sovranità, potere costituente, stato d'eccezione. tre sfide per la teoria della norma di...

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––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– S A G G I ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– OMAR CHESSA SOVRANITÀ, POTERE COSTITUENTE, STATO D’ECCEZIONE TRE SFIDE PER LA TEORIA DELLA NORMA DI RICONOSCIMENTO Sommario: 1. Premessa. – 2. Il rapporto tra sovranità e riconoscimento in Hobbes. – 3. Austin: la sovranità come fondamento del diritto. – 4. Abitudine al- l’obbedienza e continuità del potere legislativo. – 5. Le «norme sono costitutive della sovranità». – 6. Sovranità oltre la rappresentanza? – 7. L’alternativa tra deci- sione e norma. – 8. Il potere costituente del popolo. – 9. Forza e debolezza del po- polo costituente. – 10. Identità e rappresentanza. – 11. Il rapporto problematico tra decisione costituente e unità politica. – 12. Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione. – 13. Lo stato d’eccezione. – 14. Il miracolo impossibile. – 15. Un nuovo radical title. – 16. La necessità di una recognitional community. 1. Premessa – La teoria della norma fondamentale di riconosci- mento è programmaticamente alternativa rispetto alla teoria della sovranità( 1 ). Il problema che affronto in questo saggio è se riesca sempre a esserlo. In particolare mi chiederò se gli argomenti che Hart rivolge contro la teoria di John Austin sono utilmente spendibili anche nei confronti della più raffinata e complessa teoria della sovranità che il pensiero giuridico novecentesco abbia prodotto: il decisionismo di Carl Schmitt. Prima però occorre capire perché e in che termini la teoria har- tiana della rule of recognition è antitetica rispetto alla teoria austini- na della sovranità. –––––––––– ( 1 ) Non c’è dubbio che questo fosse l’intendimento genuino di H.L.A. HART, The Concept of Law, London, Oxford University Press, 1961, trad. ital. Il concetto di diritto, Torino, Einaudi, 1991 (II ediz.), pp. 60-94, 118-145, e prima ancora di H. KELSEN, Il pro- blema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto (1920), trad. it. A. Carrino, Milano, Laterza, 1989, passim. DIRITTO PUBBLICO, 3/2012

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–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––S A G G I

–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

OMAR CHESSA

SOVRANITÀ, POTERE COSTITUENTE, STATO D’ECCEZIONETRE SFIDE PER LA TEORIA

DELLA NORMA DI RICONOSCIMENTO

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il rapporto tra sovranità e riconoscimento inHobbes. – 3. Austin: la sovranità come fondamento del diritto. – 4. Abitudine al-l’obbedienza e continuità del potere legislativo. – 5. Le «norme sono costitutivedella sovranità». – 6. Sovranità oltre la rappresentanza? – 7. L’alternativa tra deci-sione e norma. – 8. Il potere costituente del popolo. – 9. Forza e debolezza del po-polo costituente. – 10. Identità e rappresentanza. – 11. Il rapporto problematicotra decisione costituente e unità politica. – 12. Sovrano è chi decide sullo statod’eccezione. – 13. Lo stato d’eccezione. – 14. Il miracolo impossibile. – 15. Unnuovo radical title. – 16. La necessità di una recognitional community.

1. Premessa – La teoria della norma fondamentale di riconosci-mento è programmaticamente alternativa rispetto alla teoria dellasovranità(1). Il problema che affronto in questo saggio è se riescasempre a esserlo.

In particolare mi chiederò se gli argomenti che Hart rivolgecontro la teoria di John Austin sono utilmente spendibili anche neiconfronti della più raffinata e complessa teoria della sovranità cheil pensiero giuridico novecentesco abbia prodotto: il decisionismodi Carl Schmitt.

Prima però occorre capire perché e in che termini la teoria har-tiana della rule of recognition è antitetica rispetto alla teoria austini-na della sovranità.

––––––––––(1) Non c’è dubbio che questo fosse l’intendimento genuino di H.L.A. HART, The

Concept of Law, London, Oxford University Press, 1961, trad. ital. Il concetto di diritto,Torino, Einaudi, 1991 (II ediz.), pp. 60-94, 118-145, e prima ancora di H. KELSEN, Il pro-blema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrinapura del diritto (1920), trad. it. A. Carrino, Milano, Laterza, 1989, passim.

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2. Il rapporto tra sovranità e riconoscimento in Hobbes e Hart. –Una delle tesi di fondo che sta alla base del libro di Hart, The Con-cept of Law, è l’idea che il diritto positivo è ciò che i giudici/funzio-nari riconoscono in base a criteri condivisi: possiamo dire che c’èun ordinamento giuridico positivo solo quando i giudici convergo-no di fatto su una medesima regola di riconoscimento del dirittovalido (e quando criticano e sanzionano coloro che seguono unaregola diversa)(2). Senza questa norma fondamentale di riconosci-mento, diffusamente seguita dalla comunità dei giudici/funzionari,nessun ordinamento giuridico sarebbe possibile: non si saprebbeinfatti come distinguere ciò che ne fa parte da ciò che gli è estra-neo(3).

Hart, però, non fu il primo a proporre quest’idea. In Hobbestroviamo uno spunto, un’intuizione che anticipa di diversi secoli ilragionamento hartiano. Per l’autore del Leviathan «non è sufficien-te che la legge sia scritta e promulgata: vi devono essere anche segnimanifesti che essa derivi dalla volontà del sovrano», cioè dei «segnisufficienti dell’autorità e dell’autore», come «registri pubblici, con-sigli pubblici, ministri pubblici e sigilli, mediante i quali tutte le leg-gi sono sufficientemente verificate». Diversamente, potrebbe darsiil caso che «dei privati, quando sono o pensano di essere abbastan-za forti da realizzare i loro ingiusti disegni e da attuare con sicurez-za i loro ambiziosi fini, poss(a)no promulgare, come legge, quelloche vogliono, senza autorità legislativa o contro di essa»(4).

Riconoscere i sovereign commands è, perciò, un’esigenza di tut-ti i sudditi e di chiunque sia tenuto a darvi esecuzione: ed è evidente––––––––––

(2) H.L.A. HART, op. cit., pp. 118 ss.(3) Discuto il nesso tra norma fondamentale di riconoscimento ed effettività

dell’ordinamento (nonché il rapporto tra la Grundnorm kelseniana e la rule of recognitionhartiana) in O. CHESSA, La validità delle costituzioni scritte. La teoria della norma fonda-mentale da Kelsen a Hart, in Diritto & Questioni pubbliche, 2010 (10), leggibile in www.dirittoequestionipubbliche.it), pp. 55 ss., spec. 81 ss.

(4) Le parti virgolettate sono tratte da T. HOBBES, Leviathan, or the Matter, Formeand Power of a Commonwealth Ecclesiasticall and Civil (1651), trad. ital. (a cura di T. Ma-gri), Leviatano, IV ediz., Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 186.

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che per sapere se un dato comando è effettivamente posto dalla vo-lontà del sovrano abbiamo bisogno di criteri orientativi come sigil-li, firme, forme documentali, ecc., ossia di un insieme più o menoarticolato di indizi che diventa doveroso prendere in considerazio-ne e che per questa ragione articolano una rule of recognition.

Ma tra Hobbes e Hart non ci sono solo assonanze e le diffe-renze di certo non mancano.

Per Hobbes, che la volontà del sovrano sia fonte del dirittonon è l’effetto di una rule of recognition: questa c’è solo per distin-guere che cosa è atto del sovrano e cosa non lo è. Difatti, la fontedel diritto per eccellenza (gerarchicamente sovraordinata rispetto aqualsiasi altra) non può che essere la volontà del sovrano e nessunanorma di riconoscimento potrebbe stabilire un criterio diverso perdistinguere il diritto dal non-diritto.

Per Hart, invece, la funzione della rule of recognition non è sol-tanto quella di rendere riconoscibili i comandi del sovrano, ma èsoprattutto quella di stabilire se la volontà di un sovrano (e di qualesovrano) sia una fonte del diritto. Sicché, in tanto possiamo direche qualcuno è il sovrano e che la sua volontà è legge, in quantouna norma di riconoscimento lo preveda. Ovviamente la rule of re-cognition può prescrivere che il sovrano sia uno anziché un altro,che sia un organo monocratico o collegiale, che sia la somma diorgani diversi, e così via. Ma può prescrivere altresì che nessuno siasovrano, ossia il depositario di un potere giuridicamente illimitato.

3. Austin: la sovranità come fondamento del diritto. – L’asserzio-ne che chiude il paragrafo precedente è esattamente ciò che per-mette di ricostruire la teoria hartiana della rule of recognition comeuna teoria distinta e autonoma rispetto alla teoria hobbesiana (maache benthamiana e austiniana) della sovranità.

È indiscutibile, infatti, che se la norma di riconoscimento do-vesse comunque indicare la volontà di un sovrano quale fonte su-prema dell’ordinamento, si ricadrebbe nello schema teorico hobbe-

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siano: nel senso che un sovrano ci deve pur essere e la rule of reco-gnition solo ci dice chi esso sia e in che modo possiamo riconosce-re i suoi comandi normativi. Ecco perciò che per liberarsi dall’ab-braccio mortale con l’impostazione hobbesiana, occorre dimostra-re che la norma di riconoscimento non è logicamente obbligata arinviare alla volontà di un potere sovrano giuridicamente illimitato.

Hart fornisce questa dimostrazione attaccando frontalmente ilpensiero di John Austin, per il quale in ogni «società politica indi-pendente», in qualsiasi ordinamento giuridico pensabile c’è semprela distinzione tra sovrano e sudditi.

La tesi austiniana può leggersi in modo molto generico, ossiacome l’affermazione che in ogni sistema di diritto positivo c’è unastruttura verticale imperniata sulla differenza tra governanti e go-vernati, rappresentante e rappresentati. Ed è palese che se viene let-ta così ci sarebbe ben poco da discutere, perché è indubbio cheuna differenziazione di questo tipo sia consustanziale a un ordina-mento giuridico evoluto, che abbia superato la fase della civiltà pri-mitiva.

Sennonché il discorso austiniano non si riduce a questa basila-re affermazione, peraltro perfettamente condivisibile, ma aggiungequalcosa di più: la distinzione tra chi governa e chi è governato, trasovrano e sudditi, non solo sarebbe praticamente ineliminabile, masarebbe altresì costitutiva del diritto e non costituita dal diritto. Tut-to il diritto positivo che c’è sorgerebbe dalla volontà del sovrano,direttamente o indirettamente, e sarebbe impensabile supporrel’esistenza di uno strato o livello di diritto che non sia voluto ovve-ro autorizzato dal sovrano(5). Per dirlo con le parole di Hart, la––––––––––

(5) «Ogni diritto positivo (…) viene posto direttamente o indirettamente da un mo-narca o da una collettività sovrana a una o più persone in stato di soggezione rispetto al suoautore»: così J. AUSTIN, The Province of Jurisprudence Determined and the Uses of the Studyof Jurisprudence, London, 1832, trad. ital. Delimitazione del campo della giurisprudenza ,Bologna, Il Mulino, 1995, p. 245. La teoria austiniana sul nesso tra diritto e sovranità risen-te non poco dell’impostazione hobbesiana. Difatti, per Austin non solo «è positiva la leggeposta da un monarca, o da un’assemblea sovrana, a una o più persone che siano sudditi delsuo autore» – e già in questa definizione di diritto positivo è fortissima l’eco di Hobbes – ma

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teoria di Austin – e ogni teoria della sovranità in genere – «non si li-mita ad asserire che vi sono alcune società in cui si trova un sovra-no non sottoposto ad alcun limite giuridico, ma afferma che dap-pertutto l’esistenza del diritto implica l’esistenza di un simile sovra-no»(6).

Ma posto che all’origine del diritto positivo ci sia sempre larelazione verticale tra sovrano e sudditi, che cosa a sua volta sareb-be all’origine di questa distinzione, quale sarebbe la condizione ne-cessaria della sua scaturigine? La risposta di Austin è nota: ciò cherende possibile il processo di differenziazione tra il sovrano e i sud-diti è il formarsi di un’abitudine all’obbedienza (habit of obedience)agli ordini del sovrano(7). Ovviamente non è necessario che tutti gliappartenenti alla comunità politica obbediscano abitualmente alsovrano, ma è sufficiente che questa «obbedienza abituale (sia) resadalla generalità o maggior parte dei suoi membri»(8).

Ricapitolando: in una società politica indipendente c’è dirittopositivo solo a condizione che ci sia un sovrano, ossia un poterelegislativo giuridicamente illimitato; e c’è un sovrano staccato dalresto della popolazione, cioè dai sudditi, solo quando tra questi ul-timi si consolida l’abitudine di prestargli obbedienza: l’habit of obe-dience da parte della generalità o maggior parte dei sudditi è il fatto-re costitutivo della sovranità e, perciò, è la condizione senza la qua-le non potrebbe darsi neppure lo stato e il diritto.

Cosa interrompe la linearità di questa costruzione teorica?Ce lo spiega Hart(9): in primo luogo l’abitudine all’obbedienza

––––––––––inoltre debbono considerarsi positive, e quindi giuridicamente vigenti, anche fonti diversedalla volontà del sovrano, purché siano autorizzata da quest’ultimo. A tale proposito Austincita proprio il dictum hobbesiano: «il legislatore non è chi per primo fece la legge in virtùdella propria autorità, ma colui per l’autorità del quale essa continua a essere una legge» (J.AUSTIN, op. cit., p. 238).

(6) H.L.A. HART, Il concetto di diritto, cit., p. 80.(7) Il quale, a sua volta, «non deve obbedire abitualmente a un individuo o a un

gruppo di individui determinato»: J. AUSTIN, op. cit., pp. 238 ss., spec. 240.(8) J. AUSTIN, op. cit., p. 241.(9) Ne Il concetto di diritto, cit., pp. 65 ss.

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non sarebbe in grado di spiegare il fenomeno della continuità delpotere legislativo; e in secondo luogo ciò da cui dipende alfine lacontinuità dell’autorità legislatrice escluderebbe la possibilità di unpotere giuridicamente illimitato, cioè di un sovrano. Affrontiamopartitamente questi due punti.

4. Abitudine all’obbedienza e continuità del potere legislativo. –Perché la tesi dell’«abitudine alla obbedienza» non riuscirebbe a darconto del fenomeno, riscontrabile in ogni ordinamento evoluto,della continuità del potere legislativo?

Per illustrare questa critica Hart si vale di un esempio. Imma-gina un ordinamento semplice di tipo monarchico in cui il sovranosia Rex e in cui la sovranità di Rex si fondi sull’abitudine all’obbe-dienza, cioè sulla «relazione personale tra ciascun suddito e Rex»,in virtù della quale «ognuno fa regolarmente ciò che Rex ordina alui, insieme agli altri, di fare»(10). Cosa succede una volta che Rexmuore, lasciando il suo regno al figlio Rex II? È manifesto, perHart, che «il mero fatto che vi sia stata una generale abitudine al-l’obbedienza a Rex I nella sua vita non rende di per sé probabile ilfatto che Rex II venga anch’egli obbedito abitualmente»(11).

E difatti, occorrerà del tempo prima che si formi un’abitudineall’obbedienza agli ordini emessi da Rex II. Nel frattempo vi saràun vuoto di potere, l’assenza di un sovrano e una soluzione dicontinuità del potere legislativo: il che però è manifestamente in-concepibile, nonché fattualmente smentito dalla dinamica fisiologi-ca di un ordinamento evoluto. Come osserva Hart, «è una caratte-ristica di un ordinamento giuridico, perfino in una monarchia asso-luta, quella di assicurare la ininterrotta continuità del potere legisla-tivo mediante certe norme che costituiscono il ponte di passaggiotra un legislatore e un altro»(12).––––––––––

(10) H.L.A. HART, Il concetto di diritto, cit., p. 64.(11) Ibidem, p. 65.(12) Ibidem, p. 65.

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Finora la critica di Hart coglie nel segno: se il sovrano èidentificato con una determinata persona fisica e se questa muore,l’abitudine all’obbedienza viene certamente meno. Ma coglie ugual-mente nel segno, se il sovrano è identificato con un organo mono-cratico o collegiale? In questo caso non si obbedisce a Rex I o RexII, ma alla Corona o dinastia regnante. E nell’ipotesi che il sovranosia un organo collegiale chiamato ‘Parlamento’, non si obbedisce aun elenco di qualche centinaio di persone fisiche individuabili (iparlamentari), ma – per l’appunto – al Parlamento, quale che sia lasua composizione e quali che siano le variazioni di questa nel tem-po. Quindi dal punto di vista austiniano potrebbe replicarsi che lacontinuità del potere legislativo non s’interrompe, perché l’organo(cui si presta abituale obbedienza) rimane identico nonostante mu-tino le persone fisiche che lo compongono.

Ciò nondimeno rimane sempre fermo che occorrono regoleprestabilite che disciplinino la successione dinastica o il rinnova-mento della composizione del collegio sovrano (se il sovrano è ilparlamento), cioè norme che «regolano la successione in anticipo,elencando e specificando in termini generali le qualifiche e il mododi nomina del legislatore»(13).

Oltre a regole che disciplinino la composizione dell’organo so-––––––––––

(13) Ibidem, p. 65. Bisogna dire, però, che Austin sembra voglia prevenire la critica diHart. In un passo di The Province of Jurisprudence (p. 291) asserisce che le regole che disci-plinano la successione dinastica e qualsiasi regola che assicuri in genere la continuità del po-tere legislativo sono nella disponibilità del sovrano, libero di mutarle a proprio piacimento.Supponiamo – seguendo l’esempio fatto da Austin – che il canone di successione sia costitui-to dalla Legge salica, ossia che la costituzione (formale o materiale) preveda che la successio-ne del trono sia a vantaggio del primogenito maschio, «orbene, nel caso in cui un re effetti-vo, tramite un’ordinanza o una legge reale, avesse tentato di trasmettere il trono alla suaunica figlia, tale ordinanza o legge reale avrebbe potuto dirsi con perfetta proprietà un attoincostituzionale (…). Essa, però, non avrebbe potuto dirsi illegale: nella misura in cui il reeffettivo era davvero sovrano, egli era perciò stesso indipendente da obblighi giuridici».Sennonché questa tesi austiniana si scontra con una difficoltà insuperabile: la nuova regolasulla successione del sovrano e sulla continuità del suo potere legislativo dovrebbe trovareapplicazione quando il suo autore è venuto meno, cioè quando è conseguentemente venutameno l’abitudine ad obbedirgli: resta, perciò, da chiarire sulla base di quale fondamento que-sta nuova regola di successione possa pretendere vigenza. Inoltre – come vedremo meglioinfra – il ragionamento di Austin dimostrerebbe, contro il suo stesso intendimento, che è ildiritto positivo a costituire il sovrano, e non viceversa.

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vrano, avremo inoltre bisogno di regole che ci permettano di di-stinguere quali atti sono manifestazione del potere legislativo sovra-no e quali invece no. Avremo quindi bisogno di norme sul procedi-mento legislativo e, in genere, sulla produzione degli atti normatividel sovrano. È da queste discipline, e non dall’abitudine all’obbe-dienza, che dipende la continuità e la possibilità stessa di un poterelegislativo superiore e comune.

In un certo senso quello che Hart vuole dirci è che la relazionedi abituale obbedienza non è tra i sudditi e il legislatore sovrano,ma è tra i sudditi e le regole che costituiscono un dato soggettocome legislatore. E quindi, affinchè ci sia diritto positivo, non oc-corre un’abituale obbedienza gli ordini di un sovrano, ma occorreun’abituale obbedienza alla costituzione (formale o materiale insenso kelseniano) che istituisce il potere legislativo.

Giunti fin qui, il problema diventa quello di verificare se è ap-propriato descrivere la generale osservanza della costituzione (for-male o materiale) istitutiva del potere legislativo nei termini diun’«abitudine all’obbedienza». Secondo Hart quest’ultima formulaè fuorviante, perché invero il fenomeno che intende descrivere è«una prassi sociale generale più complessa» che va ben oltre la me-ra convergenza dei comportamento, ossia la mera abitudine(14). È,infatti, una pratica sociale normativa, che è animata da un internalpoint of view, da un «atteggiamento critico riflessivo» che assume lapratica stessa come modello normativo di condotta e che critica esanziona i comportamenti che deviano dalle sue prescrizioni(15).

Ovviamente non è necessario che tutti i partecipanti alla prati-ca di osservanza della costituzione (formale o materiale) siano ani-––––––––––

(14) H.L.A. HART, op. cit., p. 66.(15) Ibidem, pp. 68 e 69. Hart precisa che «per l’esistenza di una norma sociale è ne-

cessario che almeno alcuni considerino il comportamento in questione come un criterio ge-nerale di condotta che il gruppo nel suo complesso deve seguire». È quindi «necessario chesia presente un atteggiamento critico riflessivo nei confronti di certi modelli di comporta-mento intesi come criteri comuni di condotta, e che questo si manifesti nella critica (com-presa l’autocritica), nelle richieste di conformità, e nel riconoscimento che simili critiche erichieste sono giustificate».

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mati da «atteggiamento critico riflessivo». Né possiamo dire qualesia il numero minimo, o la percentuale minima, di soggetti che ne-cessariamente debbono assumere tale modello normativo di criticadelle condotte devianti: secondo Hart, infatti, stabilire «quantimembri del gruppo debbano considerare […] il tipo regolare dicomportamento come un modello per la critica […] non è unaquestione suscettibile di soluzione definitiva», perché non è moltodiversa dalla «questione relativa al numero di capelli che un uomodeve avere per essere calvo»(16).

In ogni modo, ciò che conta rilevare in questa sede è che l’au-torità del legislatore, il suo diritto di legiferare «presuppone l’esi-stenza, nel gruppo sociale, di una norma in base alla quale egli haquesto diritto»(17). Possiamo affermare che questa norma sociale èuna costituzione in senso formale, cioè un documento costituzio-nale che contiene la regola del procedimento legislativo, oppureche è una costituzione almeno «in senso materiale», nel senso kel-seniano della formula, ossia una regola sul procedimento legislativoche è effettivamente seguita anche se non è codificata in un testocostituzionale(18). Resta comunque fermo che non c’è legislatoresovrano senza una regola costitutiva (più o meno complessa, scrittaoppure no), che sia socialmente osservata e da taluni assunta altresìcome modello doveroso di condotta.

5. Le «norme sono costitutive della sovranità». – La seconda criti-ca che Hart muove ad Austin riguarda direttamente la nozione disovranità, ed è lo sviluppo logico della prima critica.

Se la continuità del potere legislativo dipende dalla norma so-

––––––––––(16) Ibidem, p. 68.(17) Ibidem, p. 71.(18) Sulla necessità costante che in ogni ordinamento evoluto ci sia almeno una costi-

tuzione in senso materiale (nel senso kelseniano della formula) e sulla identità tra costitu-zione in senso materiale e rule of recognition negli ordinamenti sprovvisti di costituzionescritta, rinvio a O. CHESSA, La legge di Bryceland. Saggio sulle costituzioni rigide e flessibilie sulla sovranità parlamentare nel Regno Unito, in Quad. cost., 2012, pp. 769 ss.

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ciale costitutiva della sua autorità, ciò esclude che l’autorità legisla-trice possa considerarsi alla stregua di un «sovrano» nel senso austi-niano del termine. Difatti, «se – come scrive Hart – le norme sonocostitutive della sovranità (e) non sono meri elementi che dobbia-mo menzionare in una descrizione dell’abitudine all’obbedienza alsovrano», ciò comporta che il sovrano non potrà mai essere real-mente tale, cioè un potere onnipotente e giuridicamente illimitato,perché la sua autorità normativa sarà sempre soggetta ai criteri,condizioni e limiti stabiliti dalla norma sociale o rule of recognitionin base alla quale è riconosciuta.

Tuttavia Austin sembra prevenire questa critica di Hart e lasciaintendere molto chiaramente che il sovrano possa disporre libera-mente della propria rule of recognition. Traendo spunto dalla formadi governo inglese vigente nel momento in cui scrive, Austin osser-va che se «un atto del parlamento britannico […] attribuisse la so-vranità al re, o al re insieme con la Camera Alta o la Camera Bassa,altererebbe essenzialmente la struttura del governo supremo, e po-trebbe perciò propriamente dirsi una legge incostituzionale»; ma ag-giunge che definire illegale tale atto «sarebbe assurdo: perché se ilparlamento attuale è sovrano nel Regno Unito, esso è anche l’au-tore, diretto o indiretto, di tutto il diritto positivo, e ci fornisce ilsolo criterio di cosa sia, giuridicamente giusto o ingiusto»(19).

Sennonchè questo ragionamento di Austin per un verso con-traddice la teoria dell’abitudine all’obbedienza, per l’altro confermaindirettamente la tesi hartiana. Difatti, si diventa sovrani in virtù diun’abitudine all’obbedienza da parte dei sudditi o perché cosìavrebbe deciso il precedente sovrano? Se la premessa di Austin ri-mane ferma, il sovrano di oggi non può disporre liberamente dellanorma di riconoscimento del sovrano di domani, perché comun-que tale norma dovrebbe essere confermata da un’abitudine all’ob-bedienza che potrebbe non manifestarsi. E se potesse disporne, ciò

––––––––––(19) J. AUSTIN, op. cit., pp. 291 s.

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significherebbe che sarebbe il diritto positivo a costituire il sovra-no, e si confermerebbe così la teoria di Hart secondo cui «le normesono costitutive della sovranità» e non viceversa.

Che la teoria della sovranità debba necessariamente presup-porre una rule of recognition (e con ciò tramutarsi in qualcosa di es-senzialmente diverso da una teoria della sovranità) è peraltro dimo-strato indirettamente da alcuni corollari enunciati da Austin. Sup-ponendo che il sovrano sia un soggetto collettivo formato dal-l’unione di re, camera alta e camera bassa (e che pertanto ogni attodi legislazione sovrana debba scaturire dall’incontro delle volontàdi questi tre diversi organi costituzionali), Austin immagina cosasuccederebbe «se il re o una delle due Camere, tramite proclama odordinanza, tentasse di fare una legge equivalente a un atto del parla-mento (cioè del ‘King in Parliament’, ndr)»: ebbene, «questo prete-so documento legislativo non sarebbe vincolante, e la disobbedien-za ad esso non sarebbe perciò illecita»(20). È manifesto, però, chequesto ragionamento deve presupporre una rule of recognition lacui applicazione determini l’invalidità dell’atto compiuto da chinon può legittimamente statuire in luogo del sovrano. Detto in al-tre parole, se il re adottasse unilateralmente un atto che pretende divalere come la legge positiva scaturente dalla volontà del sovrano(cioè dall’accordo tra re, camera alta e camera bassa), tale atto sa-rebbe invalido, perché pur non essendo un atto del sovrano ambi-rebbe allo stesso valore e forza: ma questo giudizio di invaliditàdovrebbe potersi fondare su una norma di riconoscimento, e preci-samente sulla ‘regola sulla produzione’ che assegna autorità norma-tiva al sovrano formato dal re, camera alta e camera bassa e cheprescrive un procedimento legislativo diverso da quello seguito inquesto caso.

6. Sovranità oltre la rappresentanza? – Se le norme sono costitu-

––––––––––(20) J. AUSTIN, op. cit., p. 296.

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tive della sovranità, lo sono anche della distinzione tra rappresen-tante e rappresentato, governante e governato: più precisamente, laregola all’origine di tale differenziazione è la medesima che costitui-sce il sovrano, cioè il potere legislativo. E così come non è possibi-le distinguere tra rappresentante e rappresentato, governante e go-vernato, se non sulla base di una regola costituiva, allo stesso mo-do neanche è possibile distinguere tra sovrano e suddito se nonpresupponendo all’opera la medesima regola(21).

Resta allora da vagliare un’ultima questione: se sia possibileidentificare il sovrano non già con un organo rappresentativo, macon la «massa della società che obbedisce abitualmente a se stessa»,ossia con lo stesso popolo(22).

Hart scarta con nettezza l’ipotesi di una sovranità priva di rap-presentanza: «l’identificazione del sovrano con l’elettorato di unostato democratico non è assolutamente plausibile»(23). Ritiene in-fatti consustanziale al concetto di sovranità la differenziazione tragovernanti e governati, tra chi impartisce comandi senza subirne echi obbedisce abitualmente: ma tale distinzione verrebbe meno sela sovranità fosse del popolo, cioè della «massa che obbedisce abi-tualmente a se stessa», perché in tal caso non ci sarebbero propria-mente né «ordini» né «obbedienza». Insomma, a ragionare diversa-mente, «la chiara immagine originaria di una società divisa in duesegmenti, il sovrano privo di limiti giuridici che dà ordini, e i sudditiche obbediscono abitualmente, (lascerebbe) il posto all’immagineconfusa di una società in cui la maggioranza obbedisce agli ordini––––––––––

(21) Fermo restando, tuttavia, che nel momento in cui tale regola costitutiva pone ladistinzione tra sovrano e suddito, per ciò stesso la nega: un sovrano costituito, ossia condi-zionato e limitato da una costituzione formale o materiale (sempre nel senso kelseniano),non è «sovrano» nel senso propriamente austiniano del termine, cioè non è un potere su-premo giuridicamente illimitato.

(22) Hart (cui appartiene il virgolettato nel testo: op. cit., p. 90) crede di rinvenire talepossibilità nel pensiero di John Austin. Bisogna dire, però, che Austin fa solo un cenno fu-gace all’ipotesi di «una società politica indipendente che si autogoverna o che è governata daun’assemblea sovrana corrispondente all’intera comunità», ritenendo tale scenario «nonimpossibile, ma estremamente improbabile» (J. AUSTIN, op. cit., p. 257).

(23) H.L.A. HART, op. cit., p. 90.

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dati dalla maggioranza stessa o da tutti»(24).Nella prospettiva hartiana la formula della sovranità popolare

è una nozione falsa, perché descrive un oggetto politicamente im-possibile, una realtà inesistente. E neppure sarebbe possibile con-troreplicare che «si può fare una distinzione tra i membri della so-cietà nella loro capacità privata di individui e le stesse persone nellaloro capacità ufficiale di elettori o legislatori», ossia isolare in cia-scuna persona due qualità distinte, quella pubblica di membro delcorpo investito di sovranità legislativa e quella privata di sudditodestinatario del comando sovrano(25). Tale distinzione, infatti, pre-suppone comunque una serie di regole di riconoscimento per sta-bilire quando un individuo agisce nella prima e nella seconda veste;e tali norme «non possono avere esse stesse la natura di ordiniemessi dal sovrano»(26).

In definitiva, la sovranità non è mai la chiave di volta dell’ordi-namento, il fondamento del diritto. Sia che la s’intenda come sovra-nità di un organo rappresentativo, sia che la s’intenda come sovra-nità del popolo, essa è pur sempre una sovranità costituita da rego-le di riconoscimento – e quindi non è più sovranità nell’accezionepropria del termine – oppure è pseudoconcetto, cui non potrebbemai corrispondere alcun oggetto reale nel mondo della politica edel diritto pubblico.

Ma se la sovranità costituita è una contraddizione in termini –perché non sarebbe un potere onnipotente e giuridicamente illimi-––––––––––

(24) Ibidem, pp. 90 s.(25) Ibidem, p. 91. L’argomento con cui Hart si confronta è chiaramente di derivazio-

ne rousseauviana. In J.J. ROUSSEAU, Du contrat social ou Principes du droit politique, Pa-ris, 1762 trad. ital., Il contratto sociale, a cura di G. Perticone, trad. it. di M. Perticone deVincolis, Milano, 1965-1987, I, VIII, p. 33 si legge che «ogni individuo può, come uomo,avere una volontà particolare opposta o diversa dalla volontà generale, ch’egli stesso ha inquanto è cittadino». Tratto questo tema, o paradosso, rousseuviano in O. CHESSA, Libertàfondamentali e teoria costituzionale, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 76 ss., e il tema del rap-porto tra «volontà generale» e «volontà particolare» in O. CHESSA, Il nesso tra libertà e vo -lontà generale nel Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau, in Diritto@Storia, quad. 10,2011-2012, leggibile in www.dirittoestoria.it.

(26) H.L.A. HART, op. cit., p. 91.

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tato – e se la sovranità del rappresentante non sfugge alla medesimacritica – perché la distinzione tra rappresentante e rappresentato,governante e governato, dipende pur sempre da regole costitutivedi riconoscimento che logicamente precedono la sovranità del rap-presentante – non sarebbe tuttavia immaginabile una sovranità co-stituente del popolo in quanto tale? In particolare, anche la teoriadecisionistica di Carl Schmitt (e prima ancora di Emmanuel JosephSieyès) sul potere costituente del popolo sovrano sarebbe travoltadagli argomenti hartiani?(27).

7. L’alternativa tra decisione e norma. – Inforcando gli occhialidi Carl Schmitt, il confronto tra Hart e Austin, cioè tra la teoriadella norma di riconoscimento e la teoria della sovranità, può leg-gersi come l’alternativa tra «il pensiero giuridico fondato sulle nor-me (normativismo)» e «il pensiero giuridico fondato sulla decisione(decisionismo)»(28).

Come si è visto, Hart sostiene che «le norme sono costitutivedella sovranità»: quindi identifica l’elemento primigenio della giuri-dicità, l’essenza profonda del diritto, con l’operatività di una regoladata, quale che sia la sua natura o origine(29). Al contrario, per il«pensiero fondato sulla decisione» o decisionismo, «si può rintrac-ciare il fondamento ultimo di tutto ciò che ha validità e valore giu-––––––––––

(27) Difatti, come è sostenuto da M. LUCIANI, L’antisovrano e la crisi delle costituzio-ni, in Riv. dir. cost., 1996, pp. 142 ss., «il passaggio teorico che conduce ad isolare il poterecostituente come unica espressione della sovranità è veramente decisivo»: la sovranità puòessere coerentemente rappresentata come potestas absoluta solo se è identificata col poteredi instaurare un nuovo ordine e ridotta a «potenza creatrice, spogliata di qualunque conno-tazione contenutistica».

(28) Faccio ovviamente riferimento a Ueber die drei Arten des RechtswissenschaftlichenDenkens, 1934, trad. ital. parziale I tre tipi di pensiero giuridico , in C. SCHMITT, Le catego-rie del politico , a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 247 ss. Mavedi pure la tradizione italiana integrale C. SCHMITT, I tre tipi di scienza giuridica , a curadi G. Stella, Torino, Giappichelli, 2002.

(29) Nel caso di Hart è una regola sociale che effettivamente guida le pratiche dei giu-dici/funzionari. Per Kelsen, non diversamente da Hart, è una norma fondamentale che oc-corre necessariamente presupporre affinché sia possibile un ordinamento giuridico efficacenelle grandi linee. Per i giusnaturalisti, invece, è una regola del diritto naturale e perciòfrutto di morale positiva.

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ridico in un processo della volontà, in una decisione, che è in gradoessa sola, in quanto decisione, di creare ‘diritto’ e la cui ‘forza giuri-dica’ non può essere derivata dalla forza giuridica di regole prece-denti, relativa alla decisione medesima»(30).

Schmitt dunque scorge l’origine del diritto positivo non già inuna norma data o presupposta, ma in «un processo della volontà»,e precisamente «in una decisione». Questa tesi è precisata e svilup-pata soprattutto nella Verfassungslehre, dove si afferma che «unacostituzione vige perché emana da un potere costituente ed è postadalla sua volontà»(31). In particolare, «la parola ‘volontà’ indica unaentità esistente in quanto origine di un dovere: quindi questa vo-lontà «è esistenzialmente presente, la sua potestas o autorità consistenel suo essere (primo corsivo mio)»(32).

Ma in che senso è «esistenzialmente presente» la volontà delpotere costituente da cui, secondo Schmitt, dipenderebbe la vigen-za di una costituzione? È indubbio che per essere «esistenzialmentepresente» una volontà deve essere la volontà di qualcuno, di un

––––––––––(30) C. SCHMITT, op. cit., p. 261.(31) C. SCHMITT, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin, 1928, trad. ital. Dot-

trina della costituzione, Milano, Giuffrè, 1984, p. 23, ma vedi pure p. 40, dove si legge che«la costituzione vige in forza della volontà politica esistente di chi la pone». Il medesimoconcetto è pure in E. W. BÖCKENFÖRDE, Die verfassunggebende Gewalt des Volkes. EinGrenzbegriff des Verfassungsrechts (1991), trad. ital. Il potere costituente del popolo. Un con-cetto limite del diritto costituzionale, in G. ZAGREBELSKY - P.P. PORTINARO - J. LUTHER, Ilfuturo della costituzione, Torino, Einaudi, 1996, pp. 231 ss, spec. 231, 232, (ora ripubblica-to in Italia in E. W. BÖCKENFÖRDE, Stato, costituzione, democrazia. Studi di teoria dellacostituzione e diritto costituzionale, Milano, 2006, pp. 113 ss., spec. 114): «(la costituzione)deriva la sua pretesa di validità e la sua particolare qualità giuridica, se non dal pure e sem-plice fatto della sua nascita, da un’entità che le preesiste e che si configura come un potere oun’autorità. A partire dalla Rivoluzione francese tale entità viene denominata potere costi-tuente (pouvoir constituant). Con ciò, la questione del potere costituente (…) contiene insé la questione dell’origine e del fondamento di validità della costituzione giuridica» (citazio-ne tratta dalla traduzione italiana del 1996).

(32) C. SCHMITT, op. ult. cit., p. 23. Questo profilo esistenziale è ripreso e sottolineatoin modo particolare da E. W. Böckenförde, op. ult. cit., 234 (traduzione italiana del 1996):«la forza che produce e legittima la costituzione deve (…) configurarsi come entità politi-ca». E ancora: «(il potere costituente) deve essere concepito anche come entità politica realeche fonda la validità normativa della costituzione. Come tale, non può certo sussistere al-l’interno o sulla base della costituzione, ad esempio come un ‘organo’ da essa creato, ma de-ve preesistere alla costituzione e ai pouvoirs constitués da essa delimitati e regolati».

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soggetto individuale o collettivo che abbia un’esistenza reale: machi vuole o può volere la vigenza di una costituzione? Le rispostepossibili sono due: o è il popolo nella sua interezza, come soggetti-vo collettivo unitario, o è una parte del popolo, precisamente quel-la parte che lo governa e rappresenta (un re, un parlamento, unpartito o fazione dominante).

È indubitabile che nel secondo caso la possibilità di una volon-tà costituente esistenzialmente presente è subordinata all’esistenzadi una compiuta differenziazione tra governanti e governati, rap-presentante e rappresentato, sicché la volontà o decisione costi-tuente si produrrebbe in un contesto in cui già vigono criteri, re-gole, istituti in base ai quali distinguere chi è governante/rappre-sentante e chi è governato/rappresentato. Dipenderà perciò dallapresenza di una forma politica rappresentativa, che non può esserea sua volta il risultato di un «ordine emesso dal sovrano» (per usarela terminologia di Hart e Austin). Resta allora da capire come pos-sa essere autentica decisione costituente quella che già presupponeesistente una ‘forma politica’, cioè un complesso di regole e istitu-zioni in base alle quali riconoscere chi è rappresentate e cosa è unsuo atto.

Schmitt è perfettamente consapevole di questa difficoltà. Nonper caso sembra escludere che quello monarchico possa intendersicome genuino potere costituente, perché «mentre la nazione puòmutare le sue forme e darsi sempre nuove forme di esistenza po-litica», al contrario «la monarchia ereditaria è un’istituzione in ségià formata e legata alla successione ereditaria di una famiglia»: sic-ché «una dinastia non può essere considerata, come il popolo o lanazione, la causa prima di ogni esistenza politica»(33).

Il passo appena citato è rivelatore. Sembra che per Schmitt lasovranità costituente non possa mai appartenere a un organo rap-presentativo – re o assemblea – perché invero apparterrebbe sem-

––––––––––(33) C. SCHMITT, op. ult. cit., pp. 116 s.

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pre al popolo in quanto tale.Del resto, a ragionare diversamente, l’ipotesi decisionistica non

riuscirebbe a oltrepassare indenne il fuoco di sbarramento degli ar-gomenti hartiani: per distinguere tra rappresentante e rappresenta-to occorre pur sempre una regola di riconoscimento; una regolache, peraltro, deve essere già data al momento in cui il rappresen-tante si manifesta come autorità costituente.

La questione cruciale, allora, è capire se un’autorità costituentepopolare possa manifestarsi prima che sia vigente o effettivamenteoperante una regola costitutiva data: ossia, se in luogo di una nor-ma originaria e fondamentale possa ipotizzarsi la possibilità di unadecisione popolare ugualmente originaria e fondamentale, che pos-sa prescindere dalla distinzione tra rappresentante e rappresentato.

8. Il potere costituente del popolo. – Per Schmitt la dottrina delpotere costituente popolare o nazionale si afferma con la rivoluzio-ne francese del 1789: anzi, «è il suo presupposto concettuale»(34).

In base a questa dottrina «il potere costituente presuppone ilpopolo come un’entità politicamente esistente». Questa nozione di«popolo» coincide nella sostanza con quella di «nazione», la qualeper l’appunto «indica in senso pregnante un popolo capace di agi-re, destatosi alla coscienza politica»(35).

Ora, se un popolo è «capace di agire», ciò significa che possie-de una soggettività politica originaria, unitaria e attiva, cioè unasoggettività che può manifestarsi senza aver bisogno di forme rap-presentative. E difatti, da come Schmitt dipinge i moti rivoluzionaridell’89 sembra che la nazione francese abbia assunto la decisionecostituente fondamentale senza bisogno di alcuna mediazione rap-presentativa, perché «in questo caso la decisione politica fonda-mentale consisteva soprattutto nel divenire consapevole della pro-pria qualità di soggetto capace di agire e nel determinare da sé il––––––––––

(34) Ibidem, p. 75.(35) Ibidem, p. 76.

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proprio destino politico». In modo ancor più netto Schmitt aggiun-ge che con la rivoluzione dell’89 «in un certo senso il popolo fran-cese si costituisce da sé»(36).

Se prese sul serio, le parole di Schmitt ci dicono che il popoloè già, in quanto immediatamente presente a se stesso, in grado diagire politicamente e che questa unità e soggettività politica origina-ria del popolo precede l’atto costituente. Non solo, di riflesso di di-cono anche dell’altro: che se l’unità politica e la capacità di azionepolitica non appartenessero in modo immediato al popolo ma deri-vassero dal ruolo concretamente esercitato da un rappresentantedel popolo, in tal caso l’atto costituente non potrebbe mai conside-rarsi propriamente tale, perché dovrebbe invero presupporre unaforma rappresentativa articolata da un assetto di regole precedentiil momento costituente.

Del resto sul punto Schmitt pare inequivocabile: «il popolo inquanto titolare del potere costituente non è un’istanza stabile e or-ganizzata». E se lo fosse, «perderebbe la sua natura di popolo»(37).

In ciò però sta non solo la sua forza ma anche la sua debolez-za.

9. Forza e debolezza del popolo costituente. – Nella Dottrina dellacostituzione si legge che «la forza così come la debolezza del popoloconsiste nel fatto che esso non è un’istanza già formata, fornita dicompetenze definite e disbrigante mansioni d’ufficio secondo unprocedimento regolamentato»(38).

Ha in ciò la sua «forza» perché «in quanto entità non organiz-zata il popolo non può neppure essere sciolto» e perché «finché hala volontà di esistere politicamente, esso è superiore ad ogni strut-

––––––––––(36) Ibidem, p. 76. Infatti «esso si rende consapevole della sua capacità di azione politi-

ca e con il presupposto in tal modo espressamente accettato dell’unità politica esistente e del-la capacità di agire si dà esso stesso una costituzione».

(37) Ibidem, pp. 118 s.(38) Ibidem, p. 119 (corsivi miei).

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turazione e disciplinamento», cioè «finché esiste e vuol continuaread esistere, la sua energia e forza vitale è inesauribile e sempre capa-ce di trovare nuove forme di esistenza politica»(39).

Ma tutto questo è anche la sua «debolezza», perché «il popolodeve decidere sulle questioni fondamentali della sua forma di esi-stenza politica e della sua organizzazione senza essere esso stessostrutturato o organizzato», col risultato che «le sue manifestazionidi volontà si possono facilmente disconoscere, fraintendere o falsa-re»(40).

Insomma, il fatto che «l’immediatezza di questa volontà popo-lare […] possa essere manifestata indipendentemente da ogni proce-dura prescritta e da ogni prescritto procedimento», da un lato ren-de tale volontà assolutamente libera di creare nuove forme di esi-stenza politica, ma dall’altro le sue decisioni, non avendo il suppor-to e il veicolo di forme istituzionali date, possono dare adito a in-comprensioni e quindi essere disconosciute, o peggio ignorate econdannate alfine all’impotenza. Del resto già Hobbes notava co-me in assenza di rules of recognition non fosse possibile distinguere icomandi del sovrano dagli atti dei sudditi.

Si può esprimere lo stesso concetto distinguendo tra volontànegativa e positiva.

Il popolo nella sua identità, datità naturale non rappresentata,può esprimere una volontà negativa e travolgere un assetto costitu-zionale esistente, «mentre la volontà positiva non è altrettanto cer-ta». Con ciò Schmitt vuole dire che il popolo, colto nella sua im-mediatezza originaria, può esprimere un’irresistibile energia pole-mica in grado di imporre uno «stato d’eccezione»(41): e tuttavia nonpuò, di per sé, senza una mediazione rappresentativa, esprimereuna decisione costituente positiva.

––––––––––(39) Ibidem, p. 119.(40) Ibidem, p. 119.(41) Su cui ritornerò approfonditamente nel prosieguo.

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Certo, in taluni casi la volontà negativa è anche indirettamenteuna volontà positiva, perché «in questo no […] che si rivolge con-tro una costituzione esistente […] si trova spesso […] senz’altro e diper sé l’approvazione di un’altra e opposta forma di esistenza»(42).Indubbiamente negare la monarchia equivale a volere la repubbli-ca: e tuttavia non sarebbero «ancora definite le ulteriori possibilitàdi strutturazione di questa repubblica», perché «l’ulteriore realizza-zione e formulazione della decisione politica presa dal popolo nellasua immediatezza abbisogna di una qualche organizzazione e di unprocedimento»(43).

È indubbio perciò che la decisione costituente, se vuole esserepositiva oltre che negativa, avrà bisogno di qualcosa che non pos-siamo ritrovare nel popolo inteso come entità politica originaria enon rappresentata. Per certi versi qui troviamo già l’ammissioneche il discorso sul potere costituente del popolo non può rimanerecircoscritto dentro il principio d’identità, senza mai poter chiamarein causa il principio di rappresentanza(44).

10. Identità e rappresentanza. – Secondo Schmitt «nella realtàdella vita politica esiste tanto poco uno Stato che possa rinunciareagli elementi strutturali del principio di identità, quanto poco unoStato che possa rinunciare agli elementi strutturali della rappresen-

––––––––––(42) Ibidem, p. 120.(43) Ibidem, pp. 120 s. Anche C. MORTATI, La costituzione in senso materiale, Mila-

no, Giuffrè, 1998 (ristampa inalterata dell’edizione del 1940), p. 43, scriveva che «di volon-tà, emanante dall’unità originaria e spontanea del popolo, è possibile parlare solo in quantoessa sia affermata in forma incosciente e negativa». Per il vero con quest’asserzione Mortatiintendeva criticare le tesi di Schmitt, il quale però – come si è visto – era perfettamenteconsapevole del rilievo.

(44) Anche G. SCHWAB, The Challenge of the Exception, Berlin, Duncker & Hum-blot, 1970, trad. ital. Carl Schmitt: la sfida dell’eccezione, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 104,esclude che «nell’ottica di Schmitt (…) il popolo amorfo (possa) sostituire la Costituzionevigente con un’altra in un determinato momento». Difatti, «il popolo non può porre certequestioni, ma solo rispondere ai quesiti che il governo gli sottopone». Sicché «se ne deduceche, nel modello schmittiano, il popolo è ad un tempo onnipotente, in quanto in ultimaistanza decide con il suo ‘sì’ o col suo ‘no’, e privo di potere, dal momento che dipende inmodo assoluto dalla correttezza formale con cui il quesito è posto».

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tanza»(45). Ma qual è il significato di questi due diversi «principi diforma politica», ossia l’identità e la rappresentanza? E perché nonesiste forma di stato in cui non li rinveniamo entrambi, pur varia-mente combinati?

Come lo stesso Schmitt ricorda, la parola ‘stato’ deriva dal lati-no status e designa «un determinato status di un popolo, e precisa-mente lo status dell’unità politica»(46). Con ‘stato’ s’intende dunquela condizione in cui si trova un popolo politicamente unito(47). Diogni cosa si può dire che abbia uno status e che esso può mutaresecondo le circostanze: col variare della temperatura le particelled’idrogeno ed ossigeno definite dalla formula chimica H²O posso-no variare di status e passare dallo stato liquido a quello gassoso, aquello solido. Analogamente una stessa persona può passare dallostatus di celibe a quello coniugale. Insomma lo status non è altroche la condizione in cui una determinata cosa (o persona o ente) sitrova in un momento dato e con circostanze date. Ebbene, questaparola ‘stato’ (o ‘Stato’) designa pure la condizione in cui si trovaun popolo quando è politicamente unito, cioè – per dirlo con le ca-tegorie schmittiane – quando è capace di agire politicamente e di-stinguere l’amico dal nemico.

Resta allora da capire in che modo il popolo può diventare‘stato’, ossia raggiungere lo status, la condizione dell’unità politica.Qui entra in gioco la distinzione tra identità e rappresentanza qualidiversi «principi della forma politica». L’unità politica di un popolosi può infatti conseguire in due modi differenti: o essa si manifestadi per sé, quasi in modo naturale e spontaneo, cioè come «identitàdel popolo presente con se stesso», oppure può raggiungersi attra-verso la rappresentanza. Nel primo caso il popolo «può già nellasua immediata datità – in virtù di una forte e consapevole omoge-––––––––––

(45) C. SCHMITT, Dottrina della costituzione, cit., p. 272.(46) Ibidem, p. 271.(47) «Soggetto di ogni determinazione concettuale dello Stato è il popolo. Lo Stato è

una condizione, e precisamente la condizione di un popolo» (ibidem , p. 271).

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neità, in seguito a stabili confini naturali o per qualsiasi altra ragio-ne – esser capace di agire politicamente […] esso è, come entità real-mente presente nella sua immediata identità con se stesso, una uni-tà politica»(48).

Quando il popolo in quanto tale, ossia come entità realmentepresente, è già di per sé capace di volere e agire come un’unità esenza mediazioni rappresentative, allora possiamo dire che non c’èuna distinzione tra dominanti e dominati e che, al contrario, vige«l’identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei gover-nati, di quelli che comandano e di quelli che ubbidiscono»(49): in-somma vige ciò che, secondo Schmitt, prende il nome di «democra-zia», la quale pertanto è «una forma di Stato che corrisponde alprincipio di identità (cioè del popolo concretamente esistente conse stesso in quanto unità politica)»(50).

Individuando nel «principio dell’identità» la forma specificad’unità politica di uno Stato democratico, Carl Schmitt riporta laparola «democrazia» al suo significato originario: essa è la volontàunitaria che in modo spontaneo e immediato emana da un popoloconcretamente esistente. Infatti, «l’attuazione del principio di iden-tità significa la tendenza al minimo di governo e di direzione perso-nale. Quanto più si attua questo principio tanto più si compie ‘dase stessi’ il disbrigo degli affari politici, grazie ad un massimo diomogeneità naturalmente dato o storicamente formatosi. È questala condizione ideale di una democrazia, come la presuppone Rous-seau nel Contrat social»(51).

Se è inteso in quest’accezione roussouiana, il principio demo-cratico dell’identità non ha nulla a che vedere col principio (monar-chico e/o aristocratico) della rappresentanza; e coerentemente, lac.d. «democrazia rappresentativa» dev’essere trattata alla stregua di––––––––––

(48) Ibidem, p. 271.(49) Ibidem, p. 307.(50) Ibidem, p. 293.(51) Ibidem, pp. 283 s.

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un ossimoro(52).Schmitt, però, precisa che ciò «è da considerare solo come una

costruzione ideale astratta, non come una realtà politica e storica».È chiaro infatti che dove c’è l’omogeneità sostanziale del popolo e«dove tutto concorda, la decisione deve prodursi da sé senza di-scussione e senza contrasti di interessi essenziali, poiché tutti vo-gliono la stessa cosa»(53): però è solo una finzione, perché «una to-tale, assoluta identità del popolo di volta in volta presente con sestesso in quanto unità politica non esiste in nessun luogo e in nes-sun istante»(54).

In conclusione, per raggiungere lo status, la condizione del-l’unità politica occorre sempre la rappresentanza, il cui principio«parte dall’idea che l’unità politica del popolo in quanto tale nonpuò mai essere presente nella reale identità e perciò deve sempreesser rappresentata fisicamente da uomini»(55). Sicché «non c’è nes-suno Stato senza rappresentanza»(56).

Ebbene, se lo stato è lo status di un popolo politicamente uni-to e capace di agire politicamente e se non c’è nessuna condizionedi unità politica – cioè nessuno stato – senza rappresentanza, ne di-scende altresì che senza rappresentanza il popolo non possa nean-che manifestarsi come potere costituente. È lampante infatti che seil popolo può palesarsi come potere costituente soltanto se primaha raggiunto una condizione di unità politica, l’operare di un «prin-cipio di rappresentanza» sarà non già il prodotto ma il presuppostodella decisione costituente (con ciò accreditando indirettamente lafondatezza dell’ipotesi hartiana).

––––––––––(52) «La rappresentanza contiene l’autentica contrapposizione al principio democrati-

co dell’identità; la c.d. ‘democrazia rappresentativa’ è perciò la tipica forma compromissoriae mista». E difatti, «il rappresentativo contiene proprio il non-democratico in questa ‘demo-crazia’».

(53) Ibidem, p. 284.(54) Ibidem, p. 273.(55) Ibidem, p. 271.(56) Ibidem, p. 272.

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Tuttavia non è semplice inchiodare il discorso schmittiano suquesta conclusione. Come vedremo, il giurista renano è sempreelusivo di fronte alla questione se la volontà costituente del popolofondi o presupponga l’unità politica del popolo stesso.

11. Il rapporto problematico tra decisione costituente e unità poli-tica. – Nella sistematica schmittiana la decisione costituente fondal’unità politica del popolo ovvero ne è fondata?

I passi della Verfassungslehre che segnalano questo dilemmanon sono pochi. A proposito della costituzione di Weimar Schmittscrive che «l’unità del Reich tedesco poggia non sui 181 articoli esulla loro vigenza, ma sull’esistenza politica del popolo tede-sco»(57). Ciò accredita l’impressione che la costituzione «in sensopositivo», cioè il decisum, il prodotto della decisione o volontà co-stituente – decisione e testo sono, infatti, le facce di una stessa meda-glia – sia preceduto da un’esistenza politica unitaria del popolo te-desco, cioè da quella che Schmitt chiama «costituzione in senso as-soluto»(58).––––––––––

(57) Ibidem, p. 24.(58) È noto che Schmitt distingue tra un concetto «positivo» e un concetto «assoluto»

di costituzione. Mentre il primo indica «la decisione totale sulla specie e la forma dell’unitàpolitica» (ibidem , pp. 38 ss.), il secondo designa la «concreta condizione generale d’unitàpolitica» (ibidem , p. 16), cioè la situazione di unità politica di un popolo. Inoltre la costi-tuzione «in senso positivo», indicando la decisione fondamentale sulla specie e forma del-l’unità politica, coincide con quella parte del testo costituzionale che reca le scelte essenzialiin ordine alla forma politica. Quindi, nonostante le apparenze, il concetto positivo» di costi-tuzione come decisione fondamentale, non ha valenza extratestuale. È indubbio che, percerti versi, la decisione fondamentale stia fuori dal testo, in un rapporto tra condizionante econdizionato. È anche vero, però, che il testo ne è la (sola) manifestazione esteriore, ciòche ne attesta l’evento: una decisione costituente è tale – ed è quindi conoscibile, accertabile– solo attraverso il suo prodotto, il documento costituzionale. Del resto, il lemma ‘decisio-ne’ indica contemporaneamente sia l’atto del decidere che il suo contenuto, il decisum; sial’attività che il suo risultato, tanto che non si può separare la prima dal secondo, giacchéquest’ultimo è – appunto – il solo che possa attestare l’altra. Questo aspetto della dottrinaschmittiana è evidenziato pure da S. BARTOLE, Costituzione (dottrine generali e diritto co -stituzionale) , in Digesto disc. pubbl., vol. IV, Torino, Utet, 1992, pp. 288 ss., spec. 304 s., ilquale osserva che, se presa alla lettera, questa dottrina «potrebbe anche indurre a ritenereche la costituzione, intesa quale la decisione politica fondamentale del titolare del potere co-stituente, non ha da essere incorporata nella costituzione scritta, nella legge fondamentale,ma deve necessariamente porsi fuori di essa, e quindi anche in un contesto in cui sono irri-levanti le determinazioni formali. In realtà, come risulta dalle successive considerazioni sul-

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Ciò nonostante, il prosieguo del passo appena citato sembraribaltare questa lettura, perché Schmitt aggiunge che «la volontà delpopolo tedesco, cioè qualcosa di esistenziale, (…) fonda l’unità poli-tica e di diritto pubblico»(59). Ora, se la «volontà» è quella costi-tuente, se è cioè la decisione che pone la costituzione positiva, èchiaro che l’unità politica non la precede ma la segue, con evidenteinversione del nesso prima individuato.

Si può ipotizzare che, in questo caso, per «volontà del popolotedesco» il giurista renano intenda qualcosa che, a sua volta, prece-de la volontà costituente: ci sarebbe dunque una decisione origina-ria del popolo, che fonda l’unità politica del popolo stesso, e unadecisione successiva, sempre del popolo, che pone la costituzionepositiva? Nessun passo dell’opus schmittiano sorregge quest’inter-pretazione. Anzi, che la decisione creativa dell’unità politica sia lamedesima che pone la costituzione scritta è confermato dal passodella Verfassungslehre dove si legge che «costituzione in senso posi-tivo significa un atto consapevole di creazione di questa unità poli-tica»(60).

Ciò nondimeno, non sono infrequenti i passi nei quali questonesso logico e cronologico viene nuovamente ribaltato. Difatti, po-sto che la costituzione positiva è una decisione, cioè un atto, ebbe-ne Schmitt afferma che «questo atto costituisce la forma e la speciedell’unità politica, la cui esistenza è presupposta»(61). Qui l’unità

––––––––––la costituzione di Weimar, le determinazioni della decisione politica fondamentale sono vi-ste come parte dello stesso testo della costituzione».

(59) Ibidem, p. 24.(60) Ibidem, p. 69.(61) Ibidem, p. 39. A proposito della Rivoluzione francese del 1789 Schmitt scrive che

in quell’occasione, dandosi una costituzione, «il popolo diventa nazione, cioè consapevoledella sua esistenza politica». Tuttavia «ciò non significa che prima non esisteva e che con laconsiderazione consapevole del suo potere costituente costituiva anche il suo Stato. L’atto diformazione della costituzione fu preceduto dall’esistenza politica. Ciò che non esiste politi-camente, non può neppure decidere consapevolmente. In questo evento fondamentale, nelquale un popolo agì in modo politicamente consapevole, l’esistenza politica era presuppostae l’atto, attraverso cui il popolo si dà una costituzione, deve decidersi a partire dalla fonda-zione dello Stato» (ibidem , pp. 76 s.).

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politica, in quanto presupposta, precede la decisione, l’atto costi-tuente. E infatti, Schmitt aggiunge le seguenti parole: «non è chel’unità politica si forma proprio perché è data una costituzione. Lacostituzione in senso positivo contiene soltanto la determinazioneconsapevole della forma speciale complessiva, per la quale l’unitàpolitica si decide. Questa forma può modificarsi. Possono essereintrodotte fondamentalmente nuove forme, senza che cessi lo Sta-to, cioè l’unità politica del popolo»(62).

A questo punto il nodo inizia a sciogliersi. Sembra infatti chela distinzione analitica tra «unità politica» e «forma dell’unità politi-ca» abbia una valenza puramente concettuale: serva, cioè, a sottoli-neare la variabilità delle forme (dell’unità politica), ma non certo adaffermare che sul piano esistenziale si possano dare unità politichesprovviste di forma. Anzi, Schmitt asserisce esattamente il contra-rio: «poiché ogni essere è un essere concreto e di natura determina-ta, ad ogni esistenza politica concreta spetta una qualche costituzio-ne»(63).

Ma se l’unità politica è sempre ‘in-forma’ – ché esistenzialmen-te è impossibile che sia ‘informe’ – se ne deve arguire che essa si dàuna forma nel momento esatto in cui viene a essere.

Ecco perciò che non ha più senso interrogarsi sul rapportocronologico (e logico) tra la decisione e l’unità politica. C’è comeuna contrazione temporale che riduce e sintetizza a un solo e ful-mineo istante il momento in cui il popolo si costituisce in unitàpolitica e il momento in cui lo stesso popolo, unito politicamente,decide circa la forma della propria esistenza politica: i due momentinon rappresentano fasi temporalmente e logicamente distinte, masi producono nello stesso tempo.

Ed ecco, infine, perché il concetto assoluto e il concetto positivodi costituzione, cioè la condizione d’unità e la (sua) decisione, non

––––––––––(62) Ibidem, p. 39.(63) Ibidem, p. 41.

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possono che sovrapporsi in modo totale. Nella teoria schmittiananon c’è spazio per l’idea di un ‘processo costituente’ che si dispie-ghi linearmente nel tempo: tutto si riduce alla dimensione puntua-le, all’improvviso, fulmineo e miracoloso bagliore di una decisionecostituente che si palesa nello stesso istante in cui si realizzaun’unità politica. E difatti Schmitt scrive che «(la costituzione posi-tiva) è una decisione consapevole che comporta di per sé e si dà dase stessa l’unità politica tramite il titolare del potere costituente (cor-sivi miei)»(64).

Ma soprattutto diventa chiaro quale debba essere il rapportotra i contrapposti principi di forma politica della «identità» e della«rappresentanza».

La rappresentanza non è ciò in cui si risolve senza residuil’identità, come poteva sembrare dal dictum «non c’è nessuno Stato– cioè status, condizione di unità politica del popolo (n.d.r.) – senzarappresentanza». Se è vero infatti che «nella realtà della vita politicaesiste tanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementistrutturali del principio d’identità, quanto poco uno Stato chepossa rinunciare agli elementi strutturali della rappresentanza», al-lora non ci può essere una primazia dell’un elemento sull’altro:uno non assorbe e neutralizza l’altro, ma entrambi costituiscono itermini di una dialettica incessante, che mai approda a sintesi defi-nitiva. Sono le due facce di Giano della politica e del diritto pub-blico moderni(65).

Questa tensione costitutiva e inesauribile tra identità e rappre-––––––––––

(64) Ibidem, p. 39.(65) O «il doppio sguardo mitico di Giano», per usare l’immagine con cui C. GALLI,

Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, Bologna, Il Mulino, 2088, p. 7, sintetizza ilpensiero schmittiano e la sua «capacità ambivalente di vedere da due lati il ‘politico’, ossia dicogliere il passaggio tra informe e forma, tra Caos e ordine, tra guerra e pace, e la loro fata-le irreversibilità, cioè di nuovo il passaggio tra forma e crisi». A ben vedere anche la dialetti-ca incessante tra «identità» e «rappresentanza» esprime il passaggio dall’informe alla forma,dal caos all’ordine. L’«identità», infatti, è lo stato informe in cui si trova il popolo quando èriguardato come pura energia polemica non ancora incanalata in una forma rappresentati-va; mentre la «rappresentanza» esprime, al contrario, un principio d’ordine, una forma re-golata da norme e istituzioni.

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sentanza raggiunge l’apoteosi nel momento costituente: nell’istantefulmineo in cui si manifesta la decisione politica fondamentale sirealizza come una sorta di compresenza temporale tra identità erappresentanza, perché il momento in cui il popolo si palesa comeoriginaria unità politica di volontà e d’azione è lo stesso momentoin cui il popolo decide la forma della propria esistenza politica, do-tandosi di un’istituzione rappresentativa. Il popolo costituisce lapropria rappresentanza – e non può non costituirla – nell’istanteesatto in cui esprime il proprio potere decidente originario (e nonrappresentato)(66).

Sicché, da un lato l’identità – cioè il popolo presente a se stessocome immediata datità e che perciò stesso è già capace di decisionee azione politica – è spinta inesorabilmente verso la rappresentanzae aspira quindi a un principio d’ordine che deve concretizzarsi im-mediatamente in un assetto rappresentativo(67). Dall’altro, però,questa risoluzione dell’identità nella rappresentanza non è integra-le, senza eccedenze o residui, perché permane sempre la possibilitàche un nuovo momento intensamente ‘identitario’ travolga la for-ma rappresentativa data per crearne una nuova(68).

––––––––––(66) Anche C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero po-

litico moderno, II ediz., Bologna, Il Mulino, 2010, p. 586, scrive che «i due principi di for-ma politica, cioè l’identità e la rappresentazione, risultano in realtà, dalla stessa articola-zione dell’argomentazione di Schmitt, i due lati del potere costituente».

(67) Secondo l’interpretazione di Schmitt offerta da C. GALLI, op. ult. cit., pp. 592 s.,«il potere costituente del popolo esige, per essere effettuale, un’assemblea costituente o unpartito rivoluzionario», cioè la mediazione rappresentativa di un soggetto distinto dal popo-lo come totalità unitaria. Questo proverebbe l’esistenza di un «nesso di co-implicazione fraidentità e rappresentazione».

(68) Non bisogna dimenticare, infatti, che per C. SCHMITT, op. ult. cit., p. 111, «il po-tere costituente non è finito ed eliminato per il fatto che venne esercitato una volta»; difat-ti, siccome «la decisione politica, che la costituzione implica, non può ripercuotersi contro ilsuo soggetto e sopprimere la sua esistenza politica», «accanto e al di sopra della costituzionecontinua ad esistere questa volontà». Quindi, in virtù del carattere inesauribile del poterecostituente, l’adozione di una decisione fondamentale non preclude la possibilità futura dialtre decisioni dello stesso tipo. Dietro la vigenza di un testo costituzionale c’è sempre, informa latente, il potere che lo ha posto. Va precisato però che la riemersione del potere co-stituente non necessariamente è la ricomparsa di quel soggetto costituente, rectius: di quegliindividui storicamente determinati che assunsero la decisione fondamentale. L’inesauribilitànon è predicato del costituente storico ma dell’idea in sé di potere costituente. Questa ulti-

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12. Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione. – La decisione so-vrana è il miracolo puntuale da cui deriva la validità della costituzio-ne scritta. La vigenza del documento costituzionale, il suo ingressonel mondo del diritto positivo inizia nel momento esatto in cui ilpopolo si costituisce in unità dandosi una forma (rappresentativa)d’esistenza politica.

A ben vedere, decisionismo significa proprio questo: che la de-cisione fondamentale è l’inizio della giuridicità di un ordinamentostatale (e la fine definitiva della giuridicità di quello precedente)(69).––––––––––ma precisazione può, forse, ridimensionare le obiezioni che C. ESPOSITO, La validità delleleggi, Milano, Giuffrè, 1964 (ristampa inalterata della edizione del 1934), pp. 198 s., rivolgealle tesi schmittiane; obiezioni che – appunto – segnalano la «dubbia consistenza» di un po-tere costituente «che con la sua forza imporrebbe la costituzione, senza cedere o concedereniente del suo potere alla organizzazione che viene creata, e continuando ad essere unicoarbitro della forma di governo dello Stato». Secondo Esposito, nella dottrina schmittiana icostituenti «essendo stati per un momento e per una volta gli arbitri più o meno illimitatidella vita dello Stato dovrebbero continuare ad esserlo in eterno, mentre invece secondoconsiderazione di fatto essi avranno un tal potere solo nei limiti in cui abbiano forza mate-riale per imporre una nuova costituzione». Il realismo dell’argomento espositiano coglie in-dubbiamente nel segno, se il carattere inesauribile del potere costituente viene riferito alsoggetto storico che ha posto la costituzione: non si può escludere, infatti, che questo ad uncerto punto possa venire meno, senza che ciò necessariamente travolga il testo costituzio-nale. L’obiezione risulta, però, meno precisa, se l’aggettivo ‘inesauribile’ viene riferito al po-tere costituente in sé o come concetto, cioè a qualsiasi soggetto – non importa se identico odiverso rispetto all’originario costituente – che abbia la forza per imporre e dichiarare uno«stato d’eccezione» e, quindi, una nuova decisione fondamentale ed un nuovo testo costi-tuzionale.

(69) Peraltro questa decisione è essa stessa ‘giuridica’, poiché è impensabile che il prin-cipio non partecipi della medesima natura di ciò che da esso procede. Se, come sostenevaGiambattista Vico, «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e concerte guise», vale anche il reciproco: il nascimento di qualcosa è anche la sua natura. Difat-ti, il potere costituente, pur non soffrendo di limiti preesistenti, appartiene tuttavia al dirit-to – o meglio, al discorso sul diritto – ed è parte integrante dell’ordinamento, giacché nefonda la validità complessiva. Perciò, in quanto decisum, cioè atto scaturente da un’attivitàdecidente, il testo costituzionale ha la medesima giuridicità della sua decisione: l’elementoprimigenio e fondativo del diritto è, perciò stesso, ‘diritto’. In quanto fonte prima del dirit-to positivo la decisione costituente è – nell’ottica schmittiana – un concetto della scienzagiuridica e, segnatamente, del diritto costituzionale: in questo senso e alla luce di questa pro-spettiva non sarebbe sbagliato dire che tale concetto ha natura giuridica, anche se non èvincolato a nessuna forma o procedura giuridica predefinita. È identico il punto di vistaespresso da E.W. BÖCKENFÖRDE, op. ult. cit., p. 232 (traduzione italiana del 1996), il qualeprecisa che la questione del potere costituente «è una questione di diritto costituzionale; maè nel contempo qualcosa di più». Infatti, «mirando al fondamento, alla forza creatrice e allalegittimazione della costituzione, travalica l’ambito del diritto positivo vigente […].Cionondimeno, la questione conserva un significato di diritto costituzionale», poiché «an-che il fondamento del diritto appartiene al diritto». Per un’impostazione antitetica vedi, in-

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Tutto ciò che si può dire della decisione fondamentale è sem-plicemente che si dà e, quindi, esiste. Apparendo in modo fulmineoe prodigioso è l’atto di volontà irresistibile che crea dal nulla unnuovo assetto di istituzioni e norme. Quest’idea è espressa icastica-mente dall’incipit di Teologia politica, «sovrano è chi decide sullostato d’eccezione»(70), che riassume il senso profondo del decisioni-smo e della teoria esistenziale del potere costituente.

Nella formula citata le tre parole chiave: sovranità, decisione,stato d’eccezione, si definiscono e reggono reciprocamente, costi-tuendo tre snodi di un movimento unitario. La sovranità è la quali-tà di chi può prendere una decisione fondamentale; e questa, a sua

––––––––––vece, A. PACE, L’instaurazione di una nuova costituzione. Profili di teoria costituzionale,in Quad. cost., 1997, pp. 7 ss., spec. 17 ss., dove si afferma che il potere costituente, essendosvincolato da qualsiasi ordine preesistente, non si esercita secondo norme prestabilite: esso,pertanto, è «un potere di mero fatto» che «si muove al di là della sfera del giuridico». La tesi,invero, è ricorrente in dottrina: P.G. GRASSO, Potere costituente, in Enc, dir., vol. XXXIV,Milano, Giuffrè, 1985, pp. 644 ss., ritiene che essa sia «opinione dominante fra i nostrigiuspubblicisti» e la riassume in termini non dissimili da quelli di Alessandro Pace: «siccomenon giustificate in norme prestabilite, le azioni rivoluzionarie od agiuridiche, compiute perl’instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale, sono qualificate come di per sécontrarie od estranee al diritto».Tuttavia non si può negare carattere di giuridicità alla deci-sione (o potere) costituente e nel contempo sostenere o ammettere che tale decisione (o po-tere) sia esistenzialmente possibile proprio nei termini offerti dalla teoria schmittiana. Misembra che incorra in questo errore A. PACE, L’instaurazione di una nuova Costituzione.Profili di teoria costituzionale, cit., pp. 14 ss., laddove esclude che il potere costituente siagiuridicamente connotato proprio perché potenzialmente illimitato e svincolato da qualsiasiordine preesistente. Mi sembra che, così argomentando, l’impianto schmittiano riceva unasostanziale conferma: vuoi perché le tesi di Pace non sono (ancora) una replica all’assuntoschmittiano secondo cui il fondamento del diritto appartiene al diritto; vuoi perché, sul pia-no esistenziale (che è precisamente quello su cui insiste il decisionismo), non si offre alcunargomento che contraddica la rappresentazione schmittiana del fatto costituente, la qualeviene anzi ribadita. A ben vedere e in ultima analisi, l’accoglimento o il rifiuto della tesi cheaccorda natura giuridica al potere costituente dipende dal «tipo di pensiero giuridico» cui siaderisce, cioè dal «concetto di diritto» che «ogni giurista, consapevolmente o inconsapevol-mente, pone a fondamento del suo lavoro» (C. SCHMITT, I tre tipi di pensiero giuridico ,cit., p. 248). Per chi aderisce al «tipo di pensiero giuridico fondato sull’ordinamento concre-to» o «fondato sulla decisione», non vi sarà nessuna difficoltà a scorgere nel fatto costituen-te un fenomeno provvisto di sicura connotazione giuridica. Per chi, invece, predilige il «ti-po di pensiero giuridico fondato sulle norme» (altrimenti definibile, sempre secondo Sch-mitt, come «normativismo»), ciò sarà impossibile, mai potendo il dover essere scaturire dal-l’essere.

(70) C. SCHMITT, Politische Teologie, Vier Kapitel zur Lehre der Souveranität, trad.ital. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in C. SCHMITT, Lecategorie del politico , cit., p. 33.

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volta, è ciò che non solo crea il nulla, azzerando l’ordine normale enormativo preesistente e determinando perciò uno stato d’eccezio-ne, ma è ciò che da questo stesso nulla o stato d’eccezione trae unnuovo ordine.

Volendo ripartire i ruoli di definiens e definiendum tra i treelementi della formula schmittiana, se ne arguisce che il concetto di«sovrano» è definito da quello di «decisione fondamentale» e que-st’ultimo da quello di «stato d’eccezione»: la decisione del sovranonon è altro che la possibilità, esistenzialmente data, di annullare unordine normale e normativo per trarne uno nuovo; cioè, di crearee superare uno «stato d’eccezione».

Il dubbio, però, è se sia realmente possibile qualcosa come lostato d’eccezione: quanto è riscontrabile nella realtà un evento(una volontà, una decisione) che sia in grado di segnare una discon-tinuità radicale rispetto a un ordine (normale e normativo) preesi-stente?

In particolare la mia tesi è che decostruendo la formula schmit-tiana dello stato d’eccezione sul piano esistenziale – ossia mostrandocome tale stato non sia esistenzialmente possibile – si può provareche la decisione costituente (e sovrana) non è la fonte prima dellagiuridicità(71).––––––––––

(71) E ogni altro tentativo di confutazione che non si ponga sullo stesso piano esisten-ziale in cui si colloca la riflessione schmittiana rischia di non centrare il bersaglio. Ad esem-pio, K. LÖWITH, Der okkasionelle Dezisionismus von Carl Schmitt (1935), trad. ital. Il deci-sionismo occasionale di Carl Schmitt, in ID., Marx, Weber, Schmitt, Roma-Bari, Laterza,1994, pp. 125 ss., spec. 133 s., 143 s., scrive, a proposito della decisione di cui parla Schmitt,che «le è essenziale l’occasionalismo» e che è «campata in aria perché non sostenuta da altroche da se stessa» e perché «il contenuto o il fine per il quale essa si decide realmente provie-ne solo dalla causale occasio delle situazioni politiche che volta per volta si presentano». Eb-bene, sempre a giudizio di Löwith, proprio da «questa radicale indifferenza della decisionesolamente formale, verso ogni contenuto politico, dalla quale consegue che tutti i contenutisono indifferenti l’uno rispetto all’altro, ossia equivalenti» emergerebbe «il fondamento ni-chilistico del concetto schmittiano della politica». Un punto di vista simile è rinvenibile pu-re in G. AZZARITI, Critica della democrazia identitaria, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 47ss., il quale ha sostenuto (sulla scia di A. PREDIERI, Carl Schmitt, un nazista senza coraggio,vol. II, Firenze, 1998, p. 667) che la costruzione schmittiana è tautologica come quella kel-seniana: «la decisione schmittiana (nonché la costituzione da questa posta) vige solo perchèed in quanto posta»: sarebbe pertanto una categoria viziata da «in-fondatezza». Ora, purcondividendo in larga parte gli esiti ricostruttivi cui perviene Azzariti, c’è da dire però che,

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Ma prima conviene spiegare meglio cosa Schmitt intende per«stato d’eccezione».

13. Lo stato d’eccezione. – Per chiarire la portata di questa no-zione centrale del pensiero decisionista occorre considerare tuttol’arco temporale della produzione scientifica schmittiana.

Quasi obbedendo a una numerologia occulta, prenderò in esa-me tre opere in particolare, che distano sei anni l’una dall’altra:Teologia politica del 1922, Dottrina della costituzione del 1928 e I tretipi di pensiero giuridico del 1934.

Inizio dal primo, cioè Teologia politica del 1922, il cui inizio fol-gorante è già stato ricordato: «sovrano è chi decide sullo stato d’ec-cezione». Qui la nozione di «stato d’eccezione» si palesa già in tuttala sua complessità di significato.

Anzitutto tale stato si manifesta quando si produce il «casod’eccezione», cioè un evento che non è riconducibile a nessunanorma data, che sfugge ad ogni normalità e che pertanto richiedecompetenze illimitate, cioè sovrane. In particolare «il caso d’ecce-zione» è «il caso non descritto nell’ordinamento giuridico vigente,

––––––––––sul punto specifico, la critica (di Azzariti e per certi versi di Löwith) non coglie nel segno.La decisione schmittiana riposa sul piano esistenziale: se la costituzione positiva vige in for-za di una decisione (rectius: è la decisione), questa a sua volta vige in virtù del semplice fattoche qualcuno ha la forza di assumerla. Il fondamento della «decisione fondamentale» è, per-ciò, la sua stessa esistenza. Lo stesso Azzariti, del resto, osserva correttamente che la deciio-ne «appare (…) autofondarsi ed in seguito imporsi esclusivamente per via di forza»: ciò nonsolo revoca l’accusa di infondatezza mossa prima (ché ciò che è auto-fondato è evidente-mente altro da ciò che è in-fondato), ma esprime esattamente il senso del pensiero schmit-tiano. Difatti, se e quando una decisione fondamentale si manifesta sortendo il suo scopo (equalcuno ha avuto la capacità di prenderla), di cos’altro c’è bisogno per sostenerne la fonda-tezza? Invero, il solo modo di contestare teoricamente il decisionismo è negare che propriosul piano esistenziale si possa dare una decisione del tipo di quella descritta dal giurista rena-no: cioè fondamentale e totale perché in grado di creare e superare uno stato d’eccezione.Ecco perché eccepire il carattere autoritario del decisionismo, la sua insensibilità ai valoridel consenso democratico e della mediazione parlamentare (come fa sempre G. AZZARITI,op. ult. cit., pp. 48 ss.) o la sua concezione pessimistica e gerarchico-piramidale dei rapportisociali (come invece fa A. SPADARO, L’idea di Costituzione fra letteratura, botanica e geo -metria. Ovvero: sei diverse concezioni ‘geometriche’ dell’’albero’ della Costituzione e un’uni-ca, identica ‘clausola d’Ulisse’ , in F.F. SEGADO (a cura di), The Spanish Constitution in theEuropean Constitutional Context, Madrid, 2003, pp. 169 ss., spec. 173 s.) confonde la con-futazione teorica con il giudizio etico.

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(il) caso di emergenza estrema, come pericolo per l’esistenza delloStato»(72): eventi siffatti, che non ricadono sotto alcuna competen-za normativamente definita, disciplinata e delimitata, e che pertantosi affrontano con decisioni non dedotte da norme date, rivelanol’essenza di ciò che è sovrano.

È chiaro che qui l’evento eccezionale è ciò che viene fronteg-giato dal sovrano. Ma quasi subito Schmitt precisa che il caso d’ec-cezione è anche ciò che può essere creato dal sovrano: difatti, que-st’ultimo «decide tanto sul fatto se sussista il caso estremo di emer-genza, quanto sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo»(73).Si tratta di un passaggio importante. Sovrano è non solo chi decidecosa si deve fare quando inopinatamente accadono eventi estremiche non possono fronteggiarsi agendo in base a competenze nor-mativamente date: sovrano è anche chi decide se vi sono eventi diquesto tipo. Lo stato d’eccezione rivela il sovrano, sia nel sensoche lo costringe ad uscire allo scoperto sia nel senso che ne testi-monia la illimitata forza creatrice. Sicché lo stato d’eccezione può es-sere creato dal sovrano. In ogni modo, è pur sempre lui a stabilirese vi sia oppure no: e la differenza tra dichiararne e volerne (o de-terminarne) la presenza è dapprima impalpabile per poi svanire deltutto, come vedremo meglio tra un po’.

Ma la complessita del pensiero schmittiano sullo stato d’ecce-zione emerge soprattutto nel seguente passo: «poiché lo stato d’ecce-zione è ancora qualcosa di diverso dall’anarchia o dal caos, dal puntodi vista giuridico esiste ancora in esso un ordinamento, anche se non sitratta più di un ordinamento giuridico»(74).

Parrebbe un vero rompicapo. Ad esempio, l’asserzione: «dalpunto di vista giuridico esiste ancora in esso un ordinamento, anche senon si tratta più di un ordinamento giuridico» sfiora il principio dinon-contraddizione. Nello stato d’eccezione esisterebbe ancora,––––––––––

(72) C. Schmitt, Teologia politica , cit., p. 34.(73) Ibidem, p. 34.(74) Ibidem, p. 39.

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dal punto di vista giuridico, un ordinamento, ma questo non sareb-be un ordinamento giuridico: bisogna chiedersi, però, come possaesistere, dal punto di vista giuridico, un ordinamento che però nonsarebbe un ordinamento giuridico. Eppure il passo schmittiano re-cita testualmente proprio così(75).

Dove sta, allora, il trucco? Cos’è mai quest’ordinamento non-giuridico che però, dal punto di vista giuridico, persisterebbe purenello stato d’eccezione? Ebbene, la risposta all’assillo viene qualcheriga sotto, dove si legge che: «il caso d’eccezione resta accessibile allaconoscenza giuridica, poiché entrambi gli elementi, la norma come ladecisione, permangono nell’ambito del dato giuridico»(76). Insommanello stato d’eccezione non c’è più un «ordinamento giuridico», siaesso kelsenianamente un sistema di norme ovvero romanianamenteun insieme di istituzioni concrete: tuttavia, non siamo fuori dal di-ritto né dalla conoscenza giuridica, perché anche la «decisione (per-mane) nell’ambito del dato giuridico».

Per capire il senso profondo di quest’ultima asserzione è indi-spensabile fare un salto di dodici anni e leggere I tre tipi di pensierogiuridico del 1934. In questo saggio Schmitt illustra come per ‘dirit-to’ possano intendersi tre cose differenti: la norma, l’ordinamentoconcreto, la decisione, cui corrispondono tre tipi di pensiero giuri-dico (normativismo, istituzionalismo e decisionismo). Orbene, siha propriamente «stato d’eccezione» quando lo spazio sociale sisvuota di norme e ordinamenti concreti per venire interamente col-––––––––––

(75) La questione, ovviamente, non è nuova. G. AGAMBEN, Stato d’eccezione, Torino,Bollati Boringhieri, 2004, p. 32 s., ricorda «la divisione fra coloro che cercano di includerelo stato d’eccezione nell’ambito dell’ordinamento giuridico e coloro che lo consideranoesterno a questo, cioè come un fenomeno essenzialmente politico o, comunque, extragiuri-dico». Aggiunge però, che «la semplice opposizione topografica (dentro/fuori) implicita inqueste teorie sembra insufficiente a dar ragione del fenomeno che dovrebbe spiegare», per-ché «in verità lo stato d’eccezione non è né esterno né interno all’ordinamento giuridico eil problema della sua definizione concerne appunto una soglia, o una zona di indifferenza,in cui dentro e fuori non si escludono, ma s’indeterminano». In realtà, come dirò subito neltesto, la questione se lo stato d’eccezione sia interno o esterno all’ordine giuridico dipendedal tipo di pensiero giuridico che si assume e dalla conseguente nozione di diritto che siadotta.

(76) C. SCHMITT, Teologia politica , cit., p. 34.

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mato dalla decisione sovrana. Ecco perché, dal punto di vista giuri-dico, c’è ancora qualcosa che è diritto e che è conoscibile dallascienza del diritto: questo qualcosa è la decisione sovrana e il tipodi pensiero giuridico che la conosce e la riconosce come fenomenogiuridico (cioè come il primo e più profondo e radicale svelarsi deldiritto) è il decisionismo(77).

Perciò, quando Schmitt dice che nello stato d’eccezione c’è an-cora un «ordinamento» e «non il caos e l’anarchia», lasciando in-tendere che esso sia allo stesso tempo dentro e fuori l’ordine giuri-dico, intende precisamente questo: che lo stato d’eccezione è unvuoto di diritto inteso come norma e istituzione, ed è un pieno didiritto inteso come decisione sovrana. E quando questa decisione simanifesta, nel tempo brevissimo di un bagliore accecante ed istan-taneo che subito lascia nuovamente il campo alla normalità e allanormatività, si produce il totale azzeramento di norme ed istituzio-ni preesistenti, ma non la fuoriuscita dal ‘diritto’, perché anzi è pro-prio in questi momenti che il diritto si svela nella sua essenza piùprofonda. Nello stato d’eccezione la presenza del diritto è la pre-senza stessa del sovrano che decide.

In definitiva, da un lato lo stato d’eccezione è un vuoto di nor-me, istituzioni, ordinamenti, normalità e normatività, dall’altro èpienezza ed assolutezza della decisione sovrana. Solo in questo sen-so è, paradossalmente, uno stato dell’ordine. Come se soltanto neldisordine assoluto si rivelasse, ancora paradossalmente, il massimopossibile d’ordine, cioè l’estrema forza risolutiva della decisione as-soluta(78).

––––––––––(77) Questo permette inoltre di spiegare perché Schmitt in Teologia politica dice che

l’eccezione «si sottrae all’ipotesi generale (cioè alla norma), ma nello stesso tempo rende pa-lese in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione»; e per-ché afferma che il sovrano «sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigentee tuttavia appartiene ad esso» (ibidem , pp. 39 e 34).

(78) L’ordine e il disordine sono le due facce di una stessa medaglia, la decisione sovra-na. Ecco perché nel 1934, ne I tre tipi di pensiero giuridico (ma lo aveva fatto già prima inmolti saggi) Schmitt coglie in Hobbes «l’esempio classico di pensiero decisionistico». Secon-do Schmitt, Hobbes è il primo a dire che «la decisione originaria e pura, questa instaurazio-

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Il sovrano decisore (cioè il diritto stesso) che si manifesta nellostato d’eccezione può essere sia l’artefice della preesistente normali-tà e normatività (che nello stato d’eccezione viene azzerata per poiriprendere vita) sia un nuovo sovrano decisore che irresistibilmen-te riesce ad emergere e manifestarsi per sostituire una nuova nor-malità e normatività a quella precedente. In ogni caso, lo stato d’ec-cezione – sia che venga occupato dal vecchio sia che venga occupa-to dal nuovo sovrano – non è uno spazio vuoto di diritto, ma ilcontrario, cioè uno stato in cui il diritto si svela nella sua essenzapiù profonda.

Nello scritto del ’22 a Schmitt interessa soprattutto focalizzarel’attenzione sulla prima ipotesi, cioè sullo stato d’eccezione che èfunzionale alla conservazione della preesistente normalità/normati-vità contro eventuali attacchi interni ed esterni. Gli interessa quindipiù lo stato d’eccezione creato dal sovrano che già c’è e si soffermapoco sullo stato d’eccezione che invece deriva dal manifestarsi diun nuovo sovrano. Ciò nondimeno ha presente lo stesso quale siala scansione logica e cronologica tra decisione, stato d’eccezione,normalità e normatività. E in particolare, sempre nell’opera del ’22,c’è un passaggio che prefigura la futura tematica che verrà poi af-frontata in modo approfondito nella Verfassungslehre: «nella sua for-ma assoluta il caso d’eccezione si verifica solo allorché si deve creare lasituazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche».––––––––––ne dell’ordine non può essere dedotta né dal contenuto di una norma precedente, né da unordinamento preesistente», ma «scaturisce da un nulla normativo e da un disordine concre-to». E ancora: «la struttura logica del decisionismo acquista i suoi tratti più chiari in Hob-bes, poiché il decisionismo puro presuppone un disordine che viene tramutato in ordine so-lo per il fatto che viene presa una decisione». Nel contesto del pensiero decisionistico – co-mune a Schmitt e Hobbes, secondo la ricostruzione che ne fa il primo – lo stato d’eccezio-ne schmittiano equivale allo stato di natura hobbesiano. Lo stato di natura è infatti disordi-ne: ma come può tramutarsi nel suo contrario, cioè nell’ordine, se non presumendo che ta-le disordine contenga già il suo principio ordinante, cioè la presenza o, meglio, la possibili -tà della decisione sovrana? Come dice lo stesso Schmitt, «la decisione sovrana è il principioassoluto, e il principio (nel senso anche di archè) non è altro che decisione sovrana». Nellafilosofia presocratica l’archè è il principio primo, generatore di ogni cosa. nel campo dellarealtà politica e giuridica, l’archè è la decisione sovrana, l’origine di ogni ordine politico egiuridico. Ma in quanto origine precede l’ordine e, in qualche modo, è immanente nel di-sordine: altrimenti come potrebbe quest’ultimo volgersi nel suo contrario?

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Lo stato d’eccezione «nella sua forma assoluta» è quello che sirealizza quando si crea ex novo ed ex nihilo una normalità e unaconseguente normatività; quando la decisione non ne presupponealcuna, ma deve produrne una. A questo punto è chiaro che lo sta-to d’eccezione si realizza nella sua forma assoluta non già quandosemplicemente si sospende l’ordine vigente allo scopo di difenderlocontro attacchi interni o esterni, ma quando si passa da un ordine aun altro, cioè quando vi è esercizio di potere costituente(79).

14. Il miracolo impossibile. – In Teologia politica del ’22 Schmittscrive che «lo stato d’eccezione ha per la giurisprudenza un significatoanalogo al miracolo per la teologia»(80) (pag. 61).

In effetti il modello decisionistico sembra raffigurare lo scettrodel sovrano come una sorta di ‘bacchetta magica’. È noto che chipossiede quest’oggetto gode di un privilegio assai apprezzato: puòtrasformare immediatamente i suoi desideri in realtà, senza alcunosforzo ulteriore che non sia quello di agitare il prodigioso strumen-to. Tra la volontà che le cose siano in un certo modo e il disporsidocile delle stesse c’è solo un ‘colpo di bacchetta’. Non occorre al-tro.

Nel decisionismo schmittiano ci sarebbe perciò una scansionedi questo tipo:

decisione —> stato d’eccezione —> normalità/normatività(81).––––––––––

(79) Alla luce di tutto questo, si capisce perché nella Verfassungslehere del ’28 Schmittdice che il vero potere costituente, il vero sovrano decisore, può essere solo il popolo e nonun uomo, ad esempio un monarca. Solo il primo, infatti, «può mutare le sue forme e darsisempre nuove forme di esistenza politica (…) ha piena libertà di autodeterminazione politi-ca e può essere ciò che si forma in modo informale». Solo il popolo può essere «la causa pri-ma di ogni esistenza politica», mentre «la monarchia ereditaria è un’istituzione in sé giàformata e legata alla successione ereditaria di una famiglia. Una dinastia non può essereconsiderata, come il popolo o la nazione, la causa prima di ogni esistenza politica». Detto inaltro modo: solo il potere costituente popolare può prescindere da ogni ordine, norma, isti-tuzione e ordinamento preesistente e realizzare uno stato d’eccezione «nella sua forma as-soluta».

(80) C. SCHMITT, Teologia politica , cit., p. 61.(81) In questo diagramma di flusso lo stato d’eccezione si colloca tra la decisione e la

normalità/normatività Ma potrebbe anche precedere temporalmente la decisione, se que-

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Come risulta chiaro pure da questo diagramma di flusso, la de-cisione sovrana è un colpo di scettro che magicamente e improvvi-samente dispone le cose secondo i desiderata del sovrano. Ma nellarealtà sappiamo che allo scettro non è associato un potere così for-te, un potere che per trasformare il mondo non ha bisogno del la-voro umano (rectius: che non ha bisogno di più lavoro umano diquanto ne occorra per muovere lo scettro-bacchetta). Perché, infat-ti, il dictum sovrano abbia effetto occorre che al proferire della vo-lontà che le cose si dispongano in un certo modo segua lo sforzo diuomini e organizzazioni. Non basta che il sovrano parli agitandolo scettro. Senza il mobilitarsi coerente di forze coordinate, senzaun lavoro collettivo che impegna uomini, risorse e mezzi secondoun piano d’azione ben congegnato, la decisione sovrana rimarreb-be un flatus vocis.

Sennonché, l’agire coordinato di uomini in vista di uno scoponon sarebbe possibile senza presupporre funzioni di status, ripartiregolati di compiti, fatti istituzionali complessi e stratificati. Perchéla decisione sia efficace occorre che lo stato d’eccezione in cui si pa-lesa sia, invero, pieno zeppo di norme, istituzioni, automatismi or-ganizzativi, ruoli ben definiti, ecc: dovrebbe perciò essere il contra-rio di come Schmitt lo raffigura e concettualizza. Una decisione so-vrana non può mai azzerare improvvisamente una normalità e nor-matività preesistente – creando quindi uno stato d’eccezione – madeve invece esaltarne al massimo grado la capacità di strutturazionee regolazione sociale.

E difatti ciò che non convince è proprio la perfetta linearità delflusso rappresentato dal diagramma di prima. È indubbio che lanuova normalità/normatività indotta dalla decisione sovrana si for-ma necessariamente nel contesto della normalità/normatività pre-cedente. Di più, è resa possibile proprio dal sistema preesistente di

––––––––––st’ultima emerge per porre rimedio ad una condizione anomica creatasi per effetto di unevento non umano, come una catastrofe devastante che rade al suolo una civiltà o formapolitica preesistente.

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fatti istituzionali presupposti.Un esempio per tutti: i requisiti in base ai quali un soggetto

acquista lo status di giudice – di giudice cui spetta d’implementareuna nuova normalità/normatività e quindi una nuova rule of reco-gnition – non possono che essere quelli stabiliti dalle regole costitu-tive fornite dalla legislazione previgente. Basta questa sola circo-stanza ad interrompere la linearità della scansione che mette in suc-cessione la decisione, lo stato d’eccezione e la normalità/normativi-tà; e a dimostrare così che la positività dell’ordinamento (e della co-stituzione che ne disciplina il moto) non scaturisce istantaneamentedalla nuova decisione costituente, ma si pone per un lungo trattoin linea di continuità con l’ordinamento precedente(82).

Del resto, nel passaggio che si realizza talvolta da un assettocostituzionale ad un altro ciò che si estingue non è il complessodelle norme «che costituivano il diritto oggettivo anteriore», ma«quel che si estingue» è (solo) «la capacità produttiva di diritto dellevecchie fonti: fenomeno che si esprime correttamente, e fuori dimetafora, come cessazione della vigenza delle norme anteriori sullefonti, alle quali altre vengono, in tutto od in parte, a sostituirsi perl’avvenire»(83). In queste fasi transitorie ciò che viene meno non èla forza di legge delle norme già in vigore; semmai scompare os’attenua la capacità della legge (formata sulla base dei criteri prece-denti) di produrre norme nuove. Non è sospeso né tantomeno

––––––––––(82) Sulla «gradualità estrema» che caratterizza i passaggi di regime, tanto da far rite-

nere che vi sia una sostanziale «continuità degli ordinamenti statutario, fascista e repubbli-cano», insiste in modo particolare L. PALADIN, Fascismo, in Enc. dir., vol. XVI, Milano,Giuffrè, 1967, pp. 887-902, ora in ID. (a cura di S. Bartole), Saggi di storia costituzionale,Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 35 ss. In dottrina questo rilievo è diffuso: vedi, infatti, M.DOGLIANI, Costituente (potere) , in Digesto disc. pubbl., vol. IV, Torino, Utet, 1989, pp.281 ss.; V. ANGIOLINI, Costituente e costituito nell’Italia repubblicana, Padova, Cedam,1995, p. 77; M. LUCIANI, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, cit., p. 151; G.U. RE-SCIGNO, La discussione nella Assemblea costituente del 1946 intorno ai suoi poteri, ovverodel potere costituente, delle assemblee costituenti, dei processi costituenti, in Dir. pubbl.,1996, p. 27.

(83) Il rilievo è di V. CRISAFULLI, La continuità dello Stato, in Riv. dir. inter ., 1964,p. 390.

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cancellato l’ordine normativo preesistente – come invece sarebbeimplicato dallo schmittiano stato d’eccezione. Piuttosto viene me-no l’idoneità produttiva dei fattori che fino a quel momento loavevano costituito: a questi se ne sostituiscono altri – rectius: vi sa-rà il tentativo di sostituirli con altri – che gradualmente innoveran-no l’ordinamento dato. Insomma l’ordine normativo precedenteconserva immutata la sua vigenza, soltanto cambieranno i soggetti,i procedimenti e le istanze attraverso i quali si rinnova(84).

A mo’ d’obiezione può osservarsi che l’estinzione delle prece-denti regole costituzionali sulla produzione potrebbe accompa-gnarsi con l’espressa previsione dell’abrogazione totale del com-plesso delle norme prodotte sulla base delle regole suddette: in talcaso è indubbio che ci si verrebbe a trovare dinanzi a uno statod’eccezione. Tuttavia l’ipotesi non solo è irrealistica ma è pure im-possibile. Come già si è detto, non è concepibile nessun azzera-mento totale dell’ordine normativo preesistente che non compro-metta la possibilità stessa per il decisore sovrano di vedere imple-mentato il suo decisum: ancora una volta, chi lo veicolerebbe perl’ordinamento se non coloro cui è riconosciuto lo status di giudici,o comunque di public officials, sulla base delle regole costitutiveprecedenti?(85).

––––––––––(84) Per dirlo ancora una volta con le parole di V. CRISAFULLI, La continuità dello

Stato, cit., pp. 390, 391: «così come la soppressione di una fonte legalmente disposta (abro-gazione della norma istituente quella fonte) non determina, di per sé stessa, abrogazione (emeno che mai ‘estinzione’) delle norme che furono dalla norma medesima validamenteprodotte, non vi sono ragioni per ritenere diversamente qualora la soppressione sia stata,invece, illegale rispetto al sistema anteriore (conseguenza, cioè, di un fatto rivoluzionario,od anche conseguenza del fatto della intervenuta estinzione dello Stato)».

(85) Con ragione M. LUCIANI, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, cit., pp. 147ss., spec. 151, scrive che «il potere costituente creatore artificiale di nuovi mondi grazie aun semplice conato della volontà (…) non è mai esistito in questi termini». E ciò perché –sempre secondo Luciani – il potere costituente non può essere solo voluntas, ma deve essereanche ratio, e intercettare le aspettative e i bisogni profondi del corpo sociale cui si dirige ilnuovo ordine costituzionale: una decisione costituente che non fosse in sintonia con la real-tà e la storia non raggiungerebbe certo il suo scopo. Sennonché questa tesi – in sé condivisi-bile – sembra presupporre la distinzione tra chi esercita effettivamente il potere costituentee chi ne subisce l’esercizio (cioè tra governati e governati): a pena dell’inefficacia della nuo-va costituzione, gli attori costituenti o governanti sarebbero tenuti a conformare le decisio-

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In definitiva, perché X conti come Y, cioè perché l’atto X com-piuto da Rex conti come ‘decisione fondamentale’, non solo occor-re una regola costituiva presupposta in base alla quale Tizio conticome Rex, ma soprattutto occorre una regola costitutiva presuppo-sta (o meglio: un sistema di regole costitutive presupposte) che de-finisca cosa sia una ‘decisione fondamentale’, quale ne sia la porta-ta, gli effetti, e che – per l’appunto – individui coloro che, per pri-mi, ne dovranno portare lo iussum(86).––––––––––ni fondative alle attese di coloro – i governati – che sono destinati a ricevere il nuovo ordi-ne costituzionale. Stando le cose in questi termini, l’argomento di Massimo Luciani non èutilizzabile laddove si teorizzi l’identità tra chi esercita e chi subisce il potere costituente: sa-rebbe infatti paradossale che chi si dà un ordine non interpretasse correttamente ciò cheegli stesso vuole effettivamente (sebbene non sia astrattamente inconcepibile che un atto diautodeterminazione sia più o meno stabile secondo che sia più o meno consapevole di sé…).È dubbio perciò che il punto di vista in esame possa valere come una confutazione delloschema decisionistico schmittiano (sebbene quest’ultimo – come si detto – vada incontro anon poche difficoltà quando afferma la compresenza di identità e rappresentanza, disordi-ne e ordine). Peraltro va ricordato che anche C. Mortati, La costituzione in senso materia-le, cit., passim, quando rappresenta il momento costituente come un processo di differen-ziazione, emersione e affermazione di una forza politica dominante, approda a una conce-zione ‘giuridicizzata’ del potere costituente: questo diventa parte del diritto non soltantoperché lo fonda (e in ciò non c’è alcuna differenza rispetto a Schmitt, per il quale – come siè detto – il potere costituente è ‘giuridico’ nel medesimo senso), ma altresì perché è in sé in-trinsecamente ordinato e funzionalizzato a qualcosa che lo trascende (il «fine politico fon-damentale», che è l’elemento propriamente ideologico e normativo della costituzione insenso materiale): e infatti, in polemica con Schmitt, C. MORTATI, op. cit., p. 44, scrive che«la contrapposizione fra esistenziale e normativo avrebbe una ragione di essere solo se la co-stituzione fosse assunta in senso sociologico (…) Se invece si ha riguardo alla singola decisio-ne, che dà vita concreta a un particolare ordinamento, allora essa non potrà essere concepi-ta in un senso puramente esistenziale, poiché lo Stato, come totalità, è costituzione solo inquanto implichi una durata e quindi sia ordine e direttiva costante per l’avvenire».

(86) Un percorso argomentativo parzialmente differente è seguito da V. CRISAFULLI,La continuità dello Stato, cit., pp. 392 e 393, nt. 45, il quale ritiene che un’abrogazione glo-bale con effetto retroattivo dell’ordine normativo preesistente sia possibile «purché resti sal-vo quel minimo indispensabile affinché permanga lo Stato come ordinamento complessivo,e cioè popolo politicamente ordinato»: è superando questo limite che si cade nell’anomia as-soluta, nel vero stato d’eccezione. Può essere interessante, però, vedere quali fatti secondoCrisafulli determinerebbero una siffatta eventualità: «la rivolta degli schiavi, che si costituis-sero in popolo, riducendo in schiavitù coloro che prima ne facevano parte, segnerebbe (…)– in astratta ipotesi – la fine del potere preesistente e l’inizio di un nuovo ordinamento sta-tale. E, per restare al concreto, in tutti i casi di incorporazione, fusione, smembramento,potere unitario, sovranità e popolo si estinguono necessariamente tutti insieme, uno actu».A ben vedere, le ipotesi elencate da Crisafulli sono tutte riconducibili al tipo schmittianodella «occupazione di terra» (su cui vedi il prossimo paragrafo nel testo): nelle circostanzeillustrate lo stato d’eccezione è l’evento che dall’esterno fa venire meno l’unità politicamen-te ordinata di un popolo preesistente che, appunto, per effetto di una volontà e azione al-trui cessa di essere popolo, perdendo il potere di decidere la propria forma. Detto altrimen-

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15. Un nuovo radical title. – La pratica impossibilità dello statod’eccezione colpisce al cuore il decisionismo: il fatto costituentenon consiste della decisione miracolosa di un popolo che si dà unaforma (rappresentativa) nel momento esatto in cui si costituisce inunità politica.

Non è privo di significato il fatto che Schmitt nell’ultima fasedella sua riflessione riveda teoricamente la sua teologia politica, foca-lizzando l’attenzione sull’essenza del diritto internazionale. Infatti,ne Il nomos della terra Schmitt scrive che l’«atto primordiale cheistituisce diritto» non è più la decisione fondamentale nello statod’eccezione: l’«occupazione di terra» diventa «il primo titolo giu-ridico che sta a fondamento dell’intero diritto seguente», «l’archeti-po di un processo giuridico costitutivo», poiché «crea il titolo giuri-dico più radicale, il radical title nel senso pieno e completo dellaparola»(87). E dunque, l’occupazione di terra, «questo fondamentoprimo, legato al suolo, nel quale si radica ogni diritto e nel qualeconfluiscono spazio e diritto, ordinamento e localizzazione»(88),tiene il posto che un tempo era occupato dalla decisione fonda-mentale e dallo stato d’eccezione: alla vecchia genealogia se ne so-stituisce una nuova. Certo, pur rinunciando al decisionismo, Sch-mitt non rinuncia comunque alla teologia politica e all’idea che nul-la si possa spiegare nel campo della politica e del diritto senza po-stulare ogni volta miracolose epifanie. Né tantomeno rinuncia alproposito di fondare sul piano esistenziale i suoi enunciatiteorici(89).

––––––––––ti, il soggetto che decide dello stato d’eccezione non è lo stesso che versa nello stato d’ecce-zione: di conseguenza, non è esercizio di potere costituente l’atto di un popolo che occupail suolo altrui, né tantomeno sfocia in una decisione costituente la condizione in cui si trovaun popolo che ha perso soggettività politica a causa dell’altrui occupazione.

(87) C. SCHMITT, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum,1950, trad. ital. Il nomos della terra, Milano, Adelphi, 1994, pp. 23 ss., spec. 25.

(88) C. SCHMITT, op. ult. cit., p. 26.(89) Egli scrive infatti che «in primo luogo dobbiamo riconoscere l’occupazione di ter-

ra come una fattispecie giuridica, come un grande evento della storia, e non come una meracostruzione del pensiero» (ibidem , p. 25).

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In ogni modo, al di là del giudizio che si può formulare sull’ul-tima fase del pensiero schmittiano, resta alfine un dato incontro-verso: quand’anche non si possa fare a meno di postulare un even-to primigenio e fondativo, questo non coincide più con il momen-to in cui un popolo acquista coscienza di sé come totalità unitariadandosi una forma (rappresentativa); non coincide più, cioè, con ilfatto costituente, ma con un evento ancora più risalente e mitico:l’atto di un popolo che si impadronisce di e si stanzia su un territo-rio.

Ma questo percorso d’indagine, per quanto affascinante, non èpiù di alcuna utilità per inquadrare e risolvere il problema da cui sisono prese le mosse.

16. La necessità di una recognitional community. – Come si èdetto, è esistenzialmente impossibile che la decisione sovrana fonda-mentale possa creare di per sé – quasi fosse il tocco miracoloso diuna bacchetta magica – una nuova normalità/normatività.

Cosa occorre, allora, affinché un processo costituente abbiasuccesso e riesca a imporre la diffusa obbedienza del documentocostituzionale?

La risposta alla domanda la fornisce indirettamente Hart. Percerti versi la decisione che pone un nuovo testo costituzionale nonpuò produrre la norma fondamentale che ne prescrive l’obbedien-za senza una «recognitional community», le cui pratiche accrediti-no e alimentino la vigenza della nuova costituzione scritta.

Si può discutere sull’ampiezza e confini di questa «recognitio-nal community»: per Hart è formata dai giudici/funzionari (o solodai giudici), per altri il perimetro è più esteso, perché comprende il«partito dominante» o la «classe governante»(90); per altri ancora ri-

––––––––––(90) Sono le due due versioni della «costituzione in senso materiale» di cui ragiona C.

Mortati ne La costituzione in senso materiale, Milano, Giuffrè, 1998, ristampa inalteratadell’edizione del 1940, passim, e nella voce Costituzione (dottrine generali), in Enc. dir.,vol. XI, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 139 ss., spec. 162 ss.

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comprende l’intero popolo sovrano(91) o è ciò che risulta dal-l’«overlapping consensus» tra più «dottrine comprensive ragione-voli», ossia tra più comunità parziali nelle quali si articolano le so-cietà pluralistiche democratiche contemporanee(92). In ogni modo,quale che sia la fisionomia della «recognitional community» cheporta il testo costituzionale, essa è una condizione necessaria di esi-stenza di ogni ordinamento giuridico possibile: c’è diritto se qualcu-no riconosce che taluni fatti sociali lo costituiscono e se fanno va-lere tali fatti sociali come fonti del diritto, manifestando un «atteg-giamento critico riflessivo» di critica e sanzione nei confronti di co-loro che adottano una diversa linea di condotta.

Ovviamente possiamo chiederci dove nasce (o da cosa nasce)quest’atteggiamento critico riflessivo, questo «internal point of vi-ew», su cui convergono le pratiche di riconoscimento della «reco-gnitional community»; e possiamo anche ipotizzare che siano lasuggestione simbolica e la propaganda politica che accompagnanola decisione produttiva del testo costituzionale, ad avere generato ela «recognitional community» e il suo «punto di vista interno». Maa ben vedere si tratterebbe di una spiegazione parziale, perché nonesaurirebbe il complesso delle ragioni che possono stare dietro alcoagularsi di una pratica di riconoscimento e di un «atteggiamentocritico riflessivo».

Difatti, può darsi il caso che un giudice applichi la costituzione(criticando e sanzionando chi non lo fa) perché anche gli altri giudi-ci fanno altrettanto: in questo caso la ragione per cui alcuni giudiciseguono la costituzione può essere il comportamento degli altrigiudici. Eppure neanche questa spiegazione di stampo convenzio-

––––––––––(91) Mi sembra possa leggersi in questi termini il c.d. Popular constitutionalism, su

cui vedi per tutti L.D. KRAMER, The People Themselves: Popular Constitutionalism andJudicial Review, New York, Oxford University Press, 2004, passim.

(92) il riferimento è, palesemente, a J. RAWLS, Political Liberalism (1993), trad. ital.Liberalismo politico , Milano-Torino, Edizioni di Comunità, 1999, pp. 123 ss., la cui teoriaperò vale solo per le società democratiche e non può quindi proporsi come teoria generaledel concetto di diritto e di costituzione.

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nalista può aspirare al rango di spiegazione esclusiva del perchéuna costituzione è di fatto osservata, e si possono immaginare an-che altre ragioni concorrenti. Ad esempio, può ipotizzarsi che alcu-ni giudici seguono la costituzione perché ne condividono i conte-nuti di moralità politica, altri perché sanno che se non lo facesserole loro pronunce sarebbero riformate dalle giurisdizioni d’appelloo di ultima istanza, altri ancora perché pensano che la migliore ga-ranzia di conservazione del loro status di giudice – con tutti i bene-fici connessi, dal trattamento retributivo alla posizione di prestigiosociale, ecc. – sia la vigenza non perturbata dell’ordinamento esi-stente e dei suoi presupposti costituzionali.

Ora, se tutte queste diverse ragioni per agire s’intrecciano eaccumulano, convergendo su un risultato comune – il radicamentodelle pratiche di riconoscimento di una data costituzione e il for-marsi conseguente di una «recognitional community» – è difficile,se non impossibile, definire una gerarchia interna per stabilire qualisiano le ragioni veramente determinanti e quelle determinate. Il so-lo dato certo di cui disponiamo è la necessità che una «comunità diriconoscimento» ci sia e che il suo nucleo essenziale irrinunciabilesia composto da coloro il cui compito istituzionale e professionaleconsiste nell’individuare cosa è diritto e cosa non lo (principalmen-te allo scopo di dirimere controversie concrete).

Il punto, giunti fin qui, è se possiamo e dobbiamo accontentar-ci di questa verità teorica minimale o se, invece, siano proponibiliteorie più ambiziose, da cui si evince che la «comunità di riconosci-mento» è necessariamente composta pure da soggetti diversi dai giu-dici/funzionari: soggetti che, addirittura, sarebbero più determi-nanti dei giudici/funzionari in ordine alla creazione di un «atteggia-mento critico riflessivo» e di una norma fondamentale di riconosci-mento. Senza dubbio, la teoria che più coerentemente si prefigge didimostrare che la «recognitional community» non si compone soloe soprattutto di giudici/funzionari è la teoria della «costituzione insenso materiale» nella formulazione che dobbiamo allo studioso

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italiano Costantino Mortati.Ma l’analisi e la critica di quest’ultima teoria sarà l’argomento

di un altro saggio.