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Politiche dell’immigrazione e rifugiati: tra sovranità nazionale e diritti umani Maurizio Ambrosini Le politiche migratorie sono diventate un tema chiave dell’agenda politica dei governi e delle discussioni parlamentari, per non parlare delle campagne elettorali. Sono oggi “l’ultima importante ridotta di una sovranità nazionale incontrastata” (Opeskin, 2012: 551). Ma il caso dei richiedenti asilo è oggi il fattore che maggiormente sfida la pretesa degli Stati di limitare e selezionare la mobilità geografica degli esseri umani (Ambrosini, 2014a). Le ragioni della chiusura Sull’immigrazione, e soprattutto sul contrasto nei confronti dell’immigrazione, in Europa varie formazioni e leader politici hanno costruito le loro fortune negli ultimi decenni, riuscendo anche a condizionare l’approccio di forze politiche più consolidate e tradizionalmente moderate (Albertazzi e McDonnell, 2008; per il caso italiano: Ruzza e Fella, 2011). Si pensi al Front National in Francia, al clamoroso successo di Nigel Farrage alle elezioni europee del 2014 nel Regno Unito, al partito di Pim Fortuyin nei Paesi Bassi, all’analoga formazione populista delle Fiandre belghe, ai casi austriaco, danese e infine svizzero, con il clamoroso risultato del referendum anti-immigrati del febbraio 2014. La direttrice prevalente del discorso pubblico e della produzione normativa in materia è stata quella della restrizione delle possibilità di movimento verso il Nord globale, della chiusura delle frontiere e della definizione della mobilità non autorizzata come minaccia per la sicurezza nazionale (Balibar 2012), sebbene con significative eccezioni che richiamerò strada facendo. Possiamo dire che i maggiori paesi sviluppati hanno varato politiche di mobilità selettiva. Glick Schiller e Salazar parlano di “regimi di mobilità” (2013): gli Stati-nazione 1

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Politiche dell’immigrazione e rifugiati: tra sovranità nazionale ediritti umani

Maurizio Ambrosini

Le politiche migratorie sono diventate un tema chiavedell’agenda politica dei governi e delle discussioni parlamentari,per non parlare delle campagne elettorali. Sono oggi “l’ultimaimportante ridotta di una sovranità nazionale incontrastata”(Opeskin, 2012: 551). Ma il caso dei richiedenti asilo è oggi ilfattore che maggiormente sfida la pretesa degli Stati di limitaree selezionare la mobilità geografica degli esseri umani(Ambrosini, 2014a).

Le ragioni della chiusura

Sull’immigrazione, e soprattutto sul contrasto nei confrontidell’immigrazione, in Europa varie formazioni e leader politicihanno costruito le loro fortune negli ultimi decenni, riuscendoanche a condizionare l’approccio di forze politiche piùconsolidate e tradizionalmente moderate (Albertazzi e McDonnell,2008; per il caso italiano: Ruzza e Fella, 2011). Si pensi alFront National in Francia, al clamoroso successo di Nigel Farragealle elezioni europee del 2014 nel Regno Unito, al partito di PimFortuyin nei Paesi Bassi, all’analoga formazione populista delleFiandre belghe, ai casi austriaco, danese e infine svizzero, conil clamoroso risultato del referendum anti-immigrati del febbraio2014.

La direttrice prevalente del discorso pubblico e dellaproduzione normativa in materia è stata quella della restrizionedelle possibilità di movimento verso il Nord globale, dellachiusura delle frontiere e della definizione della mobilità nonautorizzata come minaccia per la sicurezza nazionale (Balibar2012), sebbene con significative eccezioni che richiamerò stradafacendo. Possiamo dire che i maggiori paesi sviluppati hannovarato politiche di mobilità selettiva. Glick Schiller e Salazarparlano di “regimi di mobilità” (2013): gli Stati-nazione

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favoriscono la mobilità di alcuni, mentre vietano o restringono lamobilità di altri. Il concetto implica un riferimento allaregolazione politica e alla disuguaglianza nell’attribuzione deldiritto a muoversi attraverso i confini. La mobilitàpoliticamente regolata diventa così un terreno conteso, in cuil’ordine imposto dall’alto viene continuamente sfidato ed erosodalle pratiche di coloro che dovrebbero esserne esclusi.

Siamo più precisamente in presenza di una stratificazione del dirittoalla mobilità: per uomini d’affari, manager, professionisti,scienziati, artisti, la mobilità è ben vista e incoraggiata, finoa tradursi in politiche di brain drain che depauperano il capitaleumano del Sud Globale; per i turisti, specialmente se danarosi, edentro certi limiti, per gli studenti, la mobilità è apprezzata efavorita, a patto che non si traduca in soggiorno irregolare elavoro nero; per gli sposi e i figli di cittadini o di residentiregolari, è cautamente tollerata e autorizzata, anche se concrescenti limitazioni; per i lavoratori debolmente qualificati ètalvolta ammessa in forma stagionale, ma di solito è del tuttoesclusa, soprattutto se dà luogo un insediamento permanente.Quest’ultima importante tendenza contrasta con il fatto che moltisistemi economici, tra cui il nostro, attingano largamente allavoro non registrato degli immigrati privi di validi titoli disoggiorno (Ambrosini 2013).

Se quindi si può parlare di una “svolta dell mobiltà” (mobilityturn) nelle scienze sociali odierne (Urry 2000), questa visione vacomunque sempre temperata con la consapevolezza delledisuguaglianze sociali (Faist 2013): quando si tratta dilavoratori altamente qualificati, si parla di “mobilità” e la sisollecita; nel caso invece di lavoratori a bassa qualificazione,si adotta il termine “immigrazione” e si cerca di bloccarla. Cosìl’idea che il sedentarismo sia sorpassato, che il localismo siasinonimo di arretratezza e declino, che il nomadismo sia ilfuturo, si applica in realtà soltanto al primo tipo di lavoratoriin movimento; per i secondi non vale. La mobilità comportaaspettative ottimistiche di vantaggi per gli individui e per gliStati, mentre l’immigrazione fa sorgere domande di integrazionesociale, controllo, difesa dell’identità nazionale. In tal modo,

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le opportunità di attraversamento delle frontiere sono diventateil fattore più importante nella determinazione della posizionedegli individui nella gerarchia delle disuguaglianze dell’etàglobale (ibid.).

Diverse ragioni possono spiegare questa enfasi sul controllodelle forme di mobilità umana che vanno sotto il nome diimmigrazione, e più precisamente di migrazioni internazionali.Anzitutto, le ricorrenti crisi economiche. Già a metà degli anni’70 del Novecento il blocco delle frontiere dei tradizionalipaesi riceventi del Centro e Nord Europa nei confrontidell’immigrazione per lavoro era giustificato con la sfavorevolecongiuntura determinata dal primo shock petrolifero del 1973. Larecessione iniziata nel 2008 ha rinverdito questo argomento,sebbene si possa notare che nei quarant’anni trascorsi i periodidi espansione economica non siano mancati, senza che lerestrizioni verso l’immigrazione venissero attenuate. Sembra veropiuttosto che i governi, incapaci di controllare laglobalizzazione economica, e segnatamente la delocalizzazionedelle attività produttive, abbiano cercato di riaffermare lapropria sovranità, nonché la loro legittimazione agli occhi deicittadini-elettori, rafforzando i controlli non sulla mobilità ingenerale (come si è notato poc’anzi, non sul turismo o sullacircolazione degli uomini d’affari), ma sull’immigrazionedall’estero di individui etichettati come poveri, e quindiminacciosi o bisognosi.

Si profila così una seconda spiegazione: gli accresciutitimori per la sicurezza nazionale (Jaworski, 2011), sprigionatidalla fine della guerra fredda, dall’avvento di scenari geo-politici più fluidi e instabili, dalla crescente insofferenza divarie popolazioni del Sud del mondo nei confronti della supremaziadel Nord globale. Su questo piano, la comparsa sulla scenapolitica dell’islamismo radicale e la data emblematica dell’11settembre 2001 hanno segnato se non uno spartiacque, di certol’innesco di un’escalation nelle restrizioni. Modesti lavoratorimanuali provenienti dal Sud hanno pagato il conto, sotto forma dipiù rigidi controlli, divieti e deportazioni, degli attentatiperpetrati da terroristi che, quando hanno varcato i confini, lo

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hanno fatto il più delle volte come uomini d’affari,professionisti, studenti o turisti. In realtà gli attentatiterroristici hanno rilanciato l’antica paura del legame tra flussimigratori e minaccia alla sicurezza nazionale che ha diversiprecedenti nella storia contemporanea. Basti pensare ai sospettinei confronti degli anarchici italiani negli Stati Uniti all’epocadella grande emigrazione transoceanica. Più profondamente, hannodato vigore ai sentimenti di ansia che non riguardano soltantoelementi di fatto, ma minacce ontologiche, concernenti i valorimorali, le identità collettive e l’omogeneità culturale dellasocietà. In questo senso l’inquadramento dell’immigrazione come unfattore di pericolo, con il rafforzamento dei controlli e quindidella visibilità degli immigrati, con l’implicita separazione tra“noi” e “loro” (Colombo, 2008), ha di fatto reso manifesto eincrementato lo scontro di civiltà teorizzato da Huntington(2000): la securitizzazione delle politiche migratorie rinforzastereotipi e contrapposizioni che il discorso politico ufficialenega (Faist, 2002).

Un terzo argomento a sostegno delle politiche di chiusurafonde in un certo senso i due precedenti: è il timore del welfareshopping. Gli alieni, siano essi richiedenti asilo, cittadini neo-comunitari o semplicemente stranieri a basso reddito,rappresenterebbero una minaccia per gli affaticati sistemi diprotezione sociale dei paesi avanzati, soprattutto in Europa. Laprotezione del Welfare State ha fornito storicamente uno dei piùpotenti fattori di legittimazione delle chiusure nei confrontidell’immigrazione straniera (Freeman 1986). Mentre i regimi diwelfare sono costruzioni tipicamente nazionali e collegate allacittadinanza, volte a garantire la lealtà politica e il consensodei cittadini, l’insediamento di estranei o la loro domanda diprotezione sotto la bandiera dei diritti umani, rappresentanoelementi di contraddizione (Aleinikoff e Klusmeyer, 2001): degliestranei chiedono di accedere ai benefici propri dei cittadini,incorporati nell’idea stessa di cittadinanza nazionale moderna. Idiritti sociali cessano di essere i “diritti umani nella vitaquotidiana”, come afferma una pubblicità dell’Unione europea, perdiventare un privilegio da difendere contro chi non gode dello

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statuto di membro a pieno titolo della comunità dei cittadini. Lesolenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo, del bambino, dellafamiglia, nonché le convenzioni internazionali che vincolano igoverni all’attuazione operativa di questi diritti, sitrasformano in documenti imbarazzanti, da cercare di eludere o daapplicare con circospezione, dopo estenuanti procedure di verificae selezione dei candidati all’accesso. Poco importa che gliimmigrati, in quanto prevalentemente soggetti in età attiva, sianocontribuenti attivi del sistema di protezione sociale, soprattuttosulle voci più impegnative, pensioni e sanità. In tempi di crisi,se non lavorano, in quanto rifugiati accolti temporaneamente,madri casalinghe, minori o disoccupati, sono visti come unfardello insopportabile per le casse pubbliche; se lavorano, sonoaccusati di sottrarre preziosi posti di lavoro ai cittadininazionali.

La battaglia sul welfare si sta profilando come il terreno piùcontrastato del conflitto politico sull’immigrazione nel prossimofuturo: in relazione alla caduta delle residue barriere sullamobilità interna dei cittadini rumeni e bulgari, il governoCameron ha annunciato misure per limitare l’accesso al welfare decittadini neo-comunitari, e altri hanno mostrato di volerneseguire gli intenti. Uno dei diritti fondamentali dellacostruzione europea, quello della mobilità interna dei cittadini,rischia di essere intaccato dalle paure di movimenti migratori dipersone in cerca di tutele. Paure che fin qui, meritasottolinearlo, si sono rivelate infondate.

L’idea di una comunità nazionale omogenea e sostanzialmentecoesa di fronte a minacce esterne si estende poi alla sfera eticae culturale: la chiusura può essere motivata con un quarto ordinedi ragioni, quelle della difesa dell’identità culturale dellanazione. Gli alieni vengono visti come invasori culturali,portatori di costumi retrogradi e usanze incivili, responsabili dicedimenti relativisti sul piano dei diritti fondamentali.

Quest’ultimo approccio è particolarmente interessante per duemotivi. In primo luogo, porta ad estendere la sfera dei controllidalle frontiere esterne al territorio interno, dai nuovi arrivatialle minoranze già insediate, da comportamenti manifesti a

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convinzioni intime e modi di pensare. In secondo luogo, si prestabene al ricorso ad argomenti “progressisti” per instillarediffidenza e separatezza, analogamente a quanto ha osservatoTaguieff (1999) per le forme contemporanee di razzismo. Bastipensare all’evocazione dei diritti delle donne per etichettare leminoranze immigrate come patriarcali e irrevocabilmente arretrate,riecheggiando temi come quelli del noto saggio “Ilmulticulturalismo fa male alle donne?” (Moller Okin 2007). Oppurealle limitazioni di legge sull’età minima per il matrimonio, o sulricongiungimento degli sposi, introdotte in paesi come il RegnoUnito, la Danimarca, i Paesi Bassi, la Francia, con l’obiettivodichiarato di contrastare i matrimoni definiti “forzati” e più ingenerale l’importazione di spose destinate, secondo i proponenti,a rimanere confinate tra le mura domestiche per mancanza diconoscenze linguistiche e competenze professionali. Tra l’altrocon queste misure si è giunti a limitare i diritti degli stessicittadini nazionali in campo matrimoniale e familiare (Joppke2007).

Gli scarsi successi ottenuti in materia di integrazione degliimmigrati dai paesi che si erano sbilanciati di più, almeno neldiscorso pubblico, verso approcci multiculturalisti, hannocontribuito a questo riorientamento delle politiche in materia: ilmulticulturalismo è diventato un bersaglio di comodo, i fallimentinell’integrazione sociale degli immigrati sono stati catalogaticome fallimenti dell’approccio multiculturalista. I governi hannocosì potuto riformulare le proprie politiche in direzione delproblematico perseguimento di una maggiore omologazione politico-culturale dell’immigrazione nell’ambito delle società riceventi(Prins e Slijper, 2002). Questa direttrice di marcia, tra l’altro,contribuisce a indebolire sempre più l’idea della sussistenza di“modelli nazionali” delle politiche di gestione dell’immigrazione(temporaneo, assimilativo, pluralistico…), spesso ancora ripresada una pigra pubblicistica. Se già nel passato, al di là delleretoriche del discorso pubblico ufficiale, era difficileindividuare in concreto serie differenze tra le misure adottatenel quadro dell’assimilazionismo francese rispetto a quellevarate sotto l’egida del multiculturalismo inglese (Bertossi,

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2011), ora le distinzioni sono diventate ancora più opinabili. Difatto il binomio chiusura selettiva-integrazione civica neo-assimilazionista ha configurato una nuova ortodossia politicaampiamente condivisa.

1. Dalle politiche dichiarate ai processi effettivi: quando

i muri non tengono

Restrizioni, espulsioni, assimilazioni non sono però le unichetendenze in atto. Anche perché di fatto il numero degli immigratitende ovunque ad aumentare, e non solo per gli incrementi naturalidovuti alle nascite. Le politiche dell’immigrazione sono in realtàun campo di battaglia, in cui si confrontano attori che sostengonovalori e interessi diversi. Per meglio dire: malgrado laprevalente ortodossia restrittiva, in modo a volte aperto, altrevolte silenzioso e poco visibile, il cantiere delle decisionipolitiche e della loro attuazione è influenzato anche da forzeche premono per aperture almeno parziali. Un tipico dilemma èquello che contrappone repressione e compassione (Fassin 2005): lavolontà di chiusura entra in crisi di fronte a tragedie umanitarieportate alla ribalta dai media, ai superstiti di guerre erepressioni, a storie personali meritevoli di considerazione, acasi speciali come quelli dei minori, delle donne incinte, deimalati. Il risultato paradossale è che la mobilità non autorizzataviene normalmente trattata come una violazione delle leggi, esempre più come un reato penale, ma chi riesce a presentarsi come“vittima” può ottenere il diritto a essere accolto (Anderson2008).

Tra le altre conseguenze, ne discende un affastellamento dinorme e regolamenti non sempre univoci e coerenti, nonché unoscollamento a volte notevole tra politiche dichiarate e politichepraticate. Sotto questo aspetto, mentre di solito in campo socialele politiche effettivamente praticate restano indietro rispettoalle promesse altisonanti delle politiche dichiarate, nel campodelle politiche migratorie oggi avviene spesso il contrario:misure annunciate di esibita asprezza, sul piano anzitutto dellarepressione dell’immigrazione irregolare, hanno sortito magri

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risultati o sono state addirittura contraddette dai comportamentieffettivi.

A volte, come in Italia nel caso di varie nome del pacchetto-sicurezza e della precedente legge Bossi-Fini, le istituzioni digaranzia nazionali e internazionali hanno cassato disposizionigiudicate contrarie ai principi democratici e costituzionali: sipensi alla norma che vietava all’immigrato in condizioneirregolare di compiere atti di stato civile, a partire dalmatrimonio; all’obbligo di allontanarsi dal territorio nazionale aseguito di un decreto di espulsione, sotto pena di arresto, anchese privi di risorse per farlo; all’aggravamento delle sanzioni peraltri reati, in caso di irregolarità del soggiorno. In altri casi,misure drastiche e di grande impatto sull’opinione pubblica, comegli allontanamenti in mare verso la Libia, sono costate al nostropaese un inedito conflitto con l’ONU e l’onta della condannapresso l’Alta Corte di Strasburgo. Nella lontana Australia e inaltri paesi avviene qualcosa di simile: i governi voglionointrodurre misure più severe contro immigrati non autorizzati erichiedenti asilo, ma si scontrano con i paletti posti dal sistemagiudiziario in nome dei diritti umani e dei principi liberali.Cercano in vario modo di aggirarli, ma ci riescono solo in parte(Opeskin, 2012).

Altre volte, nella gestione quotidiana l’attuazione praticadelle norme si scontra con vari problemi. Il primo è la mancanzadi fondi, strutture e personale per dare esecuzione alledisposizioni di trattenimento ed espulsione degli immigrati prividi validi documenti di soggiorno. Basti pensare che l’Italiadispone di meno di 2000 posti nei Centri di Identificazione edEspulsione, strutture-chiave per procedere all’individuazione e alrimpatrio degli immigrati indesiderati: per l’esattezza, i datirelativi al 2013 parlano di 13 strutture con una capienzacomplessiva di circa 1901 posti, di cui alcuni però inagibili o invia di ristrutturazione a causa di incendi, danneggiamenti,problemi riscontrati nella gestione. Va poi ricordato che i CIEcostano come minimo 55 milioni di euro all’anno. Oggi, in seguitoai tagli della spending review 2011, il costo giornaliero pro-capiteè stato abbassato a 30 euro più IVA, il che ha contribuito a

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peggiorare le condizioni di vita delle persone lì trattenute, manello stesso tempo conferma che un vincolo serio ad unarepressione più capillare è rappresentato dai costi. Soprattutto,i CIE sono ben lungi dall’aver raggiunto gli obiettivi per cuierano stati istituiti: su 169.071 persone transitate nei centritra il 1998 e il 2012, quelle effettivamente rimpatriate sonostate soltanto 78.045, il 46,2% del totale (www.lunaria.org), unafrazione molto modesta dell’insieme degli immigrati in condizioneirregolare, giacché nello stesso periodo ne sono stateregolarizzati più di un milione (Ambrosini 2013).

In secondo luogo per ottenere effetti le disposizionirichiedono la collaborazione di vari attori e istituzioni, nonsoltanto pubblici, e soprattutto non aventi come compitoistituzionale funzioni di controllo e repressione (Vogel 2000).Per esempio, i servizi sociali o sanitari.

Dal canto loro, le cosiddette “burocrazie di strada” (Lipsky,1980), ossia gli operatori dei vari servizi pubblici a direttocontatto con la popolazione immigrata, sono molte voltecompartecipi della ricerca di soluzioni alle varie e complessedifficoltà che incontrano gli immigrati, specialmente quellititolari di status fragili e incerti. Il loro ruolo interpretativoe applicativo delle norme riguardo ai casi concreti evolvenell’esercizio di un potere discrezionale, favorito a sua voltadall’affastellamento e dall’opacità delle disposizioni legislativee dei regolamenti attuativi (Campomori 2007, 2008). Almeno inalcuni ambiti, spesso le interpretazioni cercano di andareincontro alle necessità degli immigrati, anche forzando oaggirando la lettera delle norme.

2. Interessi in conflitto

Occorre poi rivolgere l’attenzione ai diversi attori che perragioni ideali o per interessi economici contrastano le politichedi chiusura.

Anzitutto le istituzioni internazionali, come l’ACNUR, Agenziadell’ONU per la protezione dei rifugiati, e l’Alta Corte diStrasburgo, che intervengono in difesa di una categoria

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minoritaria ma altamente visibile e spesso sotto tiro, come quelladei richiedenti asilo. La volontà dei governi di restringere lemaglie dell’ammissione, di scoraggiare i candidati a dirigersiverso i paesi a sviluppo avanzato, di ridurre i benefici loroaccordati, deve fare i conti con le istituzioni poste a presidiodei diritti umani: istituzioni non così forti e autorevoli comegli esponenti del fronte umanitario vorrebbero, ma neppureirrilevanti nella geografia politica internazionale. L’onta dellacondanna subita dal governo italiano alla corte di Strasburgobrucia ancora, e rappresenta un monito per chi intenda inseguireun consenso populista solo apparentemente a basso costo.

Non sempre altrettanto animata da afflati umanitari, maindubbiamente influente nei confronti delle politiche nazionali èl’Unione europea. Le sue politiche di allargamento verso Est hannotrasformato milioni di persone in movimento da temibili immigraticlandestini a concittadini europei dotati di pieni diritti dimobilità (Sciortino, 2011), di ricerca del lavoro e, seppure conmaggiori resistenze, di fruizione di servizi sanitari e sociali inaltri paesi dell’Unione. Gli stessi paesi candidati all’ingresso,come attualmente quelli balcanici, dalla Serbia all’Albania, ealtri ancora, come il Brasile, con cui l’Unione intendeintrattenere buoni rapporti per ragioni politiche ed economiche,hanno ottenuto alleggerimenti delle condizioni di accesso per iloro cittadini: oggi i cittadini di una cinquantina di paesi delmondo non hanno bisogno del visto per soggiorni di duratainferiore ai tre mesi nel territorio dell’Unione Europea.

Anche i paesi di origine influiscono sulle politichemigratorie e la ricerca della loro collaborazione è spesso vistacome necessaria per impostare misure di controllo efficaci: sianella sorveglianza delle partenze, sia nell’eventualità delrimpatrio coatto di immigrati espulsi, la loro cooperazione è untassello delle politiche migratorie. La scarsa collaborazione deipaesi di origine è considerata in diversi casi come il principaleostacolo alle deportazioni (per il caso olandese: Engbersen eBroeders, 2009). Ma la cooperazione quando si attiva ha comunquedei costi, in termini di aiuti tecnico-economici ed eventualmentedi quote di immigrati regolari ammessi. Ne deriva fra le altre

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un’interessante conseguenza: se si vuole sperare di contenerel’immigrazione irregolare, di norma bisogna aumentare quellaregolare.

Un quarto corposo ma a volte impalpabile gruppo di attori èformato dai portatori di interessi politici, economici eculturali, in vario modo colpiti dalla chiusura degli accessi alterritorio nazionale. Un primo grande aggregato è formato da tutticoloro che hanno interesse a una maggiore mobilità delle personeattraverso le frontiere, a un alleggerimento dei vincoli e dellecondizioni di accesso. Spazia dagli operatori del settoreturistico, agli organizzatori di fiere e viaggi per affari, dalleuniversità a cui viene spesso rimproverato di non attrarre unnumero abbastanza nutrito di studenti stranieri, agli impresaridel settore musicale, teatrale, dell’intrattenimento, per arrivarealle istituzioni religiose che promuovono e accolgonopellegrinaggi internazionali. Per esempio, eventi come l’EXPO 2015o il prossimo anno santo comportano un dilemma per le istituzioniitaliane: si vuole facilitare l’arrivo di visitatori e pellegrini,anche da paesi a reddito medio-basso, oppure ostacolarlo esottoporlo a severe condizioni? Nel primo caso, si attrarrà ancheun certo numero di persone che rimarranno sul territorio oltre ilimiti del loro permesso di soggiorno, trasformandosi in immigratiirregolari; nel secondo, si comprometterà l’internazionalizzazionee si limiterà il potenziale successo dei grandi eventi inprogramma.

Un secondo aggregato di interessi favorevoli all’apertura èformato dai datori di lavoro, famiglie comprese, orientati areperire il personale di cui necessitano in bacini di impiego piùampi di quello nazionale (Calavita, 2005; Triandafyllidou eAmbrosini, 2011).) Malgrado le retoriche sull’economia dellaconoscenza, gli immigrati sono ricercati per coprire i fabbisognidi lavoro manuale, a bassa qualificazione, tutt’altro che abolitidai sistemi economici contemporanei ma culturalmente mal accettiall’offerta di lavoro interna (Castles, 2002), compresi i figlidegli immigrati dei flussi precedenti. Il lavoro domestico e diassistenza nel caso italiano rappresenta l’esempio piùemblematico.

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L’elenco è lungo, ma probabilmente incompleto, le capacità dilobbying incisive, le brecce nella fortezza più numerose delprevisto. Non stupisce quindi che le chiusure incontrinoeccezioni, e le situazioni dei soggiornanti irregolari venganosanate mediante svariate misure di regolarizzazione a posteriori,non solo in Italia. Il nostro paese capeggia la classificacontinentale dei provvedimenti di emersione, con sette sanatoriein 25 anni, più altri interventi minori o non dichiarati come idecreti-flussi utilizzati per regolarizzare persone giàsoggiornanti e inserite nel sistema economico. Ma siamo in buonacompagnia: secondo una ricerca, 22 paesi su 27 facenti partedell’Unione europea hanno attuato manovre di regolarizzazione trail 1996 e il 2008, consentendo l’emersione di una cifra stimataprudenzialmente tra i cinque e i sei milioni di persone (ICMPD2009). Secondo altri dati, negli ultimi trent’anni circa 8 milionidi immigrati sono stati regolarizzati, tra Stati Uniti ed Europa,per mezzo di 34 sanatorie o altre operazioni di regolarizzazionedi massa.

Bisognerebbe poi aggiungere gli effetti del già richiamatoallargamento dell’Unione, che può essere interpretato sotto questoprofilo come una manovra di regolarizzazione di massa tantosilenziosa quanto gigantesca.

Oltre alle lobby economiche, entrano poi in scena le lobbyumanitarie. Le restrizioni attuate dai governi hanno ampliato glispazi degli attori non governativi (Van der Leun e Ilies, 2012).Questi sono cresciuti d’importanza, sia come soggetti politici chealzano la voce in difesa degli immigrati, sia come fornitorialternativi di servizi per coloro che pur soggiornando sulterritorio, non possono accedere a molti servizi pubblici(Ambrosini 2014b).

Infine vanno ricordati gli immigrati stessi, nonché le lororeti di contatti e legami interpersonali. Sotto il profilopolitico, è cresciuto l’attivismo degli stessi immigrati incondizione irregolare, che in diversi paesi hanno dato vita aforme clamorose di protesta (Chimienti 2011), come occupazione dichiese, scioperi della fame, sit-in in luoghi pubblici, salita sugru o altri gesti simbolici. Più comunemente l’erosione dei

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vincoli alla mobilità e la ricerca di soluzioni alternativeall’esclusione dai servizi istituzionali rimanda al bricolage daparte delle reti migratorie, alla loro ricerca di smagliature einterstizi nella trama della regolazione degli ingressi,all’azione di intermediari che mettono in contatto domanda eofferta di lavoro anche al di fuori dei canali ufficiali(Engbersen e Broeders 2009) .

Restrizioni e chiusure non sono dunque l’ultima parola:un’analisi che non si fermi al dettato normativo e alle polemichesulla “fortezza Europa” può scoprire un mondo molto più magmatico,sofferto e insieme sorprendente.

3. Il caso dei rifugiati

Come ho accennato in premessa, il caso dei richiedenti asilorappresenta oggi la maggiore sfida alla sovranità dei governinazionali in materia di immigrazione: non tanto per i numeri, comevedremo, quanto piuttosto per la visibilità della popolazione inquestione, per le modalità drammatiche d’ingresso, per la portatasimbolica della questione.Qualche mese fa, avevano suscitato scalpore i dati diffusidall’Eurostat: 626 mila i richiedenti asilo nell’Unione Europeanel 2014, 191.000 in più rispetto al 2013 , con un incremento del41%: un record storico, sottolineavano le agenzie. L’Italiafigurava al terzo posto per numero di domande ricevute, con 64.625. l’Eurostat indicava anche una crescita molto consistente dei siriani, passati da 50.000 a quasi

123.000. Questi dati, estrapolati dal contesto più ampio edrammatico in cui si collocano, sembrano giustificare sentimentidi allarme e domande di contenimento. Altri dati, relativi a uno scenario più ampio, potrebbero ridimensionare le ansie europee. L’ultimo rapporto dell’ACNUR, pubblicato nel giugno di quest’anno in occasione della giornata del rifugiato (UNHCR, 2015), fornisce uno sguardo globale sul dramma delle popolazioni in cerca di asilo. Un primo aspetto riguarda il fatto che la cruenta geo-politica contemporanea sta

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producendo milioni di rifugiati, con un epicentro che oggi si trova in Siria (3,88 milioni di persone coinvolte), ma arriva all’Afganistan passando per l’Iraq e allargandosi ai conflitti africani dimenticati: i rifugiati nel 2014 hanno raggiunto i 59,5 milioni, più o meno pari alla popolazione italiana, e hanno raggiunto quest’anno la cifra più alta da quando l’ONU raccoglie idati. Erano 51,2 milioni nel 2013 e 37,5 milioni dieci anni fa. L’incremento osservato in un anno è stato il maggiore da quando sono disponibili i dati sul fenomeno, e si collega con un altro dato: negli ultimi cinque anni nel mondo sono scoppiati o sono riesplosi 15 conflitti, di cui otto in Africa. Un secondo rilevante dato mostra invece che i paesi sviluppati, e l’Unione Europea in modo particolare, tentano di svincolarsi dagli obblighiumanitari che pure dichiarano solennemente di onorare. L’86% dellepersone sotto protezione umanitaria (2014) trova asilo in paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Solo il 14% arriva nei paesi più sviluppati, oltre quindici punti percentuali in meno rispetto a una dozzina di anni prima; l’UE ne accoglie forse il 10%. Il paese che accoglie il maggior numero di rifugiati in assoluto è diventato la Turchia, a causa della contiguità con il teatro di guerra siriano (1,59 milioni), seguita dal Pakistan (1,51 milioni)e dal piccolo Libano (1,51 milioni, ma le fonti locali oggi parlano di 1,5-2 milioni complessivi). I numeri europei sono decisamente inferiori: la Germania accoglie 494.000 tra rifugiati riconosciuti e richiedenti asilo ancora sotto esame, la Francia 310.000, la Svezia 226.000, l’Italia 140.000. Il Libano risulta di gran lunga il primo paese per numero di rifugiati ogni 1000 abitanti: 232, seguito dalla Giordania con 87.Per dare un termine di paragone, l’Italia è poco sopra i 2.Come ha osservato The Guardian, i governi si sentono pressati daopinioni pubbliche ostili e da partiti populisti che costruisconooggi buona parte delle loro fortune sulla chiusura nei confrontidi immigrati, minoranze islamiche e richiedenti asilo. Lademocrazia interna non sempre produce valori liberali, soprattuttonei confronti del mondo esterno.La terza faccia del problema riguarda i rapporti interni all’UE elo scaricabarile tra i governi. Per riassumere la questione in

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modo schematico, l’Italia salva in mare i profughi, ma poi lilascia transitare sul suo territorio, consentendo che vadano achiedere asilo al di là delle Alpi. Gran parte degli interessatiper la verità non chiede di meglio. Paesi non affacciati sulMediterraneo, come la Germania, hanno ricevuto nel 2014 202 mila domande di asilo, il 32% del totale europeo, mentre la Svezia neha registrate 81 mila, pari al 13%, dunque più dell’Italia. Questaè la motivazione che invocano i governi transalpini per rifiutaredi collaborare con l’Italia nei salvataggi in mare. Le regole diDublino e la gelosa gestione nazionale dei temi dell’immigrazionee dell’asilo generano politiche letteralmente disumane.Oltre a incolparsi reciprocamente, i governi (spalleggiati daimedia) riescono con un certo successo a ricorrere ad un’altramanovra diversiva: incolpare i cosiddetti trafficanti, chiedere alfragile governo libico di bloccare le partenze, agitare laminaccia di bombardamenti, ultimamente evocare lo spettrodell’ISIS come organizzatore dei viaggi della speranza e paventarepersino l’impiego dei barconi per l’infiltrazione di terroristi.Per evitare rischiosi viaggi per mare e tagliare i profitti deitrasportatori, basterebbe istituire altri canali per la protezioneumanitaria di chi fugge da guerre e persecuzioni: domande di asilopresso ambasciate e consolati, misure di reinsediamento dopo unaprima accoglienza il più vicino possibile alle aree di crisi: sicomincia solo ora con grande fatica a parlarne, come vedremo alpunto successivo. Se i profughi rischiano la vita in mare, è anchecolpa della nostra indifferenza e della nostra paura diaccoglierne troppi.

4. La nuova Agenda europea: luci e ombre

In questo scenario da anni bloccato, l’Agenda dell’Unione europeaper una nuova politica dell’immigrazione approvata dallaCommissione di Bruxelles nel mese di maggio (EC, 2015) contienealcuni interessanti progressi: anzitutto, sul piano politico, perla prima volta tratta gli arrivi dal mare come una questionecomunitaria, e non solo come un problema dei singoli paesiinteressati dagli sbarchi. Ossia sostanzialmente in questa fase

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dell’Italia. Comporta poi un primo allentamento delle rigiditàdelle convenzioni di Dublino, introducendo un sistema diricollocamento di un certo numero di richiedenti asilo (20.000)già entrati nel territorio europeo (non degli immigrati, comeerroneamente si dice) a carico di ciascun paese, sebbene le“quote” nazionali definite dall’Agenda siano già state poste indiscussione da diversi governi. Formalizza un impegno alreinsediamento di altri 20.000 profughi accolti nei campi dellezone adiacenti alle aree di crisi. Ultimo punto, ma non perimportanza, mette sul piatto una cifra di 60 milioni di euro perrafforzare l’operazione Triton.L’agenda è stata sbandierata con molta enfasi come una svoltadecisiva, ma resta in realtà timida, non condivisa da tutti ipartner e soprattutto fuorviante su aspetti qualificanti.Cominciamo dalla condivisione: Regno Unito, Danimarca e Irlandahanno già fatto sapere che non parteciperanno. Alcuni paesidell’Europa orientale, come Polonia e Ungheria, hanno espressocontrarietà. Poi anche Francia e Spagna si sono chiamate fuori. LaGermania è d’accordo, ma ha ricevuto nel 2014 circa un terzo delledomande di asilo presentate in Europa: spera in realtà dialleggerire il proprio carico grazie a una distribuzione piùequilibrata.I problemi maggiori tuttavia sono altri. Persiste anzitutto laretorica dell’invasione e dei numeri ingestibili. Come abbiamovisto, in uno scenario globale questo non è vero. Ma ancherispetto ai 191.000 nuovi richiedenti registrati nell’Unioneeuropea nel 2014, e ai 170.000 sbarcati in Italia, la proposta diaccoglienza e redistribuzione di 40.000 profughi tra 25 paesidell’UE (se confermeranno l’impegno) appare molto lontana dallenecessità. Nella più ottimistica delle valutazioni, può forseessere considerata un riluttante avvio di una nuova fase. Non èaffatto scritto che la quota dell’11,84% assegnata all’Italia(9,94% per i reinsediamenti), valga per il complesso deirichiedenti asilo che cercheranno rifugio sulle nostre coste neiprossimi mesi: riguarda o persone già arrivate, o persone oggiaccolte in campi profughi prossimi alle zone di guerra. Unasoluzione legislativa più strutturale è rimandata alla fine del

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2015. Per ora, i nuovi sbarcati rimarranno sotto il regimeprecedente, cioè almeno in teoria a carico nostro. Conun’aggravante: l’Agenda prevede l’arrivo di funzionari diBruxelles incaricati di vigilare sull’identificazione e sullacorretta registrazione degli sbarcati. Se così sarà, il transitoverso altre destinazioni desiderato dalla maggior parte deiprofughi e benignamente tollerato dalle nostre autorità diventeràpiù difficile, e aumenteranno le probabilità che rimangano inItalia.L’idea delle quote poi, pur segnando un primo superamento del“muro di Dublino”, per come è stata presentata rischia diistituire un secondo muro: blocca i richiedenti asilo nel paese incui sono stati ricollocati in quota, con l’eccezione a quantosembra (ma non è scritto nell’Agenda) di siriani ed eritrei. Ciòsignifica disconoscere i legami, le aspirazioni, le capacitàprogettuali dei rifugiati: se hanno parenti o compaesani in unaltro paese, ne conoscono la lingua o semplicemente pensano che visi troveranno meglio, non è giusto né ragionevole impedire loro diraggiungerlo. I richiedenti asilo continuano a essere visti come soggettipassivi, che devono soltanto sottomettersi alle decisioni delleautorità che li accolgono. Non è un’impostazione rispettosa deidiritti umani. Sarebbe più sensato semmai prevedere di addossare icosti dell’accoglienza al bilancio comunitario, anziché a quellodei singoli Stati.La proposta europea insiste poi sulla criminalizzazione deitrasportatori. I fondi concessi serviranno soprattutto afinanziare la vigilanza nell’ambito del programma Frontex, fino aimmaginare l’uso della forza militare. I richiedenti asilo inrealtà oggi non hanno alternative, e gli scafisti vendono unservizio che le linee aeree e marittime ufficiali non svolgono.Posti sotto pressione, peggiorano le condizioni di viaggio deiclienti trasportati: impiegano barche più vecchie, le affollanoancora di più, la fanno guidare dai profughi stessi. Come ho giàosservato, se l’UE volesse davvero sgominare il traffico illegale,dovrebbe prevedere canali d’ingresso sicuri.

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Il punto forse più debole dell’Agenda riguarda infine la visionecomplessiva delle politiche migratorie. L’UE ha riesumatoanzitutto la retorica dell’aiuto ai paesi di origine. In realtà, iprofughi arrivano soprattutto da zone di guerra e repressione,Siria, Eritrea e Somalia in testa. Coloro che scappano non sono ipiù poveri del loro paese: nel caso siriano, quelli che riescono araggiungere l’Europa sono perlopiù professionisti o commercianticon buona disponibilità di mezzi. Qualche aiuto al Niger o adaltri paesi africani non risolverà il problema. Più in generale, i migranti non arrivano dai paesi più poveri delmondo. Proprio per questo, se anche si favorisse davvero losviluppo, obiettivo in sé più che auspicabile, il risultato almenoin una prima non breve fase sarebbe un incremento delle partenze,come è finora avvenuto. Crescerebbe infatti il numero dellepersone in grado di emigrare, mentre sul posto non aumenterebberoancora per tutti le opportunità di una vita migliore. Dal nostroversante c’è poi un altro problema, sostanzialmente negatodall’Agenda. Noi del lavoro degli immigrati abbiamo bisogno (+850.000 lavoratori stranieri che lavorano regolarmente dal 2008 al2013: sono ormai più del 10% dell'occupazione regolare in Italia:dati ISTAT e Ministero del Lavoro). Se poi non arrivassero daipaesi che ce li forniscono attualmente (paesi appunto nonpoverissimi: nell'ordine, Romania, Marocco, Albania, Cina,Ucraina, Filippine), li dovremmo andare a cercare altrove.L’Agenda insiste soltanto a più riprese sul fabbisogno diimmigrazione qualificata, pur ammettendo che la politica europeaal riguardo ha dato risultati deludenti: soltanto 16.000 bluecards sono state concesse sotto l’apposita direttiva, e 13.000riguardano un solo paese, il Regno Unito, destinate in gran partea reclutare personale sanitario. Non va dimenticato peraltro chequella che per i paesi sviluppati è immigrazione qualificata, peri paesi del Sud del mondo è brain drain, drenaggio di cervelli. Giàoggi ci sono più medici africani fuori dall’Africa che in Africa,e diversi paesi anglofoni sono depauperati degli infermieri chehanno formato a causa dell’attrazione esercitata dai sistemisanitari dei paesi più forti. Considerando quanto avviene nelsettore sanitario, se la politica dell’immigrazione qualificata

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dovesse funzionare per davvero in realtà entrerebbe in contrastocon l’obiettivo dello sviluppo dell’Africa.Un altro punto critico dell’Agenda consiste nell’esortazione aipaesi africani a sviluppare tra di essi la libera circolazione deimigranti, promettendo appositi finanziamenti, mentre si chiudonole porte dell’Europa: mentre per noi l’immigrazione nonqualificata è vista erroneamente) come un fardello, la siconsidera un beneficio per paesi più poveri, al cui interno lamanodopera disponibile davvero non manca.Piccoli passi dunque, ma sotto l’evidente pressione del populismopolitico un disegno globale ancora manca, o prende stradeinadeguate.

Maurizio Ambrosini

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