possoperfino concedermi il lusso di fare dell’ironia sul suo sentirsi sempreuna vittima che incontra un nemico, dovunque vada.

Una seconda ragione è clinicamente più importante: con me – e solocon me – può dare libero sfogo ai suoi dolori e anche, per così dire, aisuoi piaceri paranoici. Io l’ascolto, solidarizzo, cerco semplicemente diaddolcire, di sdrammatizzare le azioni persecutorie di cui si sente vitti-ma e di cui spesso lo è realmente. In breve: viene da me furiosa, quandova via la sua rabbia si è mitigata. L’obiettivo di questa psicoterapia è diinsegnare a Marcella a fare da sola quello che fa insieme a me.

Direi che il relativo successo di questo trattamento è dipeso dall’es-sere riuscito a non assumere mai agli occhi di Marcella un ruolo dipersecutore. Sono sicuro, viceversa, che se avessi persistito in un atteg-giamento analitico, proprio io sarei diventato il suo più maligno perse-cutore.

Pensare di fare analisi in senso stretto con questo tipo di pazienti èpura tracotanza. Con questi pazienti la terapia cognitiva, eventualmenteunita a un trattamento farmacologico, è sicuramente la più indicata.Oppure può dimostrarsi efficace la strategia che ho adottato con Marcella:ascoltare, empatizzare, invitarla a esaminare accuratamente le situazio-ni persecutorie che la coinvolgono, con lo scopo di portarla a vedere lecose in un modo nuovo e meno drammatico.

Passo alla seconda tipologia di pazienti. Ne descrivo il tipo ideale,per così dire: sono pazienti colti, curiosi, introspettivi, capaci e anzidesiderosi di entrare in una relazione emotiva e conoscitiva con ilterapeuta. Una relazione che può essere pacifica o anche turbolenta,senza che però la turbolenza sfoci mai in una reale ostilità o aggressivi-tà. Questi pazienti accettano, anzi apprezzano il setting analitico.

Per esempio, che il terapeuta di norma non risponda alle loro do-mande, è qualcosa che li intriga e rappresenta una sorta di sfida emozio-

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nante. Spesso, con un sorriso malizioso sulle labbra, dicono: «Le faròuna domanda, ma tanto lei non mi risponderà». Se però io rispondo, nonvivono la cosa come una vittoria, ma come un avvicinamento.

Altro esempio: un paziente sulla quarantina incrocia sulla porta afine seduta la mia paziente successiva, una giovane donna. Nella sedutadopo formula da sé l’interpretazione di transfert che io avevo in mente:«Sono sicuro – mi dice sogghignando – che ha pensato che io ho provatogelosia per quella paziente carina che ho visto l’altra volta. È vero, loconfesso!».

Pazienti come questi, in certo senso, non devono neanche impararea fare l’analisi, sanno fin dall’inizio di cosa si tratta. Costoro possonotrarre da un trattamento analitico un sostanziale giovamento.

Non mi soffermo su questa tipologia, mi limito a un’unica osserva-zione. Non credo che questi pazienti possano giovarsi di una terapiacognitiva o comportamentale. Difficilmente tollerano che qualcuno dicaloro cosa fare e cosa pensare. Nella pratica clinica questo fatto trovaconferma in comunicazioni di questo genere: «Il mio precedente terapeutami dava da fare dei compiti a casa. Secondo me, era lui che dovevacurarsi».

Da quanto detto finora discende un’importante conseguenza: se èquesto il profilo del paziente ideale per una psicoanalisi, ne consegueche sono adatti alla psicoanalisi solo le nevrosi e i lievi disturbi dipersonalità. Psicosi e gravi disturbi di personalità restano esclusi.

Era questa l’opinione di Freud e mi sento di condividerla completa-mente. Pazienti con queste patologie dovrebbero essere inviati ad altreforme di trattamento. Altrimenti l’impostazione analitica deve esseresostanzialmente modificata, e il terapeuta deve essere in grado di impie-gare tecniche diverse da quelle analitiche.

Molte terapie s’interrompono precocemente, durano all’infinito o,peggio, risultano iatrogene, quando il terapeuta sbaglia nel valutare latipologia del paziente che ha di fronte. Riuscire a formulare al più prestouna corretta diagnosi tipologica è tanto difficile quanto decisivo.

Un piccolo esempio a mio carico: avevo in terapia un paziente chesi era rivolto a me per una crisi matrimoniale che non si sentiva in gradodi gestire. Cosa faceva in seduta questo paziente? In realtà in seduta nonci veniva neanche, perché al posto suo portava, in absentia, la moglie.Nei nostri incontri non faceva altro che parlare ininterrottamente, sem-pre col sorriso sulle labbra, del brutto carattere della moglie, delleangherie e dei torti che doveva sopportare.

Con me aveva stabilito una relazione di amicizia, mentre la relazio-ne terapeutica avrebbe dovuto svolgersi tra me e la sua cattiva consorte.Fui io a provocare, con un acting out, la precoce interruzione deltrattamento. Stufo di queste sedute estenuanti, lo invitai insensatamentea passare dal vis à vis al lettino. Il paziente, a buon diritto, non si fecepiù vedere.

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A posteriori devo riconoscere che il mio errore fu di aver clamoro-samente sottovalutato la severità della patologia di questo paziente: ilsuo problema non era semplicemente quello di incontrare delle resisten-ze a parlare di sé, del suo mondo interno – questo accade a tutti. Le suedifficoltà nascevano da un profondo difetto delle sue capacità meta-cognitive.

3. CONCLUSIONI

Riassumo in modo schematico le considerazioni fin qui svolte. Hodescritto due tipologie ideali di pazienti e di esseri umani. Parlo ditipologie ideali perché probabilmente nessuna persona reale rientrapienamente nell’una o nell’altra.

La prima tipologia è formata da quanti hanno bisogno di fidarsi eaffidarsi al sapere del terapeuta. Non hanno invece alcuna voglia diassumere una posizione attiva in vista di una più profonda conoscenzadi se stessi. Queste persone, inoltre, si piacciono così come sono, nonsentono pertanto alcun desiderio di modificare in modo sostanziale lapropria personalità. Riprendendo le parole di Freud, potremmo dire cheesse non hanno un vero interesse per i fatti psicologici.

Alla seconda tipologia appartengono le persone che non sono dispo-ste a sottomettersi passivamente al sapere altrui; il sapere su se stessi,sul proprio mondo psichico, deve sgorgare dal loro interno. Questepersone vivono la terapia analitica come un viaggio avventuroso versoun continente ignoto che in pari tempo li spaventa e li affascina.

Il primo gruppo è adatto alle terapie cognitive e comportamentali, o,se è il caso, a terapie farmacologiche. Il secondo alle terapie di tipopsicoanalitico5.

Ritengo che l’elemento cruciale che differenzia le due tipologie sial’atteggiamento verso il sapere. Concluderò pertanto con una rapidariflessione sul concetto di sapere.

Tra psicoanalisi e cognitivismo esiste, a mio parere, una diversità dinatura epistemologica che riguarda per l’appunto il concetto di sapere,e con esso quello di teoria. Mi spiegherò in modo molto schematico;l’argomento richiederebbe in effetti un ben altro approfondimento.

Le teorie cognitive sono di validità universale o almeno ambisconoa essere tali. Per esempio, quando parlano di memoria procedurale, icognitivisti si riferiscono a una funzione psichica che si applica a tuttigli esseri umani, indipendentemente dalla loro specifica individualità. Ilconcetto di memoria procedurale è costruito in modo tale da rendere

5 Va da sé che questa piccola classificazione non ha alcuna implicazione morale.È semplicemente il tentativo di distinguere due ideali tipi umani.

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irrilevanti le variabili individuali. Non importa che cosa vi sia dentro lamemoria procedurale, ciò che conta è l’universalità della funzione.

Le teorie psicoanalitiche sono diverse e diverso è il loro funziona-mento. A rigore non sono neanche delle teorie in senso proprio, nonhanno infatti nessuna validità universale – anche se spesso si vantano diaverla. Inoltre, come hanno dimostrato i filosofi della scienza, non sonoverificabili né falsificabili. Si tratta piuttosto di dispositivi che orienta-no il terapeuta nel rapporto col paziente, consentendogli di acquisireconoscenze assai profonde sulla sua personalità e la sua irripetibilestoria di vita. Il sapere psicoanalitico è di natura individuale: questa è lasua forza e la sua debolezza (come notava anche Kandel nell’articoloche ricordavo in precedenza).

Per esempio, la teoria dell’Edipo – come la si legge sui libri – è unoschema insaturo che si presta a tante realizzazioni quanti sono i singoliindividui ai quali viene applicata. Ognuno ha la sua personale vicendaedipica, e la teoria dell’Edipo non descrive nessuna di queste vicende.La teoria si limita semplicemente a fornire al terapeuta i punti cardinaliper conseguire conoscenze relative al modo in cui l’infanzia del pazien-te ha influenzato la sua vita.

In ogni malattia mentale esistono elementi comuni a tutti quelli chene soffrono, ed esistono poi innumerevoli altri elementi che non sonouniversali ma individuali: appartengono esclusivamente al soggetto chedi volta in volta abbiamo di fronte.

L’organizzazione concettuale della teoria cognitiva consente alterapeuta di sussumere gli elementi individuali sotto concetti universa-li6. In tal modo gli elementi soggettivi vengono resi oggettivi e trattabilicome tali. Ciò spiega l’interesse dei terapeuti cognitivi verso la precisafenomenologia dei sintomi.

La psicoanalisi, viceversa, non esce dalla dimensione dell’indivi-duale, se non nel senso di utilizzare schemi teorici insaturi che, a guisadi bussola, orientano l’esplorazione dell’individualità.

Concludo azzardando la seguente ipotesi. Le persone che preferi-scono affidarsi ed essere guidate dal sapere del terapeuta prediligonouna concezione universale, oggettiva, del sapere. Potremmo dire che inloro prevale una mentalità scientifica.

Le persone che non tollerano di affidarsi alle conoscenze dell’altro,prediligono una concezione umanistica del sapere. La loro mentalità èmaggiormente orientata verso l’arte e le scienze umane.

6 Non sto dicendo, ovviamente, che al terapeuta cognitivo non interessal’individualità del paziente. Un tale interesse è comune a tutte le forme di psicoterapia.La presenza di un autentico interesse verso l’individualità e la soggettività del pazienteè costitutiva del concetto di psicoterapia. Sto dicendo semplicemente che la tendenzanel cognitivismo è di incasellare i dati individuali nelle categorie universali dellateoria di base.

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Alfredo Civita, Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi di Milano, ViaFesta del perdono 7, 20122 Milano. E-mail: [email protected]

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